Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
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IL COGLIONAVIRUS
QUINTA PARTE
DI ANTONIO GIANGRANDE
MEDIA
E FINANZA
INDICE PRIMA PARTE
IL VIRUS
Introduzione.
Le differenze tra epidemia e pandemia.
I 10 virus più letali di sempre.
Le Pandemie nella storia.
Coronavirus, ufficiale per l’Oms: è pandemia.
La Temperatura Corporea.
L’Influenza.
La Sars-Cov.
Glossario del nuovo Coronavirus.
Covid-19. Che cos’è il Coronavirus.
Il Coronavirus. L’origine del Virus.
Alla ricerca dell’untore zero.
Le tappe della diffusione del coronavirus.
I 65 giorni che hanno stravolto il Mondo.
I 47 giorni che hanno stravolto l’Italia.
A Futura Memoria.
Quello che ci dicono e quello che non ci dicono.
Sintomi. Ecco come capire se si è infetti.
Fattori di rischio.
Cosa risulta dalle Autopsie.
Gli Asintomatici/Paucisintomatici.
L’Incubazione.
La Trasmissione del Virus.
L'Indice di Contagio.
Il Tasso di Letalità del Virus.
Coronavirus: A morte i maschi; lunga vita alle femmine, immortalità ai bimbi.
Morti: chi meno, chi più.
Morti “per” o morti “con”?
…e senza Autopsia.
Coronavirus. Fact-checking (verifica dei fatti). Rapporto decessi-guariti. Se la matematica è un'opinione.
La Sopravvivenza del Virus.
L’Identificazione del Virus.
Il test per la diagnosi.
Guarigione ed immunità.
Il Paese dell’Immunità.
La Ricaduta.
Il Contagio di Ritorno.
I preppers ed il kit di sopravvivenza.
Come si affronta l’emergenza.
Veicolo di diffusione: Ambiente o Uomo?
Lo Scarto Infetto.
INDICE SECONDA PARTE
LE VITTIME
I medici di famiglia. In prima linea senza ordini ed armi.
Dove nasce il Focolaio. Zona rossa: l’ospedale.
Eroi o Untori?
Contagio come Infortunio sul Lavoro.
Onore ai caduti in battaglia.
Gli Eroi ed il Caporalato.
USCA. Unità Speciali di Continuità Assistenziale.
Covid. Quanto ci costi?
La Sanità tagliata.
La Terapia Intensiva….Ma non per tutti: l’Eutanasia.
Perché in Italia si ha il primato dei morti e perchè così tanti anziani?
Una Generazione a perdere.
Non solo anziani. Chi sono le vittime?
Andati senza salutarci.
Spariti nel Nulla.
I Funerali ai tempi del Coronavirus.
La "Tassa della morte".
Epidemia e Case di Riposo.
I Derubati.
Loro denunciano…
Le ritorsioni.
Chi denuncia chi?
L’Impunità dei medici.
Imprenditori: vittime sacrificali.
La Voce dei Malati.
Gli altri malati.
INDICE TERZA PARTE
IL VIRUS NEL MONDO
L’epidemia ed il numero verde.
Coronavirus, perchè colpisce alcuni Paesi più di altri?
Perché siamo i più colpiti in Occidente? Chi cerca, trova.
Il Coronavirus in Italia.
Coronavirus nel Mondo.
Schengen, di fatto, è stato sospeso.
Quelli che...negazionisti, sbeffeggiavano e deridevano.
…in Africa.
…in India.
…in Turchia.
…in Iran.
…in Israele.
…nel Regno Unito.
…in Albania.
…in Romania.
…in Polonia.
…in Svizzera.
…in Austria.
…in Germania.
…in Francia.
…in Belgio.
…in Olanda.
…nei Paesi Scandinavi.
…in Spagna.
…in Portogallo.
…negli Usa.
…in Argentina.
…in Brasile.
…in Colombia.
…in Paraguay.
…in Ecuador.
…in Perù.
…in Messico.
…in Russia.
…in Cina.
…in Giappone.
…in Corea del Sud.
A morte gli amici dell’Unione Europea.
A morte gli amici della Cina.
A morte gli amici della Russia.
A morte gli amici degli Usa.
INDICE QUARTA PARTE
LA CURA
La Quarantena. L’Immunità di Gregge e l’Immunità di Comunità: la presa per il culo dell’italianissimo “Si Salvi chi Può”.
L'Immunità di Gregge.
L’Immunità di Comunità. La Quarantena con isolamento collettivo: il Modello Cinese.
L’Immunità di Comunità. La Quarantena con tracciamento personale: il Modello Sud Coreano e Israeliano.
Meglio l'App o le cellule telefoniche?
L’Immunità di Comunità: La presa per il culo dell’italianissimo “Si Salvi chi Può”.
Epidemia e precauzioni.
Indicazioni di difesa dal contagio inefficaci e faziose.
La sanificazione degli ambienti.
Contagio, Paura e Razzismo.
I Falsi Positivi ed i Falsi Negativi. Tamponi o Test Sierologici?
Tamponi negati: il business.
Il Tampone della discriminazione.
Tamponateli…non rinchiudeteli!
Epidemia e Vaccini.
Il Vaccino razzista e le cavie da laboratorio.
Il Costo del Vaccino.
Milano VS Napoli. Al Sud gli si nega anche il merito. Gli Egoisti ed Invidiosi: si fanno sempre riconoscere.
Epidemia, cura e la genialità dei meridionali..
Il plasma della speranza, ricco di anticorpi per curare i malati.
Gli anticorpi monoclonali.
Le Para-Cure.
L’epidemia e la tecnologia.
Coronavirus e le mascherine.
Coronavirus e l’amuchina.
Coronavirus e le macchine salvavita.
Coronavirus. I Dispositivi medici salvavita: i respiratori.
Attaccati all’Ossigeno.
INDICE QUINTA PARTE
MEDIA E FINANZA
La Psicosi e le follie.
Epidemia e Privacy.
L’Epidemia e l’allarmismo dei Media.
Epidemia ed Ignoranza.
Epidemie e Profezie.
Le Previsioni.
Epidemia e Fake News.
Epidemia e Smart Working.
La necessità e lo sciacallaggio.
Epidemia e Danno Economico.
La Mazzata sui lavoratori…di più sulle partite Iva.
Il Supply Shock.
Epidemia e Finanza.
L’epidemia e le banche.
L’epidemia ed i benefattori.
Coronavirus: l’Europa ostacola e non solidarizza.
Mes/Sure vs Coronabond.
La Caporetto di Conte e Gualtieri.
Mes vs Coronabond-Eurobond. Gli Asini che chiamano cornuti i Buoi.
I furbetti del Quartierino Nordico: Paradisi fiscali, artifici contabili, debiti non pagati.
"Il Recovery Fund urgente".
Il Piano Marshall.
Storia del crollo del 1929.
Il Corona Virus ha ucciso la Globalizzazione del Mercatismo e ha rivalutato la Spesa Pubblica dell’odiato Keynes.
Un Presidente umano.
Le misure di sostegno.
…e le prese per il Culo.
Morire di Fame o di Virus?
Quando per disperazione il popolo si ribella.
Il Virus della discriminazione.
Le misure di sostegno altrui.
Il Lockdown del Petrolio.
Il Lockdown delle Banche.
Il Lockdown della RCA.
INDICE SESTA PARTE
LA SOCIETA’
Coronavirus: la maledizione dell’anno bisestile.
I Volti della Pandemia.
Partorire durante la pandemia.
Epidemia ed animali.
Epidemia ed ambiente.
Epidemia e Terremoto.
Coronavirus e sport.
Il sesso al tempo del coronavirus.
L’epidemia e l’Immigrazione.
Epidemia e Volontariato.
Il Virus Femminista.
Il Virus Comunista.
Pandemia e Vaticano.
Pandemia ed altre religioni.
Epidemia e Spot elettorale.
La Quarantena e gli Influencers.
I Contagiati vip.
Quando lo Sport si arrende.
L’Epidemia e le scuole.
L’Epidemia e la Giustizia.
L’Epidemia ed il Carcere.
Il Virus e la Criminalità.
Il Covid-19 e l'incubo delle occupazioni: si prendono la casa.
Il Virus ed il Terrorismo.
La filastrocca anti-coronavirus.
Le letture al tempo del Coronavirus.
L’Arte al tempo del Coronavirus.
INDICE SETTIMA PARTE
GLI UNTORI
Dall’Europa alla Cina: chi è il paziente zero del Covid?
Un Virus Cinese.
Un Virus Americano.
Un Virus Norvegese.
Un Virus Svedese.
Un Virus Transalpino.
Un Virus Teutonico.
Un Virus Serbo.
Un Virus Spagnolo.
Un Virus Ligure.
Un Virus Padano e gli Untori Lombardo-Veneti.
Codogno. Wuhan d’Italia. Dove tutto è cominciato.
La Bergamasca, dove tutto si è propagato.
Quelli che… son sempre Positivi: indaffarati ed indisciplinati.
Quelli che…i “Corona”: Secessione e Lavoro.
Il Sistema Sanitario e la Puzza sotto il Naso.
La Caduta degli Dei.
La lezione degli Albanesi al razzismo dei Lombardo-Veneti.
Quelli che…ed io pago le tasse per il Sud. E non è vero.
I Soliti Approfittatori Ladri Padani.
La Televisione che attacca il Sud.
I Mantenuti…
Ecco la Sanità Modello.
Epidemia. L’inefficienza dei settentrionali.
INDICE OTTAVA PARTE
GLI ESPERTI
L’Infodemia.
Lo Scientismo.
L’Epidemia Mafiosa.
Gli Sciacalli della Sanità.
La Dittatura Sanitaria.
La Santa Inquisizione in camice bianco.
Gli esperti con le stellette.
Epidemia. Quelli che vogliono commissariare il Governo.
Le nuove star sono i virologi.
In che mani siamo. Scienziati ed esperti. Sono in disaccordo su tutto…
Virologi: Divisi e rissosi. Ora fateci capire a chi credere.
Coronavirus ed esperti. I protocolli sanitari della morte.
Giri e Giravolte della Scienza.
Giri e Giravolte della Politica.
Giri e Giravolte della stampa.
INDICE NONA PARTE
GLI IMPROVVISATORI
La Padania si chiude…con il dubbio. A chi dare ragione?
Il Coglionavirus ed i sorci che scappano.
Un popolo di coglioni…
L’Italia si chiude…con il dubbio. A chi dare ragione?
La Padania ordina; Roma esegue. L’Italia ai domiciliari.
Conta più la salute pubblica o l’economia?
Milano Economia: Gli sciacalli ed i caporali.
“State a Casa”. Anche chi la casa non ce l’ha.
Stare a Casa.
Ladri di Libertà: un popolo agli arresti domiciliari.
Non comprate le cazzate.
Quarantena e disabilità.
Quarantena e Bambini.
Epidemia e Pelo.
Epidemia e Violenza Domestica.
Epidemia e Porno.
Quarantena e sesso.
Epidemia e dipendenza.
La Quarantena.
La Quarantena ed i morti in casa.
Coronavirus, sanzioni pesanti per chi sgarra.
Autodichiarazione: La lotta burocratica al coronavirus.
Cosa si può e cosa non si può fare.
L’Emergenza non è uguale per tutti.
Gli Irresponsabili: gente del “Cazzo”.
Dipende tutto da chi ti ferma.
Il ricorso Antiabusi.
Gli Improvvisatori.
Il Reato di Passeggiata.
Morte all’untore Runner.
Coronavirus, l’Oms “smentisce” l’Italia: “Se potete, uscite di casa per fare attività fisica”.
INDICE DECIMA PARTE
SENZA SPERANZA
TUTTO SARA’ COME PRIMA…FORSE
In che mani siamo!
Fase 2? No, 1 ed un quarto.
Il Sud non può aspettare il Nord per ripartire.
Fase 2? No, 1 e mezza.
A Morte la Movida.
L’Assistente Civico: la Sentinella dell’Etica e della Morale Covidiana.
I Padani col Bollo. La Patente di Immunità Sanitaria.
Fase 2: finalmente!
“Corona” Padani: o tutti o nessuno. Si riapre secondo la loro volontà.
Le oche starnazzanti.
La Fase 3 tra criticità e differenze tra Regioni.
I Bisogni.
Il tempo della Fobocrazia. Uno Stato Fondato sulla Paura.
L’Idiozia.
Il Pessimismo.
La cura dell’Ottimismo.
Non sarà più come prima.
La prossima Egemonia Culturale.
La Secessione Pandemica Lombarda.
Fermate gli infettati!!!
Della serie si chiude la stalla dopo che i buoi sono già scappati.
Scettici contro allarmisti: chi ha ragione?
Gli Errori.
Epidemia e Burocrazia.
Pandemia e speculazione.
Pandemia ed Anarchia.
Coronavirus: serve uno che comanda.
Addio Stato di diritto.
Gli anti-italiani.
Gli Esempi da seguire.
Come se non bastasse. Non solo Coronavirus…
I disertori della vergogna.
Tutte le cazzate al tempo del Coronavirus.
Epidemia: modi di dire e luoghi comuni.
Grazie coronavirus.
IL COGLIONAVIRUS
QUINTA PARTE
MEDIA E FINANZA
· La Psicosi e le follie.
I "maestrini" delle mascherine: chi sono e perché ci "umiliano". La mescherina vanno usate. Senza se e senza ma. Però è già iniziata la corsa al moralismo "mascherato" che ha trovato un nuovo metro di giudizio...Ignazio Stagno, Lunedì 22/06/2020 su Il Giornale. La mascherina va usata, senza se e senza ma. Diciamolo subito per prevenire critiche e mettere in chiaro le cose. La diminuzione dei contagi di queste settimane di fatto è frutto anche della disciplina di milioni di italiani che hanno usato tutti i dispositivi sanitari per limitare la circolazione del virus. Ma in queste settimane va sottolineato un aspetto che è diventato preponderante sul fronte "costume&società" rispetto a quello sanitario. Si tratta di un attaccamento "talebano" all'uso della mascherina che non concede sconti o indulgenze a chi, magari per il caldo o per una semplice dimenticanza ne fa un uso poco corretto. E come sempre la voglia di dare lezioni, anche su questo fronte, si è sposata alla perfezione con i diktat morali che spesso arrivano da sinistra. L'uso della mascherina è diventato un mezzo per colpire l'avversario politico, per metterlo all'angolo. È il caso di Matteo Salvini. Il leader della Lega è stato attaccato ripetutamente per il suo modo "sbadato" di usare la mascherina. Prima le polemiche per i selfie alla manifestazione del 2 giugno del centrodestra. Poi il silenzio della sinistra sulle manifestazioni con assembramenti rossi in centro a Milano e soprattutto sui cortei per Floyd negli Usa. Ma a dar vita ad una sorta di imperativo morale sulla mascherina sono stati due episodi tv che hanno visto come protagonista sempre l'ex titolare del Viminale. Il primo, ormai noto, è il battibecco con Giovanni Floris a Di Martedì di qualche giorno fa. Il leader della Lega ha infatti affermato: "Posso togliermi la mascherina per parlare con una signora?". La replica secca di Floris: "No, non può se non si trova a oltre un metro e mezzo di distanza". La controreplica di Salvini: "Ma è così grave quanto non pagare la cassa integrazione a milioni di italiani?". Fin qui il primo match. Ma passa solo qualche giorno e di nuovo: Salvini torna nel mirino per la mascherina. Questa volta il palcoscenico è quello di Tagadà su La7. Salvini è in collegamento e si appresta a dare il via ad una conferenza stampa. Ad un certo piunto decide di sostituire la mascherina con una nuova. Bene, segue i protocolli, direte voi. E invece anche questa volta finisce nel tritacarne del moralismo mascherato: usa la vecchia mascherina (che da lì a poco avrebbe buttato via) per pulire gli occhiali. Apriti cielo: dallo studio di La7 critiche per questo gesto "eversivo". Insomma ormai l'uso della mascherina è diventato il metro per giudicare, per puntare il dito. Ribadiamo che la mascherina va usata e anche in modo corretto. Ma vorremmo risparmiarci la paternale dei talebani da mascherina che in realtà usano questo "accessorio" entrato nei costumi italiani da qualche mese per colpire (in mancanza di altri argomenti) magari un avversario politico. Questa non è una difesa dell'uso indiscriminato e sbadato della mascherina. Tutt'altro. Ma il moralismo che arriva anche su un pezzo di stoffa sulla bocca e sul naso forse è fin troppo indigesto. Ma nel mirino non finisce solo Salvini. Chiunque di noi magari avrà vissuto qualche istante di imbarazzo per aver dimenticato, solo per un istante, di posizionare la protezione su naso e bocca. Il tutto condito da qualche sguardo severo per strada o in fila nell'attesa di entrare in un esercizio commerciale. Un errore, una svista. Ma che adesso viene punita con un disprezzo verbale che è del tutto spropositato rispetto all'eventuale "offesa" ricevuta. Viviamo in un fase in cui sono nate nuove colpe da espiare come quella di recarsi insieme alla moglie o alla fidanzata a fare la spesa ("ingresso al supermercato concesso ad un solo componente per nucleo familiare") o magari appunto quella di indossare sotto il mento per qualche secondo la mascherina. A queste colpe aggiungiamo anche quella che è severamente vietato pulire gli occhiali con una vecchia mascherina. Insomma, va bene la protezione dal contagio, ma almeno evitateci la "lezioncina" di chi ne sa sempre una più degli altri...
Vittorio Feltri, botta di vita contro il coronavirus: "Via la mascherina del menga, ci siamo rotti i tamponi". Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 22 giugno 2020. Mentre le istituzioni perdono di vista la realtà e si smarriscono in chiacchiere vacue, per esempio quelle degli Stati Generali che hanno partorito il classico topolino, gli italiani hanno ricominciato a vivere a modo loro. Fuggono al mare, fottendosene delle raccomandazioni dei sanitari, non ne possono più di tante restrizioni, come si imbattono in un virologo menagramo in tv cambiano canale. Mi aspettavo che succedesse tutto questo dopo quattro mesi di clausura collettiva, durante i quali i cittadini sono stati obbligati a non lavorare, a non uscire di casa, a campare segregati quali canarini in gabbia, con l'aggravante di dover sopportare coniugi e figli petulanti costretti a fingere di studiare al computer. Ovvio che con l'esplosione dell'estate la massa scenda in strada a fare casino, prenda l'automobile e scappi dove le capita, al lago, in montagna, o anche solo a fare un giro in città. Non serve molto per capire che gli uomini e le donne, essendo animali sociali, desiderino frequentare i propri simili. Io, per esempio, che sono solitario quanto un anacoreta, ieri mattina sono salito con mia moglie in macchina e mi sono recato in un bar del centro. Ci siamo seduti a un tavolino esterno al locale, sotto un bel sole rigenerante, e ci siamo bevuti un fresco aperitivo, abbiamo cioè fatto la cosa più comune, se non scema, che in quel momento fosse alla nostra portata. Finalmente ci siamo rilassati strappandoci via quelle mascherine del menga, buone solo a toglierti il respiro. C'era traffico a Milano e ho compreso che il popolo è mosso da un senso di ribellione, non intende più saperne del Covid-19, si è rotto i tamponi e, piuttosto che morire di inedia e di noia, predilige la sorte. Non ho fatto verifiche sociologiche per addivenire a questa conclusione, mi è stato sufficiente guardare in faccia la gente che ha ritrovato una espressione non dico felice però almeno di sollievo. Perdio, lasciateci in pace, basta con gli elenchi dei trapassati, dei positivi, dei ricoverati. Mi domando se abbiate notato anche voi: ormai le statistiche della iella non interessano più a nessuno. Come compare sul video un infettivologo ti coglie la smania di sparare per spegnere all'istante l'apparecchio. Ci hanno dannato l'anima pure gli economisti della domenica che raccontano che il Paese è in coma, in bolletta marcia, sul punto di fallire. A parte il fatto incontestabile che i risparmi privati dei connazionali aumentano a vista d'occhio, e che i poveri sono sempre esistiti e sempre esisteranno, non si registrano decessi per inedia. Certamente non mancano le difficoltà. Tuttavia, in dieci giorni o poco più l'Italia ha ripreso a camminare e tra poco si rimetterà a correre non grazie alla politica, bensì nonostante la politica. I compatrioti si impegnano, riaprono le loro attività, velocemente tornano ai ritmi lavorativi dello scorso anno, e non trascorrerà molto tempo prima che si pareggino i conti. Ma sì, permettete che ciascuno di noi vada in spiaggia o dove gli garba. Una boccata d'aria pura ci salva dal tedio, parente stretto del virus.
Coronavirus, Renato Farina replica ai teorici del lockdown perenne: "Ma andate a quel Paese, gli italiani vogliono il mare". Renato Farina su Libero Quotidiano il 22 giugno 2020. Il primo giorno dell'estate è stato quello dell'evasione di massa dalle nostre galere domestiche. Le spiagge sono affollatissime. Ma anche i prati sui pendii delle Prealpi vedono tovaglie disposte vicino agli alberi, con i bambini che tirano il pallone, e il nonno che ronfa sdraiato sul plaid. Le autostrade e le superstrade registrano code agostane. Ma non si lamenta nessuno. Ah la banale, ottusa normalità di noi imbecilli, che gioia prevedere le scottature. C'è il gusto di sentire le caviglie e i polsi liberi, persino l'odore di asfalto e di benzina ci pare meglio del tanfo dei disinfettanti. Tutti irresponsabili? Ma chi lo dice? In Italia abbiamo settemila km di coste, se c'è qualche pirla che si diletta in abbracci e alitate sul volto del prossimo, la grandissima maggioranza si accontenta di respirare, di picchiare i piedi nell'acqua mai stata così desiderata e pulita. Non vediamo la tragedia. I menagramo dissentono. Con il ciglio alzato sostengono che gli italiani si sono buttati nelle braccia del virus, mandando a ramengo il meticoloso codice delle precauzioni, e così garantendosi il proliferare di focolai che si trasformeranno in autunno in rovinosi incendi, per la gioia del Covid-19 che con il forcone ci getterà come covoni in un falò. Una persona seria come Luca Ricolfi si dimostra pressoché sicuro nel lanciare questa profezia, e ne dà una motivazione provocatoria e un tantino offensiva. Avremmo sacrificato la salute al fatturato del turismo, confermando la diceria perenne sul carattere degli italiani, orribili cicale che intendono la vita come una gita al luna park. Altri dicono la stessa cosa, con l'aria di chi si vede già nel prossimo autunno in televisione a citarsi addosso, compiacendosi con la vanteria dell'io-l'avevo-detto. Non abbiamo alcuna intenzione di ridicolizzare chi si preoccupa. Il fatto è che il principio di precauzione ha delle ovvie gradualità. Se si insiste nel consegnare il popolo al 41 bis, con il vetro o il plexiglas ad accompagnarci anche nei colloqui intimi, si finisce proprio per non considerare il più importante dei principi di precauzione: quello secondo cui si deve pur vivere, i bambini devono vedere i loro coetanei, giocare con la sabbia, anche se non hanno a disposizione la spiaggia privata, e correre con l'aquilone pur non alloggiando in una magione con parco. Mi sbaglierò ma tutti quelli che condannano lo spiraglio di apertura delle attività turistiche, sono precisamente quelli per cui lo stipendio in questi mesi è tranquillamente pervenuto a destinazione.
L'USO DELLA RAGIONE. Del resto, ci si passi queste osservazioni. Bisogna per forza aver fiducia nel virologo più catastrofico, in ossequi al citato principio di precauzione? Dobbiamo dar retta obbligatoriamente al polemista con l'umore più nero di tutti? L'uso della ragione consiglia, nelle questioni gravi della vita, non di assecondare gli apocalittici, ma di riferirsi a chi è ritenuto il più avveduto dalla comunità internazionale degli specialisti e non abbia conflitti di interesse. Ebbene, tra i primi nella classifica delle pubblicazioni scientifiche a livello accademico globale, figura il professor Giuseppe Remuzzi, dell'Istituto Mario Negri. Questo luminare si è esposto, con ciò mettendo a repentaglio il prestigio accumulato in una vita, sostenendo che bisogna finirla con il panico, che il virus ha smussato i suoi artigli. Che gli asintomatici pur se positivi non sono contagiosi. Da studi scientifici di altri Paesi d'Europa si ricava che i bambini fino a 5 anni non si ammalano, e che fino a 15 anni non lo trasmettono. Incredibilmente in Italia ci ostiniamo a conservare in salamoia i piccini, tenendo chiuse scuole materne ed elementari, e consegnandoli a danni contro cui dovrebbe pur valere il principio di precauzione. O no? Nelle città i bus sono affollati, le metropolitane anche. Che si fa, si annullano i servizi di trasporto pubblico? Persino in guerra, pur essendoci il rischio di bombardamenti, si saliva sui tram e si andava a far la spesa in coda, e le fabbriche erano aperte. Non c'è scandalo se anche i baracchini sui lungomari desiderano campare, e le ragazzine farsi fare il filo (non so se dice ancora così).
STATO DI TERRORE. Quale sarebbe l'alternativa? Un'estrazione a sorte su chi può andare al mare e chi no? Le targhe alterne per le autostrade? Tutti i virologi, ma proprio tutti, confermano che i focolai si sono accesi in luoghi chiusi. Che all'aria aperta non si conoscono casi di contagio diffuso, salvo che nelle calche degli stadi o dei concerti. E ci pare che dopo i primi errori dovuti all'ignoranza e al colpevole silenzio cinese a questo rischio si sia cercato di porre rimedio. Lo stato di terrore non è più prorogabile oltre. Sbagliato è stato semmai sin da aprile non aprire pian piano scuole e uffici pubblici, abituando la gente a una normalità riguardosa e consapevole dei limiti imposti dal virus. Logico che se apri le porte di un ambiente in cui si soffocava, tutti si accalchino all'uscio. Non è mostrando facce digrignanti o, peggio, stillanti disprezzo verso la gente comune che cerca di allargare i polmoni, che ci salveremo. Non è roba italica, da europei meridionali. Il giorno 16 chi scrive era in Friuli. Era il primo giorno in cui l'Austria, che non ha il mare, ha aperto i confini. Gli austriaci hanno monti innevati, laghi e ruscelli dalle acque chiare. Eppure arrivavano come se si fosse aperta una diga. Quindi sono arrivati dal Veneto e dalla Slovenia. E la disperazione dei ristoratori e dei commercianti si è allargata in un lieve sorriso. Sapete che diciamo ai teorici del lockdown perenne? Con misura, con la mascherina, ma andate tutti a quel Paese.
Giuliano Cazzola per Il Riformista il 17 marzo 2020. Premetto che sono disponibile e pronto a essere sottoposto a una perizia psichiatrica come succedeva ai dissidenti nell’Urss; tuttavia, non riesco a capacitarmi della pandemia di panico che accompagna la diffusione del Coronavirus. Ho compiuto 79 anni, quindi sono particolarmente a rischio, ne voglio sottovalutare la gravita di un contagio che ha origini sconosciute, manca di cure appropriate e specifiche e provoca infezioni polmonari molto acute. La polmonite, anche prima del Covid-19, non e mai stata una patologia da sottovalutare. Questa malattia ha segnato la storia della mia famiglia: mio fratello maggiore mori di polmonite quando io ero appena nato. Ma allora era in corso la Seconda guerra mondiale, non c’erano quei medicinali essenziali che, in seguito, cambiarono la storia della medicina. Senza tornare indietro di un secolo e risalire agli effetti della “Spagnola” (di cui mori il nonno materno) la mia generazione ha conosciuto altre epidemie/pandemie. Ero un ragazzo quando, nel 1957, scoppio “l’Asiatica”; se ben ricordo ne fui anche affetto. Quell’influenza, in tutto il mondo, provoco più di un milione di vittime. Anche allora, l’Alto Commissario all’Igiene e Sanita pubblica (allora non era ancora stato istituito il ministero) Angelo Giacomo Mott, medico, affermava (la sua intervista era diffusa dai cinegiornali che precedevano la proiezione dei film): «E bene raccomandare a tutti i colpiti, anche ai leggeri, di curarsi per evitare complicazioni che potrebbero essere veramente dannose». Un amico mi ha inviato, da Facebook, un post del cinegiornale (tratto dall’Archivio Luce) in cui era inserita quell’intervista. I commenti della voce fuori campo, oltre alla palese disinformazione, rasentavano l’incoscienza. Per spiegare i sintomi della malattia vi era- no delle vignette di un disegnatore molto in voga in quel periodo. Il tono era addirittura scherzoso: «Tra i colpiti l’attrice Gina Lollobrigida: del resto mettetevi nei panni di un bacillo, non le sareste saltati addosso?». L’itinerario del bacillo, proveniente dalla Cina, transitato attraverso l’Africa e approdato in Europa dalla Spagna, era descritto attraverso il fumetto di partita di calcio tra gli ometti caratteristici del vignettista, con conclusione nella rete dell’Italia. Anche allora furono prese particolari misure nell’Aeroporto di Ciampino, benchè i voli fossero eventi eccezionali. Nel 1969 ci fu un’altra epidemia chiamata la "Hong Kong" (e iniziata nel luglio 1968 in Cina). Arrivo in Italia nell’inverno del 1969. In questo caso il Post e più ricco di fonti: sono ripresi titoli dei principali quotidiani e le cronache di un telegiornale dell’inizio del 1970 che inseriva il bollettino di guerra dell’epidemia come notizia tra le altre. I dati erano forniti un po’ all’ingrosso: un italiano su quattro era stato contagiato, 5mila i morti, centinaia di migliaia di ammalati nelle principali città, ospedali (si vedevano le immagini) stracolmi, con ammalati ovunque (i letti in rianimazione non esisteva- no neppure). Una notizia della durata di un minuto e 43 secondi insieme all’annuncio di una riforma amministrativa a Roma, una visita del sindaco di Milano, Aldo Aniasi, a una fabbrica occupata, una mostra d’arte a Chieti e il campionato di motocross in Ungheria. Più o meno come adesso i tg affrontano i drammi dei profughi, delle guerre e di tante tragedie dei nostri tempi che avvengono lontano da noi. E non ci toccano. Eppure, se qualcuno rievoca quei mesi e quegli anni lo fa per ricordare le grandi lotte sindacali, da cui prese avvio l’organizzazione di grandi manifestazioni di massa, i cortei dentro e fuori dalle fabbriche, gli spostamenti di decine di migliaia di persone in treno e in pullman. Nessuna quarantena, nessun blocco della produzione (se non per scioperi), nessun allarme, nessuna chiusura delle scuole, dei parchi, dei cinema e di quant’altro e stato messo in quarantena nell’attuale circostanza. Annibale non era alle porte, la vita continuava. Io non intendo affermare che quello era un modo appropriato per affrontare del- le calamita che facevano vittime, spesso trattate solo come numeri. A sentire adesso quei commenti viene la pelle d’oca. Ma non vi erano segreti; l’informazione era vigile e l’opinione pubblica era consapevole, ma accettava queste sciagure come eventi– possiamo dirlo? – naturali. Lo spettacolo doveva proseguire comunque. Quanto ha influito la comunicazione, in queste settimane, nel determinare una psicosi oggettivamente esagerata nell’opinione pubblica, fino al punto di mettere a rischio più la vita di domani che quella di oggi? Perchè non siamo capaci di individuare una relazione oggettiva per gli eventi che nella società moderna mettono a rischio la nostra incolumità? Non si muore solo di coronavirus. E la morte e solo un episodio dell’esistenza. La Protezione civile ha reso noti dei dati che dovrebbero farci riflettere:
1) l’età media dei decessi e pari a 80,3 anni;
2) i deceduti soffrivano di altre gravi patologie;
3) soltanto in due casi il decesso e dipeso dalla sola presenza del coronavirus. Un tg ha indicato come vittima del contagio un famoso architetto deceduto alla veneranda età di 92 anni.
A me (che, ricordo, di anni ne ho 79) non sembra affatto che – a fronte di queste statistiche – sia in atto una catastrofe umanitaria, quanto piuttosto una tremenda difficoltà di reggere da parte delle strutture sanitarie che, per questioni meramente organizzative, si trova- no a dover gestire degli ammalati quando la loro condizione si e particolarmente aggravata, perchè in precedenza la persona contagiata resta in una zona grigia sospesa tra un semplice raffreddore e una polmonite. Se si riuscisse a individuare un filtro in questo cruciale passaggio ci risparmieremmo di sovraccaricare gli ospedali (a cui si portano dei malati ormai all’ultimo stadio) ed eviteremmo questa sciagura di una quarantena generalizzata. Da ottobre dell’anno scorso ai nostri giorni ben 8,6 milioni di italiani sono rimasti a letto a causa dell’influenza stagionale. Sono gli stessi virologi a riconoscere che i decessi per questa "banale" e famigliare patologia saranno superiori di quel- li derivanti dal Covid-19. Per fortuna le parti sociali hanno trovato il coraggio e la responsabilità di individuare – in questo ‘“8 settembre” planetario – un percorso che si prefigge di salvaguardare la salute dei lavoratori senza fermare del tutto la produzione. Non e detto che questa iniziativa riesca a raggiungere i suoi obiettivi. Ma almeno qualcuno ha provato a non arrendersi. Le organizzazioni sindacali, le associazioni datoriali, insieme al governo, il 14 marzo, hanno scritto una pagina gloriosa nella storia del Paese.
Kenan Malik per "theguardian.com" il 5 febbraio 2020. "L’esplosione di nuove e mortali malattie epidemiche può essere rapidamente seguito... da paura, panico, sospetto e stigmatizzazione". Così scriveva il sociologo Philip Strong nel suo “epidemic psychology” del 1990. Strong scriveva sulla scia della pandemia di HIV/AIDS degli anni '80, sottolineando che la maggior parte delle epidemie, da quelle medioevali alla Sars fino all’Ebola, mostravano uno schema simile. La scorsa settimana l'Organizzazione mondiale della sanità ha dichiarato il coronavirus un'emergenza globale. Se le misure drastiche adottate per contenerlo siano proporzionate o una reazione eccessiva è oggetto di dibattito. Ma le risposte alle epidemie, come osservato da Strong, raramente sono modellate solo alle esigenze mediche. Una nuova minaccia sembra sempre più minacciosa di quella che ci sembra familiare. Finora, circa 250 persone sono morte a causa dell'epidemia di coronavirus, anche se questa cifra aumenterà senza dubbio. La pandemia di Sars del 2002-2003, rimasta incontrollata per molti mesi a causa del rifiuto delle autorità cinesi di riconoscerne l'esistenza, è costata 774 vite. L'influenza stagionale ordinaria provoca circa mezzo milione di morti ogni anno a livello globale. Eppure a malapena notiamo l'influenza, ma ci sentiamo in pericolo per le nuove malattie. Ci sono ragioni mediche per questo. Non esiste ancora un vaccino per il coronavirus. Il tasso di mortalità potrebbe essere più elevato, sebbene finora ci siano poche prove a riguardo. Ma non sono solo i fattori medici a essere in gioco. Nuove malattie, ha osservato Strong, sembrano anche esporre la società umana a una fragilità esistenziale. Le risposte alle epidemie sono spesso tentativi delle autorità di dimostrare di avere il controllo e di modellare la narrazione pubblica. Basta guardare la decisione delle autorità cinesi di “bloccare” la città di Wuhan, il luogo dove si è sviluppato il coronavirus. Lo storico Howard Markel faceva parte di un gruppo di studiosi che indagò sulle risposte alla pandemia influenzale del 1918, la più grave della storia recente, e le sue lezioni sembrano una lezione per oggi: "Le restrizioni applicate in modo costante e trasparente, tendono a funzionare molto meglio delle misure draconiane". La risposta cinese è stata quasi l'opposto dello scenario ideale. Inizialmente i cinesi si sono dimostrati lenti nel riconoscere la diffusione del virus, ma poi Pechino ha usato tutta la forza dello stato autoritario per imporre la quarantena più gigantesca mai vista. Il blocco potrebbe sembrare un passo logico nell'impedire la diffusione del virus ma, nel creare ospedali sovraffollati e scarsità di cibo, consente, nelle parole di un epidemiologo, "condizione perfetta" per il virus e genera antagonismo e sfiducia che possono ostacolare il lavoro dei medici contro la malattia. Nel 2009, la pandemia di H1N1, o influenza suina, ha causato fino a 550.000 morti e, come il coronavirus, è stata dichiarata un'emergenza sanitaria globale. In Messico, dove fu scoperto per la prima volta il virus, il governo chiuse scuole e aziende, vietò gli assembramenti in luoghi pubblici e impose le quarantene. Queste mosse contribuirono a limitare nuovi casi di H1N1, ma furono abbandonate dopo 18 giorni, in parte a causa degli enormi costi sociali ed economici. Sebbene tra 4.000 e il 12.000 siano morte a causa dell'epidemia in Messico, il costo per prevenirne la diffusione è stato valutato come maggiore del costo causato dal virus stesso. Quando alcuni stati dell'Africa occidentale imposero cordoni sanitari per isolare vaste aree durante l'epidemia di Ebola del 2014-2016, decine di migliaia di persone furono lasciate alla fame, provocando l’esplosione di violenze di massa. Le quarantene hanno un’utilità medica, ma dimostrare di avere il controllo potrebbe non essere il modo migliore per affrontare un'epidemia. Le autorità vogliono trasmettere altri messaggi. Non vi è alcun motivo medico per cui l'Australia metta in quarantena i suoi cittadini che tornano da Wuhan su Christmas Island, a 2.000 miglia dalla terraferma. Ma lo sta facendo accedendo i riflettori su un fatto. Per anni, Canberra ha incarcerato migranti privi di documenti in campi "offshore". "Non sporcherai il suolo australiano" era il messaggio. È lo stesso messaggio che viene mandato a coloro che potrebbero essere infettati dal coronavirus. Il legame tra il trattamento degli immigrati e i casi sospetti di epidemia non è casuale. Dalla colpa degli ebrei per la morte nera nell'Europa medievale agli operai irlandesi che diventano capri espiatori per le epidemie di colera nella Gran Bretagna del XIX secolo, c'è una lunga storia di stigmatizzazione di migranti e minoranze come portatori di malattie. È una storia che trova la sua ultima espressione nei divieti di viaggio, nei cartelli dei bar e nei titoli sul "pericolo giallo". Dovremmo prendere sul serio il rischio per la salute rappresentato dal coronavirus. Dovremmo essere altrettanto attenti al modo in cui risposte errate possono generare paura, panico, sospetto e stigma.
Da corriere.it il 5 febbraio 2020. I passeggeri sbarcati a Batam, in Indonesia, da un aereo arrivato da Wuhan, in Cina, sono stati spruzzati con una sostanza (probabilmente uno spray antisettico) dai funzionari in tuta protettiva prima di essere portati in quarantena in una base militare sulle Isole Natuna. Dei 243 passeggeri a bordo, 237 erano indonesiani. Le immagini sono state diffuse dallo stesso ministero degli Esteri indonesiano.
Da lapresse.it il 5 febbraio 2020. In Cina si usano anche i droni per cercare di fermare l'epidemia di coronavirus. In molte zone del Paese vengono utilizzati per spruzzare disinfettante lungo le strade e sui complessi residenziali.
(LaPresse l'1 febbraio 2020) - “La donna di nazionalità cinese residente a Frosinone che è stata portata il 31 gennaio presso l’Istituto Nazionale Malattie Infettive Lazzaro Spallanzani è negativa al test per il nuovo coronavirus. Sono in corso ulteriori accertamenti per verificare lo stato complessivo della salute”. Lo dichiara in una nota l’assessorato alla Sanità e l’Integrazione sociosanitaria della Regione Lazio dopo la comunicazione della Direzione sanitaria dell’Istituto Nazionale Malattie Infettive Lazzaro Spallanzani di Roma. "In merito ai due cittadini di nazionalità cinese provenienti dalla città di Wuhan positivi al test del nuovo coronavirus, attualmente ricoverati presso l’Istituto nazionale per le malattie infettive Lazzaro Spallanzani, si comunica che le loro condizioni cliniche sono in continuo monitoraggio da parte del personale della struttura sanitaria". E' quanto si legge nell'ultimo bollettino medico dell'ospedale Spallanzani di Roma.
Francesco Grignetti e Edoardo Izzo per “la Stampa” l'1 febbraio 2020. Come in un film, è arrivato il tempo della paura, delle mascherine, degli epidemiologi. E non solo nella Capitale. Per l' intero giorno si susseguono le notizie di sopralluoghi in giro per l' Italia. La settimana turistica dei due cittadini cinesi malati di coronavirus si lascia dietro una scia di preoccupazione da Nord a Sud. Marito e moglie sono ora ricoverati a Roma, nell' ospedale "Spallanzani". Appaiono in forze e ringraziano tutti, chiedono scusa del disturbo, precisano che mai hanno preso mezzi pubblici nel loro soggiorno italiano, né sono stati in musei. A Roma, anzi, «ci siamo subito ammalati, non siamo usciti quasi dall' hotel e abbiamo mangiato sempre in stanza». Notizie confortanti, che infatti le autorità sanitarie del Lazio hanno rimarcato. «I testimoni raccontano che portavano sempre la mascherina», spiega l' assessore alla Salute, Alessio D' Amato. Le autorità sanitarie incrociano le dita: forse la storia finirà qui. Nel frattempo si ricostruiscono i loro giorni. Sbarcati all' aeroporto di Milano Malpensa il 23 gennaio, sono saliti con la loro comitiva sul bus che li attendeva e via verso Verona. Qui sono arrivati in serata, al "Crowne Plaza Hotel", dove li attendeva l' addetto alla reception. Ed è lì che ieri, quindi, si sono precipitati i tecnici della Asl scaligera, informati dalla rete di allerta nazionale che fa capo al ministero della Salute. La loro stanza è stata sigillata e bonificata. Il dipendente dell' hotel non risulta avere sintomi, ma per lui si prevede una quarantena di due settimane a casa. E il sindaco Federico Sboarina tranquillizza tutti: «La situazione è costantemente monitorata». Dopo un breve giro per Verona, il bus li portati alla seconda tappa del tour tra le città d' arte italiane che tanto piace ai cinesi: Parma. Qui hanno trascorso un paio di notti. L' albergo "De la Ville", lussuoso e in pieno centro, annovera molti cinesi nella sua clientela; quella comitiva era una delle tante. Dopo la prima notte a Parma, però i due ammalati hanno cambiato albergo. Puntuale il sopralluogo anche qui. A questo punto, e siamo al 26 gennaio, le strade dei cinesi si sono divaricate. I due che incubavano il coronavirus si sono sganciati dalla comitiva che avrebbe proseguito per Napoli e la costiera sorrentina, preferendo fare una tappa a Firenze e poi a Roma. Forse già si sentivano male. Tanto è vero che portavano già la mascherina. Da quel che si sa, a Parma hanno preso un' auto con conducente (sotto verifica anche lui, ma per il momento non si registrano sintomi di contagio) e sono arrivati in riva all' Arno. Naturalmente anche qui sono scattate le misure di controllo epidemiologico. L' hotel dove hanno alloggiato e il personale sono sotto controllo. Lunedì 27 gennaio, finalmente, con la tipica cadenza mordi-e-fuggi dei viaggi dei cinesi, sbarcano a Roma. Li attende l' hotel "Palatino" su via Cavour che da ieri è nella bufera. Giacomo, uno dei portieri, ammette che «qualcuno ha disdetto la prenotazione, ma questo succede sempre. È fisiologico». Il personale del "Palatino" lavora come al solito. Tutti con profilo basso. E se anche hanno paura, non è il caso di dirlo. «Ci hanno detto di stare tranquilli, noi stiamo lavorando. L' albergo è pieno. Siamo fiduciosi e tranquilli. Se mi fido? Mi fido delle autorità, altrimenti cambio Paese». Gli fa eco Veronica, una cameriera: «Finché mi dicono di lavorare, lo faccio. Tanto se deve succedere accadrà, sono fatalista». Il direttore Enzo Cianelli rassicura tutti, clienti e dipendenti: «Nessuno è entrato in stretto contatto con la coppia. La Asl ci ha rassicurato. Non ci sono pericoli. Questi clienti parlavano esclusivamente cinese, i contatti erano limitati anche con gli altri ospiti. Erano in tre, ma la terza persona non so se è stata ricoverata». Tanta freddezza non è di tutti, però. Dilaga sui social il video di un fiorentino che apostrofa dei turisti cinesi sul Ponte Vecchio. Un brutto cartello anticinesi è comparso in un bar al rione Trevi. Patrizia, la titolare del ristorante vicino al bar, dice: «Certo non facciamo bella figura, ma non si sa che giri abbiano fatto queste due persone, non mi sento di dissociarmi completamente da quel cartello. Ci sono persone che possono entrare da me e stare due o tre ore. Io un po' di paura ne ho».
Michele Focarete per “Libero Quotidiano” il 2 febbraio 2020. Gina ha cercato di apparire più sexy: si è infilata ai piedi le scarpe con i tacchi alti e ha messo in bella mostra il decolté. Porta i capelli neri lunghissimi e un tailleurino rosso, attillato, volutamente demodé. Non ha trucco e i suoi anni sono lì, sul suo viso da ragazzina. Ma gli sforzi per fare da calamita ai clienti non sono serviti. Purtroppo, la sindrome del coronavirus ha colpito anche il mondo dell' eros, quello dei massaggi orientali a luci rosse, gestito in prevalenza da giovani cinesi dallo sguardo compiacente e dalle mani curiose che non nascondono il segreto del Tuina. Ma non ha risparmiato neppure le donne dagli occhi a mandorla che vendono il proprio corpo in strada e, soprattutto, in appartamento. Anche gli aficionados si sono allontanati. E chi sfida il virus killer per mezz' ora d' oblio in un romantico e rilassante massaggio, spesso pretende che si indossi la mascherina. Si, proprio quella che non si trova più nelle farmacie perché il popolo del Dragone ne ha fatto incetta. Centri massaggi compresi. «Ma per mandare laggiù, in Patria», ci tengono a far sapere. Gina ha 26 anni, un marito tassista a Pechino e un lavoro a Milano, in zona Loreto, in uno degli oltre 200 centri orientali, ai quali vanno aggiunti quelli intestati ad italiani, ma con personale tutto femminile asiatico. Per una media di tre «lavoratrici» per negozio. Un vero e proprio esercito con più di 500 figlie dello Zhongguo, del Regno di mezzo, che lavorano ininterrottamente dalle 10 alle 23, domeniche e festivi compresi. Da Chinatown a Lambrate, Citta Studi, zona Centrale, attorno a Mac Mahon: praticamente in ogni zona della città. Con relativo tariffario che spazia da 30 a 100 euro a seconda della durata della prestazione. Escluse le mance di chi non si accontenta e vuole prolungare il massaggio anche nelle parti intime. Per un business a tanti zeri. Questo prima del Coronavirus. Adesso la grande fuga dai centri massaggi. Il via vai maschile fuori da questi locali è drasticamente calato. Nonostante molte signorine ti ricevono con sorrisi da soubrette e con la frase mandata a memoria free virus, no virus. È il distorto effetto della psicosi deflagrata attorno all' epidemia che ha già contagiato 4mila persone provocando 116 morti. Insomma, anche i patiti di «Lanterne Rosse», stanno disertando le attività per paura del contagio. ritorno all' antico Un fenomeno che si specchia nell' incremento di prestazioni di centri estetici italiani. «La concorrenza cinese ci ha sempre creato non pochi problemi», ammette una esercente di viale Abruzzi, «per noi è sempre stato difficile stare sul mercato agli stessi prezzi. Chi ci ha provato anche con promozioni ha chiuso dopo pochi mesi». Anche in strada nelle storiche vie Piccinni, via Monteverdi, piazzale Bacone, la presenza di prostitute cinesi si è più che dimezzata. A volte ne potevi contare anche otto sparse in un fazzoletto di marciapiede: l' altro giorno ce n' erano due. «A me», dice Lina, 54 anni, cinese di Fushung, affrettando il passo, «un cliente mi ha addirittura chiesto se poteva pagare di meno, visto il momento difficile». Le lucciole made in Cina adescano in strada e finiscono in monolocali non sempre vicini al luogo di lavoro. Il mondo di Sizie Wong a Milano si nasconde in decine di abitazioni popolari, tra calendari cinesi e odore di cavolo bollito. Angela, una donna sui 40 con i capelli rossi tinti e la vestaglia, dalla bellezza che non la sfiora, ci riceve nel suo bilocale a Musocco. Angela accetta solo clienti italiani. «Oggi», dice senza nascondere lo scoramento, «solo due habitué di quelli che ti fanno perdere un sacco di tempo per via dell' età avanzata. Hanno tutti una gran paura del contagio. Speriamo che questo brutto periodo passi presto». Lo vogliono anche i clienti che assicurano di tornare dalle "loro donne" orientali non appena cesserà l' allarme coronavirus. In fondo, già molto tempo fa, un altro italiano, Marco Polo, aveva scritto delle prostitute cinesi: «Gli stranieri che le hanno sperimentate una volta rimangono come stregati e non riescono più a togliersele dalla testa».
Coronavirus, i corrieri Ups in rivolta: «Senza mascherine non lavoriamo». Pubblicato martedì, 25 febbraio 2020 da Corriere.it. Sale la tensione tra quanti continuano a lavorare, costretti, per di più, a farlo non potendo evitare il contatto con colleghi e soprattutto fornitori e clienti, nonostante il clima di ansia crescente per la continua diffusione del coronavirus che si respira a Milano e in tutta la Lombardia. A far sentire la propria voce, martedì, sono stati i fattorini della società americana di spedizioni «Ups» impiegati nella sede di Milano. «L’azienda, nonostante l’emergenza coronavirus, non ha dotato i lavoratori di mascherine e altre protezioni per effettuare le consegne», denuncia il sindacalista Luca Esestime, della segreteria Si.Cobas. «Ups» conta oltre 200 dipendenti a Milano. «È un’indicazione del ministero della Salute, servono mascherine, guanti e disinfettante — attacca il sindacalista —. La società si è limitata a scrivere che acquisterà e a fare tante chiacchiere, però non abbiamo visto ancora nulla di concreto. Per di più, «Ups» ha minacciato di non pagare la giornata ai lavoratori». Tutte le sigle sindacali cominciano a mettersi in moto. La Cgil è uscita con una nota dal titolo: «La Cgil al tuo fianco». Il sindacato Guidato di Landini ha invitato «tutti a seguire in maniera scrupolosa quanto stabilito dal ministero della Salute e dalle ordinanze di Regioni e prefetture. Per limitare il contagio da coronavirus non c’è altro modo se non seguire le norme igieniche alle quali dovremmo comunque attenerci sempre. I delegati e i rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza Cgil sono a tua disposizione per fornirti le corrette informazioni su norme da rispettare e comportamenti da adottare. Rivolgiti a loro: sono le tue sentinelle nel luogo di lavoro».
Da huffingtonpost.it il 24 febbraio 2020. Ti conosco mascherina. Ma non è quella del martedì grasso. Una parlamentare di Fratelli d’Italia si presenta col bavaglio di profilassi. Un’altra eletta all’estero, in America Settentrionale, prepara il ritorno negli Usa e così Montecitorio già sembra vestire i panni del lazzaretto. Transatlantico, ore 10 di un lunedì che non è certo come i precedenti. Il Nord è già in quarantena, il resto del Paese è agitato, preoccupato, terrorizzato più dalla psicosi da coronavirus che da altro. Ecco il Parlamento ai tempi del covid-19. Un commesso si rivolge a un collega: “Per ora non si chiude. Ma poi...”. E l’altro: “Non sarebbe male una quarantena”. Scherzano anche l’azzurro Roberto Occhiuto e il deputato di LeU Nico Stumpo. “Siete disposti a tutti pur di stare in Parlamento. Sarete stati a voi a mettere i due focolai”, è l’incipit del forzista. Stumpo non si trattiene e gli risponde così: “Vi voglio vedere al voto...”. Da pochi minuti nell’emiciclo si discute il decreto intercettazioni. Pochissimi i presenti, con il dubbio che resteranno tali fino a fine giornata. “Siamo stati allerati stamane per essere tutti presenti alle 14”, ragiona Luca Carabetta, il democristian-grillino per eccellenza. Eppure, nonostante si evochi la pacificazione nazionale, nonostante le presenze latitino, lo schema è sempre lo stesso. L’opposizione è infuriata, la Lega iscrive praticamente tutti a parlare. Centotrentacinque interventi. L’ostruzionismo non si ferma nemmeno nelle ore del coronavirus. Il motivo di tale protesta è dovuto al fatto che secondo la compagine di destra si debba esaminare prima il decreto sul coronavirus. “Stiamo a parlare di intercettazioni con tutto quello che succede fuori?”, si domanda polemicamente Rebecca Frassini, parlamentare del fu Carroccio, classe ’88, originaria di Calcinate, in provincia di Bergamo. “La situazione è grave, la gente ha paura”, insiste questa giovane deputata mentre “svapa” una sigaretta elettronica nella zona riservata ai fumatori. Pochi istanti ed ecco un’altra leghista. Ecco Eva Lorenzoni, originaria di Manerbio, provincia di Brescia. Lorenzoni si avvicina a Frassini per un saluto e quest’ultima prima di porgere la mano le dice ironicamente: “Ti sei messa l’amuchina?”. Si scherza, si ride, ma in fondo si fa sul serio. L’amuchina, il disinfettante più agognato in queste ore, si trova nella tasca o nella borsa di diversi parlamentari. Gianfranco Di Sarno, grillino doc, la passa e ripassa nelle sue mani. “Chi prende i treni, gli aerei, o i mezzi pubblici dovrebbe utilizzarla”, si giustifica. E lo stesso gesto si vede e rivede attraversando il Transatlantico. Ecco un capannello a cinquestelle che discetta sull’uso della mascherina, dell’amuchina e dell’azione del governo in materia di coronavirus. Fra questi, però, c’è tal Maria Pallini, grillina di Avellino, avvocato di professione, che confida a un collega: “Forse si sta esagerando”. Forse, però. Parole che più o meno ripete alla buvette Sergio Battelli: “Io eviterei di gettare il panico”. Ma il panico c’è già in Parlamento. Basta osservare e ascoltare Maria Teresa Baldini, la deputata di Fratelli d’Italia di 190 centimetri, con un passato da giocatrice di pallacanestro nella nazionale azzurra. La quale si è presa la scena materializzandosi qui, a Montecitorio, con tanto di mascherina. E perché? Seduta in un divanetto del Trasatlantico Baldini prova a spiegare le ragioni della sua scelta: “Lo faccio prima di tutto perché sono un medico e so che l’unica prevenzione è non trasmetterla agli altri e non prenderla io, quindi la mascherina, gli occhiali e i guanti sono gli unici presidi che le persone comuni possono fare”. Sarà. Una scelta che non è stata gradita nemmeno dai suoi colleghi di partito. Non a caso mentre Baldini argomenta con i cronisti, il capogruppo di Fd’I Francesco Lollobrigida le recapita un messaggio che suona più o meno così: “Dovresti toglierla per evitare di creare allarmismi”. E lei? “Non vedo perché non lo posso fare”, ribatte. In aula la deputata meloniana è stata ripresa dal presidente di turno, vale a dire da Ettore Rosato. Ma l’ex cestista della Geas non intende cedere. “Credo – sottolinea - che sia rispettoso nei confronti degli altri. Io vengo da una regione, la Lombardia, molto colpita e mi sembra doveroso da parte mia e da parte degli altri proteggersi a vicenda. I virus sono come le radiazioni. Ai tempi dell’Aids, quando era all’Istituto di Tumori di Veronesi, eravamo tutti bardati, mettevamo dei cerrotti nelle mani per evitare i tagli...”. Nel corso della mattina Baldini cerca di coinvolgere altri parlamentari. Più mascherine per tutti, sembra essere l’iniziativa. La sola che si lascia trascinare è un’eletta all’estero che si chiama Fucsia Nissoli. Nissoli si aggira con un trolley enorme e secondo quanto racconta Baldini sarebbe pronta a ritornare negli States, nel suo Paese, “perché ha paura di non rientrare più”. Chi invece non è presente perché in isolamento a Codogno, la Wuhan d’Italia, è Guido Guidesi, deputato leghista e già sottosegretario alla presidenza del Consiglio ai tempi del governo gialloverde. Guidesi risulta assente e non missione. Il regolamento della Camera non prevede, infatti, tra le ipotesi di missione le cause di forza maggiore come chiaramente il virus cinese. Tant’è che la questione verrà sottoposta alla Giunta per il Regolamento. Un caso nel caso ai tempi del coronavirus e delle mascherine in Parlamento.
Da “il Giornale” il 26 febbraio 2020. Anche il Parlamento si prepara ad affrontare il coronavirus. Il rischio del diffondersi del contagio spinge Camera e Senato ad adottare misure preventive (e restrittive) per difendersi e tutelare parlamentari e dipendenti. I due palazzi diventano «off limits» per il pubblico esterno, ma anche gli stessi deputati e senatori dovranno «limitare» la loro libertà di ricevimento, mentre le porte resteranno chiuse per i giornalisti non accreditati. Entrambi i palazzi mettono in campo una stretta sugli ingressi, che saranno «presidiati» dagli scanner per la misurazione della temperatura (come avviene negli aeroporti); stop alle visite guidate di scolaresche, annullati o rinviati i convegni con afflusso di pubblico, più accuratezza nelle norme igieniche.
A scuola con l'incubo Coronavirus. L'epidemia partita dalla Cina fa paura. E nei quartieri cinesi di Milano, Roma, Prato, Napoli e Palermo l'ansia cresce. Alessandra Benignetti, Agata Marianna Giannino, Roberto Chifari, Francesca Bernasconi, Costanza Tosi, Giovedì 30/01/2020, su Il Giornale. Un contagio che sembra senza fine. Un'epidemia che sta spaventando mezzo mondo e che ha già superato l'emergenza Sars. La paura del coronavirus che è partito dalla Cina si allarga con il passare dei giorni. Ormai è accertato che il virus si trasmette anche da persone senza sintomi. E - per quanto medici ed esperti rassicurino - anche in Italia il rischio psicosi è elevato. Soprattutto in quei quartieri storicamente abitati da cinesi, dove le paure si riversano soprattutto sui bambini in un periodo in cui basta un raffreddore a scatenare le preoccupazioni dei genitori.
Milano - A Chinatown tra mascherine e Capodanno cancellato di Francesca Bernasconi. Nel quartiere Chinatown di Milano la popolazione non sembra essere caduta nella psicosi collettiva. I genitori, fuori dalla scuola primaria di via Giusti e da quella dell'infanzia SS. Trinità, entrambe a pochi passi da via Paolo Sarpi, sembrano tranquilli, anche se qualcuno ammette di avere paura. "Le mascherine le abbiamo prese, più per lo smog che per il virus", dice un papà, "Ma potrebbero sempre tornare utili". Anche nelle classi, a detta di una mamma, qualche bambino cinese "va con la mascherina", ma sembra più una misura precauzionale che l'azione dettata da un reale rischio di contagio. E se tra i genitori c'è chi ammette di avere paura, pur senza essersi fatto prendere dal panico, c'è anche chi si dice del tutto tranquillo: "È un'influenza normale", afferma un papà, "Non abbiamo paura". Intanto, anche nella Chinatown milanese, i festeggiamenti per il capodanno sono stati sospesi, sia nel quartiere che nelle scuole, un po' per rispetto verso la Cina, un po' anche per "evitare assembramenti di folla". Nessuna misura particolare è stata adottata, solo le solite raccomandazioni ai bambini da parte dei genitori.
Prato - "Qui i cinesi viaggiano spesso, impossibile star tranquilli" di Costanza Tosi. È a Prato, in Toscana, la terza comunità cinese più numerosa di tutta Europa. 23.217 i cinesi stanziati nella città del tessile. Inevitabile l’andirivieni degli immigrati verso i paesi orientali, in cui gli asiatici hanno non solo le loro radici, ma anche legami di tipo economico. Una realtà che, dopo l’allarme del coronavirus, ha iniziato a preoccupare i cittadini italiani che vivono nella zona. Passeggiando per via Pistoiese i passanti non nascondono le proprie paure. È proprio in questa zona, tra il centro e la periferia, che abita la maggiore parte dei cinesi: “La Chinatown". "Stiamo iniziando ad andare in giro con le mascherine... ma lavorando al pubblico non é semplice neanche utilizzare queste precauzioni", ci spiega il proprietario di un piccolo tabacchi. "Molti cinesi della zona viaggiano spesso per la Cina...i bambini nelle scuole sono tutti insieme e non è facile stare tranquilli. Speriamo solo che l’amministrazione prenda le giuste precauzioni", aggiunge un nonno della zona. Al momento, però, dal Comune nessuna risposta. “A Prato c’è un problema reale", spiega Patrizia Ovattoni, capogruppo Lega in consiglio comunale, "Ci sono molti clandestini difficili da controllare. Abbiamo fatto un’interpellanza, ma il silenzio della giunta è assordante. Forse vogliono nascondere il problema”. E a sottovalutare i rischi del virus cinese sembra essere anche la Regione Toscana, che ha deciso di non prendere precauzioni neanche per quanto riguarda le scuole. “È arrivata una circolare in cui dicono di continuare ad agire secondo i protocolli standard. Nessuna indicazione speciale per quanto riguarda il virus”, ci spiega il preside dell’istituto Gramsci Keynes. Ma il presidente della Provincia, Francesco Puggelli, minimizza: “Ci sono decine di malattie più preoccupanti del coronavirus. Le mamme possono stare tranquille. Per le scuole bisogna solo rispettare le normali norme igeniche... il lavaggio delle mani e l’utilizzo dei gel disinfettanti”. Intanto però, nelle fabbriche gli operai cinesi lavorano proteggendosi dal virus. Coprendosi il volto con le mascherine.
Roma - "Paura? No, ma c'è un'ansia tremenda" di Alessandra Benignetti. Per il momento nella Città Eterna a creare problemi, più che il Coronavirus è l’influenza stagionale. “Ci ha decimato”, racconta una mamma che ha appena lasciato i suoi figli all’ingresso della scuola elementare Di Donato, nel rione Esquilino, dove vive la storica comunità cinese della Capitale. “Non ci sentiamo più esposti degli altri”, spiegano i genitori dei piccoli che frequentano la scuola. “Preoccupati leggermente ma spaventati no, c’è troppo allarmismo”, si lamenta un papà. “I cinesi non sono untori”, mettono in chiaro nel rione multiculturale di Roma. Eppure, giura un altro genitore, “nel liceo che frequenta mia figlia c’è una ragazza orientale che negli ultimi tempi tende ad essere isolata, sui mezzi pubblici, ma anche a scuola”. Qualcuno però ci confessa che nelle chat di classe le mamme iniziano a scambiarsi consigli per preservare i piccoli da possibili infezioni. “Lavarsi le mani, usare disinfettanti”, elenca un papà. “Abbiamo un ansia tremenda – si sfoga - ma tendiamo a non esporci perché poi si passa per razzisti”. In classe dei suoi figli ci sono diversi bimbi cinesi. “Il fatto che vengano in contatto con prodotti che arrivano da lì – ci spiega - per me può rappresentare un problema”. Certo, siamo ben lontani dalla psicosi, ma il caso di un’altra scuola elementare, la Falcone e Borsellino di via Reggio Calabria, in zona piazza Bologna, è indicativo. Da ieri i genitori sono in allerta per il viaggio di un maestro ad Hong Kong. “Speriamo che al suo ritorno la scuola prenda le precauzioni opportune”, ci dicono al telefono. Sono pronti a mandare i figli a scuola con le mascherine.
Napoli - "Ora le scuole attivino un protocollo" di Agata Marianna Giannino. A Napoli qualche preoccupazione si è insinuata in alcuni dei genitori degli alunni che frequentano le scuole situate nella zona di Gianturco, area della città dove vive e lavora una folta comunità cinese. Valentina è mamma di due bimbi che frequentano il plesso Quattro Giornate. Uno dei figli ha dei compagni di classe di origine cinese. “La tranquillità non c’è”, ammette. E vorrebbe rassicurazioni dalla scuola. “Sono venuta stamattina apposta per parlare con la preside. Non è una psicosi", chiarisce, "Voglio capire se è stato attivato un protocollo”. Valentina è una delle mamme in apprensione per l’allarme coronavirus. Ma non tutti i genitori manifestano timori. “Altre mamme sono preoccupate. Ma il virus mica sta qua? Sta in Cina”, dice una donna che ha appena lasciato la sua bimba all’ingresso della scuola. “È vero che c’è il rischio di parenti che possono aver fatto viaggi e che potrebbero aver contratto il virus, però non mi sento allarmato da questa situazione”, dichiara un papà. Hanno preferito evitare i microfoni alcuni genitori di origine cinese che abbiamo incontrato davanti alla scuola. Abbiamo provato a parlare della questione con la dirigente scolastica, Rossella De Feo, ma non ha voluto riceverci.
Palermo - Un vertice per prepararsi al peggio di Roberto Chifari. "Niente panico", la parola d'ordine è quella di non creare allarmismi. A Palermo la zona di via Lincoln è la piccola Chinatown della città. Negli anni la zona è diventata a totale controllo dei cinesi. Le attività commerciali che un tempo erano in mano ai palermitani adesso sono in mano ai cinesi che a Palermo è la seconda colonia più grande della città dopo i tamil. Eppure la vita scorre come sempre, anche se l'assessorato alla Salute della Regione ha voluto organizzare un vertice dedicato al Coronavirus. Per prima cosa è stata effettuata una ricognizione dei reparti di malattie infettive presenti in Sicilia e dotati di posti letto con isolamento respiratorio. Una misura indispensabile per ridurre al minimo le ipotesi di contagio nel caso in cui dovesse accertarsi un caso di infezione nell’isola. "Ad oggi in Sicilia non si registrano casi, nemmeno sospetti, riconducibili al Coronavirus", afferma l’assessore Ruggero Razza. L’assessorato della Salute, tuttavia, ha già predisposto un piano che coinvolge le Aziende del SSR, il 118 ed i medici di medicina generale attraverso una procedura dedicata che in caso di necessità verrebbe immediatamente attivata. Un caso sospetto si può certamente controllare, il panico no". Dello stesso avviso il professore Antonio Cascio, ordinario di Malattie Infettive dell’Ateneo di Palermo: "Da studi recentissimi sembrerebbe il nuovo coronavirus provenga da una ricombinazione di un coronavirus proveniente dai pipistrelli e di uno dei rettili e che da questi ultimi sarebbe passato all’uomo".
Melania Rizzoli per “Libero quotidiano” l'8 marzo 2020. C' è un contagio che si sta diffondendo più rapidamente di quello del coronavirus, che serpeggia ormai da settimane in tutta la Lombardia e sta infettando il resto d' Italia, con vari gradi di intensità e pericolosità, e che sta acquistando un rilievo patologico preoccupante, minacciando lo stato mentale e psicologico collettivo: è la paura. Il timore diffuso di questa nuova infezione infatti, ha fatto saltare tutti gli schemi di razionalità e di ragionamento, offuscando il pensiero e spalancando le porte a comportamenti ed atteggiamenti che spesso rasentano la fobia, facendo precipitare la popolazione in uno stato di angoscia, di ansia e di psicosi permanente, da ognuno dei quali diventa difficile risollevarsi. Nella storia della medicina non è una novità che insieme ad una epidemia si diffonda e cresca la paura, una costante che riguarda soprattutto le malattie infettive trasmissibili, ma in questo caso la moltitudine di interventi sui media, pubblicati per informare e comunicare la potenzialità del rischio infettivo, finalizzati a ridurre le possibilità di contagio, oltre alle tante voci che si sono levate, anche in maniera opportunistica, per minare la credibilità delle istituzioni sanitarie, e le divergenze del mondo scientifico e politico delle scorse settimane, hanno avuto un effetto sconcertante, poiché il rischio di contagio, inteso come valutazione probabilistica, è diventato, nella percezione comune, come un evento sicuro e senza rimedio, che rende ancora più difficile gestire un problema così complesso come il Covid19. La paura è un' emozione primaria dominata dall' istinto, una reazione utile di difesa in previsione di una minaccia al proprio benessere, che scatena l' allerta verso una situazione di pericolo, reale o inesistente, ed è sempre accompagnata da una risposta immediata del sistema nervoso, che prepara l' organismo all' emergenza, innescando una serie di comportamenti che lo predispongono ad atteggiamenti di lotta, di fuga o di richieste di aiuto. La paura irrompe ogni qualvolta sia a rischio la propria incolumità, è sempre anticipata dalla previsione, evocata dal ricordo, ed è condizionata dai circuiti emozionali del cervello, a seconda dei quali può manifestare differenti gradi di intensità, che vanno dalla semplice sindrome ansiosa fino all' attacco di panico, e promuove differenti comportamenti ed atteggiamenti, i quali, quando non controllati dalla ragione, arrivano a manifestare vere e proprie sindromi fobiche, sovente sproporzionate rispetto alla situazione che si sta affrontando. In questi giorni infatti, è altissimo il numero delle persone che si recano negli ospedali lombardi con difficoltà respiratorie e affanno, ed arrivano nei nosocomi in preda a crisi ansiogene, sicure di aver contratto il coronavirus, mentre alla maggior parte di loro viene diagnosticata la crisi di panico, spesso la prima della loro vita. Quando la paura è massima infatti, nelle persone più fragili psicologicamente, la tensione emotiva ostacola un' adeguata organizzazione del pensiero e dell' azione, essa si carica di un angoscioso presentimento di morte, tipico del panico, con comparsa di sudorazione, tachicardia, nodo alla gola, senso di soffocamento e fame d' aria, e quando la paura raggiunge la forma estrema del terrore, l' impulso emotivo diventa incontrollabile e talmente fobico da spingere l' individuo a reazioni estreme, fino alla perdita di coscienza, oppure a ritirarsi dentro se stesso ed isolarsi socialmente, ispessendo in tal modo i propri confini difensivi. nemico invisibile È quello che sta accadendo con l' epidemia da coronavirus, in un effetto paranoico di massa, con l' aggravante che tale sentimento di paura si scatena non contro un oggetto minaccioso o un animale pericoloso, ma nei confronti di un essere invisibile ed inafferrabile come il virus, verso il quale anche l' argine della fobia crolla, ci si sente fragili e inermi, soli e senza protezione, in quanto questo nemico, contraddicendo irrazionalmente i dati della scienza, è percepito come un veleno sospeso nell' aria che attacca solo respirandola, un flagello impossibile da evitare, proprio a causa della sua indeterminazione materiale, ed associato ad un alto rischio mortale. Inoltre i bollettini quotidiani che elencano i numeri dei nuovi ammalati, dei ricoverati, dei pazienti in Terapia Intensiva, dei decessi e dei cittadini sottoposti a misure di contenimento, non sono una danza macabra attorno a questa epidemia, bensì un dovere di informazione e un diritto di conoscenza, i cui dati però rafforzano la percezione della subdola presenza del virus tra di noi, assumono un peso emotivo enorme elevando lo smarrimento, favorendo la paura di finire intubati in un letto d' ospedale, soli e senza una persona cara accanto, per il pericolo costante del contagio. Clinicamente siamo di fronte ad una vera e propria psicosi collettiva, dove la matrice protettiva della paura viene meno, poiché questo malefico microbo invisibile potrebbe essere ovunque, ed essendo una minaccia non localizzabile, esso è percepito come presente in ogni luogo, nelle mani, nella bocca, in ogni starnuto o colpo di tosse, sulle maniglie, su qualunque superficie e su qualunque persona, a tal punto che chiunque ci si avvicini viene osservato con sospetto e tenuto a distanza. Non abbiamo anticorpi contro il Covid19, ma ne abbiamo contro tutto ciò che ci sconcerta, e per reagire alla paura bisogna prendere atto della realtà, buona o cattiva che sia, per non sviluppare sofferenze interiori che indeboliscono le difese immunitarie. E la realtà è che questa nuova virosi nel periodo di incubazione, che varia dai 7 ai 14 giorni, non manifesta sintomi, ed il paziente, già infettato e contagioso, non avverte nessun disturbo, sta bene ed esce regolarmente, incontra e si relaziona con più persone, trasferendo in quei giorni il virus ad almeno dodici individui, contribuendo in tal modo alla diffusione della malattia, che si espande poi a raggiera. Per tali motivi sono state elaborate le disposizioni restrittive ed imposte dall' ordinanza di Regione Lombardia e del governo, finalizzate giustamente al contenimento dell' epidemia, le quali hanno avuto un impatto violento sulla vita quotidiana, ed inevitabilmente, con il numero crescente dei contagi, che al momento non accennano a diminuire, hanno contribuito a generare questo quadro psicologico prevedibile nella popolazione, di paura, insicurezza, psicosi collettiva, ipocondria e ansia da untori, le quali, pur mettendo a disagio migliaia di persone, ed aumentando le difficoltà dei nostri medici e dei nostri ospedali, in questa emergenza sanitaria speriamo che almeno tornino utili ai fini della diffusione del coronavirus, come uno strumento reattivo neurologico che induca tutti alla massima prudenza.
Da ilmessaggero.it il 4 marzo 2020. Teme che la moglie abbia il coronavirus e la chiude in bagno. Lei chiama la polizia per essere liberata. E' accaduto a Vilnius, in Lituania, come scrive il Mirror. Il marito ha pensato che la moglie avesse contratto l'infezione incontrando una donna cinese proveniente dall'Italia. Quindi, ha chiuso la consorte in bagno temendo il contagio. Dopo qualche giorno di segregazione però, lei è riuscita a chiamare la polizia, lanciare l’allarme ed è stata liberata solo all'arrivo degli agenti. Agli agenti, il marito ha dichiarato di aver agito così su indicazione dei medici e di aver deciso di chiudere in bagno la moglie perché non aveva a disposizione altri luoghi “sicuri” nella casa. Secondo quanto raccontato dal Mirror, la donna è stata comunque sottoposta a scopo precauzionale al tampone per la ricerca del Covid-19, che, però, è risultato negativo. Secondo i dati ufficiali, al momento in Lituania c’è un solo caso accertato di Coronavirus.
Estratto da “Libro Quotidiano” il 4 marzo 2020. Questo stramaledetto coronavirus sta mettendo in difficoltà pure i programmi d' intrattenimento più popolari. Prendiamo "I soliti ignoti", lo show condotto dall' ormai popolarissimo Amadeus, che viene registrato a Roma. Pare che la scorsa settimana gli autori abbiano dovuto incassare parecchie defezioni, da parte di concorrenti provenienti dal Nord - e pure da qualcuno di quelli provenienti dal Sud. «Abbiamo avuto 48 ore di difficoltà, ora è tutto a posto», ha commentato a Repubblica il direttore di Raiuno Stefano Coletta. Soluzione: sono stati convocati in fretta e furia concorrenti del Centro Italia. Peraltro, le puntate de "I soliti ignoti" che stanno andando in onda sono state registrate in questi giorni, e al pubblico viene fatta firmare una liberatoria in cui si dichiara di non essere stati di recente nelle zone rosse. Con la chiusura delle scuole, i precari delle cooperative non vengono pagati. E dunque scatta la protesta. Settanta manifestanti hanno sfidato il divieto di assembramento e organizzato un presidio di protesta sotto la sede della Regione Emilia Romagna chiedendo un "reddito di quarantena" che consenta loro di affrontare l' emergenza. I manifestanti si sono presentati all' appuntamento con tanto di mascherine e hanno rispettato l' indicazione di massima di stare a distanza di un metro gli uni dagli altri. «A oggi - ha spiegato una delle educatrici - non abbiamo nessuna certezza su come verranno pagate queste ore perse. Si parla di recupero, ma nel nostro servizio è impossibile recuperare, perché abbiamo orari fissi e lavoriamo fino a 37 ore settimanali. Non siamo lavoratori di serie b». Cattolica Assicurazioni ha lanciato sul mercato italiano la nuova polizza “Active Business Nonstop”, realizzata per far fronte alle conseguenze della diffusione del virus Covid-19. La soluzione è stata elaborata in tempi rapidissimi per rispondere alla domanda degli esercizi commerciali, come negozi, bar e servizi, costretti a chiusura obbligatoria e misure restrittive. La polizza di durata annuale garantisce un supporto immediato di mille euro al giorno per un massimo di 15 giorni. Anche Generali Italia ha lanciato servizi e garanzie per le famiglie e le imprese che devono affrontare il Covid-19. Per tutti i clienti che hanno sottoscritto Immagina Benessere, in caso di ricovero in terapia intensiva con diagnosi da Covid-19, sarà riconosciuto un indennizzo par al 10% del capitale assicurato.
Psicosi coronavirus, ora riparte l'assalto ai supermercati. Il decreto del governo ha mandato nel panico i cittadini. Ieri sera, in molti si sono presentati in stazione centrale per scappare da Milano. Questa mattina è partito l'assalto ai supermercati. Code anche in Piemonte. Giorgia Baroncini, Domenica 08/03/2020 su Il Giornale. La stretta del governo e i provvedimenti per fermare il coronavirus hanno mandato nel panico i cittadini. Il premier Giuseppe Conte ha firmato nella notte un decreto che limita le possibilità di movimento nelle zone più colpite dal Covid-19. Ma già nella serata di ieri, quando era circolare la bozza del decreto, la gente ha iniziato a preoccuparsi. In centinaia hanno preso d'assalto la stazione centrale di Milano per fare ritorno a casa: video e foto pubblicate sui social mostrano le biglietterie affollate così come i treni in partenza dal capoluogo lombardo. Questa mattina tutta la Lombardia si è svegliata in un clima di calma apparente. E mentre viaggiatori e furoisede hanno raggiunto le proprie destinazioni nel resto dell'Italia, nelle zone colpite dalla misura del governo c'è chi si trova a fare i conti le limitazioni. Così centinaia di persone si sono riversate nei supermercati per fare scorta di cibo e beni di prima necessità. Una corsa all'acquisto che si era già registrata qualche settimana fa quando era arrivata la notizia della creazione delle zone rosse nel Lodigiano. Per timore di restare chiusi in casa in quarantena, la gente era corsa al supermercato riempiendo i carrelli di qualsiasi cosa. Ora, con il nuovo decreto firmato nella notte dal premier Conte, la paura torna a fare capolino e, di conseguenza, è ri-partito l'assalto ai negozi di alimentari. Nel decreto sulle misure urgenti per la Lombardia e le 14 province si legge che le attività commerciali dovranno rispettare la distanza di un metro per i clienti altrimenti scatterà la sanzione. In presenza di condizioni strutturali o organizzative che non consentano il rispetto della distanza di sicurezza interpersonale di un metro, le richiamate strutture dovranno essere chiuse. Nei giorni festivi e prefestivi, saranno chiuse le medie e grandi strutture di vendita, nonché gli esercizi commerciali presenti all’interno dei centri commerciali e dei mercati. La chiusura non è prevista per farmacie, parafarmacie e negozi di alimentari, ferma restando la prescrizione del metro di distanza. Intanto però è partita la corsa ai negozi. A Milano, ad esempio, nella prima mattinata in molti si sono presentati al supermercato di Corso Lodi per riempire i propri carrelli (guarda la gallery). E così, ora dopo ora, gli scaffali si svuotano sempre di più. Non solo Lombardia. Anche in Piemonte è scattato l'assalto ai supermercati. Alessandria nel suo primo giorno di "chiusura" è quasi deserta, ma, come riporta La Stampa, la paura di rimanere chiusi in casa ha fatto partire la corsa ai negozi.
DAGONEWS il 3 marzo 2020. Panico coronavirus negli Usa dove migliaia di persone hanno preso d’assalto i supermercati per fare scorte: dal New Jersey a San Francisco gli americani preoccupati hanno svuotato gli scaffali, portando via cibo, medicinali e prodotti per la pulizia della casa. Nei carrelli traboccanti montagne di rotoli di carta igienica e di carta assorbente, casse di acqua in bottiglia e dozzine di lattine di cibo in scatola. In alcuni supermercati centinaia di persone sono state avvistate in fila in attesa dell’apertura per prendere dall’assalto gli scaffali che, dopo il passaggio, sono rimasti vuoti. Ad andare a ruba soprattutto gel igienizzante per le mani e prodotti per la pulizia. A New York - dove ci sono stati due casi confermati - le persone si sono precipitate a comprare disinfettanti per le mani e maschere dai venditori ambulanti nelle affollate strade di Manhattan. Secondo l’ultimo bilancio ci sono sei morti e 100 contagiati in 15 stati.
Anna Zinola per "corriere.it" il 3 marzo 2020. L’effetto del coronavirus sul carrello della spesa. Della corsa ad accaparrarsi gel igienizzanti per le mani e mascherine si sa. Ma non sono questi gli unici prodotti dei quali gli italiani – sull’effetto del coronavirus – fanno incetta. A sparire dagli scaffali sono molti altri prodotti. Vediamo quali. In dispensa zucchero, pelati e tonno in scatola. Per rendersene conto basta fare un giro in un supermercato. La disponibilità dei prodotti a lunga conservazione è ridotta al minimo. I bancali sono spesso vuoti. Di quali prodotti parliamo? Si va dagli alimenti (come lo zucchero, la farina, la pasta, i pelati, il pesce in scatola) all’acqua, sino ad arrivare alla carta igienica. Un comportamento dettato dalla paura di dover restare barricati a lungo in casa, senza poter fare la spesa. Insomma, l’idea è: ho la dispensa piena di prodotti che non scadono a breve, almeno non morirò di fame. Litri e litri di candeggina. Ad andare a ruba sono anche i disinfettanti per la casa. Così referenze, come la candeggina e l’alcol etilico, che sino a qualche settimana venivano acquistate con una bassa frequenza, oggi rientrano tra i top seller. Anche qui la motivazione è chiara: si cerca di igienizzare tutte le superficie domestiche così da ridurre al minimo la possibilità che il virus sopravviva. E c’è anche chi si improvvisa piccolo chimico e usa la candeggina per preparare in casa una soluzione disinfettante per le mani. Integratori e antiossidanti per il sistema immunitario. Un’altra categoria che “beneficia” del coronavirus effect è rappresentata dagli integratori. Che si tratti di semplici vitamine o di antiossidanti, poco importa. L’obiettivo è rinforzare le difese immunitarie dell’organismo. Di fatto vi è, qui, un piccolo paradosso: da una parte si privilegiano gli alimenti a lunga conservazione a discapito di quelli freschi, che sono naturalmente più ricchi di principi attivi, dall’altra parte si assumono dei preparati per fornire all’organismo quegli stessi principi. Si fa la scorta anche per cani e gatti. Non ci si preoccupa solo per sé ma anche per gli animali di casa. Ecco, allora, che si comperano grandi quantità di cibo pronto per il cane e per il gatto. E, se non si trovano più al supermercato, ci si rivolge al negozio specializzato. La conferma arriva dai dati di Stocard, app che consente di memorizzare nel proprio smartphone le carte fedeltà: dal 19 al 25 febbraio le vendite nei pet store sono aumentate, rispetto alla media dei 30 giorni precedenti, del 20% in Lombardia e dell’1% in Italia. Crescono i drugstore. Tra le tipologie di punto vendita vanno forte, oltre a super e ipermercati, i così detti drugstore, ovvero le catene specializzate in prodotti per la cura della persona e della casa. Qui, nella penultima settimana di febbraio, si è registrato un incremento del +31% in Lombardia e del 15% nel resto del Paese. E’ probabile che i consumatori vi si siano recati per acquistare, in un’ottica di scorta, quelle referenze disinfettanti/igienizzanti che cominciavano a scarseggiare al supermercato. Farmacie. E la farmacia? Nonostante le aspettative, la crescita resta più limitata: + 7% in Lombardia e +1% in Italia. Un fenomeno che si può ricondurre a due fattori: da una parte le limitazioni orarie delle farmacie (non tutte fanno orario continuato, sono aperte la domenica etc) e dall’altra il rapido esaurimento – evidenziato anche da cartelli esposti in vetrina - dei prodotti più richiesti.
Andrea Valle per "Libero" l'1 marzo 2020. Ormai pressoché da tutte le parti si predica calma, si cerca di limitare la paura che potrebbe fare ancor più danni di questa maledetta infezione. Ma scorrendo le cronache, emergono notizie che fan capire come i giorni attuali siano letteralmente dominati da quel che accade "intorno" al virus. Una situazione che sta cambiando anche le abitudine acquisite: i selfie con i calciatori, per esempio. Il Bayern Monaco, la più importante squadra tedesca, ha intimato ai suoi tesserati di non fare fotografie con gli ammiratori, per timore che si possano ammalare. D' altro canto, il calciatore del Tottenham Son si sottoporrà per precauzione a un periodo di quarantena, essendo appena rientrato dall' Estremo Oriente. E poi le messe, ormai chiuse al pubblico: in occasione della prima funzione della Quaresima, la Diocesi di Venezia ha deciso di trasmettere la funzione in diretta televisiva. Invece i musulmani di Mestre non hanno voluto rinunciare alla preghiera del venerdì, e si sono radunati in duecento nonostante i divieti: una volta scoperti, il locale adibito a moschea è stato sgomberato, e l' imam denunciato.
Per Son del Tottenham periodo di quarantena. Il forte attaccante della compagine londinese del Tottenham, Son Heung-min, 27 anni, passerà un periodo di tempo lontano dalla squadra una volta tornato da un intervento chirurgico in Corea del Sud, come precauzione in relazione allo scoppio dell' epidemia di corovirus. Il calciatore coreano la scorsa settimana è infatti volato a Seul per l' appunto per sottoporsi a un' operazione al braccio fratturato nella gara di Premier League del 16 febbraio scorso contro l' Aston Villa, e il manager Jose Mourinho ha detto che «molto presto» tornerà in Inghilterra, dove però «dovrà seguire un protocollo di sicurezza». Mourinho ha aggiunto che spera di riavere a disposizione Son per «alcune partite» nel finale di questa stagione.
Pallanuoto rimandata. La Federation Internationale de Natation ha posticipato al 17-24 maggio il torneo preolimpico di pallanuoto femminile, in programma a Trieste, per via dell' emergenza legata al coronavirus e alle conseguenti misure adottate dai Paesi le cui federazioni hanno diritto a parteciparvi: Francia, Grecia, Israele, Kazakistan, Nuova Zelanda, Paesi Bassi, Slovacchia, Ungheria e Uzbekistan.
La messa quaresimale va in diretta televisiva. Come già preannunciato, domani mattina - prima domenica di Quaresima - il Patriarca Francesco Moraglia presiederà la Santa Messa - in forma non pubblica e alla sola presenza della comunità del Seminario - alle ore 11, dall' altare maggiore della basilica della Salute a Venezia; al termine il Patriarca rivolgerà una preghiera di affidamento alla Madonna della Salute. Tale celebrazione sarà trasmessa in diretta dal settimanale diocesano Gente Veneta (attraverso la sua pagina Facebook) e dalle emittenti televisive Antenna 3 e Rete Veneta (rispettivamente sui canali 13 e 18 del digitale terrestre). A mezzogiorno, tutte le campane delle chiese della Diocesi di Venezia suoneranno come segno pubblico e «grido di speranza».
La squadra di serie C con 3 calciatori infetti. Salgono a tre i calciatori della Pianese, squadra toscana di serie C, risultati positivi al tampone del coronavirus. Lo rende noto la stessa società sportiva della provincia di Siena. Oltre ai due calciatori, che sono al momento seguiti dal Servizio sanitario della Toscana, emerge ora il terzo caso sospetto, relativo a un tesserato che, come da protocollo, sta osservando l' isolamento fiduciario nella sua abitazione di Ravenna; è leggermente febbricitante, dunque non in condizioni gravi, e dal punto di vista sanitario viene seguito dalla competente Asl dell' Emilia Romagna. Alla Pianese, come già comunicato dalla Regione Toscana, risulta anche un quarto caso sospetto di coronavirus, che riguarda un addetto dello staff della squadra.
In moschea non si può. La polizia locale è intervenuta a Mestre (Venezia) in un locale adibito a moschea dove si teneva la funzione religiosa islamica del venerdì, con quasi 200 presenze. Gli agenti hanno fatto interrompere l' incontro di preghiera, vista l' ordinanza del ministero della Sanità e del presidente della Regione che proibisce eventi di ogni tipo che prevedano l' assembramento di persone. L' imam è stato denunciato.
I taxi si disinfettano. Le 384 auto bianche della Socota-Radio Taxi Firenze 4242 vengono disinfettate e sterilizzate con speciali prodotti in grado di eliminare per due mesi virus e batteri presenti negli abitacoli. Ad annunciarlo sono i responsabili della stessa cooperativa fiorentina, che hanno illustrato il processo di sanificazione, con un "saggio" in diretta davanti alla sede. «In un periodo come quello attuale, caratterizzato dalla grande preoccupazione per il diffondersi del coronavirus - ha spiegato il presidente Andrei - diventa indispensabile una vera e propria disinfezione, che garantisca l' eliminazione di virus, germi, batteri e funghi che annidandosi nelle parti più nascoste dell' abitacolo e all' interno del climatizzatore, possono aggravare le condizioni di chi già soffre di qualche forma di allergia e veicolare ogni tipo di contagio».
Il Grana Padano non c’entra con il morbo. «I toni allarmistici utilizzati a proposito del blocco del Grana Padano da parte della Grecia ci stanno mettendo in grande difficoltà, peraltro in modo del tutto immotivato, oltre che non vero, fomentando ulteriormente la psicosi collettiva» e in questo modo «contribuendo ad alimentare una scorretta percezione dell' attuale congiuntura da parte degli Stati esteri». Così sostiene Stefano Berni, direttore generale del Consorzio Grana Padano, con riferimento ad alcuni titoli di stampa sulla richiesta della Grecia di una certificazione "virus free" per il Grana Padano. «I rapporti con la Grecia continuano» prosegue Berni, e «il Grana Padano posto al consumo oggi è senza problemi: è stato prodotto oltre 10 mesi fa quando 'Covid-19' ancora non esisteva».
Il Bayern vieta i selfie dei tifosi coi giocatori. Basta, per il momento, alle ricercatissime fotografie fra tifosi e campioni: vista l' emergenza legata all' epidemia di Coronavirus, la squadra di calio più famosa di Germania e una delle più famose del mondo, il Bayern Monaco, ha annunciato in una nota di aver raccomandato ai suoi giocatori «di non firmare autografi per il momento e di non essere disponibili per foto o selfie con i tifosi». Il tutto sulla base delle raccomandazioni del Robert Koch Institute, che è in costante contatto con il professor Roland Schmidt, direttore di medicina interna del dipartimento medico del Bayern. «Chiediamo la comprensione dei nostri fan e di tutti i visitatori dell' FC Bayern», si legge nella nota diffusa dalla società.
Follie Infettive. Dall’acqua santa curativa al morbo anti-traffico. Tutte le scemenze dei vip. Gianluca Veneziani per "Libero" l'1 marzo 2020. È una specie di bestiario vip, di stupidario delle frasi più inopportune, insulse ed offensive quello che stiamo compilando. Una denuncia dell' epidemia di idiozie che prolifera sui social: chiamiamolo vipus, visto che colpisce i vip. Contro quest' infezione il nostro articolo vuole essere un tentativo di cura, e insieme un vaccino. Questa "piaga" aveva preso forma di discriminazione, forse ironica ma di cattivo gusto, in Gigi Buffon che, avvicinato da un ragazzo cinese per un autografo, gli diceva: «Hai il Corona eh, ti guardo!». E ancora: «Di dove cazzo sei? Di Wuhan?», tra le risate dei presenti. Discriminazione che si trasformava in disprezzo verso il volgo nelle parole della scrittrice Michela Murgia. Intervistata dalla Bignardi, esultava per aver fatto un viaggio comodissimo Roma-Milano: «Ho viaggiato in un aereo semi vuoto, sono arrivata in una città senza traffico. Può durare un altro po' questo virus? Se il risultato è la vivibilità delle strade, ci metterei la firma», diceva, con tanti saluti a chi, per colpa del morbo, è morto. Ma alla Murgia non interessa: a suo giudizio, il vero virus è la plebe che intasa strade e mezzi pubblici. Un ceppo simile di questa "malattia" ha colpito un' attrice d' Oltreoceano giunta in Italia per girare un film: Eva Longoria, la casalinga disperata della serie tv, si è fatta prendere dalla discriminazione anti-settentrionali. Per rassicurare i fan, ha postato un video su Instagram: «Grazie per le vostre preoccupazioni, ma non sono vicino al Nord. Il coronavirus è nel Nord Italia, qui siamo più lontani». Della serie: il Settentrione è un lazzaretto, fortuna che ne sto a debita distanza.
In altri il virus-vip attecchisce sotto forma di narcisismo. Alba Parietti tiene a mostrarsi su Instagram con naso e bocca coperti e a far sapere che «anche in momenti tragici ci vuole un po' di eleganza». Perché lei ha stile anche nella scelta della mascherina E poi, fingendosi esperta, invita tutti a indossarla: «La mascherina serve solo a non infettare? Bene, io che spero di essere sana evito ogni rischio di contagio agli altri». E questo sebbene gli esperti, quelli veri, dicano che la mascherina serve solo ai contagiati e a chi è a contatto con loro. In ogni caso è l' aspetto estetico a prevalere. Elisabetta Canalis, in partenza per il Giappone, si duole di non avere un filtro naso-bocca alla moda: «La peggior mascherina in commercio ce l' ho io», scrive contrariata. Stesse lagnanze avanzate dalla fashion blogger Giulia De Lellis: «Quelle carine (cioè le mascherine, ndr) erano finite. Ma meglio queste di niente!». Poi ci sono i contagiati dal luogo comune "come ci siamo ridotti, noi vip". Belén Rodriguez posta un video in cui, mascherina al volto, pronuncia afflitta: «Guarda che fine abbiamo fatto!». Mentre Serena Enardu, la (ex) fidanzata del cantante Pago, assicura di usare la protezione sul volto perché «non voglio stressarmi». La famosa funzione antistress della mascherina. In alcuni casi il virus si diffonde sotto forma di allucinazioni miracolistiche. È il caso di Paolo Brosio che, in preda a delirio mistico, pronuncia in tv: «Torniamo a pregare, l' acqua santa non diffonde il coronavirus». Rimedi efficaci quanto quelli di Laura Chiatti che pubblica una foto in cui si copre con uno sciarpone per difendersi dal virus. Altro che mascherine. Nella sua forma più intensa il morbo della cialtroneria colpisce una concorrente del Gf Vip, la modella Sara Soldati, che entrata nella Casa rende edotti gli altri reclusi della situazione fuori. Sparando cifre a caso: «Il 2% dei cinesi sono morti». Fosse vero, dovrebbero essere passati a miglior vita 20 milioni di cinesi. In realtà, sono circa tremila. Che dire: urge quarantena obbligatoria contro le minchiate.
Alessandro Trocino per “il Corriere della Sera” il 2 marzo 2020. Una giornata di riflessione e di discussioni, con il presidente del Consiglio Giuseppe Conte che ha provato a mediare tra le indicazioni del Comitato tecnico-scientifico e le richieste di governatori e amministratori locali. Alla fine, il decreto della presidenza del Consiglio è stato firmato e ha assunto una forma più complessa, con ulteriori differenziazioni per territorio e con un tentativo di uniformare le linee di azione che sta già provocando polemiche. Perché si prevede che «non possono essere adottati e sono inefficaci» le ordinanze dei Comuni dirette a fronteggiare l' emergenza che siano «in contrasto con le misure statali». Quanto basta per far infuriare il sindaco di Crema, Stefania Bonaldi, secondo la quale la norma «è una grave violazione del potere attribuito ai sindaci che mai come in questo caso dovrebbe essere rispettato». L' Italia del decreto, firmato dal premier e dal ministro della Salute Roberto Speranza, viene suddivisa sostanzialmente in quattro aree. La zona rossa, nella quale sono adottati i provvedimenti più drastici e sono sospese tutte le attività in luoghi pubblici, compresi i trasporti. Sono undici Comuni: Bertonico, Casalpusterlengo, Castelgerundo, Castiglione d' Adda, Codogno, Fombio, Maleo, San Fiorano, Somaglia, Terranova dei Passerini (tutti in Lombardia) e Vo' (quest' ultima in Veneto). Una seconda fascia comprende le tre regioni già coinvolte (Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna), alle quali ora si uniscono anche le province di Pesaro-Urbino (nonostante le perplessità del sindaco Matteo Ricci) e di Savona. Una terza categoria riguarda invece le province di Bergamo, Lodi, Piacenza e Cremona. Infine, ci sono le misure che riguardano tutta l' Italia. Tra i tecnici c' è preoccupazione per il picco di nuovi contagi e c' è il rischio che, nel caso di una mancata inversione di tendenza, le misure possano essere prorogate di un' altra settimana ed essere allargate anche ad altre zone. Confermato lo stop alle lezioni in asili, scuole e università per le tre Regioni interessate fino all' 8 marzo. A queste, si aggiungono il Friuli-Venezia Giulia e le province di Pesaro-Urbino e di Savona. In Liguria, Savona a parte, si riprende mercoledì. In Piemonte, il governatore Alberto Cirio fa sapere che si deciderà il da farsi tra domani e dopodomani. Tutti i musei, istituti e luoghi di cultura sono aperti al pubblico, ma devono «assicurare modalità di fruizione contingentata», ovvero evitare «assembramenti» e comunque fare sì che i visitatori rispettino la distanza di almeno un metro. Questa misura di sicurezza viene chiamata «droplet», in italiano «gocciolina». È stata accolta la richiesta della Regione Lombardia e dunque sarà possibile lo svolgimento di attività in comprensori sciistici, ma solo a condizione che si assicuri «la presenza di un massimo di persone pari a un terzo della capienza» in funicolari, funivie e cabinovie: anche in questo caso si cerca di evitare i contatti troppo ravvicinati. Resta confermato lo stop a tutte le manifestazioni di carattere non ordinario, «grandi eventi, cinema, teatri, discoteche e cerimonie religiose». Per quanto riguarda i «luoghi di culto», si aggiunge che resteranno aperti, ma a condizione di evitare «assembramenti di persone» e garantire la distanza di un metro tra un frequentatore e un altro. La misura, già prevista nella bozza del giorno precedente, viene esplicitata. E dunque, si scrive che nelle tre Regioni e nelle due province di Pesaro-Urbino e Savona, «lo svolgimento delle attività di ristorazione, bar e pub» è ammesso, a condizione che «il servizio sia espletato per i soli posti a sedere e che, tenendo conto delle dimensioni e delle caratteristiche dei locali, gli avventori siano messi nelle condizioni di rispettare la distanza tra loro di almeno un metro». Anche i negozi potranno aprire, ma «con modalità idonee a evitare l' assembramento» e rispettando «la distanza di almeno un metro tra i visitatori». Viene disposta - ma solo per le province di Bergamo, Lodi, Piacenza e Cremona - la chiusura nelle giornate di sabato e domenica delle «medie e grandi strutture di vendita e degli esercizi commerciali presenti all' interno dei centri commerciali e dei mercati, a esclusione delle farmacie e parafarmacie e dei punti vendita di generi alimentari». Questa misura riguarda solo la Lombardia e la provincia di Piacenza: si sospendono fino all' 8 marzo tutte le attività di palestre, centri sportivi, piscine, centri natatori, centri benessere e centri termali. Più blande ma comunque importanti le misure da adottare in tutto il territorio nazionale. Si tratta sostanzialmente di misure precauzionali e igieniche. Nelle pubbliche amministrazioni saranno a disposizione soluzioni disinfettanti, le aziende di trasporto pubblico dovranno sanificare i mezzi e si concede ai datori di lavoro di applicare ai rapporti di lavoro subordinati «la modalità di lavoro agile» (ovvero lo smart working). Il Dpcm si conclude con sette «misure igieniche», che contemplano il «lavarsi spesso le mani»; evitare il contatto ravvicinato con chi soffre di infezioni respiratorie acute; «non toccarsi occhi, naso e bocca con le mani»; coprirsi bocca e naso se si starnutisce o tossisce; non prendere farmaci antivirali o antibiotici se non prescritti; pulire le superfici con disinfettanti; usare la mascherina solo se si sospetta di essere malato o si assiste persone malate.
Coronavirus, Horst Seehofer rifiuta la stretta di mano da Angela Merkel: "Cosa giusta", è solo psicosi? Libero Quotidiano il 02 marzo 2020. La psicosi coronavirus colpisce anche i vertici tedeschi. Il ministro dell'Interno, Horst Seehofer, in occasione della riunione per parlare di crisi migratoria, ha rifiutato la stretta di mano della cancelliera Angela Merkel. Il tutto è stato immortalato in un video, dove si vedono i due alle prese con un gesto usuale, ma di questi tempi pericoloso. La stessa Merkel, inizialmente ironica, ha poi liquidato Seehofer con un "ha fatto la cosa giusta". Proprio così perché le strette di mano sembrano letali. Almeno questo è quello che afferma anche il decreto straordinario del governo volto ad affrontare l'epidemia. Decreto che consiglia "un metro di distanza" tra persone al fine di evitare il contagio.
Ma che strano sortilegio la tv tv senza pubblico (causa virus). Forse senza gente in sala la televisione lavora meglio.... Francesco Specchia 27 febbraio 2020 su Libero Quotiiano.
C'è qualcosa di straniante, d'innaturale nello spettacolo di un programma di prima serata senza pubblico, causa Coronavirus. E' un po' come se al fabbro togliessero l'incudine, all'artista la modella, al politico il suo fluttuante elettorato. Eppure, s'è rivelata un'esperienza inedita osservare, l'altra sera, gli studi aeroportuali di Che tempo che occupati solo dagli ospiti, da Fabio Fazio e dal sorriso contenitivo di Filippa Lagerback: c'era il il professor Burioni che ci rendeva edotti sul contagio e c'era Massimo Moratti, incanutito, alle prese col mito nostalgico dell'Inter e di suo padre; c'erano certe battute della Littizzetto che senza applauso si sgonfiavano come soufflè mal cucinati. E, in quegli attimi, ci si poteva concentrare soltanto sui sorrisi, sulle pause di riflessione, sull'increspature d'espressione; e il suono del pubblico non distraeva, né avvolgeva le parole in strane sinestesie. Niente pubblico uguale nessun applauso a sottolineare un concetto formidabile o una battuta inopportuna; e nessuna inquadratura su sedie vuote per interrompere il filo di un racconto che possa sembrare noioso o inopportuno; e nessuna finta interazione del conduttore nel “coinvolgere” il pubblico (una paraculissima tecnica di prossemica sublimata al cinema nella scena dell'incontro tra Joaquin Phoenix e Robert De Niro nello studio tv del film Joker). L'ordinanza regionale anti-assembramento del governatore Attilio Fontana è stata democratica. Prima di Fazio era toccato a Live -Non è la D'Urso e a Tiki Taka, a Mattino 5, in fine a Le Iene per la “prima volta in 24 anni andate in onda senza pubblico”. Ma, guardate, non è affatto malaccio. Io sono dell'opinione che il pubblico serva a distrarre, quando addirittura non è costretto ad essere il metronomo della produzione. Ho visto, nei decenni, decine di segretari di produzione o assistenti alla regia dirigere, da dietro le telecamere, il flusso emotivo di un pubblico torpido, disinteressato e chiaramente presente per motivi alimentari; un drappello di inutile umanità che veniva risvegliato da quegli stessi tecnici che erano in grado sia di partire fragorosamente con la claque come se fossero in un coro gospel, sia di elevare al cielo cartelli laconici cartelli di comando (“Applausi!”, “Fischi!”). Inoltre, senza pubblico la capacità del conduttore risalta, il suo rispetto del tempo televisivo è sacro, lo stimolo all'improvvisazione s'inebria. Tv a porte chiuse. Forse il virus ha portato qualcosa di buono…
FRANCESCO SPECCHIA: Francesco Specchia, fiorentino di nascita, veronese d'adozione, ha una laurea in legge, una specializzazione in comunicazioni di massa e una antropologia criminale (ma non gli sono servite a nulla); a Libero si occupa prevalentemente di politica, tv e mass media. Si vanta di aver lavorato, tra gli altri, per Indro Montanelli alla Voce e per Albino Longhi all'Arena di Verona. Collabora con il TgCom e Radio Monte Carlo, ha scritto e condotto programmi televisivi, tra cui i talk show politici "Iceberg", "Alias" con Franco Debenedetti e "Versus", primo esperimento di talk show interattivo con i social network. Vive una perenne e macerante schizofrenia: ha lavorato per la satira e scritto vari saggi tra cui "Diario inedito del Grande Fratello" (Gremese) e "Gli Inaffondabili" (Marsilio), "Giulio Andreotti-Parola di Giulio" (Aliberti), ed è direttore della collana Mediamursia. Tifa Fiorentina, e non è mai riuscito ad entrare in una lobby, che fosse una...
DAGONEWS il 3 marzo 2020. Prima del coronavirus, a New York è già arrivato il panico. Dopo la notizia del primo caso in città, gli abitanti della metropoli hanno iniziato saccheggiare i supermercati facendo scorte di cibo e di medicinali. Alcuni video girati nei market si vedono persone in preda alla frenesia che fanno scorta di carta igienica, acqua in bottiglia, salviette disinfettanti. In molti si sono arrampicati sugli scaffali per scartare pacchi di prodotti ancora imballati, mentre fuori centinaia di persone munite di carrello attendevano di poter fare il loro ingresso. Negli Usa le persone positive al tampone sono 88. E intanto è stato confermato il secondo decesso legato al virus, sempre nello stato di Washington. L'uomo che è morto sabato aveva 70 anni ed era "condizioni di salute scarse", secondo l'ufficio di sanità pubblica nella contea di King, la più popolosa dello stato e sede di Seattle, città di oltre 700.000 abitanti. A New York è stato confermato il suo primo caso di positività: «La paziente, una donna di circa 30 anni, ha contratto il virus mentre viaggiava in Iran ed è attualmente isolata nella sua casa», ha detto ieri sera il governatore Andrew Cuomo, aggiungendo che la paziente «non è in gravi condizioni ed è in una situazione controllata da quando è arrivata a New York». Lo stato della Florida ha dichiarato lo stato di emergenza sanitaria dopo che sono stati rilevati i primi due casi di coronavirus. Si tratta di due persone tra cui - spiegano le autorità locali - una che ha viaggiato in Italia.
Lorenzo Briotti per "blitzquotidiano.it" il 3 marzo 2020. In Iran fedeli musulmani leccano e baciano le superfici del santuario di Hazrat-é Masumeh nella città iraniana di Qom, sfidando così quanto imposto da Governo per fronteggiare l’epidemia di coronavirus che nel Paese stando agli ultimi dati ufficiali, avrebbe contagiato 1500 persone provocando la morte di 66 persone, il dato più alto al di fuori della Cina. I leader religiosi, a quanto pare rifiutano i consigli del Ministero della Sanità di chiudere i luoghi sacri dove ogni giorno si recano migliaia di persone, per frenare in questo modo la diffusione dell’infezione. Le superfici dei santuari che si trovano in queste città vengono leccati e baciati dai fedeli perché considerati come dei “luoghi di guarigione”. Come mostra il video ripreso e diffuso anche dal Daily Mail, un cittadino ha voluto sfidare gli avvertimenti e si è filmato mentre lecca deliberatamente il santuario sciita della città di Mashhad, per poi postare il video sul web. L’uomo è stato arrestato dalle autorità lo scorso 29 febbraio. La sua identità resta sconosciuta. Si è difeso dicendo che il coronavirus, all’interno del santuari sciiti non abbia effetto. Come lui sono in tanti a credere che il virus in quei luoghi non colpisce. La maggior parte dei contagi in Iran è concentrata nella città di Qom: qui, a leccare e baciare i santuari sono stati sorpresi anche dei bambini.
(ANSA il 3 marzo 2020) - Una festa con 150 persone, organizzata venerdì sera in un locale nonostante all'ordinanza del ministero della Salute che vieta eventi di questo tipo per la prevenzione del contagio da Coronavirus. È successo a Lavino di Mezzo, nel Bolognese, dove i carabinieri hanno denunciato per inosservanza di un provvedimento dell'autorità il titolare 39enne di un bar-ristorante. I Carabinieri della stazione di Anzola Emilia hanno scoperto che c'era stata la festa a tema latinoamericano dalla pagina Facebook del locale, dove sono stati pubblicati foto e video dell'evento, ampiamente pubblicizzato sulla stessa pagina. Sorpreso dai carabinieri a servire bevande al bancone e non ai tavolini, come disposto dall'ordinanza di Regione Lombardia che mira a ridurre al minimo i contatti per limitare la diffusione del Coronavirus, un barista di Rivolta d'Adda, in provincia di Cremona, è stato sanzionato e denunciato a piede libero. L'uomo è accusato di non aver osservato le disposizioni sui locali pubblici e di aver violato l'ordinanza regionale che vieta fra altro gli assembramenti dopo le 18 e, nello specifico caso dei bar, punta a contrastare lo sviluppo del contagio evitando contatti ravvicinati fra i clienti. L'equipaggio dei carabinieri che ha eseguito la verifica era impegnato in un servizio di controllo dedicato. Il reato ipotizzato prevede come pena massima in caso di condanna il carcere fino a tre mesi.
Alessandro Gonzato per “Libero quotidiano” il 3 marzo 2020. C'è sanificazione e sanificazione. Quella da Coronavirus, all' ospedale veronese di Borgo Trento, è in atto già da qualche giorno. Quella della fontana al centro del grande atrio del Polo Confortini, invece, ieri è stata un inedito. Non perché la vasca d' acqua non venga regolarmente disinfettata, no di certo, ma perché nessuno prima d' ora aveva pensato di utilizzarla come una latrina, e dunque la procedura di igienizzazione stavolta è stata differente. Veniamo (purtroppo) ai fatti. È accaduto che un ragazzone di colore, una «risorsa» come lo definirebbe qualche noto esponente progressista, probabilmente attirato dalla pulizia e dalla lucentezza del bordo in marmo della fontana vi si è seduto sopra, si è calato le brache, e come nulla fosse vi ha defecato dentro. Orrore, schifo, raccapriccio: ma come diavolo è possibile! Di questi tempi lo è. È successo in pieno giorno sotto lo sguardo attonito di medici, infermieri e pazienti. L' incivile immigrato non ha nemmeno tentato di farla di nascosto. Non è stato vittima di un incontenibile attacco di dissenteria, come gli improvvidi turisti che nei Paesi esotici bevono l' acqua del rubinetto e subito dopo accusano movimenti tellurici allo stomaco. L' africano era tranquillo, si è preso tutto il tempo del mondo, si è accomodato come nel bagno di casa e una volta terminato lo scempio si è rivestito e si è avviato fischiettando all' uscita. L'esibizione è stata fotografata e gli scatti hanno cominciato immediatamente a fare il giro dei social. Non poteva che andare così. Sono volati commenti di sdegno e qualcuno si è lasciato andare al turpiloquio, che non è elegante ma in casi simili è più che comprensibile. C' è stato anche chi si è chiesto se anziché immortalarlo con lo smartphone non fosse il caso di fermarlo, ma in tempi in cui terrorizzano persino le goccioline di saliva e nei bar bisogna stare a un metro di distanza gli uni dagli altri l'operazione andava oltre ogni protocollo di sicurezza. Altri ancora hanno ironizzato sul fatto che proprio in queste ore l'azienda ospedaliera veronese (con merito) è stata inserita dall' autorevole Newsweek tra le migliori al mondo. Chiedersi cosa ne è stato dell' africano incontinente è inutile: l' uomo è stato accompagnato alla porta e tanti saluti. D' altronde, gli fosse stata comminata una multa di cinquemila euro come allo sfigatissimo universitario beccato a La Spezia col piffero al vento mentre orinava in un vicolo, i vigili avrebbero solo sprecato carta. Che in questo caso, semmai, sarebbe servita ad altro.
Da "ilposticipo.it" il 3 marzo 2020. Ai tempi del Coronavirus meglio prendere accorgimenti per evitare che le nostre tradizioni non vengano perse per strada. Sta prendendo piede (in tutti i sensi!) un nuovo modo di salutarsi che questa volta vede protagonisti gli arti inferiori: d’ora in avanti niente strette di mano, rimpiazzate con un colpetto di piede a vicenda e tanti saluti. La gente ha accolto con entusiasmo questa nuova moda e lo ha ribadito sui social: “Non è una cattiva idea cominciare a praticare un modo di salutarsi più igienico”. Qualcuno ha ironizzato sul nuovo saluto che arriva dall’Asia: “Scherzerà, ma non è poi così male. Potremmo anche prenderci il lusso di fare un piccolo salto tra un saluto col piede e l’altro. Anche l’esercizio fisico serve”. La moda ha riscosso nel complesso un grande successo: “Mi piace il nuovo modo di salutarsi”. Resta da capire se sbarcherà anche nel mondo del pallone. Del resto per i calciatori usare i piedi non è una grossa novità. Né dovrebbe essere particolarmente difficoltoso. Da "leggo.it" il 3 marzo 2020. Il caso di contagio di coronavirus a Pomezia, il poliziotto risultato positivo ai test insieme a tutta la sua famiglia, con la sospensione delle lezioni sia al liceo frequentato dal figlio sia per quanto riguarda il corso all'università La Sapienza frequentata dalla figlia, potrebbe essere collegato ad un concerto tenutosi al Forum di Assago, a Milano. Lo scrive sui social l'Assessorato alla Sanità e all'integrazione socio sanitaria della Regione Lazio. L'indagine epidemiologica effettuata sui casi di Pomezia, collegati all'agente di polizia ricoverato allo Spallanzani, «evidenzia un link epidemiologico con l'evento del 14 Febbraio al Forum di Assago. La sequenza temporale dell'esordio dei sintomi e l'analisi sierologica depongono per contatto non autoctono ma derivante dalla Lombardia», scrive l'assessorato. «Il contact racing nel quale vengono riportati nel dettaglio contatti, trasporti e soggiorni è stato immediatamente messo a disposizione del ministero della Salute, come da protocollo», conclude la nota.
Vittorio Macioce per “il Giornale” il 2 marzo 2020. A un metro dal tuo prossimo, una distanza da misurare a occhio, allargando le braccia, come se quello fosse il tuo spazio di sopravvivenza, il tuo respiro. È la distanza di sicurezza, definita per decreto, per resistere al virus. È la soglia del contagio. Tieni il tuo prossimo lontano da te. Non importa chi sia e neppure se non starnutisce. La prima regola è che non ti puoi fidare di nessuno. Vale ovunque, ma soprattutto nei luoghi dove l' altro è di passaggio, sconosciuto, sprovveduto, in balia del destino e rassegnato, esattamente come te. Il metro come confine della paura. Il metro è legge. È un decreto del presidente del Consiglio dei ministri. È in vigore dalla mezzanotte. No, non in tutta Italia. Vale in Emilia-Romagna, Veneto, Lombardia, in provincia di Savona e di Pesaro-Urbino. Nei locali aperti al pubblico ci dev' essere un vuoto tra te e l' altro. Non si chiudono i musei. Restano aperti i luoghi della cultura. Sono simboli. È un modo per dire al mondo: qui tutto è normale. Vieni, vivi, inebriati di bellezza. L' ultima cena ti aspetta e non fa nulla se sui social da giorni gira una foto dove Gesù e gli apostoli sono andati via. È per sdrammatizzare e funziona. Niente paura. Presto, venite stranieri e aggiungi un posto a tavola. Solo che si entra con il numeretto. Uno alla volta. Finalmente soli davanti al Cenacolo, sopraffatti dalla sindrome di Stendhal. C è da svenire. È più difficile al bar. Cornetto e cappuccino per favore. Si fa colazione con i gomiti larghi. Come si calcola un metro a occhio? E calma, pazienza, non bisogna lasciarsi innervosire da quelli che per bere un caffè ci mettono una settimana, girano lenti il cucchiaino nella tazzina e sorseggiano all' infinito, come se in quell' acqua scura ci fosse la cicuta. Niente tagliafuori. Niente espresso. La colazione si fa a casa. A un metro di distanza da tua moglie. La vita al tempo del contagio non ha baci e non ha abbracci. È come nel romanzo di Rachael Lippincott: A un metro da te. C' è anche un film uscito in sala un anno fa. È una storia d' amore, un amore a distanza di sicurezza, perché se hai la fibrosi cistica non ti puoi neppure sfiorare. Ecco, bisogna imparare a vivere senza toccarsi. Per legge e, a quanto pare, per non ammalarsi. O a fregarsene di queste grida manzoniane. Ama il prossimo tuo, un metro è solo la distanza della paura.
· Epidemia e Privacy.
Coronavirus: le Faq del Garante della Privacy su scuola, sanità e lavoro. Le indicazioni per le pubbliche amministrazioni e le imprese private pubblicate sul sito dell'Autorità che tutela i dati personali dei cittadini. E interessano anche il lavoratore. La Repubblica il 04 maggio 2020. Sono indicazioni destinate alle pubbliche amministrazioni e alle imprese private. Ma interessano anche i lavoratori, naturalmente. E allora: il datore di lavoro può rilevare la temperatura corporea di dipendenti, fornitori, clienti all'ingresso della propria sede? E può rendere nota l'identità di un lavoratore contagiato ai colleghi? La scuola può comunicare alle famiglie degli alunni l'identità dei parenti di studenti risultati positivi al Covid-19? Sono queste alcune delle domande cui rispondono le Faq messe a punto dal Garante per la protezione dei dati personali sulle problematiche connesse all'emergenza coronavirus in vari ambiti: sanità, lavoro, scuola, ricerca, enti locali, disponibili da oggi sul sito dell'Autorità. I documenti sono stati messi a punto per chiarire dubbi e fornire indicazioni per un corretto trattamento dei dati personali da parte di pubbliche amministrazioni e imprese private. Le Faq contengono indicazioni di carattere generale ispirate alle risposte fornite e a reclami, segnalazioni, quesiti ricevuti dall'Ufficio in questo periodo. Gli enti locali possono pubblicare i dati dei destinatari dei benefici economici? Le aziende sanitarie, le prefetture, i comuni possono diffondere, attraverso siti web o altri canali, i nominativi dei casi accertati di Covid-19 o dei soggetti sottoposti alla misura dell'isolamento? Il Garante ha chiarito, in particolare, il ruolo che anche nell'attuale emergenza sanitaria deve essere svolto dal medico competente nel contesto lavorativo pubblico e privato, e ha inoltre specificato che il datore di lavoro non deve comunicare i nominativi dei contagiati al rappresentate dei lavoratori per la sicurezza. Per quanto riguarda la scuola, l'istituto è tenuto a fornire alle istituzioni competenti le informazioni necessarie, affinché possano ricostruire la filiera delle persone entrate in contatto con una persona contagiata, ma spetta alle autorità sanitarie competenti informare i contatti del contagiato, al fine di attivare le misure di profilassi. Riguardo alle strutture sanitarie, queste possono individuare le modalità che ritengono più opportune ed efficaci per fornire informazioni, sullo stato di salute, ai familiari dei pazienti Covid-19 che non sono in grado di comunicare autonomamente. La struttura di ricovero può, quindi, ad esempio, dedicare un numero verde per fornire tali informazioni, purché preveda adeguate misure per identificare le persone effettivamente legittimate a conoscere le informazioni sullo stato di salute del familiare ricoverato. L'Autorità, poi, ha ribadito che aziende sanitarie, prefetture, comuni e qualsiasi altro soggetto pubblico o privato non possono diffondere, attraverso siti web o altri canali, i nominativi delle persone contagiate dal Covid-19 o di chi è stato posto in isolamento, anche qualora la finalità sia quella di contenere la diffusione dell'epidemia. Il Garante ha, infine, fornito specifici chiarimenti in ordine alle semplificazioni introdotte dalla normativa emergenziale per il trattamento di dati personali nell'ambito delle sperimentazioni cliniche dei farmaci per l'emergenza epidemiologica da Covid-19 e delle ricerche mediche svolte dagli Istituti di ricovero e cura a carattere scientifico (Ircss) finanziate dal ministero della Salute.
Paolo Russo per “la Stampa” il 25 marzo 2020. Prima di rispondere alle domande sui rischi sottesi all' utilizzo di App che traccino i nostri movimenti per fermare l' epidemia, il Garante della privacy, Antonello Soro ci tiene a mettere alcuni punti sulle i. «Ho letto interviste sprezzanti in merito al diritto alla privacy. Abbiamo detto mille volte che quel diritto, anche nella sua declinazione digitale di protezione dei dati, soggiace a delle limitazioni a fronte di un interesse collettivo, a maggior ragione in questa fase drammatica. L' equilibrio tra diritti individuali e della collettività è sancito dalla Costituzione». «Però - aggiunge - le deroghe non devono diventare un punto di non ritorno».
Ma non c' è comunque il rischio che un Grande Fratello finisca per controllare ogni nostro movimento?
«Sento parlare molto di modello coreano. Se significa definizione di un protocollo di tracciamento precoce dei positivi e delle persone che sono venute a contatto con loro, oltre che un controllo sul rispetto della quarantena, non avrei obiezioni. Purché a questo seguano poi test mirati, ma diffusi su tutti coloro che sono stati esposti a rischio di contagio e si garantiscano al contempo le adeguate protezioni al personale sanitario. Ma serve un governo unitario delle operazioni. Non è il momento delle improvvisazioni».
A chi si riferisce?
«Alle iniziative estemporanee di alcuni Comuni e Regioni dove si ipotizzano esperimenti scoordinati e incontrollati, che possono generare confusione ».
A chi spetterebbe la regia e la gestione dei dati?
«Potrebbe essere la Protezione civile affiancata da un team di esperti. Ma spetterà al governo decidere. L' importante è che la regia sia unica e che competa a una autorità pubblica, dotata delle giuste competenze necessarie ad analizzare e utilizzare al meglio i dati. Anche per gestire la successiva fase dei test mirati».
Si parla anche di un coinvolgimento di big player con Google e Facebook, che in passato hanno utilizzato in modo un po' spregiudicato queste informazioni.
«Dipende dal ruolo che avranno. Un conto è consentire al regista pubblico di utilizzare le loro piattaforme per raccogliere informazioni secondo procedure e norme di garanzia ben definite. Un altro è offrire loro un' altra occasione per raccogliere dati sensibili. In tal caso andremmo proprio nella direzione sbagliata».
Chi ci assicura che queste deroghe al diritto alla privacy cessino finita l' emergenza?
«La scadenza deve essere definita in partenza e dovrà coincidere con la fine dello stato di emergenza proclamato dal governo a febbraio. Spetterà all' Autorità garante il compito di vigilare e quando necessario irrogare sanzioni. Che possono arrivare al 4% del fatturato. So che molti dicono "ma tanto già oggi le grandi piattaforme utilizzano come vogliono i nostri dati". Credo che la spinta dell' emergenza aiuterà a individuare, anche a livello internazionale, forme più efficaci di regolazione contro lo strapotere dei big player del web».
Le informazioni raccolte serviranno anche a offrire servizi di assistenza e telemedicina a chi è in quarantena. Chi garantisce che dati sensibili sulla nostra salute non vengano poi utilizzati per altro?
«Conta sempre chi deve raccoglierli e poi utilizzarli. Se spetta a una autorità pubblica trasparente va bene. Se vengono affidati a una gestione casuale, magari per diffonderli in Rete no. Ci sono alcuni consiglieri comunali che hanno messo on line nome e cognome dei contagiati creando discriminazioni inaccettabili».
In conclusione è così difficile in momenti come questi far convivere due diritti come quello alla salute e alla privacy?
«No, se rispettiamo un principio fondamentale della democrazia, la proporzionalità. Che è garantito quando un sistema anche invasivo è comunque finalizzato all' interesse generale di tutela della salute. Purché la raccolta di informazioni non ecceda rispetto alle necessità e avvenga dentro un processo ben normato, controllato e soprattutto a termine».
Se la privacy cozza con la prevenzione. Francesco Maria Del Vigo, Domenica 23/02/2020 su Il Giornale. No, non sono giorni nei quali possiamo permetterci di baloccarci con i sofismi della privacy. Sono giorni di paura, di un'ansia che spesso tracima in paranoia. Nei quali ognuno di noi cerca di ricostruire, nei limiti del possibile, quello che ha fatto, i luoghi che ha frequentato, le persone che ha incontrato. Ma è un esercizio del tutto inutile, perché ci manca un tassello, uno strumento fondamentale: le generalità, il nome di chi è stato infettato. «È una questione di privacy», rispondono in coro gli addetti ai lavori. Risposta di prammatica, ma la prammatica fa a botte con l'unicità della situazione. Tra l'omertà assoluta e la caccia all'untore, esiste una via di mezzo, e spesso è proprio la prima a scatenare la seconda. Siamo sicuri che di fronte a una pandemia, un'emergenza globale, un virus invisibile che si propaga ovunque, si possano ancora utilizzare gli stessi standard di privacy che pratichiamo in situazioni non emergenziali? Perché io posso mettere in atto tutte le precauzioni che medici, scienziati ed epidemiologi mi suggeriscono, ma se non so il nome e il cognome di chi è affetto dal coronavirus, non solo rischio di fare del male a me stesso, ma posso essere un portatore sano della malattia e contagiare a mia volta le persone che mi stanno vicino. Col risultato che, per proteggere la privacy di una persona, mettiamo a rischio la salute di centinaia di altre. Perché, se non sappiamo esattamente chi è stato colpito dal Covid19, vediamo tutti come potenziali malati, aumentiamo il clima di sospetto e di paura. Ed è proprio questo muro di opacità che genera isterie collettive: mascherine introvabili, genitori che si rifiutano di mandare i figli a scuola, ristoranti cinesi con le saracinesche abbassate e treni e aerei semivuoti. In un'era in cui social network e operatori digitali sanno tutto delle nostre vite e delle nostre abitudini, il rispetto della privacy è sacrosanto. Ma quando si ha a che fare con un pericolo sanitario mondiale è doveroso fare una deroga, adottare misure straordinarie e non rimanere impantanati nella palude delle regole ordinarie. La capacità più importante, per un pubblico amministratore, è sapere gestire velocemente le situazioni di emergenza, se necessario venendo meno ad alcune regole. Altrimenti la privacy rischia di essere un potente alleato del virus. E non ne abbiamo bisogno.
Dagospia il 4 marzo 2020. Riceviamo e pubblichiamo: Caro Dago, tramite email, ho ricevuto dal sindaco del comune dove vivo la notizia della positività al corona virus di un nostro concittadino. Nella lettera veniva specificato di non telefonare in comune “per avere informazioni sulle generalità di questa persona poichè non solo ATS non le ha comunicate, ma, anche se fosse, nel rispetto delle norme sulla privacy e soprattutto della persona in questione , non verrebbero divulgate.” Come ben sappiamo, l’Italia è il paese dei diritti mentre i doveri sono in genere dimenticati. Ma cosa succede quando, come in questo caso, i diritti, quello alla privacy da un lato e quello ad essere informati ed alla propria salute, sono in contrasto fra di loro ? Se non sono informato come posso tutelare la mia salute? Chi e in base a quali considerazioni decide che il diritto alla privacy sia superiore a quello della salute per cui si preferisce correre il rischio che qualcuno sia contagiato piuttosto che comunicare il nome di chi ha contratto il coronavirus? Pietro Volpi
Si possono rivelare i nomi dei contagiati? Si può rivelare l’identità delle persone contagiate? Ecco che cosa prevede la normativa sui dati personali e come comportarsi. Carlo Melzi d'Eril e Giulio Enea Vigevani su ilsole24ore.com il 4 marzo 2020. I tempi di coronavirus sono tempi difficili per la protezione dei dati personali. Le esigenze di sanità e sicurezza tendono a travolgere gli argini dei diritti individuali e a sacrificare ogni libertà per un bene superiore. Così, si stanno diffondendo forme di controllo della salute dei singoli e di trattamento dei dati fuori da ogni regola e, sempre al fine di limitare il contagio, si alzano voci che reclamano la pubblicazione dei nomi delle persone infette, degli “untori”. È evidente che un’emergenza può condurre a una limitazione di diritti, ce ne rendiamo conto quotidianamente in queste settimane. Ma non può portare a una cancellazione, a una violazione sistematica. Dunque, quali informazioni sanitarie possono essere trattate? Da chi e per quali scopi? Quali garanzie restano alla riservatezza di chi è anche solo sospettato di aver contratto il virus? Sono domande che in molti si stanno ponendo e che non sempre trovano risposte univoche o convincenti. Il Garante si è già espresso su un paio di punti: ha dato una sorta di “via libera” per la comunicazione dei dati alla (e dalla) protezione civile per la realizzazione delle attività tipiche del servizio. Ancora: è di pochi giorni fa un intervento dell’Autorità – di cui si è occupato Il Sole 24 Ore – che ammonisce privati e pubblica amministrazione a non effettuare controlli generalizzati sulla salute di utenti e lavoratori, non previsti dalla legge o non disposti dagli organi istituzionali, e di attenersi invece scrupolosamente alle indicazioni fornite dal Ministero della salute e dalle autorità competenti. Ma vi è soprattutto una domanda che serpeggia da giorni, forse da settimane, in tutte le redazioni di giornali e telegiornali e che dovrebbero porsi anche tutti coloro – sono ormai milioni – che utilizzano social network “aperti”: si può rivelare l’identità delle persone contagiate e comunque diffondere informazioni che le rendano riconoscibili? La risposta ci pare tendenzialmente negativa. Partiamo dalla normativa: a scopi informativi, possono essere diffusi tutti i dati personali veri ed essenziali per comprendere una notizia di interesse pubblico, anche senza il consenso dell’interessato. Una disposizione di dettaglio, poi, però, vieta la divulgazione di dati analitici di interesse strettamente clinico, salvo che la persona non rivesta una posizione di particolare rilevanza politica o sociale e, comunque, anche un’eventuale diffusione deve rispettare la dignità della persona. In sostanza, è divulgabile il generico stato di malattia di una persona, nonché la sua presenza in ospedale qualora siano di interesse pubblico, ma non lo sono i particolari riguardo alle patologie contratte. La casistica ci dice che si può accennare pure a quest’ultimo profilo se il tema è strettamente legato al fatto di cronaca, altrimenti bisogna lasciarlo coperto dal riserbo. Un paio di casi, già decisi dal Garante in passato, possono offrire qualche spunto: nel 2002 l’Autorità ha vietato il trattamento dei dati di una persona affetta dalla malattia di Creutzfeld – Jacob (il cosiddetto “morbo della mucca pazza”) da parte dei mezzi di informazione, in quanto la pubblicazione di una notizia di interesse generale, come la presenza nello Stato di contagiati dalla malattia in questione, non rende necessario alcun riferimento specifico all’interessato, sicché riferire particolari che rendano il soggetto riconoscibile, nonché notizie sui congiunti dell’interessato e altre persone estranee è contrario al principio di essenzialità dell’informazione. Ancora, nel 1999, sempre il Garante ha sottolineato che anche per finalità di “salute pubblica” la diffusione di dati relativi alla salute di una prostituta affetta da Aids deve essere effettuata con tutte le cautele necessarie, affinché vengano allertate le persone che hanno avuto contatti con la medesima, senza per questo che essa sia identificabile da tutti. Da questi due “precedenti” si comprende subito come nei casi complessi, come è quello con cui abbiamo a che fare, la soluzione non è mai né semplice né una sola. Qui si tratta di confrontare il bene della salute pubblica, messa in pericolo da un’epidemia, che sarebbe contenuta da informazioni precise sui contagi conclamati, ma anche su quelli possibili, con il diritto alla riservatezza delle persone malate, gravemente danneggiato da una (sovra)esposizione sui mezzi di informazione, soprattutto in periodi come questo nei quali assistiamo a fenomeni di isteria collettiva che rischiano di sfociare in condotte ghettizzanti o peggio violente. Una risposta potrebbe essere quella di consentire la diffusione di dati che consentano di identificare chi si è ammalato, solo se per il suo ruolo pubblico o professionale ha contatti con molte persone, senza però rendere nota esplicitamente l’identità anagrafica. Da un lato, l’identificabilità consentirebbe alla cerchia di chi è venuto in contatto con il contagiato di assumere adeguate precauzioni e condotte volte a proteggere sé e gli altri in questo periodo di emergenza. Dall’altro, la mancata pubblicazione della identità precisa limita la curiosità morbosa e la discriminazione e soprattutto evita che il ricordo della malattia sia eternato, attraverso quella miniera di dati inobliabili che è la rete. Nei casi complessi, come è quello con cui abbiamo a che fare, la soluzione non è mai né semplice né una sola. Ma confessiamo candidamente di non sapere se questa è davvero la risposta più corretta, in una situazione così difficile e nell’intreccio di tanti interessi confliggenti. Quando ce lo chiediamo, ci sentiamo come Nanni Moretti che in Aprile così malinconicamente parlava tra sé e sé: «Comunque io - con questo documentario - io voglio dire quello che penso […] E come si fa in un documentario? E soprattutto: cosa penso?»
La Vita in Diretta a Cusano Mutri, il Garante “striglia” Maturo. Domenico Russo su anteprima24.it il 4 Marzo 2020. Dopo le Iene, anche “La Vita in Diretta” si è recata nel comune matesino per ascoltare il sindaco Giuseppe Maria Maturo. La questione è quella ormai arcinota: la divulgazione di dati sensibili di un ragazzo positivo al Covid-19. Maturo ha ribadito la sua posizione: “Il mio intento non era assolutamente quello di mettere alla gogna il ragazzo. Ho pubblicato il documento, ricevuto non per vie ufficiali, al solo scopo di comunicare gli spostamenti effettuati dal ragazzo e pertanto tutelare la salute pubblica. Ovviamente ho commesso una leggerezza nel non accorgermi che sul documento c’era il nome del ragazzo”. Sulla vicenda è intervenuto il Garante per la Privacy Antonello Soro, il quale ha sottolineato che non vanno mai diffusi i nomi di persone affette da patologie. Per Soro, il sindaco avrebbe potuto “dire che si trattava di persona giovane e di sesso maschile, in modo che tutti potessero prendere le precauzioni del caso”.
Coronavirus, è giusto pubblicare i nomi dei malati? Il caso di Cusano Mutri. Le Iene News il 4 marzo 2020. Il sindaco di Cusano Mutri (Benevento) ha pubblicato su Facebook il nome di un possibile contagiato da coronavirus di un comune vicino. Sui social è scoppiata la polemica per il mancato rispetto della privacy e per il clima da caccia all’untore. Matteo Viviani è andato a parlare con questo sindaco: “Non era mia intenzione causargli problemi”. L’uomo che vedete nel servizio di Matteo Viviani si chiama Giuseppe Maria Maturo ed è il sindaco di Cusano Mutri, in provincia di Benevento. Pochi giorni fa ha fatto scoppiare un caso nazionale: Maturo ha infatti pubblicato su Facebook un documento dell’Asl in cui era indicato nome e cognome di un contagiato da coronavirus. La storia è questa: un giovane, dopo essere passato da Brescia e Milano, torna a casa insieme a una giovane amica di Caserta che qualche giorno dopo viene trovata positiva al coronavirus. Le autorità sanitarie allora ricostruiscono i suoi spostamenti e risalgono al ragazzo che viaggiava con lei, subito posto in quarantena domiciliare anche se asintomatico. A creargli problemi però non è la quarantena, ma il sindaco di Cusano Mutri, che non è nemmeno il sindaco del suo comune, ma di uno limitrofo. Giuseppe Maturo infatti pubblica su Facebook un documento dell’Asl, con in bella vista nome e cognome del ragazzo, invitando chi avesse avuto qualche tipo di contatto a mettersi in quarantena e contattare le autorità. La pubblicazione dei dati del ragazzo ovviamente genera un polverone, tra chi difende la scelta del sindaco e chi lo accusa di aver violato la privacy. Ma era proprio necessario in questo clima di terrore per il coronavirus mettere alla pubblica gogna una persona solo perché ha contratto una malattia? Matteo Viviani per vederci chiaro è andato direttamente a Cusano Mutri a parlare col sindaco Maturo. “Ho ricevuto il documento su Whatsapp e l’ho pubblicato direttamente, senza accorgermi del nome e cognome. L’ho pubblicato senza averlo letto”, dice alla Iena. “Ha commesso una leggerezza perché avrebbe dovuto rispettare la quarantena”, dice il sindaco a Matteo Viviani. Ma il ragazzo non veniva da una zona rossa, era solo transitato per Milano! “Avrebbe potuto quantomeno evitare dei luoghi molto frequentati”, corregge il tiro. Ma torniamo al documento: secondo quanto sappiamo, il ragazzo ha saputo di essere stato a contatto diretto con una contagiata solo dopo aver compiuto una serie di viaggi. “La leggerezza sta nel fatto di essersene andato un po’ troppo in giro”, insiste il sindaco. Il ragazzo ha pubblicato su Youtube un video in cui racconta la sua situazione: nonostante il contagio, non ha praticamente sintomi. Solo una leggera febbricola. Non risponde alle polemiche sulle privacy ma ci tiene solo a tranquillizzare i suoi concittadini. Il sindaco però non si è fermato qui: in un audio su Whatsapp esprime parole molto pesanti sul ragazzo contagiato, come potete sentire nel servizio qui sopra. “Ho fatto una cazzata dettata dalla concitazione del momento”, dice. “Mi dispiace per aver pubblicato il documento con il nome. Non era mia intenzione causare problemi, auguro al ragazzo di guarire al più presto”.
Coronavirus. Il Sindaco di Cusano Mutri Maturo: “Rendendo noto il nome del ragazzo di Guardia non ho fatto sciacallaggio”. Tvsette.net il 2 Marzo 2020. Credo sia opportuno un doveroso chiarimento relativamente alla nota vicenda del documento pubblicato su questo profilo Facebook. Così scrive il Sindaco di Cusano Mutri Giuseppe Maria Maturo sulla propria pagina FB. Voglio partire da un punto fondamentale: il sottoscritto, per indole e costume, non ama nascondersi dietro un dito ed è sempre pronto ad assumersi fino in fondo le proprie responsabilità. Lo farò anche in questo caso. Innanzitutto mi preme precisare che non ho assolutamente reso pubblico un documento ricevuto in via riservata dalle autorità sanitarie provinciali nella mia qualità di sindaco; inoltre non ho ricevuto tale documento in via riservata da altre autorità o da altre persone che ne erano a conoscenza. Sono entrato in possesso di questo documento perché – lo stesso – è stato ampiamente diffuso e pubblicato su diversi gruppi “whatsapp”, a loro volta contenenti diverse centinaia di persone. In sostanza, prima che fosse da me pubblicato, tale documento aveva già fatto il giro dell’intera Regione. Contestualmente il documento era stato già ampiamente diffuso sui più popolari social network. Cosciente ed estremamente preoccupato per la serietà della situazione (che forse ancora in tanti non riescono a comprendere) ho deciso di pubblicarlo anch’io. Sotto l’impeto della preoccupazione ed ansioso di dare comunicazione utile nel più breve tempo possibile, non mi sono neanche accorto che ci fosse il nome del ragazzo in questione. Infatti, nel mio post, ho scritto testualmente: “questo sono i luoghi dove è stato IL RAGAZZO di Guardia”. Ciò certifica il fatto che non mi ero accorto che sul documento ci fosse il nome e il cognome del ragazzo (tra l’altro senza ulteriori dati identificativi). Del resto era già risaputo in tutta la Valle Telesina che c’era un ragazzo di Guardia che era stato contagiato dal virus. Il senso della pubblicazione stava nel fatto che in tale documento si rendevano noti tutti gli spostamenti effettuati dal ragazzo e, nelle mie intenzioni, rendere noto tali spostamenti aveva come unico scopo quello di tutelare la salute pubblica. Per darvi contezza della serietà della situazione e della preoccupazione che si trova ad affrontare chi in questo momento vive con la consapevolezza di dover operare scelte difficili, voglio rammentare che fino ad una settimana fa in Italia il virus era presente solo in 3 pazienti ricoverati allo Spallanzani e – la notizia che il virus fosse “approdato” anche in Valle Telesina a distanza di pochi giorni dall’inizio dell’emergenza – ha esponenzialmente elevato il mio stato di preoccupazione. In questo momento la nostra unica arma a disposizione per combattere il virus è quella di limitare il contagio: ecco perché mi sono precipitato a pubblicare quel documento. Ripeto: il mio intento è stato solo quello di tutelare la salute pubblica e di certo non quello di mettere alla gogna il ragazzo. Chi mi conosce sa bene quanto tutto ciò sia sideralmente lontano dal mio modo d’essere. Sono estremamente dispiaciuto per il ragazzo, e questo sentire – alleggerita la pressione del momento – è rafforzato dalla lucidità e dalla razionalità che non lasciano spazio a dichiarazioni o intendimenti che sono lontani anni luce da me. Di sicuro il giovane di Guardia ha commesso una leggerezza, ma sono altrettanto certo che egli sia consapevole di ciò. In questo momento la cosa più importante è una sua presta e pronta guarigione. A questo proposito lasciatemi fare un grande ringraziamento a tutti i miei concittadini che, provenienti da zone che già avevano visto la presenza del virus, hanno agito con pieno senso civico ed hanno deciso di mettersi in quarantena volontaria rispettando alla lettera le indicazioni delle Istituzioni. Il senso civico ed il rispetto delle disposizioni rappresentano, in questo momento, la più grande protezione di cui possiamo dotarci. Su questa bacheca ho letto diverse centinaia di commenti. Com’era logico attendersi ci sono state posizioni diverse. Ringrazio tutti coloro che hanno compreso le mie intenzioni, che erano quelle di tutelare la salute pubblica ed in alcun modo di ledere il ragazzo, e condanno fermamente tutti coloro che hanno manifestato imbecillità ed aggressività nei loro commenti. Tra chi ha alzato i toni, mi sento di “comprendere” coloro che erano veramente preoccupati per la salute propria e dei propri cari e amici e parenti del ragazzo. L’augurio è che la situazione nei nostri territori resti sotto controllo, ed in questo senso le prime notizie sembrano buone. La speranza è che presto si torni alla serenità e che questa vicenda serva, a tutti, a comprendere l’importanza delle misure di sicurezza. Da ultimo voglio lanciare un grande messaggio di solidarietà al sindaco di Guardia Sanframondi Floriano Panza. So che sta vivendo un momento non facile, ma lo conosco come uomo capace, caparbio e determinato. Sono certo che saprà gestire questa vicenda nel migliore dei modi possibili, come del resto già sta facendo. I popoli di Cusano Mutri e Guardia Sanframondi sono uniti da uno storico legame di amicizia. Le nostre comunità portano il marchio della laboriosità, dell’unità e della mutua solidarietà. Sono certo che insieme supereremo questo momento difficile. Mettiamo la parola fine ad ogni polemica e lavoriamo uniti. Così come il nostro spirito Sannita c’impone!
Coronavirus, se l'ASL Taranto si affida a Google Moduli....Giacomo Dotta su Il Corriere del Giorno il 27 Febbraio 2020. Articolo tratto dal sito Punto-Informatico.it. Ecco la storia di come la redazione del noto sito punto-informatico.it ha fatto eliminare un form online che avrebbe potuto dar adito a truffe cavalcando l’onda del Coronavirus. Al di là di fretta e pragmatismo, insomma, perché la privacy è un bene da proteggere anche ai tempi del Coronavirus. L’emergenza Coronavirus sta mettendo alla prova l’Italia sotto molti aspetti e non è certo un caso se nelle ultime ore le tensioni tra Stato e Regioni son venute a moltiplicarsi: l’improvvisazione di qualcuno, il protagonismo di altri, la fragilità dei protocolli e un sistema evidentemente non ben coordinato per poter affrontare una situazione simile, hanno dato luogo ad una grande frammentazione di azioni mal coordinate tra di loro. In alcuni casi, però, l’interventismo potrebbe aggiungere problemi ulteriori a quelli che in parte già ci sono. Il caso è ad esempio quello di una Azienda Sanitaria Locale pugliese, quella di Taranto dove per raccogliere informazioni sui cittadini si è affidato il tutto ad un modulo su Google Moduli. Leggete questa storia, c’è molto da imparare sul fatto che la fretta sia cattiva consigliera e la rigidità dei protocolli sia invece una guida utile soprattutto in casi di emergenza.
Quella raccolta dati su Google Moduli. Affidarsi a Google Moduli in caso di emergenza assoluta potrebbe essere una scelta pragmatica, ma si sta parlando in questo caso della Puglia, ossia di una regione che al momento non registrava alcun caso positivo al Coronavirus: di emergenza, insomma, sicuramente non si può parlare. Semmai di situazione seria, con la premura di agire per evitare il contagio, ma anche con le necessarie cautele onde evitare problemi collaterali. Con lecite finalità preventive tali da omologare il comportamento della Regione a quello delle altre, il governatore Emiliano ha emesso una serie di misure precauzionali (Pdf) tra le quali si può leggere: “…] gli individui che dal 1 febbraio 2020 sono transitati ed hanno sostato nei comuni di cui all’allegato 1 [zone colpite da Coronavirus] sono obbligati a comunicare tale circostanza al Dipartimento di prevenzione dell’azienda sanitaria competente per territorio, ai fini dell’adozione, da parte dell’autorità sanitaria competente, di ogni misura necessaria, ivi compresa la permanenza domiciliare fiduciaria con sorveglianza attiva”.
Ogni ASL è dunque deputata alla raccolta dei dati così come da indicazioni regionali, ma non vengono indicate modalità operative specifiche. Così come la maggior parte delle ASL si limita a riportare i dettami regionali, la sola ASL di Taranto tenta di farsi proattiva e porta online un vero e proprio modulo da compilare. Il problema sta nelle modalità. “Il Dipartimento di Prevenzione ASL Taranto rende disponibile un form di compilazione online per rendere più agevole il censimento dei cittadini rientrati dalle regioni nelle quali ci sono stati casi di coronavirus. […] I cittadini provenienti da Piemonte, Lombardia, Veneto, Emilia Romagna, e che vi abbiano soggiornato negli ultimi 14 giorni, che rientrano nel territorio della provincia di Taranto devono, pertanto, comunicare la circostanza al proprio medico di medicina generale o, in mancanza accedere al link e compilare il form online. Clicca qui.”
Vengono forniti due strumenti all’utente interessato: un link e un QR Code. Entrambi rimandano non ad una pagina sul sito dell’ASL Taranto (dunque verificabile, certificato, trasparente, inoppugnabile) ma su un form creato con gli strumenti di Google Moduli. L’utente, insomma, viene rimandato su un sito terzo, privo di qualsivoglia riferimento certo all’Azienda Sanitaria stessa. Sul modulo vengono chiesti dati personali quali cognome, nome, numero di telefono, residenza, email. Al click vengono spedite le informazioni e l’utente non ha ovviamente certezza alcuna di quale sia il destinatario della missiva. Dove saranno raccolti i dati? Con quali protocolli di sicurezza? Ma c’è dell’altro.
E se qualcuno producesse un modulo fake? Chi conosce Google Moduli ben sa quanto semplice sia replicare un modulo altrui. Lo prevede la facilità dello strumento, pensato per consentire la produzione di un modulo in pochi minuti, scegliendo poche opzioni e rendendolo immediatamente utilizzabile. Ipotizziamo dunque che qualcuno produca un modulo del tutto identico e che faccia circolare l’indirizzo su Facebook o WhatsApp (come sta ampiamente succedendo in Puglia in queste ore per spargere la voce sulla richiesta di informazioni avviata a livello regionale). Ipotizziamo che le persone rispondano, convinte di aver inviato i propri dati alle autorità competenti. Nessuno contesta la buona fede dell’ASL Taranto, che anzi ha cercato proattivamente una soluzione per dar corpo alle richieste della Regione; nessuno contesta la buona fede dell’utente, che compila il form pur senza verificarne la sicurezza, certo della buona fede dell’ASL e di chi ha inoltrato il messaggio. Ma in questo meccanismo si aprono scenari sconcertanti, del tutto ovvi e del tutto pericolosi. Abbiamo fatto un test che ci ha richiesto appena 10 minuti di tempo: abbiamo prodotto un modulo fake, uguale in tutto e per tutto al modulo predisposto dall’ASL Taranto. Sulla pagina abbiamo esplicato che si tratta di un fake, così che nessuno possa sfruttarlo a fini maligni. Chiunque avrebbe potuto fare quel che abbiamo sperimentato noi ed avrebbe drenato informazioni da persone in situazione di fragilità, poiché potenzialmente contagiate. La combinazione tra il timore del contagio e la fragilità del sistema adottato per la raccolta dei dati potrebbe portare ad organizzare facili truffe a domicilio, sfruttando email, telefono o una visita porta a porta di sicura pericolosità (come già successo altrove in Italia in questi giorni). Confrontate i due moduli e la pericolosità di questo sistema emerge in tutta chiarezza: Il modulo era segnalato sul sito ASL Taranto, ma al tempo stesso era condiviso in gran quantità sui social network o tramite messenger: siccome anche l’url non dava alcun riferimento affidabile, il modulo non certificava in alcun modo la provenienza dello stesso. Sfidiamo chiunque a distinguere il vero dal falso partendo semplicemente dalle url: (Modulo dell’ASL di Taranto, non più raggiungibile) - (Modulo FAKE prodotto da noi). Ovviamente nessuno può capire dove sta atterrando dopo il click a partire dall’indirizzo, dunque la truffa sarebbe estremamente semplice da portare avanti: una semplice opera di spam, magari affidata all’innocente passaparola dei cittadini sui social network, e il gioco è fatto.
Cosa abbiamo fatto. Abbiamo provato in più modi a contattare l’ASL di riferimento, cioè quella di Taranto, riuscendo a distanza di 12 ore dalla scoperta ad entrare in comunicazione con alcuni responsabili i quali, in modo estremamente cortese e collaborativo, hanno compreso la situazione e vi hanno posto sollecito rimedio. Il modulo è stato portato offline in queste ore e con ogni probabilità sarà sostituito a breve da soluzioni più sicure. All’insegna della responsabile disclosure, raccontiamo questa storia a soluzione avvenuta poiché chiunque avrebbe potuto ricavare medesima idea e tentare una truffa che in poche ore si sarebbe potuta mandare a segno con grande facilità. Non si segnalano invece problemi di sorta, i dati sono stati raccolti nel database corretto e saranno utilizzati secondo le modalità indicate. A cambiare da adesso in avanti sarà però la metodologia scelta per la raccolta, evitando di aprire semplici opportunità di raggiro per sciacalli e malintenzionati. Si raccomanda inoltre agli organi di stampa locali che han comunicato l’iniziativa originale di notificare anche le nuove modalità di raccolta dati, così da evitare che il passaparola del primo form possa continuare e tutti possano sapere come agire per garantire la prevenzione da contagio. Questa è una storia che può insegnare molto ad associazioni, aziende, pubbliche amministrazioni e tutti coloro i quali in questa fase hanno un ruolo di responsabilità: la fragilità degli individui di fronte ad una emergenza sociale costringe ad una attenzione maggiore, suggerendo una applicazione ancor più rigida dei protocolli. Al di là di fretta e pragmatismo, insomma, perché la privacy è un bene da proteggere anche ai tempi del Coronavirus.
Bambina di 8 anni positiva, il suo nome nelle chat di classe. Il papà: «Come una violenza». Pubblicato giovedì, 27 febbraio 2020 su Corriere.it da Marco Imarisio. Se ci fosse qualcuno per strada, sarebbe anche possibile fare un paio di domande. Chi è stato? E soprattutto, perché l’ha fatto? Ma in piazza Martiri della Libertà non passa anima viva. Lo Shanti bar, accanto al municipio, è chiuso. Curtarolo è un posto di passaggio, diviso in due dalla provinciale 47. Il patronato, anima del paese, ha la porta sbarrata. Nel centro sportivo attiguo, le uniche presenze sono un padre e un figlio che giocano a pallone. «Effetto del coprifuoco non dichiarato, e di questa storiaccia» dice l’adulto, senza voglia di aggiungere altro. Forse è qualcosa più di una brutta storia, quel che è successo in questa piccola località affacciata sul Brenta, a 15 chilometri da Padova. È una vicenda esemplare, purtroppo. Lo scorso 14 febbraio nella sede degli Alpini della vicina Limena si tiene una cena dedicata agli anziani per festeggiare San Valentino. Sedici invitati, sette dei quali pochi giorni dopo risultano positivi al virus Covid-19. Il più grave è un uomo di 67 anni, ricoverato all’ospedale di Padova. Vengono sottoposti al tampone i familiari. La sua nipotina, che ha 8 anni, va a scuola a Limena ma vive qui, risulta positiva, senza sintomi. Mamma e papà invece sono negativi. Mercoledì mattina, il messaggio. «Si comunica che nella mattinata odierna veniva informato dal sindaco Martina Rocchio, a sua volta avvisata dalle Autorità Sanitarie, che in Curtarolo risultano TRE casi accertati di persone positive al test, che si identificano in...». Il primo nome è quello della bimba, «figlia convivente». Poi il padre e lo zio. Con indirizzo dettagliato fino al pianerottolo. Appare ovunque. Nella chat WhatsApp del patronato, del catechismo, in quella delle mamme del paese, in quella della scuola, arriva fino a gruppi genitoriali di Mantova e Verona, che non c’entrano nulla. A ogni giro, qualche dettaglio in più. La classe della bimba, la foto del nonno. Caccia all’untore, e pazienza se ha solo otto anni. Il primo a rendersi conto di quel che sta accadendo è Stefano Tonazzo, sindaco di Limena. È amico del padre della bimba e del nonno. Chiama il primo. Non sapeva nulla. Lo hanno avvisato dal laboratorio analisi quando la notizia su sua figlia era già sul sito di un quotidiano online. Chiama la sua collega di Curtarolo: «Ma cosa stai facendo?». Martina Rocchio cade dalle nuvole. Quel messaggio non è suo, lei non ne sa niente. Intanto arrivano giornalisti e telecamere. La famiglia della bambina si trova in quarantena ma assediata, con citofono e telefono di casa che squilla ogni minuto. Martina Rocchio contatta il padre, gli chiede se vuole un vigile davanti a casa. «No grazie, così sembriamo ancora di più degli appestati». Ieri la famiglia ha sporto denuncia, tramite un parente. La sindaca Rocchio, che è anche avvocato, pure. Violazione della privacy, tirano le somme i carabinieri, altro non è ipotizzabile. Il messaggio è molto dettagliato. Qualcuno che li conosce bene, oppure un dipendente dell’amministrazione comunale. Ma ormai il danno è fatto. Sempre via WhatsApp, il padre fa sapere lo schifo che prova. «Una caccia alle streghe che fomenta odio nei confronti di una innocente. Ci sentiamo aggrediti e violati. Mi chiedo che razza di persona può essere chi ha fatto questa cosa». La sindaca Rocchio intravede un complotto nei suoi confronti. Tonazzo ha una lettura più semplice. «Se ci sono di mezzo i propri figli, la gente va fuori di testa. E i social, quando partono non li fermi più. Magari tra qualche mese trovano il vaccino e tutto finisce». Meglio non farsi illusioni. Per fermare il virus della stupidità e della cattiveria ci vorrà molto più tempo.
Coronavirus, il papà della bimba di Padova: "Mia figlia di 8 anni contagiata e messa alla gogna nelle chat di paese". Anche la moglie è stata contagiata. Come il nonno e un altro figlio grande. La piccola gioca felice, è asintomatica. Il padre: "Le ho detto di fidarsi dei medici. Siamo tutti in quarantena qui in casa. Ma fuori è uno schifo". Enrico Ferro il 28 febbraio 2020 su La Repubblica. Il Virus al microscopio somiglia alla corolla di un fiore con tanti piccoli petali rossi. "Questo ho detto alla mia bambina, di non preoccuparsi, perché dentro di lei c'è un fiorellino che non le farà male in alcun modo". In questa psicosi collettiva del coronavirus uno dei pochi appigli emotivi rimasti era la bassa incidenza dell'infezione sui bambini. In Veneto è caduta anche questa barriera. Mercoledì un padre e una madre si sono sentiti comunicare dall'ospedale che la loro primogenita è positiva. E ora questa bimba di 8 anni di Curtarolo, a nord di Padova, gioca e disegna felice mentre i genitori osservano in modo maniacale ogni minimo sintomo, valutando con attenzione i singoli colpi di tosse. Pare che tutto abbia avuto origine dalla cena di San Valentino al circolo degli Alpini di Limena, presente la famiglia al completo. Dieci giorni dopo questo è il quadro clinico: nonno di 68 anni in terapia intensiva, moglie coetanea positiva; un figlio positivo; l'altro figlio con la compagna negativi; le loro due bambine sono una positiva e l'altra, che ha soltanto 3 anni, negativa.
Da padre come sta affrontando quello che attualmente è l'incubo di ogni genitore?
"Mia figlia, al momento, è asintomatica. I miei incubi comunque sono due: ho anche mio padre in terapia intensiva".
Tutto pare abbia avuto inizio dalla cena di San Valentino?
"Almeno questo è ciò che hanno ricostruito medici e virologi. Mio padre è un imprenditore, qualche settimana fa è stato in provincia di Lodi".
Dunque sua figlia è risultata positiva al tampone?
"Sì, mercoledì mattina alle 9.45 il laboratorio analisi ci ha comunicato la positività. Non so come ho fatto a reggermi in piedi. Non è facile sentirselo dire, anche se, al momento, mia figlia non ha nemmeno una linea di febbre".
Cos'ha pensato quando gliel'hanno comunicato?
"Ho pensato a lei, a ciò che potrà accadere da qui in avanti. Ho pensato anche agli altri bambini, a tutti quelli che sono venuti a contatto con lei. La scuola che frequenta è stata chiusa, i suoi compagni dovranno fare tutti il tampone".
Delle due figlie, una positiva e l'altra no.
"Esattamente. Quella di tre anni è negativa. Non mi chieda il motivo, perché non sono un virologo, ma è esattamente così".
Come vi siete organizzati per uscire da questa situazione?
"Noi siamo in quarantena, tutti insieme. Ovviamente facciamo attenzione a ogni minimo segnale, per cogliere ogni eventuale evoluzione".
Come avete fatto a spiegarle la positività al virus?
"Diciamo la verità: a casa da scuola già era al settimo cielo. In questa condizione ogni comunicazione è più semplice. Le abbiamo detto del fiorellino e lei l'ha preso come un gioco. L'abbiamo rassicurata, le abbiamo detto di fidarsi dei medici".
Come ha reagito?
"E' assolutamente serena. Gioca e basta. Ai compiti per casa non ci pensa neanche lontanamente".
E voi come state?
"Noi siamo disperati, non è facile gestire una emergenza del genere che ti piomba in casa. Però vedere lei tranquilla ci dà la forza di andare avanti. Fuori comunque è uno schifo".
Cosa intende dire?
"Qualcuno del paese ha messo in rete i dati sensibili miei, della mia famiglia, di mia figlia. Non può essere dignitosa una cosa del genere. Non ci può essere una simile caccia all'appestato".
Come è potuto accadere?
"Un'ora prima che il laboratorio ci comunicasse la positività di mia figlia già i nostri nomi giravano in rete. C'è gente irresponsabile che sui social, specie sui gruppi Facebook dei paesi, fomenta odio e paura. Ho già contattato i carabinieri. Le indagini sono in corso".
Avete deciso di andare fino in fondo quindi?
"In questo momento il nostro unico interesse è per la salute dei familiari, di mio padre, di mia madre, di mia figlia. Però mi sembrava importante ribadire un concetto fondamentale, che è quello del rispetto nei confronti delle persone che soffrono, che hanno problemi di salute. Le situazioni non sono sempre tutte uguali. Capisco l'emotività del momento ma qualcuno dovrebbe anche provare a mettersi nei nostri panni prima di scrivere o dire certe cose".
· L’Epidemia e l’allarmismo dei Media.
Da iltempo.it il 17 novembre 2020. Giorgia Meloni perde le staffe a Quarta Repubblica davanti a Nicola Porro che le fa vedere un post di Roberto Saviano che accusa della seconda ondata del virus lei e Matteo Salvini: “Roberto Saviano dice un fracco di idiozie, magari con la voce giusta e bassa, ma non so come facciano a definirlo un guru. Lui accusa me e il centrodestra di avere favorito la pandemia? Ma come fa a puntare il dito sulle uniche persone che per tutti questi mesi non hanno mai toccato palla su nulla? Ogni decisione l'ha presa in solitaria il governo, e quel che non ha fatto per mettere in sicurezza è tutta responsabilità sua. Non si dicono cose così a vanvera, portatemi Saviano davanti e io sono pronta a un confronto all'americana”.
Negazionisti, complottisti… e un po’ fascisti. La Stampa mette in moto la macchina del fango. Adele Sirocchi lunedì 16 Novembre 2020 su Il Secolo D'Italia. Il momento è drammatico e occorre stare uniti. Ma i media pro Conte continuano a picchiare duro contro le opposizioni. L’accusa che va per la maggiore è quella di negazionismo. Se poi ci aggiungi quella di complottismo la caricatura è fatta. Il nemico confezionato ad hoc per eccitare gli animi spaventati dal virus. Chi nega è un untore. Chi sta con Conte è il salvatore. Oggi il compitino lo svolge a dovere il quotidiano la Stampa, il cui direttore Massimo Giannini ha pure toccato con mano l’impreparazione della rete sanitaria dinanzi al virus e lo ha pure scritto. Inchiodando il governo alle sue responsabilità. Tutto dimenticato. Meglio colpire i soliti Salvini e Meloni, quelli che “se ci fossero stati loro al governo avremmo scavato le fosse per i cadaveri” (Zingaretti dixit). L’occasione la offre allora un post sconclusionato di un assessore di FdI di Alessandria. Si chiama Cherima Fteita. Che ha scritto di tanto grave? Cose che sono in tanti a dire e a pensare. Ecco il suo post, ora non più visibile: “Tra brevissimo lo Stivale si colorerà tutto di rosso. E durerà fino a maggio. La notizia del vaccino serve per farci accettare il lockdown, nella convinzione che a brevissimo saremo liberi. Invece non arriverà nessun vaccino. Almeno non prima dell’estate”. E dopo? “La grande speculazione finanziaria passerà all’incasso e si porterà via tutto a prezzi stracciati. Come da copione“. E ancora: “I complici nostrani di questo scempio epocale hanno fatto di tutto affinché la situazione si ripetesse. Hanno fatto sparire LA CLOROCHINA. Non hanno potenziato LA RETE DI MEDICINA TERRITORIALE per curare i pazienti a casa e abbattere il modello ospedale-centrico, totalmente fallimentare contro questo virus. Non hanno ufficializzato, ancora oggi, un valido ed efficace PROTOCOLLO NAZIONALE DI TERAPIA DOMICILIARE. Il resto l’ha fatto come al solito LA NOSTRA INFORMAZIONE… Sembra di essere tornati ai tempi di Goebbels che indottrinò l’intero popolo tedesco“. Cosa c’è di negazionista in questo post? Nulla. C’è il timore di un lockdown che potrebbe durare fino alla primavera. C’è l’accusa di non avere saputo potenziare la medicina territoriale. C’è la critica a un’informazione sensazionalistica che ha indubbiamente ingenerato angoscia. E poi il monito su una crisi economica che potrebbe rendere appetibili per gli speculatori pezzi importanti del nostro sistema-imprese. Cose appunto dette e ridette. Sentite e strasentite. Tranne il paragone con Goebbels e il nazismo, che deve aver fatto saltare sulle sedie le solite anime pie. Insomma è il pensiero di questa signora Fteita. Non è un documento politico né una delibera comunale. Invece ne chiedono le dimissioni.
La libertà di pensiero non è più garantita? Ma nella Costituzione non è garantita la libertà di parola e di pensiero? Evidentemente vale solo per i tifosi del lockdown rigido e prolungato e per i supporter di questo governo. A loro è permesso dire tutto. La foto di Giorgia Meloni cosa c’entrava?
In ogni caso la Stampa si getta a capofitto sulla malcapitata esponente di FdI, illustrando anche l’articolo con una bella foto della stessa assessora abbracciata a Giorgia Meloni (che pure non ha mai sostenuto tesi negazioniste). E ci si adopera, nell’articolo, ad accomunare negazionismo e complottismo. Il complotto pluto-demo-sanitario – si sostiene – è l’equivalente del complotto demo-pluto-giudaico massonico caro ai fascismi e agli estremismi. In questo modo lo stigma dell’esclusione dal consesso sociale e civile è subito messo a segno. I negazionisti non sono solo nemici della salute pubblica e del bene comune ma anche un po’ fascisti, dunque doppiamente pericolosi (la foto con l’abbraccio alla Meloni sta lì a sostegno della tesi giornalistica infamante). Magari è vero quello che dice Nicola Porro: solo chi scrive articoli di questo genere sulla stampa mainstream è convinto che contribuiscano in qualche modo a formare l’opinione pubblica. Invece si tratta dei soliti noti della parrocchietta giornalistica performante, che si leggono e si commentano da soli e tra loro si complimentano per l’arguzia dei rispettivi scritti. E’ pure vero però che il tentativo di linciaggio ci sta tutto ed è assolutamente ingiustificato, anche perché accostato – nell’articolo – alle prediche complottiste di Radio Maria e alle marce no mask. Ma tant’è. Di questo passo complottisti lo sono un po’ tutti. Basta fare una critica e zac: ti becchi il marchio di negazionista (una malattia mentale, l’ha definita la biologa Barbara Gallavotti). Persino uno scrittore di grido come Antonio Pennacchi, a leggere il suo ultimo romanzo, La strada del mare, è candidato a finire nel tritacarne dell’accusa di negazionismo. Racconta infatti a un certo punto dell’influenza asiatica, che fece in Italia nel 1957 30mila morti. Anche Pennacchi negazionista? “Ma – scrive Pennacchi – non venne chiusa nessuna scuola, nessun bar, nessun cinema, nessuna chiesa fabbrica o ufficio in tutto il paese. Anzi, era un continuo minimizzare, la gente ci scherzava sopra. Un giorno che l’Abruzzese non s’era visto arrivare e Otello e gli altri due – l’Atlante e Di Francia – erano andati a chiamarlo sotto casa, quello s’affacciò tranquillo alla finestra: Non posso venì. Sto a letto coll’asiatica. Ah, sporcaccione – gli strillò Otello dalla strada: E che je stai a fà a st’asiatica, che je stai a fà?“. E all’epoca l’alto commissario alla Sanità senatore Mott disse pure che l’asiatica era un’influenza come tutte le altre, quindi niente panico. Nel 1957, insomma, l’Italia pullulava di negazionisti. E negazionista sarà pure Pennacchi che lo racconta? Chi lo sa. Bisogna chiedere alla Stampa…
“Burattini, venduti e servi”: perché in ogni protesta i giornalisti vengono insultati? Rossella Grasso su Il Riformista il 3 Novembre 2020. Ormai quasi ogni giorno le strade e le piazze delle città italiane si riempiono di proteste e cortei di ogni tipo. Tra i vari ci sono semplici cittadini, le categorie che l’ultimo dpcm ha messo in crisi, le mamme che si lamentano contro la chiusura delle scuole ecc. Immancabili in ogni occasione anche gruppi di negazionisti senza mascherina che inneggiano all’amore e invitano all’abbraccio. In questa pletora di persone unite per diversi motivi dalla protesta volano spesso anche insulti più o meno violenti contro i media. Spesso con spintoni e aggressioni verbali invitano i giornalisti a togliere la mascherina accusandoli di non dire la verità, di “essere asserviti”. Una scena che si è ripetuta anche durante il provocatorio “corteo Funebre” che si è svolto a Napoli la sera del 2 novembre. Il gruppo di manifestanti ha, infatti, inscenato il funerale dell’economia campana con tanto di carro funebre, necrologi e crisantemi. Ma durante il percorso i manifestanti hanno iniziato a insultare violentemente anche i giornalisti che erano lì per dare voce alla protesta e raccontare le istanze dei manifestanti. “I giornalisti ci devono sempre buttare a terra, sempre. Invece di venire a occuparsi dei nostri diritti, delle nostre difficoltà da lavoratori a partita iva, che dobbiamo chiudere le nostre attività, ci accusano solo di assembramenti”. Ha detto polemicamente una ragazza alludendo al fatto che nel racconto dei fatti non sfugge il problema degli assembramenti che queste manifestazioni comportano. Un fatto anche questo innegabile e ben visibile dalle immagini. Assembramenti a cui i giornalisti, loro malgrado si espongono, pur di dar voce alle proteste e raccontare a tutti cosa accade. Comprese quelle che sono le storture che la paura e la rabbia per la pandemia stanno generando senza freno. Gli insulti continui ai giornalisti sono una parte di questi. “Voi giornalisti dovete dire le cose giuste – continua una delle manifestanti – non quelle che convengono a voi che vi mandano a dire di dire”. Poi la manifestante prosegue asserendo di essere in primis giornalista “ma me ne sono andata dal sistema – ha continuato – paragonando l’informazione pubblica alla camorra – e quindi non vengo a fare la burattina qua in mezzo io mi sono rifiutata”. Dunque la critica viene da una “giornalista” ed è curioso anche che la manifestazione in questione fosse stata organizzata proprio da un giornalista. Un pensiero che per chi ha seguito con passione e dedizione varie proteste si è sentito ripetere spesso. Il 2 novembre la scena sotto la Regione Campania è stata ancora più violenta, magari non fisicamente, come durante gli scontri di quel primo venerdì di coprifuoco, ma verbalmente sicuramente si. Nelle immagini si vede il gruppo dei giornalisti impugnare telecamere e microfoni e dal lato opposto alcuni manifestanti gli gridano in faccia “giornalaio!”, “venduti!” e poi in coro “servo, servo, servo!”. Poi la scena tocca picchi di follia: un manifestante con la maschera di De Luca insulta uno dei cameramen accusandolo di non indossare la mascherina. Il cameraman, che invece indossa tanto di mascherina a norma, resta impassibile mentre l’uomo continua a gridargli contro: “Ti stanno filmando tutti, poi ti sputtaneranno… poi ci farai sapere se siamo noi i negazionisti o tu il prezzolato”. E parte l’applauso della folla intorno. Una scena che fa male a chi si affatica a raccontare anche questo, spesso anche mal pagato o nulla o affatto tutelato. “Giornalisti terroristi alla gogna vergogna”, recita invece un altro cartello. A portarlo fieramente al collo una donna che ne spiega i motivi: “In televisione fanno vedere cose assurde – ha spiegato – pochi giorni fa hanno fatto vedere due ospedali di due paesi differenti, poi due barelle che portavano i cuscini, uno vestito da marziano con la tuta anticovid ma che indossava gli infradito, un altro che portava un cadavere con tre dita. Quindi adesso diciamo basta”. Peccato che tutte le assurdità elencate dalla signora siano state promosse e divulgate sui social, tanto da diventare virali. Forse dei giornalisti non si può poi così tanto fare a meno.
LA NOTA DEL PRESIDENTE DELL’ORDINE DEI GIORNALISTI OTTAVIO LUCARELLI – Ringrazio il Riformista per questa puntuale denuncia ed esprimo solidarietà e vicinanza al collega minacciato e a tutti i giornalisti sotto tiro. In questa fase più che mai siamo in prima in linea vicini ai contagiati, ai medici, agli infermieri. E siamo in strada a raccontare il Covid. Eppure l’ignoranza dilagante continua a prenderci di mira. Per questo insisto nel chiedere a Prefetto e Questore maggiore protezione per chi ha il delicato compito di informare l’opinione pubblica.
Alberto Zangrillo al Tg4: "Coronavirus, il clima descritto dalla stampa non è realistico". Ed è subito polemica. Libero Quotidiano il 02 novembre 2020. Non molla di un centimetro, Alberto Zangrillo, il medico del San Raffaele che continua ad avere il coraggio di sostenere le sue posizioni sull'emergenza coronvirus. E continua ad avere il coraggio di sostenere che, a suo parere, lo scenario non è tragico così come ci viene raccontato. Lo dice chiaro e tondo, il primario del San Raffaele: "Il clima descritto dalla stampa non è realistico", spiega al Tg4. E ancora, nel corso dell'intervista al tiggì di Giuseppe Brindisi, Zangrillo aggiunge: "Il coronavirus c'è, ma stiamo operando bene. Sono ottimista". Parole che gli sono valse già numerosi e immancabili attacchi sui social. Ma come detto, Zangrillo non molla né arretra.
Zangrillo: "Il clima descritto dalla stampa non è realistico". Il professore ha tenuto a sottolineare: “Non siamo alla situazione vissuta a marzo”. Valentina Dardari, Martedì 03/11/2020 su Il Giornale. Il professor Alberto Zangrillo, prorettore dell’Università San Raffaele e primario di anestesia e rianimazione dell'ospedale milanese, intervenendo al Tg4 ha fatto una fotografia della situazione che stiamo vivendo in questo momento in Italia. Prima di tutto ha voluto sottolineare un errore da parte di tutta la stampa che descriverebbe a suo dire un clima non realistico. "Quando si parla di migliaia di contagi si presuppone che queste persone siano malate, in realtà sono persone venute a contatto con il virus", ha tenuto a precisare Zangrillo. Secondo il suo parere, la scena che si trova davanti lui stesso tutti i giorni in ospedale non è completamente aderente alla realtà descritta dalla stampa. Se così fosse, alla popolazione non resterebbe che fare testamento e aspettare la morte cercando di soffrire il meno possibile. Ma, come ha evidenziato Zangrillo: “Non è così. In questo momento noi abbiamo una situazione che è completamente diversa da quella che state, stanno, tutti narrando” ha continuato l’esperto. La differenza si troverebbe proprio tra la situazione che sta vivendo l’Italia e quella invece vissuta dagli altri Paesi europei. Il primario ha infatti spiegato che nelle altre Nazioni sta avvenendo qualcosa che è più grave rispetto a noi dal punto di vista dei numeri, ma lo si sta affrontando con senso di responsabilità e con i nervi saldi. Ha poi fatto l’esempio specifico del suo ospedale dove sta accadendo proprio questo: la struttura ospedaliera è attrezzata per intensità di cura e sta prendendo in carico “pazienti che non sono pazienti”.
Il 70% sono codici verdi. In almeno il 60% dei casi, secondo Zangrillo, si tratta di persone in cerca di un alloggio, di una patente di positività o meno. Questi soggetti potrebbero tranquillamente restare nelle proprie abitazioni e non andare a intasare i pronto soccorso ha infine affermato il professore, che ha tenuto a sottolineare che il 70% delle persone che arriva in ospedale sono codici verdi che dovrebbero rimanere a casa e non avere rapporti con altre persone, restando isolati.
Pronto soccorso affollati: ora Zangrillo svela la verità. Fortunatamente, è solo una parte minore dei pazienti che giungono in un grande ospedale metropolitano, in Lombardia si ha un incremento di 17 persone in terapia intensiva, che mostra un quadro più impegnativo. Non è assolutamente una situazione paragonabile a quella dello scorso marzo, “chi la paragona a marzo vuol dire che non ha vissuto la situazione a marzo” ha ribadito ancora una volta Zangrillo. Le cose vanno affrontate con metodo, nervi saldi e razionalità, ingredienti al momento presenti nell’azione del governo, secondo il primario del San Raffaele. Un lockdown generalizzato, senza tenere conto delle differenze epidemiologiche, degli accessi al pronto soccorso, e dei pazienti dimessi, è paragonabile, come affermato dall’esperto, alla situazione di una nave, in cui ci sono grida d’allarme da diversi punti e il comandante decide di abbandonare l’imbarcazione. Si devono adottare misure proporzionate a una situazione che sta evolvendo ma che non è drammatica. Se la giudichiamo drammatica “possiamo piantarla lì. Abbiamo perso prima di iniziare” ha concluso Zangrillo che ha anche infine spiegato che il messaggio che sta passando porta le persone erroneamente in pronto soccorso, anche se non ne hanno un bisogno effettivo.
Terrorismo mediatico e delatori di Stato: l’Italia orwelliana del “Grande Reset” è un incubo. Urge il risveglio. Cristiano Puglisi il 16 ottobre 2020 su Il Giornale. L’ultimo baluardo, l’intimità della casa e della famiglia, è caduto. Con l’ennesimo DPCM, promulgato a guisa di editto reale all’inizio di questa settimana, con la consueta incursione mediatica serale, il Governo Conte ha deciso di entrare definitivamente nella vita privata dei cittadini italiani come forse mai, neppure con autocertificazioni e “congiunti”, aveva osato fare in precedenza. Il nuovo decreto varato, così è stato detto, per la lotta al Coronavirus, oltre a trasformare nuovamente “l’aula sorda e grigia” del Parlamento in un “bivacco di manipoli” dediti all’ossequioso e silenzioso servizio dei sacerdoti del Comitato Tecnico Scientifico, ha aperto infatti alla possibilità di un controllo anti-contagio da eseguire manu militari all’interno delle abitazioni private. E a nulla serve la consueta e falsa rassicurazione del premier pugliese (“Non manderemo la polizia a casa, ma serve responsabilità”), se bisogna dare credito alle indiscrezioni pubblicate da Il Riformista (e, d’altro canto, trattandosi di uno dei pochi giornali seri rimasti, non c’è motivo di non farlo), secondo cui sarebbe stato solo un documento firmato dal capo della Polizia, Franco Gabrielli, a bloccare in extremis la richiesta anticostituzionale dell’esecutivo di disporre controlli a domicilio del rispetto del limite di sei persone per le cene tra amici e famigliari… ‘‘La meraviglia di certi paradossi”, ha riportato il quotidiano, è che sia “stata la polizia (…) a evitare che l’Italia diventasse uno stato di polizia, dove uomini in divisa possono entrare a qualunque ora nelle abitazioni private per verificare il numero di quanti siedono intorno a un tavolo o davanti a una tv per vedere una partita della Champions". Paradosso dei paradossi è che sia stato un tecnico, in questo caso, a rappresentare l’ultimo argine a tutela del popolo in un Paese in cui l’esecutivo politico è (come è ormai palese evidenza per chiunque sia minimamente dotato di senso critico e ragionevolezza), come in molti altri Paesi dell’Occidente sedicente “democratico”, completamente asservito alle direttive di un potere medico-tecnocratico totalmente fuori controllo e rispondente esclusivamente alle direttive di oscuri disegni sovranazionali dalle venature oligarchiche e totalitarie. È questa l’Italia del Coronavirus, la pandemia che, secondo i disegni pacificamente ammessi dalle élite globaliste ben rappresentate da entità come il World Economic Forum o l’OMS, deve essere cavalcata per far entrare il mondo nel “Grande Reset” del sistema capitalista. Un “Grande Reset” dove la retorica a favore della sostenibilità cela l’incubo del repentino impoverimento della popolazione mondiale, della scomparsa della classe media, soprattutto quella dei produttori indipendenti, diluita nelle masse dei diseredati dipendenti dall’elemosina di stato o degli schiavi a contratto con stipendi conferiti alternativamente dalle grandi multinazionali che reggono le fila della partita o dagli enti pubblici che ne sono ormai diventati espressione. Questa è l’Italia asservita a quello che la letteratura complottista definisce Nuovo Ordine Mondiale, ma che ormai di complottistico non ha più nulla essendo il palese approdo finale di una lotta (combattuta naturalmente ad armi impari) della “superclass” avente come finalità l’ulteriore spoliazione di ogni residuo diritto sociale del restante 99% dell’umanità. E così non importa se, rispetto alla fase iniziale della pandemia, i tamponi siano incrementati, e non importa se il 90% dei contagiati sia asintomatico. Non importa se, come dice l’ex vicedirettore OMS Perronne, i test eseguiti oggi ad ampio raggio “danno moltissimi casi di falsi positivi“, perché “i tamponi nel naso contengono un enzima che amplifica milioni di volte tracce anche infinitesimali di RNA del virus (…) e così gente sana che non è contagiosa risulta positiva”. E non importa se, per questo, sono registrati come deceduti per Covid anche i morti (soprattutto molto anziani) per altri fattori di co-morbidità. Non importa se un virologo come il professor Giulio Tarro, premettendo a sua volta la “fallacia dei tamponi” dichiari apertamente che “l’epidemia è finita a maggio” e che “sul Covid vengono diffusi solo dati aggregati quali "decessi", "contagiati", "guariti"… senza che sia possibile conoscere la loro storia clinica”, spiegando altresì come vengano avanzati “provvedimenti disciplinari con i quali si tenta di silenziare i tanti dipendenti ospedalieri che osano dichiarare qualcosa di difforme dalla Verità Ufficiale”. Non importa perché i principali alleati dei carcerieri, in questa nazione vigliacca (pardon, “moderata”) per tradizione, sono i carcerati stessi. E, in modo peculiare, quelli che con un azzeccato neologismo di fresca coniatura, sono stati definiti “covidioti“, cioè la plastica rappresentazione di una popolazione instupidita e rassegnata, indottrinata da mesi di tele-rincoglionimento a suon di chiacchiere su mascherine, distanze, sanificazioni. Una platea di varia subumanità pronta a trasformarsi in un esercito di kapò e delatori di Stato, gli stessi sul cui supporto confida l’inascoltabile ministro Speranza (la sua scelta per il dicastero della Salute, considerato il cognome, sembra oggi uno scherzo di cattivo gusto, quasi un contrappasso dantesco per punire la stupidità del bestiame umano amministrato): si va dall’imbecille che, la scorsa estate, faceva il bagno in mascherina, a quello che addita dal balcone runner e ciclisti come “untori”. Dalla mammina paranoica che guarda in cagnesco i suoi vicini al supermercato all’osservatore di lavori in corso convertitosi in segnalatore di feste private. Nel mentre nessuno, a parte i pochi dotati ancora di senso critico, sembra accorgersi di come si stia, progressivamente ma inesorabilmente, abituando gli italiani a questo stato di perenne emergenza, togliendo loro la socialità, riducendoli ad atomi di umanità funzionali a un sistema tirannico, iniquo e, in fondo, sadicamente diabolico. Sì, diabolico. Perché non c’è altro termine per descrivere propositi scellerati, come quello di rinchiudere gli italiani in casa (dopo un anno allucinante) durante le feste per tradizione legate agli affetti, quelle natalizie, come suggerito dal cupo virologo Crisanti, al quale andrebbe ricordata l’impennata di disagio psicologico seguita al primo lockdown. In molti, in questi giorni, hanno citato al proposito un passo di 1984, il capolavoro distopico di George Orwell: “All’infuori del lavoro tutto era vietato, camminare per strada, distrarsi, cantare, ballare, riunirsi…“. Non è un’esagerazione. Questa è l’Italia che vogliono, il mondo che bramano le élite di cui l’esecutivo Conte è chiara emanazione. E, dopotutto, cos’è il “Grande Reset” se non una crasi tra la decrescita (in)felice e digitalizzata per anni sollecitata dal Movimento Cinque Stelle e la società “uberizzata” di aspiranti globetrotter precari propinata da tempo dal Partito Democratico? Un mondo, cioè, formato da una massa di straccioni dipendenti dall’elemosina del potere, costretti a lavorare come schiavi per una miseria, senza prospettive e perennemente spaventati e tormentati. Ma, altresì, dotati di monopattini elettrici e istruiti alla raccolta differenziata e al multiculturalismo. Senza ovviamente dimenticare la museruola… pardon, mascherina d’ordinanza. A fronte di questa situazione è bene che si dica la verità, quantomeno a quei pochi che sono in grado di comprenderla. Bisogna mollare le velleità da rivoluzionari da gazebo. Seppellire le speranze da ribelli da tastiera. Non vi è alcuna salvezza nella politica istituzionale e certamente non in quei partiti i cui amministratori locali per primi, la scorsa primavera, hanno giocato a fare gli sceriffi sulla pelle dei loro cittadini e che ora, per mero calcolo, si posizionano sulla barricata della libertà. Quella non è un’opposizione, ma semplice finzione scenica. Teatrino della politica. Il potere, quello vero, quello che da centrali sovranazionali come l’OMS impone la linea a tutto il mondo, è altro. E non è scalfibile. Controlla i media che ogni giorno “danno i numeri” per atterrire e spaventare, penetrando senza difficoltà le menti più deboli. Controlla la sanità, le multinazionali del farmaco, i medici cooptati dal sistema. Controlla i gusti, le passioni, i rapporti di ogni persona attraverso gli algoritmi dei giganti del web. Sconfiggerlo, a viso aperto, non è difficile, ma impossibile. Combatterlo è inutile. Bisogna scendere a patti con una realtà cruda e brutale. Sulla bella Italia (e sicuramente sull’intero emisfero occidentale) è ormai calata la notte. L’unica luce che ciascuno può accendere, in questa tenebra avvolgente, è quella interiore. L’unica rivoluzione che si può compiere è quella delle coscienze. Leggere, studiare, capire. Emanciparsi. Questa e solo questa è la via per sperare in un risveglio collettivo. L’alba di una nuova era, che può partire solo ed esclusivamente da una cittadinanza diversa. Una cittadinanza che torni a essere critica e consapevole del sistema in cui vive. Una cittadinanza che torni a essere comunitaria, che torni a essere popolo. Prima che questo accada, nulla sarà possibile. Perché questo accada il tempo richiesto potrebbe essere lungo, lunghissimo. O forse no. Dipende da tutti. Sì, forse anche da te, che stai leggendo queste righe. Apri gli occhi. Ora è notte fonda, ma tornerà il mattino.
Ma che fine hanno fatto i “guariti”? Andrea Amata 17 ottobre 2020 su Nicolaporro.it. I medici invocano l’autolockdown. Il Pd preme per il coprifuoco. La prudenza e il rispetto dei protocolli di prevenzione possono farci convivere con il virus, ma in questi sei mesi, nonostante lo stato di emergenza, i poteri speciali e le Cassandre della seconda ondata, si sono accumulati troppi ritardi sia nel potenziamento dell’offerta sanitaria sia nella predisposizione della didattica in sicurezza. Tant’è che gli ospedali rischiano il sovraccarico: per lo Spallanzani di Roma è stato già disposto che può accettare solo pazienti Covid e sulla scuola incombe il ritorno della didattica a distanza. Di fronte ai fallimenti da cui scaturisce la vera emergenza, per non delegittimarsi, il governo ha bisogno di manipolare la divulgazione e la percezione dei dati, attraverso il terrorismo informativo che amplifica l’allarme. Prendete il bollettino quotidiano che, con le illustrazioni grafiche, ci incute timore e come foche ammaestrate, ci spinge a replicare una narrazione drammatizzata da numeri preoccupanti, ma parziali e carenti di approfondimenti. Enumerare i contagiati in crescita senza al contempo indicare il numero dei tamponi effettuati significa dare una comunicazione incompleta. Dei contagiati quanti sono gli asintomatici che non necessitano di ricovero? E dei ricoverati quanti sono destinati alla terapia intensiva o subintensiva? Ma, soprattutto, quanti sono i guariti/dimessi? Già: questo dato, sbandierato quando erano più le vittime del Covid che quelli che ne uscivano, ora sembra sparito. Quando la comunicazione doveva creare consenso attorno al lockdown e, al contempo, tenere su il morale del popolo, nei bollettini quotidiani la Protezione civile sottolineava il numero dei guariti, sia pure inferiore ai decessi. Ieri, giorno in cui, per esempio, i guariti sono stati 1.900 e i morti 55, la notizia è stata confinata in fondo ai resoconti dei giornali. Certo: se no come lo imponi il lockdown autoindotto? Chi scrive non è un negazionista o un minimizzatore del Covid. Ma la comunicazione terroristica è una colpa, specie se serve a mascherare un disastro gestionale in ambito sanitario e scolastico. Andrea Amata 17 ottobre 2020
Coronavirus, Zangrillo: ''Le terapie intensive? Quando arriviamo lì ormai abbiamo perso". Il professor Alberto Zangrillo: "Sì alla corretta informazione e no al sensazionalismo mediatico". Rosa Scognamiglio, Giovedì 15/10/2020 su Il Giornale. ''Come sostengo da almeno 6 mesi, insieme ai colleghi che di mestiere curano i malati, il problema non sono le terapie intensive. Quando arriviamo li abbiamo già perso''. Lo scrive su Twitter Alberto Zangrillo, prorettore dell'Università San Raffaele e responsabile dell'Unità operativa di Terapia intensiva generale e cardiovascolare dell'Irccs San Raffaele di Milano. Zangrillo posta anche una immagine in cui viene spiegata la corretta procedura per evitare il congestionamento degli ospedali. "Sì alla corretta informazione e no al sensazionalismo mediatico, perché solo il primo produce un flusso ordinato al pronto soccorso e una gestione ottimale dell'assistenza clinica - riporta lo schema - Dal sensazionalismo mediatico derivano angoscia, disorientamento, somatizzazione e abbandono dei pazienti. Questo produce un flusso caotico nei pronto soccorso che a sua volta crea una inefficiente gestione clinica dei pazienti Covid e non Covid, arrivando al 'blackout' dell'ospedale". Lo aveva detto in tempi non sospetti e oggi, per l'ennesima volta, lo ribadisce ancora una volta: ''Le terapie intensive non sono il problema'', scrive su twitter. L'ennesima ''bomba social'' sganciata dal pofessore del San Raffaele che, senza curarsi troppo dei detrattori, seguita dritto per la sua strada. E, a ben vedere, di ragione ne ha da vendere. Sebbene ''il cinguettio'' possa suonare vagamente provocatorio, in realtà, non lo è affatto. L'esperienza pregressa della pandemia - la ormai trapassata Fase 1 della scorsa primavera - ha fatto segnare un numero di accessi ai Pronto Soccorso tale da ingenerare una congestione delle strutture sanitarie. In assenza di una rete assistenziale sul territorio, decine di persone si sono riversate negli ospedali ai primi sintomi sospetti del Covid. Una quota consistente di casi Sars-CoV-19 - presunti, smentiti o confermati - che si è aggiunta ai pazienti affetti da altre patologie, già ospedalizzati, ingenerando una implosione delle strutture. ''In terapia intensiva entrano malati positivi al Coronavirus ma sono anche portatori di altre patologie. - aveva spiegato nel corso di un intervento al programma Non è L'Arena lo scorso 29 settembre - In tutta la Lombardia ci sono 31 pazienti Covid in terapia intensiva, si tratta di un quarto delle persone in terapia intensiva nel mio ospedale a marzo. Le curve possono essere estrapolate da qualunque motore di ricerca, anche internazionale e quindi non riferibile solo all’Italia. La paura non deve essere il motivo dominante del nostro ragionamento''. Ma come sempre accade ogni volta che il professor Zangrillo prova a difendere le proprie avvedute ragioni, la polemica non si fa attendere. "Faccia il medico", ha retweettato uno sconosciuto. "Ci dica lei come si fa'', ha scritto un altro. Tuttavia, non sono mancati neanche i commenti a sostegno delle sue osservazioni: "Lo spieghi anche ai suoi colleghi che stanno dando i numeri. Qui tutti laureati su google'', ha cassato con ironia la piccola disputa social un ennesimo utente.
Covid, "morta dopo esseri reinfettata". Ecco la verità dietro la notizia. Il primo caso di decesso per reinfezione è stato dato da tantissime testate. Ma il quadro clinico della paziente, anziana e malata incurabile, fa riflettere su come si diano certe notizie e dell'importanza dell'informazione. Lorenzo Vita, Mercoledì 14/10/2020 su Il Giornale. La guerra al Covid si combatte ogni giorno nelle trincee degli ospedali e nelle scelte delle autorità pubbliche che devono garantire una vita il più possibile regolare della popolazione. Ma la pandemia è anche una enorme sfida per l'informazione, che oscilla molto spesso tra un tragico allarmismo e un altrettanto pericoloso allentamento dell'attenzione. Una scelta difficile, che può però avere risvolti enormi sulla vita dei singoli cittadini, che grazie proprio ai media percepiscono un rischio in maniera diversa semplicemente in base a come viene data una notizia o un'informazione. L'ultimo caso in ordine di tempo è quello rilanciato da numerosi media nazionali e internazionale e che riguarda la morte di una persona infettata per la seconda dal coronavirus. L'informazione è stata data in modo più o meno identico in tutti i titoli di giornale: "Si ammala di Covid per la seconda volta e muore". Una verità drammatica, su questo è impossibile fare alcun tipo di interpretazione. Ma quello su cui invece bisogna riflettere è il modo in cui viene trasmessa la notizia, che viene chiaramente veicolata per inviare un messaggio potenzialmente allarmante per milioni di persone. Anche un guarito da Covid può morire se contagiato una seconda volta. Vero, ma è altrettanto vero che tutti quanti riportano la notizia riportata da El Mundo in cui ci sono ben altre informazioni riguardo quella morte della persona infetta nuovamente da Covid. Perché se è vero che la morte è uguale per tutti, è anche vero che non tutte le morti sono uguali. Così come non lo sono i pazienti. E così il caso della donna morta per esserci contagiata per la seconda volta nasconde una verità che era evidente semplicemente leggendo il titolo dato dal quotidiano spagnolo. La donna non era soltanto infetta dal coronavirus, ma era anche una donna di 89 anni malata di una rara forma di cancro "trattabile ma incurabile" noto come macroglobulinemia di Waldenstrom. Un quadro clinico quindi altamente compromesso cui si aggiunge anche il fatto che al primo contagio della donna, all'inizio di quest'anno, la risposta del fisico fu assolutamente positivo tanto che dopo cinque giorni la signora si era completamente ripresa. Il crollo, purtroppo per l'anziana, si è avuto due mesi dopo quando, al nuovo ciclo di chemioterapia, si sono riscontrati nuovi sintomi di tosse e febbre e il tampone ha dato l'esito positivo. La morte, avvenuta dopo due settimane, ha confermato poi il fatto che la donne fosse stata infettata da un virus con una composizione genetica differente. La storia che arriva dai Paesi Bassi pone un punto interrogativo sul mondo dell'informazione e sulla sua risposta all'epidemia che ha dilagato nel mondo. E cioè come distribuire le informazioni e in che modalità farle arrivare al lettore. È chiaro che titolare solo sulla donna infettata due volte, senza riferire che si trattava di un quadro clinico estremamente compromesso in un paziente molto anziano, avrebbe certamente incrementato la portata allarmante dell'episodio. Questo è parte del terribile "gioco" dei media. Ma in un momento in cui la seconda ondata è sotto gli occhi di tutti, dare messaggi precisi e asettici può cambiare radicalmente la percezione del pericolo. L'esempio della donna deceduta nei Paesi Bassi è solo uno. Ma pensiamo anche semplicemente al numero dei contagi, che ogni giorni varia e che ogni giorno aumenta, senza però dare il giusto peso al numero di tamponi, al rapporto tra tamponi effettuati e positivi così come al reale numero di malati e al motivo dei ricoveri. Pensiamo anche ai decessi, di cui si sa la data in cui avvengono ma non si specifica quando le persone siano state contagiate e sono morte per Covid. Un sistema difficile da scardinare e che però fa comprendere come il dato da solo non fa una notizia, ma lo diventa semplicemente in base a come essa si dà in pasto al lettore. Che si fida, e per questo va tutelato. Lo è se si vuole allentare troppo la tensione e lo è anche nella ricerca feroce dell'allarme.
Gustavo Bialetti per “la Verità” il 23 luglio 2020. Tutto si può dire di Marco Travaglio, tranne che gli manchi il buon gusto. E così, ieri, nell'editoriale del Fatto Quotidiano, ha evocato «suicidi a catena», «assembramenti nelle terapie intensive» e «corse verso ponti e viadotti più alti». Da parte di chi? Ma dei giornalisti che non credevano che Giuseppe Conte avrebbe vinto ai tavoli europei, ovvio. Segue florilegio (tratto anche della Verità) sulle magagne della trattativa europea. Tutte fandonie smentite dalla realtà, per il Marco nazionale. E allora vediamo in cosa consiste questa grande vittoria che ha fatto esplodere i fegati delle redazioni miscredenti. Tanto per cominciare l'Ue sgancerà 390 miliardi di sussidi che sono «sensibilmente calati rispetto ai 500 miliardi proposti da Berlino e Parigi a maggio». Ma «il vero problema è che non arriveranno subito, il grosso effettivo non prima del 2023. L'intesa però prevede un anticipo del 10% delle somme nel 2021». Il taglio dei sussidi, poi, ha avuto alcune conseguenze: «Il fondo per aiutare le imprese in difficoltà viene azzerato; la ricerca (Horizon, di cui beneficiano soprattutto i Paesi del Nord) perde il 60% delle risorse; la salute il 100%; il fondo per la transizione ecologica l'80 %; è stato cancellato anche lo strumento di "vicinato, sviluppo e cooperazione internazionale"; tagli anche a digitale e coesione». E i frugali, i grandi sconfitti dell'accordo? A loro «sono stati confermati e aumentati (tranne che per la Germania) i rebate, gli sconti sul bilancio: Svezia (+62%); Danimarca (+120%); Austria (+274%) e Olanda (+25%)». Volete sapere di chi sono tutti questi virgolettati, evidentemente scritti da qualche altro gufo a rischio suicidio? Di Carlo Di Foggia sul Fatto Quotidiano, stessa edizione dell'editoriale di Travaglio, a pagina 2. Caro Marco, bastava sfogliare: non è difficile, ce la puoi fare.
Antonello Piroso per “la Verità” il 4 giugno 2020. Mio padre è venuto a mancare il 22 aprile. Si è ritrovato solo in una casa di riposo, la moglie ricoverata in ospedale per sospetto Covid-19, i figli che non potevano andare a trovarlo per via del lockdown e la paura di far entrare il coronavirus nella struttura. Mia madre l' ha raggiunto il 17 maggio, rientrata in quello stesso ospizio privato dopo essere stata dimessa con tre tamponi negativi all' attivo. Anche lei si è spenta sola, senza aver saputo o capito - così almeno credo - di essere diventata vedova. In meno di un mese mi sono ritrovato orfano, il che suona strano, detto da un quasi sessantenne, perché il termine si riferisce in genere a chi rimane sì senza padre, madre o entrambi i genitori, ma da minorenne. Puntualmente, dopo le condoglianze è arrivato il momento della domanda, se non espressa comunque sottintesa: «Sono morti di Covid?». No, non sono stati uccisi dal Bastardo, anche se potremmo considerarle vittime «collaterali»: perché a causa delle restrizioni se ne sono andati senza una carezza, una presenza, un funerale. Però il fatto che tutti l' abbiano pensato - un sito l' ha pure scritto, sbagliando - e qualcuno si sia addirittura spinto a concludere: «Del resto, la verità non la sapremo mai...», la dice lunga su quanto è successo alla nostra forma mentis nel trimestre febbraio-maggio, sottoposta a un' infodemia, un' epidemia (dis)informativa senza precedenti. Su cui il circo Barnum degli specialisti ha messo il carico da undici: su cause, effetti e rimedi si sono spesso contrapposti, contribuendo alla confusione generale che ha trasformato l' allarme in allarmismo, la doverosa preoccupazione in panico, le necessarie precauzioni in imperativi categorici da rispettare sine die, generando una paranoia globalizzata, alimentata anche dal collasso delle nostre strutture sanitarie che, di fronte alla velocità del contagio, sono andate in tilt e ci hanno portato a temere il peggio. Infettivologi, virologi, epidemiologi si sono l' un contro l' altro dialetticamente armati, e noi siamo stati chiamati a schierarci aderendo a questa o a quella interpretazione che si faceva dogma (non senza il mantra della premessa: «È un virus sconosciuto, gli stiamo prendendo le misure»), come se si trattasse di tifare per una squadra di calcio. Risultato? Per tre mesi in Italia si è potuto morire solo di coronavirus, con annesso dibattito sul «morire di», «morire per», «morire con», mentre gli altri decessi sono diventati invisibili. E che ce ne siano senza dubbio altri è provato dalla rilevazione dell' Istat sui decessi del 2019: 647.000, 161.750 a trimestre, 1.772 al giorno. A scanso di equivoci: non sto contrapponendo lutti a lutti, dolore a dolore. Segnalo solo la circostanza: le morti per ictus, infarti, tumori, suicidi e incidenti domestici - quelli stradali erano impossibili data la clausura - è come se fossero scomparsi (senza dimenticare gli interventi chirurgici già programmati ma non effettuati causa emergenza: 400.000, e ci sarebbe da chiedersi, pregando per loro, quanti degli sfortunati con le patologie più gravi sopravviveranno al rinvio di mesi). Ricordo il dato non per sminuire l' entità della tragedia rappresentata dal coronavirus, né la gravità della malattia per chi ne è stato colpito (ed è fortunatamente ancora tra noi), ma per sottolineare le tante perplessità che animano l' uomo della strada, o che è finito in mezzo a una strada per una crisi economica innescata da una «pandemia» che tale non è stata. Perché non ha riguardato «tutto il mondo», quanto prevalentemente una porzione di esso: quello occidentale. Il nostro. Diciamocelo francamente: se il cataclisma - che so: causato dall' ebola - avesse stroncato 378.000 vite nel cuore dell' Africa, ma fosse rimasto lì circoscritto, la nostra reazione sarebbe stata poco più che tiepida, «di qualcosa si deve pur morire», e amen. 378.000 morti nel mondo -di cui quasi 34.000 da noi - sono un' enormità, certo, ma com' è possibile che 265.000 di esse, il 70%, siano concentrate in appena sei paesi, ovvero Stati Uniti, Regno Unito, Italia, Brasile, Francia e Spagna? Conosco già la replica: che vuole, signora mia, succede per via dei conteggi che ciascuno ha fatto a modo suo.
Dei magheggi veri o presunti fatti sui medesimi.
Dei tamponi fatti solo ai sintomatici, oppure fatti anche agli asintomatici.
Dei fattori ambientali e delle polveri sottili.
E poi, guardi, i casi reali sono molti di più, quanti? Ah be', 10 volte tanto, forse 100, chi può dirlo, e via ipotizzando senza mai una certezza finale, e perfino l'Oms si è fatta Totò: «punto, due punti, punto e virgola: massì, facciamo vedere che abbondiamo?». Com' è possibile che l' India, un miliardo 380 milioni di abitanti, molti dei quali ammassati in slums, baraccopoli fatiscenti come le favelas di Rio de Janeiro, abbia meno di 200.000 contagi e meno di 6.000 morti, mentre il Brasile, che ha un settimo della popolazione (212 milioni) ha contagi più che doppi, 515.000, e decessi che sono cinque volte tanto, circa 30.000? E com' è che la Cina, epicentro del terremoto virale, 1 miliardo 440 milioni, ha una massa di contagiati che sono meno della metà di quelli del subcontinente indiano, 83 mila, ma con un numero di decessi pressoché equivalenti, 4.600, nella loro irrilevanza? E perché la Francia, più o meno gli stessi contagiati della Germania, 188.000 contro 183.000, ha un numero di morti più che triplo, 28.800 contro 8.600? Come mai il Giappone, quasi 127 milioni di abitanti, ha poco meno di 17.000 contagiati, cioè gli stessi di Israele (poco più di 17.000), che però ha una popolazione che non arriva ai 10 milioni? Ma che dire della Nigeria, 206 milioni di anime, che ha un morto per milione di abitanti, in confronto al Belgio, 11 milioni e mezzo di abitanti, che di morti per milione ne ha addirittura 817, superando di gran lunga il secondo Paese in questa classifica, la Spagna, 580? Interrogarsi su queste stranezze, che non sono solo statistiche, non significa non aver rispettato le scelte del governo. Sono un cittadino che rispetta le prescrizioni legislative anche quando non le condivide, a cominciare da quelle in materia di tasse. Ma devo comunque autodenunciarmi: all' inizio, ho sposato la linea di chi «relativizzava» la portata del pericolo. Essendo ipocondriaco, cercavo tutte le notizie a favore di questa tesi per esorcizzare le mie paure. Solo che poi a prevalere sono state le voci che annunciavano, con le trombe dell' apocalisse, la fine del mondo prossima ventura, e io mi sono comportato di conseguenza: mi sono barricato tra le quattro mura domestiche, pronto a usare io il lanciafiamme (di deluchiana memoria) su chiunque si fosse avvicinato alla mia porta. Così ligio che perfino ai microfoni di Virgin Radio ho sostenuto la totale adesione ai diktat ufficiali, anche perché, se avessi fatto il contrario, o l' emittente mi avrebbe licenziato o sarei stato comunque denunciato per propaganda negazionista. Tanto più che, avendo una compagna dirigente di un ospedale romano e un cognato in Polizia, avrebbero provveduto loro a farmi portare via con un' ambulanza (ammesso ne avessero trovata una: purtroppo erano tutte impegnate). Di più: essendo un pro-vax, ma in questo caso mancando il vaccino, non ho mai pensato che fosse un' idea geniale puntare sull' immunità di gregge come il caso di Boris Johnson e della Gran Bretagna hanno ben illustrato. Aggiungete che ho un carissimo amico d' infanzia, oggi a capo di una grande Asl calabrese, che in quei giorni si dichiarava semplicemente terrorizzato nell' immaginare cosa sarebbe successo al Sud quando (non «se», ma «quando») il virus avesse sfondato la linea del Po attraversando la penisola. Quando però ci siamo sentiti in occasione della morte di mia madre, due settimane fa, era sbalordito: «A fine mese in Calabria saremo a zero contagi. Non c' è stato alcuno tsunami, e non riesco a capire cosa sia successo: anzi, non riesco a spiegarmi perché non sia successo», e vagli a spiegare che secondo alcune teste pensanti i «terroni» - che si lamentano sempre - sarebbero in realtà protetti da una sorta di «scudo genetico». Ovvio, si dirà: ringraziate la quarantena, altrimenti i morti sarebbero stati milioni. Così, per un Gilberto Corbellini, docente a La Sapienza di Roma - che sostiene: «Il Covid è stato il virus più mediatizzato della storia della medicina. Quando guardo i numeri, mettiamo anche che siano 100 milioni di contagiati, mi viene da pensare: per l' Asiatica nel 1958 abbiamo avuto tra 1 e 3 milioni di morti, con oltre 500 milioni di casi» - ci sarà sempre qualcuno che obietterà: «Per forza, perché non hanno chiuso tutto come noi», e saremo da capo a dodici. Sapendo però che, con questa logica, la fine dell' emergenza potrebbe non arrivare mai. Quando l' altro giorno mi sono messo in fila all' Ikea (non mi sono fatto mancare niente, in questo periodo) un solerte addetto all' ingresso rilevava la temperatura con il termoscanner. «Da quanto è in servizio?», gli ho chiesto. «Sei ore». «Persone con la febbre?». «Neppure una». Ma poi, sentendosi forse obbligato a non lasciarmi andare via con l' idea sbagliata che il virus sia stato sconfitto o sia più innocuo, ha aggiunto: «Lei lo sa, vero, che ci sono gli asintomatici?», e così mi ha rimandato alla casella di partenza.
(Ps: Il dottor Andrea Zangrillo, direttore della terapia intensiva del San Raffaele di Milano, ha dichiarato: «Il Covid da un punta di vista clinico non esiste più»; intendeva non la scomparsa del virus, ma la fine dei suoi effetti perversi sulla sanità, una cosa abbastanza ovvia, che la mia compagna mi aveva già anticipato: i posti di pronto soccorso non sono più presi d' assalto, le terapie intensive sono sguarnite, le sirene delle ambulanze si sono zittite. Lo hanno più o meno accusato di essere un untore. Non ne usciremo più).
Alessandro Sansoni (Ordine dei Giornalisti): «Così i media condizionano l’opinione pubblica». Federico Cenci il 18 maggio 2020 su Il Quotidiano del Sud. Esiste il coronavirus. E poi esiste la narrazione sul coronavirus. Mai come durante questa emergenza sanitaria l’informazione ha dimostrato di detenere ancora le redini del quarto potere. Del ruolo svolto dai media il Quotidiano del Sud ne ha parlato con l’esperto di comunicazione Alessandro Sansoni. Napoletano, componente dell’esecutivo dell’Ordine nazionale dei Giornalisti, è direttore di Culturaidentità.
Che ruolo sta svolgendo l’informazione?
«Decisivo. Ha dimostrato di avere ancora una grande capacità d’influenza. Mi riferisco soprattutto alla tv: per molto tempo si è detto che, con l’avvento dei social network, il tubo catodico avesse perso autorità. L’emergenza coronavirus ha dimostrato il contrario: toccando i tasti giusti dei temi che interessano le persone, come quello della salute, la tv riesce a esercitare condizionamento».
E in che modo sta condizionando le persone?
«La diffusa accettazione del lockdown da parte degli italiani è il risultato di quest’opera di persuasione. Va sottolineata a tal proposito l’assenza di capacità critica da parte dei media italiani, che soprattutto nella fase iniziale hanno avuto un eccesso di zelo nei confronti delle misure adottate dal governo. In altri Paesi europei, al contrario, si è registrato un dibattito sull’opportunità di fare una serrata draconiana per contenere i contagi».
Come spieghi questa accondiscendenza dei media al lockdown?
«Con la mentalità italiana che reputa la salute un valore prioritario rispetto ad altri diritti importanti come quello allo studio, al lavoro, agli spostamenti. E così si è assecondata la strada apparsa più efficace per contenere i contagi, anche a costo di sacrificare altri diritti costituzionali».
Come ne esce il Sud Italia dalla narrazione sul coronavirus?
«Sarebbe stato opportuno, da parte dei media, alimentare un dibattito sulla necessità di diversificare le misure restrittive a seconda delle Regioni italiane. Il lockdown così duro ha forse un senso al Nord, ma è spropositato al Sud. Ora il paradosso è che qui al Meridione, per il nostro tipo di economia, molto legata al turismo e al terziario, avremo una recessione maggiore rispetto a quella del Nord, pur non avendo subito un’aggressione della malattia altrettanto intensa. In questo caso l’assenza di dibattito avrà effetti concreti: la gente del Sud non morirà tanto di coronavirus, quanto di fame».
A proposito della durezza del lockdown italiano, certe restrizioni hanno riguardato anche la libertà d’informazione?
«Un mese fa il governo ha istituito una task force di esperti con il compito di vigilare sulla diffusione di fake news relative al virus. Ammesso e non concesso che servisse un simile provvedimento, è singolare che l’osservatorio sia stato costituito dal governo, senza alcuna attenzione verso la necessità di preservare garanzie di pluralismo. Per evitare l’impressione che si fosse di fronte a un “ministero della verità” di orwelliana memoria, sarebbe stato meglio incardinarlo all’interno del Parlamento, e coinvolgere gli enti che già oggi hanno il ruolo di vigilanza rispetto alla corretta deontologia giornalistica, mi riferisco all’AgCom e all’Ordine dei giornalisti».
Quale riflessione suggerisce agli operatori dell’informazione questa emergenza?
«Che bisogna recuperare un po’ di autodeterminazione, senza appiattirsi su tesi consolidate. Il ruolo della stampa libera è smontare le fake news, anche quelle del governo. Perché ricordo che il maggiore spacciatore di fake news è sempre il potere».
Antonio Socci e il dubbio sul coronavirus: "Qualcosa non torna, perché non si parla delle cure che stanno diventando sempre più promettenti?" Libero Quotidiano l'1 maggio 2020. "C'è qualcosa che non mi torna". Antonio Socci nutre qualche dubbio su quanto gira attorno al coronavirus. L'editorialista di Libero, in un cinguettio, si interroga: "Perché non si parla delle cure che stanno diventando sempre più promettenti (per esempio questa) e stanno davvero sconfiggendo il Covid_19 ? Perché si vuole creare un'attesa messianica attorno al vaccino? Chiedo per capire". Socci fa riferimento alla cura trovata a Pavia: il plasma. Quest'ultimo, proveniente dagli infetti, farebbe sparire il Covid-19 in 48 ore. Un risultato clamoroso che, come scrive Socci, "sfida il silenzio e gli interessi", ma che nessuno ai piani alti, fino ad ora, ha citato.
Coronavirus, i dubbi di Mario Giordano sull'Agenzia del farmaco europea: "Chi la finanzia", conflitto di interessi? Libero Quotidiano l'1 maggio 2020. L'emergenza coronavirus dà parecchio da pensare a Mario Giordano. Il conduttore di Fuori dal Coro, nel suo nuovo libro, mette in luce il dietro le quinte dell'epidemia: "C’è da fidarsi dell’OMS? - si interroga su Twitter in merito al vero ruolo dell'Organizzazione mondiale della sanità - E c’è da fidarsi dell’agenzia europea del farmaco che viene finanziata per l’84 per cento dalle aziende farmaceutiche che dovrebbe controllare?". Proprio così, Giordano, visto il notevole aumento dei prezzi dei farmaci, non esclude che qualcuno stia speculando sulla nostra salute. "Gli ultimi rapporti - si legge nella descrizione della sua nuova opera - ci dicono che la spesa medica si trasferisce sempre più sulle spalle delle famiglie. Il Servizio Sanitario Nazionale è alle corde ma nessuno ne parla. Ecco l'elenco, nome per nome, di chi ci sta rubando la vita per riempirsi le tasche: aziende farmaceutiche, assicurazioni, imprenditori senza scrupoli e altri affaristi".
La macchina del panico. Ursula Bassi su Il Riformista il 29 Aprile 2020. Ogni volta che l’opinione pubblica mostra di aver dei dubbi sulle scelte del governo, spunta fuori un documento segreto o uno studio riservato. È successo la scorsa settimana, di fronte a tanti dubbi e perplessità, è uscita la notizia dell’esistenza di un documento segreto del gennaio scorso, che prevedeva fra i 600.000 e gli 800.000 morti se il governo non avesse deciso di procedere con la chiusura del Paese. Ieri è successa la stessa cosa. Mentre tante persone si fanno domande se questa fase 2 sia quello che serve all’Italia, alla stampa viene passato un documento dove vengono formulate 46 ipotesi di riapertura. Fra queste una è particolarmente disastrosa: in caso di riapertura totale, l’8 giugno in Italia raggiungeremmo un fabbisogno di oltre 151.000 posti in terapia intensiva. Ora al di là del fatto che la riapertura totale non è mai stata un’opzione sul tavolo e dei dubbi sulla questione che si possa raggiungere un numero così alto di casi critici in un mese, la domanda che mi faccio è un’altra: perché di fronte a legittimi dubbi dell’opinione pubblica, invece di spiegare il motivo delle scelte che sono state fatte, si procede sempre con l’attivazione della macchina del panico? Siete sicuri che terrorizzare gli italiani sia quello che realmente serve al Paese? Ieri in Francia è stata annunciata la fase due e il confronto con noi è sconfortante: il Primo Ministro era in Parlamento non in diretta Facebook, in Francia scomparirà l’autocertificazione, le scuole apriranno e anche i negozi, ma soprattutto la fase 2 sarà basata “sulla responsabilità individuale e la coscienza che ciascuno deve avere nei confronti degli altri”. Perché in Francia, che stanno combattendo la stessa battaglia contro lo stesso virus, hanno una strategia così diversa? Perché il Governo francese si fida dei francesi e il Governo italiano non si fida degli italiani? Qualcuno mi aiuta a capire?
PS. Sempre nell’ottica della macchina del panico, ieri i Media italiani e il Ministro della Salute Speranza hanno parlato del fatto che in Germania, dopo le prime riaperture di scuole e negozi, i contagi sono risaliti. No, non è vero. Però a differenza di quanto è successo ieri, la notizia che smentisce non la trovate in alto nella home dei siti d’informazione.
L’Italia in quarantena e i programmi in tv dove regna la litigiosità. Walter Siti de Il Riformista il 22 Aprile 2020. Durante la quarantena gli ascolti televisivi sono aumentati sensibilmente: per la maggioranza degli italiani tappati in casa, la tivù è rimasta la sola fonte di spettacolo e di svago (a parte i maniaci del web e i ragazzi ipnotizzati dalla playstation). Naturalmente conta anche il bisogno di informarsi sullo stato dell’epidemia e sui decreti governativi, infatti tutti i telegiornali hanno registrato un incremento; ma per gli anziani con un grado medio o basso di istruzione, a farla da padrone sono le soap e i vecchi film. L’aumento degli ascolti dovrebbe portare a un maggiore introito pubblicitario, se non fosse che le aziende chiuse o in crisi non hanno soldi da investire in pubblicità; l’auspicio di Urbano Cairo nel suo discusso discorsetto motivazionale ai venditori si è rivelato vero a metà – gli spazi pubblicitari sono occupati dalle pubblicità progresso degli enti pubblici, e molte aziende hanno orientato i loro spot (vedi quello della Toyota) verso l’incitamento a non mollare, senza nemmeno mostrare o nominare il prodotto. Si esalta l’Italia, si corre per mano verso il mare futuro, si omaggiano i nonni (vedi lo spot della pasta Rummo). È difficile distinguere i messaggi delle aziende da quelli dello Stato, ma soprattutto è difficile distinguerli dai messaggi che arrivano attraverso i talk pomeridiani o domenicali di maggiore ascolto. Siamo forti, ce la faremo, sapremo correggere le storture verificate finora, la tragedia può diventare un’opportunità. Questo sembra confliggere con un serpentello che da un paio di settimane si è insinuato nei programmi di approfondimento serale: quello della polemica a ogni costo, la ripresa dell’urlio e della contrapposizione partitica. Il ritornello “questo non è il momento delle polemiche, però…” sta lentamente trasformandosi nel consueto agone para-elettorale, con richieste di commissariamento e sfiducie minacciate, ricorsi al Capo dello Stato eccetera. La televisione, come al solito, è specchio del Paese: dopo settimane di canti dai balconi e bandiere alle finestre, nell’animo degli italiani sembra sia subentrata una gran voglia di attaccare briga. Con chiunque: col disgraziato che prova a prendere il sole su una spiaggia deserta, coi ragazzi di sotto che si bevono una birra insieme, col vecchietto egoista che vorrebbe vedere tutto sbarrato, coi tedeschi che hanno le fabbriche aperte e si ostinano a morire pochissimo. Le Procure si stanno intasando di migliaia di denunce e di ricorsi contro multe ritenute ingiuste. I nervi di tutti sono a fior di pelle, l’unico dato materiale che impedisce in televisione gli scontri più pirotecnici è il distanziamento: difficile darsi sulla voce, o minacciare le vie di fatto, quando in studio ci sono solo due poltrone e gli altri litiganti sono collegati via skype, con il sonoro che va e viene. La verità è che, dopo due mesi, la pandemia rivela i tre principali vizi italici: la litigiosità, la retorica e il sentimentalismo – che coprono col loro rumore l’efficienza e il senso dello Stato. Si stanno aprendo strani cortocircuiti: i medici e gli infermieri eroi sono contrapposti alle inchieste sulla malasanità, ma qualche operatrice a un centro per anziani, forse, avrà lasciato che un ospite andasse dove non doveva. Sarebbe interessante sapere, tra i vecchi abbandonati, quanti erano regolarmente visitati dai parenti. Ci sarebbe bisogno di narrazioni realistiche, non di polarità stereotipe. Così come i palinsesti televisivi oscillano a pendolo tra il diluvio di ore dedicate alla pandemia (o ai suoi riflessi) e i programmi di pura evasione. La serietà non-Covid non ha udienza, e sono lodevoli eccezioni (Zoro, Cattelan) quelli che riescono a parlare di cose serie divertendo. Alcuni ex programmi di trash e cazzeggio, come il Grande Fratello Vip o Non è la D’Urso, si sono trasformati in prediche paternalistiche, o maternalistiche, a dominante sentimentale e religiosa. Con esiti spesso imbarazzanti, dalla retorica all’esagerazione non c’è che un passo: nell’ansia di dare il buon esempio, persone che si sono abbracciate e urlate sulla faccia fino a un attimo prima sono invitate a non tenersi più per mano appena varcata la soglia della Casa del GF, come se il contagio fosse nell’aria stessa dell’esterno. In una diretta su Rai1 si parla del “crocefisso che fece cessare la peste del 1348”, così, senza un briciolo di scettica riserva. Sono spariti come per incanto i blocchi di trasmissione scollacciati che andavano in onda dopo la mezzanotte, con ostensione di seni e glutei; ed è un peccato, perché mai come ora le teste degli italiani sono state piene di sesso, data la repressione forzata (le connessioni ai siti porno sono anch’esse aumentate del 25%). Visto che la scienza, com’è ovvio, non sa offrire certezze ma solo dubbi da superare studiando, e data la confusione ai limiti del ridicolo delle misure governative (la crostata alle albicocche comprata dal panettiere è lecita, mentre quella alle visciole la si chiede al pasticciere sottobanco), in questo vuoto incerto la massima autorità della Nazione sembra essere diventata il Papa; che certo dice cose sagge, ed è uomo ammirevole e coraggioso. Ma perché aspettare che sia lui a dire “credevamo di essere sani in un mondo malato”, e meravigliarsene come di un’affermazione inedita? Dove sono finite le cento e cento pagine degli intellettuali laici contro la società dello spettacolo, la perdita della realtà, il denaro come unico criterio di valore, la folla solitaria, l’adorazione di finanza e tecnologia? Possibile che la cultura laica non sappia trovare le parole per compatire e rassicurare? La serietà illuministica esiste, è ancora viva e capace di ironia; l’attenzione per le ricadute pratiche della ragione, per la salute pubblica e i prezzi delle granaglie, per le statistiche e le loro applicazioni sociali – tutto questo non può essere affidato solo alla politica “politicienne” e ai virologi (che pure saranno tentati da un’inconscia e umanissima resistenza a perdere il protagonismo che in questo momento detengono). L’illuminismo lombardo, e napoletano, è stato un gran bel momento della nostra storia nazionale; ha innervato di concretezza i pregi italici (la solidarietà spontanea, la fantasia, la gioia di vivere). Si può parlare anche di questo in televisione? Si può concedere uno spazio nei palinsesti a sociologi, storici, antropologi, economisti, senza che vengano subito sommersi dal sottosegretario urlante o dalle lacrime di una figlia straziata? Si può insomma trovare, anche sul piccolo schermo, un angoletto di calma?
Diario del virus: palinsesto. Gianfrancesco Turano il 20 aprile 2020 su L'Espresso. Inizia la prima settimana con il nuovo palinsesto Covid-19. La società dello spettacolo perde la sua viralità quotidiana e passa a una distribuzione settimanale secondo lo schema seguente. Lunedì e giovedì, conferenza stampa in Protezione Civile. Master of ceremonies, Angelo Borrelli. Martedì e sabato tocca al commissario all'emergenza Corona virus, Domenico Arcuri. Venerdì scende in campo all'Istituto superiore della Sanità Silvio Brusaferro. La rarefazione dei dati si riflette anche sull'online. Non più bollettini Iss bisettimanali al martedì e al venerdì ma un bollettino solo al giovedì. La crisi dell'audience investe anche Giulio Gallera, assessore forzista al Welfare della Lombardia che si è molto risentito di qualche critica da parte della stampa, accusata di sciacallaggio. L'avv. Gallera è stato deprogrammato già dalla scorsa settimana. Titolo del 18 aprile: La Lega oscura Gallera. Lo scrive il Corsera. La tematica dello sciacallaggio potrebbe essere altrettanto bene ribaltata su certi politici desiderosi di un upgrade di carriera a dispetto di una dozzina di migliaia di cittadini cancellati dalle liste elettorali per avvenuto decesso. Ma questo blog è profondamente gallerofilo, come ci si aspetta dall'organo ufficiale dei CxB (Comunisti per Berlusconi), e il tema non è comunque questo. Quasi due mesi fa un gruppo di persone non del tutto identificate ha deciso di fornire informazioni quotidiane sul virus. Oggi un gruppo di persone, sempre ignote ma non necessariamente le stesse del primo gruppo, ha deciso che una volta ogni tanto basta e avanza. Il resto si trova sul sito. Inutile dire che l'accesso a un sito, rispetto a una diretta tv, implica motivazioni stringenti, banda abbastanza larga e un minimo di know-how. Più fatica, insomma. Allora perché la svolta? In assenza della buona grazia di una spiegazione, si può congetturare. Stanchezza dei partecipanti no, perché la televisione crea dipendenza incurabile. Domande imbarazzanti da parte dei cronisti presenti nemmeno, perché se ne sono sentite pochissime e a quelle poche è bastato non rispondere. Inutilità della messa quotidiana? Già più probabile. Ancora più probabile è che si tratti dell'inizio di una rimozione psicologica graduale in vista della fase 2 quando, in sostanza, chi campa campa e chi muore muore. Sembra insomma declinare un universo di personaggi che si erano conquistati un loro seguito: Ranieri Guerra, Gianni Rezza, Luca Richeldi, Franco “grazie per la domanda” Locatelli e il suo eloquio puro-impuro (il 17 aprile ha usato più volte l'anglismo “clirare” dopo il suo preferito “pagare attenzione”). Declina in parallelo l'accesso ai dati, incompleti, magari distorti, ma pur sempre utili a formarsi un'idea, fosse solo quella della loro incompletezza e distorsione. Un fattoide è certamente un surrogato, magari tossico, ma non perché l'aria è inquinata possiamo smettere di respirare. Vivremo di ricordi, di frammenti, di slogan in disuso, di episodi mitologici come il contagio dei codognesi alla Fiera del Fieno di Orzinuovi, di inviti ossessivi a non uscire e di tante belle raccomandazioni che, fattoidi alla mano, sono servite a poco. Lombardia news. Dopo l'esonero dell'assessore Gallera ieri è stato trasmesso il nuovo format dell'ex Gallera news. Ecco com'è andata.
H17.15 collegamento con l'assessore alla Protezione civile Pietro Foroni, riconoscibile per il giubbino giallo-nero con bande catarifrangenti. Filmino introduttivo con immagini di repertorio che illustrano grandi successi e un aneddoto edificante sull'utilissimo Ospedale in Fiera. Durata dell'inserzione pubblicitaria: 22 minuti sottolineati dai commenti che scorrevano sulla banda a destra dello schermo (“che palle!”, “basta”, “i datiiii”, “mascherine gratis? chi le ha viste, solo comprate” e infine l'urlo angoscioso “Vogliamo Gallera. Dov'è finito?”).
H17.37, cinque minuti di dati così così, si è sentito di peggio.
H17.42 riparte l'agit-prop con uno spot dedicato agli aiuti internazionali che sembra uscito dalla Repubblica Democratica Tedesca (DDR) fine anni Settanta.
È tutto un inno alla solidarietà internazionalista, agli amici cubani, albanesi, rumeni, coronato da un finale e tonante “Vinceremo!” con crescendo sinfonico in sottofondo. A che servirà mai l'Lsd.
Il virus e la manipolazione dell’opinione pubblica per paura del mostro. Giuliano Cazzola de Il Riformista il 10 Aprile 2020. L’aspetto più stupefacente della crisi da virus è la manipolazione dell’opinione pubblica che, per paura del mostro sconosciuto, ha accettato supinamente di cambiare vita, abitudini, prospettive professionali e comportamenti affettivi; che ha messo a rischio il proprio futuro per salvare un presente privo di speranza. Le direttive impartite dalle autorità sono diventate un dogma, al punto di promuovere una sorta di ‘’vigilanza civica’’ nei confronti di chi non vi si attiene scrupolosamente e – diciamolo pure – un po’ stupidamente. Ci sono regole che non sono previste in nessuna legge, circolare o direttiva, ma che sono entrate a far parte di una sorta di etica pubblica.
1) La spesa al supermercato. Sarebbe buona norma – assicurano gli "educatori" – farla una volta la settimana. Acquistare pane fresco tutti i giorni non rientra nei canoni di una spesa intelligente ma è un gesto di egoismo (come è stato detto in tv) che mette in pericolo gli altri. Per entrare nei supermercati e nei negozi aperti si fa la fila, in posizione distanziata; puoi passare (c’è un commesso Caronte sull’ingresso) solo quando è uscito un altro. A Bologna, la mia città, ci sono i portici, con le colonne a distanza di sicurezza, l’una dall’altra. In questi casi, gli avventori somigliano a un plotone di Marines che dà l’assalto a un avamposto giapponese. Appena uno lascia la posizione dietro la sua colonna ed entra nel negozio, gli altri avanzano tutti di un posto stando rigorosamente al riparo.
2) La circolazione. C’è qualcosa di più stupido che considerare pericolosa per la salute pubblica una passeggiata in solitudine e con tanto di mascherina? Il ministro degli Interni Luciana Lamorgese, che aveva concesso – in vista della primavera incipiente – un’ora d’aria ai bambini (stanno chiusi in casa da 40 giorni), ha rischiato di essere accusata di una nuova ‘’strage degli innocenti’’. C’è poi l’obbligo dell’autocertificazione. A parte il fatto che anche nei regimi dittatoriali più feroci non risulta esservi mai stato un sistema di coprifuoco tanto puntiglioso, sono stati predisposti e resi operativi almeno quattro diversi moduli da scaricare dal sito del Viminale, nel presupposto che tutti abbiano un computer e la stampante (per fortuna hanno provveduto a riprodurli i quotidiani locali). Ma dovendo giustificare ogni movimento, non basta compilare un solo modulo, se ne dovrebbe usare uno apposito per ogni occasione.
3) Gli strumenti di protezione. La vicenda delle mascherine evoca la trama di un film horror con un filone umoristico (tipo Frankenstein Junior di Mel Brooks). Le cronache sullo stato dell’epidemia ci informano con dovizia di particolari, tanto a livello nazionale quanto locale, delle iniziative in corso per procurarsi quell’esile tutore diventato indispensabile, salvo riproporre le smentite il giorno seguente. Da altri Paesi sono pervenute tonnellate di mascherine, le grandi imprese di moda hanno convertito i cicli di produzione per metterne a disposizione della comunità (chissà se ogni atelier avrà uno stile particolare da presentare in défilé con modelle rigorosamente in scafandro?). Hanno intrapreso lo stesso sforzo numerose imprese dell’abbigliamento (mentre le fabbriche metalmeccaniche si ingegnano a trasformare gli impianti per produrre respiratori). Ma, al dunque, non siamo ancora in grado di sopperire al fabbisogno non solo della cittadinanza (che ricorre all’arte di arrangiarsi) ma degli operatori sanitari a cui non servono mascherine purchessia, ma oggetti specifici da usare nelle varie fasi della terapia. Capita così che vi siano forniture arrivate da chissà dove che non rispondono ai canoni richiesti. Poi intervengono le certificazioni delle istituzioni competenti ai vari livelli, dall’Oms al medico di base. Nessuno mette in dubbio che i prodotti destinati alla salvaguardia dell’integrità delle persone (soprattutto se dislocati in prima linea come il personale medico e paramedico) debbono corrispondere a precisi criteri sottoposti ad autorizzazione. Bisognerebbe, però, snellire i riti burocratici, aggirare le procedure, sottrarsi alla tirannia dei centri di costo (come la Consip) e decentrare gli acquisti sulla base di una modellistica il più possibile uniforme lungo tutta la Penisola. Come se non bastasse è scoppiata una vera e propria batracomiomachia tra il governo, la Regione Lombardia e la Protezione civile sull’uso delle mascherine da passeggio. Un tema che nei giorni scorsi è stato oggetto di ore di chiacchiere inutili in tutti i talk show. 4) La comunicazione. Sono 40 giorni (se non abbiamo perso il conto) che le più importanti reti televisive nazionali (e quasi tutte quelle locali) cominciano al mattino per finire in seconda serata a parlare di Covid-19, sviscerando ogni possibile filone nuovo emerso in giornata: la pandemia è in calo o in crescita? Bastano i provvedimenti del governo a fronteggiare la crisi? Persino la pubblicità commerciale si è adeguata alla lotta contro il virus. A dire il vero, il governo ha fatto e fa quello che può, tanto che le opposizioni (con l’eccezione dell’ex Cav) sono costrette ad arrampicarsi sugli specchi per criticare le misure adottate. Ci aiuta ad affrontare questo grave momento il pensiero che l’Onnipotente non si è dimenticato di noi. Non fidandosi del nostro libero arbitrio (ormai smarrito e confuso da tempo) il Signore ha provveduto, nell’agosto scorso, a confondere la mente di Matteo Salvini inducendolo, con l’aiuto di qualche mojito di troppo, a mettersi in quarantena politica, a tempo indeterminato, da solo. Sarebbe stato un bel guaio dover fare i conti anche con un’infezione sovranpopulista; e con un paziente zero stanziato al Viminale o, addirittura, a Palazzo Chigi.
5) La dittatura della competenza. La parola è tornata agli scienziati, soprattutto se virologi insigni. La linea è orientata sul tragico andante. Se qualche medico si azzarda a usare toni meno drammatici, viene minacciato e invitato a tacere per non assumersi la responsabilità di indurre le persone ad abbassare la guardia. Roberto Burioni zittisce Maria Rita Gismondo, mentre Ilaria Capua usa prudenti giri di parole per timore, forse, di incappare in altri guai giudiziari, se non si allinea con la dottrina dominante. Ma la cosa più singolare è che gli scienziati, saltando da un talk show ad un altro, esprimono posizioni diverse. Se sono onesti “sanno di non sapere”. Eppure parlano del Covid-19 come se fosse un loro cugino di cui raccontano morte e miracoli: a che famiglia appartiene, come si riproduce, come aggredisce, per quanto tempo resta attivo, se preferisce le donne agli uomini, se fugge davanti ai neri e così via. Il fatto è che le uniche indicazioni terapeutiche che sanno indicare consistono negli arresti domiciliari e nel praticare le abitudini di Ponzio Pilato. Facciamoci coraggio. Moriremo guariti. Pereat mundus, salus fit.
Luca Dondoni per “la Stampa” l'1 aprile 2020. Dapprima le note dalla colonna sonora di Forrest Gump, le immagini di un' Italia «in attesa» e poi Cesare Cremonini con Poetica e Un Giorno Migliore hanno dato il via a quello che sarà ricordato come il super evento #Musicacheunisce. L' attore Svevo Moltrasi è stato scelto per fare la parte dei tanti italiani chiusi dentro casa in quarantena, ostaggi del lockdown. E allora via alle immagini di un' Italia meravigliosa con i suoi scorci, monumenti, piazze, valli, montagne, fiumi, il «bosco verticale» milanese, ma anche Firenze e le sue bellezze. Tutti gli artisti si sono esibiti da casa o dal proprio studio e lo show è stato capace di catalizzare davanti alle telecamere dei loro telefonini decine di superstar delle sette note made in Italy. Raiuno ha dato spazio al web e così abbiamo assistito al passaggio di consegne fra la tv per come l' abbiamo sempre vissuta e il nuovo mix con la Rete. Il coronavirus sta accelerando comportamenti che ci porteranno a interagire con i mezzi di comunicazione diversamente da quanto fatto sinora. Tiziano Ferro da Los Angeles, Roberto Bolle, con la barba e Virginia Raffaele che ballano sugli schermi di due telefonini. Levante incanta al piano con la sua Tiki Bom Bom. Marco Mengoni fa una versione di What the world needs now di Burt Bacharach molto bella e Riccardo Zanotti, il cantante dei Pinguini Tattici Nucleari intona Bergamo, la canzone dedicata alla sua città, tra le più colpite dalla pandemia. Pierfrancesco Favino e Paola Cortellesi dialogano a distanza e invitano a stare a casa anche «se è tanta la voglia di vedere le persone che si amano e ora si amano ancora di più». Andrea Bocelli con il suo medley al pianoforte spiazza chi credeva si sarebbe espresso con romanze: è andato da Renato Zero a Fabio Concato ricordando i suoi diciotto anni quando: «tutto quello che facevo lo facevo col cuore». I ragazzi de Il Coro che non c' è, studenti dai più svariati licei d' Italia, incantano con il pezzo intitolato Helplessly Hoping. Nessuna invidia per i cori americani o inglesi che tanto invidiavamo. Qui c' è gioventù, anima, voglia di vivere e tanto altro. Francesco Gabbani della sanremese Viceversa che qui ha un senso più forte. Francesca Michielin e Fedez si ritrovano con Magnifico e scaldano il cuore tanto quanto Emma, dolce e dentro la sua canzone come mai. Poi le immagini degli operatori ecologici che puliscono le strade, degli infermieri, degli autisti delle ambulanze e di tutti coloro che stanno lavorando 24 ore al giorno perché si torni alla normalità. Nel rimpallo fra attori e musicisti arriva Luca Montalbano Zingaretti che anticipa Il Volo. L' intervento del capo della Protezione Civile Angelo Borrelli ci ricorda perché stiamo donando alle persone che lavorano con lui. Elisa, Valentino Rossi, i Negramaro, tutti riuniti grazie allo schermo diviso in sei e poi Gigi Proietti. Che bello sentirlo declamare i versi di Viva L'italia di Francesco De Gregori. Gigi D' alessio suona il piano benissimo e lo dimostra proponendo Piovani mentre Ermal Meta, albanese orgoglioso ricorda Leonard Cohen che con Hallelujah ha scritto la più bella delle preghiere laiche. Federica Pellegrini, Tommaso Paradiso ma anche Riccardo Cocciante accompagnano noi spettatori sino al vincitore dello scorso Festival. Diodato canta come un urlo qual è la sua Fai Rumore ed è un frastuono che vorrebbe fare a pezzi il virus. Tocca a Mamhood con una versione per piano solo di Rapide. È stato un momento di tv altissimo che ricorderà come i tempi bui, in qualche caso, siano pieni di luce.
La signora dei "segni" appare alle 18. "Così in tv spiego l'epidemia ai sordi". Dal bollettino quotidiano di Borrelli ai video-appelli del premier. Nino Materi, Martedì 31/03/2020 su Il Giornale. Susanna Di Pietra, 33 anni, romana, vive di parole, emozioni, sentimenti. Ma anche di «gesti». Sono quelli che lei fa, ogni giorno, per tradurre ai sordi i discorsi sul Coronavirus: numeri, provvedimenti, raccomandazioni su tutto ciò che riguarda l'emergenza Covid-19. Per gli italiani è diventato un volto familiare, soprattutto da quando appare in tv con regolarità a fianco del premier Conte e del capo della Protezione civile, Borrelli. Tocca a Susanna l'ingrato compito di far capire al popolo dei sordi tutte le novità di giornata sull'epidemia che ha segregato in casa un intero Paese. «È una responsabilità enorme - spiega Di Pietra al Giornale -. Anch'io, come tutti, sento il peso delle informazione che sono chiamata a illustrare attraverso non solo l'alfabeto dei gesti, ma anche il linguaggio del corpo». Insomma, un combinato disposto tra la gestualità delle mani è l'espressività del volto. «Se le frasi pronunciate dai relatori vengono espresse con un tono allarmato o rassicurante - racconta Susanna - chi svolge il mio lavoro deve essere in grado di trasferire ai sordi anche questi particolari tipi di emotività». Purtroppo, ormai da settimane, traduce numeri di morte e situazioni angoscianti: «Cerco di farlo nella maniera più precisa e completa possibile. Non indosso mai abiti vistosi né gioielli per evitare di distrarre i telespettatori che così possono concentrasi esclusivamente sull'importanza del messaggio». Durante i drammatici video-messaggi alla nazione del presidente Conte e nel corso delle conferenze stampa in diretta con Borrelli, Susanna mostra sempre un'assoluta padronanza dei tempi e i suoi gesti iniziano e si interrompono esattamente in sincrono con l'inizio e la fine degli interventi di chi in quel momento sta parlando al microfono. Una perfezione attestata anche dai tanti complimenti ricevuti da Susanna. I cui occhi e riccioli neri hanno bucato il video: «Ammiratori? Beh, non esageriamo...». Di Pietra è stata chiamata a svolgere il suo compito in tv attraverso l'Ente Nazionale Sordi, ma conosce bene e stima anche Francesca Malaspina, presidente nazionale del'Associazione interprete di lingua dei segni (LIS) grazie alla quale questa professione ha acquisito un suo ruolo sociale di primo piano, riconosciuto anche dallo stesso premier Conte. «Quello dell'interprete LIS - spiega Malaspina - è un lavoro fondamentale per garantire il diritto delle persone sorde. Esistono infatti innumerevoli ambiti della vita quotidiana nei quali è richiesta la nostra figura: una traduzione in tribunale, in sala operatoria, dal notaio, all'università. Ma anche in situazioni più leggere, com'è accaduto durante l'ultimo Festival di Sanremo con i nostri interpreti che, affiancati da alcuni performer, hanno rappresentato le canzoni in gara».
Aldo Fontanarosa per repubblica.it il 31 marzo 2020. Per settimane i telegiornali e le trasmissioni di approfondimento hanno fatto il pieno di ascolti puntando sul coronavirus. Tanti italiani, che vivono in casa la paura del contagio e l'ansia per il loro futuro, hanno cercato una bussola nell'informazione tv. Adesso, però, l'umore delle famiglie sta cambiando. Il tema coronavirus ha come saturato migliaia di persone, che sono diventate molto più selettive. Si informano ancora, certo, ma pretendono autorevolezza. E appena possono, premiano film e fiction, in forte crescita nel gradimento degli spettatori. Gli italiani - che vogliono evadere - guardano meno gli show, gravati da troppe repliche. A proposito di informazione è significativo il caso dello Speciale Tg1 della sera che - tra il primo appuntamento dell'11 marzo e l'ultimo del 27 - ha perso per strada oltre 3,8 milioni di spettatori. Anche il Tg1 della sera si scopre di colpo, e inaspettatamente, in sofferenza. Gli ascolti dell'ultima settimana rispetto alla precedente parlano di una fuga di oltre 352 mila spettatori dall'edizione di maggiore rilievo (quella delle 20, dati dal lunedì al venerdì). Fuga attenuata solo dal traino che la conferenza stampa del premier Conte ha garantito al Tg1 sabato 28. L'emorragia si registra, ma in forme molto più contenute, anche al Tg5 che accusa una flessione di 58 mila 710 persone (da una settimana all'altra, sempre dal lunedì al venerdì). I dati sui generi televisivi confermano queste tendenze. I programmi di attualità di tutte le reti nazionali - in tre settimane - hanno perduto oltre 210 mila italiani. Tra la prima e la seconda settimana dell'emergenza Covid-19, le fiction sono riuscite a richiamare invece oltre 2,4 milioni di telespettatori in più. Ha aiutato questo genere tv la messa in onda (sulla Rai) di Montalbano. Bella anche la partenza della fiction Doc - con Luca Argentero - che ha esordito con 7 milioni 172 mila spettatori, giovedì scorso. Sempre nell'arco di tre settimane, i telefilm guadagnano lo 0,9% in termini di share medio; i film addirittura l'1,7%. Uno studio della società Barometro cerca di spiegare le ragioni di questa fuga dall'informazione sul coronavirus: "Troppo spesso - si legge - i giornalisti hanno privilegiato una narrazione senza speranza, dai toni a volte addirittura apocalittici". "Le tante iniziative del nostro esercito - il governo, i governatori, i sindaci, ma anche la Protezione civile e gli ospedali - non sono state sempre valorizzate, malgrado abbiano prodotto primi risultati sul campo. Ne è venuta fuori una narrazione cupa e pessimistica al di là delle pur gravissima situazione che l'Italia attraversa".
Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” il 30 marzo 2020. Devo confessare che, quanto il virus, mi sono antipatici coloro che ne parlano ininterrottamente, le televisioni e i giornali, incluso Libero, che ha perso di vista i fatti della vita per correre dietro al microbo assassino. Non c' è rete che non dedichi mattinate e pomeriggi e perfino serate all' infezione. Intendiamoci, il fenomeno è drammaticamente importante e va affrontato con dovizia di particolari, ma è uggioso ascoltare sempre le solite prediche. Ora il tema principale è il famoso picco. C'è o non c' è? Pare di sì e pare di no. Qualcuno guarisce, ma tanti crepano. Dobbiamo gioire o piangere? Poi vi sono città sprovviste di bare, per cui si è rinunciato a celebrare i funerali. Però non mi sembra questo il problema, visto che non mancano solo le casse da morto: a due mesi dall' inizio della pestilenza scarseggiano ancora le mascherine, quasi fossero oggetti preziosi e non brandelli di pezza cuciti alla carlona eppure utili a preservarci dalle bollicine infette emesse dai contagiati di cui siamo circondati. Niente da fare. I medici hanno una dotazione protettiva da Terzo Mondo, in effetti, e insieme agli infermieri vengono sterminati quali zanzare in agosto nella indifferenza più totale della Protezione civile nonché enti affini. La cosa tuttavia non suscita scandalo, la consideriamo ormai una regola italiana. Sorvoliamo sulle intemerate notturne di Conte, che si spaccia per Salvatore della Patria ferita mentre, in verità, cerca soltanto di salvare la carica immeritatamente coperta. Che barba, non se ne può più. Non è permesso entrare in un bar, in un ristorante; vietato circolare a piedi o con veicoli, fare la spesa è diventata una impresa sovrumana, chi va a lavorare deve presentare la giustificazione quale alunno delle elementari. Consentitemi almeno di affermare che non solamente io, ma pure un crescente numero di persone, ne abbiamo piena l' anima di queste quotidiane sevizie. Ci vorrebbe almeno una pausa. Fateci respirare. L'Italia si è fermata per il nostro bene o il nostro male? Il dubbio è legittimo. Ho scoperto che il nostro Paese amato è pieno di virologi, ciascuno dei quali ha una opinione diversa da tutti gli altri, e nessuno di essi è in grado di suggerire una cura che serva ad evitare il camposanto. Da dove arrivano tutti questi specialisti? Li ho contati, sono una pletora, se ne annoverano in quantità superiore a quella dei virus. Scusate, ma quando vedo un virologo mi viene voglia di sparare. Non pretendiamo miracoli, per carità, non ne fa più neanche San Gennaro. Ci basterebbe un po' di silenzio e la opportunità di fare due passi senza l' incubo di munirci del lasciapassare confezionato dal premier foggiano. Infine, noi gente villana aspiriamo a rimpadronirci delle nostre cittadine al più presto. Diteci la data della liberazione prima che giunga il 25 aprile, altrimenti dissotterreremo le armi. Questa non è una protesta, è la fotografia della realtà in cui siamo precipitati senza colpa.
Gerry Scotti rivela: “Ho fatto un fioretto alla Madonna”. Linda il 03/04/2020 su Notizie.it. Gerry Scotti ha rivelato di aver fatto un fioretto alla Vergine Maria, affinché possa intercedere per il bene comune contro il Coronavirus. In questi giorni così particolari, dove vigono l’incertezza e la preoccupazione per il futuro, molti possono trovare conforto nella religione e nella preghiera. Si prega perché questa crisi possa passare il prima possibile. Ma si prega anche per i medici e per tutto il personale sanitario che con coraggio si batte fin dall’inizio per sconfiggere il Coronavirus. Infine si prega affinché si possa tornare presto alla nostra quotidianità, alla libertà negli affetti e in generale al manifestare concretamente il nostro amore. Così fanno anche molti Vip, che da sempre palesano apertamente la loro fede: uno su tutti è l’amato zio Gerry Scotti, conduttore dei più popolari quiz televisivi targati Mediaset. Al momento al timone di Striscia la notizia con Michelle Hunziker, Gerry Scotti cerca di mostrare solarità e ottimismo per il bene dei telespettatori, nonostante il periodo decisamente poco felice. Ma quando si spengono i riflettori, anche lui è assalito da preoccupazioni del tutto comprensibili. Per cercare appunto di trovare un conforto spirituale, il conduttore Mediaset ha dunque dichiarato di aver chiesto l’intercessione della Madonna. Lo zio Gerry ha ammesso che ogni anno, nel mese di maggio, fa un fioretto alla Vergine Maria per sua devozione personale. Quest’anno, però, il conduttore pavese ha voluto anticipare questo suo rito proprio in vista dell’impensabile situazione che ci troviamo ad affrontare. Raccontando quindi le sue giornata ai tempi del Coronavirus, Gerry Scotti ha dichiarato di restare chiuso in casa per la gran parte della giornata e di uscire solamente per andare tutto “imbacuccato” a Cologno. Qui gli viene controllata la febbre da alcuni addetti e poi viene portato in una stanza disinfestata. Dopodiché entra in studio con Michelle, sempre a distanza di sicurezza.
Ida Di Grazia per leggo.it il 30 marzo 2020. Matteo Salvini e Barbara D'Urso recitano in diretta l'eterno riposo per le vittime del coronavirus. Niente urla nè recriminazioni, l'intervento di Matteo Salvini a Live non è la D'Urso ha stupito i telespettatori soprattutto quando il leader della Lega ha detto «Mi tolgo dieci secondi per dedicare un pensiero ai diecimila italiani morti». Prima di fare il suo interventi a Live non è la D'Urso, Matteo Salvini ha chiesto alla D'Urso un minuto di raccoglimento e la possibilità di recitare l'eterno riposo per le 10 mila vittime del coronavirus. La D'urso non solo ha accolto la richiesta ma ha anche aggiunto: «se vuoi lo dico, lo posso recitare perché tanto tutte le sere io faccio il rosario. Non me ne vergogno, anzi sono orgogliosa di dirlo».
Selvaggia Lucarelli per tpi.it l'1 aprile 2020. Oggi si registra un fatto abbastanza inedito nel mondo della televisione italiana, e cioè che un agente tv (e comunque genericamente qualcuno che ha a che fare con la tv) critichi a volto scoperto non tanto Barbara D’Urso, ma chi le consente ormai da anni di colonizzare mezzo palinsesto Mediaset con una tv che va ben oltre il trash. Con una tv che non è brutta, è sbagliata. Un po’ come i suoi vestiti. Che non sono mai solo brutti, ma sono anche sempre profondamente sbagliati. Perché inadatti al contesto, all’anagrafe, perfino al periodo storico in cui viviamo. Direte: chi se ne frega se si veste da cowgirl nel 2020 magari sperando di prendere al lazo due punti più di share. In effetti – ne convengo – è l’aspetto più insignificante della questione, ma è emblematico di come ci si possa muovere in tv compiendo una parabola involutiva, negli anni, che investe ogni piega del personaggio. Un personaggio che vive nel culto strabico di sé, che nella sua pagina Instagram rivela la massima espressione del problema: selfie compulsivi, faccette, abiti minimal e scollature anche mentre il mondo viene investito da un’epidemia mortale, scenette in cui si mette a letto truccata con orsacchiotti di peluche, balletti con ragazzini di 18 anni e quell’UNICO follow a Oprah, perché lei, egoriferita com’è, non segue nessun mortale, nessun collega, lei segue Oprah. (e infatti anche Oprah segue solo una persona (se stessa), ma qualcuno spieghi alla D’Urso che non basta dare il proprio nome a un programma per diventare Oprah) Quando dicevo che il suo camerino è una specie di bunker in cui il tempo si è cristallizzato, intendevo questo. Sempre fuori fuoco. Fuori dal tempo. Fuori contesto. E non si sa bene cosa le sia successo, nel tempo, perché Barbara D’Urso non è sempre stata così. Certo, non ha mai presieduto convegni di biologia molecolare, ma i suoi erano prodotti nazionalpopolari, magari anche trash, però dignitosi. Poi, per un corto circuito che potrebbe avere a che fare con qualche suo successo, o con un desiderio di rivalsa tardiva, con un’ambizione soffocata da decenni, la sua tv è diventata sempre più “sbagliata”. “Il successo non cambia, rivela”, diceva qualcuno. E quindi, da qualche anno, il livello dei suoi prodotti si è abbassato sempre più. Sgarbi che urla a Luxuria “Ce l’hai il cazzo o no? Ce l’hai o no?”, lei che dice a Sgarbi “Ti prendo a calci nel culo”, la Moric poco lucida che fa la macchina delle verità e parla in prima serata di eventuali violenze su lei e un minore che andrebbe protetto, il tg5 che è costretto a leggere la lettera di monito del Comitato Media perché Barbara D’Urso ha violato le regole del codice media e minori, i saluti ai parenti dei detenuti mentre le guardie carcerarie devono sedare sommosse con morti e feriti, l’Eterno riposo in diretta tv col politico meno cristiano su piazza, il matrimonio di Tony Colombo e la vedova del boss, truccatori e parrucchieri esibiti mentre il paese è afflitto dal peggior momento della storia dall’ultima guerra mondiale. E così via, proponendo modelli sbagliati, personaggi sbagliati, storie sbagliate da cui “si dissocia”, per cui “si scandalizza”, che “la fanno arrabbiare”, ma a cui dà risalto, spazio, modo d’esistere lei stessa, in questo corto circuito ipocrita che ormai conoscono tutti. Pescare nel torbido, fingendo di rimanere dove l’acqua è chiara. Chi protesta, a parte una buona fetta di spettatori? Poche, pochissime persone. I famosi critici tv sono impietosi con prodotti innocui, al massimo bruttini e talvolta perfino belli, ma sulla D’Urso sorvolano con straordinario talento. Del resto – è cosa nota nell’ambiente – il personaggio è suscettibile, e benché nelle interviste ami dipingersi come una che non legge i commenti sui social, non si cura degli altri, “manda tanta luce” e energie positive a chi la critica, poi manda anche lettere di avvocati, querele, diffide. Tanto amore e tante buste verdi. Tanto lavoro per la polizia postale, anche, che ultimamente ha perfino perquisito la casa di un ragazzo sardo reo di aver creato il profilo Instagram “Carmelita Durto”. E il paradosso ulteriore è che, trovato il colpevole (il ragazzo sardo), lei ha ritirato la querela, come se il lavoro di indagine e le perquisizioni fossero un’attività poco seria e poco dispendiosa. La tv che un tempo fu di sinistra e che dell’operazione culturale (al contrario) che fa la D’Urso su un pezzo di pubblico dovrebbe preoccuparsi, o fa finta di nulla o, addirittura, ne alimenta il messaggio. La Littizzetto da Fazio percula bonariamente Barbara, la Dandini altrettanto (vedere la parodia della voce narrante delle clip di Domenica live), gli altri fanno gli gnorri. Ci ha provato Giletti, quest’anno, a spiegare che non si portano mostri in tv, alimentandone il mito. Affrontando la questione “D’Urso/Tony Colombo con un certo coraggio. Salvo poi iniziare anche lui a invitare mostri. (ma confidiamo, almeno nel suo caso, in una redenzione). Lucio Presta però, furbo com’è, è arrivato dritto al punto: Barbara D’Urso è quello che è, ma perché Mediaset non la argina e, anzi, sembra portarla in palmo di mano? Per gli ascolti, verrebbe da dire. Eppure neppure più quelli sono così entusiasmanti. Battuta da Mara Venier tanto da passare alla ritirata la domenica pomeriggio, battuta talvolta dalla Fialdini, battuta spesso da Matano/Cuccarini e con prime serate non proprio col botto, non si capisce perché Mediaset continui ad accettare un compromesso così alto con l’immagine e la qualità della rete. Ormai Mediaset è, nell’immaginario collettivo, sempre più identificato con la D’Urso. E per difendere nessun personaggio, in Mediaset, ci si sbilancia tanto quanto che con lei. I comunicati di Canale 5 sui successi d’ascolto di Barbara D’Urso, soprattutto quando la serata è stata un mezzo flop, sono un esercizio di aggettivi e lodi sperticate talmente barocco che la Sagrada Familia in confronto è un prefabbricato in lamiera. Ormai gli addetti ai lavori si girano quei comunicati su whtasapp come i meme su Stevie Wonder, sorridendone in segreto, perché in pubblico non si può. E vi garantisco che fanno il giro del mondo, perché di colleghi che amano Barbara D’Urso ce ne sono ben pochi. I perché sono molteplici e variegati, ma perfino sue colleghe miti e diplomatiche, amabili e amate, famose quanto lei e senza problemi di competizione, le girano alla larga. È il segreto di Pulcinella, e se fossi la D’Urso mi domanderei il perché, anziché darmi la solita spiegazione auto-assolutoria: “Mi invidiano, vorrebbero essere al posto mio”. Perché non è così e perché l’insofferenza diffusa nei suoi confronti parte da più lontano, spesso proprio dal suo “stile” nel vantare ascolti galattici, nel bullarsi di curve e pubblico e amati sponsor senza mai spazio per l’autocritica o l’ammissione di un fallimento (vedere alla voce Dottoressa Giò). Ha ragione Presta, di nuovo, quando dice che lui i suoi assistiti dalla D’Urso non li manda, e che quello è un modo per arginarla. A dire il vero gira voce da anni che anche lei non voglia i suoi assistiti, ma poco conta. La D’Urso può contare su un ventaglio di ospiti terrificanti, avanzi di balera che non hanno nulla da perdere, sintonizzati sul registro delle sue trasmissioni e va bene. Ma qua e là, nei suoi salotti, si intravedono anche giornalisti e/o persone rispettabili (le due cose non vanno sempre insieme). Penso a persone che non dovrebbero star lì perché non se lo meritano, penso a Luxuria, a Valeria Graci, a…a….vabbè, mi verrà in mente qualcun altro. Certo, lì ci sono cachet che non esistono in nessun altro talk televisivo (non paragonerei la corazzata C’è posta per te a Domenica live) e se puoi pagare qualcuno 7, 30, 50 000 euro (chiedere a Mediaset i cachet per esempio di Moric o Morgan), è anche comprensibile che alla fine chi teme la carestia ceda. Però alla fine i programmi non li fa chi li conduce, ma chi ci va, e quindi i suoi complici sono parecchi. Certo, durante l’emergenza Coronavirus, sono le scelte non degli ospiti, ma di Mediaset a stridere di più. E qui Presta ha ragione per la terza volta. Possibile che mentre c’è da raccontare il mondo che cambia forse per sempre, Videonews lasci ore e ore di palinsesto a una conduttrice che fa vedere al pubblico come ci si lavano le mani citando la Dottoressa Giò, anziché ai tanti giornalisti che lavorano nei tg, in redazione, dietro le quinte? Mediaset avrebbe avuto il dovere di fare informazione seria e responsabile tutti i pomeriggi, perché ci sono momenti in cui la tv sbagliata non si può fare, in cui la cronaca è irrimandabile. Enrico Mentana lasciò il Tg 5 per sempre quando a Mediaset non gli fecero fare lo speciale su Luana Englaro per mandare in onda il Grande fratello. “Mi dimetto dal mio incarico di direttore editoriale, Canale 5 non fa informazione”, disse. La storia, in qualche modo, si ripete, ma con un piglio più debole. Si mormora che a Mediaset Mimun abbia minacciato di tirare giù un casino se in questo periodo avessero ceduto anche il martedì sera alla D’Urso “per rafforzare il presidio informativo sul Coronavirus”, come annunciato. Il martedì sera della D’Urso poi in effetti non è mai partito, ma è partito lo speciale Tg 5. Nel frattempo, il famoso “ presidio informativo” di Pomeriggio 5 è andato avanti, provocando il picco dell’indignazione del pubblico quando un ospite della D’Urso ha suggerito di disinfettare le zampe dei cani con la candeggina. Apriti cielo. Animalisti insorti, petizioni per cacciare la conduttrice (quella su change.org sta per toccare le 300 000 firme) e la gente pronta a scendere in piazza, se solo non ci fosse la quarantena obbligatoria. Ci sarebbe da festeggiare, se la questione non fosse di così poco conto, rispetto a tutto quello che ha proposto in tv la D’Urso in questi anni. E allora mi viene in mente quella scena di “Lui è tornato” in cui Hitler, che in un altro mondo e in un’altra epoca, è un personaggio tv amatissimo nonostante dica cose tremende e populiste, a un certo punto uccide un cane. Ed è solo in quel momento che il popolino moralista si ribella. Ecco. Non sto dicendo che Barbara D’Urso è Hitler (che non la paragonavo a Priebke una volta gliel’ha dovuto spiegare un giudice in tribunale, non vorrei si ripetesse la stessa scena con un altro gerarca nazista), ma che dove è arrivata la candeggina, doveva arrivare ben altro e molto tempo fa. Perché “l’eterno riposo”, a Mediaset, può anche essere quello dell’informazione, ma non ai tempi del Coronavirus.
p.s. Che ha ragione Presta l’ho già detto, vero?
Dagospia l'1 aprile 2020.Lucio Presta su Facebook . Pensierino del mattino in tempo di Corona Virus: posto che l’orrore televisivo che produce ogni giorno, ogni mese, ogni anno la suora Laica in paillettes (naturalmente nulla a che fare con le Suore Laiche vere che sono esempi da seguire ) è ormai da tempo sotto gli occhi di tutti e quindi vorrei non tornare sull’argomento quello che mi domando ogni giorno è: come mai una Testata giornalistica VIDEONEWS accetta di mettere la Firma su tanto poco e tanto orrore? Conosco da molti anni gli uomini che sono a capo di quella Testata giornalistica, anzi devono a chi scrive se hanno la gestione del pomeriggio di Canale 5 ,da anni ormai, essendo io quello che chiese ed ottenne da Mediaset il passaggio dalla gestione TG5 a quella di Videonews per sopraggiunte divergenze con CDR del Tg di allora durante la conduzione Perego, e posso dimostrare che ci sono delle persone capaci che sanno fare Tv e quindi è difficile da comprendere. Si potrebbe obiettare che forse è l’Editore in persona che desidera mettere in onda questo scempio mal digerito anche dagli altri Talents delle reti Mediaset, ma conoscendo da ormai almeno 15/20 anni l’attuale board e proprietà mi sento di dire che lo trovo impossibile da accettare e da crederlo anche perché lo stile di PierSilvio è davvero altra categoria. Il mistero allora si infittisce, perché la Testata, il cdr, l’ordine dei giornalisti etc permettono ciò? Io faccio da tempo la mia parte e nessuno dei miei assistiti va ospite dalla Signora delle paillettes e la mia parte credo di averla fatta, ora che la facciano gli altri. Oppure serve a qualcosa o qualcuno che ci sia in onda questo scempio? Tacere equivale ad essere complici di tale orrore e personalmente non amo esserlo. Ah saperlo.
Da fanpage.it l'1 aprile 2020. La preghiera di Barbara d'Urso e di Matteo Salvini a Live – Non è la d'Urso è destinata ad essere ricordata come uno dei momenti televisivi meno edificanti di sempre, o quantomeno del periodo di crisi che stiamo vivendo. Se non è un'opinione globale, è certamente quella condivisa dalle circa 230mila persone che nelle ultime ore hanno firmato una petizione su Change.org che chiede esplicitamente la chiusura dei programmi della conduttrice napoletana.
La petizione lanciata sul sito Change.org. La notizia della petizione rivolta ai vertici di Mediaset sta proprio nella risposta ampia avvenuta in un tempo molto breve. "Purtroppo sappiamo la caratura culturale dei suoi programmi – si legge nel testo che giustifica la raccolta firma – ma questa volta ha superato il limite invitando in diretta Salvini e PREGANDO in diretta insieme a lui. Ricordiamoci che l’Italia è un paese laico e che abbiamo i nostri luoghi di culto e sacerdoti. Questa operazione ha sfruttato ancora una volta il potere della religione sugli anziani, così da rafforzare la sua personalità e il suo programma, indegno culturalmente". Quindi arriva un'esplicita richiesta di cancellazione della trasmissione "dopo che per anni ha sfruttato lo spazio per avere sempre più potere fino a creare una ridicola esperienza religiosa in diretta, con un politico".
Aldo Grasso per il “Corriere della Sera” l'1 aprile 2020. Nel giro di pochi giorni la tv ci ha offerto due modi di concepire la preghiera. Venerdì scorso, Papa Francesco ha pregato solo nella piazza vuota per implorare la fine della pandemia, facendosi interprete dei dolori del mondo e offrirli ai piedi della Croce. Sotto la pioggia, tutto era preghiera. Domenica, a «Live. Non è la d' Urso» la conduttrice e Matteo Salvini hanno recitato «L' eterno riposo», la preghiera dei defunti, con una ostentazione quanto meno fuori luogo. Anche perché la preghiera richiede più cuore che lingua. Non è la prima volta che Salvini usa i simboli religiosi a scopi elettorali. E finora aveva usato il Coronavirus come una clava per stare sul palcoscenico, facendosi largo tra morti e tragedie. Se Papa Francesco ha suscitato brividi anche nei non credenti, la recita del duo d' Urso-Salvini è suonata stonata, inopportuna, esibizionistica. Ne Il silenzio del corpo , Guido Ceronetti scrive: «La preghiera è una guarigione diceva Mohammad secondo Al-Bukhari. È profondo che abbia detto guarigione, ed è molto più esatto che guarisce. La preghiera non può guarire, ma è una guarigione; non dà la salute, è la salute». Che salute c' è in quella trasmissione, sempre così sguaiata e caravanserragliesca? Non è certo questo il luogo per interrogarsi sul significato della preghiera, sappiamo solo che nella tradizione spirituale cristiana (cui la D' Urso dice di rifarsi), la preghiera è innanzitutto ascolto, bene espressa dalla supplica fatta dal giovane re Salomone che, in risposta all' invito rivoltogli da Dio di chiedergli qualunque cosa, dice: «Donami, Signore, un "lev shomea", un cuore capace di ascolto» (1Re 3,9). «Ricorda Signore questi servi disobbedienti alle leggi del branco, non dimenticare il loro volto che dopo tanto sbandare è appena giusto che la fortuna li aiuti, come una svista, come un' anomalia, come una distrazione, come un dovere» (Fabrizio De Andrè, «Smisurata preghiera»).
Carmelo Lopapa per “la Repubblica” l'1 aprile 2020. Dal talk show alla telepredica è un attimo, per il "teo-social" Matteo Salvini. Succede tutto in pochi istanti, domenica sera, nel salotto amico di "Live Non è la D' Urso" su Canale5. «Tolgo dieci, venti secondi alle mie parole per pensare ai diecimila italiani che sono morti e ci seguono da lassù: mi taccio e dedico un Eterno riposo», è la premessa del segretario leghista in collegamento video da casa. Non fa in tempo a finire di dirlo che la regina del format domenicale, dallo studio, è già con le mani giunte in preghiera: «Se vuoi, io lo posso recitare perché tanto tutte le sere dico il rosario, non me ne vergogno». E parte in tandem l' antica preghiera cristiana in memoria dei defunti. Pochi minuti e l' uscita televisiva diventa un caso, scatena le reazioni (in gran parte polemiche) sui social. Ancora ieri mattina l' hashtag #D'Urso era in cima alle tendenze Twitter con migliaia di commenti («Chiedo scusa ai morti», scrive Selvaggia Lucarelli, e tanti altri a seguire: «Abbiamo visto tutto», «squallido teatrino», «dovreste vergognarvi », oltre ai favorevoli). Il mondo cattolico, quello più vicino alla Chiesa di Papa Francesco, prende le distanze dalla sortita. Solo l' ultima di una serie per il leader dell' opposizione, dal rosario in tasca, esibito in tv e nei comizi, al ringraziamento alla "Beata Vergine" via Twitter per la fiducia al decreto sicurezza bis, dalla cover della Madonna di Medjugorje sul telefonino fino all' affidamento dell' Italia al «cuore immacolato di Maria» nel comizio di chiusura delle Europee da Piazza Duomo. Chi conosce e frequenta il segretario parla di un' effettiva conversione di Salvini a una dimensione di fede, soprattutto "mariana". In ogni caso, questa dell' Eterno riposo è una «inaccettabile strumentalizzazione, una ricerca di visibilità fuori luogo», commenta con l' Adnkronos don Antonio Rizzolo, direttore di Famiglia Cristiana . Così pure Giovanni D' Ercole, segretario della Commissione episcopale per le comunicazioni sociali: «Io ho cambiato canale». Il cattolico Graziano Delrio, capogruppo Pd, commenta quanto avvenuto con Repubblica citando i versetti di Matteo. «Mi vengono in mente le parole del Vangelo che dicono: quando pregate, non siate simili agli ipocriti che amano pregare stando ritti nelle sinagoghe e negli angoli delle piazze per essere visti dagli uomini. In verità vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa ». Barbara D' Urso festeggia su Instagram la sua: «3 milioni di spettatori e il 22 per cento di share», altro che polemiche. Provocatorio Vittorio Sgarbi: «Non critico il cristiano Salvini che recita l' Eterno riposo, ma il Papa prega in una piazza vuota ». Per la Bestia social leghista obiettivo comunque centrato: si è parlato ancora di lui, anche in piena emergenza.
Titti Beneduce per il “Corriere del Mezzogiorno - Corriere della Sera” il 2 aprile 2020. La Procura ha chiesto il rinvio a giudizio per diffamazione nei confronti della conduttrice televisiva Barbara D' Urso e di altre cinque persone impegnate nella realizzazione della trasmissione «Pomeriggio 5» mandata in onda da Mediaset. I fatti risalgono al 25 settembre del 2017, quando fu trasmesso un servizio dal titolo «Inchiesta shock su don Euro: soldi e amanti ai danni della Curia». Don Euro è il soprannome con cui è conosciuto l' ex sacerdote Luca Morini, già parroco in provincia di Massa poi ridotto allo stato laicale. Con Morini ha avuto diversi rapporti l' ex gigolò Francesco Mangiacapra, che ora si dedica alla scrittura di saggi. Nel corso della trasmissione, pur riferendosi a Mangiacapra, che aveva raccontato pubblicamente i suoi trascorsi con l' ex parroco, vennero trasmesse le immagini di un' altra persona, N. B., un giovane di San Giorgio a Cremano. Poiché il volto non era stato oscurato, centinaia di migliaia di persone poterono vederlo in compagnia di don Morini. Come spiega l' avvocato Giovanna Ziello, che assiste N.B., il giovane fu più volte definito «gigolò» ed «omosessuale», non solo violando la sua privacy, ma anche creandogli danni gravissimi (e per questo motivo è in corso anche un processo civile). I genitori, per esempio, non sapevano delle sue tendenze sessuali e lo appresero dalla televisione; idem per molti amici: il giovane dovette lasciare in tutta fretta San Giorgio a Cremano e cambiare città. Ma non è finita: perse il lavoro e il fidanzato lo lasciò dopo tre anni: «Conseguenze pesantissime - commenta Ziello - dalle quali ha faticato a riprendersi». Inevitabile la decisione di presentare querela per diffamazione. Al termine delle indagini preliminari, il pm Claudio Onorati, con il coordinamento del procuratore aggiunto Vincenzo Piscitelli, ha chiesto il rinvio a giudizio della conduttrice e di altre cinque persone. Prosegue intanto il processo civile, dove per conto di N.B. la difesa ha chiesto un risarcimento di 500.000 euro. «La cosa grave - dice ancora Ziello - è che, quando inviai la diffida, mi sentii rispondere che la redazione di Pomeriggio 5 aveva esercitato il diritto di cronaca. Una follia: poteva valere per il sacerdote, non certo per il mio assistito, che era un illustre sconosciuto».
Roberto Russo per il “Corriere del Mezzogiorno - Corriere della Sera” il 2 aprile 2020. Ricorda bene quella vicenda che risale a tre anni fa. Francesco Mangiacapra, una laurea in legge e un passato da ex escort, autore del libro scandalo «Il numero uno» in cui raccontava delle relazioni con molti uomini di chiesa, è oggi impegnato come «saggista del dissenso» con il nuovo libro dal titolo «La dittatura delle minoranze», con cui si pone in aperta polemica anche con il politically correct nella comunità gay. Ma sul caso della trasmissione incriminata Mangiacapra non ha dubbi: «Devo dire che sia Barbara D' Urso, sia le sue collaboratrici tra le quali due brave giornaliste che mi intervistarono, sono state correttissime nei miei confronti». All' epoca, nel 2017, proprio il libro pubblicato da Mangiacapra aveva fatto tremare la chiesa napoletana e il nome dell' escort era rimbalzato sulle cronache nazionali. Da qui la decisione del cast di Pomeriggio 5 di dedicare una parte della puntata alle torbide vicende raccontate nel libro (va detto però che nessun nome di prelato venne esplicitamente pubblicato). Così, due inviate della D' Urso vennero a Napoli per raccogliere la testimonianza di Mangiacapra. «Ci vedemmo e registrammo l' intervista - ricorda lui - in un clima di assoluta serenità. L' unica condizione che posi fu quella di non farmi riprendere in viso, ma invece volevo che venisse fatto il mio nome e si parlasse del libro che avevo appena dato alle stampe. L' accordo fu rispettato in pieno sia da Barbara D' Urso che dalle giornaliste della sua redazione». Se non fosse però che in uno dei servizi al posto delle immagini del gigolò napoletano vennero mandate in onda altre che ritraevano una terza persona. L' ex escort offre una sua spiegazione dell' accaduto: «Sono sicuro che si sia trattato di un incidente e che non vi fosse alcuna volontà di trascinare altri nella vicenda. Da quello che ho capito deve essersi verificato un errore in fase di montaggio e probabilmente uno scambio di filmati. Comunque - aggiunge Mangiacapra - all' epoca sono stato sentito come persona informata dei fatti e ho offerto la mia collaborazione alle forze dell' ordine. Ora - conclude - auspico che si metta fine a quello che a tutta l' aria di uno spiacevole infortunio».
Fulvio Abbate per ''Il Riformista'' il 2 aprile 2020. Giù le mani da Barbara d’Urso. Nessuna ironia, laicità pretende che possa recitare ogni genere di rosario. Alle grandi interpreti di se stesse va consentito questo e molto altro. Coloro che ironizzano o restano scandalizzati da "L'Eterno Riposo" recitato in diretta su Canale 5, con Matteo Salvini, chierichetto improvvisato di ritorno, ignorano che il sentire religioso nazionale più profondo risponde a ogni possibile forma devozionale, fosse anche al fai da te, al bricolage religioso et similia. Ahimè, assai di più della straordinaria e toccante benedizione Urbi et Orbi offerta al mondo dal papa in mondovisione in piazza San Pietro deserta. Non è necessario avere letto i Situazionisti per intuirlo o magari frequentato una lezione di tradizioni popolari sul relativismo culturale. Lo stesso Salvini, per senso di ospitalità, ha fatto più che bene a unirsi alla litania. Discutibile perfino obiettare, con i nostri tuttavia doverosi sorrisi da radical chic estranei a ogni tentazione pop, sul fatto che Barbara reciti il rosario ogni sera, come i personaggi di “Esposito Teresa”, sceneggiata di Nino D’Angelo e Fortuna Robustelli, indimenticati interpreti del genere. Barbara d’Urso è un’interprete straordinaria, come tale va apprezzata, sia detto senza ironia; d’altronde, nei momenti di panico ci si raccomanda a quel che meglio ritiene. In Perù, per esempio, sono certo che stiano pregando Sarita Colonia, santa, purtroppo mai riconosciuta dalla Chiesa cattolica, dei poveri di Lima, Sarita ha il merito di rendere invisibili i ladri, minuscolo volto da india, nella sua immaginetta votiva ci guarda da una trincea di rose. I complottisti, da parte loro, hanno certezze altrettanto incrollabili, vanno ora immaginati in un laboratorio degno del Dottor Frankenstin dell’immenso Mel Brooks, dove sorta di Compagni di Baal, per citare un altro capolavoro sceneggiato tv, avrebbero preparato il virus, al fine di ribaltare gli equilibri geopolitici. D’altronde, nella situazione data ogni timore appare più che nobile. Torna pure alla memoria Vittorio Gassman ne “L’armata Brancaleone” quando scopre d’essere lì a giacere con una vedova appestata, ed eccolo fuggire nel timore di essere braccato dalla morte. Nel nostro caso, diversamente dalla solita prevedibile peste non sembrano esserci mascherine a sufficienza, così, in assenza dei presìdi necessari, queste e molte altre carenze sembrano legittimare ogni genere di novena, di rosario, di corno, di treccia d’aglio, forse non è un caso che nei giorni scorsi sia stato trasmesso su Canale34 “L’esorciccio”, caposaldo della filmografia di Ciccio Ingrassia. Magari bisognerebbe trovarsi in questo momento a Napoli, la città, sia detto per inciso, della nostra Maria Carmela d’Urso, per capire in che modo nei momenti estremi si possano mobilitare perfino le Anime del Purgatorio o piuttosto i teschi degli antichi appestati che hanno trovato dimora nel Cimitero delle Fontanelle al Rione Sanità. O piuttosto a Palermo nel buio delle Catacombe dei Cappuccini: erano sempre tempi di pestilenze quando, si narra, una processione notturna di frati giunti dall’aldilà miracoloso mise fine al morbo. Se le cose stanno così, per quali proterve ragioni dovremmo trovare discutibile, disdicevole, oscena la preghiera di Barbara nostra, queste sue parole toccanti, sicuramente perfette agli occhi dei semplici, del pubblico di Canale 5? Eccole: "… dieci secondi per pensare ai diecimila italiani che sono morti senza neanche essere stati salutati dai figli, dalle figlie, dalle mogli e dai mariti. Mi taccio e dedico un 'Eterno riposo' a questi italiani e italiane che ci danno una mano da lassù a uscire da questo incubo", le mani giunte in segno di preghiera. Mi direte: e quello lì presente in collegamento a farle da coro, Matteo Salvini? Eddài, non sottilizziamo! Pensiamolo nell’abisso dei sondaggi, mai stati così esegui per un Capitano come lui. Siamo o non siamo al “si salvi chi può”? Nei giorni scorsi, il regista Paolo Sorrentino su Facebook ha postato un’immagine tratta da “The young pope”, uno scatto dove appare il suo Pio XIII interpretato da Jude Law in una piazza San Marco notturna e deserta, a commento Sorrentino nostro ha scritto: “Cinema Neorealista”. Questo per dire che al momento ogni immagine, ogni contributo è ammesso, compreso il rosario quotidiano di Barbara d’Urso. Qui mi torna in mente Pasolini, questi parlando della Via Crucis del 1974 lamentava il povero Paolo VI circondato da “quattro gatti” delle parrocchie romane, dolendosi che una religione straordinaria, come il cristianesimo, mostrasse ormai, allora, un volto residuale. Nei giorni scorsi, in assenza di Pasolini, tutti noi abbiamo potuto rilevare l’immagine del papa attuale sul sagrato di San Pietro, solo, sotto una pensilina che i cinici hanno definito “da pompa di benzina Tamoil”. Anche Francesco sembrava fare del suo meglio innalzando il Santissimo Sacramento come fosse, appunto, la Kryptonite della Chiesa. La verità, sia detto senza neanche bisogno di citare Albert Camus a proposito della peste, è che siamo assolutamente nudi, e quindi sia benvenuta la novena di Barbara d’Urso, perfino accompagnata dal sagrestano Salvini. Chi ha avuto modo di assistere all’arrivo dei torpedoni, come in un film apocalittico mai girato di Fellini, laggiù in fondo alla Tiburtina, dove si svolgono le registrazioni di “Uomini e donne” e di “Forum”, saprà bene che Berlusconi, attraverso le sue reti, rappresenta una religione parallela nel Paese, davvero apotropaica. Pablo Neruda, riferendosi a Rilke, il poeta dell’Indicibile, affermava “che in tempo di guerra parlare di alberi è un crimine”. Sarà pure vero che in questo momento avremmo bisogno soprattutto di mascherine e di respiratori, ma anche in tempo di peste la letteratura la poesia hanno la loro necessità, un po’ meno la retorica e luogo comune. Barbara nostra che sei…
Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” il 2 aprile 2020. Barbara d' Urso dopo avermi riservato un paio di scherzi da prete, anzi da suora, mi è diventata più antipatica di suo cugino, il Coronavirus. Tuttavia ciò non mi impedisce di darle ragione quando ce l' ha. È successo che qualche sera fa ella abbia invitato nel suo programma su Canale 5 Matteo Salvini e con lui abbia recitato, penso in diretta, una preghiera che, secondo me, porta sfiga, l' Eterno riposo, rivolto come noto ai defunti, che in questi giorni di pestilenza crescono come funghi fino a riempire obitori e cimiteri. Intendiamoci, una trasmissione televisiva basata sul Requiem non è il massimo per tirare su di morale il pubblico, pertanto fosse dipeso da me avrei sconsigliato vivamente la messa in onda della macabra prece. De gustibus. In ogni caso non si spiegano gli attacchi isterici che hanno colpito la popolare conduttrice e il famoso uomo politico in quanto protagonisti di una orazione, peraltro breve, dedicata ai morti in un momento in cui essi sono protagonisti. Oltre 300 mila persone hanno firmato una petizione allo scopo di chiudere il format o, almeno, promuovere l' allontanamento della star dagli studi Mediaset, manco ella si fosse macchiata di un delitto. Ma povera signora, si è limitata con il suo ospite a fare un esercizio abituale per ogni cattolico che partecipi a un funerale. A certi riti tipici dei cristiani dovremmo essere avvezzi e scandalizzarsi poiché vengono proposti in video costituisce una idiozia. Lo spettacolo mortuario può non piacere, però chi non lo gradisce dispone di un' arma difensiva efficacissima: azionare il telecomando e cambiare canale. Mettersi lì col coltello tra i denti e organizzare una sorta di referendum per scacciare la d' Urso in versione religiosa è una maialata indegna di gente civile. Barbara lavora in una antenna privata, di proprietà di Silvio Berlusconi, non in un ente pubblico, pertanto ha il diritto di agire come le garba, al massimo sarà l' editore, non una banda di scriteriati, a licenziarla. Cosa che non avverrà dato che la presentatrice, quantunque non mi vada a genio, è una gallina dalle uova d' oro per il Cavaliere. Tra l' altro è incomprensibile il fatto che madame e Salvini vengano bersagliati in quanto bigotti e inclini a manifestare la loro fede. Matteo è stato varie volte lapidato perché baciava il crocefisso e la Corona del Rosario. Ora pure la d' Urso viene presa a male parole per via dell' Eterno riposo. Nessuno ricorda che per circa mezzo secolo l' Italia fu egregiamente governata dalla democrazia cristiana, nel cui simbolo spiccava una croce, vessillo principale della fede. Né rammenta che lo slogan più incisivo degli eredi di don Sturzo, un sacerdote, era il seguente: «In cabina elettorale Dio ti vede, Stalin no». Frase scritta da Giovannino Guareschi. Questo per ribadire che la strumentalizzazione della chiesa è un fenomeno storico che ora non può essere biasimato soltanto perché Barbara e Matteo lo hanno rispolverato.
Anticipazione da “Oggi” il 26 marzo 2020. «Voglio essere chiaro: questa è la Terza guerra mondiale… Qui non ci sono le bombe, le sirene e i rifugi antiaerei, ma c’è un nemico enorme e invisibile, il Coronavirus, e potrebbe essere proprio il nostro vicino a trasmettercelo, senza sirene e senza avvisi. L’unica arma che abbiamo per difenderci è restare in casa. Il capo dello Stato ha avuto subito chiara la situazione, la politica invece ha tardato, ha preso la situazione sottogamba». Lo dice in un’intervista al settimanale OGGI Marco Durante, proprietario e presidente di LaPresse, una delle più importanti agenzie di stampa italiane, di recente associata con l’americana Ap. Dal suo osservatorio privilegiato spiega: «Il governo ha avuto paura di dirlo ai cittadini. Si sono preoccupati dell’economia, dello spread, dei tassi, dei posti di lavoro, e hanno perso tempo». E aggiunge: «Attraverso l’Agenzia e attraverso Ap ho molti contatti con l’Europa e con gli Stati Uniti…. Se c’è un elemento di speranza è proprio nel fatto che questa guerra planetaria costringerà gli europei a sedersi intorno a un tavolo e cercare misure comuni per affrontare e risolvere i problemi. Dopo le prime gaffe, come quella della Lagarde, ci sono segnali che ciò possa avvenire. E noi italiani siamo in vantaggio: prima derisi, ora modello per gli altri. Questa situazione potrebbe addirittura portare a un’unità dell’Italia che da tempo manca nel nostro Paese». Poi, come frutto di tanti colloqui, azzarda una previsione: «Se saremo fortunati, se tutti rispetteranno le regole, se davvero il caldo contrasterà il virus, ragionevolmente non ne usciremo prima dell’estate. Le scuole non riapriranno. Il campionato di calcio non ripartirà… Poi a settembre-ottobre dovremo assolutamente avere un vaccino, perché quando ricominceranno i malanni stagionali scoppierà il panico. La gente si chiederà: è influenza o Coronavirus?». E sulla reazione al coronavirus nel mondo della comunicazione dice: «Ha perso un’occasione. Però non per colpa sua, ma della politica che la tiene al guinzaglio. Devo dire che la tv, in generale, è andata al traino della carta. Con una menzione particolare per il Corriere della Sera, che ha lanciato allarmi fin da subito, ha raccontato le verità anche scomode, non si è nascosto dietro a nulla. Chapeau».
Fantastica la Panella sulla 7, dove invita tutti quelli che le danno ragione, ovviamente reggicoda della sinistra. Urbano Cairo la vede la sua te? Soprattutto sa a chi l’ha affidata? Avanti popolo. Da liberoquotidiano.it il 27 marzo 2020. Vittorio Feltri scatenato contro i conduttori di La7. Il direttore e fondatore di Libero si è scagliato nelle ultime ore contro due dei volti più rappresentativi della tv di Urbano Cairo. La sua ultima vittima è stata la giornalista Tiziana Panella, in onda su La7 tutti i giorni con Tagadà, rea di voler in studio "soltanto persone che la pensano come lei": "Fantastica la Panella sulla 7, dove invita tutti quelli che le danno ragione, ovviamente reggicoda della sinistra. Urbano Cairo la vede la sua tele? Soprattutto sa a chi l’ha affidata?
Avanti popolo", il tweet ironico di Feltri. Formigli invece di intervistare Salvini gli spara addosso senza dargli la possibilità di rispondere. Metodo democratico in uso alla 7, ufficio stampa della sinistra più bieca. Lo stesso Feltri si era scagliato in precedenza, sempre su Twitter, contro Corrado Formigli, per il modo con cui ha condotto l'intervista a Matteo Salvini, in onda ieri sera a Piazzapulita: "Formigli invece di intervistare Salvini gli spara addosso senza dargli la possibilità di rispondere. Metodo democratico in uso alla 7, ufficio stampa della sinistra più bieca", la bocciatura via twitter di Feltri a Formigli.
Roberto Pavanello per “la Stampa” il 26 marzo 2020. Anche questa sera, intorno alle 21.15, Corrado Formigli tornerà con il suo Piazzapulita per raccontare ai telespettatori de La7 l’emergenza coronavirus e dibattere in studio con esperti, voci della politica e giornalisti. In questa puntata lo farà, tra gli altri, con il direttore scientifico dell’Humanitas Alberto Mantovani, Matteo Salvini, Beppe Fiorello e il presidente di Confindustria Vincenzo Boccia. Il 5 marzo Piazzapulita è stato il primo programma tv di prima serata a sbattere in faccia agli italiani, con crudezza –, grazie al servizio di Alessio Lasta dall’ospedale di Cremona, il primo di una serie – la realtà dei fatti: i pazienti in rianimazione, i pronto soccorso stravolti e la fatica della lotta in prima linea di medici e operatori sanitari.
Formigli, in questi giorni così complicati e tragici stiamo vivendo un periodo storico nel quale i fatti stanno surclassando le opinioni?
«Noi che facciamo il mestiere di giornalista ci siamo riappropriati della possibilità di raccontare, uscendo dagli sterili battibecchi della politica, da quella situazione asfittica in cui ci aveva fatto piombare questo ultimo periodo politico. Adesso stiamo raccontando una guerra. Per uno come come me che per tanti anni ha fatto l’inviato di guerra, quella con le bombe, adesso che dobbiamo affrontare questa emergenza, mi trovo a mio agio nel raccontare la guerra al virus. Le dinamiche sono le stesse: la paura, le precauzioni, il lavoro di scavo per capire le responsabilità e riportare ciò che non viene raccontato ufficialmente. In questo caso il giornalismo può davvero fare la differenza. Ci rivolgiamo a una grande platea televisiva, visto che sono tutti a casa, e mai come adesso la televisione può modificare la percezione del problema».
Voi lo avete fatto per la prima volta il 5 marzo, quando in una buona parte d’Italia ancora sfuggiva il senso di quanto stava accadendo.
«Quando abbiamo mostrato nel servizio di Alessio Lasta la terapia intensiva di Cremona, oltre agli ascolti di quella serata, sono stati i milioni di visualizzazioni sul web dei giorni successivi a farmi capire che gli italiani cominciavano a cambiare idea: che non si trattava di una semplice influenza. Lì incidi davvero sulla formazione dell’opinione pubblica».
Hai usato il termine «guerra», credi che sia corretto utilizzarlo? Non c’è retorica? In fin dei conti, la larga maggioranza è a casa più o meno tranquilla, non ha le bombe che cadono sul tetto.
«Per certi versi è una guerra più comoda di quella vissuta dai nostri nonni, che non avevano da mangiare, non avevano il divano, web e tv per trascorrere il tempo. Però è una guerra, anche più insidiosa perché il nemico è invisibile e ancora sconosciuto. E poi le conseguenza sono ancora incalcolabili. Non solo: il numero di vittime è straordinariamente alto, se pensiamo che abbiamo sei-settecento-quasi ottocento morti al giorno, come fai a non chiamarla guerra?».
Nel raccontarla è corretto cedere il passo all’emotività?
«Sì. Il giornalismo non è solo riportare fedelmente i fatti ma è anche partecipare a ciò che accade. Perché noi ne siamo parte. Chi non si emoziona davanti a un bambino ferito da una bomba? Chi non si emoziona davanti a un figlio che ha appena perso il padre, perché magari non c’era un respiratore disponibile? Il senso di indignazione e dolore che colpisce anche il giornalista che sta raccontando è giusto che venga trasferito a chi guarda o legge. Non siamo robot. La forza del lavoro dei miei inviati che stanno lavorando in prima linea è proprio quello di riportare la grande drammaticità che gli italiani stanno vivendo. L’unica cosa che dobbiamo filtrare è il vero dal falso. Anche noi abbiamo paura, proviamo dolore, compassione e indignazione».
L’informazione è tornata, in queste settimane, ad avere un ruolo fondamentale. È un ruolo che saprà mantenere anche dopo?
«Penso di sì. Questo è un momento tragico ma che ti fa riscoprire l’importanza della nostra professione e capire quanto sia importante raccontare i fatti da dove essi accadono. E non è una cosa banale, perché oggi raccontare una pandemia è complesso. Andare dove i fatti succedono è una cosa difficilissima: andare nelle zone rosse, rispettare tutti i protocolli di sicurezza, entrare negli ospedali, fare in modo che tu non venga contagiato e di non contagiare altri. Sai, il proiettile può sfortunatamente colpire il giornalista, qui il rischio è doppio perché il virus può colpire anche chi con quel giornalista entra i contatto. Il giornalismo è anche forzare i divieti, perché noi abbiamo il dovere di testimoniare. Stando sempre in sicurezza, ovviamente».
Non vedi per Piazzapulita un futuro senza dibattito ma solo con servizi sul campo?
«No, perché c’è bisogno anche di ascoltare gli approfondimenti, le parole. Noi in studio abbiamo un tavolo, l’idea è nata perché volevamo che fosse uno spazio in cui sviscerare gli argomenti. Oggi che non c’è il pubblico presente, questo tavolo ha aiutato molto ad approfondire il ragionamento: lo studio vuoto è stato riempito dalla ricchezza della discussione. C’è tanta voglia di ascoltare persone competenti, il nostro talk vuole dare spazio alla competenza. I reportage raccontano il dramma e la sofferenza, lo studio è il momento in cui l’emozione viene raffreddata e si prova a razionalizzare per cercare di capire quali sono le soluzioni».
Stasera avrai ospite Matteo Salvini: si riuscirà mai a ottenere la concordia che chiede anche il Presidente Mattarella o proseguirà il clima di campagna elettorale continua?
«Mi sbaglierò, ma io non credo che Salvini verrà solo per fare propaganda elettorale. Il fatto stesso che dopo due anni e mezzo abbia deciso di tornare nella nostra trasmissione lo leggo come l’eccezionalità del momento: sull’“in quel programma non ci vado perché mi critica” credo che prevalga la necessità di parlare con tutti gli italiani. Mi aspetto che da noi Salvini non sia solo contro, ma dica che è tempo di cercare delle soluzioni tutti assieme».
Al tuo tavolo stasera ci sarà anche Beppe Fiorello che, prima con un post sui social, e poi con un commento su La Stampa, ci ha invitati tutti a una maggior serietà. Sei d’accordo con lui?
«Credo che la paura e la gravità di ciò che sta accadendo debbano essere presenti in ognuno di noi. Perché da una parte la paura serve per farci stare a casa finché il contagio non avrà rallentato e quindi la leggerezza eccessiva rischia di essere un pericolo. Però nello stesso tempo sono meno severo sulle persone che alle sei della sera cantano sui balconi. Questo ritrovato senso di comunità a me fa piacere. Adesso il virus è più forte di noi, ma se avremo la serietà e la compostezza nel seguire le regole, diventeremo più forti noi».
Da più parte sono state criticate le modalità di comunicazione di Conte e del governo, tu cosa ne pensi?
«La premessa doverosa è che nessuno prima di Conte si era mai trovato a gestire una situazione come questa. Detto ciò, ci sono stati troppi comunicati, troppe conferenze stampa notturne che ci hanno lasciato in ansia e un po’ in confusione, e c’è stata l’assenza di un discorso di verità: è come se prima ci avessero indorato la pillola per poi tenerci tutti in ansia. Insomma, vorrei un presidente del Consiglio che ci dicesse esattamente come stanno le cose, che non sappiamo bene quanto durerà e che non indulgesse in un ottimismo di facciata».
Vorrei evidenziare il ruolo che altri due programmi tv stanno avendo sull'emergenza coronavirus, sebbene in maniera differente: il servizio pubblico di Che Tempo Che Fa e lo sdrammatizzare senza buttarla in macchietta di Propaganda Live. Che ne pensi?
«Dico che Fabio Fazio è un grandissimo professionista e sta facendo molto bene a dare la parola alla scienza. Faccio i complimenti anche Diego Bianchi e a tutto il gruppo di Propaganda Live: sono bravissimi nel tenere insieme la serietà del racconto e la capacità di fare ironia».
Che insegnamento ci porteremo via da questa storia?
«Il principale insegnamento è che c’è bisogno dello Stato per investire sui medici, sulla ricerca, sulla Sanità, sul Welfare. Quindi lo Stato tornerà al centro ma con la consapevolezza che deve essere gestito da persone competenti, non possiamo più permetterci i cialtroni in politica. Ma ci portiamo via anche il bisogno degli Stati, quindi dell’Europa, che comunque ne uscirà rafforzata».
I giornali mascherine contro l'ignoranza. Al posto di blocco "Il giornale è superfluo, vada al supermercato e poi a casa". Francesco Maria Del Vigo, Domenica 15/03/2020 su Il Giornale. Taurianova, provincia di Reggio Calabria, un signore esce dalla propria abitazione e viene fermato da un posto di blocco: «Dove sta andando?», lo interrogano gli agenti. Lui risponde: «In edicola a comprare il giornale e poi al supermercato». Gli agenti lo interrompono: «Il giornale è superfluo, vada al supermercato e poi a casa». Uno scambio normalissimo di battute, quotidiano, routinario, dietro al quale si nasconde lo spirito del tempo: il culto dell'ignoranza, l'idea che non servano gli intermediatori e gli esperti, l'idea che tutto sommato l'informazione possa essere fai da te o che ci si possa affidare a qualche link sconosciuto gettato da qualcuno nel mare dei social. Episodi simili sono accaduti un po' in tutta Italia, a dimostrazione che non stiamo parlando di due agenti stanchi o poco informati, ma di una balla che si sta diffondendo in giro per il Paese: vietato comprare i giornali, perché sono inutili. I quotidiani - e non è una difesa di categoria - non sono superflui, ma necessari. Il decreto è chiarissimo: le edicole sono aperte e acquistare il proprio quotidiano è un diritto, perché l'informazione è un bene di prima necessità. Oggi più che mai, per non cedere alla paura, per sapere come comportarsi, per allenarsi a un pensiero critico, per scoprire cosa accade nel mondo proprio ora che i confini del mondo - per buona parte di noi -, combaciano con quelli del nostro appartamento e anche, perché no, per rompere la solitudine con qualche buona lettura. Stiamo cercando, con le unghie e con i denti, di difenderci da questo maledetto virus, ma non dimentichiamo di difendere anche la nostra democrazia. Un buon giornalismo è un cardine della nostra società e l'edicola è un presidio della libertà, non è un semplice esercizio commerciale. Non a caso si è scelto, giustamente, di non far chiudere le serrande a farmacie, supermercati ed edicole. Medicine, cibo e informazione. Perché una buona informazione è il miglior vaccino contro l'ignoranza che genera atti pericolosi per se stessi e per gli altri. Probabilmente i cretini che la scorsa settimana hanno invaso bar e locali, se avessero letto un quotidiano, sarebbero rimasti a casa. I quotidiani, tutti, nessuno escluso, sono mascherine che proteggono il nostro cervello dalla stupidità e dalle menzogne. Specialmente nell'era della pandemia da Coronavirus e di quella da fake news.
Addio cari giornali di carta vittime del virus. Dagospia il 26 marzo 2020. Marco Bardazzi, capo della comunicazione Eni, ex Ansa, ex ''la Stampa'' su linkedin.com. Dieci anni fa in questi giorni giravo l’Italia con il collega Massimo Gaggi per presentare L'Ultima Notizia (Rizzoli), un libro-inchiesta con il quale cercavamo di capire il futuro dei giornali e del giornalismo. Eravamo all'inizio della grande crisi della carta stampata, si cominciavano a vedere i segni di un cambiamento epocale del modello di business, ma nessuno sapeva quando sarebbe stata stampata “l’ultima copia del New York Times” (titolo brillante di un altro libro, scritto da Vittorio Sabadin). Il decennio successivo è stato caratterizzato da una continua emorragia di copie, un dissanguamento che ha messo in crisi i giornali, li ha resi deboli, ha abbassato le loro difese immunitarie. Purtroppo sappiamo bene, dall'esperienza di questi giorni, che queste sono le condizioni della popolazione più a rischio. Per anni si è guardato ai giornali di carta come a splendidi dinosauri in attesa dell’asteroide. O magari dell’arrivo di un “cigno nero” altrettanto inatteso. Temo che ci siamo: il coronavirus, secondo me, segna la fine del giornalismo cartaceo. È una constatazione che faccio con dolore. Chi mi conosce sa che ho una storia d’amore con i giornali. Basta andare su Twitter o Instagram e digitare #emerotecabardazzi, per scoprire che da tempo pubblico foto di pagine di quotidiani ingialliti con la stessa passione con cui gli altri condividono tramonti e aperitivi. Ho una vasta collezione di giornali che continua ad arricchirsi anche in questi giorni e che ha fatto 10 traslochi in giro per il mondo (per la disperazione di mia moglie). Aggiungo, per prevenire una seconda obiezione, che può sembrare insensibile parlare di fine dei giornali mentre migliaia di giornalisti in tutto il mondo sono impegnati, in modo eroico, nel cercare di far arrivare ogni giorno in edicola un’informazione all'altezza della crisi che stiamo vivendo. Ho fatto il giornalista per 30 anni, lo sono ancora che faccio un mestiere diverso e ho il massimo rispetto per la categoria e per le 10 mila edicole (erano 36 mila prima della crisi) sparse in tutta Italia. Ma se c’è una cosa che la pandemia ci sta insegnando, è che è meglio dire subito tutta la nuda verità, con trasparenza, e chiudere quel che c’è da chiudere per evitare i contagi. Se si vorrà preservare un’informazione di qualità e un nuovo ecosistema giornalistico sostenibile, purtroppo tra brevissimo tempo sarà necessario riconoscere che la carta è oggi la “zona rossa” del giornalismo. Un decennio in buona parte sprecato. Il modello di business dei giornali ha prosperato fino al 2009-2010, quando hanno cominciato a farsi sentire gli effetti della recessione globale provocata dalla crisi finanziaria americana. Ne è seguito un decennio di incertezza e logoramento, cercando di trovare compromessi tra lo status quo e timide aperture al digitale. Adesso è giunto il momento della verità: la crisi del 2020 e la nuova recessione planetaria che l’accompagnerà. Chi ha avuto più coraggio e si è spinto con decisione sulla strada dell’innovazione, avrà un vantaggio competitivo nei prossimi mesi. Il New York Times, tanto per fare un esempio, può permettersi in questi giorni di non preoccuparsi troppo se l’edizione cartacea non riesce a essere distribuita, perché ormai è un sottoprodotto del digitale.
1. RICAVI GIORNALI. Il valore globale dell’industria dei newspapers nel 2017 era di circa US$ 150 MLD, di cui 87 miliardi provenienti dalla diffusione cartacea e digitale e solo 67 dalla pubblicità. Il digitale è stato la fonte principale di crescita dei ricavi, ma nonostante questo incremento la carta continua a produrre a livello globale il 90% dei ricavi degli editori giornalistici. E questa adesso si rivela una grande vulnerabilità. Dall'inizio della crisi, i modelli di business e la stessa identità di molte news organization sono cambiati moltissimo, scegliendo una miriade di strade diverse.
2. RICAVI PUBBLICITARI GIORNALI. C’è chi ha scelto di rafforzarsi affiancando attività non giornalistiche che portano nuove fonti di ricavo. È il caso di NewsCorp in Australia che ha puntato molto su RealEstate.com, un sito di annunci immobiliari, per far fronte al crollo dei ricavi nel settore classified spazzati via dal digitale. O di Axel Springer in Germania con Stepstone, il più importante sito tedesco per la ricerca di offerte di lavoro. Il Washington Post, dopo l’arrivo di Jeff Bezos come editore, sta vivendo una delle trasformazioni più significative, diventando in pratica una tech company dedicata al giornalismo. Le piattaforme di content management create dal WP, l’ecosistema di data analysis e data science e il brand studio interno dedicato al racconto delle aziende, pongono il quotidiano all'avanguardia e ne fanno un modello importante di giornalismo post-cartaceo. L’edizione di carta del WP è diventata, anche in questo caso, secondaria. Altri hanno puntato su mix simili, ma sempre caratterizzati dalla qualità del giornalismo. È il caso delle testate finanziarie come Wall Street Journal o FT, ma soprattutto del già citato New York Times, protagonista di un sorprendente cambio di paradigma. Alla fine del XX secolo, gli abbonamenti portavano al NYT meno del 5% dei ricavi. Nel 2011 è avvenuta l’inversione di tendenza.
3. ABBONATI NEW YORK TIMES. È utile ricordare alcuni dati di fatto su come il settore dei quotidiani arriva all'appuntamento con il “coronavirus dei giornali”. Serve per capire perché le difese immunitarie siano così basse. Il giornalismo è ancora concepito per l’era industriale, dalla quale nel frattempo il mondo è uscito per entrare in una nuova information age basata su presupposti diversi. Il prodotto di base del giornalismo, la notizia, è diventata una commodity che non ha più il valore sufficiente per sostenere l’organizzazione del lavoro di aziende editoriali ancora strutturate come all'inizio del XX secolo. Il sistema ha tenuto fino a quando, a metà degli anni Zero del XXI secolo, non ha cominciato ad essere dissanguato dei propri ricavi pubblicitari, che si sono in gran parte spostati verso colossi del web come Google e Facebook. Questo grafico rende bene l’idea del fenomeno negli Usa. Il macro fenomeno globale più rilevante nell'editoria degli ultimi anni è stato il progressivo aumento dei ricavi legati ai lettori (abbonamenti cartacei e digitali, vendite in edicola, membership), a fronte della costante decrescita dei ricavi pubblicitari. Il sorpasso dei ricavi da audience rispetto a quelli da advertising è avvenuto nel 2013 e il trend continua a livello globale, come indica questo grafico di Wan-Ifra aggiornato al 2017.
4. RICAVI NEW YORK TIMES PUBBLICITA VS ABBONATI. Nel 2019, il NYT ha raccolto $800 milioni di ricavi solo con il digitale, superando i 5 milioni di abbonati a una delle varie forme di subscription per accedere ai contenuti del giornale. Nell'ultimo trimestre dell’anno, mentre gli abbonamenti crescevano del 4,5%, la raccolta pubblicitaria è calata del 10,7%, rendendo sempre più urgente per il giornale rafforzare il modello di business basato sulla membership. Nel frattempo, nel corso dell’ultimo anno, il NYT ha assunto altri 120 giornalisti, portando la redazione a 1.600 unità, il numero più alto della propria storia più che centenaria. Dietro le cifre ci sono fenomeni sociali, trasformazioni demografiche e molte considerazioni legate alla rivoluzione digitale. C’è un digital divide crescente e c’è un cambio generazionale enorme relativo alle fonti a cui i diversi gruppi demografici attingono per cercare “notizie”. Il quadro globale lo riassume bene questo grafico del Reuters Institute for the Study of Journalism.
5. ETA E MEZZO DI FRUIZIONE NOTIZIE. Siamo in una fase di ibridizzazione dei mezzi che conduce alla transmedialità, con la televisione ancora forte protagonista ma con modalità di fruizione e attori nuovi (pensiamo al boom di Netflix o Amazon Prime). In uno scenario così, la carta stampata risulta debolissima e l’arrivo della Grande Recessione del 2020 la trova senza anticorpi. Il caso italiano. Proviamo a vedere la situazione in Italia. Bastano pochi dati per capire che si è vicini a un punto di rottura del sistema. Nel 2007 in Italia la diffusione dei quotidiani si assestava intorno ai 5,5 milioni di copie giornaliere. Oggi si vendono poco più di 2 milioni di copie. Non va meglio neppure alle copie digitali, che nell'ultimo anno sono calate del 3,4% e complessivamente non raggiungono quota 200 mila. Significa che è proprio il “prodotto giornale” a essere in crisi, che sia di carta o replicato tale e quale su un tablet.
7. MERCATO PUBBLICITARIO ITALIA. Se si guarda alla pubblicità, la situazione pre-crisi del coronavirus era già gravissima. In un decennio il fatturato si è ridotto del 71,3%: poche filiere (forse nessuna) possono resistere a un crollo del genere senza un radicale cambio di modello di business. Ogni anno da quotidiani e periodici sparisce circa il 10% della raccolta pubblicitaria. E le prospettive per il breve-medio termine si presentano funeste. Una prima indagine condotta nei giorni scorsi da BVA Doxa tra le imprese italiane, segnala che il 76% di esse ha già avuto impatti negativi immediati per il Covid-19: tra le prime azioni da prendere in risposta a questo disastro, il 49% indica che ridurrà gli investimenti in pubblicità e media planning.
6. VENDITA MEDIA GIORNALI CARTACEI ITALIA. Un altro elemento di debolezza è rappresentato dal crollo del numero degli addetti ai lavori. Non tanto sul fronte giornalistico, quanto su quello poligrafico: la carta, assai più del digitale, ha bisogno di un esercito silenzioso di mille professionalità (tipografi, grafici, stampatori, impiegati ecc.) per raggiungere capillarmente ogni giorno le edicole. Ma la situazione del settore è quella raccontata da questo grafico dell’ultimo rapporto ASIG (l’associazione degli stampatori di giornali).
8. OCCUPAZIONE POLIGRAFICI ITALIA. In questi giorni le redazioni dei giornali e il loro sistema di distribuzione stanno facendo un lavoro – lo ripeto – eroico per cercare di portare ogni giorno un prodotto di 30-60 pagine di carta nelle case dove gli italiani vivono blindati. Temo però che, passata la fase dell’emergenza, tutte le debolezze del settore verranno a galla e si uniranno alla realtà di un prosciugamento massiccio, impensabile, degli investimenti pubblicitari che proseguirà almeno per tutto il 2020. Una tempesta perfetta che a mio avviso segnerà la fine della carta. E anche di molte tradizionali modalità di lavoro, come le periodiche riunioni di redazione. Lo smart working di queste settimane, del resto, ha offerto spunti importanti per immaginare il futuro.
Da dove ripartire? Purtroppo, come per la sanità pubblica, è difficile reagire quando la crisi è già in corso. Servivano negli anni scorsi scelte radicali in termini di innovazione: ogni storia di successo dell’editoria in questi anni è basata su un solido approccio R&D. Ricette se ne possono immaginare tante, modelli di riferimento a cui ispirarsi adesso ne esistono in ogni parte del mondo. Io mi limito a elencare sei lezioni che mi sembra ci abbiano insegnato gli Anni Dieci, per provare a immaginare il giornalismo degli Anni Venti:
I media in questi anni hanno confuso il traffico con l'engagement. Anche nell'era digitale occorre scommettere sul giornalismo di qualità;
La grande scarsità della nostra epoca è l’attenzione delle persone, la si cattura conoscendo bene il proprio pubblico e offrendogli contenuti di qualità. La tecnologia aiuta, senza mitizzarla;
Paid è un buon antidoto a fake: l’informazione tutta gratis non ha un futuro. Ma si è disposti a pagare un’esperienza, non una notizia.
È in corso una ibridizzazione dei mezzi che conduce alla transmedialità, occorre sapere giocare a questo gioco;
Conosci chi ti segue e chi ti paga: data analysis e data science sono fondamentali. Non servono big data, ma relevant data;
Membership sarà una parola chiave per i prossimi anni.
Adesso occorre fare presto, prima che gli effetti dell'imminente Grande Recessione divengano devastanti. Occorre comprendere velocemente che questa è una crisi di settore industriale, inserita dentro una gigantesca crisi economica globale: si può reagire solo con un drastico cambio di sistema. L’ultima copia di carta del New York Times - e di tante altre testate storiche, anche italiane - non è mai stata una realtà così vicina.
Commento di Enrico Mentana: D'accordo Bardazzi. Aggiungerei che:
1 non esiste un under 30 che legga i giornali
2 nella società digitale non ha senso la cadenza quotidiana
3 è impensabile uno spostamento fisico per andare a comprare un giornale con le notizie del giorno prima
4 tv prima e web poi hanno raso al suolo l'idea che le notizie si debbano pagare
5 la crisi economica ha fatto il resto, chiudendo giornalisti invecchiati dentro redazioni da cui escono solo col la pensione o il prepensionamento, perché non c'è più mercato.
Loro (noi), i giornalisti, come categoria e come punte, hanno maturato grandi colpe: un riflesso da un lato egoistico (meglio conservare i privilegi che rischiare) e dall'altro realistico (faccio un prodotto novecentesco, i lettori miei coetanei questo vogliono, invece di cercare un mercato nuovo per il quale non sono attrezzato resto qui, e so a chi parlo - è quella che chiamo la sindrome dell'antiquario). L'unica grande paura dei giornalisti oggi è la crisi dell'Inpgi, e ho detto tutto.. E poi ci sono gli editori, che sognano un falò del CNLG (il contratto), perché nei loro bilanci gravano redazioni inscalfibili che ai loro occhi lavorano come una decina di giovani del web, ma in compenso costano un centinaio di volte in più.
Giampiero Mughini per Dagospia il 27 marzo 2020. Caro Dago, ho letto con vivo interesse sulle tue pagine l’accoppiata Marco Bardazzi/Enrico Mentana che ragionano su quel che sono divenuti e diventeranno i quotidiani di carta nell’era digitale e del consumo fulmineo di notizie e immagini. Sul dato essenziale, che nel 2007 si vendevano cinque milioni e mezzo di copie di quotidiani e che oggi se ne vendono poco più di due milioni, ahimé non ci piove una goccia. E’ una trasformazione epocale che sta distruggendo le aziende editoriali per come le avevamo conosciute venti o quarant’anni fa. Avessi un figlio che vorrebbe fare il giornalista, mi metterei le mani nei capelli a strapparmeli. Non sono però d’accordo con Mentana quando dice che non ha senso uno spostamento fisico per andare a comprare e pagare delle notizie che il quotidiano di carta offre al mattino, dato che quelle notizie sono state offerte dal web per tutto il giorno precedente. Non mi pare che le cose vadano esattamente in questo modo. Fra poco uscirò per andare all’edicola a comprare i miei cinque quotidiani di cui ho ogni giorno un bisogno viscerale. Non ci troverò solo le notizie che ho ascoltato nei telegiornali delle 24 ore precedenti. Ci troverò caterve di editoriali, inchieste, corsivi, grafici, interviste originali di cui ho bisogno come dell’aria che respiro. Il “Buongiorno” di Mattia Feltri, i dieci o quindici articoli/commenti prelibati su ciascun numero del “Foglio”, l’editoriale di ieri o di ieri l’altro in cui Marco Travaglio annichiliva le stupidaggini pronunziate da molti sul fatto che l’Urss ci avesse inviato dei “militari” a fornirci un qualche aiuto, la marea di articoli uno più bello dell’altro sul sommo maestro Alberto Arbasino (e anche se il primo di quegli articoli a firma Roberto D’Agostino non poteva non pubblicarlo questo sito su sui sto scrivendo), le interviste di Aldo Cazzullo, i resoconti accuratissimi da ogni parte del mondo di Bernardo Valli, l’articolo di Emanuela Audisio in memoria di Gianni Mura, e ancora caterve e caterve di materiali comunque interessantissimi. Io non ci passo più 3-4 ore al giorno a leggere i quotidiani come quando ero un giornalista professionista ma un‘ora e mezza al minimo sì. Confesso di frequentare poco i men che trentenni, di certo non sento il bisogno di frequentare i men che trentenni che non leggono un giornale di carta. Diamo a Cesare quel che è di Cesare, non facciamo passare per una sciccheria pazzesca quella di nutrirsi solo e soltanto di immagini e tweet e fesserie varie eruttate dall’artiglieria digitale. Quando mi ospitano in tv glielo leggo in faccia a molti che quello di cui stanno parlando sanno a malapena di che si tratta, e questo perché un giornale di carta lo maneggiano a ogni morte di papa. Che Dio ce la mandi buona.
Allarmismo da Coronavirus? Lasciate perdere i giornali, la colpa è delle istituzioni. In difesa della stampa italiana. Se dal 21 febbraio ad oggi, in meno di due settimane, siamo entrati nel loop profondo di una narrativa che ci ha portati a essere uno fra i cinque paesi più temuti al mondo per numero di contagi e di vittime da Coronavirus, non è solo perché siamo un popolo emotivo i cui sentimenti la stampa cavalca e perché facciamo tamponi come non ci fosse un domani da quando è morto Adriano Trevisan, ma anche e soprattutto per le risposte schizofreniche che le istituzioni hanno fornito ai cittadini e per una comunicazione poco coerente nel dialogo con la stampa. Giulio Gambino su TPI il 5 Marzo 2020. “Dovreste vergognarvi. Sciacalli. Mistificatori“. La stampa è sotto accusa. I giornali vivono un periodo di profonda crisi a causa anche della scarsa credibilità di cui godono. E questa emergenza Coronavirus ne è forse la prova più lampante. Giornalisti impallinati perché fanno il loro mestiere. Tacciati di essere allarmisti perché riportano notizie, certo talvolta inquietanti ma pur sempre utili ai lettori, o perché denunciano condizioni di degrado in cui versa la sanità nazionale. Mi ha colpito profondamente la mole di insulti subiti dal settimanale l’Espresso per la scelta della copertina uscita in edicola domenica scorsa, ‘Sanità distrutta Nazione infetta’, in riferimento a una storica copertina degli anni Cinquanta. Il messaggio di accusa era più o meno questo, parafrasando: "Seminate panico in un momento delicato in cui bisogna calmare le persone anziché allarmare i cittadini. State affossando il paese. Vergognatevi. Sciacallaggio. Sensazionalismo. Avete fatto uno scivolone di comunicazione. Contribuite alla paura e allo sfascio del paese. Ho bisogno di speranze". La presunta colpa? Sentite qui: aver denunciato la crisi del servizio sanitario pubblico dopo anni di tagli e la carenza di dottori, medici e infermieri, spesso precari, in concomitanza – guarda un po’ – con la emergenza Coronavirus. Va detto che il tutto avveniva perlopiù sui social come Instagram che, naturalmente, non è lo specchio del paese ma fornisce ugualmente lo scenario di una società che non vede più nel giornalismo un valido alleato ma anzi un nemico a cui contrapporsi. E una società che non si nutre del potere della stampa, dandola per vinta e scontata già in partenza, è una società più povera. La "caccia al giornale allarmista" si è verificata in questi giorni anche nei confronti di altri quotidiani, cartacei o web, compreso il nostro, fortemente criticati perché – appunto – ritenuti allarmisti e propagatori di un clima da brividi. Curioso. Sta di fatto che alla notizia del primo morto in Italia, e poi del secondo, del terzo, fino ad arrivare al centesimo, non è stata risparmiata una feroce critica verso chi faceva solo il suo mestiere, di informare il più possibile correttamente i lettori. E da lì le accuse, verso tutti, indistintamente, per le quali se muore una persona è necessario specificare da subito in un titolo di pochi caratteri anche l’età, se fosse o meno già ammalato, e altro ancora. E in ogni caso, bisogna parlarne poco; il meno possibile. Della serie: meno ne parliamo, meno ci riguarda, meno il virus arriva anche qui. Non tiriamocela da soli. Anzi, “non affossiamo” il paese con questa stampa allarmista. Certo, come no. Quasi si volesse scongiurare, persino censurare, a tutti i costi l’effetto domino con cui era praticamente inevitabile che il virus si diffondesse e arrivasse anche da noi. E da lì il solito refrain: "Pur di vendere due copie in più vendereste anche vostra madre". Carino. A ben vedere, in questa emergenza da virus la stampa italiana ha risposto più che degnamente: tutta insieme, senza differenza di sorta. Sono stati prodotti reportage, interviste, analisi e commenti informativi utili al servizio del lettore. A me non allarma francamente il numero di contagi di per sé, ma molto di più il fatto – come denunciato da noi di TPI – che la Regione Veneto abbia temporeggiato per 20 giorni l’inizio dei tamponi anche sui pazienti asintomatici. Quando avrebbe forse potuto mettere un freno alla diffusione del virus nella regione che per paradosso è anche quella che spende di più per la sanità nel nostro paese e che oggi è uno dei principali focolai attivi. Il morbo del virus ha comprensibilmente paralizzato il paese intero. Anche la politica è in ferie, e i suoi rappresentanti in quarantena. Le pagine politiche dei quotidiani sono state ‘soppresse’ dal virus. Pure Salvini è quasi scomparso dalla scena, e ce ne vuole. Fanno sorridere quelli che scrivono: se oggi prestassimo tanta attenzione al riscaldamento globale quanta ne prestiamo al Coronavirus riusciremmo a trovare una soluzione di lungo termine a un problema assai maggiore. Vero, certo. Ma è una banalità tale da far sembrare quel motto quasi una frase fatta, e non capendo che è perfettamente normale che un virus di questa portata, nell’era dello sviluppo accelerato, in cui l’uomo è arrivato a ritenersi invincibile sulla natura, catalizzi il dibattito pubblico e annienti la razionalità che oggi molti ricercano negli occhi degli altri. Sì, questo Coronavirus fa paura. Lo temiamo perché non conosciamo come è fatto, dove si annida e in che modo possiamo debellarlo. Ma la stampa in questo non ha responsabilità. Se dal 21 febbraio ad oggi, in meno di due settimane, siamo entrati nel loop profondo di una crisi che ci ha portati a essere uno fra i cinque paesi più temuti al mondo per numero di contagi e di vittime da Coronavirus, non è solo perché siamo un popolo emotivo i cui sentimenti la stampa cavalca e perché facciamo tamponi come non ci fosse un domani da quando è morto Adriano Trevisan, ma anche e soprattutto per le risposte schizofreniche che le istituzioni hanno fornito ai cittadini e per una comunicazione poco coerente che hanno trasmesso alla stampa. Dalle istituzioni è stato dichiarato quasi tutto e il contrario di tutto, arrivando – ieri 4 marzo -, forse a questo punto con un po’ di ritardo, a chiudere le scuole e le università di tutto il paese per almeno 11 giorni (fino al 15 del mese). Da allarmismo istituzionale – quello sì che lo è stato – a dietrofront con il freno a mano tirato. Governo, istituzioni e regioni: il nord Italia ricco si è ritrovato improvvisamente spiazzato e debole, incapace di tranquillizzare i propri cittadini. (E le istituzioni, quelle sì, non i giornali in primis, avrebbero dovuto farlo). Dalla mascherina di Fontana ai topi di Zaia, chi ha generato instabilità e instillato paura non è stata certo la stampa. Quello scontro fratricida tra governo e regioni è stato deleterio per determinare la gravità della situazione, causa del caos che si è auto-generato. Altro che giornalismo. Del resto, riflettete su questo: se i nostri governanti ci dicono "non andate tassativamente al pronto soccorso" quale pensate possa essere la reazione della popolazione? Quella di salutarsi da lontano ma senza baciarci e abbracciarci, forse. E poi, dulcis in fundo, lo scontro tra i virologi: ovvero le persone che avrebbero avuto diritto di parola perché portatori di un pensiero informato e che invece hanno generato ancora più incertezza, dichiarando l’una il contrario dell’altro. Rischiando di trasformare un ambiente incolume alla tifoseria da stadio di cui l’Italia è già piena in una campagna elettorale politica con un biglietto assicurato per le prossime elezioni. I giornali devono fare i giornali e i giornalisti devono fare i giornalisti, con coraggio, per raccontare la verità e condizioni che le istituzioni hanno spesso quasi del tutto omesso (come in questa emergenza ad esempio). Perciò facciamoci coraggio, accettiamo la paura per quel che è, risparmiamoci questa avversione nei confronti dei media. Quasi avessero una colpa di raccontare ciò che deve essere raccontato, quasi fossero dall’altra parte rispetto ai cittadini, quasi avessero interessi particolari nascosti su cui lucrare, quasi godessero nel terrorizzare la gente. Se una storia di denuncia è cruda e va raccontata, va raccontata. Se bisogna entrare nella red zone, si entra nella red zone. Punto.
“Ricordati che devi morire”, cara Tv lo sapevamo già. Lea Melandri de Il Riformista il 14 Marzo 2020. Da un passato, di cui restano segni profondi nella memoria del corpo e pochi ricordi, c’è tuttavia un’ immagine che mi ha seguita nel tempo, forse perché cercava una spiegazione che non ho mai avuto voglia di darle. Il titolo credo fosse “Le età della vita”, il disegno una linea curva su cui una figura umana saliva e scendeva, via via in posizione sempre più eretta e poi sempre più inclinata. Mi colpiva la somiglianza fra la partenza e il traguardo, l’evidente accostamento tra l’infanzia e la vecchiaia. Se mi è tornata in mente in questi giorni non è certo un caso: c’è l’allarme da coronavirus, ci sono ordinanze sempre più restrittive della nostra mobilità sociale, e ci sono notiziari che a ritmo serrato contano il numero dei contagi, dei ricoveri, delle guarigioni e delle morti, associandoli all’età delle persone colpite e sottolineando con insistenza la contenuta mortalità del virus che colpirebbe quasi esclusivamente gli “anziani” con malattie pregresse.
Si tratta certo di dati oggettivi, ma accompagnati da una lettura e una scelta comunicativa che non potevano non sollevare perplessità, domande, irritazione. Collocate nella categoria dei “fragili” o “vulnerabili”, un modo all’apparenza gentile per rivolgersi agli ultrasettantenni, le persone che purtroppo ne fanno parte dovrebbero ringraziare per tanta inaspettata attenzione nei loro confronti, o chiedersi che senso abbia ricordare il “memento mori” a chi si presume lo abbia già dolorosamente nei suoi pensieri? Non c’è voluto molto a capire che quella insistente precisazione era volta a rassicurare i più giovani, e deve essere andata a buono o cattivo fine se, fino a pochi giorni fa, la maggior parte della popolazione , a minor rischio, ha continuato a mantenere comportamenti abituali. Non ho potuto evitare un ragionamento spontaneo: i vecchi sono quelli che vivono già in una sorta di quarantena, negli interni delle case, negli ospedali, nelle case di riposo, mentre i giovani, figli, nipoti, si accalcano in massa nei supermercati, rischiando di portare a casa cibo e contagio. A far crescere inquietudini e malumori è arrivato poi il documento della Società italiana degli anestesisti in cui si dice che, peggiorando la situazione, sarebbe stato necessario “porre un limite all’ingresso in terapia intensiva”, e cioè, in altre parole, riservare risorse a chi ha più probabilità di sopravvivenza. Verrebbe da dire “una selezione naturale”, se al posto della natura, come pensava Darwin, non ci fosse in questo caso una sanità pesantemente decurtata per quanto riguarda finanziamenti, personale medico e infermieristico. Eppure non sono stati pochi ad avvallare la bontà di una scelta che va contro il diritto di tutti a essere curati, senza quel minimo di riflessione critica che dovrebbe farci dire che non bisogna arrivare a questo. In tutte le emergenze di cui veniamo informati quotidianamente in un mondo globalizzato – dalle guerre alle migrazioni, sfollamenti, carestie, ecc.- l’attenzione va generalmente “alle donne e ai bambini”, anche se si può pensare che siano i più forti a sopportarle. La vita da salvaguardare, nelle situazioni estreme, è quella dei corpi che la generano e di quelli che sono all’inizio del loro cammino. Eppure sappiamo quanto contino le persone più avanti negli anni, quando si tratta di sostituire nella cura dei bambini e della casa servizi sociali carenti o inesistenti. Se non bastasse questo, in un lungo percorso di vita si può dire che ogni individuo diventa il testimone prezioso di una storia, l’archivio di un vissuto sociale, oltre che personale, che i libri di storia non raccontano. Perché allora sembra così “normale” ridurre chi ha un’età avanzata a corpo “fragile” o addirittura a numero di una statistica? Scrive Adriano Sofri in una delle sue “conversazioni” online: «Vorrei salutare le vecchie donne e i vecchi uomini a cui il virus ha già dato il colpo di grazia e quelli che lo aspettano. Quelli che gli eufemismi chiamano “anziani”, e però l’eufemismo opposto, urgente a rassicurare gli altri, chiama “malati già compromessi”. “Sarebbero morti anche per una normale influenza”, ha detto una brava professionista, dimenticando la differenza tra una statistica e una vita (…) Anche se si siano disabituati a pensare che si muore di vecchiaia, sanno comunque che di vecchiaia si vive, e che a volte un impulso può scuoterli come un ricordo antico, come una primavera di febbraio che sente la gelata, ma mette fuori lo stesso il suo fiore». Le emergenze agiscono come una specie di catalizzatore di rapporti, convinzioni, pregiudizi, immaginari, visioni del mondo acquisite spesso inconsapevolmente e che una scossa inaspettata porta all’improvviso davanti agli occhi. Si scoprono la fragilità, la dipendenza degli uni dagli altri, la perdita repentina di un privilegio, il capovolgimento di gerarchie, valori e poteri ritenuti immodificabili, la presenza inaggirabile del nostro essere corpo. Una condizione umana che accomuna tutti diventa, al medesimo tempo, il rilevatore più potente di differenze – di genere, razza, classe, specie – che ci sono sempre state e che hanno potuto sottrarsi alla coscienza solo perché date come “naturali”. Ma, soprattutto, quello che viene allo scoperto è come la civiltà, che ha avuto per protagonista un sesso solo, abbia finalizzato le sue mete ad esorcizzare quel limite di tutti i viventi, che è la morte, inscritta fin dalla nascita nei loro corpi.
Scontro tra Mieli e Travaglio: "Basta col gioco delle anticipazioni", "Ma cosa dici?" Botta e risposta tra i due giornalisti, ospiti a Otto e mezzo, dove si è parlato di coronavirus. Dura la critica di Mieli contro il modo di comunicare del governo. Francesca Bernasconi, Venerdì 13/03/2020 su Il Giornale. Un duro scontro, quello che ha visto protagonisti i giornalisti Paolo Mieli e Marco Travaglio, ospiti in diretta da Lilli Gruber, durante la puntata di Otto e mezzo, il programma di La7. Il tema della discussione era il coronavirus e si ragionava in particolare sulle mosse del governo nell'approvazione delle misure per combattere il Covid-19 e, in particolare, sulla comunicazione delle autorità ai cittadini. "Il gioco delle anticipazioni non mi piace, c'è qualcosa di torbido", dice Paolo Mieli, commentando gli annunci del presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, che per "la terza o quarta volta fa un annuncio a tarda sera preceduto da indiscrezioni che danno la rava e la fava" di quello che dirà poi. A questo punto, commenta il giornalista, "lo faccia il mattino dopo". Anche perché, aggiunge, "queste sono cose molto delicate". "Ma cosa dici?- risponde subito Travaglio- Cosa stai dicendo?". E, sempre rivolto a Mieli, chiede: "Ma secondo te è come fare un uovo fare un decreto del presidente del Consiglio?". A quel punto, il giornalista ribatte: "Te lo spiego cosa sto dicendo". E ricorda, mentre Travaglio scuote la testa: "L'ultima volta è successo questo, che la cosa è stata anticipata nel pomeriggio da qualcuno", da una Regione, "la Lombardia". E, continua Mieli, "visto che questo gioco è la terza o quarta volta che si fa, sarebbe ora di finirla". Il gioco di cui parla il giornalista è, come ribadisce lui stesso, incalzato da Travaglio, che gli chiede ancora di cosa stia parlando, è quello "delle anticipazioni per tutto il pomeriggio", quando "poi di notte arriva la conferenza stampa". Ma il direttore del Fatto quotidiano non è d'accordo e spiega: "Non c'è stata nessuna anticipazione. C'è stato semplicemente un numero spropositato di Regioni che ha chiesto una cosa, dopodiché avranno preso una decisione".
Due cose su di noi. Può sembrare antipatico parlare di noi nel giorno che tutta l'Italia è in ginocchio. Penso però che proprio quando si devono affrontare grandi difficoltà la chiarezza va fatta prima in famiglia, e voi lettori da sempre siete la nostra famiglia. Alessandro Sallusti, Mercoledì 11/03/2020 su Il Giornale. Può sembrare antipatico parlare di noi nel giorno che tutta l'Italia è in ginocchio. Penso però che proprio quando si devono affrontare grandi difficoltà la chiarezza va fatta prima in famiglia, e voi lettori da sempre siete la nostra famiglia. Bene, per tutelare la nostra salute ed evitare contagi qui dentro e nelle nostre case, abbiamo avviato tutte le procedure di autotutela. Per il secondo giorno in questo palazzo di sei piani di via Negri a Milano che è la storica sede de «Il Giornale» stiamo lavorando in dieci (contro il centinaio abituale tra giornalisti, tecnici e impiegati) ben distanziati uno dall'altro. Tutti gli altri colleghi sono a casa connessi via internet. È una cosa che non ha precedenti e pensavo fosse impossibile mandare in edicola un giornale decente in queste condizioni. Invece è accaduto, non chiedetemi come (i direttori sono come i mariti, sempre gli ultimi a sapere e capire che cosa succede in casa propria) ma è accaduto. Evidentemente questa redazione sgangherata, non esente come tutte da debolezze e casi strani, è una grande redazione e lo sta dimostrando in queste ore nonostante i sacrifici economici imposti dalla crisi dell'editoria ben prima del Coronavirus. Penso che i padri fondatori tutti nobili del giornalismo sarebbero per una volta orgogliosi dei loro successori. Credetemi, non è facile fare un giornale a distanza e a compartimenti stagni. Bisogna tirare fuori tutte le competenze e tutta la passione di cui si dispone ed è quello che sta avvenendo. Grazie quindi a quel manipolo di incoscienti che si assume qualche rischio stando in sede a dirigere il traffico con mascherine e guanti; grazie a chi da casa si sta inventando un nuovo mestiere; grazie agli organi sindacali che hanno capito il momento, ai tecnici che ci pilotano decimati in edicola. E grazie all'editore Paolo Berlusconi e alla sua famiglia che stanno affrontando ulteriori sacrifici per permettere tutto questo. Un abbraccio al nostro vicedirettore Nicola Porro, colpito ma non affondato dal virus. E adesso tocca a voi, cari lettori, decidere se premiare questo sforzo continuando a comprarci e seguirci nonostante le difficoltà e le restrizioni imposte. Sappiamo che non è facile in questi giorni raggiungere un'edicola aperta. Se ci credete trovate il modo, non io ma questa straordinaria squadra lo meriterebbe.
LA TIVÙ DEL DOLORE E QUELLA DEL VIRUS. Dimitri Buffa 09 marzo 2020 su L’Opinione. La tivù del dolore è morta e nessuno la rimpiange. È stata sostituita da quella del contagio. Cioè dalla tv del panico da corona virus. Finita l’era delle dirette da casa di zio Michele ad Avetrana ecco le telecamere nei bar e nei cinema sempre all’insegna del “signora lei cosa prova in questo momento?”. Se poi un giorno qualcuno si fermasse a riflettere sul ruolo nefasto di questa maniera di fare informazione, che è solo un continuo sobillare l’ansia delle persone, sarà sempre il benvenuto. Venerdì pomeriggio alle 15 e 30 chi scrive è stato testimone – a puro titolo di esempio – dell’ingresso, annunciato enfaticamente dal direttore di sala, delle telecamere di una qualche trasmissione sensazionalista (del mattino o del pomeriggio vallo a sapere) nella sala del cinema Quattro Fontane a Roma in cui stava per essere proiettato il bellissimo film di Giorgio Diritti, Volevo nascondermi, con Elio Germano nel ruolo del pittore Ligabue. La sala era vuota, come ogni pomeriggio, forse di più data la psicosi di massa indotta con il pretesto del Coronavirus. Le domande agli astanti per sapere come si sentissero a dovere rispettare le regole del decreto Conte sulle distanze minime da tenere risultavano retoriche se non posticce: tra ognuno dei presenti in sala c’erano cinque o sei file di mezzo. Anche prima del corona virus al primo spettacolo pomeridiano non è che si notasse ‘sto gran cambiamento. Però bisognava tenere alta la tensione. Se del caso favorendo la psicosi di moda. Ecco se si continua così il progetto di Greta per il ritorno alla preistoria come metodo di guarigione del mondo dai suoi mali, veri o presunti, come l’inquinamento globale o il surriscaldamento andrà a gonfie vele. Pazienza se rimarranno sul campo morti e feriti e milioni di disoccupati. Adesso le ragioni di sanità pubblica stanno per sostituire l’allarme sicurezza. Anche perché in questa maniera il controllo sociale tipico delle dittature o degli stati autoritari – delle democrature – sarà più facile e globale. E tutti vivranno felicemente inconsapevoli e contenti. E anche la tivù del dolore – quella che andava a casa delle vittime di efferati delitti a chiedere alle vittime “signora lei cosa prova in questo momento?” – può andare in pensione. Vuoi mettere l’efficacia delle dirette dai reparti di terapia intensiva dei vari ospedali del Bel Paese? Zio Michele può tornare nel dimenticatoio insieme alla mamma di Cogne. E anche di Avetrana ce ne dimenticheremo presto. Adesso ci sta un nuovo gioco al massacro mediatico che va per la maggiore: la tivù del panico da contagio.
Media. In media stat virus. Giorgio Tedeschi su Diesis.it il 3 Marzo 2020. “Il numero dei contagi è probabilmente sottostimato ma questo può essere positivo”, dice la virologa Ilaria Capua. “I dati dei contagi sono probabilmente sovrastimati e questo è un dato positivo" dice il capo della protezione civile Angelo Borrelli. Comunque vada, il dato è positivo e in questo ottimismo sta il dietrofront della comunicazione istituzionale. Non voglio qui mettermi in fila per il tiro al piccione sulla gestione di questa crisi. Così come tutti sono diventati un po’ virologi in tanti sono diventati esperti di crisis management. Voglio proporre un riflessione dando per assodate le inefficienze ma non le deficienze di questa vicenda. Cioè è evidente che la confusione sta regnando sul tema forse influenzata dalle nebbie padane. Ma non diamo per scontato che tutti gli errori siano errori: forse la crisi è almeno in parte stata gestita in questo modo per scelta. Di fatto, il governo stressato da risse quotidiane e in una crisi che pareva più che annunciata ha tirato un grosso sospiro di sollievo. Negli Stati Uniti i presidenti sotto elezioni scatenano guerre, noi nel nostro piccolo prendiamo quello che ci arriva, in questo caso l’import virale. Dopo il corona virus tutti i contendenti del ring politico sono tornati nell’angolo. Tra una statistica virale e l’altra sono stati sommessamente approvati i decreti su cui si litigava e si ponevano veti che parevano insuperabili, dal milleproroghe alle intercettazioni. Il tema di scontro tolto dalla graticola della propaganda è diventato più commestibile. Possibile quindi che la drammatizzazione sia stata una tattica? Più che possibile, soprattutto considerando i protagonisti di questa comunicazione istituzionale. Almeno fino a un certo punto. Chi è abituato a conquistare gli spazi gridando sempre più forte non è detto che sappia modulare in modo opportuno i toni di una crisi vera. Per dirla in modo meno poetico, l’enfasi del dramma è stata voluta ma il volume è scappato di mano perché chi lo ha creato non ha cultura o capacità per abbassarlo oltre che alzarlo. In un mondo di gente che grida imparare a parlare sottovoce è inutile. Non si spiega diversamente l’apparente mancanza di preparazione di un piano di crisi visti i comodi tempi trascorsi tra l’annuncio cinese e l’esordio italiano. Probabile che il piano di crisi prevedesse proprio quello che più o meno è successo, almeno all’inizio. Come spiegare altrimenti la completa assenza di un portavoce autorevole, il primo passo di qualsiasi crisi. Invece, liberi tutti e anche qui forse la mano è un po’ scappata. Perché il complotto virale si è beffardamente spalmato sul lombardo-veneto governato dall’opposizione leghista. Siccome attaccare la controparte era una strategia inattuabile in una situazione così grave, si è scatenata la rincorsa a chi imponeva precauzioni sempre più rigide ma soprattutto scomposte. Questo ha portato al proliferare di centri di comunicazione con toni sempre più allarmistici come accade in tutte le crisi populiste e popolari. La gara a chi usa il termine più forte. Quante aziende sono state uccise dagli aggettivi urlati da comitati vocianti eccitati come quaglie che vedono solo faine, sotto l’effetto dopante della polarizzazione e dell’assembramento. A un certo punto, poche ore fa, le parole forti sono terminate. Sono diventate sempre le stesse perché nemmeno la Crusca aveva fantasia per crearne di nuove. La noia è la triste mietitrice di ogni dramma. Allora il climax si stempera e si guardano le macerie lasciate dalla incapacità collettiva di misurare e misurarsi. Ma soprattutto da una mancanza di cultura della comunicazione che non è solo tecnica ma anche un senso di responsabilità e del dovere. In questa fase i media cercano la loro via mediana come buddisti pentiti spingendosi talvolta a un eccesso di rassicurazioni dannose quanto la drammatizzazione. La conclusione è che non sono cambiati i mezzi di comunicazione ma i comunicatori. La società li segue. La ricerca della sensazione, l’orientamento a concentrarsi sull’emozione utilizzando l’efficacia narrativa della paura, è una malattia che richiede un vaccino urgente quanto il nuovo virus. Un ultima cosa. Negli ultimi mesi oltre ventimila persone sono morte di dengue, oltre tre milioni si sono ammalate. Accade in Asia e in America latina. Se avete letto qualcosa sui giornali siete persone ben informate. Riflettiamo su come usiamo i mezzi di comunicazione, su quanto ci facciamo trasportare dall’onda emotiva anche tra professionisti o professoroni o semplici persone attente ai fatti del mondo. I media ormai siamo noi. Giorgio Tedeschi
Patente per i media. Vanni Codeluppi su doppiozero.com l'1 marzo 2020. È noto come Karl Popper abbia destato molta attenzione alcuni anni fa proponendo d’istituire una patente per tutti coloro che realizzano e trasmettono dei programmi televisivi. Il filosofo austriaco ha formulato tale proposta nel 1994 all’interno di una conversazione con Giancarlo Bosetti uscita nel volume Cattiva maestra televisione, ora riproposto in una nuova edizione dall’editore Marsilio nell’Universale Economica Feltrinelli. Popper intendeva affermare l’idea che chi si trova a gestire una televisione, la quale oggi è il mezzo di comunicazione più seguito e potente, ha un’elevata responsabilità nei confronti della società e pertanto, come per chi deve guidare un’automobile o curare degli ammalati, è necessario che venga valutato dallo Stato e che gli venga concessa un’autorizzazione a compiere il suo lavoro solamente se è in possesso dei necessari requisiti. Un’autorizzazione che può anche essere ritirata se colui al quale è stata concessa non adotta più dei corretti principi etici. La proposta di Popper ritorna d’attualità in questi giorni, dopo lo scoppio in Italia di un’epidemia di coronavirus, e potrebbe essere estesa a tutti media. Popper, infatti, ha formulato la sua proposta pensando alla televisione, ma è evidente che tutti coloro che lavorano nei media stanno adottando in questo periodo dei comportamenti opportunistici. Si rivolgono alle persone approfittando della loro elevata sensibilità nei confronti delle notizie che riguardano il coronavirus per catturare meglio la loro attenzione. Di solito, forniscono delle informazioni veritiere e impiegano un tono serio e non allarmistico, ma il problema è l’enorme quantità di spazio mediatico che viene dedicato a tali informazioni. Il palinsesto appare in gran parte occupato dal tema coronavirus e ciò genera inevitabilmente la sensazione che si tratti di un tema importante e di cui è necessario preoccuparsi. L’importante teoria dell’agenda setting, peraltro, ha dimostrato chiaramente da tempo che i media di solito creano all’interno delle notizie una gerarchia d’importanza che influenza pesantemente quello che pensano le persone. Le quali pertanto, se qualcosa è trattato come importante dai media, sono indotte anch’esse a ritenerlo rilevante. D’altronde, come ha sostenuto il sociologo Pierre Bourdieu all’interno del volume Sulla televisione (Feltrinelli), ciò che caratterizza la televisione è che essa di solito «invita alla drammatizzazione, nel doppio senso del termine: mette in scena, in immagini, un evento e ne amplifica l’importanza, la gravità, nonché il carattere drammatico, tragico» (p. 20). Il linguaggio televisivo cioè, per sua natura, produce inevitabilmente una enfatizzazione emotiva dell’oggettività dei fatti che presenta. Anche perché le immagini che propone sono prevalentemente occupate da persone (i presentatori, i giornalisti, ecc.) che danno l’impressione di rivolgersi direttamente allo spettatore, creando così un rapporto intimo e coinvolgente sul piano emotivo. Va considerato, del resto, che il linguaggio televisivo è principalmente basato su un flusso d’immagini veloci, con ritmi intensi e una continua variazione dei soggetti presentati. In ciò risiede uno dei suoi elementi di maggiore fascino, ma il risultato è che gli spettatori non hanno il tempo necessario a sviluppare un’adeguata riflessione. Questa infatti richiede tempo. I messaggi televisivi dunque sono prevalentemente basati sulle emozioni e sulla velocità e producono di conseguenza una crescita del livello di ansia negli spettatori. Ansia generata anche dal fatto che il linguaggio della televisione non prevede di solito un confronto tra opinioni diverse, né si preoccupa di raggiungere un elevato livello di approfondimento dei contenuti. Si produce dunque dell’insicurezza in spettatori che sono esposti soprattutto a fatti i quali vengono ingigantiti rispetto alla loro reale importanza e non trovano una spiegazione per quanto riguarda le cause che li hanno determinati. Oggi poi tutto ciò è amplificato sia dalla crescente concorrenza in atto tra le reti televisive, le quali sono spinte da tale concorrenza a una ricerca ossessiva di eventi forti e sorprendenti da trasmettere, sia dalla moltiplicazione delle reti stesse, le quali (insieme al Web) producono un’enorme crescita degli stimoli mentali che arrivano all’individuo. Il quale si trova così ad avere difficoltà a ragionare rispetto a ciò che vede e conseguentemente a essere sempre più vittima dell’ansia. Molti pensano che la società e i mercati debbano autoregolarsi. Sono influenzati da quell’ideologia neoliberista secondo la quale il mondo può attraversare dei momenti di difficoltà, ma è comunque sempre in grado di arrivare autonomamente a un livello ottimale di equilibrio. La storia ci ha invece mostrato che in molti casi è necessario che lo Stato intervenga per rimediare a quello che la società non è in grado di correggere da sola. Forse l’epidemia di coronavirus, nella sua drammaticità, ci porterà ad avere una maggiore consapevolezza della necessità di istituire una patente per chi lavora in televisione e negli altri media.
Coronavirus, come gestire l’impatto psicologico e sociale. Maria Rosaria Mandiello l'8 Marzo 2020 su ildenaro.it. Diluire la socialità, prolungando le restrizioni e estendendole, è l’approccio perseguito con sempre maggiore forza per ridurre i contagi da Coronavirus. Una regola che pesa su tutti, specie tra i gli adolescenti, “affamati” di amicizie e di incontri e che tocca agli adulti far rispettare in questi giorni insoliti e caotici. Il coronavirus ha posto tutti noi in uno stato di perenne angoscia e paura, il clima che si respira in giro e sui social è quello di una situazione surreale e pericolosa. Il virus ha un impatto non indifferente sulla psicologia umana. Sentimento alquanto naturale è quello della paura, umana e comprensibile. Il virus fa paura, inutile nasconderlo. Fa paura ai genitori che temono per la vita dei propri figli, fa paura ai malati oncologici che nella loro battaglia contro il “mostro” si ritrovano la minaccia insistente ed invisibile del virus che potrebbe aggredire le loro già precarie difese immunitarie. Fa paura ad ogni essere umano perché impotente dinanzi ad un virus sconosciuto e che ogni giorno viene analizzato e scoperto dalla scienza. Fa paura perché ci pone di fronte alla vita vera: il baratro tra la vita e la morte. Fa paura perché sconosciuto significa anche che non ci sia una vera e propria cura, seppur i medici instancabilmente lavorano e pongono sotto terapia i casi più gravi. Paura che molti di noi hanno imparato a sperimentare in questi giorni, fondamentale per la nostra difesa e sopravvivenza: se non la provassimo non riusciremmo a metterci in salvo dai rischi. Quindi ben venga percepire paura, perché ci attiva e ci mette in allerta. Ma se non riuscissimo a gestirla rischiamo di attuare comportamenti impulsivi, frenetici, irrazionali e talvolta errati. Il passo dalla paura al panico o all’ansia generalizzata è breve, per cui si perde lucidità e ogni cosa viene percepita come rischiosa ed allarmante. Non siamo fatti per reggere situazioni di allerta e tensione continua, anche perché l’essere umano come reazione scapperebbe di fronte a situazioni di tensione, impossibile farlo in questa situazione. In alcune persone si sviluppa poi una situazione di ipocondria, intesa come eccessiva preoccupazione per il proprio stato di salute percependo ogni sintomo come un segnale da infezione da coronavirus. Una limitata dose di paura e allerta sono necessarie, anzi fondamentali per poter attivare e agire senza perdere lucidità. Seguire le preziose indicazioni della autorità sanitarie richiede un minimo di attivazione e concentrazione. E’ importante iniziare a gestire i social e la televisione, d’accordo con l’informazione e la comunicazione, ma non devono diventare ventiquattro ore su ventiquattro il nostro unico pensiero. Controbilanciare lo stress positivo di una situazione di allerta con comportamenti controproducenti che generano ansia. Ad esempio la corsa ai supermercati per essere saccheggiati, diventano controproducenti alle indicazioni fornite dagli esperti, che invitano ad evitare luoghi affollati. Gestire l’ansia si può. Ognuno di noi dovrebbe chiedersi: “sto seguendo anche oggi le indicazioni fornite?” Un suggerimento và anche alla stampa: frasi come “il bollettino dei morti” e cose simili, suscitano e diffondono allarmismo. Siamo di fronte anche a giorni e forse periodi prolungati di isolamento per alcune zone, mentre per molti si chiede di limitare i propri spostamenti e assumere dei comportamenti insoliti, che richiedono anche di rivedere gesti che di riflesso provengono spontanei. Quindi molte delle nostre rassicuranti abitudini quotidiane dovranno essere interrotte creando uno stato temporaneo di disorientamento, che potrà però essere reinvestito in nuove attività magari mai fatte: genitori e figli che si ritrovano a guardarsi negli occhi e a parlare; libri lasciati interrotti o riprendere progetti tralasciati. E’ importante cercare di mantenere self-control, cercando di infondere senso di sicurezza in noi stessi ma anche nei più piccoli, che dovranno evitare i media allarmistici, onde evitare di bombardare la loro mente con un quadro parziale distorto. I più piccoli vanno protetti dalle irrazionalità e allarmismi degli adulti: non vanno mostrati loro gli scaffali dei supermercati vuoti o le tende da campo fuori dagli ospedali, ma i compiti da fare per mantenere un senso di normalità. Non solo impatto psicologico per il coronavirus ma anche un impatto sociale, inevitabilmente abbiamo smesso incontri ravvicinati, strette di mano con abbracci e baci, tipici del saluto italiano. Cambia anche il pacco dei vivere, all’interno ora c’è l’Amuchina, per dare la possibilità alle persone più fragili di poter disinfettare mani ed oggetti. E’ proprio il sociale che ne esce più forte ed arricchito in questo periodo: la società civile che si è ritrovata nella società del rischio, sta lentamente diventando un luogo per rigenerare fiducia. Si sperimenta il lavoro e il cooperare ai tempi di un’emergenza gravissima: continuità nel lavoro di cura, supporto alle persone fragili. Viene da pensare ai medici, infermieri e personale sanitario che senza sosta lavorano e cercano di fronteggiare non senza qualche difficoltà e carenza, questa emergenza. Allo stato attuale il coronavirus sembra che ci stia cambiando in meglio: nel nostro tempo, nel nostro sociale, nel nostro impegno. E allora facciamone una risorsa di oggi e di domani nel solco della speranza, della fiducia, dell’ottimismo e del crederci. Crediamo nel nostro sistema sanitario e nella ricerca. Crediamo in tutti noi che con regole e comportamenti coscienti possiamo salvaguardare noi stessi e gli altri, riuscendo a rinascere da un momento che si spera ben presto potremmo lasciarci alle spalle e ricordare come un brutto ricordo.
Come i media italiani hanno trasformato il coronavirus in un virality show. Luigi Mastrodonato, Giornalista. il 31 gennaio 2020 su wired.it. In Italia si sono registrati i primi due casi di persone infette. Tra video esclusivi dei malati, titoloni allarmistici e dirette 24 ore su 24, i media hanno dato vita a una spettacolarizzazione del terrore. Che il coronavirus sia un’emergenza sanitaria globale, lo ha detto anche l’Organizzazione mondiale della sanità. A oggi i morti per l’epidemia sono oltre 200, i contagi viaggiano verso i 10mila e aumentano giorno dopo giorno. Anche in Italia si sono registrate le prime due persone contagiate in un hotel romano e il governo ha deciso di fermare i voli da e per la Cina. In questa situazione di profonda incertezza, dal momento che la conoscenza del fenomeno è ancora limitata, gran parte dei media italiani stanno offrendo una narrazione tossica di quanto sta avvenendo. L’allarmismo si è subito trasformato in spettacolarizzazione e sensazionalizzazione, come avviene troppo spesso davanti a situazioni di questo tipo. Sulle edizioni locali dei quotidiani nazionali, così come sui giornali locali, si fa a gara di titoloni a chi ha più casi sospetti nei propri ospedali provinciali, per poi nascondere tra le righe in fondo il fatto che si trattasse di un falso allarme. Ne è un esempio questo articolo tenuto per un giorno in apertura sul sito de La Provincia di Como. “Allarme Coronavirus al Sant’Anna”, il titolone, seguito dal racconto di una famiglia in arrivo dalla Cina e sottoposta a controlli per una situazione sospetta. “I test hanno dato esito per fortuna negativo”, si legge – irrilevante – nell’ultima riga del pezzo. Un’informazione di questo tipo ha caratterizzato più o meno tutta l’ultima settimana mediatica italiana, con allarmi rimbalzati da un capo all’altro del paese e poi rivelatisi infondati, quando ormai il panico sociale era già stato creato. In parallelo, si sono moltiplicate le gallerie di foto raffiguranti cittadini cinesi morti per strada a Wuhan e altrove, con la solita indicazione “si consiglia la visione a un pubblico adulto e consapevole”. Alla fine comunque l’allarme si è concretizzato anche in Italia. Trattasi di due turisti cinesi atterrati a Malpensa qualche giorno fa e poi trasferitisi a Roma, dove ora si trovano ricoverati presso l’Istituto Nazionale Malattie Infettive Spallanzani. “Virus, colpita l’Italia”, l’apertura di oggi di Repubblica, “Il morbo è a Roma”, il titolone de Il Resto del Carlino, “Virus paralizzante”, la prima pagine di Avvenire. In tv si sono moltiplicate le troupe televisive nei pressi dell’hotel prima e dell’ospedale poi dove si trovano i due cittadini cinesi, in una sorta di telecronaca in tempo reale dell’epidemia. Il giornale di Enrico Mentana, Open, ha invece diffuso quello che ha definito uno scoop: un video dove si vedono le due persone contagiate nell’ambulanza, senza alcuna censura del loro volto. Esseri umani buttate in pasto alla psicosi collettiva, come se vederne il volto potesse servire a qualcosa, fosse un passaggio fondamentale nel diritto di cronaca. Non è così. In tutta questa situazione, il fatto che il direttore scientifico dell’ospedale, Giuseppe Ippolito, abbia detto in una conferenza stampa che i due cittadini cinesi contagiati a Roma stanno bene e che la rapidità dell’intervento faccia pensare che non ci siano altre persone contagiate – la vera notizia, quella che dovrebbe tranquillizzare – è passato in secondo piano, fuori dai titoloni di apertura, dalle anteprime degli articoli e dai “video esclusivi”. Il panico, d’altronde, fa più notizia delle rassicurazioni. Sono bastati pochi giorni per trasformare il coronavirus in un ottimo pretesto commerciale. Il clickbaiting mediatico da una parte, in un mondo dell’editoria sempre più in crisi e che ha venduto la propria dignità per qualche accesso in più. La strumentalizzazione politica a fini propagandistici dall’altra, con i vari Matteo Salvini e Giorgia Meloni che hanno subito declinato la questione del coronavirus in un’ottica frontaliera, aggiungendo al jingle dei porti chiusi quello degli aeroporti chiusi e puntando il dito contro un governo reo di non aver isolato l’Italia dal resto del mondo in tempo. Se le speranze di una dialettica politica sana sono ormai da tempo state tradite, quanto meno dal giornalismo ci si aspetterebbe che adempiesse al suo compito, fare informazione. Che è ben diverso dal creare allarmismi sotto forma di spettacolarizzazione delle notizie. L’articolo 7 della Carta di Perugia, d’altronde, sottolinea che è impegno comune la non diffusione di informazioni che possano provocare allarmismi, turbative ed ogni possibile distorsione della verità. L’epidemia globale c’è, l’allarme è reale, ma il modo in cui viene raccontato è sbagliato. La fuga degli italiani dai ristoranti cinesi, l’incremento di episodi razzisti verso cittadini della terra del Dragone, sono effetto della psicosi causata, anche, dalla sensazionalizzazione mediatica. È paradossale che chi oggi sta facendo la migliore informazione sul tema coronavirus si trovi su Instagram, piuttosto che su un quotidiano o in tv. Trattasi ad esempio di Roberta Villa, giornalista e medico, che con una serie di stories cerca di andare oltre alla narrazione paranoica dei media mainstream. In una di queste, ad esempio, sottolinea che la dichiarazione dell’Oms sull’emergenza globale non è sinonimo di catastrofe, ma serve più che altro ad attivare una serie di conseguenze, gli accordi tra stati, senza comportare misure restrittive su viaggi e commerci. Peraltro, non è un evento così raro: dal 2009 a oggi è già successo altre cinque volte. Narrare il coronavirus sminuendolo è sbagliato, certamente. Raccontarlo amplificando la sua portata attuale e declinando in chiave ultra-allarmistica ogni notizia, lo è ugualmente. Le foto delle persone infette, i corpi stesi nelle città cinesi, le dirette fuori dagli ospedali non aggiungono nulla al racconto. Piuttosto, lo trasformano in una sorta di reality show quotidiano. Tutto questo operare in chiave clickbaiting e audience non salverà il giornalismo dalla crisi che sta vivendo, al contrario non farò altro che accentuarla.
SOCIOLOGIA. Coronavirus, isteria collettiva in quattro passaggi. Come può essere che ciò che accade agli abitanti della Cina si ripercuota sui cittadini italiani? E come può un virus presente in un mercato cinese infettare un manager lombardo? Usiamo gli strumenti delle scienze sociali per delineare un quadro di analisi e cercare di contenere la paura generata dal coronavirus. Davide Bennato docente di Sociologia dei media digitali all’Università di Catania su agendadigitale.eu il 2 marzo 2020 . L’epidemia di COVID-19 – meglio noto come coronavirus – ha scatenato nel mondo un’escalation di comportamenti individuali e collettivi dissennati. Ovviamente il virus esiste, sta diffondendosi nel mondo, sta contagiando e sta avendo le sue vittime. Ma gli effetti più a lungo termine saranno dovuti alla reazione sociale all’epidemia, più che all’epidemia stessa.
La reazione sociale al coronavirus e l’epidemia informativa. Reazioni scomposte da parte delle autorità politiche mondiali e locali, esplosione di razzismo e comportamenti collettivi irrazionali in tutte le parti del mondo, crisi economica globale, attivazione di cordoni sanitari, reazioni di panico incontrollato spesso attivate dalla stampa e dai social media, fake news, meme, e atteggiamenti blasé da parte del villaggio globale metropolitano: ci sono tutti gli ingredienti perché si delinei un panorama distopico che ricorda tantissimi racconti – cinematografici e letterari – che hanno messo al centro dell’attenzione le conseguenze sociali e culturali delle epidemie. C’è un termine prima sconosciuto ai più che adesso sta entrando nell’opinione pubblica, una buzzword come si dice in gergo: infodemia ovvero una epidemia che prima ancora di essere biologica è anche – verrebbe voglia di dire soprattutto – informativa. È questa la parola meglio in grado di descrivere cosa stia succedendo e perché la situazione, ad una analisi superficiale, sembra fuori controllo. Per questo motivo può essere interessante delineare un quadro di analisi che usando gli strumenti delle scienze sociali provi a rispondere alla seguente domanda: com’è stato possibile che da una pressoché sconosciuta per quanto enorme metropoli cinese si sia attivato un processo che ha portato al saccheggio dei supermercati in Lombardia e in Italia? Come può un mercato di Wuhan decidere la fine delle scorte di pasta a Codogno? Per rispondere a questa domanda servono quattro passaggi.
Primo passaggio: un mondo piccolo e ristretto. Come può essere che ciò che accade agli abitanti della Cina si ripercuota sui cittadini italiani? Ma soprattutto come può un virus presente in un mercato cinese infettare un manager lombardo? Per capire quanto siamo tutti connessi a livello globale può essere utile la teoria del piccolo mondo. In base a questa teoria – verificata sperimentalmente nel 1967 dal sociologo Stanley Milgram – ognuno di noi è connesso a qualunque altro individuo presente sulla faccia della terra da una media di sei passaggi. È il principio dei sei gradi di separazione: bastano in media sei contatti per connettere le persone tra loro. Questa teoria dimostra non solo la velocità di diffusione del virus, ma anche che fra un contadino del mercato di Wuhan e il manager di una azienda con sede a Codogno ci sono solo sei persone: da qui la capacità del virus di viaggiare rapidamente al di là di qualsiasi confine. Grazie anche all’infrastruttura degli aeroporti. Un’altra teoria diffusa negli studi sulla geografia della globalizzazione è l’effetto restringimento del mondo, ovvero il mondo si è rimpicciolito grazie alla compressione spazio-temporale resa possibile dai mezzi di trasporto. All’epoca delle scoperte geografiche per fare il giro del mondo ci volevano due anni di navigazione, negli anni ’30 bastavano 8 giorni in aereo, fino ad arrivare alle 31 ore che un Concorde a metà degli anni ’90 impiegava per circumnavigare il globo: un mondo più stretto è un mondo in cui tutto è facilmente raggiungibile.
Secondo passaggio: la realtà è una costruzione sociale. Il coronavirus è contagioso ma relativamente poco mortale, ma noi abbiamo l’impressione che sia pericoloso e che attenti alla nostra sicurezza e incolumità: perché? Per via della percezione sociale. Noi non vediamo il mondo per com’è oggettivamente, ma per come lo percepiamo soggettivamente. Pertanto, le persone agiscono nel mondo a seconda della percezione che ne hanno. Provate a dire a chi ha paura dell’aereo che è un mezzo di trasporto sicuro: riceverete un sorriso accondiscendente per poi affidarsi alle preghiere durante decollo e atterraggio. Dite a qualche cittadino estremista che gli sbarchi dei migranti – dati alla mano – sono limitati: sarete accusati di essere buonisti e bugiardi. Noi non viviamo nel mondo reale, ma nel mondo così come ci viene rappresentato dalle persone che sono intorno a noi. Qual è il mondo del coronavirus? Un mondo in cui dicono di stare calmi ma poi chiudono l’hinterland milanese, un mondo in cui dicono che non c’è pericolo e poi sospendono gite scolastiche, feste di Carnevale, chiudono scuole e università. A nulla serve quando dicono che non c’è da avere timore: questi sono atti eccezionali che rompono la tranquilla quotidianità del nostro mondo sociale. Il sillogismo – fallace – è presto fatto: per essere delle azioni così eccezionali, sicuramente c’è qualcosa che non va. La nostra tranquilla vita fatta di abitudini e tran-tran improvvisamente è sospesa, si comincia ad avere ansia e timori. Cerchiamo conferme che comunque la situazione è sotto controllo e che tutto comunque sta seguendo un percorso preciso. Cerchiamo notizie e conferme nei media.
Terzo passaggio: dipendenza mediale. Abbiamo bisogno di informazioni su cosa sta succedendo: seguiamo avidi talk show, special televisivi, telegiornali, titoli dei quotidiani, cominciamo a dipendere dai media. La teoria della dipendenza mediale – sviluppata nel 1989 – sostiene che quanto più la società viene percepita come instabile, tanto più andiamo alla ricerca di informazione, qualunque tipo di informazione. Così qualunque media che parla di coronavirus trova un’audience disposta a seguirlo in maniera più o meno acritica perché lo scopo è tranquillizzarci, darci un contesto per capire cosa succede. Ma il problema delle notizie è il framing (cornice di significazione): io posso anche raccontare al Tg che il coronavirus non è pericoloso ma le immagini a commento sono farmacie con disinfettanti terminati, laboratori di ricerca, persone cinesi in quarantena, poliziotti con la mascherina. Gli esperti in televisione non sempre sono concordi tra loro: c’è chi dice che è un’influenza, chi invece dice che è più di influenza, chi dice di mettere le cose nella giusta prospettiva. I politici si accusano vicendevolmente. Nessuna certezza. L’orecchio sente inviti alla calma, l’occhio vede scene di ansia e paura. Poi ci sono media senza scrupoli che cavalcano i timori ben sapendo di trovare chi non avendo strumenti critici adatti è disposto ad ascoltare e a farsi convincere. Serpeggia la paura, non è più una sensazione: diventa concreta, si vede, si percepisce, si tocca. Allora ci guardiamo intorno e vediamo cosa fa il nostro vicino.
Quarto passaggio: la pressione dei nostri pari. Il coronavirus si diffonde: i telegiornali non parlano d’altro, la stampa apre con titoli strillati e non importa se inviti alla calma o al panico. Ci guardiamo intorno a noi e cerchiamo di capire cosa fa il nostro vicino di casa, lo sconosciuto che attende l’autobus, la persona in fila alla cassa del supermercato dietro di noi. Cominciamo a subire la pressione dei nostri simili, la peer pressure. Con questo concetto si definisce l’influenza sociale che esercitano le persone che consideriamo simili a noi (i nostri pari). Allora vediamo che in giro spuntano mascherine chirurgiche nonostante abbiano detto in televisione che non servono. Lo sconosciuto che attende il bus guarda arrabbiato un ragazzo dai tratti somatici orientali. La persona in fila alla cassa dietro di noi ha comprato dei disinfettanti, tanta pasta, tanta acqua. In giro in città le farmacie espongono cartelli indicando la fine delle scorte di detergenti per le mani e mascherine chirurgiche. Andiamo sui social media: i nostri contatti ironizzano con meme e battute, ma altri rimproverano il fatto che l’umorismo stia sottovalutando la minaccia. Altri amici con tono scherzoso mostrano la scorta di pasta e bibite caloriche appena acquistate. Qualcuno posta un video di supermercati presi d’assalto nelle zone con maggior numero di contagiati. Decidiamo di fare la spesa – comunque dovevamo farla – per scrupolo compriamo qualche pacco di pasta in più, qualche taglio di carne in più. Piano piano molti fanno lo stesso. Il direttore del supermercato ci dice di pazientare l’indomani per gli altri prodotti perché non si aspettavano una tale richiesta, ma in realtà abbiamo il sospetto che non avremo il nostro pacco di pasta così come non avremo il nostro disinfettante e la nostra mascherina. Ormai è isteria: allarmi televisivi, il baccano dei social si dibattono tra blasé e complottismo, in giro mascherine ovunque, aeroporti con controlli termici, scuole chiuse, ospedali presi d’assalto. La vita quotidiana di prima è pesantemente compromessa.
Come controllare la paura. E in tutto questo che fine ha fatto il coronavirus? Semplice: è scomparso. Il problema adesso non è più se ammalarsi oppure no: il problema è diventato come controllare la paura nostra e di chi sta intorno.
La sociologia ha diverse specializzazioni che avrebbero potuto dare importanti indicazioni nella gestione di una crisi: il tono di voce da usare da parte delle istituzioni, il rapporto con la stampa e le testate giornalistiche, le strategie di accettazione delle misure eccezionali come i cordoni sanitari e il blocco di festività e raduni collettivi, i rapporti con la comunità cinese, l’attenzione sulle azioni legati al sistema sanitario nazionale e ai laboratori di ricerca, la comunicazione del rischio coronavirus. Ma tutto ciò non è stato possibile farlo perché hanno agito due diverse forze incontrollate: da un lato la paura che si è diffusa a tutti i livelli aiutata da un catalizzatore molto potente come la mancanza di fiducia diffusa nel sistema Paese. Nel momento in cui sto scrivendo si parla del primo effetto concreto del coronavirus: la crisi economica in diversi settori produttivi nazionali. Ma solo nelle prossime settimane avremo modo di vedere effetti più a lungo termine sulla vita collettiva. D’altronde come diceva Franklin D. Roosevelt: “l’unica cosa di cui dobbiamo avere paura è la paura stessa”.
“Il Fatto quotidiano” il 4 marzo 2020. È evidente che è per pura osservanza liturgica alla statistica che continuiamo a contare i numeri dei morti da Covid-19. Da quando si è imposto il protocollo burocratico di "non alimentare la psicosi" sottolineando l' evidenza che a morire sono più che altro gli anziani (con o senza malattie pregresse), ci siamo rincuorati con letizia. L' unico studio pubblicato, cinese, rivela che del virus che ha fatto finora 2.933 morti le persone sopra gli 80 anni hanno il 24,8% di probabilità di morire, quelli tra i 70 e gli 80 anni l' 8%, e giù a scendere. La regola così placida e rasserenante che ci si ammala gravemente e si muore solo se si è vecchi è contraddetta da alcune evidenze (in Cina, medici morti nel pieno della maturità; in Italia, il 38enne di Codogno sano e sportivo intubato in condizioni gravi); e dentro questi dati, e dentro quelli futuri relativi a Paesi dove non c' è la Sanità pubblica e gratuita (pensiamo agli Usa), bisognerebbe discriminare tra gli anziani che guariscono perché in grado di pagarsi le cure e quelli che muoiono per strada, come alcune immagini dalla Cina già testimoniano. Ma è significativo che il sistema dei media e quindi il discorso pubblico si sia subito adeguato a questo nuovo linguaggio: i morti non vengono più indicati come "persone" o "vittime" da Covid-19, ma come "anziani", come si trattasse di una categoria a parte e tutto sommato trascurabile. Il Capo della Protezione civile Borrelli ha detto in più occasioni: "Erano ultra settantenni malati". Non è il caso di farla troppo lunga: sarebbero morti lo stesso, un destino a cui evidentemente qualcuno sente di poter sfuggire. Il sospiro di sollievo stride col fatto che la nostra è una società che invecchia progressivamente: i 37 miliardi sottratti alla Sanità pubblica in dieci anni e i 5 milioni di poveri sono indicatori rilevanti in questo avvilente conteggio di morti alla spicciolata, che magari, fossero stati più in salute, non sarebbero morti. Nell' Occidente moderno ai vecchi è toccato un destino crudele: dall' eliminazione degli improduttivi sterminati dai nazisti insieme ai disabili col programma di eugenetica Aktion T4 , si è giunti all' etica-estetica pubblicitaria che vuole gli anziani performanti, giovanili, e dunque in grado di lavorare (la maggiore considerazione cosmetica si paga con l' alta età pensionabile), salvo poi oltraggiarli come parassiti che "ci hanno rubato il futuro" e gioire se a morire per il virus sono più che altro loro. Questo nichilismo forse ci aiuta a farci sentire al sicuro nell' emergenza, protetti dalla biologia e dall' anagrafe; ma certo non ci salverà nel lungo termine.
Quei laboratori cinesi che hanno creato il coronavirus: il complottismo farlocco del Fatto. Sara Volandri su Il Dubbio il 2 marzo 2020. Il quotidiano sbatte in prima pagina uno “scoop” sulle origini del Covid-19. Ma l’articolo smentisce il titolo. Che nell’edizione on-line viene del tutto cambiato. Il titolo è da brividi: “Wuhan, quell’altro virus creato in laboratorio”. Il sommario la trama di film horror: “Nel 2015 un team di ricercatori creò un patogeno unendo un coronavirus di pipistrello con uno della Sars. C’è un legame con la nuova epidemia?” Sbattuto in prima pagina, così, di botto, senza senso, lo “scoop” del Fatto Quotidiano viene contraddetto dallo stesso articolo, che cita l’ultima ricerca scientifica sulle origini del Covid-19 per la quale “è improbabile che il virus abbia avuto origine da una manipolazione in laboratorio”. Insomma uno scoop farlocco, in cui al titolo allarmista (e un po’ sciacallo) segue un pezzo volutamente vago e confuso che, di fatto, smentisce il titolo. Se ne devono essere accorti anche nella redazione del giornale diretto da Marco Travaglio tanto che lo stesso articolo appare nell’edizione on-line con un titolo del tutto diverso “Wuhan e il complotto . Ecco perché gli scienziati non credono il virus sia uscito da un laboratorio”.
Coronavirus, giornalista zona rossa fermato dalla Finanza: "Diffidato dal fare il mio mestiere". Le Iene News il 4 marzo 2020. Sarebbe il terzo caso di giornalista diffidato mentre fa riprese o raccoglie testimonianze nella zona rossa. Stasera a Iene.it la testimonianza di Cristiano Brandazzi, che, secondo quanto ci racconta, sarebbe stato diffidato dalla Guardia di Finanza oggi a Casalpusterlengo. "DIFFIDATO dalla Finanza di Milano perché nella zona rossa del coronavirus (dove sono recluso) stavo compiendo il mio lavoro da giornalista". Parte così la denuncia su Facebook di Cristiano Brandazzi, giornalista del Cittadino di Lodi, e che vive a Casalpusterlengo. Lo raggiungiamo al telefono in attesa di collegarci con lui stasera a Iene.it: aspettando Le Iene, il programma digital condotto da Giulia Innocenzi. "Questa mattina vedo due pattuglie della Guardia di Finanza ferme davanti a un negozio. Hanno denunciato un commerciante che aveva momentaneamente aperto il negozio, ma non per vendere, infatti la cassa era chiusa, bensì per raccogliere le firme per una petizione per chiedere alcune agevolazioni previste per le zone economiche speciali", ci spiega. "Così mi sono avvicinato per capire cosa stesse succedendo e per fare delle domande". Ed è lì che la Guardia di Finanza gli avrebbe chiesto prima di vedere il tesserino, e poi gli avrebbe ritirato i documenti. E sarebbe partita la diffida: "Mi hanno diffidato per uso improprio di riprese foto/video. Ma io stavo solo facendo il mio mestiere". E la diffida sarebbe scattata anche per il suo collega Mario Borra del Giorno. E intorno si sarebbe creato un assembramento di persone venute a vedere cosa stava succedendo, e "già fiaccate da dieci giorni di blocco". "E' già il terzo caso di diffida ai giornalisti nella zona rossa. La tensione si sta facendo sentire", chiosa Brandazzi. Intanto il giornale Il Cittadino di Lodi si è messo in contatto con l'ordine dei giornalisti della Lombardia per attivare le dovute tutele del caso. Stasera dalle 20.45 a Iene.it: aspettando Le Iene, dal titolo "Siamo gli appestati", faremo raccontare la vicenda direttamente al giornalista collegato da Casalpusterlengo, davanti al negozio dove sono successi i fatti. La nuova trasmissione digital condotta da Giulia Innocenzi è disponibile in diretta sulla pagina Facebook de Le Iene, Iene.it e Mediasetplay.it.
Psicosi Coronavirus è solo isterismo di politica e giornalisti. Fabrizio Cicchitto de Il Riformista il 3 Marzo 2020. Caro direttore, ho intenzione di volare molto più basso di quanto non abbia fatto Bertinotti a proposito del virus. Bertinotti ha parlato di crisi di civiltà, anche le pestilenze dei secoli passati e la spagnola del 1918-1919 sono state l’espressione di altrettante crisi di civiltà, tant’è che hanno attratto anche l’attenzione di alcuni grandi scrittori. Nel nostro caso, la “novità” è costituita dal fatto che tutto avviene in diretta televisiva, giornalistica, della rete internet, il che amplifica tutte le reazioni e nevrotizza sia i cittadini sia le forze politiche. Questa permanente nevrosi attraversa sia le forze politiche e sociali sia la cosiddetta comunità scientifica sia le stesse strutture sanitarie. A nostro avviso, il comportamento delle forze politiche di maggioranza e di opposizione ha avuto molti aspetti negativi. La maggioranza di governo e Salvini dall’opposizione hanno sposato tesi estreme a seconda del vento mediatico: prima Salvini ha sostenuto che bisognava chiudere tutto, poi, anche a seguito della reazione delle forze economiche e sociali ha sostenuto la tesi opposta. A sua volta il governo ha inseguito l’opposizione su tutti questi terreni, ma, avendo insieme ad alcune regioni la responsabilità operativa del tutto, è andato incontro ad alcuni errori che hanno comunque pesato sulla situazione. A parziale scusante dell’Italia presa nel suo complesso c’è il comportamento del governo cinese che non va mai dimenticato e rimosso malgrado magari per le gaffe espositive del presidente Zaia. In primo luogo, la Cina è un gigante con i piedi d’argilla perché è la seconda volta che al suo interno fermenta un virus che è espressione di mancanza d’igiene individuale e collettiva e di buchi nel sistema sanitario. Per di più siccome la Cina è uno Stato comunista privo di trasparenza essa ha comunicato l’esistenza del virus con qualche mese di ritardo, quindi l’Italia si è trovata ad affrontare una situazione già pregiudicata quando alcuni dei buoi erano già scappati. Conte e Speranza, ignorando questo fatto, hanno ritenuto di blindare il paese con il blocco dei voli diretti: non ci voleva molto per sapere che esistono anche quelli indiretti. Inoltre, per la paura di apparire razzisti non si è raccolta una richiesta delle regioni leghiste che casomai andava estesa: non solo i ragazzi cinesi, ma tutti coloro che da gennaio erano passati per la Cina dovevano sottoporsi a controlli e/o a quarantene. Paradossalmente è quello che ha fatto la comunità cinese di Prato che infatti allo stato non ha neanche un contagiato e nella stessa condizione si trovano tutti i cittadini pratesi. A complicare ulteriormente le cose c’è stata la divisione profonda fra gli esperti, i virologi e gli infettivologi che avendo un’esposizione mediatica solo in occasione di queste disgrazie che fortunatamente avvengono a distanza di anni si sono riversati su tutte le televisioni nazionali combattendo fra di loro una battaglia senza esclusione di colpi. Secondo una parte di essi e, come vedremo, l’Istituto Superiore di Sanità, ci troviamo di fronte a una pericolosa epidemia con due focolai, uno più esteso in Lombardia, l’altro più concentrato nel Veneto, che richiedono il blocco totale dei paesi coinvolti e provvedimenti assai incisivi come la chiusura delle scuole, il blocco delle manifestazioni sportive etc. in tutto il Nord. Di qui controlli a tappeto con l’uso generalizzato dei tamponi. L’altra tendenza sostiene invece che la Cina è un caso a parte e che c’è una versione italiana del coronavirus che è una sorta di febbre rafforzata e che quanto ai morti ogni anno la febbre normale produce morti fra gli anziani e i più deboli. Ora, questa tesi combinata con le legittime preoccupazioni, anzi angosce, delle forze economiche e sociali sta producendo incertezze e contraddizioni che nevrotizzano ulteriormente la situazione e possono portare anche al venir meno di quella guardia necessaria per fare da filtro a un virus tuttora in azione. Su questo terreno è stata decisiva la posizione della regione lombarda per riportare tutti su una posizione di rigore, come testimonia lo stesso decreto del governo. Ma qui arriviamo a una questione che sarebbe di per sé esplosiva se non fosse ignorata da tutte le televisioni e da quasi tutti i giornali con un’unica eccezione; l’unica parziale eccezione è costituita dalla Stampa di sabato 29 febbraio che non in prima (di qui il nostro aggettivo parziale) fa una denuncia assai grave: titolo “Allarme dell’Istituto Superiore di Sanità”, occhiello “L’Iss contro la decisione del governo di non sottoporre a test chi è asintomatico: c’è il rischio che l’infezione si propaghi. L’agenzia europea di prevenzione delle malattie: l’alto numero di positivi al virus non dipende dai tamponi eseguiti” (La Stampa, 29 febbraio 2020). È evidente che si tratta di una questione molto rilevante sulla quale quasi tutti stanno preferendo di sorvolare. Un altro interrogativo che finora non ha avuto risposta è il seguente: perché in Lombardia e in Veneto sono esplosi questi due focolai e niente di tutto ciò, almeno finora, è avvenuto né in altre zone del Nord né nel resto d’Italia? Allo stato nessuno ha dato risposta a questa domanda, che non è di piccolo conto. A ciò vanno aggiunte altre due considerazioni. Da un lato, il nostro sistema ospedaliero-sanitario al Nord è sotto stress e rischia di diventarlo ancora di più se il numero dei contagiati continua ad aumentare, dall’altro lato oramai il singolo cittadino non ha la possibilità di avere una risposta alle proprie eventuali legittime angosce, sulle quali nessuno può fare ironie. In altre materie ognuno è libero, attraverso il sistema sanitario pubblico e privato, di fare tutti i controlli del sangue o di altro che ritiene opportuno; oggi il singolo cittadino che ritiene di avere sintomi preoccupanti non ha affatto una via facile per farsi controllare con il tampone. Addirittura, le cronache raccontano di litigi avvenuti presso le nostre strutture ospedaliere da parte di soggetti che volevano essere controllati. In più i medici di base sono in fuga dai loro assistiti per timore che venendo a contatto con un contagiato debbano essere a loro volta rinchiusi in una quarantena di due settimane, per cui non effettuano più visite dirette, ma procedono solo per telefono o per smartphone. Infine, passando ad altro a testimonianza del livello di una parte almeno della nostra classe politica, Salvini ha cercato di utilizzare questa emergenza per uscire dalla botola in cui si è cacciato e per arrivare a un governo di salute pubblica che gli dia una scorciatoia per arrivare alle elezioni in pochi mesi. Fortunatamente Renzi aveva imbastito un’operazione dello stesso tipo, ma prima che scoppiasse il contagio ha avuto il buon senso di non fare da sponda a una manovra che dovrebbe dequalificare chi l’ha tentata, non perché sia illegittimo far cadere un governo, ma perché è dequalificante puntare alla crisi facendo addirittura leva sull’esistenza del coronavirus. Infine, sia a livello italiano che a livello mondiale c’è il rischio di una devastante recessione. Allora qui nel nostro paese emerge un’altra contraddizione: siamo costretti a chiedere all’Europa una flessibilità di circa 3 miliardi da gestire tutta in deficit. Ora, grazie ai grillini, ma anche in parte al Pd, il governo deve mantenere ferme due misure di carattere assistenzialistico, il reddito di cittadinanza e quota 100, che non svolgono nessun ruolo positivo, né per ridurre la pressione fiscale sulle imprese, né per aumentare gli investimenti pubblici in infrastrutture che sono le misure decisive per la crescita e quindi per evitare la recessione. Questa rigidità è ancor più negativa visto che in seguito all’aumento dello spread aumenta anche la spesa per interessi e le difficoltà del sistema bancario.
Coronavirus, peggio della politica ha fatto solo il giornalismo. Toni Capuozzo il 02/03/2020 su Notizie.it. Dopo una vita di giornalismo, quello che mi è sembrato il peggiore di tutti (perfino della politica) nell'affrontare l'emergenza Coronavirus è stato il giornalismo. Ho da tempo superato l’età cui si rivolge l’assessore lombardo al Welfare, che ha invitato gli ultrasessantacinquenni a uscire il meno possibile le prossime due o tre settimane. Quindi è questa la notizia che mi colpisce di più, anche se mi preoccupa fortemente l’allargamento del numero delle regioni coinvolte. Non è un mistero che la sanità al Sud cammina a un altro passo (la regionalizzazione della Salute non ha fatto che approfondire il solco tra amministrazioni virtuose e no, e i conseguenti viaggi della salute aiutano il Nord a migliorare le proprie strutture e forzano il sud a pagare le cure che non riesce a fornire). Mi ha sorpreso anche la buona notizia che l’Europa ha varato una task force anticoronavirus eppure non riesco a immaginare che cosa farà, ormai che il contagio si sparge, e spero che non distragga Gentiloni dall’unico compito cui la Commissione dovrebbe dedicarsi: permettere sforamenti straordinari per non evitare una recessione piena. Non sono tra quelli esterofili ad ogni costo, ma quando penso a come ci siamo mossi noi e come si è mosso il Regno Unito, mi arrabbio ancora di più con le nostre autorità: a Londra hanno già deciso che, se il contagio toccasse i livelli che gli esperti hanno indicato, richiameranno i medici in pensione, sospenderanno i lavori parlamentari, gestiranno la situazione con una war room ministeriale e scientifica, dedicheranno due ex basi aeree militari alla quarantena: disegnano scenari. Voi pensate che a Roma qualcuno si sia posto la domande doverose, pur toccando ferro: e se il virus dilaga nella Capitale e al Sud, che facciamo? Che qualcuno abbia chiesto agli esperti se non sia il caso di assumere alcune misure già adesso, o no ? Noi il massimo che abbiamo fatto sono i collegamenti tivù con Conte dalla situascion room della Protezione Civile, il premier in maglioncino, come a dire non siamo qui a pettinar bambole.
Io credo che il virus peggiore, dopo il corona, non sia la paura: è la sfiducia. Alla quale hanno contribuito le istituzioni e la classe politica in generale, anche l’opposizione: hanno fatto come il segnatempo della donnina con l’ombrello e l’omino senza. Cioè la sinistra minimizzava e la destra massimizzava, e viceversa. È poco più di un’influenza, è un flagello, a turno, convinti che c’è una strategia anticoronavirus di destra e una di sinistra. Ma il peggio, o quello che a me sembra il peggio, dopo una vita di giornalismo, è stato il giornalismo. Miope davanti ai disastri del governo (capisco, quello di Conte è una specie di governo Allende da proteggere contro gli aerei di Salvini sulla Moneda, ma….), saltabeccante fra terrore esagerato e rassicurazioni esagerate, e dunque alimentando sospetti (ci nascondono qualcosa..) e la difficoltà a reagire come una comunità, ordinata e compatta davanti a una minaccia.
Che i social abbiano peggiorato la cosa, può anche essere. Ma ve lo immaginate vivere in zona rossa senza neanche un computer o uno smartphone, come tocca purtroppo a molti anziani? Può darsi che i telegiornali, per loro natura più tambureggianti, abbiano fatto peggio dei quotidiani. Può darsi che i titolisti dei quotidiani abbiano fatto peggio dei cronisti. Quel che certo è che non si è trattato di una corsa al migliore. Forse non è solo una coincidenza che sia stato rinviato al 2021 il Festival internazionale del Giornalismo di Perugia, una specie di fiera della correttezza politica. Rinviato di un anno con precauzioni sanitarie, che però hanno evitato di porsi una domanda: non è che l’indigestione di informazione, spesso grossolana come il junk food, è pericolosa quanto il menù obbligato, alla cinese?
“Ho visto il Coronavirus in Cina: ecco perché non dovete avere paura”. Daniele Bellocchio su Inside Over l'1 marzo 2020. Mascherina sul volto, un cappello da baseball in testa e la macchina fotografica a tracolla. Alex guarda l’arrivo delle ambulanze all’ospedale di Lodi e scatta ininterrottamente immagini che ritraggono medici dentro scafandri ermetici, ammalati sulle barelle e aggrappati a bombole dell’ossigeno, e una frenesia collettiva che è la rappresentanza più eloquente del panico che ha travolto il Capoluogo dopo che il presidente della Regione Lombardia Attilio Fontana ha annunciato 51 nuovi casi di Coronavirus all’ospedale di Lodi. ”Io sto realizzando un lungo reportage sulla diffusione del Coronavirus nel mondo. Fino a poche settimane fa mi trovavo in Cina, a Wuhan”. Alex è un fotografo dell’est Europa e premette subito che non rilascia un intervista in video perché il fatto di aver viaggiato in Paesi colpiti dall’infezione lo metterebbe in difficoltà al momento del suo ritorno a casa. Concede però ugualmente un’intervista a patto che venga rispettato l’anonimato.
Tu che hai visto la situazione in Cina e adesso sei in Italia, in entrambi i casi hai riscontrato situazioni di panico collettivo?
«Il panico in Europa credo che sia stato dettato da una cattiva informazione su quanto avveniva in Cina. Mi spiace dirlo, essendo un fotogiornalista, ma i media hanno contribuito molto a creare del panico qua in Italia e più in generale in Occidente. Nel momento in cui l’epidemia si diffondeva in Cina la realtà delle cose non è stata raccontata nella maniera corretta, sono state commesse delle gravi omissioni e la gente, in Europa, ha iniziato ad aver paura di quello che stava accadendo prima ancora che fosse direttamente coinvolta».
A cosa ti riferisci nello specifico?
«Quando le testate internazionali raccontavano quello che accadeva a Wuhan erano più concentrate su questioni controverse, come gli scaffali vuoti e le strade deserte, piuttosto che a spiegare che questi episodi avvenivano anche in virtù del Capodanno Cinese e non solo a causa del virus. I racconti apocalittici hanno generato paura in Occidente e dal mio punto di vista si è trattato di disinformazione. Non è stato detto infatti che i supermercati vuoti venivano riempiti di merce all’indomani e che durante il Capodanno cinese le città si svuotano sempre, è così da anni. Molta gente, approfittando delle feste, viaggia e va a trovare i parenti e lascia le città. È vero che è stata imposta la quarantena e che c’era pochissima gente per le vie cittadine, ma il motivo non è solo dovuto al Coronavirus. Durante il Capodanno oltre cinque milioni di persone viaggiano da Wuhan ad altre località della Cina, e non è un dato indifferente: ma questo non è stato detto».
Hai analizzato la situazione di psicosi che si è creata qui in Italia, ma in Cina,invece, hai assistito anche lì a scene di panico?
«Molto meno che qua in Italia e c’è una ragione: la censura. È terribile dirlo, ma in questo caso il controllo dei media, e anche della rete, ha impedito il propagarsi dell’isteria collettiva. In Italia, come in tutto l’Occidente, dove invece l’informazione è libera, chiunque ha voluto rendersi partecipe del dibattito: blogger, podcaster, social attivisti, cittadini allarmisti, complottisti, nessuno ha rinunciato a dire la sua. E gli effetti li abbiamo visti. Inoltre, il Coronavirus, come notizia, è molto fotogenico e la stampa non ha lesinato sul pubblicare immagini, spesso decontestualizzate, ma altamente impattanti».
Prevedevi, dopo aver vissuto come testimone l’esplosione dell’infezione in Cina, che quanto avvenuto in Oriente si sarebbe riproposto a breve anche qua in Europa, e in Italia nello specifico?
«Io non sono sorpreso. Mi sorprende che non sia stato preventivato. E la Lombardia, a mio avviso, essendo una regione produttiva, con industrie, una delle zone più importanti per il commercio in Europa, un polo attrattivo per viaggiatori e visitatori di ogni settore, aveva tutte le credenziali perché divenisse un possibile focolaio. In un mondo di viaggi e scambi continui tra Paesi le zone più esposte a questo tipo di problemi sono quelle maggiormente popolate e più urbanizzate, non di certo quelle rurali o isolate».
Quale differenze hai riscontrato nel lavorare qui in Italia e in Cina?
«Come giornalista regolarmente accreditato non ho avuto nessun problema qui in Italia. Ho raccontato la quotidianità fotografando ospedali, personale medico, militari. Ognuno ha svolto il suo ruolo nel rispetto dell’altro e della propria etica e coscienza professionale. In Cina, come dicevo prima, essendoci la censura e un controllo serrato sui media non è possibile lavorare liberamente e spesso ho avuto paura perché in alcune occasioni, soprattutto quando fotografavo gli ospedali appena costruiti, sono stato minacciato e allontanato».
Quando pensi finirà tutto questo?
«Non lo so, e nessuno lo sa. So però che questa è una grande sfida per l’Occidente. Un test per capire chi siamo e come reagiamo in situazioni di crisi e di panico che da molto tempo non affrontavamo. Dobbiamo cercare di trarre insegnamento da questa epidemia di Coronavirus per migliorarci sia come singoli ma soprattutto come collettività».
Se il virus mette a nudo i limiti dell’informazione. Pino Casamassima su Il Dubbio il 29 febbraio 2020. Ore e ore di entertainment televisivo sul coronavirus hanno partorito il paradosso del mostro della disinformazione. C’è quella che pare sempre sotto tiro. Braccia alzate dall’inizio alla fine della trasmissione, appena uno inizia ad articolare un pensiero – che sia il presidente di una regione o di una bocciofila – lo interrompe per passare al prossimo (che interromperà dopo un minuto per passare ad altro, magari un servizio con ospite da interrompere dopo trenta secondi). Poi c’è quell’altra, che ogni tre per due invoca qualcosa da farle vedere o farle sentire. Due perle della televisione italiana da giorni avvitata attorno alla corona più nota della storia dell’umanità, che manco quella di ferro. Dotata di virus, questa corona ha infettato l’informazione (italiana, meglio precisare) come non furono capaci nemmeno i terremoti più crudeli. Un circo Barnum che si sposta di tv in tv “illumina” di immense banalità un pubblico televisivo con le mani che dolgono a fine giornata per i troppi applausi. Si applaude a tutto e a tutti, a prescindere, ché la certificazione in vita del pubblico da studio televisivo passa per i palmi delle sue mani. Manca solo un bel plastico. Ore e ore di entertainment televisivo sul Corona virus hanno infine partorito il paradosso del mostro della disinformazione. Inseguendo la balena bianca Covid 19, l’informazione ha fatto disinformazione. La rincorsa al titolo più efficace, allo strillo più arpionante, ha ottenuto l’effetto esattamente contrario a quello deontologicamente coerente col giornalismo. Il voyerismo televisivo, unitamente al clamore a titoli cubitali, ha deformato, non informato: l’unica – concreta – conseguenza, è stata quella di falcidiare la produzione, mettendo in ginocchio un paese. Di ore televisive in ore televisive siamo passati dalla pandemia alla isteria, con comportamenti spiegabili solo con l’ignoranza. Ed è lì che torna in mente come un refrain di Battisti-Mogol il senso della nostra professione. Della professione giornalistica. Riprendere il governatore della Lombardia (fra parentesi, la regione più produttiva d’Europa) con una inutile mascherina, ha sortito come effetto il rimbalzo di quelle immagini a livello mondiale, col risultato di fare dei lombardi gli untori delle terre emerse. Andando per le spicce – come era inevitabile – la percezione mondiale degli appestati s’è allargata a tutti gli italiani, come testimoniano gli episodi raccontati (ovviamente a favore di telecamera) dalle Alpi alla Trinacria. Questo virus ha testato a fondo la nostra professione, svelandone una nudità poco regale. A esser nudo non è il re dell’informazione, ma il plebeo chiacchierone.
Marco Palombi per “il Fatto quotidiano” il 28 febbraio 2020. Dice: "Riapriamo Milano". Dice: "La prima malata: Ma quale paura? Stavo benissimo". Dice: "Coronavirus, allarme eccessivo". Dice: "L' Oms: Bene l' Italia, niente panico". A leggere i giornali ieri mattina ci siamo domandati: ma chi sarà stato quel cialtrone che ha diffuso il panico? È tutto talmente business as usual che sulle prime pagine è tornata pure la fantascienza tipo il governo di unità nazionale Renzi-Salvini. Anche Libero, già portatore sano del titolo "Prove tecniche di strage", ieri ci spiegava: "Virus, ora si esagera. Diamoci tutti una calmata". Il Messaggero ci ammaestrava invece sui pericoli della "info-demia": "La preoccupazione è che il continuo flusso di notizie sull' infezione stia creando un' ossessione collettiva". Voi dite? Devono essere cambiati un bel mazzo di direttori nella notte perché sulla scrivania ci sono ancora i giornali degli ultimi giorni: roba pulp, e citiamo solo i titoloni d' apertura dei maggiori, come "Mezza Italia in quarantena", "Il virus dalle zone rosse colpisce e contagia", "Tutto il Nord ostaggio del virus", "Nord, paralisi da virus", etc. Tra un po', siamo già rassegnati, dopo giorni di trasmissioni senza pubblico, eroiche interviste con mascherina dalla zona rossa, ossessivo conto dei morti, dei contagiati e dei loro parenti, cazzate a tema coronavirus sparse a ogni ora dei palinsesti, ci toccherà pure la predica anti-panico di quei succedanei del pensiero detti talk show. E vabbè, niente panico, anzi scusate se vi abbiamo spaventato dandovi retta, ci s' era dimenticati che non siete abituati.
Tommaso Ciriaco per “la Repubblica” il 28 febbraio 2020. Questa è la storia di un' inversione a U. Brusca. Indispensabile. Ad alto rischio. Un restyling radicale del messaggio pubblico di fronte all' emergenza, lasciando però intatte le necessarie misure di contenimento del virus. Senza le quali le rassicurazioni evaporerebbero in fretta. La svolta. Partiamo dalla fine della storia. Mercoledì 26 febbraio, mattina. Il premier è sotto attacco. Il Paese paralizzato. L' economia soffoca. Giuseppe Conte fissa il nuovo corso. Fa contattare i ministri e gli staff. L' invito è a raccontare la realtà dei fatti, senza ridimensionare né allarmare. E «valorizzare le cose buone che stiamo facendo». La chat. Conte fa di più. Fa creare una chat di gruppo per i ministri e gli uffici stampa, «comunicateci le iniziative per coordinarci al meglio ». È una lista broadcast su WhatsApp: l' sms sembra individuale, ma è collettivo. «In questa fase di gestione dell' emergenza - scrivono da Palazzo Chigi - è importante che ci sia un coordinamento anche sul piano comunicativo tra tutti i membri del governo. Per questo, su input del Presidente Conte, abbiamo predisposto un servizio di aggiornamento puntuale con dati e informazioni ufficiali della Protezione civile». I messaggi. Servono a far parlare il governo con voce univoca, a preparare chi va in tv. Qualche esempio. «Oggi alle 16 al Mise Patuanelli incontra le principali sigle del mondo produttivo. Dialogo continuo con le imprese (in neretto, ndr) per far fronte agli impatti economici». Oppure: «Scuola, con ministra Azzolina abbiamo smentito voci incontrollate di chiusura delle scuole in tutta Italia ». Nella chat vengono comunicati anche i dati della Protezione civile sul contagio. E ancora, «le misure di sostegno alle zone rosse», «l' estensione del ricorso al lavoro agile». Oppure: «Oggi è anche utile valorizzare queste dichiarazione dell' Oms», quelle che riconoscono all' Italia la tempestività della reazione. Ma soprattutto, ricorda «il report quotidiano alla rete diplomatica italiana affinché le nostre ambasciate e i consolati possano trasmettere in tutto il mondo informazioni corrette e trasparenti sul reale impatto del coronavirus in Italia, con dati precisi e le località ben definite. Massimo impegno a contrastare le diffusioni di informazioni fuorvianti e imprecise». La svolta, letta in controluce, segnala che più di qualcosa non ha funzionato, in uno dei week end più drammatici della recente storia d' Italia. Ore difficili che hanno imposto la "revisione" del messaggio. L' allarme. Tutto inizia con i primi casi di Codogno. Palazzo Chigi, in guerra con Matteo Renzi, deve affrontare una notizia sconvolgente: spuntano decine di casi in poche ore. Conte detta la linea: dobbiamo essere «rapidi» e «contenere il contagio ». Il premier si gioca molto, dopo aver vantato col mondo interventi come il blocco dei voli. Ora maneggia tritolo. Blinda la zona rossa, chiede di tracciare al millimetro la catena del contagio. La reazione, questa la linea dettata, deve essere «efficiente » anche plasticamente. Per questo, riunisce i ministri nella war room della Protezione civile. E colleziona 16 apparizioni tv in poche ore. Lo criticheranno molto, per questo. L' incidente. Succede lunedì, quando il Nord è sigillato, le scuole prudentemente chiuse per bloccare il contagio. Salvini è l' unico ad attaccare il governo. Conte è furioso.Stanco. Cade nella trappola. Si scaglia contro l' ospedale di Codogno, tocca la sanità lombarda a guida leghista. È la madre di tutti gli errori, un boomerang. Ammetterà in privato, in seguito: «Ho sbagliato a pronunciare quelle parole. Di grosso». Si scuserà con tutti - medici, governatori - ma non fermerà un titolo emblematico della Cnn: "Il pasticcio dell' ospedale italiano". L' unità nazionale traballa, parte la minaccia di commissariare le Regioni. La paralisi. Martedì mattina. Milano è deserta. L' economia ferma. Il premier ordina di aggiustare il messaggio. Chiede alla Rai di abbassare i toni. Ammette, di fatto, alcuni errori. Organizza, e siamo a ieri, una passeggiata nel centro di Napoli al fianco di Macron, uno spot per mostrare un Paese sicuro. Nicola Zingaretti, intanto, vola a Milano per un aperitivo nel cuore della movida. E il sindaco Beppe Sala lancia uno video che diventa virale: #milanononsiferma. L' inversione a U è completata.
Il “bavaglio” sui casi di Coronavirus fa arrabbiare i virologi: “Non facciamo come la Cina”. Il Dubbio il 28 febbraio 2020. La proposta di limitare la comunicazione dei casi solo a quelli “validati” dall’Iss fa discutere: “Scelta politica”. La buona notizia arriva dai ricercatori dell’ospedale Sacco: “Abbiamo isolato il ceppo italiano del coronavirus”. Lo ha dichiarato Massimo Galli, ordinario di Malattie infettive all’Università degli Studi di Milano e primario del reparto di Malattie infettive III. Ancora una volta in poche settimane viene isolato il virus, dopo la biologa precaria dello Spallanzani. Galli però “minimizza”: “è una cosa piuttosto normale” e dice la sua sulla comunicazione dei casi di coronavirus che, secondo l’Iss, dovrebbe essere veicolata solo quando il quadro clinico del paziente si aggrava. Insomma, un “bavaglio” per evitare che il panico crei ancora più danni del virus.: “La mia sensazione – afferma però Galli – è che sull’aumento dei casi ci sono state polemiche inutili. Attenzione perché stiamo andando indietro con analisi sulle persone vicine ai contagiati: questo implica che l’aumento dei casi non è dato da nuove infezioni ma dal lavoro che ci porta ad andare indietro per circoscrivere l’epidemia. Questo credo sia un lavoro utile da fare. Non deve spaventare il numero di persone, dovrebbe spaventare di più se non si va a cercare” da dove arrivi il coronavirus. E poi: “Si è criticata tanto la Cina perché riluttante a pubblicare il vero numero dei casi, ora non facciamo ridere il mondo perché il governo vuole controllare i risultati”. E alla domanda se i tamponi debbano esser fatti solo per chi ha sintomi, Galli risponde: “Ad essere molto franchi, sarebbe organizzativamente impossibile fare in modo diverso. In Lombardia abbiamo tre laboratori oberati di lavoro che riescono a dare esito a questo punto, se va bene in 24 ore, quello che si potrebbe fare in quattro ore. Mi auguro che questo possa rapidamente cambiare”. Sulla polemica interviene anche Raffaele Bruno, direttore del reparto del San Matteo di Pavia, dove è ricoverato il famoso primo contagiato: «Incredibile che in Italia si faccia polemica sui numeri. Il procedimento dell’Oms è corretto, ma ci vuole il tempo tecnico di trasportare i campioni a Roma. Quale numero dei due dare è una questione politica, non tecnica. Se uno vuole fare il furbo dice solo i confermati, se no li dà tutti».
Eugenia Tognotti per “la Stampa” il 27 febbraio 2020. Due virus circolano oggi in Italia, biologico l' uno, il coronavirus - che ha immediatamente conquistato l' arena mediatica; immateriale, l' altro, il virus della paura. Fatto di chiacchiere, impressioni, reazioni emotive, parole, quest' ultimo sta dilagando molto più velocemente del primo, attraverso la rete e le agenzie di stampa, contagiando un numero di persone enormemente più elevato di quello toccato dal virus biologico, di tutte le età e condizioni e ben al di là della famosa «zona rossa», blindata da cordoni sanitari e quarantene. Si tratta di un virus pericoloso, che riceve una copertura mediatica senza precedenti per nessun evento o catastrofe nell' Italia contemporanea. Capace di diffondere il panico, di paralizzare gli sforzi necessari a contenere la diffusione dell'«altro» virus, di dilatare gli effetti sull' economia e di «disunire» l' Italia, come stiamo vedendo in queste ore. Non per niente era la paura stessa durante le crisi epidemiche a incutere i più grandi timori negli antichi magistrati di sanità che dovevano governare l' emergenza. Ben consapevoli che la diffusione di una malattia mortale e contagiosa non incideva solo sulla salute fisica, alimentando la «fobia da contatto». Le pulsioni di panico, l' incubo dell' imprevisto e dell' ignoto spingevano a dare la caccia a presunti «untori», a forzare i cordoni sanitari, a sottrarsi all' isolamento forzato, a fuggire dai lazzaretti, diffondendo l' epidemia nelle zone «sane», mettendo a repentaglio l' economia. Lo «sbigottimento delle genti» poteva uccidere, come riferiva un anonimo cronista orvietano della peste descritta da Boccaccio nel Decamerone. Alcuni secoli dopo, citando Tucidide e la peste di Atene - che colpiva prima i «melancolici e i paurosi» - Ludovico Ariosto chiamava in causa «le gagliarde passioni dell' animo» che definiva «i primi beccamorti dell' uomo regnando il contagio». Gli sforzi delle autorità sanitarie per dominare la paura e l' irrazionalità, capaci di rendere le popolazioni «più proclivi ai morbi», trovano nuovi argomenti in tutte le epidemie, impreviste e imprevedibili, fino alla Spagnola. Ma in quel 1918, a guerra non ancora conclusa, il carico di angoscia e di ansia non trova voce e spazio nei giornali per il divieto di evocare persino il nome della «madre di tutte le influenze» che avrebbe contribuito a «deprimere lo spirito pubblico».
L' infezione da Coronavirus non è la Spagnola. L' infezione da Coronavirus è ancora un' epidemia più mediatica che medica, con una diffusione circoscritta, grazie alle severe misure cautelative adottate, e con tassi di mortalità molto vicini a quelli dell' influenza. Occorrerebbe interrogarsi forse su che cosa ha innescato il virus della paura, ingiustificata, irragionevole, su cui s' infrange la voce della scienza e l' evidenza dei numeri. Non sarà, a fare paura, il termine stesso di «contagio», in cui s' intrecciano i concetti di «diffusione», «epidemia», «infezione», «trasmissione», «mescolanza»? Angosce, paure, reazioni emotive appartengono al presente quanto al passato. Mentre la scienza sta mettendo a punto un efficace vaccino immunizzante e altre strategie terapeutiche, s' impone la necessità di addomesticare la paura nei confini della nostra cultura, operando secondo ragione.
Nominiamo Carlo Verdone commissario straordinario per il Coronavirus. Fulvio Abbate de Il Riformista il 27 Febbraio 2020. Verdone, lui, sì, che troverà altre immagini, che non siano composte di semplice paranoia. Coronavirus, non c’è altra parola sulle bocche, non sempre protette, dei nostri dirimpettai, del mondo tutto. Cappa di timore e angoscia diffusi che non ha trovato ancora, né le sue Mille e una notte e neppure un Decameron, un narratore che inganni con la voce, i tempi della “peste”, delle epidemie. In verità, escludendo al momento Roberto Burioni e i colleghi virologi, perché non affidarsi all’incedere verbale di Carlo Verdone? Non esattamente all’attore, al comico, non all’autore di commedie con indubbio talento spettacolare. Piuttosto al Verdone riconosciuto e rispettato esperto di medicina, il genio dell’ironia completerà il sapere specifico – Verdone medico, diagnosta, ripeto – che gli è proprio. Forse, in questo modo, la babele spettrale dell’informazione – non c’è talk, sommario di quotidiano perfino online che non mostri l’ipotetico spettrale pipistrello, o pangolino, indicato secondo alcuni come origine di un virus finora ignoto – troverebbe una controvoce. Soltanto dei No-Vax, coloro che affermavano quanto fosse bello “fare visita ai cuginetti con il morbillo” per immunizzarsi, non c’è percezione pubblica. Penso a Verdone ma la barzelletta di “C’era un cinese in coma” non è qui in causa. Come nelle interviste impossibili, rinunciando a sollecitarlo direttamente, tantomeno suggerendogli prosaicamente di mettersi al volante di un’ambulanza, come fossimo nella “commedia all’italiana”, che perfino nelle tragedie ci soccorre, evidenzio intanto due distinti corni del dilemma, del problema. Ora di carattere politico-filosofica: assodato che il capitalismo (irrilevante se di Stato, come avviene in Cina, l’epicentro del virus) ha visto fallire le aspettative di Fourier, Bakunin, Marx, Lenin, Stalin, Rosa Luxemburg, e dello stesso Mao, ognuno con la sua parte di contributo ora teorico ora militare, al contrario l’ “assalto al cielo” sta invece riuscendo, ci pensate, a un semplice virus. Il quale sta mostrando a tutti l’irresponsabile amoralità proprio di quel sistema di produzione della ricchezza e delle diseguaglianze, una “tigre di carta”, avrebbe detto l’autore dell’ormai trascurato “libretto rosso”. Quanto a Dio, come afferma Albert Camus ne La peste, nelle circostanze estreme mostra la sua non esistenza. Chiamando in causa Verdone, nomino anche la mia personale risposta letteraria per sdrammatizzare la tragedia, se è vero che nel 1997 ho pubblicato con lo stesso editore italiano del filosofo francese, proprio un libro, una “parodia” del testo di Camus, La peste bis, oggi esaurito, vorrei anzi riportarlo in libreria, sia pure in parte rivisto, ogni testo, dopo oltre vent’anni, è perfettibile. Si potrà pur rispondere al millenarismo con le armi del sarcasmo? Verdone, da romano profondo, conosce perfino le sentenze di Ettore Petrolini a proposito del prete che si presenta con l’olio dell’estrema unzione: “E mo’ sì che so’ fritto!”, e ancora, poco prima, in presenza del medico: “Meno male, così moro guarito!”. «L’apocalisse è incominciata», scrive intanto, impagabile, padre Livio Fanzaga, direttore di Radio Maria. Non ho ancora provato a immaginare in che modo Verdone possa intervenire nell’insieme della matassa sanitaria in corso, come tutti però lo so esperto in medicina. Certi giorni, si reca perfino presso la farmacia del quartiere, lì indossa il camice, raggiunge il bancone e dispensa suggerimenti ai clienti con garbo e pertinenza; credo sia stato anche insignito di una laurea in medicina e chirurgia dall’Università Federico II di Napoli. Tuttavia, assodata la preparazione, Verdone garantisce di se stesso: «… però, non opero». Anche il suo cinema porta i germi di tali conoscenze specifiche. Se lo abbiamo visto nei ruoli di Mimmo, Furio, Ivano, in eguale modo potremo figuracelo con il camice del dottor Rieux, il protagonista del libro di Camus. Assodato che sul Coronavirus gli stessi esperti avanzano a tentoni, sarebbe altrettanto legittimo sentire da lui un realistico «…nun c’è stanno a capì, ’n cazzo!» sul “paziente zero”, o sentire la sua risposta a chi dovesse affermare che “noi, però, in Italia, siamo stati più attenti nei controlli di ogni altro Paese”. Sullo sfondo sonoro delle saracinesche che vengono giù… L’uscita del nuovo suo film, Si vive una volta sola, che avrebbe dovuto giungere in questi giorni nelle sale, è al momento sospesa. Ma solo Verdone ci potrà salvare.
Soltanto ora vi rendete conto di quale Paese avete costruito. Le ragioni di una psicosi immotivata. Andrea Mario Rossi il 26 Febbraio 2020 sugazzettadellavaldagri.it. Il Corona Virus o “Covid-19” è piombato nelle case degli Italiani. Come tutto ciò che è ignoto e non conosciuto, genera di per sè angoscia, panico e smarrimento. Esperti, virologi e scienziati si affrettano a ricordarci che “Si tratta di emergenza, ma non è pandemia: ogni contagiato ha un’altissima probabilità di sopravvivere, nella stragrande maggioranza dei casi, senza avvertire alcun sintomo o avvertendo sintomi lievi e sovrapponibili alla normale influenza.” Ciò che si vuole provare ad analizzare all’interno di questa piccola riflessione non è l’aspetto sanitario bensì l’approccio comunicativo dei media e la reazione “Catastrofista” della stragrande maggioranza del popolo Italiano.
Il vero virus resta la disinformazione. Si tratta senza alcun dubbio della prima epidemia “Al tempo dei social”. Dopo la scoperta del primo “Caso Italiano”, abbiamo assistito ad uno spettacolo indecente di allarmismo e speculazione comunicativa calcolata. Mentre le informazioni erano ancora del tutto parziali, le home page dei quotidiani online erano già pieni di titoloni apocalittici del tipo : “Virus, l’Italia alle corde.”, “Italia, ora è rischio pandemia.” ecc. ecc. La comunicazione Istituzionale (Governo e Protezione Civile) ha fatto molta fatica a contenere il panico ed il catastrofismo iniziale, in poche ore gli Italiani si sono fiondati all’interno delle farmacie e dei supermercati per fare scorta di vettovaglie in vista della “Guerra imminente” contro il microorganismo. Nel frattempo, sui social (e non solo), impazzavano fake news che raccontavano dell’immediato propagarsi del virus in tutto il Paese, con l’imminenza di uno scenario inevitabile di morte e distruzione. Ciò che è accaduto nelle ore successive, è per fortuna noto: la comunicazione televisiva e social dei grandi network è stata opportunamente ricalibrata. A parere di chi scrive, il governo ha fatto pressioni perchè si iniziasse a raccontare la verità alle persone: “Non si muore PER il CoronaVirus ma CON il CoronaVirus” oppure “Il virus può colpire in maniera letale QUASI ESCLUSIVAMENTE pazienti di età avanzata con patologie gravi pregresse e già indirizzate verso lo stato terminale.” Beh si tratta di due discriminanti che incidono e non poco sulla percezione del rischio da parte dei cittadini. Un conto è mandare in onda speciali di quattro ore in prima serata avendo alle spalle enormi grafiche luminose con il pallottoliere aggiornato minuto per minuto, altra cosa è invece specificare ad esempio che i nuovi contagi sono, nella stragrande maggioranza dei casi, riferibili a contatti dei pazienti con le due aree “focolaio”. Non è forse anche questo atteggiamento comunicativo a legittimare la ridicola crisi di panico che sta coinvolgendo troppi milioni di italiani? E’ opportuno ricordare che, anche grazie a questa nefasta tendenza alla spettacolarizzazione della notizia, oggi stiamo assistendo a scene grottesche da caccia all’untore, a vere e proprie persecuzioni nei confronti di cittadini cinesi (finora sani e negativi ai test sul Covid 19) residenti in Italia e addirittura a speculazioni o truffe sui prodotti di prevenzione igienica. Ebbene si, tutto questo sta accadendo nella civilissima e democratica Repubblica Italiana. Ciò premesso, questo “Rincoglionimento sociale” non sorprende per nulla ed ha origini lontane.
Raccogliamo i “frutti” di venticinque anni di comunicazione trash. Sembrano lontanissimi i tempi delle dirette “fiume” dei programmi di “approfondimento” (in buona parte trasmessi sui canali del servizio pubblico e realizzati con i soldi di noi contribuenti) da Novi Ligure o da Cogne per scoprire ogni dettaglio delle vicende di Erika e Omar o di Anna Maria Franzoni. Giorni e giorni ad impegnare l’opinione pubblica forzatamente su vicende di cronaca nera. Salotti televisivi, pettegolezzi, fortissime dosi di imbecillità iniettate quotidianamente nelle nostre abitazioni. A un certo punto, pareva fosse giunto il momento di un giudizio universale di sessanta milioni di persone mentre la giustizia parallelamente seguiva in silenzio il suo corso. Poi arrivarono i tempi del caso Sarah Scazzi e di Capitan Schettino e via con i “plastici” della nave e con le interviste in prima serata a Michele Misseri. Avetrana era diventata capitale d’Italia: improvvisamente i pullman dei network televisivi nazionali avevano sconvolto la vita di una piccola comunità di poche migliaia di abitanti. Le proverbiali interviste ai “Passanti”, intere troupe televisive che irrompevano nei Bar o nei circoli ricreativi per fomentare cittadini ignari al giudizio o al pettegolezzo. Tutto questo, unicamente per osservare la legge del Dio “Audience”. Nel frattempo, si tagliavano i fondi per la realizzazione di programmi culturali e di ricerca scientifica. Spariva praticamente la vera Satira Politica e i giornalisti non allineati al nuovo corso erano costretti, nel migliore dei casi, a ripiegare nei teatri. Le produzioni televisive curavano oramai esclusivamente la realizzazione dei “Reality” o dei “Talent”in cui si promuoveva scientificamente un nuovo modello sociale basato sull’individualismo e sulla superficialità. Abbiamo partorito generazioni di italiani ignoranti e saccenti, incapaci di comprendere la centralità del rispetto della Cosa Pubblica. L’avvento dei social ha fatto il resto…Abbiamo puntato sul modello “Velina e Calciatore” e poi sull’ “Influencer” di Instagram per evitare che le nuove generazioni potessero acquisire reale consapevolezza dell’importanza del Diritto allo Studio all’interno di uno Stato Democratico. Abbiamo legittimato nuovi arrivisti e prevaricatori, a discapito del merito e della competenza. Abbiamo scelto di allevare una nuova Italia di ignoranti e servi per poter indirizzare a piacimento l’opinione pubblica. Poi basta un virus che sembra essere poco più di un’influenza, per farvi saltare il giocattolo tra le mani. Ah quanto è fragile questo capitalismo nostrano.
PiazzaPulita, il virologo contro la Lucarelli: "Cattivo esempio sul coronavirus". Interviene Formigli, è rissa. Libero Quotidiano il 28 Febbraio 2020. Negli ultimi giorni, per TPI - il sito di cui è stata recentemente nominata responsabile di cronaca e spettacoli -, Selvaggia Lucarelli ha realizzato un reportage dalle zone rosse del coronavirus. Non solo zona Paolo Sarpi a Milano, dove la giornalista e blogger abita, ma anche le aree del focolaio in Lombardia. Una scelta che è stata contestata con veemenza a PiazzaPulita, il programma di Corrado Formigli su la7, la puntata è quella di giovedì 27 febbraio. Ospite in collegamento c'è proprio la Lucarelli, ad attaccarla al contrario è il virologo Andrea Crisanti: "Un cattivo esempio entrare nella zona rossa", afferma rivolgendosi alla Lucarelli. "Penso che le zone rosse debbano essere controllate. Mi sorprendo che la giornalista ci sia entrata, obiettivamente non è un buon esempio - ha ribadito -. Comunque bisogna far differenza tra zone rosse e zone in cui non ci sono casi. Permettere a questo virus di diffondersi lo pagheremmo per anni". Parole, quelle di Crisanti, che hanno scatenato la reazione di Formigli: "Mi dissocio dalla sua considerazione sulla Lucarelli. I giornalisti vanno a fare il loro lavoro, con senso di responsabilità, a raccontare le cose", ha risposto.
Coronavirus, fa più vittime la paura. E i media dovrebbero saperlo. Domenico Valter Rizzo, Giornalista e scrittore, il 25 febbraio 2020 su Il Fatto Quotidiano. Duecentottanta casi di infezione da Covid-19, tra questi in sette casi si è avuta la morte del paziente, si trattava di persone già sofferenti per patologie importanti o molto avanti negli anni. I casi concentrati nelle regioni del Nord riguardano tutti italiani e nessun cinese, non è stato individuato il cosiddetto “Paziente Zero”. La professoressa Ilaria Capua, una scienziata di indiscusso prestigio internazionale, ritiene che i casi di contagio, asintomatici o con sintomi sovrapponibili ad una banale influenza, siano molti di più e che il Covid-19 sia in circolazione da almeno due mesi, senza che nessuno abbia diagnosticato i casi. Al caso 1 si è arrivati solo perché ha dichiarato di aver cenato con un collega rientrato dalla Cina, che è un invece risultato non contagiato. Senza quelle cene neppure il paziente zero sarebbe stato testato. Se ha ragione la professoressa Capua i casi sarebbe molti di più e quindi la percentuale di morti sarebbe molto più bassa di quella stimata oggi. Insomma il Covid-19 è un virus con una pericolosità relativa, assolutamente non paragonabile a agenti assai più pericolosi. La stragrande maggioranza dei casi da sintomi leggeri o addirittura neppure li dà. Solo una minoranza dei casi determina complicazioni gravi o gravissime. Eppure l’Italia è in preda ad una psicosi. Sessanta milioni di persone vivono da alcuni giorni in un incontenibile attacco di panico collettivo. Paesi diventati ghost town, accaparramenti nei supermercati, corsa ala mascherina e al gel antibatterico. Il tutto con l’immancabile strumentalizzazione del signor Salvini e lo scatenarsi di una xenofobia che sta diventato paura, ostilità e odio verso qualunque altro individuo non più verso lo straniero visto che il contagiato parla lombardo, veneto, emiliano… il contagiato, l’unto dal male è uno di noi: il vicino, il compagno di lavoro, la fidanzata o persino il prete che da la comunione. La paura antica del contagio, della pestilenza, ci sta facendo rapidamente regredire ad un stato ferino. La paura che come sempre diventa odio e l’odio diventa semplificazione, ricerca della soluzione facile, del campo di concentramento anche se ad oggi non si saprebbe bene chi rinchiuderci, ma forse basterebbe rinchiuderci qualcuno e basta. Negli anni della peste nera si accusarono gli ebrei di essere gli untori del flagello e si pose una delle solide basi dell’antisemitismo europeo. Soluzione facile, colpevole, bisogno dell’uomo forte, del buon padre saggio che ci liberi dal male del contagio. Non è il virus che può distruggerci, ma è la paura e la stupidità di fronte al quale non sembra vi siano anticorpi. Anzi il sistema di anticorpi sociali sembra rivoltarsi contro e alimentare l’isteria collettiva. Quando un medico come Burioni fa affermazioni apocalittiche, prontamente usate dall’estrema destra per una miserabile campagna politica, ma che diventano virali sui social generando proiezioni di scenari da pestilenza medioevali, mi chiedo dove sia il ruolo di responsabilità dello scienziato. Inghiottito dalla bramosia di visibilità? Ancor di più mi preoccupa la gestione che dell’argomento Covid-19 hanno fatto i media. Titoli apocalittici da Day-after. Amplificazione studiata della paura, inviati che fanno i collegamenti in diretta con la mascherina al solo scopo di fare scena e mi ricordano i “colleghi” che negli anni Novanta venivano a fare due minuti di collegamento da Palermo o Catania indossando il giubbotto antiproiettile. L’informazione che diventa show, per qualche punto in più di share, per una manciata di clic o di copie vendute, oppure, più banalmente, per soddisfare la miseria dell’io narciso del singolo che pensa di essere lui la notizia. Nel panico che ha travolto il Paese dobbiamo interrogarci per primi noi giornalisti su come abbiamo esercitato il nostro ruolo, su quali toni abbiamo usato e stiamo usando nel veicolare le notizie, se abbiamo rispettato le carte deontologiche che ci impongono scrupolosa attenzione e sobrietà quando veicoliamo notizie che riguardano salute e la scienza. Lo abbiamo fatto? Sinceramente credo che non tutti lo abbiamo fatto. Dovremo capire che non siamo al circo, che abbiamo tra le mani materiale pericoloso e dovremmo ricordarci soprattutto che dobbiamo aiutare la gente a non aver paura, ma ad avere la giusta consapevolezza del problema, ad avere fiducia nella scienza e non nelle chiacchiere sui social di coorti di imbecilli. Soprattutto abbiamo il dovere di non contribuire anche noi a trasformare il Paese in una giungla selvaggia dove ci scanneremo per un’inutile mascherina. Sarà bene ricordare che la paura e la stupidità sono stati alla base di tutti i fascismi e dunque della più grande tragedia del ventesimo secolo, con sessanta milioni di morti. Nessun virus ha mai fatto tante vittime.
Tutto quello che i media italiani stanno sbagliando nel raccontare il coronavirus. Non è una sorpresa, ma la copertura del coronavirus sui media italiani per ora è tra l'imbarazzante, il non professionale e il procurato allarme. Mattia Salvia il 24 febbraio 2020 su rollingstone.it. Non è una sorpresa, ma la copertura mediatica dell’emergenza coronavirus in Italia – perlomeno per quanto riguarda i media mainstream – finora si è collocata in un punto medio tra il male e il malissimo, tra l’imbarazzante, il non professionale e il procurato allarme. I motivi di tutto ciò sono ovvi per chiunque abbia chiaro come funziona il mondo dell’informazione oggi, perennemente stretto nella tensione tra l’ansia di arrivare primi sulle notizie e un modello di business basato sulla quantità. Il che si traduce in notizie false, panico, allarmismo, clickbait, informazioni importanti per il pubblico nascoste dietro paywall per abbonati, titoli francamente incredibili ed errori grossolani di traduzione dall’inglese che fanno cadere le braccia.
LA PISTA DEGLI 8 CINESI AL BAR. Forse l’esempio più emblematico di tutto ciò è un articolo uscito ieri sul Corriere intitolato “la pista degli 8 cinesi al bar” per parlare del fatto che a Vo’ Euganeo, focolaio di coronavirus in Veneto, ci sono otto abitanti di origine cinese (tra l’altro tutti risultati negativi al test per il coronavirus).
L’ALLARMISMO DELLA STAMPA ITALIANA. In questo momento la home del Corriere è aperta dal numero dei morti, quello dei contagi che continuano a salire e il dato sulla borsa che precipita. Quella di Repubblica uguale. A suo modo anche questo sparare numeri su numeri costantemente aggiornati invece che inserirli in un discorso più ampio e ragionato sulla situazione è una forma di allarmismo – e purtroppo è lo standard dell’informazione italiana. Ad esempio questa è la prima di Repubblica oggi: “mezza Italia” è un modo di dire, ovvio, ma su in momenti delicati come questi i giornali non dovrebbero usare modi di dire. Mezza Italia in quarantena – Buongiorno con la prima pagina di Repubblica di oggi Pubblicato da la Repubblica su Domenica 23 febbraio 2020.
GLI ERRORI DI TRADUZIONE. La copertura dell’emergenza coronavirus ha mostrato anche i non indifferenti problemi di inglese dei media nazionali. In due articoli che parlano del sito internet che mappa in tempo reale le infezioni e i morti per coronavirus in tutto il mondo, i siti di Repubblica e Tgcom hanno tradotto il termine inglese “recovered”, che significa “guariti”, con “ricoverati” Repubblica nel frattempo – dopo diverse segnalazioni su Twitter – ha corretto, ma il fatto che non sia un errore isolato lasciato sinceramente senza parole.
I SERVIZI TG DA UNA CODOGNO POST-APOCALITTICA. Nel frattempo i telegiornali nazionali hanno ovviamente realizzato servizi da Codogno, nel frattempo diventata il centro del contagio o la “zona rossa” del coronavirus in Italia. Se la realtà è quella di un paese con poche decine di casi e che giustamente prende subito delle misure di prevenzione dettate dal buonsenso, nella narrazione mediatica la situazione diventa subito una versione cheap di The Walking Dead. “Paesi isolati. Supermercati presi d’assalto. Mascherine esaurite. È la vita nelle zone del coronavirus”, è il lancio social del servizio di ieri del Tg1 – che poi mostra semplicemente persone con la mascherina in fila al supermercato per fare scorte di pasta. Come ha scritto Luca Sofri sul suo blog Wittgenstein, “il problema, stavolta, tra i terroristi e i minimizzatori, è che la realtà delle cose proprio non si può sapere” perché nel caso del nuovo coronavirus nemmeno il parere degli esperti è risolutivo. Da questo, a cascata, deriva tutto il resto: le autorità politiche che prendono misure di prevenzione senza precedenti motivate dal buonsenso; il sistema mediatico che non ci capisce nulla, vede queste misure eccezionali e le traduce in una copertura schizofrenica; il pubblico che ascolta i media, va nel panico e svuota i supermercati.
Coronavirus e media: i rischi dei social e della corsa all’audience. Come governare la comunicazione di questa epidemia, la prima scoppiata in tempi di social? Come gestire un’informazione, specie televisiva, fortemente spettacolarizzata alla ricerca di ascolti? Intervista a Chiara Giaccardi, sociologa della comunicazione. Roberta Gisotti – Città del Vaticano, 25 febbraio 2020 su vaticannews.va. Ansia, tensione, paura, panico sono tutte manifestazioni, alcune motivate molte altre no, di un comune e diffuso disagio, sia personale che sociale, di fronte ad un evento imprevisto come l’epidemia del coronavirus, che nell’arco di pochi giorni ha investito la vita degli italiani, più di altri popoli europei, chiamati a confrontarsi con un pericolo avvertito poco prima come lontano, che ha indotto il governo e le istituzioni preposte ad adottare misure di contenimento e prevenzione dei contagi, finora inedite per la popolazione.
I comportamenti irrazionali. Tutto ciò sta scatenando anche comportamenti irrazionali, come il precipitarsi a fare scorte alimentari svuotando gli scaffali nei supermercati, perfino nelle regioni dove non ci sono casi di contagi, oppure intasare le farmacie per acquistare mascherine e disinfettanti o prenotarli in rete pagandoli cifre esorbitanti o ricorrere a fantasiose ricette fai da te - diffuse on line - per ottenere soluzioni igieniche.
Il ruolo cruciale dei media. Social e informazione stanno svolgendo un ruolo cruciale, che va riconosciuto e governato, come spiega Chiara Giaccardi, ordinario di Sociologia dei processi culturali e comunicativi presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore. Ascolta l'intervista a Chiara Giaccardi:
E’ la prima seria epidemia in tempi dei social, quali rischi di propagare allarmi, timori, o false informazioni da parte di tutti?
R. – I rischi ci sono e da una parte c'è l'opportunità per ciascuno di esprimere le proprie paure, i propri timori e questo è bene, ma dall'altra parte c’è il rischio di gonfiare paure che generano instabilità, creando una situazione che favorisce quello che Bauman chiamava il “demone della paura”, mentre Heidegger diceva che nella paura si perdono di vista le proprie possibilità. Allora la paura può avvelenare il presente e spesso può essere gonfiata a scopo strumentale perché governare la paura dà potere.
Quale ruolo sta giocando l'informazione? Da un lato è stato detto che bisogna informare correttamente i cittadini, da altro lato di non alimentare il panico. Dov'è il punto di equilibrio?
R. – Credo che il punto di equilibrio sia molto delicato, perché mi sembra che ci sia quasi una 'venerazione' per la scienza: anche se è giusto il rispetto della scienza, bisognerebbe attenersi di più ad alcuni dati come quelli che parlano di una influenza più grave ma non di una pandemia. Se vediamo i decessi sono di persone anziane e vulnerabili; se vediamo poi quanti sono i decessi per un’influenza normale ogni anno verifichiamo che sono infinitamente superiori a quelli per questo nuovo coronavirus. Quindi, da una parte avere la giusta fiducia nella scienza ma non la venerazione e dall'altra parte ricordarci che il rischio fa parte dell'esistenza, il rischio articola la vita e la morte. Noi prendiamo il rischio solo come un timore per la nostra incolumità fisica, dimenticando che la morte è compagna della vita. Questa rimozione della morte ci fa affrontare la questione in maniera viscerale e assolutamente inadeguata, sia dal punto di vista della possibilità di contrastare la diffusione di questo virus sia per il senso che questa diffusione assume rispetto alla nostra vita. Forse potrebbe essere un’occasione per ripensare che la vita e la morte sono compagne di viaggio e che la vita è un'avventura, che si morirà tutti e che questo significa che dobbiamo santificare e rendere sacra la vita, non cercare di combattere la morte affidandoci al panico e a questa "overdose" di informazione poco rassicurante.
Sappiamo bene che le emozioni fanno audience e a quanto pare i media stanno cavalcando una comunicazione altamente adrenalinica, con la conta minuto per minuto dei contagiati, la mappa aggiornata dei focolai. Per non parlare dei talk-show incentrati sul coronavirus, di fatto divenuto quasi un tema di intrattenimento.
R. – Purtroppo questa è una società di consumatori e noi abbiamo fame di notizie e le notizie drammatiche, lo sappiamo, attirano in qualche modo, anche talvolta morbosamente, di più delle buone notizie, nonostante tutti i tentativi che i giornalisti seri facciano per rimettere un po' al centro, riequilibrare la percezione della società attraverso anche il bello che la società esprime; quindi c'è una strumentalità, a mio avviso, evidente non tanto nel dire cose non vere quanto mettendo l'accento su, per esempio, i numeri del contagio e non sui numeri delle guarigioni rispetto a quelli dei decessi. Quindi c'è sicuramente una furbizia delle informazioni. Quando non si vendono giornali mettere titoli eclatanti e anche terrorizzanti fa vendere.
Che dire delle tante vignette che girano sui social, alcune onestamente molto divertenti, sono da condannare o l'umorismo gioca un ruolo positivo per sdrammatizzare ansie e tensioni?
R. – Credo che utilizzare una pluralità di linguaggi, soprattutto attraverso i social, dove la comunicazione è veloce e anche più leggera ed è più difficile argomentare, sia tutto sommato qualche cosa di positivo. Io credo che anzi l’ironia ci aiuti a prendere un po' di distacco da una situazione emotivamente sempre più carica, che rischia di farci perdere lucidità e anche di consegnarsi nelle mani di chi ci promette soluzioni che non esistono e dobbiamo renderci conto che la globalizzazione ha anche questo effetto e che i muri contro i virus non ci sono. Quindi forse dovremmo ripensare anche la nostra idea di convivenza globale, di mobilità non soltanto delle persone e delle merci nelle direzioni che ci fanno comodo ma anche dei virus nelle direzioni che non ci fanno comodo. E come questo ci può aiutare a ridare senso a cosa significhi vivere oggi, essere persone oggi nell'epoca della globalizzazione e anche della globalizzazione dei virus.
Coronavirus, il duplice ruolo dei social: fake news e verità dal basso. Per contrastare la diffusione di notizie false sul coronavirus, l’OMS collabora con social e media tradizionali, I social si sono rivelati anche uno strumento positivo per fare emergere la verità censurata dal Governo e le storie personali delle persone. Per questo si tratta della prima “infodemia” della storia. Michele Gentili, consulente ICT e Digital transformation, ed Alessandro Longo su agendadigitale.eu il 20 febbraio 2020. L’epidemia da coronavirus è la prima infodemia della storia, secondo l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS): il suo impatto sociale, economico e umano è indissolubilmente connesso al mondo dei media digitali, i social soprattutto. Nel bene e nel male: i media digitali amplificano i danni – veicolando disinformazione sul virus – ma si stanno anche rivelando un mezzo per ridurre le conseguenze negative dell’infezione e fare emergere verità e racconti della gente, anche non gradite al Governo cinese. Ecco perché la stessa Oms sta collaborando con tutte le società di social media come Google, Facebook, Tencent, etc. con l’intento di combattere notizie incontrollate e “falsi miti” e per garantire che le informazioni corrette e ufficiali siano facilmente individuabili e soprattutto ben visibili prima di tutte le altre. La raccomandazione dell’OMS è anche rivolta a tutti gli utilizzatori dei social media; ognuno di noi infatti ha il dovere di condividere coscientemente, “facendo click” con attenzione ed evitando di alimentare notizie false o anche solo dubbie. Come a dire che, per la prima volta, l’umanità sperimenta un’epidemia che va combattuta non solo sul campo della scienza e della salute pubblica, ma anche in quello dei media di massa distribuiti. La battaglia che si sta combattendo è certamente contro l’epidemia nata a Wuhan ma anche contro la disinformazione che si sta diffondendo molto più velocemente di quanto faccia il virus stesso. Anche questo è un problema perché la disinformazione, come sempre, è nemica nel trovare una soluzione e soprattutto alimenta ossessioni e “modi di fare” controproducenti. L’”infodemia”, dunque sta ostacolando gli sforzi per contenere l’epidemia, diffondendo panico e confusione e anche una certa discriminazione, quando la solidarietà e la collaborazione sarebbero elementi fondamentali e imprescindibili per salvare vite umane e porre fine alla crisi sanitaria. Abbondano, soprattutto in rete infatti, oscure teorie della cospirazione, false rivendicazioni che il virus sia uno sforzo di qualche fantomatica organizzazione per porre fine alla vita dell’uomo sulla terra, o altre fantasiose rivendicazioni di una presunta guerra biologica. Le false teorie circolano rapidamente online in tutti i paesi del mondo e in quasi tutte le lingue più diffuse contribuendo così alla loro ancora più rapida propagazione. Combattere la disinformazione sul virus è diventata dunque una sfida che, come ben sappiamo, non è certo l’unica, quando si parla di disinformazione sul web. Il problema però, come sempre è complesso perché, se da una parte in tutto il mondo e questa volta soprattutto in Cina, le persone hanno diritto di accesso alla libera informazione, in questo caso più di altri, va tutelato il diritto di accesso a informazioni accurate e certificate su come proteggere sé stessi e le proprie famiglie dal contagio. Nonostante il concreto rischio legato alla disinformazione, va riconosciuto ai social media anche il ruolo di grande ed importante fonte primaria di informazioni. I giornalisti di tutto il mondo hanno utilizzato i social media cinesi per ottenere un quadro più preciso della situazione, raccogliere e archiviare importanti notizie ri-condividendole nella propria lingua. C’è da dire, anche, che l’Organizzazione Mondiale della Sanità sta svolgendo un ruolo importante nel soddisfare questa esigenza critica.
Coronavirus: come lo stanno affrontando i Big del web. I colossi del web, in stretta collaborazione con l’OMS, hanno già preso alcune misure per rimuovere false dichiarazioni e promuovere ed evidenziare informazioni accurate e sicure. Elisa De Panicis e lo scivolone sul sud d'Italia. Cosa dice sul coronavirus. Giada Oricchio il 26 febbraio 2020 su Il Tempo. Bufera su Elisa De Panicis, la prima eliminata del GFVip 4: ringrazia il coronavirus e inneggia alla magrezza. Finora l’insulsa Elisa De Panicis era nota per i flirt con i calciatori e con Andrea Denver, altro concorrente del GF oltre che per una fugace e super sexy apparizione nella casa di Cinecittà. Da oggi sarà ricordata per due scivoloni ignorantissimi uno dietro l’altro. In una storia di Instagram è apparsa stesa su un lettino, piallata da un filtro con fiorellini e di buonumore. Perché? Lo ha detto lei tra una risatina e l’altra: “Adesso so che con quello che sto per dire scatenerò gli odiatori, però per una volta, il Sud ha vinto contro il Nord perché odiamo quelli del Nord e non possono scendere. Per una volta, tutti i milanesi, i lombardi e i veneti hanno bisogno di andare al Sud e non possono: questa è la cosa più bella di Coronavirus”. Per l’influencer il riscatto del Sud passa dal Coronavirus: una sciocchezza dettata dalla superficialità e dalla voglia di conquistare qualche titolo. Poi ha postato una seduta di pilates mostrando una forma fisica strepitosa e addominali tiratissimi, ma ecco l’altra sparata. Seppur magrissima, stupisce tutti con frasi scioccanti: “Sono ingrassatissima sulle ginocchia. Fisicamente faccio cagare, ho la pancia, cazzo!”. La Rete però non l’ha trovata spiritosa: “per chi se lo fosse perso questa signorina ha mostrato nelle sue storie tutto il suo entusiasmo e allegria per la propagazione del virus al nord...Fossi in voi smetterei di seguirla immediatamente”, “Sei squallida”, “Talmente stupida che neanche il virus vuole avere a che fare con te”, “Comunque hai augurato la morte a non so quante persone, e in tutto ciò sei a Milano. Ma a coerenza unni l'hai missa?”, “Non ti vergogni? Che imbarazzo”.
· Epidemia ed Ignoranza.
L’epidemia di Coronavirus ci fa riscoprire ignoranti, presuntuosi e fragili. Antonio Selvatici de Il Riformista il 3 Marzo 2020. La natura si sta vendicando? Ehi, homo sapiens il Coronavirus ti sta fregando! Ci siamo scoperti ignoranti e forse un po’ presuntuosi. Ignoranti, ignoramus, vale a dire “non sappiamo”. Presuntuosi perché coccolati nella confort zone del nostro quotidiano sapere, ambivamo a obiettivi altissimi. Eravamo orientati e tesi verso l’infinito, verso cime altissime: difficili da raggiungere anche con il solo pensiero. Addirittura l’intelligenza artificiale sembrava essere un buon rimedio per salvarci dalla deficienza naturale. Un taxi spaziale era già pronto per portarci a far visita alla luna: pacchetto andata/ritorno e pranzo al sacco con visita asteroidi. Mega computer grandi quanto una fabbrica capaci di elaborare in un’unità di tempo infinitesima una abnorme quantità di dati. Cose mai viste e sentite, così grandi che diventano inimmaginabili. Poi, all’improvviso mentre stavamo ancora digerendo le abbondanti libagioni delle festività, come uno scherzo, da un ignoto innocente pipistrello Made in China, sbarca il Coronavirus. Improvvisamente viene a mancare il patto scienza-uomo moderno. E l’ignoranza si trasforma in paura. Ed è naturale che quando la scienza non riesce a dare risposte (“non sappiamo”) si assaltano i supermercati o i forni, dipende dall’epoca. Mancano le processioni (occasioni dove il morbo si diffondeva) con pubbliche fustigazioni e corali canti di litanie. Ora le funzioni religiose sono sospese, matrimoni e funerali possono attendere tempi migliori. Gli aspiranti sposini avranno più tempo per riflettere sull’importante, difficile ed emozionante passo. I secondi, gli ignari protagonisti dei funerali, sono molto meno interessati alla cosa: hanno terminato il tempo terrestre. Dunque ignoramus et ignorabimus, ed ecco che anche oggi nuovamente si discute dei limiti della nostra comprensione della natura. Allora chiudiamo gli occhi. Sfogliamo mentalmente le nitide fotografie degli sbiaditi luoghi abbandonati, delle fabbriche di Detroit. L’ex capitale mondiale della cantieristica e della produzione di autovetture tende al suo stato naturale: gli alberi avvolgono e soffocano le cadenti strutture in muratura. Dal basso le radici innalzano i pavimenti, gli arbusti fanno il resto. Qui la natura sta vincendo, si sta riprendendo i suoi spazi: spacca e copre. Ed ecco che quando la Cina stava per salire sul gradino più alto del podio, un pacifico abitante della sua terra, della sua distrazione verso la natura e del suo egoismo, l’ha fatta inginocchiare dinnanzi alla realtà. Ha lasciato il segno l’unico mammifero volante, quel buffo volatile notturno che dorme a testa all’ingiù e che si orienta con una specie di radar. È buffa come immagine: il piccolo pipistrello piega il grande e forte Dragone. La globalizzazione ha fatto il resto: il vigente modello produttivo e commerciale non lascia scampo. Del resto se le fragole a dicembre sulla tavola non destano stupore perché un virus a forma di corona deve starsene confinato nella sua zona d’origine? Il Coronavirus è democratico, silente e gentile: ha un tasso di mortalità molto basso (predilige le persone che già tanto hanno vissuto e già soffrono di altre malattie), fortunatamente non ama i bambini, non fa distinzione di sesso e razza. Il Coronavirus è lo specchio dei nostri tempi: tecnologicamente fragili, ma impauriti. Dimostra i punti di forza e di debolezza dei vari modelli di governance. In Cina la dittatura comunista può quello che i paesi democratici non possono permettersi: costrizioni, censura e privazioni. È, e sarà, il grande partito comunista cinese a sistemare le cose al meglio, con pudore e autorevole dignità anche calpestando i diritti civili. Anche perché, diciamocelo, il modello cinese non ha così a cuore i diritti civili dei cittadini. Il nostro modello democratico è molto democratico. I cittadini non sono lasciati soli: se necessitano di cure possono fare affidamento su un sistema sanitario moderno ed efficiente (a parte rare eccezioni). I cittadini che si ammalano non pagano (direttamente) le cure, quelli più gravi (fortunatamente percentualmente pochissimi) non pagano i giorni che trascorreranno in terapia intensiva. E negli Sati Uniti? Come il modello sociale statunitense può gestire la possibile (speriamo di no) diffusione del Coronavirus? Il loro modello, anche se sempre si tratta di democrazia elettiva, è differente: non sempre la sanità e gratuita. Anzi! Quanti cittadini statunitensi hanno una assicurazione sanitaria che copre anche tutti i costi della cura al Coronavirus? Probabilmente il Coronavirus sarà un occasione di extra guadagno per chi guida le invisibili leve della finanza: i vari indici delle varie borse passano velocemente da un deciso segno meno ad un altrettanto deciso segno più. Orso e Toro s’alternano: viva la speculazione, viva gli speculatori! Noi mortali abbiamo i piedi ben saldi a terra: si sono impennate le terrene quotazioni di una babysitter disposta ad accudire tutto il giorno strillanti marmocchi che scoppiano dall’entusiasmo e gridano di gioia ogni volta che viene prorogata la chiusura delle scuole di ogni ordine e grado. Nelle Regioni interessate dalle ordinanze governative restrittive l’indice di sopportazione intra-familiare è salito alla fase rossa. Babysitter, cittadini, speculatori, medici, infermieri, imprenditori, artigiani, liberi professionisti, siamo tutti in attesa che la scienza moderna ci aiuti. Una volta si pregava la provvidenza, con devozione e dazioni, si edificavano chiese dedicate alla Madonna della Salute. Ora dobbiamo ammettere che il Coronavirus ci ha un po’ sconvolti: l’homo sapiens è un po’ meno sapiens di quello che in troppi s’immaginavano. La Natura sta sconvolgendo il nostro quieto vivere orientato all’infinita crescita. Già, quella natura matrigna di Giacomo Leopardi che ora, dati gli eventi, intrecciamo con l’assalto al “forno delle grucce” dei Promessi Sposi di Alessandro Manzoni. Ma non dimentichiamoci la scienza. Ancora una volta la rivoluzione della scienza ha dimostrato quanto, in realtà, siamo ignoranti. Siamo stati presuntuosi pensavamo che manovrando nervosamente il sacro telefonino si potessero risolvere buona parte dei nostri interrogativi e dei nostri problemi. Anche se può sembrare bizzarro e controcorrente, possiamo ringraziare il Coronavirus per averci riportato all’ignoranza: quando s’assaltavano i forni, ed ora, i supermercati. Dobbiamo ringraziare il Coronavirus in quanto dimostra quanto la scienza sia importante e quanto noi, homo sapiens, siamo fragili e ignoranti. Dobbiamo ringraziare ciò che non possiamo vedere e pesare: la dedizione e la professionalità dei medici, infermieri e personale sanitario chiamati al dovere dal virus. Dobbiamo ringraziare il Coronavirus perché ci ha insegnato che la Natura, nonostante le nostra incuranza, non s’arrende. Anzi, a volte, si vendica.
· Epidemie e Profezie.
Il tweet profetico di Biden sulla pandemia. Piccole Note de Il Giornale il 26 ottobre 2020. L’ex presidente Barack Obama domenica ha invitato gli elettori a sostenere il candidato democratico Joe Biden, condividendo un tweet che il suo ex vice-presidente ha pubblicato il 25 ottobre del 2019, nel quale si avvertiva che il presidente Trump non era preparato per affrontare una pandemia. Lo riferisce The Hill che riporta come nel “tweet del 2019, [pubblicato] molto prima che la pandemia del Coronavirus entrasse nell’orizzonte degli americani [in realtà prima che si manifestasse anche in Cina ndr.], Biden ha scritto: “Non siamo preparati per una pandemia. Trump ha annullato i progressi che io e il presidente Obama abbiamo fatto per rafforzare la sicurezza sanitaria globale. Abbiamo bisogno di una leadership che goda della fiducia dell’opinione pubblica, sia focalizzata sulle minacce reali e mobiliti il mondo per fermare le epidemie prima che raggiungano le nostre coste”. Il tweet di Biden prendeva spunto da un articolo pubblicato il giorno precedente dal Washington Post, che riportava il rapporto Global Healt Security Index, “la prima valutazione completa delle capacità sanitarie globali”, il quale segnalava come 195 Paesi del mondo fossero impreparati ad affrontare un “evento biologico catastrofico a livello globale” (capitolo 2). L’Index, scriveva il Washington Post, è “un progetto della Nuclear Threat Initiative, un’organizzazione senza scopo di lucro con sede a Washington, e del Johns Hopkins Center for Health Security“. La Nuclear Threat Initiative è stata fondata dal senatore democratico Sam Nunn e dal fondatore della CNN Ted Turner; del Johns Hopkins Center ci siamo occupati in note pregresse riguardanti alcune esercitazioni militari anti-pandemia che si sono svolte nel 2019 negli Stati Uniti d’America, prima del manifestarsi del Covid-19 (Piccolenote). Non tiriamo nessuna conclusione da questa serie di coincidenze, che tali sono. L’unica, indubitabile, è che la profezia di Biden, annunciata mentre nel mondo iniziava a prendere forma la pandemia, sembra essersi avverata. E forse regalerà al candidato democratico la Casa Bianca, dato che proprio su tale drammatico evento si è basata la sua campagna elettorale ormai vincente (almeno a stare ai sondaggi).
Ps. Il Wp citato nella nota criticava la decisione di dell’ex Consigliere per la Sicurezza nazionale Usa John Bolton di chiudere l’Ufficio per la sicurezza sanitaria globale e la difesa biologica che faceva capo al suo ufficio. Già fiero antagonista del presidente nel periodo in cui ha ricoperto l’incarico, dopo il suo licenziamento l’alfiere dei neocon è diventato un acerrimo oppositore di Trump.
Da "corriere.it" il 26 ottobre 2020. Il presidente Usa, Donald Trump, protesta con i media. Lo fa ad un comizio elettorale a Lumberton, in Carolina del Nord: «Questo è tutto quello che sento adesso. Accendi la tv e non si sente parlare di altro che ‘Covid, Covid, Covid, Covid, Covid, Covid’». Una parola che il capo della Casa Bianca ripete per 6 volte consecutive come un refrain davanti ad una folla in delirio per lui: «Bene,dopo il 4 novembre questa parola non la sentirete più»
Hamutal Shabtai, la scrittrice israeliana che aveva previsto la pandemia. Ne parlava già in un libro del 1997. Libero Quotidiano il 24 ottobre 2020. Nel 1997 la scrittrice israeliana Hamutal Shabtai aveva previsto tutto quello che sta succedendo oggi. Infatti, nel suo libro, dal titolo 2020, parlava proprio di una pandemia che avrebbe sconvolto il mondo nel 2020. Un libro profetico, insomma, che descrive nel dettaglio situazioni che adesso tutti conoscono benissimo: dal distanziamento fisico al rispetto delle norme sanitarie. Come scrive Meir Ouziel, ripreso da Repubblica, l’autrice è psichiatra di professione e iniziò a scrivere il romanzo negli anni ’80, quando il mondo era terrorizzato dalla sfida dell’Aids. In quel periodo Shabtai era preoccupata per le implicazioni che quella nuova malattia avrebbe potuto avere sulle relazioni interpersonali. Ed è per questo che nel suo mondo letterario viene sviluppata una nuova razza umana caratterizzata dal rifiuto delle relazioni intime. Nel romanzo 2020, in particolare, viene descritta una realtà inquietante in cui ogni contatto tra esseri umani è accompagnato dal sospetto. Addirittura per i rapporti sessuali si ricorre a dei robot.
La profezia del bambino che aveva previsto il Covid: "In arrivo una catastrofe". C'è grande scetticismo sulla nuova previsione del bambino prodigio indiano Abhigya Anand, che dopo aver previsto la pandemia di Covid nel 2019, ora ha "visto" una nuova tragedia che sconvolgerà l'umanità nel 2021. Roberta Damiata, Sabato 08/08/2020 su Il Giornale. Una nuova catastrofe tra dicembre e marzo potrebbe minacciare l’umanità, a dirlo è Abhigya Anand, il 14enne indiano famoso in tutto il mondo per aver previsto nel 2019 la pandemia di coronavirus con tale precisione da specificare che sarebbe iniziata dalla Cina. Il ragazzo possiede un diploma post-laurea in Microbilogia ayurvedica ed è un astrologo di fama internazionale famoso per le sue capacità di pronosticare gli eventi. Secondo le nuove predizioni il 5 settembre segnerà la fine del Covid, ma una nuova catastrofe, che per il momento non si sa di quale genere potrebbe essere è pronta a farsi viva pochi mesi dopo, sempre provocata dal comportamento umano. “L’uomo che non rispetta la terra dove è nato, che non smette di uccidere gli animali e che continua a danneggiare la natura - sono state le sue parole - e le sue azioni stanno aumentando il karma negativo”.
Ma da cosa deduce queste sue previsioni? Intanto si conosce il periodo, che sarà da dicembre 2020 fino a marzo 2021 e l’evento sarà addirittura più distruttivo della pandemia di coronavirus. Questo perché proprio in quel periodo ci sarà l’allineamento di Saturno e Giove che procurerà questa catastrofe. Facendo ovviamente i dovuti scongiuri è importante specificare bene come stanno realmente le cose, per evitare fraintendimenti. In realtà Anand ha espresso un’opinione basata su una una generalizzazione astrologica, proprio come era successo nel video del 2019 in cui aveva parlato di malattie generiche in tutto il mondo che avrebbero richiesto molti sforzi per uscirne. Un articolo specifico è stato redatto sul sito "Asia Net News" dove si legge un’analisi approfondita sul video che il ragazzo ha registrato ad agosto 2019 in cui i punti da lui trattati a detta del sito sono tre. Il primo riguarda la forte probabilità di una guerra tra India e Pakistan, che non è avvenuta, considerando il fatto che non ci sono state situazioni di dispute armate tra i due Paesi da novembre 2019 a maggio 2020. Inoltre Anand ha anche parlato dei prezzi dell’oro, dell’argento e del petrolio destinati ad aumentare notevolmente, cosa che dati alla mano non è successa. Inoltre ha menzionato anche una possibile guerra tra Stati Uniti e Iran, che non è successa anche se ci sono stati forti tensioni tra i due Stati.
La profezia Maya era stata letta male: non era il 2012, ma il 2020. A supportare finora sul web la teoria per cui il 2012 indicato dai Maya sarebbe in realtà il 2020 hanno contribuito anche dei sedicenti scienziati. Gerry Freda, Lunedì 15/06/2020 su Il Giornale. In rete impazza ultimamente una teoria per cui la profezia Maya della fine del mondo, che fissava l’apocalisse al 21 dicembre del 2012 e poi rivelatasi fortunatamente inesatta, non sarebbe affatto campata in aria, in quanto necessiterebbe solo di una correzione legata al tipo di calendario usato come riferimento. Adeguando i calcoli degli antichi amerindi al moderno calendario gregoriano emergerebbe infatti che la terribile data anticipata da quel popolo sarebbe ancora pronta a minacciarci. In base alla profezia “aggiornata”, il giorno del giudizio sarebbe appunto in arrivo il 21 giugno di quest’anno. Secondo la teoria apocalittica che circola su Internet, rilanciata dal Corriere dello Sport, l’iniziale errata individuazione della data incriminata come il 21 dicembre 2012 sarebbe stata causata dal mancato adeguamento della profezia al contemporaneo calendario gregoriano, subentrato verso la fine del ‘500 a quello giuliano. La spiegazione della confusione tra 2012 e 2020 è stata delineata dal quotidiano con tali parole, ricavate dalla rete: “I Maya avevano profetizzato la fine del mondo il 21 dicembre 2012, ma l'errore nella stesura del calendario gregoriano, introdotto nel 1582 al posto di quello giuliano, ha di fatto alterato il conteggio. Aggiungendo i giorni persi in virtù dello sbaglio, 11 per ogni anno, si arriva così al 21 giugno 2020, cioè la settimana prossima”. La tesi relativa a una fine del mondo in arrivo il 21 di questo mese sarebbe stata finora propugnata sul web, rimarca la testata, anche da alcuni sedicenti scienziati, tra cui un certo Paolo Tagaloguin. Quest’ultimo avrebbe infatti supportato di recente a colpi di tweet la nuova teoria apocalittica, pubblicando messaggi come il seguente: “Secondo il calendario giuliano, tecnicamente siamo adesso nel 2012”. Un altro post a lui attribuito recitava: “Usiamo il calendario gregoriano da 268 anni (dal 1752 al 2020). A 11 giorni all'anno, abbiamo perso 2948 giorni. E 2948 giorni divisi 365 (i giorni dell'anno) fa un totale di 8 anni. Seguendo questa teoria, il 21 giugno 2020 corrisponde al 21 dicembre 2012, una data che dovremmo conoscere”. Dopo avere riportato i tweet di Tagaloguin, sempre il Correre dello Sport ha però precisato che lo scienziato con la passione per le profezie Maya si sarebbe ormai cancellato da tutti i social network, relegando nell'oblio le sue cacciate catastrofiste.
Virus, stragi e silenzi. Se non fosse tutto vero sembrerebbe un thriller (di Lawrence Wright). Il giornalista americano mesi fa immaginava un mondo devastato da un morbo invincibile. Stefania Vitulli, Mercoledì 29/04/2020 su Il Giornale. Un virus che nasce in Asia, aggredisce il pianeta nella primavera del 2020, costringe al lockdown le nazioni tutte e distrugge il sistema economico? Già scritto da un Pulitzer e in bozza da inizio di quest'anno. Se ne parla sui media di tutto il mondo da fine febbraio, ma arriva solo ora in ebook in contemporanea globale: il romanzo Pandemia (Piemme, e-book 5,99 euro, cartaceo pagg. 432, euro 18,90, in uscita il 5 maggio) di Lawrence Wright è senza dubbio la Cassandra per eccellenza dell'emergenza Coronavirus. Averlo scritto è il corrispondente in letteratura obiettivo impensabile persino per un giornalista del New Yorker, saggista di razza e vincitore del Pulitzer come Wright di quello che sarebbe in medicina l'aver trovato un vaccino al Covid per un ricercatore: l'autore ha predetto più o meno tutto quel che ci sta accadendo e ha già pure provato a spiegarlo, con flussi economici e intrighi politici internazionali. Oltre due anni di fatiche, pare gli sia costato, ma leggendo questo thriller si stenta a credere che una tale preveggenza possa risalire a un periodo in cui l'evento pandemia sembrava ai più lontano quanto i replicanti di Blade Runner. Ma cominciamo dall'inizio. Wright non è uno che scrive romanzi, tuttavia è dalla fiction che spesso prende le strutture e l'ispirazione per mettere insieme i pezzi dei suoi puzzle-reportage. Il titolo che gli ha assicurato il Pulitzer, Le altissime torri (Adelphi), è una dissezione anatomica sull'11 settembre che parte sul campo e connette puntini reali, inserendo nello stesso piano di azione indagini spregiudicate dell'FBI, il fondatore del jihad e le basi di al-Qaeda, proprio come se fossero personaggi di un romanzo. Più o meno all'inverso Wright ha invece proceduto per Pandemia: ha usato la sua credibilità di reporter per raggiungere scienziati, epidemiologi, fonti ufficiali dei governi mondiali ed esperti militari e poi ha costruito, usando le loro dichiarazioni e i materiali ottenuti, una vera opera di narrativa. L'idea gli è venuta in parte perché è rimasto soggiogato dal fascino delle armi biologiche: invisibili, imprevedibili, letali. In parte perché anni fa ebbe una conversazione con il regista Ridley Scott a proposito della risposta alla domanda: «Che cosa potrebbe portare la società a spaccarsi?». Al centro di Pandemia, ambientato nella primavera del 2020, una «influenza emorragica» mai vista prima e molto aggressiva - quello che potrebbe essere il nostro Coronavirus che si sviluppa in un campo profughi a Giacarta e provoca, in poche ore, 47 morti. Il caso viene presentato all'Assemblea Mondiale sulla Salute a Ginevra e il nostro eroe, l'instancabile epidemiologo Henry Parsons (ecco, questa è l'unica cosa che, se riscrivesse il libro oggi, Wright magari cambierebbe: la figura dell'epidemiologo di fama mondiale che capisce al volo cosa accade e segue la giusta pista del virus come un bracco col tartufo) parte per l'Indonesia, dove il peggio è già avvenuto: l'apocalisse del contagio si è ormai diffusa in modo irrimediabile. Ma il personale «Paziente 1» di Parsons, il suo autista, nel frattempo parte per la Mecca in pellegrinaggio e il virologo si mette sulle sue tracce, intuendo il rischio. Troppo tardi. Il mondo è in balìa del panico e della pandemia. È qui che si affacciano altre somiglianze stringenti con la contemporaneità: tensione tra superpotenze, sospetti sulla creazione del virus in laboratorio a scopi egemonici, possibile ruolo delle armi chimiche nel la diffusione. Il libro è godibilissimo ed è chiaro che la simulazione su cui Wright si esercita nel narrare è congegnata nei minimi dettagli, perciò rende credibile un grande complotto globale in cui ognuno degli attori ha obiettivi diversi e ottenere, agli occhi del lettore, quella che si chiama «eterogenesi dei fini», ovvero un finale inaspettato, viste le premesse. Quel che conta, secondo Wright, non è solo è capire perché gli eventi accadono ma che cosa potrebbe succedere dopo e chi ne beneficia ovvero chi sono i burattinai del futuro, poi che si tratti di Covid-19 o di Ebola poco importa. A mancare alla popolazione al pari delle cure, quando un evento del genere si verifica, è la trasparenza, secondo un Wright, oggi in isolamento a Austin, Texas: «Quando capiscono che gli si sta mentendo, le persone vanno nel panico» ha commentato Wright nella sua intervista di due mesi fa a Bloomberg non a caso una testata economico-finanziaria a proposito della ricerca che sta dietro al libro. «Il ministro della Salute iraniano negava a proposito del Coronavirus mentre sudava per la febbre».
Le premonizioni in un libro pubblicato nel 1976. Coronavirus, la profezia del Papa Buono: “Sette anni di pestilenza”. Redazione de Il Riformista il 13 Aprile 2020. L’essere umano dovrà convivere con il coronavirus per altri sette anni. O almeno così dice un libro di profezie attribuite a Papa Giovanni XXIII, Angelo Giuseppe Roncalli. Stando a quanto riporta il volume Le profezie di Papa Giovanni, il “Papa Buono”, sul soglio Pontificio dal 1958 al 1963, avrebbe infatti predetto una terribile epidemia e una carestia. Del volume si è tornato a parlare in questi giorni a causa della pandemia da Covid-19. “Si alzano le grida e le barriere della contesa, già dall’acque esce la Bestia. E la carestia ferma gli eserciti. Gli uomini si contano morire. E dopo la carestia, la pestilenza”, si legge. E poi: “Iddio ha scatenato la guerra della natura per impedire la guerra degli uomini”. Il libro in questione è Le profezie di Papa Giovanni (Edizioni Mediterranee); sottotitolo: La storia dell’umanità dal 1935 al 2033. È opportuno però precisare che non venne scritto dal Santo Padre, ma da Pier Carpi, scrittore, regista, sceneggiatore di fumetti e studioso dell’esoterico e del paranormale, che pubblicò il libro nel 1976. La storia dietro il volume è criptica e misteriosa quasi quanto le premonizioni al suo interno. Carpi, amico e confidente di Licio Gelli, il “maestro venerabile” della loggia massonica P2, raccontò di aver ricevuto le profezie lasciate dal “Papa Buono” da un massone di alto rango. Il “grande vecchio” avrebbe dunque consegnato nelle mani dello scrittore tali premonizioni alla rocca di San Leo, una fortezza in Emilia Romagna dove – coincidenza – venne detenuto l’esoterista e alchimista siciliano Cagliostro. La pestilenza, stando al libro, viene al tempo di uno scontro tra due imperatori, che secondo Carpi sarebbero due pretendenti al soglio pontificio. E sempre secondo l’interpretazione, posta in esergo al volume, dell’autore il “Papa Buono” nelle sue visoni anticipa i segni di sette anni di pestilenza e carestia seguiti dal caos. Uno dei passaggi chiave cita in diverse parti il libro biblico dell’Apocalisse e una “fine dei tempi”: “La figlia di Caino è salita a Nord, a predicare. Lussuria nella nuova Babilonia, per sette anni. Il settimo anno cade il settimo velo di Salomè, ma non esiste imperatore, non esiste chi sappia alzare la spada e recidere il collo di Giovanni. Il tempo è vicino”. Alla fine del caos, tuttavia Pier Carpi prevede “l’avvento di “una superiore civiltà umana, basata sulla fede, la conoscenza, la fratellanza tra gli uomini”. Quella delle profezie di Papa Giovanni sembra una storia che ha a che fare più con la suggestione, e i culti esoterici, che altro. Resta, comunque, nella storia dell’emergenza coronavirus l’abbondanza di allarmi, premonizioni, profezie o qual dir si voglia, che avevano annunciato o quantomeno messo in guardia il mondo dalla possibilità di una epidemia globale. Le parole di Bill Gates, durante un ‘intervento ai Ted Talks del 2015, hanno fatto il giro del web. Come pure gli studi e gli articoli di numerosi ricercatori ed esperti, come David Quammen, che nel suo Spillover (Adelphi) aveva scritto come il prossimo evento catastrofico, “big one” sarebbe potuto essere una grande epidemia passata agli uomini dagli animali.
La profezia di Obama sul virus: "Prepariamoci, ecco cosa arriverà..." Queste parole vennero pronunciate nel 2014 dall'allora presidente degli Stati Uniti, poco tempo dopo che il virus Ebola aveva colpito duramente l’Africa occidentale. Andrea Pegoraro, Giovedì 16/04/2020, su Il Giornale. “Potrebbe e verosimilmente arriverà un momento in cui si diffonderà una malattia che si trasmetterà per via aerea e che sarà mortale”. Queste parole vennero pronunciate nel 2014 da Barack Obama, all’epoca presidente degli Stati Uniti. Una frase profetica di quanto poi sta accadendo oggi nel mondo con il coronavirus.
L’intervento del leader statunitense. Il discorso di Obama risale al 3 dicembre 2014, poco tempo dopo che il virus Ebola aveva colpito duramente l’Africa occidentale ed era stato una minaccia per il mondo. Il leader democratico era intervenuto al National Institutes of Health (Istituto nazionale di sanità) e si era complimentato per la professionalità con cui era stata fronteggiata quella crisi sanitaria. Inoltre, aveva offerto al suo Paese un modo per contrastare in modo efficace una pandemia. Durante il suo intervento, Obama aveva richiesto al Senato di approvare una proposta di finanziamento e soprattutto aveva evidenziato l’importanza di creare un’infrastruttura mondiale in grado di affrontare un’eventuale epidemia o influenza.
La profezia. L’allora presidente degli Usa aveva sottolineato che il finanziamento richiesto sarebbe stato necessario per rafforzare la capacità interna degli Stati Uniti di rispondere a possibili casi futuri di Ebola. Inoltre, aveva aggiunto che sarebbe servito per consentire agli Usa di collaborare con altri Stati per prevenire e affrontare prossimi focolai, impedendo loro di trasformarsi in epidemie. “Siamo stati fortunati con H1N1 che non si è rivelato più mortale di quanto poteva essere - aveva continuato Obama -. Non possiamo dire di essere fortunati con l'Ebola perché ovviamente sta avendo un effetto devastante in Africa occidentale, ma non si trasmette via aerea”. Poi le parole profetiche. Il leader democratico aveva invitato tutti a prepararsi per una malattia globale che si sarebbe diffusa per via aerea e sarebbe stata mortale.
Come affrontare una futura epidemia. Obama aveva dato la sua ricetta per prevenire una prossima pandemia. “Per consentirci di affrontarla in modo efficace - aveva spiegato -, dobbiamo creare un'infrastruttura, non solo qui negli Usa, ma a livello globale, che ci consenta di individuarla rapidamente, isolarla rapidamente e reagire rapidamente”. Secondo il leader statunitense, così facendo gli Usa sarebbero stati in grado di fronteggiare negli anni futuri un nuovo ceppo di influenza come la Spagnola. “È un investimento intelligente. Non è solo un’assicurazione - aveva concluso Obama -. Sappiamo che in futuro continueremo ad avere problemi come questo. Quindi è importante ora, ma è anche importante per il nostro futuro, il futuro dei nostri figli e il futuro dei nostri nipoti".
Maria Mento per "newnotizie.it" il 27 marzo 2020. Quello che in questi giorni, al tempo del Coronavirus, sta accadendo in Israele sta nuovamente alimentato le teorie dei complottisti. Dozzine di pipistrelli ancora in giovane età sono morti e inspiegabilmente sembrano non esserci delle motivazioni valide per spiegare questi decessi. I pipistrelli trovati privi di vita (alcuni sono anche stati fotografati, come si può vedere dall’immagine che vi proponiamo) non presentano alcun segno esteriore di trauma fisico. Una spiegazione scientifica sicuramente ci sarà, ma ecco che subito sono spuntate all’orizzonte le teorie di chi sostiene che si stia avverando una profezia biblica sulla fine del mondo (che ormai sarebbe vicinissima).
Pipistrelli misteriosamente morti in Israele, sono tre gli avvistamenti registrati in tutto il Paese. In Israele si sono registrati, in questi ultimi giorni alcuni strani decessi che hanno colpito dei pipistrelli. A rinvenire i corpi di dozzine di queste creature, ormai morte, è stato Adi Moskowits: l’uomo- al momento della scoperta, fatta lo scorso sabato- si trovava presso il Park Leumi di Ramat Gan (città che sorge alla periferia est di Tel Aviv). L’uomo ha scattato delle foto e le ha condiviso in rete. Si è poi scoperto che un’altra persona, che però vive a molte miglia di distanza dal parco (nel quartiere Pardes Katz), ha notato la stessa anomalia e ha pubblicato un video per segnalare questo mistero sorto intorno ai pipistrelli. Ancora, un terzo avvistamento sarebbe avvenuto a 50 km dal Park Leumi, e più precisamente nella città di Hadera. A dichiararlo è stato un utente Facebook che ha detto di aver visto con i propri occhi i pipistrelli deceduti.
Pipistrelli misteriosamente morti in Israele, la teoria biblica sulla fine del mondo. Nora Lifshitz, la fondatrice della Israeli Bat Society, ha dichiarato ai microfoni di Breaking Israel News di non aver visto una cosa simile prima d’ora. La donna si è lanciata in una spiegazione che per non è stata provata, sostenendo che forse il freddo intenso patito nel corso dello scorso weekend potrebbe avere ucciso in massa i pipistrelli. Su internet, invece, spopola un’altra teoria (ancora una volta non sostenuta da prove scientifiche): quella secondo cui i pipistrelli sarebbero stati uccisi dalle onde emanate dalle torri 5G erette nel Paese. Ma per Breaking Israel News la spiegazione sarebbe diversa e sarebbe da rintracciare nei versetti che le Sacre Scritture dedicano all’arrivo della fine del mondo. I versetti presi come esempio racchiudono le frasi che il Signore avrebbe indirizzato a Sofonìa figlio dell’Etiope, figlio di Godolia figlio di Amaria, figlio di Ezechia, al tempo di Giosia figlio di Amon, re di Giuda, in quello che è il “Preludio cosmico” (Sofonia 1-3):
“Tutto farò sparire dalla terra.
Oracolo del Signore.
Distruggerò uomini e bestie;
sterminerò gli uccelli del cielo e i pesci del mare,
abbatterò gli empi; sterminerò l’uomo dalla terra.
Oracolo del Signore”.
Alberto Dandolo per Dagospia il 12 marzo 2020. Mejo del Divino Otelma! Ecco cosa scriveva il mitologico avvocato Marra sulla sua pagina Fb il 22 febbraio scorso, quando il corona virus si era appena palesato in Lombardia: Post di Alfonso Luigi Marra su Facebook del 22 febbraio 2020. La notizia del primo contagiato italiano a Codogno era del giorno prima, 21 febbraio. Spiegherò di seguito perché, io credo, in pochi giorni emergerà che le autorità, mentendo come sempre, hanno sminuito quella che è palese sarà tra pochissimo una grave pandemia. Voglio invece partire dal fatto che tutta questa mai vista disponibilità a chiudere aziende, città, settori, cela in realtà il desiderio profondo di non volere più andare avanti così dell’intera umanità. Un sistema che, innanzitutto, ha il suo motore in quella gravissima forma di sofferenza che è l’insoddisfazione, anticamera della depressione e della psicosi di massa. Perché il consumismo necessità che i beni siano inutili, affinché appunto, stante la loro inutilità, determinino quell’insoddisfazione che causerà poi altri desideri ed altri consumi inutili all’infinito. A questo poi si sono aggiunti altri gravi elementi di sofferenza frutto delle contraddizioni che, pur nel mezzo dell’eccesso produttivo, hanno reso la società mondiale schiava ad ogni livello del debito, della difficoltà economica e di una grande sofferenza psichica (approfondisci da pas.it, dal documento “Causa della fondazione e ideologia del PAS”, del 1987, oltre che da “La storia di Giovanni e Margherita” e le altre mie opere). Cose tutte sovrastate dalla sempre più malcelata consapevolezza planetaria dell’imminenza della catastrofe climatica e dell’esigenza di fermarla a qualunque costo, perché, quale che sarà il numero di morti della pandemia, sarà sempre meglio dell’estinzione, alla quale non è affatto detto che, anche spegnendo il mondo, riusciremo a sfuggire. Indicazione della pandemia, e non del clima, quale causa della necessità di fermare il mondo che quindi si configura anche come ultimo, estremo tentativo di rivoluzione per non cambiare. Tentativo destinato fortunatamente a fallire perché senza il cambiamento culturale non si potrà gestire l’enorme complessità della situazione che deriverà dall’arresto del sistema. Un desiderio di fermarsi che trova un’occasione purtroppo ‘ideale’ nel corona virus, perché, per forza di cose, in pochi giorni verranno assunte misure draconiane che colpiranno il sistema nel suo punto nodale, che è l’ideologia dell’accalcarsi, della promiscuità e del tipo di consumi ad essa connessi (discoteche, tifoserie, enormi raduni, carnevalate, spiagge, esodi per vacanze ecc). Ciò detto, venendo ad un aspetto della questione sanitaria indicatomi dal mio giovane amico Alessandro Raffa, quello che le autorità tacciono, ma emerge da vari articoli, è che l’insufficienza respiratoria causata in una certa percentuale di casi da questo virus richiede trattamenti (macchine per facilitare la respirazione) che la sanità è in grado di fornire solo a pochi, sicché, ora che il numero dei malati aumenterà, non sarà possibile curarli. Di tal che, oltre ai morti subito, che non è dato sapere se, in assenza di cure, rimarranno nelle percentuali indicate, bisognerà vedere quali potranno essere gli strascichi polmonari per chi per il momento sopravvive. Ci sono poi altri aspetti a partire dall’approssimatività delle notizie cosiddette scientifiche, che sono invece sempre e tutte di parte, sicché non è dato sapere né dei rischi di mutamenti del virus né della possibilità che partano altri ceppi a vari livelli di pericolosità.
Coronavirus, gli astrologi avevano predetto tutto: "Cambiamenti epocali e duraturi nella storia dell'umanità per il 2020". Libero Quotidiano il 24 marzo 2020. Il coronavirus era stato profetizzato? A guardare le previsioni fatte nel 2019 dagli astrologi sembra di sì. Nel portale astrologico Nel magico mondo di Isolo, "grazie" alla congiunzione di Saturno e Plutone, si parlava di "cambiamenti epocali e duraturi nella storia dell'umanità nel 2020". Non solo perché il sito parlava anche del transito di Saturno in Acquario. Questo annunciava l'arrivo di "scelte drastiche" che porteranno gli umani a "cambiare rotta", passando per un guado oscuro. A fare eco anche gli astrologi Astropoli.it, che indicavano "eventi eccezionali per la Scena Mondiale in ordine alla Triplice ed Irripetibile congiunzione di Giove, Saturno e Plutone nel segno del Capricorno". Fasi, queste, di crisi tra poteri diversi, rimodulazione del settore alimentare ed economico, scoperte rivoluzionarie" e un ruolo di "Primissimo Piano" di Marte, il Pianeta dell'Azione, della Volontà e della Guerra sulla Dinamiche degli Eventi". Insomma, tutto lascia pensare che l'epidemia e la crisi che ha generato in Italia e non solo sia stata preannunciata senza, però, avere troppo seguito.
Elisabetta Ambrosi per il “Fatto quotidiano” il 24 marzo 2020. Si fa presto a dire che gli astrologi falliscono. A guardare le previsioni fatte nel 2019, infatti, si scopre che, mentre noi stappavamo lo spumante, i nostri esperti di futuro profetizzavano rivoluzioni astrali e stravolgimenti globali. La palma della chiaroveggenza? Senz' altro va al portale astrologico Nel magico mondo di Isolo dove si predicevano, per il 2020, "grazie" alla congiunzione di Saturno e Plutone, "cambiamenti epocali e duraturi nella storia dell' umanità", proprio come nell' agosto nel 1914 o nel settembre del 1939. Ma c' è di più: il transito di Saturno in Acquario, si leggeva sul sito, annunciava l' arrivo di "scelte drastiche" che porteranno gli umani a "cambiare rotta", passando per un guado oscuro, come la fenice che risorse dalle ceneri. "Eventi eccezionali per la Scena Mondiale in ordine alla Triplice ed Irripetibile congiunzione di Giove, Saturno e Plutone nel segno del Capricorno" erano stati intravisti anche dagli astrologi di Astropoli.it, che indicavano - nel libro Previsioni Astrologiche 2020. O ti superi o ti limiti, "fasi di crisi tra poteri diversi, rimodulazione del settore alimentare ed economico, scoperte rivoluzionarie" e un ruolo di "Primissimo Piano" di Marte, il Pianeta dell' Azione, della Volontà e della Guerra sulla Dinamiche degli Eventi". Ma se gli indovini di medio calibro hanno, per quest' anno, sfoderato tutta la loro capacità visionaria, anche le grandi astro-star non sono state da meno. "Per la metà del tempo Marte sarà in assetto di guerra in Ariete", aveva scritto il notissimo Branko, per poi presagire che l' uomo avrebbe dato prova del suo immenso ingegno "nel campo della matematica, delle scienze, della ricerca medica e astrofisica". Dal canto suo, Rob Brezsny avvertiva che "il 2020 sarà un anno in cui prevarranno domande, il 2021 offrirà risposte importanti" e Paolo Fox lanciava per il 2020 il motto "ripartiamo da zero". E che dire di Simon & The Stars, che nel nuovo libro L' oroscopo 2020, il giro dell' anno in 12 segni, scriveva, forse prevedendo la quarantena, che a fare da padrone sarebbe stato il Capricorno, "il genitore severo che ti dà lo sculaccione, che ti spinge a raddrizzare le cose, con le buone o con le cattive"? Di più: secondo l' astro blogger, le sequenze astrali segnalavano "uno step successivo nel nostro percorso sulla Terra come esseri umani". Insomma, il 2020 è l' anno di ''o la va o la spacca". Ancor più dettagliate le intuizioni di Astra che prevedeva "una prova da superare per la Cina", anche lo sviluppo di "nuovi e più veloci e più sofisticati sistemi di comunicazione" (smart working?). Una profezia c' era stata anche per Nicola Zingaretti - "mesi complicati a causa dell' opposizione di Nettuno" - e per il premier Conte, per cui si immaginava un aumento di consenso ma anche il rischio di "avere la sensazione di essere politicamente invulnerabile". Insomma, che dire? Visto che gli italiani sono allergici agli esperti veri, che almeno ascoltino i visionari delle stelle. A noi non resta che sperare, con Branko, che questa "nuova e mai provata agitazione sarà un blitz di qualche mese, poi il pianeta rientrerà in Capricorno fino a Natale". Quando, se non avremo il vaccino, potremo almeno contare su un altro vaticinio.
Prefazione all'oroscopo di Branko 2020 il 14 marzo 2020. All'alba del nuovo anno è necessario ritrovare subito il senso della libertà e della sicurezza, acquisire serietà e disciplina. Nel 2020, le stelle non pensano a giocare a mosca cieca con noi: forse non l'hanno mai fatto, siamo noi a desiderare di vederle sempre luminose nel cielo blu. Questo anno non resterà nella storia come un periodo artistico-sportivo eccezionale, per la metà del tempo Marte sarà in assetto di guerra in Ariete. È invece significativo l'influsso dei grandi pianeti, corpi celesti che aiutano veramente a cambiare una vita e risultano importanti per l'educazione dei giovani (che costituisce ormai un'emergenza), e per alcuni "esami di riparazione" di qualche potente. Ma in un campo in particolare l'uomo darà prova del suo immenso ingegno: la matematica, le scienze, la ricerca medica e astrofisica; nonché varie attività nel settore dell'industria e della finanza, ovunque siano richieste capacità organizzative e attitudine al comando. Molte volte non crederemo a quanto vedranno i nostri occhi o sentiranno le nostre orecchie... Serpeggerà una nuova e mai provata agitazione il primo giorno di primavera, ingresso di Saturno in Acquario. Sarà un blitz di qualche mese soltanto, una prova di resistenza per noi tutti, poi il pianeta rientrerà in Capricorno fino a Natale. Il suo influsso sarà diretto in particolare al sociale e alla politica (parlamento, ministri, legislatura e dintorni). Qualcuno cadrà: il colpo di scena nasce con Saturno contro Urano in Toro, una quadratura astrale verificatasi ultimamente prima della Seconda guerra mondiale... Molte sono le somiglianze, invece, con l'ultimo transito di Saturno in Acquario, avvenuto negli anni 1991-1994: una su tutte, la situazione in Europa. A questo proposito, la gente farebbe meglio a guardare in casa propria, come suggeriva il famoso film "La finestra sul cortile"... Buon 2020!
Introduzione Branko Oroscopo 2020 – pubblicato da Il Messaggero il 31 dicembre 2019. Elisabetta II, qualche giorno fa, ha definito il 2019 un anno dal percorso “accidentato”. Ancora una volta la regina d’Inghilterra ha centrato, da buona e concreta Toro, la definizione perfetta di questo anno, inconcludente, che ci lasciamo alle spalle. Gli anni passano veloci come rapide navi, siamo già nel 2020, ma forse non siamo preparati ai grandi eventi, anche mondiali, che le stelle delineano. Impossibile non partire dalla politica, più che altro dalla retorica che abbiamo dovuto subire per un anno intero. L’impressione che abbiamo avuto è di un continuo dejà vu, salti nel passato evocando eventi e vita di cinquanta, ottanta o addirittura cento anni fa. Forse non siamo ancora nel terzo millennio, cosa che magari succederà nel nuovo anno, in dicembre, quando assisteremo alla spettacolare congiunzione di Giove con Saturno, aspetto conosciuto come la stella cometa che guidò i re Magi…La difficoltà di staccarsi dal passato è scritta nell’oroscopo di quel 2 giugno 1946, nascita della Repubblica. Era il mese dei Gemelli, segno intelligente ma volubile e “doppio”, ancora più incisiva allora la Luna (popolo) che sostava in Cancro insieme a Saturno (politica). Tutto, dopo anni, diventa lunatico…Che ci siano stati nell’ultimo mezzo secolo anche periodi felici e uomini preparati, non ci sono dubbi. Ma con gli anni novanta del secolo scorso ha avuto inizio un deciso e costante cambiamento del quadro astrale. Plutone dopo duecentocinquanta anni è tornato in Capricorno, Nettuno dopo centocinquanta in Pesci, Urano dopo ottanta in Toro. Urge un approccio diverso alle problematiche della Nazione. Il 2020 è una danza delle stelle incredibile. Cinque potenti pianeti seguono la nostra vita, tutti orientati verso lavoro, affari, finanza, banche, borsa, grandi multinazionali ma anche il trionfo mondiale di una singola persona. Genialità, è la parola d’ordine. Straordinario il campo della ricerca, a medicina, astrofisica (novità dal cosmo emozionanti e scioccanti). Il problema può essere anche quest’anno Nettuno visionario in Pesci, esaltato, provoca eventi di massa irrazionali, frequenti fenomeni naturali…specie nelle fasi lunari. Guerra. Ancora più difficile da gestire sarà Marte in Ariete, dove il pianeta guerriero è al massimo della forza e da luglio a dicembre sarà in contrasto con il potere del Capricorno.
La profezia sbagliata di Casaleggio sul Coronavirus e sugli sconvolgimenti del 2020. Redazione de Il Riformista il 20 Marzo 2020. “Anche la nostra generazione sta vivendo la sua guerra. Una guerra al contrario dove i medici sono in prima linea e l’esercito trasporta i feretri. Nel 2008 mio padre realizzò un filmato sul futuro della politica, lo volle intitolare Gaia. In quel video prevedeva per il 2020 grandi sconvolgimenti”. ‘Musica e parole’ di Davide Casaleggio, figlio di quel Gianroberto ideologo del Movimento 5 Stelle fondato da Beppe Grillo. L’erede al trono è intervenuto ieri con un post su Facebook sull’emergenza Coronavirus, che ha provocato solo in Italia 3405 vittime per Covid-19. Lo ha fatto nel tentativo di legare proprio quel documentario del padre alla pandemia in atto, tentando di leggere quel video come una ‘profezia’ su quanto sta accadendo da mesi a questa parte. Ma è vero? Come è facilmente riscontrabile guardando ‘Gaia’, si tratta a tutti gli effetti di una interpretazione completamente sbagliata. Verso il quinto minuto del ‘documentario’ si può infatti sentire: “2020: inizio della Terza Guerra Mondiale. Che dura 20 anni. Distruzione dei simboli dell’Occidente. Piazza San Pietro, Notre Dame de Paris, Sagrada Familia. Uso di armi batteriologiche. Accelerazione dei cambiamenti climatici. E innalzamento degli oceani. Fame. Fine dell’era dei combustibili fossici. Riduzione della popolazione mondiale a un miliardo di persone”. Di pandemie devastanti nel video non c’è traccia, si parla di una generica terza guerra mondiale tra l’Occidente e la Russia, la Cina e il Medio-Oriente, che per fortuna non si vede all’orizzonte. Nel ‘documentario’ tra l’altro si parla anche di elezioni interamente via internet e della proclamazione di Gaia, una repubblica della democrazia diretta.
La cupa profezia di Casaleggio sr. L'epidemia ha un'intelligenza politica? In senso stretto no, in senso storico sì. Nessuna peste ha lasciato un tessuto sociale come l'ha trovato. Claudio Brachino, Giovedì 19/03/2020, su Il Giornale. L'epidemia ha un'intelligenza politica? In senso stretto no, in senso storico sì. Nessuna peste ha lasciato un tessuto sociale come l'ha trovato. Da un lato sono per il rispetto assoluto delle regole che le autorità ci danno per combattere il coronavirus, all'altro guardo con sospetto la sequenza dei decreti del premier che passo dopo passo, sospendono, non cancellano per carità, la nostra già sbilenca democrazia. Tra i libri della clausura sto leggendo un bel testo sulla critica della ragion paranoica. Chiusi in casa tutto il giorno, abbiamo bisogno di attentati più che di cibo. Li annusiamo ovunque ma finisce che poi, come nel grande racconto di Poe, non vediamo che la lettera rubata è proprio in bella vista lì sul tavolo. Mettiamo allora insieme le cose. Negozi chiusi, commercio on line (non erano i grillini che volevano chiudere i negozi la domenica?). Bar e ristoranti chiusi, si ordina in casa, on line. Parlamento sostanzialmente esautorato dai decreti presidenziali. Il lavoro? Da casa, con il computer. Il narcisismo televisivo, da casa con le cuffiette tipo Amplifon. Le lezioni scolastiche? Via Skype. Chissà come faremo l'amore via Skype, forse ricorrendo alla fisica quantica e al teletrasporto dei corpi. Il lavoro, come era concepito solo qualche anno fa, nel Novecento, con la cristallizzazione marxista-hegeliana di fabbriche e operai, sembra una cartolina in cui anche il bianco si confonde con il nero. Si fermano l'industria, i commerci, gli scambi? È la de-crescita felice. Vuoi uscire di casa per fare la spesa, comprare i giornali, impedire l'esplosione della vescica del tuo cane, ti metto il telefonino sotto controllo. Il lavoro nel 2050 non ci sarà più. Non lo diceva Nostradamus, ma Casaleggio padre (nella foto). Se continuiamo così, la profezia si avvererà assai prima, a tutto vantaggio della già pronta intelligenza artificiale. Il guru economico di Conte, Gunter Pauli, si è detto felice delle conseguenze ambientali del coronavirus. L'aria è più pulita. Andate a dirlo ai parenti di quelli che muoiono per asfissia nei reparti di rianimazione degli ospedali e non possono neanche stringere la mano ai loro cari durante il trapasso. Burioni, il più autorevole degli scienziati che in questi giorni parlano pure troppo, spera che quelle affermazioni non siano vere. No, niente fake, solo diversi modi pirandelliani di approcciarsi alla respirazione. Poi c'è il 5G, la nuova tecnologia che arriva dalla Cina. Paese da cui nelle ultime ore abbiamo preso il virus e le cure mediche. Ma pare anche avveniristici cloud che danno le informazioni su interi ospedali. Primo passo del futuro orwelliano che ci aspetta, la fine della privacy. A pensare male, diceva Andreotti, non si va in Paradiso ma spesso ci si azzecca. Intanto Trump e i servizi segreti americani sono diciamo innervositi. Io poso il mio libro sui complotti e porto il cane a fare la pipì. Passa un cretino che fa running, ma niente delazione. Sono ancora un liberale.
George W. Bush, nel 2005, era ossessionato dalla pandemia: "Se aspettiamo che arrivi, sarà troppo tardi". Repubblica tv il 6 aprile 2020. In un discorso tenuto il 1 novembre del 2005 nella sede del Dipartimento della Salute e dei Servizi Umani degli Stati Uniti, l'allora presidente Usa George W. Bush metteva in guardia sulla possibile minaccia di una pandemia influenzale. "La pandemia non è come un disastro naturale - disse Bush ai presenti -. Al contrario di tempeste e alluvioni che colpiscono e poi regrediscono, una pandemia può continuare a fare disastri con ondate ripetute per un anno o anche di più". In quell'occasione il presidente americano disse anche che "nel caso si verifichi una pandemia, qualsiasi cosa dalle siringhe ai letti d'ospedale, dai ventilatori fino al materiale sanitario protettivo scarseggerebbe velocemente". Le parole di di Bush sono tornate d'attualità nei giorni dell'emergenza coronavirus, che ha colto molti Paesi del mondo - tra cui gli Usa - impreparati. I media americani raccontano la genesi di quel discorso tenuto a novembre 2005, quando i suoi collaboratori più stretti pensavano a tutt'altro, per esempio al controterrorismo: le Torri Gemelle erano state abbattute solo quattro anni prima. Nell'estate del 2005, Bush rimase colpito da un nuovo libro sull'influenza spagnola del 1918 letto mentre era in vacanza in Texas. Il presidente all'epoca stanziò 7 miliardi di dollari per organizzare la risposta a un eventuale pandemia, lanciando un sito - pandemicflu.gov - che viene tuttora utilizzato. Ma il budget necessario per tenere in piedi il piano, anno dopo anno, è diminuito così come è calata l'attenzione nei confronti del progetto.
DAGONEWS il 2 aprile 2020. A dispetto delle ripetute affermazioni del presidente Trump secondo cui l'epidemia di Covid-19 è stata "imprevedibile", il Pentagono era ben consapevole non solo della minaccia di una nuova epidemia, ma aveva persino anticipato come il Paese si sarebbe trovato di fronte a una mancanza di ventilatori, mascherine e letti d'ospedale, come si legge in un documento del 2017 pubblicato da The Nation. «La minaccia più probabile e significativa è una nuova malattia respiratoria, in particolare una nuova malattia influenzale – si legge nel documento militare datato 6 gennaio 2017 - Le infezioni da coronavirus sono comuni in tutto il mondo». Il documento, denominato "USNORTHCOM Branch Plan 3560: influenza pandemica e risposta alle malattie infettive”, è un aggiornamento a un precedente piano di risposta a un’influenza pandemica del Dipartimento della Difesa, e fa riferimento a diversi focolai recenti e in particolare alla “2012 Middle Eastern Respiratory Syndrome Coronavirus”. Denis Kaufman, che è stato a capo della divisione Malattie infettive presso la Defense Intelligence Agency dal 2014 al 2017, ha sottolineato che l'intelligence statunitense era ben consapevole dei pericoli dei coronavirus da anni: «L'intelligence mette in guardia sulla minaccia dei virus da almeno due decenni. Parlano di coronavirus da almeno cinque anni». Oltre ad anticipare la pandemia di coronavirus, il documento prevedeva con incredibile precisione molte delle carenze in campo medico: «Ci sarà una scarsità di risorse tra cui ventilatori, dispositivi di protezione individuale come mascherine e guanti, attrezzature mediche e supporto logistico. Ciò avrà un impatto significativo sulla disponibilità della forza lavoro globale». Il piano di 103 pagine fornisce una panoramica su ciò che potrebbe causare una pandemia, sulle probabili complicazioni e su come i militari potrebbero rispondere. La scorsa settimana, Trump si è scagliato contro General Motors e Ford su Twitter, chiedendo loro di produrre ventilatori. L'avvertimento su mascherine e ventilatori ora sembra quasi un segno premonitore visto che gli Usa di fronte all’emergenza si ritrovano già adesso a fare i conti con un numero insufficiente. «Anche i paesi più industrializzati non avranno letti in ospedale a sufficienza, così come attrezzature specializzate come ventilatori polmonari e farmaci per curare la popolazione durante una pandemia».
Coronavirus: le Agenzie Usa avevano previsto tutto. Piccole Note de Il Giornale il 2 aprile 2020. “Anthony S. Fauci, direttore dell’Istituto nazionale per le allergie e le malattie infettive, ha affermato che ‘non c’è dubbio’ che Donald Trump dovrà affrontare un focolaio di una malattia infettiva a sorpresa durante la sua presidenza”. Inizia così un articolo di Healio dell’11 gennaio del 2017 (fatidico 11…), che riportava quanto emerso in un convegno dell’epoca. Fauci attualmente guida la lotta contro il coronavirus in America e compare accanto a Trump nelle conferenze stampa, con il quale entra spesso in aperta polemica per la gestione della crisi (vedi Post). Nell’articolo, gli interventi di altri esperti della materia che in diversi modi confermavano l’allarme di Fauci. Un allarme che si riferiva ad alcune epidemie del passato, alle quali l’immobiliarista prestato alla politica, così definito nel testo, non era all’altezza di far fronte. Ma non solo quelle del passato. Così conclude l’articolo: “Fauci ha affermato che altre preoccupazioni riguardo l’amministrazione Trump comprendono anche una nuova potenziale pandemia influenzale e l’insorgere di malattie che non sono ancora state individuate di nessuno”. “E le cose a cui non stiamo nemmeno pensando?” ha detto ancora. “Indipendentemente da ciò, la storia ci ha detto definitivamente che [i focolai, ndr.] avverranno perché [affrontare, ndr.] le malattie infettive è una sfida continua. Non spariranno. La cosa di cui siamo straordinariamente sicuri è che vedremo accadere questo nei prossimi anni“.
Contagio cremisi. Nulla di segreto, il monito lanciato dal dottor Fauci circola sul web da tempo. Come circola anche la notizia che, dal gennaio ad agosto dello scorso anno, lo Health and Human Services (HHS ), il Department of Homeland Security (DHS), il Centers for Disease Control and Prevention (CDC) e altre Agenzie degli Stati Uniti hanno condotto delle esercitazioni per “rispondere a un’influenza pandemica a di entità severa”. Un’esercitazione su larga scala chiamata Crimson Contagion. Nel documento si legge: “35 centri operativi sono stati attivati per l’esercitazione, comprese autorità statali e centri di emergenza locali, centri sanitari pubblici e ospedali pubblici e locali, centri operativi delle organizzazioni non governative, le strutture dell’HHSS Center, il CDC Emergency Operations Center e la DHS / FEMA National Center che coordina la risposta”. Altri particolari si possono leggere nella bozza del rapporto conclusivo, strettamente riservato, che è stata ripresa anche dal New York Times, non certo un media complottista. Il NYT sintetizza le conclusioni dell’esercitazione: “il focolaio di un’epidemia causata da un virus che aggredisce le vie respiratorie, scoppiato in Cina, si è rapidamente diffuso in tutto il mondo tramite i passeggeri degli aerei, che presentano febbre con temperature corporee alte”. “Negli Stati Uniti, il virus viene scoperto per la prima volta a Chicago e, 47 giorni dopo, l’Organizzazione Mondiale della Sanità dichiara ufficialmente che si tratta di una pandemia. Ma ormai è troppo tardi: 110 milioni di americani sarebbero stati contagiati, 7,7 milioni di questi sarebbero stati ospedalizzati e 586.000 sarebbero morti”. In altra nota abbiamo accennato all’esercitazione Event 201 e a un’esercitazione similare, ambedue svolte a ottobre 2019, per simulare la risposta a una pandemia (Piccolenote). Come si vede, gli Stati Uniti avevano previsto con estrema accuratezza quanto sta avvenendo; anche l’origine della pandemia in Cina, nonostante le ultime due pandemie siano nate altrove. Infatti, dopo la Sars del 2003, c’è stata la cosiddetta sindrome influenzale suina – nata negli Usa nel 1976 presso la base militare Usa di Fort Dix -, dichiarata pandemia nel 2009, partita dal Messico; quindi è stata la volta della Mers, o sindrome influenzale mediorientale, iniziata in Egitto nel 2012.
La pandemia e Trump. Tra le tante domande che tutto ciò pone, una alquanto ingenua: possibile che a fronte di tanta accurata preveggenza negli Usa si registri una risposta tanto confusa alla pandemia? Certo, Trump non è un esperto in materia. Ma possibile che le varie Agenzie americane si siano fatte sorprendere addirittura senza mascherine e ventilatori? E neanche lo straccio di un piano di quarantena, nonostante a novembre, anche qui prima della pandemia, abbiano lanciato bandi di assunzione per esperti in quarantena? Eppure hanno Agenzie specifiche, come quelle coinvolte nel Crimson Contagion, che vantano cospicui finanziamenti pubblici. Evidentemente tali Agenzie hanno fatto ben poco al riguardo, come poco o nulla sembra stiano facendo ora: nessun coordinamento, ogni Stato e ospedale va per conto suo, con Trump che naviga a vista...Una tragedia immane, che ha investito non solo l’America, ma anche il presidente, totalmente spiazzato da quanto sta accadendo. Evidentemente nessuno gli ha spiegato con esattezza quanto si preparava. Non gli ha giovato l’avversione del Deep State, per il quale egli è un pericoloso intruso, il quale ha fornito ai suoi avversari politici armi di distruzione di massa per distruggerlo, prima con il Russiagate poi con l’Ucrainagate, che quasi gli costava l’impeachment. Non abbiamo citato a caso tali precedenti: Adam Schiff, il repubblicano a capo della commissione intelligence della Camera, che ha avuto un ruolo importante nell Russiagate (suscitando le ire di Trump), ha già prefigurato una Commissione d’inchiesta sulla pandemia, che ha paragonato a Pearl Harbor e all’11 settembre (a volte ritornano: quando il coronavirus flagellava la Cina, era definito l’11 settembre di Pechino…). Anche se Trump sopravviverà alla pandemia, non avrà vita facile. Resta la tragedia, simbolizzata dall’Empire State Building acceso di rosso sangue e lampeggiante allarme. Messaggio nefasto infisso nel cuore pulsante della città-simbolo dell’Impero.
Coronavirus, rapporti di intelligence: "Il governo italiano sapeva tutto ma non ha agito, ha sottovalutato il problema". Libero Quotidiano il 19 marzo 2020. Fox News sgancia la bomba in un lungo articolo dedicato all’emergenza coronavirus che ha travolto l’Italia e che si sta allargando a tutto il mondo. Il sito americano sostiene che il governo presieduto da Giuseppe Conte era stato avvertito del rischio di pandemia con largo anticipo: all’esecutivo italiano sarebbero stati inviati alcuni rapporti di intelligence poco dopo che l’emergenza è esplosa in Cina, ma la questione sarebbe stata sottovalutata. E di ciò se ne è avuta ampia conferma dalle azioni del governo, che ha prima sminuito il pericolo e poi è corso ai ripari chiudendo tutto dinanzi alla gravità del contagio. La fonte che Fox News cita è un esperto di sicurezza che fa base a Roma e che ovviamente ha chiesto di mantenere l’anonimato perché non autorizzato a parlare in pubblico della questione. L’idea dell’Italia era che il coronavirus fosse un problema cinese e che non sarebbe arrivato fin qui, per questo motivo sono passate settimane prima che a Roma prendessero in considerazione gli adeguati provvedimenti.
Coronavirus, per gli americani l’intelligence avvertì il governo italiano dei rischi. Redazione de Il Riformista il 19 Marzo 2020. Tra le mille teorie che circolano in questi giorni sul coronavirus e il diffondersi dell’epidemia dagli Stati Uniti arriva una nuova ipotesi: il Governo italiano sarebbe stato avvertito da alcuni rapporti dell’intelligence americana sul rischio imminente di pandemia. Il fatto sarebbe avvenuto poco prima che l’emergenza esplodesse in Cina ma la questione sarebbe stata allora ampiamente sottovalutata. Lo ha annunciato Fox News sul suo sito. L’emittente, vicina alla Casa Bianca, cita un “esperto di sicurezza che fa base a Roma” che ha chiesto di mantenere l’anonimato, perché “non autorizzato a parlare in pubblico” della questione. “rapporti di intelligence allertarono il governo della potenziale pandemia pochi giorni dopo che questa si infiltrò in Cina alla fine dello scorso anno. Ma passarono settimane prima che qualsiasi azione seria venne presa a Roma”. Secondo la fonte citata da Fox News, l’idea generale era “che era un problema cinese, che non sarebbe arrivato qui”. Ma fonti di Intelligence italiane hanno smentito l’ipotesi all’Adnkronos “dicono categoricamente di non avere mai ricevuto dai colleghi dell’intelligence statunitense alcuna notizia sulla potenziale pandemia originata in Cina alla fine dello scorso anno”.
Coronavirus, la Germania aveva già simulato la pandemia nel 2012. Le Iene News il 20 marzo 2020. Il documento dell’Istituto Robert Koch, che nel 2012 simulava l'arrivo di “un coronavirus partito in Asia da animali selvatici e che in Germania, in tre anni, ucciderà 7 milioni di persone”. “Arriverà un virus nato da un agente patogeno, il Modi-Sars, sviluppatosi in Asia negli animali selvatici e che dopo aver fatto il salto di specie aggredirà l’uomo”. Proprio quello che sta accadendo nel mondo da tre mesi con la pandemia da coronavirus: peccato che questa non sia la strana previsione di un qualche affabulatore, ma sia contenuta in documento riservato scritto in Germania nel 2012 e consegnato al Bunderstag (il parlamento tedesco) il 3 gennaio 2013. Lo ha scoperto la giornalista tedesca Kristina Dunz, cronista del Rheinische Post. A leggere il documento n° 17/12051, una simulazione redatta dal Robert Koch Institute (un istituto pubblico del ministero della Salute tedesco) per conto del Parlamento di Berlino, vengono letteralmente i brividi. Il virus, spiega la simulazione, parte da alcuni mercati in Asia saltando dagli animali selvatici all’uomo. Occorrono settimane perché ci si renda conto della pericolosità dell’agente patogeno, che ha un periodo di incubazione dai 2 ai 14 giorni. La trasmissione avviene attraverso goccioline e macchie e i sintomi più comuni sono febbre, tosse secca, respiro corto, brividi, mal di testa. Se nei contagiati più giovani il virus passerà abbastanza velocemente, saranno gli anziani a subire le conseguenze più gravi, con una letalità del 50% negli over 65. Una volta arrivato in Germania, il Modi-Sars, che ha una probabilità di verificarsi ogni 100-1000 anni, sconvolgerà letteralmente la vita quotidiana: scuole e negozi chiusi, persone in isolamento e quarantena, restrizioni su viaggi aerei e trasporti. Il virus asiatico, simile al Corona-Sars, e per il quale non ci sarebbe vaccino, potrebbe durare tre anni e con un tasso di mortalità del 10% porterebbe alla morte almeno 7,5 milioni di tedeschi, anche a causa della carenza di personale medico e cure adeguate. Una morte per contagio che, dal momento del ricovero, arriverebbe in una media di 28 giorni. Le aree principalmente colpite sarebbero l’Asia, il Nord America e l’Europa. Il Robert Koch Institute, dopo che il documento è stato reso noto dalla giornalista tedesca, si è affrettato a rispondere che “non era una previsione dello sviluppo e degli effetti di un evento pandemico, ma uno scenario massimo innescato da un agente patogeno fittizio”. Di qualunque cosa si sia trattato, è un documento che ricorda molto il coronavirus che sta stravolgendo le nostre vite. A distanza di 7 anni da quando è stato scritto.
IN GERMANIA AVEVANO PREVISTO TUTTO NEL 2012. it.finance.yahoo.com il 20 marzo 2020. Si chiama Modi-Sars 2012 e non è altro che una simulazione che, in maniera inquietante, otto anni fa aveva previsto l’attuale pandemia da coronavirus. Lo studio, commissionato dal governo tedesco al Roberto Koch Institut, sarebbe servito alla Germania per farsi trovare pronta con misure e restrizioni in caso di una nuova emergenza sanitaria capace di mettere in ginocchio l’intero paese. Lo studio, custodito tra gli archivi del Bundestag, è stato scovato dalla giornalista del Rheinische Post Kristina Dunz che ha svelato lo scenario ipotizzato dai tedeschi. Una nuova malattia, chiamata per l’appunto Modi-Sars 2012, si sarebbe sviluppata tra i mercati di animali selvatici in Asia e, come successo per il Covid-19, si sarebbe poi trasferita agli esseri umani in maniera aggressiva. Il periodo d’incubazione varierebbe dai 3-5 giorni ai 2-14 giorni con contagio possibile per goccioline o per contatto. I sintomi ipotizzati erano febbre, tosse secca, difficoltà respiratorie, tremori, mal di testa, con bambini e giovani che avrebbero superato relativamente presto l’infezione, mentre per gli anziani erano state ipotizzate pochissime chance di sopravvivenza. Nei giorni della crisi mondiali a causa della pandemia, leggere lo studio ipotizzato dal Robert Koch Institut fa rabbrividire, con uno scenario ipotizzato di una durata dell’epidemia di quasi tre anni e una stima di mortalità del 10% dei contagiati, cioè più di 7 milioni di morti. Tra le misure consigliate al governo c’è l’isolamento e la quarantena per i malati, chiusura delle scuole, cancellazione di ogni tipo di evento pubblico, forti limitazioni alla circolazione delle persone all’aria aperta, proprio come accade in questi giorni. ”Nello scenario Modi-Sars 2012 non si trattava di una predizione sullo sviluppo e sulle conseguenze di una pandemia, ma di uno scenario estremo scatenato da un immaginario agente patogeno, per illustrare i danni teorici possibili di una malattia che si può trasmettere da un essere umano a un altro”, dice Susanne Glasmacher, portavoce del Koch Institut. Il direttore dell’istituto, Lothar Wieler, ha successivamente avvertito la Germania: “Se le misure restrittive di protezione annunciate dal governo non verranno rispettate alla lettera, in due o tre mesi si potrebbero avere dieci milioni di contagi”.
I sintomi, la pandemia e le misure dei governi: uno studio tedesco aveva previsto tutto 8 anni fa. Pubblicato giovedì, 19 marzo 2020 su Corriere.it da Paolo Valentino. Nel 2012, sull’onda dell’epidemia mondiale di Sars, il governo tedesco commissionò al Robert Koch Institut e a esperti del ministero della Sanità una simulazione sull’eventuale diffusione di una devastante pandemia in Germania. Il risultato fu un’analisi di rischio estremo molto dettagliata, comprensiva delle misure che sarebbero state necessarie per proteggere la popolazione e cercare di arginare la diffusione del contagio. Lo studio, custodito negli archivi del Bundestag e scovato da Kristina Dunz, giornalista della Rheinische Post, anticipa in modo impressionante quello che è successo e sta succedendo con il Covid-19. Il virus immaginato nello scenario ha infatti origine in Asia, dove dai mercati di animali selvatici fa il salto sugli esseri umani, ma il pericolo e la sua dimensione vengono realizzati soltanto diverse settimane dopo. Il periodo di incubazione è da 3 a 5 giorni, ma può cambiare in uno spazio compreso da 2 a 14 giorni. Il contagio avviene per goccioline o per contatto. I sintomi sono febbre, tosse secca, difficoltà respiratorie, tremori, mal di testa. Bambini e giovani superano relativamente presto l’infezione, ma gli anziani hanno pochissime chance di sopravvivenza. Le misure imposte dal governo sono massicce: isolamento e quarantena per i malati, chiusura delle scuole, cancellazione di ogni tipo di evento pubblico, forti limitazioni alla circolazione delle persone all’aria aperta. La domanda posta dalla rivelazione è inevitabile: nonostante avesse a disposizione un’analisi di rischio così approfondita, il governo tedesco ha sottovalutato l’epidemia di Covid-19? Gli esperti del Robert Koch Institut ammettono le similarità tra la simulazione e l’attuale crisi, ma contestano che la situazione virtuale e quella reale siano paragonabili: «Nello scenario Modi-Sars 2012 non si trattava di una predizione sullo sviluppo e sulle conseguenze di una pandemia, ma di uno scenario estremo scatenato da un immaginario agente patogeno, per illustrare i danni teorici possibili di una malattia che si può trasmettere da un essere umano a un altro», dice Susanne Glasmacher, portavoce del Koch Institut. Eppure, la lettura del documento rimane scioccante. Lo scenario dell’Apocalisse immagina anche una durata dell’epidemia di quasi tre anni e stima una quota di mortalità pari al 10% dei contagiati, cioè più di 7 milioni di morti come diretta conseguenza dell’infezione. La realtà vede il direttore dello stesso istituto, Lothar Wieler, ammettere che se le misure restrittive di protezione annunciate dal governo non verranno rispettate alla lettera, la Germania «in due o tre mesi potrebbe avere dieci milioni di contagi». Differenza importante, la percentuale di mortalità per fortuna rimane al momento bassissima: fino si sono registrati infatti “solo” 30 decessi. Che ci sia stata una certa iniziale sottovalutazione, ma non solo in Germania, lo ha ammesso anche la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen. Nella Repubblica federale, il problema è stato aggravato dalle complessità del sistema federale, totem della democrazia tedesca in ragione della sua Storia, che impedisce una gestione centralizzata delle crisi. Eppure, anche un deputato di opposizione, il liberale Andrew Ullmann, che è anche professore di Epidemiologia a Wuerzburg, dà al governo tedesco il beneficio del dubbio: «Anche i più grandi esperti hanno sottovalutato all’inizio la dinamica del virus, anch’io ho pensato che bastassero alcune misure regionali come la chiusura degli asili. Chi punta il dito sul governo, deve farlo anche contro se stesso: in casi simili non c’è una risposta modello già tutta prefigurata, anche se nel 2012 è stata fatta una simulazione accademica».
Edoardo Bennato canta il coronavirus. Il rocker riarrangia la sua canzone del 1974. E sembra una profezia. Ilaria Urbani su Repubblica Tv il 12 marzo 2020. “Una di notte, c’è il coprifuoco, pensare che all’inizio sembrava quasi un gioco”. Ecco il blues di Edoardo Bennato per l’emergenza coronavirus. Il cantautore napoletano con il suo inconfondibile sound e la sua ironia di sempre fa un appello carico di senso civile e riarrangia da casa la sua canzone “Bravi ragazzi” dall’album del 1974 “I buoni e i cattivi”. Bennato incalza: “Fate i bravi ragazzi”. “Ora non c’è più tempo per pensare, tutti chiusi dentro ad aspettare. Ognuno ha avuto le sue razioni, poveri e ricchi, cattivi e buoni. Ognuno ha fatto le sue preghiere, ora si tratta solo di aspettare. Bravi su! bravi ragazzi, ma non è il caso di agitarsi. Bravi su, fate i bravi ragazzi, vedrete poi che sistemeremo tutto”. La canzone, di quasi mezzo secolo fa, voce, chitarra e armonica, sembra essere stata scritta oggi per l’epidemia globale, appare come una profezia. “Per fronteggiare la situazione - canta Bennato - c’è stato un programma alla televisione, hanno parlato tutti gli avvocati, di tutte le bandiere, di tutti i partiti. Ed è stato davvero commovente, vedere tutti i grandi sacrificare le proprie idee in nome della gente. Poi hanno dato severe istruzioni, di stare calmi, di stare buoni. Buoni su! buoni ragazzi, ma non è il caso di agitarsi. Bravi su, fate i bravi ragazzi, vedrete che poi, poi sistemeremo tutto”.
La profezia di 16 anni fa: nel 2020 comparirà un virus che poi sparirà improvvisamente. Roberta Caiano de Il Riformista il 9 Marzo 2020. “Entro il 2020 diventerà di prassi indossare in pubblico mascherine chirurgiche e guanti di gomma, a causa di un’epidemia di una grave malattia simile alla polmonite, che attaccherà sia i polmoni sia i canali bronchiali e che sarà refrattaria a ogni tipo di cura. Tale patologia sarà particolarmente sconcertante perché, dopo aver provocato un inverno di panico assoluto, sembrerà scomparire completamente per altri dieci anni, rendendo ancora più difficile scoprire la sua causa e la sua cura”. Per quanto possa sembrare una raccolta di testimonianze di questi giorni in cui imperversa l’emergenza del coronavirus in Italia e nel mondo, in realtà queste parole sono state scritte in un libro 16 anni fa. “Profezie. Che cosa ci riserva il futuro” è un testo di Sylvia Browne e Lindsay Harrison pubblicato nel 2004. La sensitiva Sylvia Browne è famosa in quanto rilegge le predizioni, spesso contraddittorie o poco chiare, che nel corso della storia sono state fatte dai veggenti più celebri. La Browne si occupa di spiegare come fanno i profeti a conoscere il futuro e come smascherare i ciarlatani, ma soprattutto risponde a tanti interrogativi sul destino dell’umanità toccando argomenti fondamentali, dallo sviluppo tecnologico alle sorti dell’ambiente, dalla cura per molte malattie alla pace nel mondo, fino all’evoluzione sociale, economica e politica. Tra questi spicca sicuramente il nome di Nostradamus, ma fa riferimento anche ai profeti biblici, George Washington fino agli scienziati della Nasa.
IL LIBRO – In questo libro, l’autrice affronta i temi più caldi rispondendo a tanti dubbi e domande che spopolano tra le persone. Gli umani si sono preoccupati a lungo per la fine della civiltà, ma ora più che mai tra la gente aleggia il sentimento dell’ansia e del timore di quello che succederà. Come se non poter prevedere il futuro porti ad una sorta di isteria e psicosi collettiva. Le guerre di religione, il terrorismo globale, le pandemie e il genocidio hanno contribuito a inaugurare così l’era dell’ansia. Tra le tante cose riportate nel libro, in un momento storico come quello che stiamo vivendo per l’epidemia del covid-19 spicca la predizione del Coronavirus.
Una famosa sensitiva americana predisse nel 2004 l’epidemia di Coronavirus. E con precisione sconcertante. Chiara Volpi giovedì 12 marzo 2020 su Il Secolo d'Italia. Il coronavirus è un mostro sconosciuto. Epidemiologi e virologi. Scienziati e medici, lo stanno studiando. Monitorando e combattendo. Eppure continuano a piovere sul web stralci di libri. Strisce di fumetti. Addirittura copioni di film che evocano lo scenario al limite del fantascientifico che tutti noi stiamo vivendo in questi giorni di pandemia. Di angoscia da contagio. Di paura per quanto ci sta accadendo intorno. Di incertezza su quello che sarà lo scenario a epidemia scongiurata del tutto. Un senso di smarrimento penetrato fin nei gangli connettivali. Che ci disorienta e ci lascia senza risposte. Un senso di smarrimento su cui si innesta anche un ennesimo, inquietante interrogativo: com’è possibile che qualunque lo abbia previsto con 20 anni o anche più di anticipo? E con una coincidenza di indicazioni e descrizioni da lasciare a bocca aperta? Ricordiamo quanto rimarcato ovunque nelle ultime settimane già ovunque. Ossia che, già nel 1981, Dean Koontz, autore di bestseller, firmò il romanzo Eyes of Darkness, forte di una moda letteraria in quegli anni assai in voga come quella incentrata su profezie e preveggenza. Un sentiero editoriale battuto anche da un’altra scrittrice, nota negli Stati Uniti come autrice, veggente e medium: Sylvia Browne. La quale, nel 2004, firma il volume dal titolo End of a days. Certo l’elenco di libri che, più o meno fantasiosamente, anticipano virus letali e pandemie spaventose è ben più lungo e vario. Ma nel caso del testo della Browne le coincidenze sono davvero incredibili. «Entro il 2020 gireremo con mascherine e guanti per via di un’epidemia di polmonite», scrive l’autrice. Poi, a circa 200 pagine dall’inizio, aggiunge: «Entro il 2020 diventerà prassi indossare in pubblico mascherine chirurgiche e guanti di gomma. Tutto a causa di un’epidemia di una grave malattia simile alla polmonite, che attaccherà sia i polmoni, sia i canali bronchiali. E che sarà refrattaria a ogni tipo di cura». E poco più avanti leggiamo: «Tale patologia sarà particolarmente sconcertante perché, dopo aver provocato un inverno di panico assoluto, quasi in maniera più sconcertante della malattia stessa, improvvisamente svanirà. Con la stessa velocità con cui è arrivata, poi, tornerà all’attacco nuovamente. Dopo dieci anni. E poi scomparirà completamente»…Insomma, se l’apripista è stato il thriller di Dean Koontz, The eyes of darkness, in cui l’autore ipotizzava il virus “Wuhan-400” che avrebbe creato nel 2020 una grave polmonite, anche la profezia precisa e articolata nel dettaglio come quella di Sylvia Browne sorprende e inquieta. E poco importa che la scrittrice sia una donna assai popolare e seguita oltreoceano. O, di contro, possa essere considerata una figura controversa, alle presa con studi e teorie discusse nel campo del paranormale. Resta il fatto che questa donna, che come scrive oggi il Fatto Quotidiano, «ha scritto decine di libri (molti di questi tradotti in Italia da Mondadori) sulle sue doti medianiche. Doti che si erano palesate fin da quando era bambina», è entrata nel dettaglio rivelando con 16 anni di anticipo quanto oggi è a noi che lo stiamo vivendo, ancora molto oscuro…
La minaccia della pandemia globale: spunta un rapporto "profetico". Un rapporto del Global Preparedness Monitoring Board (Gpmb), datato settembre 2019, parlava già di un'imminente pandemia globale, mesi prima che l'epidemia di coronavirus emerse per la prima volta a Whuan. Roberto Vivaldelli, Lunedì 09/03/2020, su Il Giornale. "Il mondo sa che sta arrivando una pandemia apocalittica. Ma nessuno è interessato a fare qualcosa al riguardo". Un titolo da brividi, letto oggi, eppure è proprio ciò che ha pubblicato la rivista Foreign Policy lo scorso 20 settembre 2019, ben prima che in Cina scoppiasse l'emergenza coronavirus. Nel pezzo di Foreign Policy si citava "un rapporto indipendente redatto su richiesta del segretario generale delle Nazioni Unite" che, in tempi non sospetti, parlava dell'esistenza della minaccia "reale" di una "pandemia" che avrebbe ucciso fino a 80 milioni di persone, spazzando via quasi il 5% dell'economia globale. Non sembra al momento che il coronavirus - fortunatamente - per quanto pericoloso e contagioso, e assolutamente da non sottovalutare, sia così letale. Ma quel rapporto citato dall'autorevole rivista americana oggi suona tristemente profetico. Un rapporto, spiega Foreign Policy, realizzato da un gruppo indipendente, il Global Preparedness Monitoring Board (Gpmb), riunitosi nel 2018 su richiesta dell'ufficio del segretario generale delle Nazioni Unite e convocato congiuntamente dalla Banca mondiale e dall'Organizzazione mondiale della sanità. Copresieduto dall'ex capo dell'Oms e dall'ex primo ministro norvegese Gro Harlem Brundtland e dal capo della Croce Rossa internazionale, Elhadj As Sy, il Gpmb parlava dei rischi di un'imminente pandemia globale e di come il mondo fosse completamente impreparato a uno scenario di questo tipo. "La preparazione è ostacolata dalla mancanza di una volontà politica costante a tutti i livelli", spiega il rapporto. "Sebbene i leader nazionali rispondano alle crisi sanitarie quando la paura e il panico crescono, la maggior parte dei Paesi non dedica l'energia e le risorse costanti necessarie per evitare che i focolai si trasformino in disastri". Come spiega la ricercatrice del Council on Foreign Relations Laurie Garrett su Foreign Policy, senza sminuire il lavoro del Gpmb, "devo purtroppo sottolineare che questo messaggio chiave è stato lanciato molte volte, con scarso successo, ai leader politici, imprese finanziarie o istituzioni multinazionali. Non c'è motivo di pensare che questa volta sarà diverso". Tra il 2011 e il 2018, sottolinea il rapporto, l'Oms ha monitorato 1483 eventi epidemici in 172 paesi. "Malattie a tendenza epidemica come influenza, sindrome respiratoria acuta grave (Sars), sindrome respiratoria del Medio Oriente (Mers), Ebola, Zika, peste, febbre gialla e altre, sono testimoni di una nuova era di forte impatto, potenzialmente in rapida diffusione con focolai sempre più frequentemente rilevati e sempre più difficili da gestire". Lo stesso rapporto, mesi prima che l'epidemia di coronavirus emerse per la prima volta a Whuan, in Cina, (dicembre 2019), metteva in guardia i leader mondiali del fatto che gli agenti patogeni delle vie respiratorie, "come un ceppo particolarmente letale dell'influenza", pongono rischi globali nell'età moderna e della globalizzazione. "I patogeni - si legge -si diffondono attraverso goccioline respiratorie; possono infettare un gran numero di persone molto rapidamente e, con le infrastrutture di trasporto odierne, possono spostarsi rapidamente su più aree geografiche". Inoltre, i costi di contenimento per fronteggiare una nuova pandemia globale, insieme all'impatto economico generale, sono notevolmente cresciuti. L'epidemia di Sars del 2003 ha richiesto un bilancio di circa 40 miliardi di dollari sull'economia globale, l'epidemia di influenza suina del 2009 ha raggiunto circa 50 miliardi di dollari e l'epidemia di Ebola dell'Africa occidentale del 2014-16 è costata quasi 53 miliardi di dollari. Una pandemia dovuta a un'influenza affine all'influenza del 1918 oggi costerebbe all'economia mondiale 3 trilioni di dollari, ovvero fino al 4,8% del prodotto interno lordo globale (Pil).
Agnese Codignola per “il Sole 24 Ore” il 17 marzo 2020. «Ci troviamo di fronte a due sfide mortali, nel breve e nel lungo periodo. Nel breve: dobbiamo fare tutto ciò che possiamo con intelligenza, calma e impegno assoluto di ogni risorsa per contenere e poi eliminare questa epidemia di nCov-2019 prima che diventi, come può accadere, una pandemia globale devastante. Nel lungo: quando la polvere si sarà posata, dobbiamo ricordare che nCOv-2019 non è stato un accidente o una sfortuna capitata per caso. È stato - ed è - una componente di una serie di scelte che abbiamo fatto noi umani». Così scriveva il 28 gennaio, sul New York Times, David Quammen, autore di "Spillover" (pubblicato in Italia da Adelphi), il libro che nel 2012 ha raccontato al mondo che perché era necessario prepararsi alla pandemia che sarebbe arrivata. Quammen si è così unito ai molti che, da più fronti della ricerca, dell' ambientalismo e di enti internazionali, stanno ripetendo tutti lo stesso mantra: quando avremo superato la fase critica, bisognerà cambiare radicalmente l' abitudine, molto radicata in diversi Paesi asiatici e non solo, di cacciare, commerciare, macellare, vendere, cucinare e mangiare animali selvatici. Perché essi spesso sono depositari di virus che possono mutare fino a contagiare l' uomo, che ospitano a causa del continuo restringimento del loro habitat, che li fa entrare in contatto con altre specie. È stato così per tutte le peggiori epidemie degli ultimi anni: da Ebola a Nipah, dall' HIV alle aviarie. È stato così per la SARS, il cui animale serbatoio era uno zibetto, per la MERS, che ancora infetta uomini e cammelli nella penisola arabica. Ed è stato probabilmente così anche per Covid-19, forse trasmesso dai pangolini, in una vicenda a dir poco emblematica. I pangolini sono infatti al primo posto nell' elenco delle specie più minacciate di estinzione, e sono protetti dalla convenzione CITES dal 2016 in tutto il mondo. Eppure in Cina il commercio ha continuato a essere florido: tra il 2000 e il 2013 ne sono stati venduti più di un milione, tra il 2016 e il 2019 ne sono state intercettate sul mercato illegale 206 tonnellate, e nello scorso dicembre altre 10 tonnellate nella provincia di Zhejiang. Perché il pangolino, in Cina, è considerato una prelibatezza da ricchi, ed è anche utilizzato da migliaia di anni nella medicina tradizionale. L' ipotesi - non ancora confermata - è che sia stato lui a fare da tramite tra i pipistrelli-serbatoio del Covid-19 e l' uomo, e che il passaggio fatale sia avvenuto proprio durante la vendita illegale, ma tollerata al mercato di Wuhan: l' ennesimo caso di spillover nato per motivi alimentari. Da qui la richiesta, al governo cinese, di cambiare tutto. E così, dopo alcune timide norme che "sospendevano" il commercio di animali selvatici, il 12 febbraio il Partito ha varato una legge severa che comprende anche il settore, fiorente, dei ristoranti specializzati (ma non quello della medicina tradizionale). Se davvero si riuscisse a intaccare l' idea che gli animali selvatici (tra i quali rientrano, per esempio, gli squali uccisi solo per le pinne con cui fare una zuppa) sono alimenti elitari, ciò potrebbe costituire un esempio per altri Paesi dell' area, dalla Thailandia al Vietnam. Paesi dove, come in Cina, le abitudini alimentari, per quanto diverse, prevedono spesso animali non allevati e macellati sul posto come in Cina. Nel menu dei cosiddetti wet market di Paesi dove vivono miliardi di persone rientrano pipistrelli e altri roditori, piccoli mammiferi come appunto lo zibetto e il pangolino o lo scoiattolo, pesci vivi, coccodrilli, salamandre, insetti, pezzi di animali quali le tigri e chi più ne ha più ne metta. Ciò spiega perché le epidemie si stiano moltiplicando e perché la situazione non potrà che peggiorare. Eppure è stato tutto previsto, periodicamente, da anni. In un documento del 2018 si legge, nella lista delle otto malattie che verranno, su cui concentrare il massimo degli sforzi, accanto a SARS e MERS, anche un nuovo coronavirus altamente patogeno. E poi si parla così della malattia X: «Sarà causata da un virus animale ed emergerà in qualche parte nel mondo in cui lo sviluppo economico e l' aumento di popolazione spingono sempre di più le persone e gli animali selvatici a incontrarsi. Probabilmente, all' inizio sarà confusa con altre malattie note, e per questo si diffonderà in fretta, e silenziosamente. Sfruttando lo scambio di persone e di merci nel pianeta, raggiungerà moltissimi Paesi e renderà vani i tentativi di contenimento. La malattia X avrà tassi di mortalità superiori a quelli dell' influenza stagionale, e si diffonderà con la stessa facilità. Avrà gravi conseguenze economiche ancor prima di diventare una pandemia». A tracciare questo sinistro ritratto era l' Oms, che attraverso il suo comitato R&D Blueprint avvisava il mondo. Uno dei suoi membri, Peter Daszak, presidente di EcoHealth Alliance, in un editoriale sul New York Times del 27 febbraio, intitolato «Sapevamo che la malattia X sarebbe arrivata. Eccola, adesso» conclude che bisogna cambiare tutto, nel sistema della progettazione di farmaci e vaccini. Ma, soprattutto, bisogna agire su abitudini quali quelle dei wet market e nella sorveglianza sulle infezioni che originano da essi e da allevamenti non controllati. Perché «le pandemie sono come gli attentati terroristici. Sappiamo da dove hanno origine e chi sono i responsabili, ma non quando e dove sarà il prossimo attentato. Non possiamo quindi che prestare la massima attenzione a tutti gli indizi, e cercare di smantellare ogni possibile fonte prima che sferri il suo attacco».
“Spillover”, la peste diffusa. Il libro di David Quammen che anticipava il Coronavirus, è la bibbia del momento. Carlo Franza il 5 aprile 2020 su Il Giornale. “Spillover. L’evoluzione delle pandemie” è il titolo del libro del momento, il libro che tutti dovrebbero leggere, balzato in pochissimo tempo in cima alle classifiche dei libri più venduti e che oggi tiene compagnia a tantissime persone in queste lunghe giornate di reclusione forzata. Nel libro, pubblicato la prima volta nel 2012 ed edito in Italia da Adelphi nel 2014, l’autore, lo statunitense David Quammen, aveva infatti previsto con qualche anno di anticipo la pandemia globale che oggi attanaglia il mondo intero, mettendo in guardia rispetto ai concreti rischi di un “next Big One” e spiegando con tali parole il termine “Spillover” che dà il nome al suo libro: “Non vengono da un altro pianeta e non nascono dal nulla. I responsabili della prossima pandemia sono già tra noi, sono virus che oggi colpiscono gli animali ma che potrebbero da un momento all’altro fare un salto di specie – uno spillover in gergo tecnico – e colpire anche gli esseri umani”. Il vocabolo scientifico vuol dire salto, traboccamento, fuoriuscita, diffusione, espansione, ricaduta, con il quale si indica che tale processo di transizione di specie del virus è “zoonosi”, ossia malattia infettiva trasmessa dall’animale all’uomo e il suo primo responsabile, e secondo l’autore di Spillover, sarebbe l’uomo stesso. Intervistato recentemente dal New York Times, Quammen ha infatti puntato il dito proprio contro l’uomo, a suo parere il principale imputato dell’attuale pandemia globale: “Siamo stati noi a generare l’epidemia di Coronavirus. Potrebbe essere iniziata da un pipistrello in una grotta, ma è stata l’attività umana a scatenarla”. L’uomo sarebbe dunque colpevole –secondo il giornalista statunitense in linea con la ben nota vulgata ecologista– di aver con la sua azione manomesso e alterato il delicato equilibrio naturale, favorendo così il diffondersi di virus ed epidemie. Una tesi chiaramente espressa in una sezione del suo libro intitolata “Tutto ha un’origine”, nella quale l’autore spiega come l’opera di distruzione dell’uomo della biodiversità e il suo agire all’interno dell’ambiente abbiano creato le condizioni per la comparsa di nuovi pericolosi virus. In un’intervista a Stella Levantesi per Il Manifesto lo scrittore ha detto: “Sì, è così. Molti dei virus che hanno causato le zoonosi negli ultimi 60 anni hanno trovato il loro ospite nei pipistrelli. Sono mammiferi come noi e i virus che si adattano a loro hanno più probabilità di adattarsi a noi rispetto a un virus che è in un rettile o in una pianta, per esempio. La seconda ragione è che i pipistrelli rappresentano un quarto di tutte le specie di mammiferi sul pianeta, il 25%. È naturale, quindi, che sembrino sovra rappresentati come fonti di virus per l’uomo. Ci sono un altro paio di cose oltre a questo che rendono i pipistrelli ospiti più probabili, vivono a lungo e tendono a rintanarsi in enormi aggregazioni. In una grotta, potrebbero esserci anche 60.000 pipistrelli e questa è una circostanza favorevole per far circolare i virus. C’è un’altra cosa che gli scienziati hanno scoperto da poco: il sistema immunitario dei pipistrelli è più tollerante ad «estraneità» presenti nel loro organismo rispetto ad altri sistemi immunitari”. Le tesi di Quammen sono state prontamente riprese anche nell’ultimo report di WWF Italia intitolato “Pandemie, l’effetto boomerang della distruzione degli ecosistemi-Tutelare la salute umana conservando la biodiversità” , in cui si spiega come all’origine della diffusione di epidemie e pandemie come quella che stiamo vivendo vi sia l’opera di distruzione dell’ambiente naturale portata avanti dall’uomo. “Molte delle cosiddette malattie emergenti – come Ebola, AIDS, SAR S, influenza aviaria, influenza suina e oggi il nuovo coronavirus (SARS-CoV-2 definito in precedenza come COVID-19) – si legge a tale proposito nell’introduzione del report del WWF – non sono eventi catastrofici casuali, ma la conseguenza del nostro impatto sugli ecosistemi naturali. L’uomo con le proprie attività ha alterato in maniera significativa i tre quarti delle terre emerse e i due terzi degli oceani, modificando a tal punto il Pianeta da determinare la nascita di una nuova epoca denominata “Antropocene” ”. Il report dell’associazione ambientalista italiana cita nuovamente David Quammen, sottolineando come il diffondersi delle odierne pandemie sia la diretta conseguenza di un cocktail micidiale derivante dall’azione umana sull’ecosistema in un contesto di società globalizzata che vede l’uomo trasportare inconsapevolmente tali virus da capo all’altro della terra: “quando noi umani interferiamo con i diversi ecosistemi, quando abbattiamo gli alberi e deforestiamo, scaviamo pozzi e miniere, catturiamo animali, li uccidiamo o li catturiamo vivi per venderli in un mercato, disturbiamo questi ecosistemi e scateniamo nuovi virus. Poi siamo così tanti -7,7 miliardi di esseri umani sul pianeta che volano in aereo in ogni direzione, trasportano cibo e altri materiali -e se questi virus si evolvono in modo da potersi trasmettere da un essere umano all’altro, allora hanno vinto la lotteria. Questa è la causa alla radice dello spillover, del problema delle zoonosi che diventano pandemie globali”. Ecco cosa dice David Quammet: “Quando gli alberi cadono e gli animali nativi vengono massacrati, i germi che lì erano contenuti volano come polvere da un magazzino demolito. Li stiamo rimuovendo dai loro limiti ecologici naturali, luoghi in cui non erano molto abbondanti e subivano una feroce concorrenza, anche all’interno di un singolo animale. Li introduciamo invece in un nuovo ricco habitat chiamato popolazione umana, dove possono prosperare in gran numero”. Le tesi di David Quammen sono senza dubbio interessanti e il libro ha il pregio, oltre a quello di aver “profetizzato” l’attuale scenario di pandemia globale, di spiegare argomenti complicati e complessi con un linguaggio chiaro e avvincente. Esplicito -e sconvolgente- il messaggio con il quale l’autore conclude il suo libro in cui si legge: “Quando hai finito di preoccuparti di questa epidemia, preoccupati della prossima”. Una frase, per il lettore e per tutti noi, certamente poco rassicurante, destabilizzante, ma che in realtà ben esprime l’impossibilità della scienza di domare le ignote ed implacabili leggi della natura. Il sottotitolo di Spillover (Animal infection and the next human pandemic) fa balenare infine la possibilità di una pandemia globale che porterà all’estinzione della nostra specie: la comunità scientifica ha già battezzato come Next Big One il prossimo virus zoonotico, in grado di diffondersi e infettare senza rimedio l’intero pianeta. Cosa da brividi. Ma, in particolare, l’analisi di David Quammen risulta parziale in quanto si svolge su un piano puramente scientifico, tralasciando del tutto l’esistenza di una entità superiore. Il giornalista statunitense legge e analizza infatti la realtà unicamente con le lenti dello scienziato che escludono a priori cause e motivazioni che vadano oltre la asettica e fredda evidenza scientifica. Una prospettiva, in altre parole atea, che esclude Dio e qualsiasi motivazione trascendente da ogni fatto e accadimento naturale.
David Quammen è un divulgatore scientifico, scrittore e giornalista del «National Geographic». Ha studiato letteratura a Oxford; oggi vive in Montana, ma viaggia molto per conto del «National Geographic». Ha lavorato anche per altre riviste e giornali, tra cui «Harper’s», «Rolling Stone» e il «New York Times». Carlo Franza
Maddalena Oliva per il “Fatto quotidiano” il 4 aprile 2020. Pensava di fare lo scrittore, e alla fine l' ha fatto. E anche se si occupa di scienza, è sempre William Faulkner a guidarlo. Perché "le persone, pure quando leggono di scienza, vogliono prima di tutto leggere storie". David Quammen è "uno dei più brillanti scrittori americani di non fiction, anzi - come ha scritto il New York Times - uno dei più brillanti scrittori americani, punto". Dal suo primo articolo sulle zanzare ("animali insopportabili, ma qualcuno prima o poi bisognava ne parlasse bene"), Quammen ha lavorato sul campo al seguito di scienziati in posti remoti, dalle foreste tropicali al Mare Artico.
Ha scritto reportage e libri. Tra questi Spillover, tornato best-seller in tempi di coronavirus. Ci risponde dalla sua casa in Montana, dove ha scelto di vivere "per quella prossimità tra cose, bestie, posti, animali, forze della natura capaci di assassinarci con sublime indifferenza".
Nel suo libro scriveva che la prossima grande pandemia sarebbe arrivata da uno spillover , in un mercato degli animali cinese, con un salto di specie da un pipistrello è preveggente?
«Ho solo riportato le parole di scienziati che da anni studiano questi fenomeni. Mi dicevano che la prossima pandemia sarebbe stata causata da un virus trasmesso da un animale, probabile un pipistrello; che sarebbe stato un coronavirus perché questi si evolvono e adattano rapidamente; e che il salto di specie - lo spillover - sarebbe avvenuto in una ambiente in cui esseri umani e animali selvatici sono prossimi».
Dove?
«Verosimilmente, in un wet market cinese. Tutto prevedibile. Siamo stati egualmente impreparati. Non siamo stati in grado di implementare, e integrare, i sistemi di sorveglianza. Né a livello locale né a livello internazionale. Non abbiamo investito risorse nella sanità pubblica: più posti letto, più terapie intensive negli ospedali, più formazione del personale».
Perché non lo abbiamo fatto?
«Perché come cittadini siamo poco informati e tendenzialmente apatici, mentre i nostri leader sono cinici e avari, concentrati solo su loro stessi. Questa pandemia è il risultato delle cose che facciamo, delle scelte che prendiamo. Ne siamo responsabili tutti».
Che caratteristiche ha questo virus?
«Sars-Cov-2 appartiene alla famiglia dei coronavirus, virus più capaci di trasferirsi a "ospiti" umani e più veloci nel proliferare. In questo caso, anche senza che si presentino sintomi. È come un proiettile che ti colpisce: non senti il colpo, perché il proiettile arriva prima, il suono dopo».
Perché il nostro Paese è stato colpito più degli altri?
«È un mistero. Me lo sono chiesto più volte. Il Nord Italia è ricco di risorse mediche, strutture e personale. Non è l' Africa. Mi ha sorpreso Temo sia stata sfortuna. Qualcuno ha portato il virus nel vostro Paese, pur non mostrando sintomi, e ha contagiato molte persone prima che si capisse cosa stava accadendo? Ma perché così tanta sfortuna nella diffusione del contagio? Per questo voglio tornare in Italia: per studiare».
Crede che le misure di contenimento funzioneranno?
«Faccio lo scrittore. La mia idea è però che la chiusura, di per sé utile, non sarà sufficiente. È necessario mappare e isolare i contagi e i loro contatti, incoraggiare la quarantena domiciliare, concentrare i casi in ospedali dedicati, proteggere gli operatori sanitari allora forse l' Italia si salverà dal collasso».
In che modo i cambiamenti che l' uomo impone all' ambiente rendono la vita facile ai virus?
«Diciamo che ogni volta che distruggiamo una foresta estirpandone gli abitanti, i germi del posto svolazzano in giro come polvere che si alza dalle macerie. Più distruggiamo gli ecosistemi, più smuoviamo i virus dai loro ospiti naturali, offrendoci a nostra volta come ospiti alternativi. Il virus così vince la lotteria! Ha una popolazione di quasi 8 miliardi di individui attraverso cui diffondersi».
È possibile che Sars-Cov-2 abbia trovato in Lombardia, così come a Wuhan, un ambiente simile e particolarmente ospitale?
«L' ospite serbatoio di questo virus è il corpo umano. L' inquinamento dell' aria può essere stata una variabile. Per i danni che provoca ai polmoni e alle vie respiratorie ha reso le persone più vulnerabili al virus. Alla fine il virus, come l' uomo, cerca solo di sopravvivere più a lungo. Le persone e i gorilla, i cavalli e i maiali, le scimmie e gli scimpanzé, i pipistrelli e i virus: siamo tutti sulla stessa barca. È la cara vecchia evidenza darwiniana. Siamo legati indissolubilmente gli uni agli altri. Nelle nostre origini, nella nostra evoluzione, in salute e in malattia. Sembra ovvio, ma non lo è».
Fake news e proliferazione ossessiva delle notizie sono un' altra epidemia.
«Dimentica le teorie cospirazioniste! Io le chiamo lo "zucchero del web". Alcuni più ne leggono più ne vorrebbero leggere. È come una droga. Noi dobbiamo resistere all' ossessione di sapere l' ultimo dato, l' ultima notizia. È giusto prestare attenzione al virus, ma abbiamo bisogno anche di altre storie».
Cosa possiamo imparare da questa pandemia?
«Quando finiremo di preoccuparci per questa, dovremo già preoccuparci della prossima».
Sconfiggeremo Sars- Cov-2?
«Non credo ce ne libereremo. Questa epidemia è talmente diffusa che potrebbe non scomparire. Ma possiamo metterla sotto controllo, anche grazie a vaccini e terapie».
Cosa dobbiamo aspettarci?
«Ci attendono molti spillover di virus pericolosi che si trasformeranno, se non migliorerà la nostra preparazione nell' affrontarli, in pandemie. Anche peggiori di questa».
Davide Milosa per “il Fatto quotidiano” il 17 marzo 2020. Era già tutto scritto almeno dallo scorso settembre, quando l' Organizzazione mondiale della sanità (Oms) ha incaricato un gruppo di esperti (Global Preparedness Monitoring Board) di redigere un rapporto dal titolo decisamente predittivo: "Un mondo a rischio (A world at risk)". Sono 48 pagine che rilette oggi con la nuova Sars elevata da giorni a rango di pandemia, impressionano e non poco. Scrivono i tecnici dell' Oms: "La malattia prospera nel disordine, le epidemie sono in aumento e lo spettro di un' emergenza sanitaria globale incombe su di noi". Siamo a settembre, da lì a meno di due mesi SarsCov2 inizierà a diffondersi nella regione cinese dell' Hubei. Il report prosegue: "C' è una minaccia molto reale di una pandemia in rapido movimento, altamente letale, di un agente patogeno respiratorio che uccide da 50 a 80 milioni di persone e spazza via quasi il 5% dell' economia mondiale". Le cifre non sono quelle di oggi, ma diversi ricercatori prevedono un' emergenza che andrà ben oltre il 2020. Si legge ancora: "Una pandemia globale su tale scala sarebbe catastrofica, creando un caos diffuso. Il mondo non è preparato". Il caso italiano, nonostante gli sforzi enormi, è lì a dimostrarlo. Ciò che si legge in questo documento è ciò che sei mesi dopo ci stanno spiegando politici e scienziati. "Il mondo - scrivevano già gli esperti dell' Oms - deve stabilire i sistemi necessari per individuare e controllare potenziali focolai di malattie". Lo studio si basa sui dati emersi durante la pandemia della febbre suina ( H1N1 ) e l' epidemia di Ebola. Risultato: "Molte delle raccomandazioni esaminate sono state attuate male, o non sono state attuate affatto e persistono gravi lacune. È ormai tempo di agire". Questo dato era noto ai governi fin dallo scorso settembre. Cosa si è fatto? Tra il 2011 e il 2018 "l' Oms ha seguito 1.483 eventi epidemici in 172 Paesi". Dalla Sars alla Mers, dall' Ebola alla febbre gialla. Tutti questi virus annunciavano, come sta accadendo oggi, "una nuova era di epidemie ad alto impatto e potenzialmente a diffusione rapida". Ogni paragrafo trova una drammatica conferma nella realtà che il mondo sta vivendo. Le modalità del contagio ad esempio. Tutti ormai lo abbiamo capito, ma a settembre era già scritto: "Gli agenti patogeni si diffondono attraverso le goccioline respiratorie; possono infettare un gran numero di persone molto velocemente e, con le odierne infrastrutture di trasporto, si spostano rapidamente in diverse aree geografiche". Davanti a questo già a settembre gli Stati erano impreparati. Viene scritto: "La grande maggioranza dei sistemi sanitari nazionali non sarebbe in grado di gestire un grande afflusso di pazienti infettati da un agente patogeno respiratorio capace di una facile trasmissibilità e di un' elevata mortalità". Tanto più che "i governi, gli scienziati, i sistemi sanitari di molti Paesi stanno affrontando un crollo della fiducia pubblica che minaccia la loro capacità di funzionare in modo efficace". Salute, ma anche economia. A pagina 30 si legge: "La Banca Mondiale stima che una pandemia influenzale globale costerebbe all' economia 3.000 miliardi di dollari, ovvero fino al 4,8% del Pil; il costo sarebbe del 2,2% del Pil anche per una pandemia influenzale moderatamente virulenta". Vien da chiedersi se qualcuno dei nostri rappresentanti istituzionali abbia mai sfogliato queste pagine. La fotografia inquieta e ieri il direttore dell' Oms, Tedros Adhanom Ghebreyesus, ha confermato il quadro annunciato sei mesi fa: "Questa è la crisi sanitaria che segna la nostra epoca". Poi ha concluso: "Crisi così tirano fuori il meglio e il peggio dell' umanità".
PANDEMIE E QUARANTENE GIÀ VISTE AL CINEMA. Federico Pontiggia per il “Fatto quotidiano” il 20 marzo 2020. Déjà-vu, déjà-vu pandemico. Complice la serrata per il Covid-19, viviamo in un mondo inaudito, ma non inedito: abbiamo già visto e ascoltato tutto. Dai classici della canzone italiana urlati dal balcone alla programmazione televisiva (Tutti a casa con Rai Movie) e streaming (la Cineteca di Milano ha fatto addirittura un palinsesto; unica novità Ultras di Francesco Lettieri, da domani su Netflix), vince l' archivio, se preferite, la library: old but gold, nel migliore dei casi. Se il solito, impareggiabile Ettore Scola affidava al Vittorio Gassman di C' eravamo tanto amati l' imperituro "Il futuro è già passato, e non ce ne siamo neanche accorti", noi ci stiamo accorgendo che questo presente in quarantena l' abbiamo già vissuto: al più, lo stiamo sopravvivendo. Nei tempi, nei modi, perfino nei generi.
Kammerspiel. Cent' anni addietro la Germania espressionista teneva a battesimo il Kammerspiel, letteralmente "recitazione da camera". Vale a dire, un "piccolo teatro destinato a recite che cercano un intimo rapporto con lo spettatore" oppure "film o rappresentazione teatrale di intreccio semplice, intimo e psicologico, la cui azione si sviluppa tra pochi personaggi, con un dialogo limitatissimo e una scenografia basata su pochi ambienti". Non è forse, soprattutto alla voce "dialogo limitatissimo", quel che stiamo sperimentando nella nostra casalinga reclusione involontaria? La variante filmica del Kammerspiel annovera L' ultima risata di Friedrich Wilhelm Murnau (1924): pregevole, ma qui e ora dal titolo piuttosto infelice.
Contagion. Se tra un flashmob e l' altro si guarda fuori dalla finestra, il campo lungo risulta familiare: Contagion di Steven Soderbergh, anno 2011, metteva sul set la pandemia, addebitava al pipistrello (più maiale) il contagio, insomma, faceva del finzionale Mev-1 l' antesignano dell' attuale Covid-19. A richiamare via Instagram il déjà-vu - anzi, nel suo caso il già recitato - è stata l' interprete Gwyneth Paltrow: "I' ve already been in this movie".
Perfetti sconosciuti. Contagion è il primatista di visioni più o meno legali, ma l' Italia non sta a guardare: Perfetti sconosciuti (2016), il campione di incassi e di remake di Paolo Genovese. L' unità di spazio, tempo e azione è la medesima, nella realtà del lockdown si aggiunge alla cena il pranzo e si sottraggono gli amici, una famiglia basta e avanza. Occhio al cellulare, e occhio alla realtà: "Sofia - diceva la madre Kasia Smutniak - sta vivendo il dramma di uscire dalla scena familiare", "Ecco, facciamola uscire - ribatteva il padre Marco Giallini - senza romperle troppo i coglioni", solo che oggi non si può uscire. Almeno fino al 25 marzo.
Il Papa. L' abbiamo vista tutti, l' avevamo già vista in molti: la foto icastica di Papa Francesco che cammina in una via del Corso semideserta. Scatto che cattura lo Zeitgeist, sintetizza mille editoriali, invera svariate analisi: chi avrebbe mai potuto immaginare un pontefice che in una Roma desolata se ne va a fette seguito a distanza dalla scorta? Ebbene, due registi: Nanni Moretti e Paolo Sorrentino. Il primo con Habemus Papam - altro film del 2011, annata assai preveggente - e il suo papa Michel Piccoli che si dà per l' Urbe, il secondo con il dittico seriale The Young Pope e The New Pope, di cui quella fotografia potrebbe legittimamente essere di scena. Ma non solo: vi ricordate Giulio Andreotti (Toni Servillo) che rifà, anzi, prefà quella passeggiata sotto scorta ne Il Divo (2008)?
Camera e tinello. No, non va tutto bene: per un Moretti che preconizza, per un Sorrentino che trasfigura, c' è tanto altro cinema patrio che, Covid-19 o meno, il naso fuori dall' uscio non lo mette. Le geometrie invariabili sono del dramma da cameretta, della commedia bilocale e monorisata, del dramedy con angolo scottura: quanti ne abbiamo visti, e quanto abbiamo faticato a digerirli? Camera e tinello ubicati Roma, talvolta con vista Gasometro, altri Mandrione, sovente in Prati: si mangia, si parla, che barba, che noia. Dopo averne fatto il nostro pane quotidiano in quarantena, riusciremo - riusciranno i patri sceneggiatori - a mandarli in soffitta?
Da "Roma città riaperta" a "Germania paziente zero"? Ma lo spettro che si aggira per i tavoli di sceneggiatura è un altro: il Neo-Neorealismo. Uscire dalla pandemia come dalla Seconda guerra mondiale, mutatis mutandis, rifare il cinema che ci rese grandi e celebrati in tutto il mondo, risciacquare gli andreottiani panni sporchi da Cannes a Berlino, con affaccio sugli Oscar Oltreoceano. Le migliori penne della nostra generazione sono già al lavoro, con lo strumento più raffinato che possiedano: il copia & incolla. Teniamoci pronti a un Miracolo a Codogno, venato di irrealismo magico; Roma città riaperta, con echi rosselliniani e karaoke condominiali; Germania Paziente Zero, genere on the road sovranista; Non c' è pace tra i balconi, con due proiezioni giornaliere già fissate alle 12.00 e alle 18.00; Umberto Covid, con l' originario voltaggio senile ma l' upgrade del cane in sharing per la passeggiata. Chi vivrà vedrà: pardon, rivedrà.
Filmografia del Coronavirus, tutte le pellicole per esorcizzare la paura del contagio. Roberta Caiano de Il Riformista il 9 Marzo 2020. L’emergenza coronavirus sta esplodendo sempre più nel nostro Paese, paralizzando non soltanto la popolazione ma molti ambiti che vanno dall’economia alle istituzioni pubbliche. In queste occasioni la cultura ci viene in aiuto con numerosi libri, film e altri tipi di rappresentazioni artistiche che nel corso del tempo hanno trattato argomenti simili. Si passa dai libri capitanati da ‘La Peste’ di Albert Camus, uno dei romanzi più venduti non soltanto in Francia ma anche in Italia sulle principali piattaforme online, alla filmografia. Sia la letteratura che il cinema, infatti, hanno sempre dedicato particolare attenzione a queste tematiche soprattutto per la facilità con cui possono raggiungere il più ampio pubblico possibile. A questo proposito, per esorcizzare la paura e l’ansia che in questi giorni sta dilagando tra la popolazione, c’è una lista di film che potrebbero aiutare a stemperare il clima creatosi soprattutto in queste ultime ore.
L’esercito delle 12 scimmie – Il film risale al 1995 e vede come protagonista Bruce Willis nei panni di James Cole, un detenuto che con la promessa della grazia viene inviato nel passato per indagare sui fatti che hanno portato all’estinzione del 99% dell’umanità e costretto i sopravvissuti a vivere nel sottosuolo per sfuggire al contagio di un virus letale. I detenuti sono obbligati a salire in superficie con speciali tute ermetiche, correndo il rischio di venire contagiati a loro volta, per raccogliere le prove riguardo alla responsabilità di una tale catastrofe. I capi di queste comunità sotterranee sembrano essere degli scienziati che fanno di tutto per poter, un giorno, mettere le mani sul virus originale, che intanto è mutato, per creare un vaccino. Tutte le prove riconducono a gruppo ecologista, l’esercito delle 12 scimmie, che avrebbe diffuso il contagio per liberare la Terra da quel cancro che ritengono siano gli esseri umani.
Virus letale – Film risalente al 1995 diretto da Wolfgang Petersen con Dustin Hoffman e Rene Russo, vede come protagonista un ufficiale medico dell’esercito americano mandato in Africa per indagare su un virus devastante, il Motaba. Torna convinto del pericolo di una epidemia anche negli Stati Uniti, ma nessuno crede alle sue teorie. Fino a quando in una cittadina californiana compaiono le prime e numerose vittime e si scopre che i militari avevano tenuto nascosto il vaccino per continuare la sperimentazione di armi batteriologiche.
Cassandra crossing – Datato 1976, la pellicola vede come protagonisti Sophia Loren e Richard Harris. La trama vede coinvolti due terroristi che entrano in un laboratorio di armi batteriologiche e contraggono un terribile virus. Uno dei due riesce a salire sul treno diretto a Stoccolma, dove contagia alcuni passeggeri. Da qui parte un treno infettato da un virus che attraversa l’Europa e porta alla morte.
Contagion – Uscito nel 2011 con Gwyneth Paltrow e Matt Damon, il film Contagion è tornato spesso in questi giorni alla ribalta. La trama vede come un solo contatto da cui parte il contagio di un virus letale. Quando la turista da cui parte il virus torna a Minneapolis dopo un viaggio d’affari ad Hong Kong, quello che pensava fosse solo un banale jet lag è invece il contagio di un virus. Dopo due giorni, la donna muore in un pronto soccorso e i dottori dicono al marito che non hanno idea di cosa sia successo. In breve tempo altre persone mostrano gli stessi sintomi misteriosi: tosse secca e febbre, seguita da attacchi ischemici, emorragia cerebrale e in ultimo la morte. Il contagio supera ogni confine, alimentato dalle infinite interazioni che avvengono tra gli esseri umani nel corso di una normale giornata di vita quotidiana causando una pandemia globale. Così i ricercatori si mobilitano per cercare di interrompere la catena dell’agente patogeno che continua a mutare.
Io sono leggenda – Uscito nelle sale cinematografiche nel 2007, Io sono Leggenda è un film con un cast che vanta come protagonista Will Smith. La trama vede al centro della scena Robert Neville, l’ultimo uomo rimasto su una Terra invasa dai vampiri, che ogni notte si barrica per difendersi dall’assalto di tutti gli altri esseri umani trasformati in mostri assetati di sangue.
Covid-19, prezzi alle stelle per il libro che 15 anni fa aveva previsto tutto. A pagina 210 della versione originale in inglese del libro edito nel 2008, si legge...La Voce di Manduria martedì 10 marzo 2020. Prezzi alle stelle per il libro, oramai quasi introvabile, "Profezie" della scrittrice e sedicente veggente americana, Sylvia Browne, che una quindicina di anni fa aveva previsto l’epidemia da coronavirus. Su Ebay l’unica copia disponibile nella grande vetrina del mercato mondiale online, è venduta a 99,9 euro. Niente in confronto al prezzo raggiunto dallo stesso libro in vendita su Amazon: 641,42 dollari (561,39 euro). A pagina 210 della versione originale in inglese del libro edito nel 2008, si legge: “Entro il 2020 diventerà prassi indossare in pubblico mascherine chirurgiche e guanti di gomma a causa di una epidemia di una grave malattia simile alla polmonite, che attaccherà sia i polmoni sia i canali bronchiali e che sarà refrattaria a ogni tipo di cura. Tale patologia sarà particolarmente sconcertante perché, dopo aver provocato un inverno di panico assoluto, quasi in maniera più sconcertante della malattia stessa improvvisamente svanirà con la stessa velocità con cui è arrivata, tornerà all’attacco nuovamente dopo dieci anni, e poi scomparirà completamente”. Qualcuno parla di coincidenza, facendo notare che nello stesso libro si parla anche di un'altra malattia batterica prevista per il 2010 che poi non si è verificata. Per altri la Browne sarebbe stata influenzata dall'epidemia di SARS avvenuta nel 2004, cioè 4 anni prima dell'uscita del libro in oggetto. Sylvia Browne, morta nel 2013 in California, era una sensitiva molto conosciuta negli Stati Uniti. Fondatrice di una chiesa sincretista in California, aveva partecipato come consulente di polizia ed FBI a centinaia di casi di sparizioni e omicidi (anche se, va detto, il suo contributo non si è mai rivelato determinante nelle indagini).
Dagospia il 10 marzo 2020. Estratto del libro Profezie di Sylvia Browne con Lindsay Harrison. (...) Entro il 2020 diventerà di prassi indossare in pubblico mascherine chirurgiche e guanti di gomma, a seguito di un’epidemia di una grave malattia simile alla polmonite che attaccherà sia i polmoni sia i canali bronchiali e che sarà refrattaria a ogni tipo di cura. Tale patologia sarà particolarmente sconcertante perché, dopo aver provocato un inverno di panico assoluto, sembrerà scomparire completamente per altri 10 anni, rendendo ancora più difficile scoprire la sua causa e la sua cura (...)
Coronavirus, la profezia in un libro: "Entro il 2020 gireremo con mascherine e guanti". La scrittrice statunitense Sylvia Browne aveva preannunciato l’arrivo di questa epidemia nel suo libro “End of days” pubblicato nel 2008. Andrea Pegoraro, Martedì 10/03/2020, su Il Giornale. Aveva previsto il coronavirus già dodici anni fa. La scrittrice statunitense Sylvia Browne aveva preannunciato l’arrivo di questa epidemia nel suo libro “End of days” pubblicato nel 2008. La saggista aveva scritto che “entro il 2020 diventerà di prassi indossare in pubblico mascherine chirurgiche e guanti di gomma, a seguito di un’epidemia di una grave malattia simile alla polmonite che attaccherà sia i polmoni sia i canali bronchiali e che sarà refrattaria a ogni tipo di cura”. Poi la scrittrice si era lanciata in un giudizio sugli effetti del coronavirus e sulla sua evoluzione. “Tale patologia sarà particolarmente sconcertante perché, dopo aver provocato un inverno di panico assoluto - aveva sottolineato - sembrerà scomparire completamente per altri 10 anni, rendendo ancora più difficile scoprire la sua causa e la sua cura”. Naturalmente staremo a vedere se quanto detto dalla Browne avrà una sua fondatezza, soprattutto se con l’arrivo dell’estate il virus avrà attenuato la sua forza. La scrittrice è stata una figura celebre negli Stati Uniti ed è morta nel 2013 all'età di 77 anni in circostanze non chiare. Nota anche come sensitiva, la Browne è stata un’attrice di varie opere, molti di questi tradotti anche in Italia, che sono state oggetto di controversie e dibattiti. Inoltre avrebbe partecipato a oltre 100 casi investigativi, dando le sue informazioni che poi in realtà sarebbero state non utili ai fini delle indagini. La stessa scrittrice ha affermato di aver collaborato con la polizia statunitense, compresa l’Fbi ma come detto molto spesso le sue indicazioni sono state troppo vaghe o addirittura inutili.
Sylvia Browne ha detto di aver avuto esperienze paranormali fin da quando era bambina e su questi temi ha basato i suoi libri. Ha iniziato a operare pubblicamente fin dai primi anni Settanta e poi con il tempo ha fatto le sue apparizioni anche in televisione e in radio. Durante gli anni la sua popolarità è quindi cresciuta. Oltre a esercitare le sue doti di sensitiva, la Browne aveva creato due società a suo nome e poi aveva fondato in California una chiesa che lei definiva di culto cristiano agnostico. Anche se era presente la dottrina del sincretismo, che porta all’incontro di forme religiose differenti. Legato a questo occorre dire che quando era bambina la scrittrice si era convertita al cattolicesimo come tutta la sua famiglia e in seguito è stata insegnante di religione cattolica per molti anni.
La profezia di 16 anni fa: nel 2020 comparirà un virus che poi sparirà improvvisamente. Roberta Caiano de Il Riformista il 9 Marzo 2020. “Entro il 2020 diventerà di prassi indossare in pubblico mascherine chirurgiche e guanti di gomma, a causa di un’epidemia di una grave malattia simile alla polmonite, che attaccherà sia i polmoni sia i canali bronchiali e che sarà refrattaria a ogni tipo di cura. Tale patologia sarà particolarmente sconcertante perché, dopo aver provocato un inverno di panico assoluto, sembrerà scomparire completamente per altri dieci anni, rendendo ancora più difficile scoprire la sua causa e la sua cura”. Per quanto possa sembrare una raccolta di testimonianze di questi giorni in cui imperversa l’emergenza del coronavirus in Italia e nel mondo, in realtà queste parole sono state scritte in un libro 16 anni fa. “Profezie. Che cosa ci riserva il futuro” è un testo di Sylvia Browne e Lindsay Harrison pubblicato nel 2004. La sensitiva Sylvia Browne è famosa in quanto rilegge le predizioni, spesso contraddittorie o poco chiare, che nel corso della storia sono state fatte dai veggenti più celebri. La Browne si occupa di spiegare come fanno i profeti a conoscere il futuro e come smascherare i ciarlatani, ma soprattutto risponde a tanti interrogativi sul destino dell’umanità toccando argomenti fondamentali, dallo sviluppo tecnologico alle sorti dell’ambiente, dalla cura per molte malattie alla pace nel mondo, fino all’evoluzione sociale, economica e politica. Tra questi spicca sicuramente il nome di Nostradamus, ma fa riferimento anche ai profeti biblici, George Washington fino agli scienziati della Nasa.
IL LIBRO – In questo libro, l’autrice affronta i temi più caldi rispondendo a tanti dubbi e domande che spopolano tra le persone. Gli umani si sono preoccupati a lungo per la fine della civiltà, ma ora più che mai tra la gente aleggia il sentimento dell’ansia e del timore di quello che succederà. Come se non poter prevedere il futuro porti ad una sorta di isteria e psicosi collettiva. Le guerre di religione, il terrorismo globale, le pandemie e il genocidio hanno contribuito a inaugurare così l’era dell’ansia. Tra le tante cose riportate nel libro, in un momento storico come quello che stiamo vivendo per l’epidemia del covid-19 spicca la predizione del Coronavirus.
Letteratura contro il coronavirus, boom di vendite per La Peste di Albert Camus. Redazione de Il Riformista il 9 Marzo 2020. “Tutti vennero separati dal resto del mondo, da coloro che amavano o dalle proprie abitudini. E in questa solitudine furono costretti, quelli che lo potevano, a meditare, gli altri a vivere come animali braccati. Alla fine della peste tutti gli abitanti sembrano migranti”. Tempi duri quelli che il Paese sta affrontando per l’emergenza coronavirus. L’elevata allerta dichiarata in tutta la Penisola ha portato, allo stato attuale, la maggior parte della popolazione a chiudersi in casa ed evitare quanto più possibile rapporti sociali per evitare il rischio di contagio. Questa situazione di “quarantena collettiva” potrebbe essere terreno fertile per aumentare le attività da casa che tra i vari impegni quotidiani non si ha abbastanza tempo per svolgere, tra cui la lettura. Tra i libri più letti troviamo ‘La Peste’ dello scrittore francese Albert Camus, risalente al 1947. Appena pubblicato, il romanzo riscosse grande successo vendendo oltre 160.000 copie nei primi due anni solo in Francia, con traduzioni in decine di lingue. Settantatre anni dopo, il romanzo incontra un nuovo successo sempre nell’Oltralpe ma anche all’estero, in particolare in Italia dove le vendite sono triplicate e il titolo si posiziona nella top ten degli acquisti online. Secondo quanto riportato da Edistat, l’istituto che cura le statistiche per il settore editoriale, attraverso il quotidiano francese Le Figaro, le vendite del romanzo sono sensibilmente aumentate dall’inizio del 2020. Infatti tra gennaio e febbraio, le edizioni di La peste pubblicate dalla casa editrice parigina Gallimard hanno registrato un impennata delle vendite, il 40% in più rispetto alla quantità normalmente venduta in un anno. Il grafico riporta che le vendite hanno raggiunto il primo picco alla fine di gennaio, quando si sono verificati i primi casi di contagiati dal covid-19 in Francia, con circa 1.700 libri venduti. I dati sono impressionanti se confrontati all’anno precedente, quando erano state vendute poco più di 400 copie del libro. L’emergenza per il contagio e la diffusione del coronavirus sta ormai aumentando in tutta Europa, per questo la tendenza dell’aumento delle letture de ‘La Peste’ è continua a febbraio con 1.800 libri acquistati, sempre in Francia. Ma il dato è riferibile anche all’Italia in quanto il romanzo è stato segnalato nei primi posti nelle classifiche dei rivenditore online. Infatti, dato il grande successo riscosso per la riscoperta dell’autore, della storia e della lettura, il comune di Siracusa in una nota ha indetto un’iniziativa riguardante la diffusione del libro di Albert Camus il quale sarà il primo libro letto via Facebook nell’ambito del progetto ministeriale La Biblioteca dei borghi. L’assessore alla Cultura Fabio Granata dichiara che “se la gente non può più andare in Biblioteca, allora la biblioteca andrà nelle case della gente, continuando a mantenere intatto il rapporto di scambio, condivisione, ascolto e confronto, tipiche dei laboratori di lettura. La Biblioteca come presidio che nutre le intelligenze e propone finestre aperte sulla lettura. Un’esperienza che ci consente, nonostante i tempi, di mantenere vivi i rapporti con i nostri cittadini”.
IL LIBRO – La peste sembra riportare a galla l’attuale situazione del coronavirus. Il covid-19 sta aleggiando tra noi come un fantasma, paralizzando la popolazione in una situazione surreale. Il romanzo di Camus non rappresenta altro che una riflessione sul male e sul trauma della guerra ancora vivo (il romanzo è stato pubblicato nel 1947). Il protagonista del libro è un medico francese, Bernard Rieux che per primo dà l’allarme di una situazione che potrebbe precipitare da un momento all’altro: in breve tempo muoiono più di seimila ratti e anche il portinaio del suo stabile si ammala gravemente fino a perdere la vita. Inizialmente nessuno gli crede ma ben presto anche le autorità si sono dovute arrendere all’evidenza, provvedendo subito ad una quarantena collettiva. La città è bloccata, ma al suo interno la vita continua a scorrere. Dalla primavera si passa all’estate e con il caldo anche la peste si trasforma, passando dalla forma bubbonica alla più contagiosa peste polmonare. Gli abitanti della città di Orano, in Algeria, dove è ambientato il romanzo continuano a morire e non c’è neanche più posto per le fosse comuni. Rieux riesce a trovare una formula di un siero che finalmente funziona, facendo in modo che pian piano l’epidemia cominci a scemare e la quarantena viene revocata. Anche se Rieux rimarrà per sempre sull’attenti per il timore di una nuova ondata di peste.
Nel 2017 Asterix e Obelix si battevano contro il condottiero «Coronavirus». Pubblicato sabato, 07 marzo 2020 su Corriere.it da Monica Ricci Sargentini. Il terribile coronavirus si era abbattuto sull’Italia già nel 2017 ma non ce ne eravamo accorti. Soprattutto perché non era un’epidemia ma un condottiero di quadriga nell’antica Roma. Quello di Asterix , il personaggio ideato da René Goscinny e Albert Uderzo e poi, dal 2013, portato avanti da Jean-Yves Ferri e Didier Conrad. In Asterix e la corsa d’Italia, 37esimo albo della serie, Coronavirus è un romano mascherato cui si accompagna lo scudiero Bacillus. A leggere oggi il fumetto sembra che i disegnatori abbiano avuto una premonizione. Nella storia il senatore Lactus Bifidus, accusato di usare in altro modo i soldi per la manutenzione delle strade, decide di organizzare una corsa di carri a cui far partecipare tutti i popoli dell’impero per dimostrare l’eccellenza delle vie dell’Impero romano. La gara si svolgerà da Modicia a Neapolis, da Monza a Napoli. Giulio Cesare dà il suo benestare ma a patto che un romano, Coronavirus (soprannominato “l’auriga mascherato”) capeggi la squadra romana. Ma i due galli ci mettono lo zampino. Obelix compra una quadriga e, affiancato dall’immancabile Asteric, si getta nella competizione. Cosa ha ispirato i due autori? Probabilmente la diffusione della Sars nel 2002 e della Mers nel 2012. Certo nessuno avrebbe potuto prevedere che il numero ritornasse in auge tre anni dopo. Forse qualcuno dovrebbe ristamparlo.
Coronavirus, da Nostradamus a Mussolini, tutte le profezie sul virus. Libero Quotidiano il 28 Febbraio 2020. Quando ci si trova di fronte ad un evento di portata mondiale, si iniziano a raccogliere ex post le "fonti profetiche", tutte le opere che in qualche modo hanno anticipato il fenomeno. Con il coronavirus, naturalmente, la corsa è iniziata. Nell'edizione cartacea del 28 febbraio, Il Giornale elenca alcuni casi: libri fantascientifici, cinema e persino cartoni animati. E' saltato all'occhio il romanzo "The eye of Darkness" di Dean Koontz (1981), in cui si racconta la creazione di un virus letale nei laboratori di Wuhan, cittadina cinese da cui è partito il corona. Il virus Wuhan -400 venne definito dall'autore una "arma perfetta che colpisce solo gli esseri umani". Allo scoppio del coronavirus, la società editrice Fanuzzi ha curato la traduzione del romanzo, che arriverà nelle librerie italiane sotto il titolo di "Abisso". Profezie meno precise, ma che trattano la diffusione di un virus letale, arrivano dalla sterminata filmografia: Resident Evil, Io sono Leggenda, World War Z, per citarne alcuni. Non potevano mancare i Simpsons, la regina delle serie preveggenti. Gli autori hanno dedicato l'episodio 21 della quarta stagione alla diffusione di un virus dall'Estremo Oriente, sbarcato a Springfield tramite un pacco postale su cui aveva starnutito un dipendente asiatico. Anche il celebre profeta di sventure Nostradamus parlava di una "grande peste da una città marittima", benché non abbia indovinato, dato che Wuhan non ha sbocchi sul mare. Infine, in piena epoca fascista, Benito Mussolini avvertiva l'ambasciatore italiano a Shangai, Galeazzo Ciano, di un "pericolo giallo". E, preoccupato, aggiunse: "Invaderanno il mondo con la loro smisurata prolificità, con i loro prodotti a basso costo e con le epidemie che coltivano al loro interno".
Fake news o coincidenze? Le profezie del virus da Nostradamus (e il Duce...) fino ai Simpson. Tradotto di corsa il thriller americano del 1981 sul morbo «Wuhan-400». Luigi Mascheroni, Venerdì 28/02/2020 su Il Giornale. Tra gli effetti collaterali del Coronavirus il più inquietante è la diffusione - ex post - delle profezie, letterarie e non solo. Fake news o coincidenze? Fra le più sorprendenti, quella del thriller The Eye of Darkness scritto nel 1981, quasi quarant'anni fa, in cui il bestsellerista americano Dean Koontz, che oggi ha 75 anni, immagina che in un laboratorio cinese, nella città di Wuhan (proprio così...) venga creato un virus letale, ribattezzato Wuhan-400: «Fu in quel periodo che uno scienziato cinese di nome Li Chen disertò negli Stati Uniti, trasportando un dischetto delle più importanti e pericolose nuove armi biologiche cinesi in un decennio. Chiamano il materiale Wuhan-400 perché è stato sviluppato nei laboratori fuori dalla città di Wuhan... Un'arma perfetta. Colpisce solo gli esseri umani». Bene. Visto il successo mediatico del Coronavirus, il romanzo sul virus in grado di uccidere la popolazione mondiale col solo contagio per vie respiratorie sarà presto leggibile anche in Italia. Lavorando notte e giorno sulla traduzione la TimeCrime, una sigla della casa editrice Fanucci, specializzata in narrativa di fantascienza, ha annunciato l'uscita del libro - titolo: Abisso, sottotitolo: «Coronavirus: il romanzo della profezia» - a marzo, il giorno 13, venerdì. Lancio: «Finora inedito in Italia, questo romanzo ha venduto 4 milioni di copie». Da noi, invece, con meno successo di pubblico e minor sincronismo, lo scorso anno uscì La maledizione della croce sulle labbra (Ink), romanzo a quattro mani di Danilo Arona e Edoardo Rosati con al centro una strana epidemia: da una lontana isola dei Caraibi un virus sconosciuto sbarca in Italia, a Milano. «Due infettivologi ospedalieri, un lui e una lei, cominciano a indagare, ma ciò che sembra un bizzarro focolaio epidemico si trasformerà in un autentico incubo. Che ha il sapore di una piaga biblica...». Non sveliamo il finale. Poi, tralasciando la lunghissima sequenza di film a tema, ma troppo generici - Virus letale, Resident Evil, Io sono leggenda, 28 giorni dopo, World War Z, L'esercito delle 12 scimmie, Contagion, Infection... - c'è la serie TV più preveggente di sempre (o presunta tale): I Simpson. Qualcuno ha notato che il creatore di Homer Simpson aveva previsto nel 1993 l'arrivo di un virus dall'Estremo Oriente. La puntata (episodio 21 della quarta stagione) s'intitola Marge in catene e presenta curiose analogie con l'attualità: racconta dell'arrivo di un pacco postale - sul quale ha starnutito un dipendente della fabbrica - spedito da un Paese asiatico. La conseguenza è l'arrivo a Springfield di un virus influenzale con successiva psicosi collettiva alimentata dai notiziari tv. In realtà tutto nasce dal Giappone, non dalla Cina, e non sembra esserci alcuna attinenza con le caratteristiche del Coronavirus. Ma tant'è. La Rete non guarda a certe sottigliezze, e la fake news si è propagata con velocità impressionante. Del resto, chi ama credere alle profezie non ha che da scegliere. Bill Gates due anni fa «previde» la diffusione di un virus pandemico nel Sud dell'Asia: «Il mondo deve prepararsi alle pandemie seriamente, come quando ci si prepara a una guerra» disse il fondatore di Microsoft il 27 aprile 2018 durante la conferenza annuale sui programmi educativi della Massachusetts Medical Society a Boston, calcolando che il morbo avrebbe potuto uccidere 30 milioni di persone in sei mesi... Poi c'è l'onnipresente Nostradamus, che in una delle quartine scritte nel XVI secolo preannunciò una «grande peste» in una «città marittima» (Wuhan non ha sbocchi sul mare, però ha un grande «mercato del pesce» ha subito precisato un fan del medico-astrologo...). Senza dimenticare - in tempi di fascismo strisciante - la profezia sul «pericolo giallo» di Benito Mussolini nel discorso di saluto a Galeazzo Ciano, nominato rappresentante italiano a Shangai, pronunciato a Roma nel 1927: «Nei prossimi decenni ci dovremo guardare dall'espansionismo cinese. Invaderanno il mondo con la loro smisurata prolificità, con i loro prodotti a basso costo e con le epidemie che coltivano al loro interno».
Il video di Bill Gates che sembrava predire il Coronavirus, 5 anni fa. Pubblicato domenica, 15 marzo 2020 da Corriere.it. È tornato molto popolare, in questi giorni, il video di una conferenza del circuito Ted (gestito dall’organizzazione no profit The Sapling Foundation) nel corso della quale Bill Gates, nel 2015, lanciava un allarme che suona, oggi, profetico. Gates, fondatore di Microsoft (dal consiglio di amministrazione della quale è uscito pochi giorni fa) spiegava che, in un mondo che aveva investito molto in armi e poco nella lotta contro i virus, una pandemia avrebbe potuto fare più morti di una guerra. «Se qualcosa ucciderà 10 milioni di persone, nei prossimi decenni», aveva detto Gates (al secondo 00'51 del video qui sotto), «è più probabile che sia un virus altamente contagioso piuttosto che una guerra. Non missili, ma microbi». Gates spiegava che «abbiamo investito pochissimo in un sistema che possa fermare un'epidemia. Non siamo pronti per la prossima epidemia». Il fondatore di Microsoft parlava di Ebola e spiegava che c'erano stati «tre motivi» er cui non si era diffuso di più: «Il primo è perché molti operatori sanitari sono stati eroici. La seconda è la natura del virus: Ebola non si diffonde per via aerea, e nel tempo in cui diventa contagioso la maggior parte dei malati sta così male da essere costretta a letto. Terzo, non è arrivato nelle aree urbane. La prossima volta potremmo non essere così fortunati: potremmo essere di fronte a un virus che ci fa sentire abbastanza bene anche quando si è contagiosi, tanto da salire su un aereo o andare al mercato». Alcune di queste caratteristiche — la contagiosità degli asintomatici, la trasmissione per via aerea, l'estrema contagiosità — sono tipiche del coronavirus Sars-CoV-2, che causa la Covid-19. Gates faceva poi il parallelo con «un virus che si diffonde per via aerea» - la «Spagnola» del 1918, che aveva fatto «30 milioni di morti».
Lo stesso concetto era stato reiterato da Bill Gates in una intervista del 2016 a Massimo Franco, sul Corriere:
Lei vede minacce alla stabilità dell’Europa nei prossimi anni provenienti dall’interno o dall’immigrazione?
«Non vedo un rischio di conflitto che minacci l’Europa per i prossimi dieci anni. Se debbo pensare a che cosa potrebbe destabilizzare il mondo, penso semmai a qualche epidemia capace di uccidere anche dieci milioni di persone. Questa è la prospettiva più rischiosa che intravedo. Sia chiaro: in dieci anni saremo più preparati ad affrontare una simile emergenza. I governi e le organizzazioni non governative stanno lavorando per minimizzare il rischio. Non voglio spaventare la gente. Ma dobbiamo essere preparati ad affrontare un problema del genere. La guerra è il passato». Negli Stati Uniti, il video di Gates viene rilanciato anche nell'ambito di teorie complottiste: specie perché - come scritto qui — «la sua fondazione, la Bill & Melinda Gates Foundation, sta finanziando un progetto per distribuire dei kit per testare la positività al virus a Seattle, la città epicentro dell'epidemia statunitense» con «proiezioni che prevedono fino a 30mila nuovi casi entro la fine di marzo». Gates aveva stanziato altri 100 milioni di dollari a favore della sua fondazione. Alcuni giorni fa, un'altra teoria complottista — sempre con al centro Bill Gates — era stata diffusa in Italia.
(ANSA il 14 marzo 2020) - Bill Gates esce dal consiglio di amministrazione di Microsoft, il colosso che ha co-fondato, per dedicare più tempo alle sue attività filantropiche quali la sanità, il cambiamento climatico, l'istruzione e lo sviluppo. L'annuncio di Microsoft arriva a sorpresa e fa seguito all'addio dopo 15 anni anche al consiglio di amministrazione di Berkshire Hathaway, la holding del suo amico Warren Buffett: il posto di Gates è preso da Ken Chenault, l'ex amministratore delegato di American Express. I titoli Microsoft risentono dell'uscita di Gates e, nelle contrattazioni after hours, perdono il 3,05%. "E' stato un onore e un privilegio lavorare e imparare da Bill nel corso degli anni", afferma l'amministratore delegato di Microsoft, Satya Nadella. "A nome degli azionisti e del cda voglio ringraziare Bill per il suo contributo a Microsoft", dichiara il presidente indipendente del board, John Thompson. Con l'uscita di Gates il consiglio di Microsoft resta composto da 12 membri, incluso il presidente. Gates continuerà a servire Microsoft come consulente tecnologico. "Microsoft sarà sempre una parte importante della mia vita lavorativa e continuerò a essere impegnato con Satya e la leadership tecnica della società per aiutarla a centrare i suoi obiettivi ambiziosi", osserva Gates dicendosi "più ottimista che mai sui progressi" che Microsoft "sta facendo". Gates ha co-fondato Microsoft nel 1975 insieme a Paul Allen. La società è sbarcata in Borsa nel 1986 e oggi è una di quelle che vale di più al mondo con una capitalizzazione di mercato di 1.210 miliardi di dollari. Gates è uno dei maggiori azionisti di Microsoft con una quota di circa l'1,36% e uno degli uomini più ricchi al mondo. Nel 2010 Gates e sua moglie Melinda insieme a Buffett hanno annunciato l'iniziativa Giving Pledge destinata ai 'paperoni' che vogliono aiutare a portare avanti battaglie per l'istruzione, la sanità, la giustizia sociale ma anche la lotta al cambiamento climatico. All'iniziativa si aderisce impegnandosi a donare almeno metà della propria ricchezza, fra gli ultimi che hanno aderito c'è l'ex moglie di Bezos, MacKenzie.
Il testo del TED Talk di Bill Gates pubblicato da ''il Giornale'' il 14 marzo 2020. Quand' ero ragazzo il disastro di cui ci si preoccupava di più era la guerra nucleare. Ecco perché avevamo tutti un barile come questo in cantina (mostra un bidone nero con la scritta survival supplies, cioè rifornimenti per la sopravvivenza, ndt) pieno di lattine, di cibo e di acqua. Quando l' attacco nucleare sarebbe arrivato, saremmo dovuti scendere, accovacciarci e mangiare dal barile. Oggi il più grande rischio di catastrofe globale non è più questo (il fungo di un' esplosione atomica, ndt). È più simile a questo (compare l' immagine in 3D di un virus, ndt). Se qualcosa ucciderà più di 10 milioni di persone, nei prossimi decenni, è più probabile che sia un virus altamente contagioso, piuttosto che una guerra. Non missili, ma microbi. In parte il motivo è che abbiamo investito cifre enormi in deterrenti nucleari ma abbiamo investito pochissimo in un sistema che possa fermare un' epidemia. Non siamo pronti per la prossima epidemia. Vediamo l' Ebola. Sono sicuro che ne avete letto sui giornali, tante sfide difficili. L' ho seguito attentamente attraverso gli strumenti di analisi dei casi che usiamo per monitorare l' eradicazione della poliomielite. Se osservate quello che è successo, il problema non era che il sistema non funzionava. Il problema era l' assenza totale di un sistema. Di fatto mancano alcuni elementi chiave abbastanza ovvi. Non avevamo un gruppo di epidemiologi, pronti a partire per controllare il tipo di malattia e il livello di diffusione. I rapporti sui casi sarebbero arrivati tramite i giornali. Sono stati messi online con molto ritardo ed erano estremamente imprecisi. Non avevamo un team medico pronto a partire. Non avevamo modo di preparare la gente. Medici Senza Frontiere ha fatto un lavoro straordinario nell' organizzare i volontari. Ma anche così eravamo più lenti del necessario a portare le migliaia di operatori in quei Paesi. E una grande epidemia richiede centinaia di operatori. Non c' era nessuno sul posto a valutare le terapie. Nessuno analizzava le diagnosi. Nessuno cercava di capire che strumenti andassero utilizzati. Ad esempio avremmo potuto prendere il sangue dei sopravvissuti, filtrarlo e rimettere quel plasma nelle persone per proteggerle. Ma non è mai stato tentato. Sono mancate molte di queste cose. Ed è stato un fallimento globale. L' OMS viene finanziata per monitorare le epidemie, ma non per fare le cose che vi ho detto. Nei film è un po' diverso. C' è un gruppo di epidemiologi carini pronti a partire, che si trasferiscono e salvano la situazione - ma è solo Hollywood. La mancanza di preparazione potrebbe permettere alla prossima epidemia di essere terribilmente più devastante di Ebola. Guardiamo la progressione dell' Ebola di quest' anno (immagine di una cartina, ndt). Sono morte circa 10.000 persone e quasi tutte nei tre Paesi dell' Africa Occidentale. Ci sono tre motivi per cui non si è diffuso di più. Il primo è perché molti operatori sanitari sono stati eroici: hanno trovato le persone e hanno prevenuto altre infezioni. La seconda è la natura del virus: l' Ebola non si diffonde per via aerea, e nel tempo in cui diventa contagioso, la maggior parte dei malati sta così male da essere costretta a letto. Terzo, non è arrivato nelle aree urbane. E quella è stata solo fortuna. Se fosse arrivato in più aree urbane, il numero dei casi sarebbe stato molto più alto. La prossima volta potremmo non essere così fortunati. Può essere un virus in cui ci si sente abbastanza bene anche quando si è contagiosi, tanto sa salire su un aereo o andare al mercato. La fonte del virus potrebbe essere un' epidemia naturale come l' Ebola, o potrebbe essere bioterrorismo. Ci sono cose che potrebbero rendere la situazione mille volte peggiore. Vediamo il modello di un virus che si diffonde per via aerea, (immagine di una cartina, ndt) come l' influenza spagnola del 1918. Ecco cosa succederebbe: si diffonderebbe nel mondo molto rapidamente. Vedete che più di 30 milioni di persone sono morte in quell' epidemia. È un problema serio, dovremmo essere preoccupati. Ma di fatto, possiamo realizzare un buon sistema di reazione. Abbiamo tutti i benefici di tutta la scienza e tecnologia di cui parliamo qui. Abbiamo i cellulari per raccogliere informazioni e trasmetterle. Abbiamo le mappe satellitari in cui si vede dov' è la gente e come si muove. Facciamo passi avanti in biologia che dovrebbero cambiare drasticamente i tempi di ricerca di un patogeno ed essere in grado di creare farmaci e vaccini adatti a quel patogeno. Possiamo avere strumenti, ma devono essere inseriti in un sistema sanitario globale. E bisogna essere pronti. Il migliore esempio, credo, su come prepararsi è quello che facciamo in guerra. Abbiamo sempre soldati pronti a partire. E abbiamo i riservisti per aumentare i numeri. La NATO ha unità mobili da schierare rapidamente. La NATO fa tanti giochi di guerra per controllare se la gente è preparata, se conosce i combustibili e la logistica, persino le frequenze radio. Sono assolutamente pronti a partire. Sono queste quindi le cose che servono ad affrontare un' epidemia.
Quali sono gli elementi chiave?
Primo: servono sistemi sanitari efficienti nei Paesi poveri, dove le donne possano partorire in sicurezza e i bambini siano tutti vaccinati. Ma anche dove vedremo l' epidemia con molto anticipo. Serve un corpo medico di riserva: tanta gente formata che sia pronta a partire con le competenze giuste. E poi dobbiamo affiancare i militari a questi medici, sfruttando l' abilità dei militari nel muoversi velocemente nella gestione logistica e nella messa in sicurezza delle aree. Dobbiamo fare le simulazioni: sui germi, non di guerra, per vedere dove sono le lacune. L' ultima guerra dei germi è stata fatta negli Stati Uniti nel 2001 e non è andata così bene. Per ora il punteggio è Germi 1, Persone 0. Infine servono più ricerca e sviluppo nell' area dei vaccini e della diagnostica. Ci sono grandi scoperte come i virus adeno-associati, che potrebbero funzionare molto velocemente. Non ho un budget esatto di quanto potrebbe costare, ma sono sicuro sia molto basso rispetto al potenziale danno. La Banca Mondiale sa che se ci fosse un' epidemia di influenza mondiale la ricchezza globale si ridurrebbe di più di tre trilioni di dollari e ci sarebbero milioni e milioni di morti. Questi investimenti offrono benefici significativi oltre alla semplice preparazione alle epidemie. Cure primarie, ricerca e sviluppo ridurrebbero le disuguaglianze in termini di salute globale e renderebbero il mondo più giusto e sicuro. Credo quindi che dovrebbe essere assolutamente una priorità. Non dobbiamo farci prendere dal panico. Non dobbiamo fare scorta di spaghetti o scendere in cantina. Ma dobbiamo muoverci perché il tempo non è dalla nostra parte. Di fatto, se c' è una cosa positiva dell' epidemia di Ebola, è che può servire come avvertimento da campanello d' allarme per prepararci.
La profezia di Bill Gates del 2015: “Un virus ucciderà 10 milioni di persone”. Rossella Grasso de Il Riformista il 13 Marzo 2020. “Quando ero ragazzo, il disastro di cui ci si preoccupava di più era la guerra nucleare”. Inizia così il TedX tenuto da Bill Gates nel 2015. Allora Gates era scottato dalla recente epidemia di Ebola, e nelle sue parole si intravede una certa profezia che, guardando all’oggi, si è avverata. “Temevamo la guerra nucleare, ecco perché tutti in cantina avevamo un barile pieno di lattine di cibo e acqua. Quando l’attacco nucleare sarebbe arrivato, dovevamo scendere, accovacciarci e mangiare dal barile. Qggi il più grande rischio di catastrofe globale non è più la bomba atomica, è più simile a questo”. E sullo schermo compare l’immagine al microscopio del germe dell’influenza molto simile a quello a cui siamo abituati del coronavirus. “Se qualcosa ucciderà 10 milioni di persone, nei prossimi decenni, è più probabile che sia un virus altamente contagioso piuttosto che una guerra. No missili, ma microbi. In parte il motivo è che abbiamo investito cifre enormi in deterrenti nucleari. Ma abbiamo investito pochissimo in un sistema che possa fermare un’epidemia. Non siamo pronti per la prossima epidemia”. E passa a parlare del caso dell’Ebola. “Il problema non era che il sistema non funzionava. Il problema era l’assenza totale di un sistema. Di fatto, mancano alcuni elementi chiave abbastanza ovvi. Non avevamo un gruppo di epidemiologi pronti a partire, che sarebbero andati, avrebbero controllato il tipo di malattia e il livello di diffusione. I rapporti sui casi sono arrivati tramite i giornali. Sono stati messi online con molto ritardo ed erano estremamente imprecisi. Non avevamo un team medico pronto a partire e non avevamo nemmeno un modo per preparare la gente”. Gates racconta come nel 2014, il mondo ha dunque evitato un terribile scoppio globale dell’Ebola, grazie a migliaia di operatori sanitari disinteressati – e, francamente, grazie ad un fortissimo in bocca al lupo. Con il senno di poi, sappiamo cosa avremmo dovuto fare di meglio. “Allora avremmo potuto ad esempio prendere il sangue dei sopravvissuti, filtrarlo e mettere quel plasma nelle persone per proteggerle. Ma non è mai stato tentato. Sono mancate molte di queste cose. Ed è stato un fallimento globale. La WHO viene finanziata per monitorare le epidemie, ma non per fare le cose che vi ho detto”. “La mancanza di preparazione potrebbe permettere alla prossima epidemia di essere terribilmente più devastante dell’Ebola”. Per Gates il motivo per cui si è riusciti a contenere l’ebola è perché ci sono stati molti operatori sanitari eroici che hanno trovato le persone e hanno prevenuto altre infezioni. E poi perché l’ebola non si trasmette per via aerea, le persone contagiate stanno così male da essere costrette a letto e poi non è mai arrivato nelle aree urbane fermandosi all’Africa. “la pèrossima volta potremmo non essere così fortunati. Può essere un virus in cui ci si sente abbastanza bene anche quando si è contagiosi, tanto da salire su un aereo o andare al mercato”. Il discorso di Bill Gates sembra una profezia annunciata quando dice: “Ci sono cose che potrebbero rendere la situazione mille volte peggiore. Vediamo il modello di un virus che si diffonde per vie aeree, come l’influenza spagnola del 1918. Si diffonderebbe nel mondo molto rapidamente. Vedete che più di 30milioni di persone sono morte in quell’epidemia”. Dice che bisogna preparare personale sanitario efficiente, pronta a partire con le esperienze giuste, affiancare i medici ai militari. Dice che bisogna fare delle simulazioni “sui germi, non di guerra, per vedere dove sono le lacune”. “E infine servono più ricerca e sviluppo nell’area dei vaccini e della diagnostica. Non so quanto potrebbe costare questa operazione ma sono certo che sia molto basso rispetto al potenziale danno”. E cita le stime della Banca Mondiale che se ci fosse un’epidemia di influenza mondiale la ricchezza globale si ridurrebbe di più di 3 trilioni di dollari.E ci sarebbero milioni e milioni di morti. Per Gates se fatte in tempo queste misure avrebbero anche aiutato il mondo a sopperire a tute le disuguaglianze anche per il sistema sanitario. Quindi, ora è il momento, suggerisce Bill Gates, di mettere in pratica tutte le nostre buone idee, dalla pianificazione degli scenari alla ricerca sui vaccini fino alla formazione degli operatori sanitari. E di utilizzare tutte le tecnologie a nostra disposizione. Per Gates già 5 anni fa si doveva iniziare a prepararsi a qualcosa come i soldati quando vanno in guerra. “Non c’è bisogno di andare nel panico … ma dobbiamo andare avanti. Dobbiamo muoverci perché il tempo non è dalla nostra parte. Se ci muoviamo adesso, potremmo essere pronti per la prossima epidemia”. Forse l’epidemia di ebola è stata dimenticata con troppa fretta, fatto è che ai tempi del Coronavirus siamo arrivati molto impreparati.
La profezia di Bill Gates sul coronavirus ignorata da tutti. Valerio Rossi Albertini de Il Riformista il 22 Marzo 2020. Vi scrivo da un computer, naturalmente. Molti di voi stanno leggendo dal loro computer, nella versione online di Il Riformista. Personal computer vuol dire Bill Gates. Un genio visionario, indubbiamente. La caratteristica dei talenti visionari spesso è di riuscire a prevedere scenari e ad anticipare situazioni che si verificheranno anche al di fuori del loro campo di competenza. Se Bill Gates avesse vaticinato l’avvento dei tablet o degli smartphone, prima che venissero prodotti e commercializzati, lo avremmo giudicato provvisto di grande lungimiranza, ma non di virtù divinatorie. Lui era stato il primo a pensare a un computer individuale che sostituisse in molti usi i giganteschi computer delle generazioni passate. Da uno come lui, prevedere la comparsa di uno smartphone, sarebbe stato solo uno spericolato esercizio di estrapolazione, non un presagio miracoloso. Ma Gates nel 2015 fa qualcosa di completamente diverso. Si presenta sul palco dei Ted talks, quelle conferenze spettacolarizzate, il cui motto è “Idee degne di essere diffuse”. In un Ted talk, il conferenziere, avvalendosi di mezzi audiovisivi di fronte a una platea, espone le sue idee su un argomento tecnico o scientifico. Il titolo dell’intervento di Gates è “La prossima epidemia? Non siamo pronti”. Gates esordisce dicendo che ci siamo attrezzati per un eventuale conflitto nucleare, perché lo riteniamo il disastro più probabile che si potrebbe verificare in futuro, però aggiunge: «Oggi il più grande rischio di catastrofe globale non somiglia a questo – e mostra il fungo di un’esplosione nucleare -, ma somiglia a questo e mostra… il Coronavirus!!! (guardate al 40”)». Continua spiegando quanto proclamato da epidemiologi e virologi: cioè che, se non si era ancora verificato un evento del genere, si doveva a una concomitanza di circostanze molto favorevoli. Dopo la terribile epidemia di influenza Spagnola del 1919, abbiamo goduto di una calma illusoria per un secolo intero. Illusoria in quanto nulla ci garantiva che un nuovo virus non sarebbe arrivato a scuotere le nostre deboli certezze. Eppure un assaggio si era avuto recentemente in Africa, con l’epidemia di Ebola, la febbre emorragica, nel 2014. La mortalità dell’Ebola era superiore al 50% dei casi, per cui c’erano tutti i presupposti per un’ecatombe. I tre fattori che evitarono il disastro furono la difficoltà di contagio, perché il virus dell’Ebola non si trasmette per via aerea ma solo per contatto diretto con fluidi corporei del malato; la comparsa dei focolai epidemici in piccoli centri, paesi e villaggi, e non nelle grandi città; la difficoltà di spostamento della popolazione dell’Africa centro orientale, dove si era diffusa la malattia. Ma giocare d’azzardo alla roulette della Storia raramente è un buon investimento. Seneca, nel De brevitate vitae riflette sul fatto che le persone agiscono con leggerezza, sprecano le opportunità e poi, quando vedono che la situazione precipita, abbracciano gli altari o le ginocchia dei medici implorando aiuto. Il governo per l’epidemia attuale ha stanziato 25 miliardi di euro, di cui la metà immediatamente disponibili. L’urgenza è allestire nuovi posti di terapia intensiva per i malati gravi che, con i polmoni impregnati d’acqua, non riescono più a respirare da soli e richiedono apparecchi respiratori ausiliari. E allora corri a trovare locali idonei a essere adibiti ad ospedali da campo, disegna gli spazi interni, solleva setti di separazione, arreda con letti, macchinari per diagnosi e terapia, soprattutto dispositivi per la ventilazione e la respirazione assistita. Ma una richiesta così imponente di respiratori, ancora una volta, non l’aveva prevista nessuno e le aziende produttrici hanno già esaurito le scorte e sono incapaci di soddisfare la domanda crescente, pur lavorando a pieno regime. Si può tentare di rivolgersi al mercato estero, ma gli altri Paesi, vedendo che si avvicina la tempesta, certo non si mettono a esportare gli ombrelli. E questo non è neanche il peggio. Un respiratore, magari usato, magari dismesso e rigenerato, lo puoi pure trovare. Se paghi bene, lo puoi pure trovare. Ciò che non puoi comprare a prezzo di denaro sono i rianimatori, gli pneumologi, gli anestesisti. Quelli te li dovevi coltivare a partire da dieci anni prima. Invece l’emorragia di laureati, soprattutto i più meritevoli, che hanno trovato tanta accoglienza all’estero, quanta indifferenza in patria, ci ha condotto in un vicolo cieco, da cui non si esce a suon di quattrini. I quattrini andavano impiegati saggiamente prima, non frettolosamente adesso. Dobbiamo perciò essere grati agli specialisti cinesi che sono volati in nostro soccorso, proclamandosi frutti dello stesso albero, fiori dello stesso giardino, per esprimere con una delle tipiche allegorie poetiche tanto care agli orientali la vicinanza e l’affetto alle genti italiche. Purtroppo però gli specialisti sono nove… Manco se fossero i nove Avengers potrebbero risolvere loro il problema! Bill Gates dice che le epidemie dovrebbero essere affrontate come se si fosse in guerra (e forse lo siamo davvero, anche se il nemico è minuscolo). Ci vorrebbero piani internazionali di azione basati su protocolli comuni ben definiti, strumentazione e mezzi accantonati allo scopo, un sistema logistico e di comunicazione dedicati e, soprattutto, una task force di pronto intervento. Invece, l’agenzia delle Nazioni Unite che presiede alla salute pubblica, l’Organizzazione Mondiale di Sanità, è incaricata soltanto di studiarle le epidemie e seguirne il corso, ma non di intervenire per reprimerle. Sarebbe come se, in caso di attacco nemico, lo Stato Maggiore dell’Esercito si limitasse ad annotare come procede l’invasione e a informarne la cittadinanza…D’accordo, è una questione di soldi e quelli scarseggiano sempre, ma quanto costerà adesso all’Italia e al mondo intero questa pandemia? Costi economici e finanziari, ma anche costi umani. In Olanda c’è un piccolo eroe nazionale, la cui impresa ha più i contorni della leggenda, che della realtà. Si dice infatti che Hans di Haarlem, camminando accanto alla diga della sua città, vedesse una piccola falla, un forellino da cui fuoriusciva uno zampillo. Immaginando quello che sarebbe potuto accadere, mise il ditino per tappare il buco e iniziò a strillare perché qualcuno arrivasse in soccorso e provvedesse. Il suo atto salvò la città. Infatti, finché il foro è di dimensioni ridotte, il getto può essere arrestato ma, se si allarga oltre un certo limite, non c’è più alcun mezzo per contrastare la pressione dell’acqua e la diga crolla. Allo stesso modo un’epidemia. Sul nascere, bastano forze limitate per soffocarla ed estinguerla. Ma, se comincia a dilagare, poveri noi. Quindi, ora dobbiamo fare come il marinaio che si accorge che sta imbarcando acqua. Prende il secchio e inizia a ributtarla fuori, senza un attimo di sosta finché non passa la tempesta. Noi stiamo imbarcando germi e non acqua, quindi il nostro strumento non è il secchio, ma l’isolamento. E come il marinaio, superata la tempesta e arrivato in porto, fa montare una pompa idrovora per non doversi più trovare in condizioni critiche, anche noi aspettiamo pazientemente che passi la nostra tempesta restando a casa, ma poi… attrezziamoci, per fare quello che ci dice Bill Gates!
Ritratto di Bill Gates, filantropo e visionario: si è avverata la sua profezia sul Coronavirus. Marco Demarco de Il Riformista il 20 Marzo 2020. “Ho appena attraversato il mondo per guardare una toilette”. La foto lo ritrae in un villaggio africano, appoggiato a un piccolo capanno che sembra reggersi per scommessa. Questo è Bill Gates. E questo è quello che scrive sul suo sito uno degli uomini più ricchi del mondo: “I servizi igienico-sanitari sono una delle questioni più importanti su cui lavoriamo. Ho anche bevuto acqua prodotta da feci umane un paio di anni fa”. Tutto vero, naturalmente. E a provarlo c’è un’altra foto di lui che sorseggia, ultimo atto di un progetto di ricerca applicata lautamente finanziato. Quest’uomo sta mettendo in crisi una radicata visione del mondo. Vediamo perché. “Diventare ricchi è glorioso”, pare abbia detto Deng Xiaoping nel traghettare la Cina dal comunismo al capitalismo. Ma dopo? Quando sei diventato ricco, ma proprio ricco ricco, come Bill Gates, per intenderci, che altro puoi fare? Puoi darti al consumo vistoso, regalare una Birkin di Hermes al posto di una borsa di Carpisa. Ma poi? Puoi dedicarti agli acquisti non ostentativi, magari ai prodotti eco-compatibili e ai cibi biologici e non a quelli tipici dell’età dell’abbondanza, così da dare anche un senso morale all’uso della carta di credito. Ma poi? Puoi lasciar perdere i beni tradizionali e dedicarti all’arte, al cinema, alla letteratura, facendo sfoggio di cultura e conoscenza più che di patrimoni materiali. Ma poi? Insomma, se la gloria è l’immortalità degli antichi e dei non credenti, cosa può esserci di “più oltre”? È lo stesso Bill Gates a rispondere. Oltre c’è solo la filantropia. La filantropia come forza di autogoverno della società, la stessa che fa scattare le donazioni – anche quella di Berlusconi – a favore degli ospedali lombardi, per esempio. Come parente ricca della solidarietà minuta che si sta stringendo intorno ai medici e gli infermieri stremati dal coronavirus. Come espressione laica della carità. Per cui, passati i tempi mitici degli esordi, quelli dell’Università di Harvard abbandonata per il business, e archiviati quelli d’oro della Microsoft, la società che gli ha permesso di entrare nel club degli straricchi producendo software, ecco riapparire Bill Gates sulla scena mondiale: prima nei panni, insoliti ma comodi, del profeta – di fatto un pantalone dozzinale e un pullover rosa – e poi in quelli – sostanzialmente gli stessi – del ricco più generoso della contemporaneità. Più generoso del molto più giovane Mark Zuckerberg, l’inventore di Facebook, impegnato a sostenere piani di assistenza sanitaria e di lotta all’analfabetismo. Più di Jeff Bezos, il fondatore di Amazon, particolarmente sensibile alla riduzione del consumo energetico. Più di Warren Buffett, investitore senza pari al mondo, famoso anche per aver annunciato, nel 2006, che i figli avrebbero ereditano solo il 35% del suo patrimonio di 61miliardi di dollari, perché il resto sarebbe andato in beneficenza. E più dello spagnolo Amancio Ortega, dominus di Zara, la catena di abbigliamento, con un patrimonio valutato intorno ai 70 miliardi di dollari, interessato a piani di formazione e assistenza sociale. La profezia – anche questa laica- di Gates si è avverata proprio in questi giorni. Era il 2015 e in rete c’è un video che ne certifica la veridicità. Bill sale con andatura dimessa sul palco di una Ted conference ed ha l’aria di chi di sicuro annoierà il pubblico. Invece, ecco cosa succede. “Quando ero un ragazzo – comincia – il disastro di cui ci preoccupavamo era la guerra nucleare. Oggi la più grande catastrofe possibile non è più questa…”. E mostra l’immagine di una esplosione atomica. “Ma questa…” Cioè la gigantografia della corona di un virus. Non quella del Covid-19, ma qualcosa di straordinariamente simile. “Se qualcosa ucciderà 10 milioni di persone nelle prossime decadi – conclude – è più probabile che sia un virus molto contagioso e non una guerra. Non missili ma microbi”. Quanto basta per riportarlo ancora una volta ad altezze siderali: ma oggi, beninteso, non allora, non cinque anni fa, quando quelle parole non allarmarono nessuno, non avendo chi le pronunciava l’espressione corrucciata di Greta, né il volto aureolato da treccine. Più recente, ma non separata dalla prima, è invece l’altra proiezione del mito, rivelatesi quando, a pandemia dichiarata, e nel vivo dell’emergenza sanitaria, Bill Gates ha annunciato che, dopo essersi dimesso dal consiglio di amministrazione della Microsoft, aveva lasciato anche la carica di presidente. Insieme con la moglie farà ora il filantropo a tempo pieno. E questa volta la ragione è proprio il Covid-19. La Bill & Melinda Gates Foundation ha investito 10 milioni di dollari quando si è saputo del diffondersi del virus in Cina e poi altri cento quando l’emergenza si è estesa all’Europa e all’America. Complessivamente sono così oltre 45 i miliardi che Bill e Melinda hanno donato in beneficenza, la metà dell’intero patrimonio. Perché lo fanno? Per due ragioni, hanno spiegato. “La prima è per senso di responsabilità, perché così dovrebbe fare chiunque ha molti soldi. La seconda è che ci divertiamo a farlo”. E nel divertimento è compreso anche il succo di sterco Il filantropo fa il gioco del sistema capitalistico, ripetevano i marxisti. Ma non è questo che ci racconta la storia di Bill Gates, cioè la storia di uno straricco che aiuta gli strapoveri. Ci dà conferma, piuttosto, di quell’alchimia degli estremi che tiene il mondo anche se non lo spiega. In questa alchimia c’è un po’ di tutto, compreso un pizzico del Brecht di “sventurato quel paese che ha bisogno di eroi”, perché Gates è a suo modo un eroe, e il suo attivismo non è che l’altra faccia di un mondo di poveri. E c’è un poco, ma solo un poco, del ricco Tolstoj che se ne andava al mercato Chitrov e nei dormitori dei dintorni per soccorrere gli ultimi. Solo che a differenza di Tolstoj, Bill Gates non ripudia la proprietà in quanto istituto, non rivendica l’arroganza del filantropo, non ha modelli da scardinare o altri da proporre e non cita Buddha, Isaia, Lao Tze, Socrate, Gesù e Giovanni Battista. Bill Gates crede nella scienza e nella ricerca. E gli piace complicarci la vita, perché è ricco, anzi straricco, in un mondo diseguale, ed è un privato non uno Stato, in un tempo in cui solo il pubblico – inteso come sanità pubblica, finanza pubblica, scuola pubblica – sembra legittimato ad agire per il bene della collettività. Ma ciò nonostante è praticamente impossibile metterlo nella colonna dei cattivi.
"La casa nella prateria" ha predetto il coronavirus più di 40 anni fa. Un articolo del "New York Post" segnala l'inquietante somiglianza tra un virus e la pandemia descritti in due episodi della celebre serie e l'attuale Covid-19. Alessandro Zoppo, Sabato 02/05/2020, su Il Giornale. Contagion di Steven Soderbergh, il thriller sceneggiato da Scott Z. Burns con la consulenza degli studiosi del Centers for Disease Control, non è l'unico film ad aver raccontato una terribile pandemia globale che sembra in tutto e per tutto simile a quella attuale. Due episodi della celebre serie tv La casa nella prateria, uno dei telefilm più amati nella storia del piccolo schermo, sembrano richiamare in molti punti il nostro coronavirus. L'inquietante similitudine è stata sottolineata da molti utenti sui social. Le puntate in questione sono due. La prima si intitola L'epidemia (Plague in originale), fa parte della prima stagione ed è andata in onda negli Stati Uniti il 29 gennaio del 1975. Nell'episodio, il tifo contagia gli abitanti di Walnut Grove e il capofamiglia Charles Ingalls (interpretato da Michael Landon) ed il dottor Baker (Kevin Hagen) scoprono che ha un'origine animale: arriva dai topi presenti nei sacchi di grano. I sintomi (febbre alta e tosse) e i tentativi di contenimento sono simili a quelli di oggi: il pastore Alden (Dabbs Greer) trasforma la chiesa in un ospedale da campo per curare i malati, Charles confessa alla moglie Caroline (Karen Grassle) di aver dovuto seppellire un anziano in una fossa comune, Laura (Melissa Gilbert) pratica il distanziamento sociale con il padre che può vedere soltanto da lontano a causa del pericolo di contagio.
La casa nella prateria, previsto il confinamento domestico. L'altro episodio, intitolato La quarantena (in originale Quarantine), fa parte della terza stagione ed è stato trasmesso negli Usa il 17 gennaio del 1977. In questo caso, il signor Edwards (Victor French) è reduce da un viaggio e porta a Walnut Grove un morbo sconosciuto, che colpisce la figlia Alicia. Isaiah, amico fraterno di Charles, pratica il confinamento domestico: si rinchiude subito in un capanno per non contagiare gli altri membri della famiglia. Il New York Post ha sottolineato per primo queste similitudini e ha intervistato Melissa Gilbert per chiederle un parere su questi episodi che avevano "previsto" l'arrivo del virus. "Mi sono resa conto soltanto oggi – racconta l'attrice 55enne – di quanto La casa nella prateria sia stata premonitrice. Tutti noi possiamo imparare qualcosa da ciò che succede in quegli episodi". "Anche se su piccola scala – aggiunge la Gilbert – molto di quello che è stato fatto nella serie è applicabile oggi. Il villaggio ha attenuato la situazione mettendo tutti a casa in quarantena, isolando i malati in un unico luogo e cercando la causa del virus". L'attrice continua a pensare che le vicende del paesino del Minnesota e della famiglia Ingalls siano un'esplorazione dei concetti di "amore e comunità". "In fondo – ammette – l'episodio L'epidemia non è altro che un racconto di abnegazione e altruismo per un bene superiore. Proprio come adesso, gli abitanti di Walnut Grove erano tutti insieme. Non avevano i progressi scientifici di oggi e nessun tipo di cura, ma si sono legati come comunità per superare la crisi".
“CONTAGION”, IL FILM DEL 2011 CHE AVEVA PREVISTO L’EMERGENZA CORONAVIRUS. Da it.wikipedia.org. Dopo essere stata ad Hong Kong in viaggio d'affari, Beth Emhoff crolla a terra apparentemente per una banale influenza. Portata velocemente in ospedale, muore poco dopo il suo ricovero a causa di una malattia sconosciuta. La donna viene quindi indicata come la prima persona conosciuta ad aver contratto questa malattia, che viene indicata successivamente con la sigla di virus MEV-1. Nella ricerca di una possibile cura, il dottor Ellis Cheever, capo del CDC, incarica la dottoressa Ally Hextall di indagare sui primi casi di morti. Contemporaneamente la dottoressa Leonora Orantes viene inviata in un villaggio cinese alla ricerca del paziente zero. Viene scoperto che il ceppo iniziale si è diffuso per un incrocio di virus tra pipistrello e maiale e che il virus originario colpisce polmoni e sistema nervoso. Intanto si diffonde il panico tra la popolazione che vede la malattia proliferare senza che vi siano rimedi efficaci. Un blogger, Alan Krumwiede, che si occupa di teorie del complotto decide di lucrare sulla situazione, e si accorda con un'azienda produttrice di un rimedio omeopatico a base di forsizia per far credere che questo preparato possa curare il virus. Tramite un inganno (si finge malato e poi guarito tramite la forsizia) ottiene milioni di contatti per il proprio blog, mentre nel mondo il virus si diffonde e miete milioni di vittime. Il dottor Cheever annuncia alla dottoressa Hextall che la malattia è troppo pericolosa e pertanto il virus dovrà essere trattato con livello di Biosicurezza 4. Tuttavia il dottor Ian Sussman, contravvenendo all'ordine del dottor Cheever, riesce a far riprodurre il virus in colture virali, passo fondamentale nella ricerca di un vaccino. Durante l'organizzazione medica dei siti dove stazionare i numerosi infetti da MEV-1, la stessa dottoressa Erin Mears contrae la malattia, morendo in uno dei luoghi che essa stessa aveva dato ordine di organizzare. Dopo diversi giorni è pronto un vaccino che deve però passare attraverso la lunga fase della sperimentazione clinica, la dottoressa Hextall decide di testare l'efficacia del vaccino su se stessa, cosa che permetterebbe un'approvazione più veloce dello stesso. La stessa dottoressa farà visita al padre, precedentemente infettato dal virus, per testare il vaccino, che risulta essere efficace. Dopo essere stato approvato, non essendoci scorte sufficienti per la somministrazione in contemporanea a tutti i malati, si decide di somministrarlo a scaglioni, basandosi sull'estrazione a sorte delle date di nascita dei cittadini per determinare un ordine di ricezione del vaccino. Molte persone però, convinte da Krumwiede, spingono perché il vaccino non venga imposto a tutti. Il blogger viene arrestato ed accusato di cospirazione, truffa e omicidio colposo: le analisi sullo stesso Krumwiede dimostrano infatti che l'uomo, non presentando anticorpi contro il virus MEV-1, non ne è stato mai affetto e che la cura omeopatica della forsizia era un inganno. Il dottor Cheever rinuncia al proprio vaccino, donandolo al figlio di Roger, che aveva assistito al discorso tra il dottore e la moglie riguardo alla quarantena della città di Minneapolis. Nel finale viene mostrata la trasmissione iniziale del virus. Delle pale meccaniche dell'azienda per cui lavorava Beth Emhoff estirpano delle palme da una foresta nei pressi di Hong Kong, piante dalle quali vengono disturbati alcuni pipistrelli che si spostano su un albero di banane; uno di questi cibandosi dei frutti ne fa cadere un pezzo all'interno di un capannone in cui uno dei maiali allevati lo mangia. Il maiale, successivamente ucciso e portato in un ristorante del centro di Hong Kong, viene trattato a mani nude dallo chef. Lo stesso cuoco, senza lavarsi le mani successivamente al contatto con la bocca del suino, stringerà le mani di Beth Emhoff che si trova proprio nel ristorante della metropoli durante il viaggio di lavoro per la propria azienda, facendola diventare il paziente zero.
Dagospia il 27 febbraio 2020. Da popcorntv.it. Sono stati pubblicati i dati sui noleggi e gli acquisti di film di tendenza che gli utenti hanno scelto negli ultimi mesi e, quello che recentemente ha cavalcato maggiormente l'onda è stato Contagion, poiché ha anticipato l'arrivo del Coronavirus. La pellicola del 2011 - diretta da Steven Soderbergh - in cui ha recitato Gwyneth Paltrow del 2011, parlava proprio di un focolaio di virus che si diffonde in tutto il mondo, partendo da Hong Kong. Contagion: il film parlava del Coronavirus? Uno dei film più chiacchierati delle ultime settimane è Contagion del 2011, pellicola diretta da Steven Soderbergh. Il thriller, in cui - attenzione, spoiler - Gwineth Paltrow muore quattro giorni dopo aver contratto il virus ma non prima di averlo scatenato in tutto il mondo, causando milioni di morti, è nella classifica dei 10 tra i film più noleggiati e/o acquistati su iTunes. Molti utenti su Twitter hanno rilevato tante somiglianze tra la trama del film e ciò che sta accadendo attualmente nel mondo con la diffusione del Coronavirus che si è sviluppato proprio dalla Cina, come avveniva nella trama di Soderbergh. Anche le ricerche di Google che gli internauti hanno effettuato digitando il titolo del film sono salite alle stelle dall'inizio del 2020, quando è arrivata la notizia della diffusione di questo nuovo virus. Il film ha alcune assonanze con quanto sta accadendo nel mondo a causa dell'emergenza sanitaria. Nel film, infatti, si parla di un virsu letale che si diffonnde a macchia d'olio nel mondo, ma ci sono anche delle differenze: nel caso del COVID19 la diffusione esclude gli animali, mentre nella storia del film si trasmette anche da animali a persone. Inoltre, l'immaginaria malattia di contagio uccide oltre il 20% delle persone infette, una percentuale molto più elevata, rispetto al 2% circa stimato del tasso di mortalità nell'attuale epidemia.
Beth Emhoff ritorna da un viaggio d'affari a Hong Kong con una sosta all'aeroporto di Chicago, dove fa sesso con il suo ex amante. Beth si sente male, ma pensa che il problema sia il jet-leg. Torna a casa a Minneapolis e diffonde il virus a suo figlio Clark e suo marito Mitch. Quando Beth e Clark muoiono, Mitch va in quarantena dove i medici si rendono conto che è immune al misterioso virus. Nel frattempo a Hong Kong, a Londra e in una piccola provincia, i casi della malattia misteriosa si stanno iniziando a manifestare, mentre l'americana CDC e l'Organizzazione mondiale della Sanità fanno il possibile per analizzare il virus. Inizia una corsa contro il tempo, poiché il virus si sta diffondendo in progressione geometrica e - se non viene trovata alcuna soluzione velocemente - l'umanità cesserà di esistere. Contagion diventa virale: lo sceneggiatore Burns non è meravigliato Date queste somiglianze a livello superficiale, lo sceneggiatore Scott Z. Burns non è sorpreso dal fatto che il film del 2011 possa essere di particolare interesse per quelli scossi dalla diffusione di COVID-19. Il bilancio delle vittime ha superato 1.100 questa settimana, quasi interamente in Cina. Ma gli è stato chiesto se gli spettatori si stanno concentrando sui punti più ampi del film, sul panico sociale durante le epidemie legate a malattie infettive. Ecco cosa ha rivelato lo sceneggiatore a Fortune: Le somiglianze tra Contagion e il coronavirus sono irrilevanti, accidentali e davvero non così importanti. Ciò che è più importante e preciso è la risposta sociale e la diffusione della paura e gli effetti a catena di tutto ciò. Se il virus di Contagion presenta somiglianze tangibili con COVID-19, c'è una semplice ragione che giustifica tutto ciò: Burns ha fatto le sue ricerche. Nello scrivere la sceneggiatura di Contagion, ha sempre cercato di realizzare la versione scientificamente più accurata di un thriller pandemico che poteva, arruolando i dottori W. Ian Lipkin e Larry Brilliant per aiutare a creare un virus immaginario basato sia sulla scienza che sulle loro esperienze in prima persona, all'interno del campo di epidemiologia. Proprio parlando con gli scienziati che Burns ha anche portato alla luce idee su come la società potrebbe reagire a un tale virus, dal saccheggio di vetrine a un vlogger messianico di "fake news", interpretato da Jude Law. "Quando in origine ho presentato questa idea a Steven Soderbergh, ho detto che volevo che Contagion fosse radicato nella scienza il più possibile", ricorda. "Non volevo fare un film sul disastro di Hollywood che si scatenasse con la scienza. Gli eroi dovevano essere scienziati". Fortunatamente, in Brilliant e Lipkin, Burns aveva a disposizione due "scienziati eroi".
Negli anni '70, Brilliant era uno degli epidemiologi che alla fine scacciarono il vaiolo. Successivamente, è diventato il primo CEO dello Skoll Global Threats Fund, lanciata dall'ex presidente di eBay, Jeff Skoll, per combattere le minacce contro l'umanità. Lipkin è conosciuto nel suo campo come un "maestro cacciatore di virus", una reputazione guadagnata in tre decenni di gare contro il tempo per identificare e combattere nuovi virus, dal virus del Nilo occidentale allo scoppio della SARS del 2003.
Da "tgcom24.mediaset.it" il 27 febbraio 2020. “In viaggio verso Parigi. Paranoica? Terrorizzata? Prudente? Tranquilla? Pandemia o propaganda? Paltrow prosegue il suo viaggio e dorme indossando questi oggetti sull’aereo. Ho già vissuto questo film. Bisogna stare attenti. Non stringere mani altrui. Lavarsi le mani frequentemente”. Gwyneth Paltrow prende le sue precauzioni contro il coronvarius e pubblica un selfie con mascherina dall'aereo ricordando la sua "esperienza personale" nel film "Contagion" del 2011. Eva Longoria invece gira un film in Italia e non sembra avere nessuna paura...Nella pellicola di Steven Soderbergh l'attrice 47enne interpretava la paziente zero, Beth, che di ritorno da un viaggio d'affari in Estremo Oriente diventa portatrice di un virus letale che miete vittime in tutto il mondo. E l’emergenza sanitaria dovuta al coronavirus sta preoccupando anche altre star americane che su Instagram si mostrano con tanto di mascherina sul volto come Kate Hudson e Selena Gomez o, al contrario rassicurano i fan come Eva Longoria. La star di "Desperate Housewives" infatti sta girando in una piccola città in Italia, ma niente mascherina e niente panico da coronavirus, come spiega in un video: "Ciao a tutti. Sto girando in questa piccola città in Italia. Non sono vicino al Nord, grazie per le vostre preoccupazioni. Tutti mi chiamavano e mi mandavano messaggi sul coronavirus nel Nord Italia. È davvero triste, ma qui siamo più lontani". Nel frattempo, nella Corea del Sud, che ha il più grande focolaio al di fuori della Cina continentale, il gruppo K-Pop BTS ha chiesto ai fan di stare lontano dai loro spettacoli per aiutare a prevenire la diffusione del coronavirus, mentre altri artisti come il rapper britannico Stormzy hanno momentaneamente annullato i loro concerti.
Quel libro del 1981 che aveva predetto il virus di Wuhan. Federico Giuliani su Inside Over il 13 febbraio 2020. Dean Koontz è uno scrittore americano autore di decine e decine di bestellers dai quali, nel corso degli anni, sono stati tratti innumerevoli film. Proprio in questi giorni, nel periodo in cui la Cina è alle prese con l’epidemia del nuovo coronavirus, il South China Morning Post si è soffermato su un suo titolo che vale la pena essere citato. Si intitola “The Eyes of Darkness“. Stiamo parlando di un thriller uscito nel 1981 la cui trama sembra incredibilmente anticipare la vicenda che sta oggi scuotendo il mondo intero, con tanto di stessi, identici, luoghi geografici. Anche se il virus letterario non si chiama Covid-19 ma Wuhan-400, il modus operandi con cui l’agente patogeno contagia il mondo intero è tuttavia analogo alla versione reale. L’opera di Koontz racconta infatti di un laboratorio militare cinese che crea un virus come parte del suo programma di armi biologiche. Dove si trova questo centro? Niente meno che a Wuhan, il capoluogo della provincia dello Hubei da dove lo scorso dicembre si è propagato il nuovo coronavirus. Nel romanzo, i civili si ammalano uno dietro l’altro dopo aver contratto il Wuhan-400 per errore. In effetti, nella realtà, l’unico laboratorio in Cina capace di gestire i virus più letali si trova proprio a Wuhan, ed è lo stesso che ha contribuito a sequenziare il nuovo coronavirus. In molti si sono chiesti: si tratta di una semplice coincidenza letteraria oppure siamo di fronte a un inconsapevole profeta-scrittore?
Una storia inquietante. La trama del libro è avvincente e ben strutturata. Una madre, tale Christina Evans, è in lutto per la morte di suo figlio Danny. La donna ha intenzione di scoprire se il suo bambino è morto in campeggio o se, come suggeriscono alcuni messaggi sospetti, è ancora vivo. Alla fine Christina riesce a rintracciarlo in una struttura militare, dove è detenuto dopo essere stato accidentalmente infettato da alcuni microrganismi creati dall’uomo e provenienti dal centro di ricerca di Wuhan. Nel testo ci sono passaggi emblematici che anticipano diversi concetti di quasi 30 anni, tra cui eventi realmente avvenuti nell’ambito del contagio del nuovo coronavirus cinese e altre teorie complottiste. Eccone uno: “Fu in quel periodo che uno scienziato cinese di nome Li Chen si trasferì negli Stati Uniti mentre trasportava con sé un disco floppy contenente i più importanti di una nuova arma biologica, la più pericolosa dell’ultimo decennio. Lo chiamano Wuhan-400 perché è stato sviluppato nel loro laboratorio RDNA appena fuori dalla città di Wuhan”. Torniamo ai giorni nostri, nel mondo reale. Il Wuhan Institute of Virology ospita l’unico laboratorio di biosicurezza di livello quattro della Cina, cioè la classificazione di livello più alto dei laboratori che studiano i virus più letali. È situato ad appena 32 chilometri dal presunto epicentro dell’attuale focolaio di coronavirus.
Anticipare la realtà. Certo, le teorie della cospirazione secondo cui il Cov-19 sarebbe stato creato dall’uomo e fuoriuscito, magari per errore, dal laboratorio di Wuhan sono state smentite. Eppure il thriller di Koontz anticipa questo luogo comune, e anticipa pure il concetto di virus come “arma perfetta” in quanto l’agente patogeno colpisce gli umani e non può sopravvivere al di fuori di un corpo per oltre un minuti. Bisogna comunque ricordare che Wuhan è stata storicamente sede di numerose strutture di ricerca scientifica, comprese quelle che, come detto, si occupano di microbiologia e virologia. Koontz è stato bravo ad usare queste informazioni fattuali per creare una storia tanto convincente quanto inquietante. Poi che il Wuhan-400 sia uscito dal suo libro per approdare nella realtà con il nome di nuovo coronavirus, è un altro discorso. Ma il fascino di come questo libro sia riuscito a descrivere decenni prima gli effetti di una pandemia partita di Wuhan è sicuramente sorprendente. Ed è possibile anche che molte ipotesi più o meno stravaganti nascano anche da questo libro.
Da adnkronos.com il 20 febbraio 2020. Un virus letale che colpisce l'uomo e che è stato creato in un laboratorio in Cina, più precisamente nella città di Wuhan. Sembra un riferimento al coronavirus, con tanto di tesi complottista sulle origini dello stesso. Invece, è quanto si racconta in un romanzo thriller scritto nel 1981. L'autore dell'incredibile profezia è lo scrittore statunitense Dean Koontz nel libro The Eyes of Darkness, uscito appunto quarant'anni fa. Nel testo si legge: "Uno scienziato cinese di nome Li Chen fuggì negli Stati Uniti, portando una copia su dischetto dell’arma biologica cinese più importante e pericolosa del decennio. La chiamano ‘Wuhan-400’ perché è stata sviluppata nei loro laboratori di RDNA vicino alla città di Wuhan ed era il quattrocentesimo ceppo vitale di microorganismi creato presso quel centro di ricerca". "Wuhan-400 è un'arma perfetta", dice lo scrittore, perché "colpisce solo gli esseri umani". Non è tutto, perché in un altro passaggio dello stesso romanzo Koonts scrive che "intorno al 2020 una grave polmonite si diffonderà in tutto il mondo" e che questa è "in grado di resistere a tutte le cure conosciute". Sulle analogie tra il romanzo e le notizie di questi giorni relative al coronavirus si sofferma il giornalista informatico Paolo Attivissimo, che su twitter fornisce la sua lettura del caso rimandando al suo blog: "E' pressoché inevitabile che fra i milioni di storie che vengono scritte prima o poi qualcuna ci azzecchi, almeno vagamente (leggendo i dettagli del romanzo, le caratteristiche del ‘Wuhan-400’ divergono fortemente da quelle del coronavirus)", scrive Attivissimo. "Oltretutto -aggiunge- Koontz ha pubblicato più di una versione del suo romanzo, cambiandone i dettagli. Nella versione originale, uscita nel 1981, non si parla affatto di Wuhan, ma della città sovietica di Gorki, e il virus si chiama ‘Gorki-400’. Divenne Wuhan nell’edizione del 1996, per tenere conto del fatto che l’Unione Sovietica non esisteva più e che la Cina sembrava una fonte più credibile". Il blogger ricorda infine che "quello di Koontz non è il primo caso di apparente precognizione letteraria: il romanzo del 1898 The Wreck of the Titan di Morgan Robertson 'previde' il disastro del Titanic del 1912 descrivendo un transatlantico, il Titan, che affondava nel Nord Atlantico dopo uno scontro con un iceberg. In questo caso, però, il romanzo fu ritoccato dopo il 1912 per renderlo più calzante. Nella versione originale, infatti, la nave era di stazza minore, e il titolo era un ben più generico Futility".
Coronavirus, nel libro del 1981 la "profezia" sul “virus letale da Wuhan”. Carmine Di Niro de Il Riformista il 20 Febbraio 2020. “Uno scienziato cinese di nome Li Chen fuggì negli Stati Uniti, portando una copia su dischetto dell’arma biologica cinese più importante e pericolosa del decennio. La chiamano ‘Wuhan-400’ perché è stata sviluppata nei loro laboratori di RDNA vicino alla città di Wuhan ed era il quattrocentesimo ceppo vitale di microorganismi creato presso quel centro di ricerca”. Non è un riferimento complottista al coronavirus Covid-2019, che secondo il governo cinese ha già provocato oltre 2mila vittime, bensì un libro scritto oltre 40 anni fa dal noto scrittore americano Dean Koontz. Nel 1981 Koontz scrisse nel suo romanzo thriller “The Eyes of Darkness” che “intorno al 2020 una grave polmonite si diffonderà in tutto il mondo” e che questa è “in grado di resistere a tutte le cure conosciute”. Ma, come spiega il giornalista informatico Paolo Attivissimo sul suo blog, “è pressoché inevitabile che fra i milioni di storie che vengono scritte prima o poi qualcuna ci azzecchi, almeno vagamente (leggendo i dettagli del romanzo, le caratteristiche del ‘Wuhan-400’ divergono fortemente da quelle del coronavirus)”. Va detto inoltre che Koontz ha pubblicato più versioni del romanzo “The Eyes of Darkness”: nella prima, quella originale del 1981, lo scrittore faceva riferimento alla città sovietica di Gorki e il virus si chiama ‘Gorki-400’. La città divenne quindi Wuhan nell’edizione del libro del 1996, dato che l’Unione Sovietica non esisteva più e che la Cina sembrava una fonte più credibile. Sempre il blogger Paolo Attivissimo spiega infine che “quello di Koontz non è il primo caso di apparente precognizione letteraria: il romanzo del 1898 The Wreck of the Titan di Morgan Robertson previde il disastro del Titanic del 1912 descrivendo un transatlantico, il Titan, che affondava nel Nord Atlantico dopo uno scontro con un iceberg. In questo caso, però, il romanzo fu ritoccato dopo il 1912 per renderlo più calzante. Nella versione originale, infatti, la nave era di stazza minore, e il titolo era un ben più generico Futility”.
· Le Previsioni.
"Seconda ondata a inizio 2021: catastrofe al Sud". Dossier riservato consegnato ai vertici di Forza Italia rivela: «Gli effetti saranno devastanti». Redazione, Mercoledì 22/04/2020 su Il Giornale. Lo scenario è da incubo, persino peggio dell'inferno dal quale stiamo uscendo. É il dossier elaborato da una famosa agenzia di ricerche e commissionato in forma riservata da Forza Italia. Sono contenute le previsione socio economiche dei prossimi mesi, supportate da dati e grafici che disegnano un futuro disastroso, quasi come quello del dopoguerra. Ma paradossalmente non è questo che ha gelato il sangue nelle vene di chi lo he letto. Si parla anche del Coronavirus, analisi su quel che sarà basate delle informazioni raccolte in tutto il mondo sull'andamento della pandemia. Parla di quell che pare probabile sia la seconda ondata dei contagi e che investirtà di nuovo il nostro Paese a partire dal prossimo inverno. «Colpirà il Sud a gennaio - c'è scritto nel rapporto - e gli effetti saranno catastrofici». Quindi all'inizio dell'anno prossimo e non in autunno come ventilato dagli esperti che lavorano per il governo. Un dossier che ha spinto i vertici di Forza Italia a consultarsi con i governatori di centrodestra del sud per analizzare la situazione e prendere le necassarie contromisure. E se nel 2020 la morte arrivava da Est, stavolta il Covid-19 colpirà dall'Africa e dalle Americhe, spiega il sito on line de La Stampa che ha pubblicato la notizia. Non meno preoccupanti comunque i dati relativi alla situazione economica che aspetta l'Italia. Chi li ha letti rivela che entro la fine dell'anno saranno un milione e settecentomila le piccole e medie imprese che rischiano la rovina economica. Anche il prodotto interno lordo, molto al di là del devastante -9% stimato dal Fondo monetario, precipiterà a -14,7%, trascinando a fondo quasi 6 milioni e mezzo di italiani che perderanno il lavoro, con un tasso di povertà che crescerà al 22,7%. Numeri spaventosi che è facilmente prevedibile metteranno a dura prova la tenuta sociale e politica del Paese. Ed è sulla capacità di gestirla del governo Conte che si moltiplicano i dubbi. L'emergenza Covid-19 ha costretto milioni di italiani a restare a casa, con inevitabili ripercussioni anche dal punto di vista economico: in particolare 3,4 milioni di famiglie hanno perso più del 50% del reddito, secondo l'indagine realizzata per Facile.it da mUp Research e Norstat. Ancora una volta, la situazione sembra essere più difficile al Meridione, che è riuscito comunque a mantenere limitata la diffusione del virus e dei contagi, dove le famiglie che hanno dichiarato di essere già oggi in difficoltà economica corrispondono al 23%; condizione altrettanto difficile anche tra i nuclei con figli minorenni (23,8%) e in quelli monoreddito (25%). Vivono soprattutto al Nord Ovest, invece, gli italiani che hanno dichiarato di potersi trovare a breve in difficoltà (45,4%). Una nuova ondata sulla parte più fragile del Paese potrebbe avere conseguenze devastanti.
“Coronavirus colpirà il Sud a gennaio”/ Studio riservato Forza Italia: scenari tetri. Dario D'Angelo su Il Sussidiario il 21.04.2020. Coronavirus, la seconda ondata colpirà il Sud a gennaio: lo sostiene uno studio riservato di Forza Italia. La profezia agghiacciante tra sanità ed economia. La seconda ondata del coronavirus colpirà il Sud Italia a gennaio. Lo sostiene uno studio riservato commissionato da Forza Italia ad un’agenzia di ricerca che sembra evocare uno scenario agghiacciante per il Mezzogiorno. Se la prima ondata del virus è partita da Est e ha colpito il Nord Italia, la seconda – stando alle elaborazioni degli esperti sulla pandemia – muoverà dall’Africa e dalle Americhe. Secondo quanto riportato da La Stampa, chi ha avuto modo di leggere il dossier nel partito di Silvio Berlusconi è letteralmente raggelato. Una profezia “agghiacciante”, quella formulata dall’agenzia cui è stato commissionato lo studio, ancora di più considerando le deficienze strutturali di un sistema sanitario che in molte Regioni del Meridioni non sarebbe certamente in grado di supportare la pressione che la pandemia potrebbe provocare. L’allarme generato dal dossier avrebbe già dato il via ad una consultazione ristretta dai dirigenti nazionali di Forza Italia e i governatori di centrodestra del Sud, molti dei quali appartenenti proprio al partito di Silvio Berlusconi. Obiettivo: tentare di muoversi per tempo e organizzare una risposta adeguata del sistema sanitario, pur consapevoli che realtà sulla carta ben più strutturate di quelle del Meridione hanno sofferto, se non rischiato totalmente il collasso, durante il picco epidemico. Tra gli scenari ipotizzati nel corso di questa consultazione anche l’ipotesi di una chiusura dei confini, per tentare di limitare il contagio, da prolungare necessariamente almeno fino alla primavera 2021. Ovvio che i modelli elaborati dallo studio possano tenere conto soltanto fino ad un certo punto della “variabile umana”, compresa la possibilità che per allora sia stato già trovato un vaccino. Lo studio riservato arrivato sulle scrivanie dei dirigenti di Forza Italia ha esaminato anche la situazione economica del Paese e anche in questo caso i dati non sono per niente incoraggianti. I numeri parlano di un milione e settecentomila Pmi a rischio default finanziario. Horror anche la previsione sul Pil: il prodotto interno lordo scenderà ben oltre il -9% ipotizzato dal Fondo monetario, ma precipiterà a -14,7%. A risentirne saranno quasi 6 milioni e mezzo di italiani che perderanno il lavoro, con un tasso di povertà che aumenterà al 22,7%. Numeri a dir poco inquietanti, che rischiano di mettere a repentaglio la tenuta sociale oltre che quella politica. In molti dubitano che il governo Conte possa reggere l’urto di questa crisi, ma al di là degli ammiccamenti è Tajani – almeno ufficialmente – a negare che Forza Italia possa appoggiare un esecutivo guidato dal premier: “In nessun caso faremmo da stampella a questo governo se i grillini dovessero spaccarsi. Al massimo potremmo votare lo scostamento del bilancio o singoli provvedimenti per far fronte all’emergenza sanitaria. Ma chi pensa che possiamo spaccare il centrodestra per aiutare Conte è completamente fuori strada”.
· Epidemia e Fake News.
Coronavirus fra negazionisti e bufale. Le vere ragioni delle false credenze. Elisa Manacorda La Repubblica il 9 novembre 2020. Una protesta di negazionisti quest'estate a Berlino. Fra i motivi la poca preparazione scientifica e la scarsa fiducia nelle istituzioni pubbliche. Ma anche problemi di salute. E' tutta colpa della Cina: la pandemia è stata creata ad arte dal Dragone per prendere il controllo del pianeta Terra. Per fortuna il virus Sars-Cov-2 non esiste, dunque stiamo tutti senza mascherina, che d’altra parte fa malissimo alla salute. L’emergenza? Niente di più falso. Gli ospedali italiani sono vuoti, e le immagini che vediamo in Tv sono prodotte da professionisti al soldo di Soros o di Bill Gates... Le chiamiamo bufale, fake news, negazionismi e complottismi, anche se forse sarebbe più corretto definirle false credenze (dall’inglese “false beliefs”). Eppure a queste affermazioni crede sinceramente una certa parte della popolazione mondiale. Italiani compresi, come si è visto dalla partecipazione alle manifestazioni no-mask delle scorse settimane, dalle violente discussioni sui social, e dai sondaggi, come quello condotto già nel marzo di quest’anno da BVA Doxa, secondo cui per un quarto dei nostri connazionali la pandemia sarebbe frutto di una non meglio identificata forza esterna.
Troppe informazioni. E’ uno dei tanti effetti della Covid-19: la scoperta di un mondo articolato e complesso di uomini e donne che, magari in perfetta buona fede, sostengono e diffondono notizie non basate sulla realtà dei fatti. I motivi sono tanti. Quello più immediato e banale è che il fenomeno pandemia è troppo complesso per essere semplificato in modo ragionevole: ci arriva ogni giorno una quantità vertiginosa di dati e immagini che non è affatto facile interpretare e gestire. L’informazione scientifica proviene dalle fonti più disparate, non necessariamente autorevoli, ed è per giunta in continuo divenire. Insomma, distinguere il vero dal falso - detto che la scienza in generale, e ancor più la medicina, ha per sua natura una certa difficoltà nello stabilire un confine netto tra le due categorie - non è affatto semplice.
La disinformazione. E’ indubbio però che quello della disinformazione sia un problema rilevante anche ai fini del contenimento della pandemia, da analizzare con tutti gli strumenti a disposizione. Alla base di questo fenomeno globale (che non è nuovo, ma la cui diffusione le connessioni digitali amplificano e velocizzano) ci sono diverse ragioni, di natura socio-culturale, psicologica, e persino neurologica, come ben racconta uno studio appena pubblicato sul Journal of American Medical Association a firma di Bruce Miller, del Memory and Aging Center dell’Università della California a San Francisco. "Miller – spiega Stefano Cappa, professore di Neurologia all’Istituto di Studi Superiori di Pavia e alla Fondazione Mondino, e membro della Società Italiana di Neurologia – è un grande esperto di demenza fronto-temporale. E usa questa competenza per trovare delle similitudini tra i pazienti con questa condizione e persone del tutto sane che però mostrano comportamenti analoghi in termini di "false credenze'".
Una provocazione. Una sorta di provocazione, dunque, che non deve farci pensare ai negazionisti come individui malati, bensì aiutarci ad analizzare i meccanismi del cervello umano che ci rendono vittime delle fake news. D’altra parte, scrive Miller, le credenze che si basano su informazioni false, esattamente come quelle fondate sulla verità, hanno origini neurali e riflettono le connessioni nei circuiti cerebrali dedicati. Gli studi sui disturbi neurodegenerativi che colpiscono questi circuiti aiutano a comprendere i processi neurali alla base della creazione e della diffusione di credenze non basate sulla realtà. Per capire di cosa stiamo parlando, spiega Cappa, dobbiamo innanzitutto pensare che tutti noi siamo sottoposti a un carico informativo quotidiano che non ha precedenti nella storia dell’umanità. Per non soccombere sotto questa mole di dati è necessario operare una selezione, separando le informazioni degne di nota da quelle che non lo sono. Ebbene, in alcune malattie neurologiche questo meccanismo salta: le informazioni arrivano al cervello degradate o con molto 'rumore' intorno, il filtro non funziona bene e l’attenzione viene richiamata in modo abnorme solo da quelle che vengono gridate o molto ripetute da chi ci sta intorno – analogamente a quanto succede quando si viene attratti dai titoli cubitali o ci si fida solo degli elementi molto condivisi sui social.
La percezione. Un altro dei fattori che interviene in questo processo è quello della percezione. “Immaginiamo di scorgere un oggetto in condizioni di scarsa visibilità”, spiega Cappa. “Quello che vediamo è solo una parte dell’esistente, ma il nostro cervello ricostruirà anche quello che in realtà non vediamo. In questo normale processo si inserisce l’aspettativa. Mi spiego: se sono su un sentiero di campagna e vedo un movimento tra i cespugli, mi aspetto di vederne sbucare un cane, non un elefante. Ma se mi aspetto un elefante, sarò convinto di avere visto un elefante anche sulla base di informazioni che altri interpretano come riferibili a un cane. In questo senso le mie aspettative sono preponderanti sull’informazione effettiva, e l’informazione frammentaria che ricevo viene completata dal cervello e interpretata sulla base di quello che io mi aspetto”. Chi vede elefanti là dove ci sono cani, per di più, è incrollabilmente convinto di essere nel giusto. "Ad accomunare alcuni disturbi neurologici e le false credenze - continua Cappa – è infatti un’idea della realtà che nessuno è in grado di scalfire, dunque assolutamente impermeabile a qualunque cambiamento”. Alcuni pazienti colpiti da demenza frontotemporale, spiega Miller, credono di aver vinto alla lotteria, e questo li porta a spendere soldi che non hanno. Ma è del tutto inutile discutere con loro e cercare di fargli capire che la loro ricchezza non esiste, perché i loro circuiti nei lobi frontali hanno perso la capacità di confermare o smentire la validità di un’idea, in questo caso la propria ricchezza.
Cosa fare con i complottisti? Questo significa che dobbiamo smetterla di discutere con i complottisti? “Non in assoluto – sostiene Cappa – ma dobbiamo imparare a distinguere tra le diverse categorie di persone che subiscono il fascino delle fake news. A coloro che non hanno gli strumenti culturali per interpretare la complessità, questi strumenti vanno forniti, con una buona istruzione, divulgazione, comunicazione. Con quelli che affrontano il tema come un dogma, invece, forse non vale la pena perdere tempo. In ogni caso – conclude il neurologo - chi è in buona fede non andrebbe mai deriso o insultato, cosa che invece accade di frequente a causa della polarizzazione delle opinioni”.
Scarsa conoscenza scientifica. Per comprendere un fenomeno complesso è indispensabile quindi quella che Miller chiama science literacy, una consuetudine con il procedimento logico e scientifico e con il pensiero critico che forse non è così diffusa in Italia. E nemmeno negli Stati Uniti, a detta dello studioso: una valutazione nazionale condotta nel 2015 dal National Assessment of Educational Progress (NAEP) su 11000 studenti di fine liceo ha mostrato che solo il 22 per cento di questi aveva una buona conoscenza scientifica, mentre il 40 per cento era classificato come "al di sotto delle competenze di base”. In uno studio condotto su 9654 adulti statunitensi, il 48 per cento di chi aveva un'istruzione superiore credeva che ci fosse del vero nella teoria del complotto secondo cui la pandemia è stata pianificata da forze oscure, ma solo il 15 per cento tra quelli con una formazione post-laurea condivideva questa idea. L’alfabetizzazione scientifica – la ricerca di dati a supporto di una affermazione, lo studio delle fonti, la riproducibilità di un esperimento e così via - non è esclusiva dei medici o degli scienziati, sottolinea Miller. Dovrebbe fare parte dell’istruzione primaria e secondaria, e affinata per risolvere problemi all’università o nella vita professionale. Se questo processo di confronto tra tutti gli aspetti di un problema non viene insegnato da piccoli, un individuo è più suscettibile a credere a informazioni false.
Gli italiani e la Scienza. A questo proposito va detto che l’Italia non si è mai distinta per l’amore nei confronti della cultura scientifica, a cominciare dalle scuole. Ma è una lunga storia, anche senza scomodare Croce e Gentile e il popolo di poeti. “La sfiducia nella scienza che percepiamo oggi, e che alimenta i negazionismi sul Covid, è frutto di un processo iniziato probabilmente alla fine della seconda Guerra mondiale con la bomba di Hiroshima”, dice Federico Neresini, sociologo all’Università di Padova che da sempre si interessa dei rapporti tra scienza, tecnologia e società.
Bassa fiducia nelle istituzioni pubbliche. Ma attenzione: l’Italia non è un paese di complottardi, o comunque non stiamo messi peggio di altri in Europa. A differenza di altri paesi però noi abbiamo un aggravante, continua il sociologo: una bassissima fiducia nelle istituzioni pubbliche. Nel momento in cui la Scienza viene percepita come espressione dell’establishment, la sfiducia si estende anche alla categoria degli scienziati. Che per altro hanno le loro responsabilità, almeno dal punto di vista della comunicazione. “Lavorando sul tema delle biotecnologie e della loro accettazione da parte dell’opinione pubblica, ci siamo accorti di un fenomeno illuminante per quello che accade oggi”, continua Neresini: tra le persone che percepivano gli esperti divisi su un tema scientifico, in particolare quello delle cellule staminali, il tasso di opposizione era doppio rispetto a chi invece percepiva una concordia tra gli scienziati. Andare in televisione l’un contro l’altro armati per sostenere tesi opposte, insomma, non aiuta. E però la scienza è fatta anche di questo: di conoscenze che si costruiscono attraverso il confronto tra dati e ipotesi diverse. “Il punto è che in Italia manca un dibattito pubblico di buon livello sulla scienza, anche per colpa dei media, per i quali la ricerca arriva in prima pagina solo quando, metaforicamente parlando, nasce un bambino con due teste”, aggiunge Simone Gozzano, che insegna Filosofia della Scienza all’Università dell’Aquila. Se invece ci abituassimo all’idea che gli scienziati sono sempre sul ring, tanto più se si muovono sul limite estremo delle conoscenze come è il caso del coronavirus, avremmo meno problemi ad assistere alle loro legittime divisioni, e non ci rifugeremmo nelle false credenze per paura di affrontare quello che stiamo cominciando a capire e che ci spaventa moltissimo: il fatto che la scienza non è in grado di fornirci verità assolute. C’è un ulteriore aspetto da considerare. Per difenderci dalle bufale non basta solo una migliore alfabetizzazione scientifica. Servirebbe - aggiunge Federico Conte, presidente dell’Ordine degli Psicologi del Lazio – anche una alfabetizzazione emotiva. Un abc dei sentimenti che ci consentirebbe di tollerare meglio la paura, le frustrazioni, l’attesa o la mancanza di notizie certe sul coronavirus. Se non possediamo gli strumenti per gestire queste emozioni negative – e la psicologia, dice Conte, è da sempre considerata roba da ricchi, quindi non fa parte del bagaglio primario – e se dunque non sappiamo contenerle cognitivamente, dobbiamo trovare una causa esterna che ci aiuti a elaborarle. In questo il complottismo ha una funzione salvifica: ci aiuta a trovare una spiegazione, ci permette di dare la colpa a qualcuno, ci consente di sfogare la nostra rabbia sugli altri, secondo un meccanismo che, fatte le debite proporzioni, è simile a quello che si ritrova nella violenza domestica. Sfogo sui familiari la mia incapacità di gestire la frustrazione perché le cose non vanno come vorrei, perché il mondo non funziona secondo i miei schemi. Il che spiega anche, conclude Conte, perché il discorso sociale (e social) sulla pandemia sia così polarizzato e pieno di aggressività. Ne usciremo? Secondo Miller sì, a patto che ci si impegni su alcuni fronti. L’educazione scientifica dovrebbe essere parte integrante dell’istruzione, a partire dall'infanzia e per tutta la vita. Scienziati, medici ed esperti di salute pubblica dovrebbero impegnarsi nel dialogo sui temi caldi (mascherine, vaccini, farmaci anti-Covid). In ogni centro di cura dovrebbe essere disponibile materiale informativo chiaro e accessibile a tutti. Soprattutto, la comunità scientifica dovrebbe interrogarsi, insieme a politici e comunicatori, per capire cosa sia andato storto durante questa pandemia. Ed evitare di ripetere gli stessi errori alla prossima occasione, che certamente si ripresenterà.
Il silenzio colpevole degli intellettuali. Davide Rondoni su Panorama l'11/11/2020. Non dicono niente, o quasi. Molti sacrosanti manifesti contro il fermo della musica, del teatro, dei cinema. Come sono sacrosanti e comprensibili i lamenti di altre professioni (dalle palestre ai ristoratori). Ma, appunto, professioni. Qui sta il primo punto di rinuncia, di astuta vigliaccheria della stragrande maggioranza degli intellettuali italiani in questo momento. Accreditarsi come una professione come un'altra. Decadere dalla propria funzione o compito a mera professione. meritevole certo come altre di tutela, di ristoro, di assicurazione. Ma così al tempo stesso decadendo, dimettendosi dalla propria funzione e compito, dalla verità della propria professione o arte - che è di agitare le coscienze e il potere con delle domande, con delle inquietudini. Che non è "fare politica" ma indagare la verità anche del momento politico. Nessuna domanda invece, se non da rare voci (da Agamben a Sgarbi, dalla Tamaro al poeta Conte, da Fusaro al sottoscritto) e non molto altro, sul perché si è giunti a tale massiva sospensione della libertà, sulle contraddizioni evidenti (tanto da spingere Procure a indagare sui vertici del sistema sanitario e su strane giochi di documenti nel "famigerato" Comitato tecnico scientifico, come mostrato da una trasmissione un tempo cult Report, non da fonti oscure), sulle falle evidenti di una narrazione ufficiale che accompagna e copre le falle di una gestione sanitaria da massacro, sugli atteggiamenti ambigui delle massime autorità dello Stato in mesi decisivi, sul ruolo di multinazionali nel finanziamento di Organismi internazionali della Sanità mentitori e sul ruolo degli stessi nel grande affare del vaccino. Nessuna inquietudine sull'appiattimento e spegnimento di un paese dominato da una piccola borghesia dipendente dallo Stato in via diretta e indiretta e dunque più facilmente "accomodabile", né sulla dose di cinismo e depressione buttata con violenza addosso a una generazione di giovani. Poche domande, poche inquietudini. E molto spregevole esercizio di riduzione d'ogni dubbio o interrogazione al rango spregevole del più idiota negazionismo, o respingendo ogni tentativo di ragionare nell'ombra fastidiosa del vacuo complottismo. Solo generale accodarsi a slogan e luoghi comuni, a verità buttate sul popolo in nome di "evidenza scientifica" da parte di scienziati che si contraddicono o tacciono su questioni rilevanti. Nemmeno buttando un occhio a documenti sotto gli occhi di tutti, dai grafici dell'economia mondiale alle evidenze demografiche pandemiche o alla inaffidabilità di bollettini propinati quotidianamente come bollettini di guerra e del terrore. Ho sentito con le mie orecchie il maggiore consulente attuale del Ministro della salute, ( che spesso e volentieri in tv veniva presentato come membro Oms fino alla smentita di tale appartenenza per bocca di un direttore italiano della stessa OMS ora al centro delle indagini della procura di Bergamo) affermare che quanto si svolgeva in primavera dalla Protezione Civile e inchiodava gli italiani ogni sera per mesi era una pantomima. Ma non mi pare lo abbia mai detto in tv. Nulla da dire da parte degli intellettuali su tutto questo ? Come se a un fatalismo mediterraneo e clericale si fosse sovrapposto un fatalismo sanitario e scientista. E come se un diktat avesse -con un profluvio di informazione mediatica martellante e omologata- ordinato: poche domande, non si disturba il manovratore. Ma, come riporta Simona Zecchi nel suo recente e inquietante libro "L'inchiesta spezzata di Pier Paolo Pasolini", il poeta friulano già rimproverava poco prima di morire agli intellettuali organici al Pci, occorre innanzitutto aver chiaro che scopo del lavoro intellettuale non è disturbare politicamente il manovratore o chi al manovratore politicamente oppone, spesso con pari occultamento della verità, bensì sollevare questioni di verità politica, su quanto accade alla polis. Interiori e civili. Non farlo -come non lo stanno facendo la maggior parte degli intellettuali più in vista del Paese, cresciuti e foraggiati dai media dominanti in decenni di banale militante indignazione continua- significa dichiarare il proprio fallimento ancor prima che la propria viltà. Cosa dicono il giornalista d'inchiesta famoso, la pasionaria isolana per i diritti e contro i fascismi? Cosa dicono gli ex giovani scrittori allevati in scuderia da editori di best seller? Cosa dicono i giornalisti culturali cullati nei salotti televisivi? Tale deserto intellettuale, a cui si accompagna come un fantasma il quasi assoluto silenzio anche degli uomini custodi del fuoco del sacro, si offre come panorama inedito ma non sorprendente, in un posto dove sembra contare più il "posizionamento" che la passione per la verità.
Da "leggo.it" il 30 ottobre 2020. «I termoscanner danneggiano il cervello causando la perdita della memoria». Questa l'ennesima bufala diffusa sul web, tra ambienti "complottisti", "no mask" e "Qanon", e prontamente smentita con i fatti dalla Federazione nazionale degli Ordini dei Medici (Fnomceo). Sul portale anti-fake news "Dottore ma è vero che", i medici italiani hanno deciso di smentire l'ennesima bufala, svelata, secondo chi l'ha ampiamente diffusa, da una presunta e sedicente infermiera australiana. Sotto accusa gli infrarossi dei termometri, che però non emettono alcuna radiazione e si limitano a catturare le lunghezze d'onda dal corpo per misurare la temperatura. «Ogni corpo emette radiazioni elettromagnetiche e la quantità di radiazioni emesse è direttamente proporzionale alla temperatura del corpo elevata alla quarta, secondo la legge di Stefan-Boltzmann. Di conseguenza, più un corpo è caldo, più radiazioni emette. Tutto ciò che ci serve quindi è uno strumento che misuri la quantità di radiazioni infrarosse emesse dal corpo del passeggero: chi ha la febbre infatti emette più radiazioni". "Queste onde, una volta convogliate su lenti ottiche, vengono convertite in un segnale elettrico e attraverso un processore vengono tradotte in numeri, che l'operatore può leggere facilmente sullo schermo» - si legge ancora nel post - «Non sono pericolosi per la salute, non cancellano la memoria, non danneggiano né uccidono neuroni poiché questi dispositivi misurano gli infrarossi anziché emetterli, e la persona la cui temperatura viene misurata non è soggetta a radiazioni infrarosse extra", come rassicura Rachael Krishna su Full Fact, un ente britannico che si occupa di controllare l'attendibilità delle notizie che circolano su Internet. "La luce rossa vista su questi dispositivi è proprio questo, un fascio di luce per aiutare l’operatore a prendere correttamente la mira». Nella fake news diffusa sul web si spiegava che i termoscanner agirebbero direttamente sulla ghiandola pineale che si trova nel cervello. Niente di più falso, spiega ancora il sito della Fnomceo: «I termometri a infrarossi e termoscanner non trasmettono onde nel corpo. C'è quella sensazione che in qualche modo si stia inviando qualcosa che poi deve tornare indietro, ma niente di tutto questo è vero. Si tratta solo di un ricevitore che sta catturando onde luminose».
Pensare e scrivere liberamente, senza se e senza ma. Alessandro Sallusti il 30/05/2020 su Il Giornale Off. Riportiamo l’articolo di Alessandro Sallusti pubblicato sul numero di maggio di CulturaIdentità che potrete ancora trovare in edicola. L’intervento del direttore del Giornale si concentra sul proliferare di commissioni etiche e comitati e task force governative che decidono ciò che è vero e ciò che è falso in merito a notizie e opinioni di attualità: qual è la verità? E come si fa a smascherare il falso? (Redazione). Da qualche millennio l’uomo si interroga sul concetto di verità senza riuscire a dare una risposta univoca, convincente e condivisa. I fisici – semplifico – hanno deciso di cavarsela definendo vero solo ciò di cui è dimostrabile il contrario: si può dire con certezza che il sole scalda perchè senza sole percepiamo il freddo. Un concetto banale ma allo stesso tempo troppo complicato per un uso quotidiano nel quale trovare la prova contraria è spesso impossibile. Un metro di misura potrebbe quindi essere che “è vero ciò che accade”, punto. Ma purtroppo (sarebbe bello) non è così: una somma di fatti veri, cioè accaduti, non necessariamente porta a una verità. Se mettiamo in fila dieci fatti realmente accaduti nella vita di qualsiasi persona ed escludiamo tutti gli altri che la riguardano possiamo tranquillamente far passare per santo un assassino e un assassino per santo (è la tecnica preferita dalla cultura di sinistra ben applicata dai giornali che la diffondono) senza tema di smentita. Faccio un esempio personale. Mio nonno Biagio, ufficiale del regio esercito, fu condannato a morte nel ‘45 per aver presieduto suo malgrado il tribunale che l’anno prima aveva condannato a morte il partigiano Giancarlo Puecher. Questo è quello che si legge sui libri di storia ed è la pura verità. Ma nessuno scrive con altrettanta chiarezza, e quindi nessuno sa, che il giovane Puecher aveva partecipato, insieme a tre compagni, a un agguato in cui furono uccisi a sangue freddo due giovani fascisti e che solo grazie alla mediazione di mio nonno con il rappresentante dell’accusa, tre partigiani (i compagni di Puecher) salvarono la vita, come risulta da numerosa e indiscutibile documentazione. Quale è la verità fattuale ed etica di questo caso? Un bel rebus, non c’è che dire, irrisolvibile perché i fatti della vita e della storia non sono mai “one shot” ma al tempo stesso figli e padri di altri fatti in una catena infinita nella quale si alternano eroismi e tragedie. Da qui, per la gestione umana della verità, la necessità di semplificazioni. Nelle dittature si stabilisce in maniera coercitiva che è vero ciò che decide e dichiara il regime, e la cosa finisce lì. Nelle democrazie, perché siano tali, la verità può essere invece anche un atto di fede o un punto di vista. È cioè riconosciuto che esiste una verità soggettiva altrettanto plausibile di quella ufficiale e che se non costituisce minaccia all’incolumità altrui non può essere ingabbiata dentro codici e leggi figlie del tempo e delle mode sociali e politiche. Attenzione, anche in democrazia la rilettura della storia e la lettura della cronaca sono condizionate (a volte imposte con furbizia come nelle dittature) dal vincitore “democratico” di turno, basti come esempio quello di far credere che l’Italia fu liberata dai partigiani comunisti e non, come accaduto in realtà, dagli eserciti angloamericani. Ma detto questo in una democrazia compiuta il pensiero, e le parole che lo esprimono, devono restare liberi e non penalmente sindacabili, tantomeno perseguibili o imbavagliabili (non a caso questo concetto è il primo emendamento della Costituzione americana). Liberi di pensare e di sostenere pubblicamente che Dio esista o non esista, che la terra sia piatta o tonda, che si debba andare a destra o sinistra, che le ondate migratorie siano una opportunità da prendere o una minaccia da scongiurare, che il Coronavirus sia un’arma segreta cinese o una vendetta di Dio. E qui veniamo al punto. Questo proliferare di commissioni etiche (la più nota è quella parlamentare denominata Segre) per indagare sui pensieri che si discostano dalle verità ufficiali o che più semplicemente si permettono di contrapporre loro altre verità, questi comitati insediati per decidere ciò che è vero e ciò che è falso su notizie e opinioni riguardo a temi di attualità (è appena successo per il Coronavirus) cosa hanno a che fare con la democrazia e con la verità? . La risposta è semplice: nulla. Il rischio che con la scusa della crisi economica e sanitaria ci venga sottratto, in nome di nobili principi, un pezzettino alla volta la libertà di pensiero è più pericoloso della povertà e del virus stesso. Fino a che il pensiero è libero tutte le altre libertà possono essere o tornare. Sanzionare il pensiero è l’anticamera della perdita della libertà fisica – le carceri delle dittature sono zeppi di dissidenti – e non è un caso che i nostri corpi e comportamenti stanno per essere affidati, con la scusa della sicurezza sanitaria, a della app gestite da un giudice supremo senza volto. Così come peggio di un colpevole in libertà c’è solo un innocente in carcere, peggio di una fake news c’è soltanto un pensiero impedito, represso o sanzionato. Per questo il diritto a “pensare liberamente” , a “scrivere liberamente”, a “informare liberamente” deve essere la madre di tutte le battaglie, senza se e senza ma.
Articolo dell'Economist tratto dalla Rassegna Stampa di Epr Comunicazione l'8 giugno 2020. L'"infodemia" intorno al covid-19, dichiarata dall'Organizzazione Mondiale della Sanità a febbraio, non è la prima epidemia di disinformazione al mondo, scrive The Economist. Questa volta i miti includono l'idea che la malattia possa essere curata bevendo metanolo, che ha portato a più di 700 morti in Iran, e che sia diffusa da trasmettitori 5g, che hanno convinto i piromani in Gran Bretagna a compiere più di 90 attacchi alle torri telefoniche. Proprio come il virus si insinua nei polmoni delle persone, le idee pericolose stanno contagiando le loro menti. A marzo un sondaggio condotto da Gallup in 28 paesi di quattro continenti ha rilevato che in tutti loro almeno il 16% e ben il 58% delle persone pensava che il covid-19 fosse stato deliberatamente diffuso. Il 4 maggio è stato caricato un filmato di un film intitolato "Plandemico", che sostiene che un'oscura élite ha iniziato l'epidemia a scopo di lucro; nel giro di una settimana è stato visto 8 milioni di volte e la sua star, Judy Mikovits, è stata in cima alla lista dei bestseller di Amazon. I social media permettono alle persone di condividere notizie vere e quelle false. Ma i favolisti sembrano vincere. Uno studio pubblicato su Nature a maggio ha scoperto che, sebbene gli utenti di Facebook pro-vaccino siano più numerosi di quelli anti-vaccino, gli anti-vaxxers sono più bravi a creare legami con gruppi non allineati come le associazioni dei genitori delle scuole, quindi il loro numero sta crescendo più velocemente. Tra gli americani, l'esposizione ai social media è associata a una maggiore probabilità di credere che il governo abbia creato il virus o che i funzionari ne esagerino la gravità, secondo un recente articolo della Misinformation Review della Harvard Kennedy School. Le emittenti di molti paesi hanno bisogno di una licenza e devono convincere le autorità di regolamentazione che riportano le notizie in modo veritiero. Poche di queste limitazioni si applicano a Internet. In aprile l'Ofcom, il cane da guardia delle emittenti britanniche, ha censurato una piccola stazione televisiva chiamata London Live per aver mandato in onda una parte di un'intervista con David Icke, un teorico della cospirazione che crede che la pandemia sia una bufala. La trasmissione era stata guardata solo da 80.000 persone. Ma Ofcom aveva visto l'intervista completa su YouTube, che è fuori dalla sua giurisdizione. Covid-19 può sembrare un argomento relativamente semplice su cui giocare a fare il censore. Rispetto, ad esempio, alla politica, "è più facile stabilire politiche che siano un po' più in bianco e nero e che prendano una linea molto più dura", ha detto Mark Zuckerberg, il capo di Facebook, al New York Times a marzo. Così come la disinformazione non è una novità, né il suo uso politico. Nel 1964 un saggio di uno storico, Richard Hofstadter, sullo "stile paranoico" della politica americana descriveva "il senso di accesa esagerazione, sospettosità e fantasia cospiratoria" che attraversava tutto, dalle proteste settecentesche contro gli Illuminati al movimento anti-massonico.
Eppure, mentre Hofstadter sosteneva che lo stile paranoico arrivava facilmente a quelli di sinistra come a quelli di destra, per esempio, citava le voci di un complotto dei proprietari di schiavi propagandato da alcuni abolizionisti: l'infodemia di oggi sembra diffondersi più facilmente tra i conservatori del mondo che tra i liberali. In America il Pew Research Centre ha scoperto a marzo che il 30% dei repubblicani ritiene che il virus sia stato creato intenzionalmente, quasi il doppio dei democratici. Il mese scorso un sondaggio di YouGov ha rilevato che il 44% dei repubblicani pensa che Bill Gates voglia usare i vaccini covid-19 per impiantare microchip nelle persone; il 19% dei democratici è d'accordo. In Francia un sondaggio di Ifop ha rilevato che il 40% di coloro che sostengono il partito di Marine Le Pen ritiene che il virus sia stato programmato, il doppio della quota tra i sostenitori del partito di estrema sinistra Unsubmissive . I sostenitori del Partito della Libertà della destra populista olandese e del Forum per la Democrazia (fvd) nella misura del 40% affermano che il covid 19 è un'arma biologica, 4 volte tanto il numero dei sostenitori del Partito Socialista di estrema sinistra. A parte le teorie cospirative più estreme, i conservatori sembrano anche più propensi dei liberali a mettere in discussione la linea ufficiale sulla pandemia. Alla fine di marzo, con la Gran Bretagna appena bloccata, un quarto dei conservatori, ma solo il 15% dei sostenitori laburisti credeva che il covid-19 fosse "proprio come l'influenza". La riluttanza di tanti conservatori a credere alla narrativa convenzionale del covid-19 fa parte di un sospetto più generale sulle fonti di informazione tradizionali in alcuni luoghi. In America Rush Limbaugh, noto presentatore americano di talk-show, parla dei "quattro angoli dell'inganno": i media, gli scienziati, il mondo accademico e il governo. L'elitarismo non è solo per i conservatori. Andrés Manuel López Obrador, il presidente populista di sinistra del Messico, si rivolge continuamente ai media. Così come l'ex leader laburista, Jeremy Corbyn, che parlava in modo oscuro di un "establishment" che misteriosamente continuava a fargli perdere le elezioni. Le credenze cospirazioniste sono associate all'estremismo ideologico di qualsiasi varietà, sostiene Karen Douglas, un'esperta di teorie cospirazioniste dell'Università del Kent. Eppure dice che c'è una "asimmetria". Le persone di destra ci credono più spesso, e si occupano di una gamma più ampia di teorie, in particolare quelle che accusano l'altra "parte" di complotto, sia che si tratti di sinistra, di stranieri o di altri gruppi. I cambiamenti strutturali possono spiegare perché gli elettori conservatori sembrano essere più inclini all'infodemia, e perché i leader conservatori hanno più ragioni - e sono più simili - per minare le fonti affidabili. Per prima cosa, le lamentele dei conservatori che le élite non sono dalla loro parte sono diventate più plausibili. In molti Paesi la vecchia divisione politica di sinistra-destra, basata sull'economia, è stata sostituita da una divisione liberal-conservatrice, basata sulla cultura. Ciò contrappone in gran parte i laureati liberali ai conservatori che lasciano la scuola. E l'élite - sia nei media, nella pubblica amministrazione, nella scienza o nel mondo accademico - è dominata dai laureati. Questo non li rende necessariamente parziali. Ma quando i brexiteers si lamentano che la funzione pubblica è un nido di Remainers, o i repubblicani ringhino che le università americane sono piene di liberali, hanno ragione. I conservatori hanno risposto sintonizzandosi con le loro fonti mediatiche, che hanno scoperto che si possono fare soldi amplificando le loro paure. Le talk radio americane punteggiano le chat paranoiche con annunci di rimedi sanitari dubbi (ad Alex Jones, un conduttore radiofonico texano, è stato recentemente ordinato di smettere di vendere dentifricio che, secondo lui, "uccide l'intera famiglia sars-corona a bruciapelo"). Canali via cavo come Fox News e siti web come Breitbart hanno attirato il pubblico portando le teorie marginali nel mainstream. Più di recente, gli algoritmi dei social network hanno indirizzato le persone verso contenuti polarizzanti, che hanno maggiori probabilità di provocare "engagement" e quindi di generare impressioni pubblicitarie. Nel 2018 un rapporto interno a Facebook ha avvertito che gli utenti venivano indirizzati verso materiale che creava divisioni. Tuttavia, secondo il Wall Street Journal, il progetto "Eat Your Veggies" (Mangia le tue verdure) è stato messo da parte, anche a causa della preoccupazione che i cambiamenti avrebbero colpito gli utenti conservatori più di altri, secondo il Wall Street Journal. Circa il 16% degli americani riceve le notizie covid-19 direttamente dalla Casa Bianca; tre quarti di coloro che lo fanno pensano che i media abbiano esagerato la gravità della pandemia. Un'altra causa di sfiducia conservatrice è che, in alcuni Paesi, il sistema elettorale dà ai politici conservatori un particolare incentivo per incoraggiare la polarizzazione. I liberali tendono a concentrarsi nelle città; i conservatori sono più sparsi. Nei sistemi "chi vince prende tutto", questo mette i partiti liberali in una posizione di svantaggio, in quanto accumulano enormi maggioranze nelle città, mentre i partiti conservatori ottengono più seggi con margini più bassi altrove. In America questo significa che i repubblicani possono vincere il collegio elettorale con una minoranza del voto popolare (come hanno fatto nel 2000 e nel 2016). In Gran Bretagna significa che i sostenitori di Brexit sono in maggioranza in quasi due terzi delle circoscrizioni, ma costituiscono solo la metà circa degli elettori. Il risultato, sostiene Ezra Klein in un nuovo libro sull'America, "Why We're Polarised", è che l'ultra-partitismo funziona meglio per i conservatori. I liberali devono vincere i voti dei moderati; i conservatori possono prevalere solo tirando fuori la loro base. Man mano che la politica diventa più polarizzata, dare energia alla base diventa più facile, e conquistare i moderati è più difficile.
Dal piano Kalergi al Covid come influenza, la controinformazione secondo Messora: "Sentire pareri diversi fa bene". Pubblicato venerdì, 05 giugno 2020 da Matteo Pucciarelli su La Repubblica.it. Claudio Messora, 52 anni, è l'inventore di Byoblu, un blog nato nel 2007 dove si promette di "svelare le verità che gli altri non vi dicono". Anche perché spesso sono teorie strampalate, in questi anni però utilizzate a man bassa soprattutto da 5 Stelle e Lega per soffiare sul fuoco dello scontento e della paura.
A proposito di queste teorie e partendo da qualche anno fa, tra le altre cose lei divenne famoso spiegando il "piano Kalergi" su La7, ovvero che ci fosse in corso in Europa un piano-complotto di sostituzione etnico inventato da un conte boemo cento anni fa. Ci crede ancora?
"Non sono diventato famoso per quello. Avevo già fatto tre anni di televisione con Gianluigi Paragone su Rai 2. Comunque quel pezzo mi fu chiesto esplicitamente dalla redazione de La Gabbia, per interpretare un sentimento che emergeva in rete, ma a parte quell'episodio non me ne sono mai occupato. Non è un tema che mi appassiona".
Quindi era un po' una parte in commedia?
"La televisione è spesso una rappresentazione...".
Senta ma Byoblu dà semplicemente voce a quel che gira in rete oppure alla fine ne è una cassa di risonanza? Un conto è dire "sul web si parla di questa teoria", un altro è lavorare direttamente o meno per farla crescere e renderla credibile.
"Il blog nacque per consentire a chi ha una posizione sottorappresentata di esporla con calma. Ovviamente c'è una selezione, ma il criterio è quello di rappresentare l'opposizione informativa: quando i grandi media vanno in un'unica direzione, noi andiamo nell'altra e copriamo i buchi. Non c'è quasi mai un'adesione personale ai temi, tranne la volontà di rappresentare, nei limiti della legalità, ciò che manca".
In effetti è un modello di marketing politico editoriale che sembra funzionare molto in questi anni, sfruttato specialmente a destra. A questo proposito, politicamente oggi lei come si definirebbe?
"Noi però non facciamo marketing: noi crediamo davvero che sia necessario riequilibrare un modello di informazione troppo uniformato. Politicamente, Byoblu a giorni alterni viene accusato di essere leghista, grillino, perfino piddino o comunista: dipende da chi intervistiamo. Ne siamo felici: lo prendiamo come un attestato di libertà. Io personalmente, ad esempio, non sono contro l'Euro o contro l'Europa: sono solo contro ogni decisione che non venga presa direttamente dai cittadini dopo ampio dibattito. Difendo la libertà di un popolo di andare a sbattere, se lo desidera. Dagli errori si impara e si cresce".
Però dire come ripetete spesso che "tutta la stampa" segue un copione al quale solo voi vi opponete non è una banalizzazione? Faccio un esempio: il Manifesto e il Giornale sono molti diversi e distanti... La pluralità c'è, ma a voi piace far credere che non sia così.
"Ma guardi intervistiamo spesso giornalisti del Giornale come Vivaldelli e altri del Manifesto come Dinucci, per dire che non siamo legati a nessuno. In ogni caso sui temi minori c'è ampia discrezionalità, ma sull'agenda che è davvero importante la stampa non esce dal politicamente corretto. Il vicedirettore del Corriere della Sera Federico Fubini, ad esempio, tempo fa ha ammesso spontaneamente di non avere dato una notizia per non ostacolare il processo di integrazione europea. Dobbiamo tornare a un mondo dove le notizie si danno e basta, e l'informazione si sveste di quel ruolo paternalista che la porta a sentirsi responsabile di come i lettori la assimileranno. Lo sa come il Corriere diede l'annuncio della ratifica del Fiscal Compact e del Mes nel 2012? Con cinque righe e mezza a pagina 7. Erano atti politici fondamentali, di cui tanto si sarebbe discusso in futuro. Io ne parlavo, ma sulla stampa era tabù".
Nel sommario di un video del cosiddetto esperto di medicina Stefano Montanari e che vi è stato rimosso da YouTube, era dello scorso marzo, si diceva che il coronavirus era poco più di una influenza. Poi ci sono stati oltre 30 mila morti in Italia. Non le sembra pericoloso questo voler sempre distinguersi?
"Ecco, vede? Se abbiamo paura che un'opinione sia pericolosa entriamo in un mondo dove il giornalista decide chi ha diritto di parola e chi no in base al sentire comune o all'agenda delle commissioni di tecnici. Chiaramente il giornalista può e deve mettere alla prova le opinioni di un intervistato, come sta facendo lei, ma io credo che non le debba censurare. Sentire pareri discordanti fa solo bene. Prova ne è che quella intervista, che fu condotta da una giornalista professionista, è stata vista due milioni e mezzo di volte prima di essere oscurata. Le risulta che l'Italia abbia smesso di indossare guanti, mascherine, e che si sia riversata in strada? No: la gente è più capace di esercitare la ragion critica di quel che si crede. Bisogna avere fiducia nei lettori".
Lei darebbe mai spazio a opinioni che minimizzano o negano, ad esempio, l'Olocausto? Dopotutto un suo lettore potrebbe aspettarsi anche in questo caso una "versione alternativa" della verità.
"Se la questione fosse posta in questi termini no. Si tratta di una stagione troppo buia della storia, che riguarda troppe persone che ancora oggi soffrono la perdita dei loro cari in circostanze drammatiche. Sono cresciuto con i racconti di mio padre che a soli cinque anni aveva negli occhi gli Stuka abbattuti e i piloti riversi al suolo senza gli stivali, perché glieli rubavano, e con i racconti di mio nonno sui rastrellamenti. Tuttavia sono contrario alle leggi che vogliono impedire perfino agli storici di affrontare la questione da un punto di vista rispettoso, oggettivo e basato su ricostruzioni documentali. La scienza e la cultura devono essere libere di dibattere".
Un altro vezzo di Byoblu è quello di dar voce a chi non è mainstream. Però scusi, buona parte dei vostri ospiti sono fissi in tv, altri sono diventati parlamentari, Marcello Foa addirittura è presidente della Rai. Piace e funziona molto definirsi fuori dal sistema, però poi la realtà è ben diversa, si è sistema e forse più degli altri.
"Quando ho iniziato a intervistarli erano poco noti e non avevano alcun ruolo pubblico. Sono in tanti che, dopo avere mosso i primi passi su Byoblu, hanno fatto il salto e raggiunto posizioni apicali nell'informazione o nella politica. Alcuni di loro restano legati a noi e tornano volentieri. Altri preferiscono smarcarsi, adesso che hanno accesso ai salotti buoni televisivi. Non gliene voglio. Credo anzi che il nostro ruolo sia proprio questo: portare alla ribalta nuovi temi e nuovi personaggi che apportino nuova linfa al dibattito pubblico. In questo l'informazione indipendente e quella mainstream potrebbero essere complementari anziché antitetici, ed accettare una contaminazione reciproca".
Foa si è "smarcato" o siete rimasti in contatto?
"Direi che si è smarcato. Ma lo capisco: nella sua posizione ogni parola che dice verrebbe strumentalizzata. Certo però che fa specie pensare che addirittura il presidente del servizio pubblico radiotelevisivo italiano sia uscito proprio da qui, e ciò nonostante continuiamo ad essere esterni al cosiddetto sistema. Questa è la dimostrazione di quello che le dicevo all'inizio: noi non siamo organici a nessuno. Quando furono nominati i direttori Rai, Foa e Carlo Freccero vennero bersagliati di telefonate da chi pensava di dover riscuotere un credito. Io non chiamai nessuno perché non sono un arrivista. Mi chiamò Freccero per complimentarsi e parlò bene di me anche in Commissione di Vigilanza. Ma se mi avessero offerto un programma in Rai mi avrebbero dato un dispiacere, amo troppo Byoblu e sto bene dove sono".
Avete fatto uno studio o lo avete commissionato su chi è il lettore medio di Byoblu? Età, sesso, lavoro, convinzione politica...
"No, perché le ripeto che non facciamo marketing. Fino ad adesso siamo stati istinto e passione".
Ma un'idea ve la sarete fatta, o no?
"Sì, abbiamo un pubblico di tutte le età ma concentrato specialmente nella fascia tra i 35 e i 65, in prevalenza maschile, composto da moltissime famiglie che faticano ad arrivare a fine mese ma che mettono tutto il cuore che hanno per sostenerci, e da una parte di intellettuali che apprezzano molto le interviste di spessore, quelle di cui nessuno parla mai, preferendo citare quelle più folkoristiche, che sono apprezzate per la capacità di andare a fondo nei temi senza il limite dei tempi televisivi. Politicamente non c'è una prevalenza specifica di bandiera: immagino, certo, che ci siano pochi elettori del Pd, ma più che altro si tratta di persone che credono nella necessità di ripartire dai valori costituzionali, progressivamente svuotati, insoddisfatti dell'approccio mercantilista alle questioni sociali, che inseguono il sogno della fondazione di un nuovo modello sociale basato sul rapporto con gli altri, su nuovi valori di solidarietà e su una politica più vicina ai cittadini e meno alle cosiddette élite. È una parte del Paese che si spende per un mondo che crede di poter migliorare, e non va sottovalutata, perché storicamente i grandi cambiamenti sono sempre partiti da poche persone molto impegnate".
"Solidarietà" dice lei, magari sì, ma leggendo commenti e analisi su Byoblu verso i non italiani se ne vede un po' parecchio meno...
"È una vulgata che mi sento di contestare con forza. Sono nato in Egitto e ho zii di colore e parenti musulmani. Quando ero piccolo festeggiavo il Ramadam e cenavamo con il pane "sciami", quello che facevano i beduini. Si figuri come potrei mai avere paura della diversità. Quello che alcuni ospiti su Byoblu casomai hanno criticato in passato è la politica di immigrazione in un Paese dove la povertà e la disoccupazione sono molto elevati, e dove si sfrutta la manodopera clandestina per soddisfare le leggi del mercato globale. Anziché innalzare i diritti e le conquiste in maniera universale, si finisce per comprimerli per tutti".
Non si è mai pentito di qualche cosa che ha pubblicato?
"Mi sono pentito dei modi, più che dei contenuti. In rete abbiamo imparato a fare i 'giornalisti' strada facendo, sperimentando sulla nostra pelle le conseguenze del modo che si sceglie per presentare le questioni e argomentare le critiche. Più ruvido e naive in passato e progressivamente più accettabile e professionale a mano a mano che l'esperienza cresceva. Come tutti, sicuramente ho fatto molti errori e da questi ho imparato. Fuori dall'agone dove infuriano le contrapposizioni, però, posso dirle che le critiche anche feroci mi hanno cambiato e che ancora mi cambiano tutti i giorni. Certi titoli forti di dieci, dodici anni fa non li farei più. Il confronto è sempre salutare ed è fonte di insegnamento: aiuta a crescere come persone e far progredire il dibattito pubblico verso una maggiore tolleranza e integrazione".
Lei è stato organico ai 5 Stelle, ne fu anche responsabile della comunicazione al Senato e in Europa, oggi come li vede?
"Ho creduto molto nel modello politico che aveva costruito Gianroberto Casaleggio, sotto la cui guida illustri sconosciuti avevano trovato una nuova ispirazione e una possibilità per incidere finalmente nella società. Ci siamo sentiti tutti i giorni per anni, e spesso mi chiedo cosa penserebbe oggi di Byoblu, se fosse ancora vivo. Purtroppo la sua scomparsa ha privato il Movimento del faro che ne illuminava il percorso, ed oggi tutti i principi ispiratori degli inizi sembrano essere tramontati. Il M5S si è voluto fare sistema, ma non avendone l'esperienza e l'astuzia, anziché cambiarlo ne è stato inghiottito".
E della Lega invece che opinione ha?
"Ha acquistato alcuni cavalli di razza, molto cari al nostro pubblico, ma nonostante abbia i numeri per fare quell'opposizione strenua di cui il Parlamento e il Paese hanno bisogno, sembra che nel suo complesso sia poco incline a sbilanciarsi. Vedremo la nascita di nuove forze politiche e di nuovi movimenti, alcuni dei quali potranno anche incontrare il favore dei delusi dalle forze cosiddette sovraniste, ma il tema della rappresentanza politica, cioè del divario tra le promesse fatte durante le campagne elettorali e ciò che poi realmente si mantiene, continuerà purtroppo ad essere attuale molto a lungo".
Dagonota il 5 giugno 2020. Non crediamo ai nostri occhi: la reazione di Rula Jebreal dopo aver spacciato bufale su Twitter? Prendersela con il nostro ''linguaggio di odio''! Non smette di stupirci, anche perché essendo una giornalista intelligente e preparata, deve davvero esserci qualcos'altro dietro, una specie di copione, di personaggio che si è scelta e dal quale non può più uscire. Come un bot che è stato riprogrammato per parlare solo di razzismo, fascismo, sessismo. Non essendoci in Italia un vero movimento come quello americano, si è intestata una battaglia in cui è l'unica combattente. Il titolo di Dagospia recitava ''Twitter smerda Rula''. Certo, pesantuccio, come d'altronde è spesso lo stile del sito, riservato a uomini e donne e perfino primati (''Macaco er cazzo''). A Fabrizio Biggio dei ''Soliti Idioti'' (quelli di ''Mavvaffanculo Gianluca, sei 'nfrocio demmerda'') non è piaciuto, ed è una legittima critica sul linguaggio, ci può stare. Ma Rula commenta così: Mentre il mondo protesta contro il razzismo, la priorità dei sovranisti e dei loro propagandisti in Italia è attaccarmi. Quell'errore è stato commesso da molti colleghi bianchi, ma guarda caso sono l'unica a subire attacchi con un linguaggio di odio e violenza. Fatece capì: lei affianca Hitler, tra i più crudeli, razzisti e sanguinari dittatori della storia, a un presidente degli Stati Uniti in carica, che non ci risulta essere colpevole di crimini di guerra, e noi usiamo ''linguaggio di odio''? Non solo, pubblica un contenuto clamorosamente falso e ritoccato, tanto che Twitter è costretto ad aggiungere l'avvertimento: ''manipolato'', ed è ''la società'' (italiana, presumiamo) a essere ''lontana dalla verità e giustizia''? Spacciare foto taroccate di Trump (lo aveva già fatto nei mesi scorsi) facendo body shaming sul suo colorito arancione e sul suo riporto è un ''tentativo di fare informazione''? Infine, una nota ''di colore'', appunto: in Italia parlare di ''colleghi bianchi'' fa veramente ridere i polli. Noi non ce la siamo presa con Rula per il colore della pelle, ma perché fa parte di quella categoria di giornalisti che vive per insegnare agli altri il mestiere. Ed essendo ormai obnubilata dalla sua battaglia identitaria, non solo non si scusa per l'errore clamoroso, ma se la prende con chi glielo fa notare. Prova della sua modestia e obiettività è il suo ritwittare il commento di un altro utente, che spinge sul fatto che è ''straniera, palestinese, passaporto italo/israeliano …ma soprattutto (e non glielo perdoneranno mai) intelligente!''. Seguito dalla chiosa: Quando una società è lontana dalla verità e dalla giustizia, il tentativo di fare informazione viene visto come oppressione! Invito i colleghi italiani a seguire l’esempio dei colleghi americani...E a non lasciare la questione del RAZZISMO/SESSISMO solo a giornalisti come me! Quindi lo ammette lei stessa: non è più una giornalista, ma un'attivista della sotto-categoria RAZZISMO/SESSISMO, un formaggino di Trivial Pursuit nel quale si è auto-ghettizzata. Oddio, possiamo usare ancora la parola ghettizzare? Rula, aiutaci!
Mariangela Garofano per ilgiornale.it il 5 giugno 2020. La giornalista Rula Jebreal torna su Twitter, dopo lo “scivolone” commesso nei giorni scorsi. La giornalista ha pubblicato una foto che ritrae Donald Trump con la Bibbia in mano, durante un discorso alla nazione, accostandola ad una di Adolf Hitler in mezzo alla folla, anch’egli con una presunta Bibbia in mano. L'immagine, come il social network le ha fatto notare, era un fotomontaggio creato ad arte per screditare il presidente Trump. Lungi dal chiedere scusa per l’errore commesso, la Jebreal si è servita ancora una volta di Twitter, per sfogare la sua “indignazione” nei confronti dei media italiani, rei di aver riportato la sua gaffe, ma di non aver fatto altrettanto con altri “colleghi”, caduti nel medesimo tranello. Nel tweet pubblicato, la giornalista palestinese ha condiviso un articolo, riportato dal comico Fabrizio Biggio, che addita la donna come "spacciatrice di fake news". “Mentre il mondo protesta contro il razzismo, la priorità dei sovranisti e dei loro propagandisti in Italia è attaccarmi. Quell'errore è stato commesso da molti colleghi bianchi, ma guarda caso sono l'unica a subire attacchi con un linguaggio di odio e violenza. #BlackLivesMattter”, si legge nella didascalia di accompagnamento al tweet. Ma il tentativo di far leva sul razzismo nei suoi confronti non è piaciuto al web, che ha accusato all'unanimità la giornalista di vittimismo e di aver giocato per l’ennesima volta la carta di un’inesistente discriminazione, di cui lei sarebbe bersaglio. “Invece di scusarsi per il fake usa la carta del razzismo. Vette altissime!!”, scrive contrariato un utente. E ancora: “Parli di razzismo e poi rimarchi la parola "bianchi". Nessuno ti ha attaccata, anche se è un comportamento ingiusto, perché sei nera, ma perché da una che si ritiene giornalista ci si aspetta che, prima di pubblicare, verifichi le fonti. PS avrebbero attaccato anche un bianco”. “Colleghi bianchi? Scusi la domanda ma lei di che colore è? I peggiori razzisti siete voi arabi, poi rompe le scatole e frigna sul razzismo. Ancora la carta del razzismo? Ma anche no grazie”. Rula Jebreal, paladina dei diritti delle donne e delle minoranze, non ha mai nascosto il suo disappunto nei confronti del presidente degli Stati Uniti. Ma nel tentativo di screditare Trump, accostandolo addirittura al fuhrer, è caduta nella trappola delle fake news, e Twitter è intervenuto a bollare la foto da lei condivisa, come “contenuto manipolato”. D'altronde, recentemente il social network aveva segnalato due tweet proprio a Donald Trump, come "potenzialmente fuorvianti". Quando si dice l'ironia della sorte...
Umberto De Gregorio: “Servizio Report inaccettabile, contro De Luca metodi squadristi”. Ciriaco M. Viggiano de il Riformista il 4 Giugno 2020. “Il servizio di Report sull’Asl Napoli è inaccettabile. Informare dando notizie false è gravissimo. Questo non è servizio pubblico, è camorrismo giornalistico”. Parole dure quelle che Umberto de Gregorio, numero uno dell’Eav storicamente vicino al governatore De Luca, usa per commentare l’ultima inchiesta del programma di Rai Tre.
Presidente, che cosa pensa del servizio?
“Inammissibile il metodo con il quale è stato realizzato. Dare una notizia falsa, come quella del commissariamento dell’Asl, è gravissimo. E lo è anche il ricorso all’intervista fatta in anonimato e senza contraddittorio: un infermiere coperto dall’anonimato e col dente avvelenato può dire qualsiasi cosa. In più, nel servizio si vede chiaramente l’abitazione di Verdoliva: abbiamo criticato Salvini quando ha citofonato a un presunto spacciatore e ora nessuno si indigna poi? Questo non è giornalismo, ma squadrismo”.
E l’obiettivo qual è?
“De luca. Il suo lavoro durante l’emergenza Coronavirus è stato eccellente, quindi qualcuno ha pensato bene di sporcare la sua immagine sparando a zero sull’Asl e sulla gestione della sanità locale”.
Commistione tra politica e giornalismo?
“Non credo al complotto. Le inchieste possano essere scomode ed è comprensibile che il Movimento 5 Stelle, nella persona del suo leader campano Valeria Ciarambino, punti a far emergere il marcio anche dove il marcio non c’è. Ma, ripeto, il problema è il metodo che è stato usato per centrare l’obiettivo”.
Nel servizio si fa riferimento addirittura alla camorra: anche queste affermazioni sono funzionali all’obiettivo politico?
“Sì, se l’obiettivo consiste nello screditare De Luca e Verdoliva. Chi non sa nulla di questa storia e guarda il servizio di Report, è automaticamente portato a immaginare che i protagonisti siano dei farabutti. Eppure credo che questo metodo sia destinato a fallire”.
Perché?
“È troppo tempo che su De luca si dicono cose false. Nel 2015, in occasione delle regionali, si parlò di corruzione e furono imbastite tante ricostruzioni fantasiose sulla campagna elettorale. Invece il governatore amministra in maniera trasparente, efficiente ed efficace da sempre. E i campani lo riconoscono”.
Come rimediare agli effetti delle fake news?
“I danni provocati da certe operazioni sono irrimediabili. Penso, però, che la Commissione di vigilanza sulla Rai. Ripeto, è legittimo criticare De Luca e Verdoliva. Ma è inammissibile agire seguendo certi metodi”.
Report cancella il servizio sulla sanità campana, problema tecnico o auto-censura per le fake news? Redazione su Il Riformista il 3 Giugno 2020. “Errore 404: contenuto non disponibile”. Chi volesse rivedere la puntata di Report andata in onda lunedì scorso collegandosi al sito della Rai si troverebbe di fronte a questo messaggio. La puntata in questione, sparita dalla rete, è quella in cui il giornalista Federico Ruffo ha raccontato la gestione dell’emergenza Covid in Campania e la decisione di sciogliere, poi smentita dal Ministero dell’Interno, l’Asl Napoli 1. A quell’inchiesta il direttore generale dell’Azienda sanitaria Ciro Verdoliva, accusato di avere utilizzato una ditta che lavorava alla manutenzione dell’Asl per ristrutturare la sua abitazione privata, aveva risposto parlando di “fake news miste a pochi contenuti veri, decontestualizzati e montati ad arte”, chiedendo la smentita delle notizie rivelatesi poi palesemente false. Lo stesso dg sanitario ha denunciato di aver ricevuto minacce e offese al citofono di casa, in piena notte, in seguito alla messa in onda dell’inchiesta in cui viene chiaramente mostrata l’abitazione di Verdoliva, in contrasto con la tutela della privacy. “Sono un uomo pubblico, se qualcuno ha qualcosa da dirmi può farlo, le porte del mio ufficio sono aperte – ha spiegato in un’intervista a radio Crc – ma non tollero che venga attaccata la mia sfera privata e la mia famiglia. Questi individui sono dei vigliacchi che, nascondendosi dietro l’anonimato, non hanno il coraggio di prendersi le responsabilità delle proprie azioni, e tutto questo grazie al fatto che una trasmissione Rai, quindi una Tv pubblica, abbia mostrato le immagini del portone di casa mia”. Dopo la denuncia del direttore generale la puntata è scomparsa dai canali Rai senza alcuna spiegazione in merito.
AGGIORNAMENTO DELLE 19.00 DEL 03/06/2020. Il sito di Report in pomeriggio ha ripubblicato il video ma ha eliminato la parte finale in cui il conduttore Sigfrido Ranucci dava la (fake) news riguardo lo scioglimento dell’Asl Napoli 1 centro smentita da una nota del Viminale.
Scioglimento Asl Napoli, le scuse di Report: “Data informazione inesatta”. Redazione su Il Riformista il 4 Giugno 2020. “Ho sbagliato e chiedo scusa ai telespettatori e come da legge ne darò conto nella prossima puntata”. Così Sigfrido Ranucci, conduttore della trasmissione d’inchiesta Report, dopo le polemiche e le richieste di rettifica dei giorni scorsi relative all’annuncio fake dello scioglimento dell’Asl Napoli 1 Centro per infiltrazioni di camorra. La notizia, lanciata lo scorso weekend da alcuni media, è stata poi ripresa da Report nel suo viaggio nella sanità campana dal titolo “Lo sceriffo si è fermato a Eboli”, nonostante la smentita del Viminale chiamato a pronunciarsi sulla questione. Il servizio del programma di Rai 3 era stato temporaneamente tolto dal sito Rai Play per modificare la parte finale dove veniva annunciata “una informazione inesatta”. Ranucci, in un lungo messaggio su Facebook, ribadisce che “l’infiltrazione è stata provata e documentata dai magistrati”. “Non c’è alcun mistero sull’inchiesta andata in onda lunedì scorso sulla sanità campana. Ho dichiarato in uno studio che il ministro dell’Interno aveva dato il via allo scioglimento dell’Asl Napoli 1 per infiltrazione camorristica. Richiesta che avrebbe comunque dovuto passare, in base alla legge, il vaglio del consiglio dei Ministri. Ho dato un’informazione non esatta, perché il ministro Lamorgese sta ancora valutando. Come sempre quando Report sbaglia ammette il suo errore. Ho sbagliato e chiedo scusa ai telespettatori e come da legge ne darò conto nella prossima puntata. Per questo ho chiesto che venisse corretta l’informazione in puntata e sul nostro sito sito, perché non continuasse ad essere divulgata un’informazione sbagliata”. Ranucci tuttavia sottolinea che “quello che è stato un gesto di correttezza deontologica è stato strumentalizzato. Questo è quanto vi devo. Ma per completezza d’informazione, e per questo non vorrei disturbare i sogni di chi alza cortine fumogene evocando solo la fake news, che i fatti riportati nella relazione della commissione che sono in attesa della firma del ministro, riguardano l’indagine della procura di Napoli, e che purtroppo è confermata nella sua gravità. Per rinfrescare la memoria di chi tenta invece di offuscarla ricordo le parole del procuratore capo Melillo su quanto trovato nell’ indagine sulla Asl Napoli 1: “I giudici hanno riconosciuto l’esistenza di una associazione mafiosa denominata Alleanza di Secondigliano; è documentato il controllo mafioso al di là di ogni capacità personale di immaginazione, addirittura di una struttura sanitaria, l’ospedale San Giovanni Bosco, diventata una sorta di ‘sede sociale’ dell’organizzazione mafiosa. Un luogo nel quale gli uomini del clan Contini controllano ogni aspetto, anche minuto, del funzionamento dell’ospedale: dalle forniture, alle assunzioni nelle ditte appaltatrici, persino le relazioni sindacali passano per la mediazione camorristica. Tutto quello che è documentato in questa ordinanza di custodia cautelare è stato realizzato senza che denunce di sorta arrivassero alle autorità”. Questa è l’infiltrazione provata e documentata dai magistrati. Se poi questo è sufficiente per firmare uno scioglimento, appartiene a una decisione politica”.
Il dramma dell’Italia: quelli che sparavano le balle più grosse al bar ora sono la classe dirigente…Gioacchino Criaco su Il Riformista il 27 Maggio 2020. Uno di quei bar di periferia, un tempo sgangherati, oggi vintage: quei locali che conservano ancora l’arredo degli anni settanta e tengono sugli scaffali le bottiglie dell’Oro Pilla e del Rosso Antico. Da nord a sud l’Italia è un posto in cui una volta ogni sette giorni ci si concede un aperitivo, prima del pranzo domenicale, e si tirano le somme della settimana lavorativa. E, puntualmente, si celano le sconfitte, raccontandosi i successi, veri o solo immaginati. Il luogo delle balle, insomma. In cui tutti si cimentano a spararla grossa. E per quanto ci si affanni in mirabolanti iperboli, si finisce sempre per mordere la polvere, ché proprio quando la si è detta così grossa da avere la vittoria in tasca arriva lui: il drago. A Milano quello doc stava al Giambellino, periferia sud-ovest, portava una balla più grande di una mongolfiera, stendeva tutti al tappeto, facendoli rientrare a casa con in mano il vassoio delle pasterelle e in cuore la voglia di vendetta che si rinviava alla domenica successiva. Inutilmente perché il drago è drago di professione, inventarsi le balle è il suo lavoro, vano stargli dietro e rincorrere i suoi fuochi di artificio. I Draghi, al bar del Giambellino, non giocavano a carte, stavano dietro, in piedi, a criticare, che solo loro sapevano la giocata giusta, erano gli inventori del re-belot, avevano donne stupende che nessuno mai aveva visto, e un affare clamoroso prossimo alla conclusione. I vecchietti del quartiere li mandavano via a male parole. Sfigati di periferia, a cui nessuno dava una lira, una possibilità nella vita. La Lombardia, al timone dei suoi vascelli, di ogni cabotaggio, ci metteva gente solida, marinai provetti. Poi qualcosa è successo, ai cummenda di parlare da pari a pari con la politica non è andato più giù. I Draghi, dal bar del Giambellino si sono trasferiti ai partiti, hanno davvero trovato l’occasione: sono entrati in politica e sono diventati classe dirigente. L’economia ha dettato le regole, la nave Lombardia ha macinato le miglia davanti a tutto e a tutti. E tutto è andato bene fino a che il tempo è stato buono. Che tutto fosse un azzardo lo ha svelato la tempesta, nel mare in burrasca non galleggi con i Draghi. La Lombardia si è impegnata in una crescita a dismisura dei propri distretti industriali, saturando gli spazi, consumandone risorse territoriali e ambientali. Un immenso insediamento economico e umano, votato quasi unicamente agli scambi commerciali, avendo per guida la produzione di utili. Tutto troppo gigantesco per reggere a una tempesta mostruosa generata dal Covid-19. È vero che nessuna altra Regione italiana avrebbe retto a un urto del genere, ma è vero che in nessun’altra Regione si sia verificato un impatto così violento proprio perché non esiste un territorio italiano così affetto da gigantismo. Forse la Lombardia, per andare veloce, ha superato un limite che non era attrezzata a varcare. La salvezza e la tenuta, per come avvenute, si devono ai lombardi che indipendentemente da chi li dirige hanno reagito al meglio. Le classi dirigenti hanno fallito, gli operatori della sanità, non i direttori, hanno tenuto. E pensare di correre sempre più forte, all’infinito, è un azzardo se in testa, per la volata, si piazzano i Draghi del Giambellino.
Coronavirus, il Copasir lancia l’allarme: “Italia target di fake news per destabilizzare”. Redazione su Il Riformista il 26 Maggio 2020. La pandemia Covid-19 “è stata al centro di una diffusa attività di disinformazione on line, nella quale si sono inseriti attori statuali, attori strutturati (think tank, stakeholder, professionisti della comunicazione, speculatori e gruppi industriali con forti cointeressenze rispetto ai paesi d’origine), che intendono manipolare il dibattito politico interno, influenzare gli equilibri geo-politici internazionali, incitare al sovvertimento dell’ordine sociale e destabilizzare l’opinione pubblica in merito alla diffusione del contagio e alle misure di prevenzione e di cura”. E’ questo l’allarme lanciato dal Copasir (Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica), dopo l’approfondimento svolto dal deputato Pd Enrico Borghi. I commissari si dicono “preoccupati” dall’attività congiunta di “profili fake, rilancio di post facebook, siti esteri che diffondono in modo coordinato su numerose piattaforme e account notizie fuorvianti, sono solo alcune delle forme dei fenomeni di disinformazione riconducibili al mondo del web, volti a creare sovraccarico informativo circa l’individuazione dei vaccini, i rimedi terapeutici e gli strumenti diagnostici efficaci a fronte del contagio”. Il coronavirus viene definito il “palcoscenico perfetto che alcuni regimi autocratici aspettavano per mostrare una supposta – e non provata – maggiore efficienza e capacità, rispetto alle democrazie occidentali”. Il report del Copasir è netto: “Sia pure con posture differenti tra loro sull’idea di ordine globale, gli attori principali della campagna di disinformazione hanno inserito tale attività in un quadro di parallelismo, posizionando l’Italia come target“. Sul dossier è stata svolta una attività di verifica da parte dello European External Action Service (agenzia diplomatica della UE), che ha registrato “la diffusione di fake news in inglese, spagnolo, tedesco e francese allo scopo di alimentare il panico e creare un clima di sfiducia ostacolando la comunicazione ufficiale europea di risposta alla crisi epidemiologica”. In tale contesto, avverte il Copasir, “le relazioni internazionali, lungi dal limitarsi alle sedi istituzionali e alle dichiarazioni ufficiali, possono risentire anche dell’azione di una pluralità di attori strutturati, che tendono a supportare o screditare la reputazione statuale non solo attraverso la disinformazione, ma spesso con la diffusione di messaggi fuorvianti, decontestualizzati o parziali, che raggiungono il pubblico globale. Approfittando della estrema sensibilità dell’opinione pubblica sul tema, si tende a fomentare polemiche contro l’Unione europea e i Paesi dell’Alleanza euro-atlantica”.
Dagospia il 21 maggio 2020. Riceviamo e pubblichiamo. Lettera di Giulio Tremonti al “Corriere della Sera”. Gentile Direttore, ho letto sul “Dataroom” del 20 maggio, a firma di M. Gabanelli e di R. Franco, l’articolo intitolato “Cinema e live, perdite per 1 miliardo e mezzo”. Nell’articolo è scritto tra l’altro quanto segue: “… con la cultura non si mangia… L’uscita infelice era scappata nel 2010 all’ex ministro dell’economia Tremonti, che disse di essere stato frainteso”. Sono davvero grato per l’attenzione che mi è stata così riservata. Noto tuttavia che da anni ed in tutte le sedi ho escluso di avere pronunciato la frase di cui sopra. Ricordo in specie che alle mie smentite, non ha mai fatto seguito prova contraria. Sono perciò anche oggi costretto a smentire quanto – per la verità con molto garbo – è scritto in “Dataroom”, secondo cui l’“uscita infelice” mi sarebbe “scappata”. Questa uscita non mi è “scappata”, per il semplice fatto che quella frase non è mai stata da me pronunciata! Grato per l’attenzione che vorrete così specificamente riservarmi, Vi invio i miei migliori saluti, Giulio Tremonti.
Gustavo Bialetti per “la Verità” il 21 maggio 2020. Siccome quando un giornalista è garbato e indipendente deve per forza rimanere una mosca bianca, quando un politico lo attacca in modo scomposto l' Odg e il sindacato devono fare finta di nulla. Così, almeno, anche gli altri capiscono che prima di disturbare una conferenza stampa del presidente del Consiglio con una domanda imprevista è meglio pensarci bene. E possibilmente passare ad altro. Domenica scorsa, Alberto Ciapparoni, cronista parlamentare di Rtl 102.5, ha osato chiedere conto a Giuseppe Conte del flop del commissario Domenico Arcuri sul fronte delle mascherine. La risposta della creatura mediatica di Rocco Casalino, più che da Gf, è stata da Grande arroganza: «Se lei ritiene di poter far meglio, la terrò presente». Ovviamente, un minuto dopo, Ciapparoni, collega di rara gentilezza e disponibilità con tutti, era già oggetto di centinaia di insulti da parte dei leoni da tastiera che sui social sembrano invaghiti del nostro premier. Ma la cosa più triste, l' ha raccontata lo stesso giornalista ieri al Secolo d' Italia, ovvero che a distanza di quattro giorni sindacato e ordine dei giornalisti non avevano ancora trovato modo di dire una parola in sua difesa. È un vero peccato, perché stiamo parlando di due entità della cui utilità si dubita da tempo, visto che a parte essere una buon modo di trascorrere la pensione senza dare fastidio a casa, ormai non sono in grado di difendere la categoria da parecchi anni. Certo, se Ciapparoni fosse stato oggetto di scherno da parte di un Salvini o di un D' Alema, sarebbero intervenuti tutti quanti, ma quando parla il premier è meglio far finta di niente. Anche perché in fondo, i cordoni della borsa dei fondi per l' editoria ce l' ha sempre Palazzo Chigi. E il collega che fa domande sgradite, la prossima volta, si arrangi.
"Andrà tutto bene"? Non fidatevi: è la bugia più diffusa nel mondo. Uno studio britannico ci aveva messo in guardia: la frase mantra che ci scorta in questa emergenza cercando di tranquillizzarci in realtà è la frottola delle frottole. Seguita da «che piacere vederti» e «non ho soldi con me». E da 20 fandonie una più spassosa dell’altra. Massimo M. Veronese, Martedì 05/05/2020 su Il Giornale. Lo diceva anche Nanni Moretti: le parole sono importanti. Vanno scelte con attenzione, soprattutto quando diventano il mantra della resilienza, la frase magica che tranquillizza i cuori agitati, la parola d’ordine del futuro: andrà tutto bene.
Andrà tutto bene: la speranza sui balconi d’Italia. Non si è detto altro, nonostante migliaia di morti e la bancarotta economica, andrà tutto bene perché porta bene dirlo. Peccato che uno studio britannico di qualche anno fa, sepolto dalla memoria che non c’è mai, certificasse, dati alla mano, che «andrà tutto bene» è la bugia delle bugie, la moneta più falsa in circolazione nei rapporti umani, soprattutto in Gran Bretagna dove gli uomini mentono cinque volte al giorno e le donne tre. La ricerca commissionata dalla WDK, una nota marca di bevande alcoliche, spiega che «andrà tutto bene» e la sua variabile «va tutto bene» è la menzogna preferita, usata per tagliare corto la conversazione dal 28 per cento degli intervistati. La regina delle frottole che ha però un podio di tutto rispetto. La numero 2 è la frase «che piacere vederti», meglio se accompagnata da un sorriso a denti stretti, e la numero 3 è «non ho soldi con me», buona per tutta una serie di imbarazzanti circostanze. Segue «ti chiamo…», quante volte l’avete detto e c’è ancora gente che aspetta da anni, «mi spiace aver perso la tua chiamata», ruffiano il giusto, «dobbiamo vederci presto», e poi mai più, e «sono già per strada» che traduce il più delle volte «non sono ancora partito da casa». All'ottavo posto l’intramontabile: «Non è vero, quel vestito non ti fa il sedere grande…».Si tratta di piccole bugie (o come dicono gli inglesi «white lies»), che, secondo i due terzi degli intervistati, non fanno male a nessuno e nemmeno sentire in colpa. «La maggior parte delle persone - aveva detto al tabloid Daily Mail un portavoce della WDK - ricorre a innocenti frottole per non ferire i sentimenti altrui». O per tranquillizzarlo quando è necessario. Del resto si dice che lo stesso complimento è una bugia in abito da sera'.Se poi uno vuole divertirsi nella classifica delle 20 panzane più usate, nell'era dei telefonini e di internet, ci sono anche «sono bloccato nel traffico», «non ho campo», «certo che ti voglio bene», «ho il server che non funziona”, “la sveglia non ha suonato», «l’assegno è stato depositato», «mi è morta la batteria», «il treno era in ritardo», «ti richiamo tra un minuto», «che buono!» e «stasera vado in palestra».Per completezza d’informazione va detto, però prendendo con le pinze la morale dei numeri, che gli uomini mentono di più delle donne e su argomenti diversi. Con quattro falsità al giorno, ogni anno uomini e donne raccontano in media 1.460 bugie a testa e nel corso della vita 88mila. Gli uomini sono disposti ad ingannare la propria fidanzata per una vasta compilation di ragioni: andare al pub e allo stadio, rassicurare lei sul suo aspetto fisico e flirtare con un'altra. Il 29 per cento ha taciuto alla propria partner il fatto di aver corteggiato un'altra ragazza. Un classico. Le donne, invece, non dicono quanto hanno speso veramente per un vestito (44 per cento), quanto hanno bevuto (30 per cento), quanto pesano, a quanto ammonta il loro debito e quanto esercizio fisico fanno.La più brutta per tutti è quella che nasconde un tradimento, ma da questo punto di vista, spiega sempre la ricerca, le donne mentono meglio sia quando rifiutano che quando accettano un appuntamento. Nella coda della classifica, se poi volete tutto, ci sono, al proposito, «siamo solo amici», «stasera lavoro fino a tardi», e «mi chiamano sull’altra linea». Nel caso vi becchino, fate finta di niente, comportatevi come durante un’epidemia e siate fiduciosi: andrà tutto bene…
NewsGuard: "Ecco le dieci pagine Facebook che diffondono in Italia disinformazione sul coronavirus". Oltre cinque milioni di utenti, post complottisti e su cure miracolose fasulle alternati a contenuti legati alla moda, alla cucina e alla cura dei più piccoli. La società americana che analizza l’attendibilità dei siti di informazione punta lo sguardo anche sui social media. Jaime D'Alessandro su La Repubblica il 5 maggio 2020. Nel cuore delle donne, Il Nettare dell'amore, La vita, Il pensiero folle di due sognatori. Soprattutto Il mondo di Nelly, Luxury Fashion e Semplicemente Charlie. Sono queste alcune delle pagine Facebook dalle quali vengono diffuse notizie fasulle sul coronavirus. Cure miracolose per eliminarlo, complotti su scala planetaria dietro la sua fantomatica creazione, teorie cospirazioniste sulla diffusione del Covid attraverso le reti per le telecomunicazioni 5G. Parliamo di pagine dedicate in apparenza alla moda, alla cucina, ai bambini con oltre cinque milioni di seguaci che seminano disinformazione fra una ricetta, una poesia, un capo di abbigliamento. "Un modo per occultarsi ai sistemi di controllo del social network", racconta Virginia Padovese, parte del gruppo italiano di NewsGuard Technologies. Nato nel 2018 per volontà di alcuni giornalisti americani, Newsguard è un sistema che censisce e analizza i siti di informazione stabilendone il grado di affidabilità. Grado visualizzabile grazie ad una semplice estensione del browser e presente in Italia, Germania, Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti. Ha già censito le testate che raccolgono oltre il 92 per cento del traffico Web. "Stavolta però abbiamo deciso di guardare ai social media, dato che molti siti di disinformazione poi riversano lì i propri contenuti dove vengono ripresi e diffusi". Con 5.482.698 di utenti, secondo l'analisi di NewGuard, le dieci pagine prese in esame hanno contribuito significativamente alla diffusione della disinformazione sul Covid-19 condividendo gli articoli pubblicati da due siti: ViralMagazine.it e FanMagazine.it. Entrambi questi siti sono stati valutati con il bollino rosso non rispettando i criteri fondamentali di credibilità e trasparenza. Per ben 61 volte è stato riproposto ad esempio un articolo che sostiene che limone e acqua calda possano sconfiggere il Covid-19. Sono invece 30 le pubblicazioni su queste pagine del pezzo dove si afferma falsamente che il Governo italiano avrebbe impedito di effettuare i test sui migranti. Di gran moda anche gli articoli deve si sostiene che coronavirus sia stato creato dalla Cina, nascosto in un laboratorio di Wuhan con la complicità dell'Organizzazione Mondiale della Sanità, e poi diffuso nel mondo. "Abbiamo rimosso centinaia di migliaia di contenuti di disinformazione e abbiamo mostrato l’avviso di notizia falsa analizzata da fact-checker indipendenti su 40 milioni di post nel solo mese di marzo", fanno sapere da Facebook. "Stiamo anche fornendo informazioni sanitarie ufficiali attraverso le nostre app: finora abbiamo indirizzato oltre 2 miliardi di persone alle risorse messe a disposizione dalle autorità sanitarie attraverso il nostro Centro Informazioni sul coronavirus (COVID-19) - e sono oltre 350 milioni le persone che hanno cliccato per saperne di più". Ma non c'è modo di sapere se il social network si sia accorto o meno dei contenuti segnalati da NewsGuard che hanno raggiunto milioni di persone. Perché vengono pubblicati? "Negli Stati Uniti spesso è per vendere prodotti curativi che poi curativi non sono", conclude Virginia Padovese. "In Europa invece si punta più alla cospirazione che ha evidenti motivazioni politiche". Non è un lavoro facile quello di NewsGuard. In un mondo nel quale figure istituzionali di primo piano trovano "interessanti" l'ipotesi di usare forme di disinfettante per pulire il corpo dal virus, combattere la disinformazione è una strada decisamente in salita. Nota del 6 maggio. Stando alla NewGuard, dopo la pubblicazione dell’indagine, nove pagine Facebook sulle dieci citate sono state chiuse. Un buon segno.
Cos’è Plandemic, la nuova teoria del complotto sul Coronavirus “diffuso dai ricchi”. Redazione su Il Riformista il 9 Maggio 2020. È il piano Kalergi, la rinomata bufala sulla sostituzione etnica delle popolazioni europee incentivando l’immigrazione da Africa e Asia, applicato al Coronavirus. È diventato incredibilmente virale, tanto da spingere i principali social network a iniziare le complicate operazioni di rimozione, un video noto come Plandemic, diventato anche un libro in vendita su Amazon. Di cosa si tratta? Plandemic mette insieme una serie di strampalate teorie del complotto sul Coronavirus, molte con un importante seguito anche in Italia, in un disegno più ampio che fa riferimento finale ad un piano dei ricchi del mondo per spingere i cittadini a vaccinarsi. All’interno del video poi ci sono una sequela di affermazioni senza alcun fondamento scientifico, dalla mascherine che non proteggono dal virus ma che, anzi, sono dannose, all’acqua del mare che contiene microbi guaritori. L’autrice del video si spinge anche a formulare l’ipotesi che il numero reale dei decessi sia molto più basso del dato ufficiale, il tutto ovviamente per una gigantesca macchinazione dei ‘ricchi’ per aumentare il controllo sulla popolazione. Ma chi c’è dietro Plandemic? Come spiegano Bbc e Washington Post, l’autrice del video èJudy Mikovits, una biochimica finita al centro di uno scandalo nel 2009 per uno studio inizialmente pubblicato sulla nota rivista Science e poi ritratto, che collegava erroneamente la sindrome da fatica cronica a un retrovirus venuto dai gatti. Da quel momento Mikovits è caduta in disgrazia nell’ambito della comunità scientifica internazionale.
Giuseppe Sarcina per il “Corriere della Sera” il 12 maggio 2020. Judy Mikovits è convinta che il mondo intero ce l' abbia con lei. O meglio le élite, i poteri forti, Bill Gates, Anthony Fauci, gli ex colleghi del National Cancer Institute. Non si è capito, però, perché lei ce l' abbia con tutti noi, visto che da mesi sta avvelenando i pozzi dei social con bugie colossali e pericolose sulla diffusione del Covid-19. Ma la cosa più inquietante è che una parte dell' opinione pubblica americana, anziché seppellirla con una risata, per quanto amara date le circostanze, la segua con devota e bovina passione. Mikovits ha 62 anni (o forse 63 non c' è chiarezza manco sull' anno di nascita), si è laureata nell' Università della Virginia e poi ha conseguito un dottorato in biochimica alla George Washington University. Ha lavorato per 22 anni al National Cancer Institute, a Bethesda, vicino a Washington, il centro che coordina la ricerca sui timori negli Stati Uniti. Un posto importante. Judy se ne andò nel 2001. Si trasferì in California. Per un certo periodo fece la barista in uno Yacth club, poi fu assunta da un centro privato, il Whittemore Peterson Institute. Continuò a fare ricerca finché nel 2009 non firmò uno studio sulla sindrome da stanchezza cronica. La rivista «Science» prima lo pubblicò, poi gli esperti della pubblicazione si resero conto che le conclusioni non erano fondate e l' articolo fu ritirato. Nel 2011 fu arrestata con l' accusa di aver rubato dati e materiali per la ricerca del Whittemore Peterson Institute. In quel momento cominciò la mutazione radicale di Mikovits. Anziché rimettere mano alle evidenze empiriche si lanciò sul terreno, purtroppo fertile negli Usa, delle teorie cospirative. Ora ha messo insieme tutte le sciocchezze immaginabili sul Coronavirus e naturalmente non provate come per esempio che il segnale cellulare del 5g favorisca il contagio. Ne ha tirato fuori un libro e poi un documentario titolato «Plandemic», cioè pandemia pianificata. Il successo è stato clamoroso e inquietante: una sequenza del documentario ha totalizzato otto milioni di visualizzazioni su YouTube in una settimana. Si vede la (ex) scienziata in un laboratorio che spiega come il flagello sia stato progettato da Bill Gates e dal dottor Anthony Fauci. Mikovits accusa il virologo di riferimento della Casa Bianca di aver insabbiato una sua portentosa ricerca che dimostrava come i vaccini indeboliscano il sistema immunitario. Il «New York Times» ha calcolato che la parola «Mikovits» viene citata sui social e in tv fino a 14 mila volte al giorno. La contraerea scientifica finora non è riuscita ad arginare il fenomeno. Facebook, YouTube e Vimeo hanno cancellato le immagini di «Plandemic» dalle loro piattaforme. Nel frattempo Bill Gates è diventato il bersaglio di una campagna d' odio. E la polizia ha assegnato la scorta a Fauci.
Il complotto. Alessandro Bertirotti il 21 maggio 2020 su Il Giornale. È tutta questione di… conoscenza. Siamo tutti consapevoli dell’utilità di Internet. Accediamo a notizie che provengono, in tempo reale, da tutto il mondo. Sappiamo tuttavia che all’interno di queste notizie ve ne sono alcune prodotte ad arte. Per confondere, mistificare e fuorviare completamente il lettore, rispetto al fatto in sé. In fondo, anche secondo una prospettiva evolutiva, la menzogna è funzionale alla stessa verità, proprio perché ne evidenzia una presenza, nascosta ma da cercare. Il lettore contemporaneo deve, così, essere attento nella valutazione di quello che legge, mentre, forse un tempo, avrebbe potuto prestare una maggiore fiducia. Ma non ne sono sicuro totalmente, anzi ho qualche dubbio anche sul passato. Bene, data questa premessa, voglio ora riflettere insieme a voi sul fatto che alcune persone, e mi sembra che stiano via via aumentando, ritengono che l’umanità sia vittima di infiniti complotti. Ovviamente, a danno di molti, ad opera di pochi potenti, ma molto influenti. Nel 1963, il grande Karl Raiumund Popper, nel suo Congetture e confutazioni, sosteneva che alcune persone tendono ad attribuire tutto ciò che a loro non piace ad un disegno intenzionale di pochi individui, genericamente definiti “altri“. Ecco perché diventa particolarmente interessante, anche da un punto di vista antropologico-mentale, cercare di capire quali sono le tipologie identitarie di queste persone. In un sondaggio del 2013, condotto negli Stati Uniti, in riferimento all’omicidio di John Kennedy del 1963, un cittadino su due si è detto convinto che sia stato il frutto di una cospirazione, mentre solo il 4% ha dichiarato di credere che “individui simili ai rettili controllino il mondo, assumendo sembianze umane, ed occupando posizioni di potere”. E questo 4% corrisponde a 12 milioni di persone. Un numero relativamente inquietante. La conclusione dei ricercatori è che le persone che tendenzialmente credono ai complotti possiedono una comune visione del mondo. Innanzitutto, sono generalmente convinti che il mondo è uno spazio governato da forze sinistre ed occulte. E questo, indipendentemente dal tipo di complotto al quale credono. In effetti, da precedenti ricerche, emerge che la mentalità cosiddetta complottista è legata alla profonda sensazione di non avere il controllo sulla propria vita, come se questa fosse governata da qualcun altro. In un ulteriore studio, risulta relativamente evidente che tutti coloro che pensano di non poter controllare quasi nulla della loro vita hanno altresì la tendenza a credere che il mondo sia governato da complotti, mentre ciò non accade per coloro che hanno un atteggiamento meno fatalista. E quando faccio riferimento al concetto di “poco controllo sulla propria vita“, intendo parlare anche di coloro che sono in situazioni professionali precarie, che vivono una situazione lavorativa senza sicurezze. Ecco perché credere nel complotto favorisce la sensazione illusoria che tutto dipenda da una volontà altrui, e non certo dalla personale capacità di cambiare le cose nella propria vita. Siamo cioè in presenza di una sorta di “delega di responsabilità“. Individuare oscuri disegni, laddove molto probabilmente e di fatto non esistono, lascia quantomeno la sensazione di possedere un certo potere sulla propria esistenza, maggiore rispetto a quella che può darci il pensare alle dinamiche del meteo, come incontrollabili e ineluttabili. Ma non vi è solo questo. La spiegazione di questo atteggiamento mentale, che vede nell’idea di complotto una compensazione rispetto alla incapacità di gestire le proprie scelte di vita, si unisce all’evangelizzazione di questi creduloni, perché gli altri diversi da loro sono Schalafaschaf, “capre dormienti”. In sostanza, loro sono gli intelligenti, e tutti gli altri esseri umani sono dei deficienti. Tutti noi attendiamo che loro ci dicano quale strada percorrere, perché sanno secondo quali dinamiche evolverà il mondo. Oltre ad essere intelligenti, sono anche preveggenti.
Quale conclusione possiamo trarre? Bene, molto probabilmente coloro che aderiscono a una teoria complottista hanno anche la presunzione di sentirsi superiori rispetto alle masse ignoranti, e rafforzano così la propria debole autostima. L’idea complottista non deriva, dunque, solo o semplicemente, dalla percezione di non avere il controllo, ma anche, e forse soprattutto, dalla convinzione di essere unici, talmente originali da essere anche geniali. Infatti, le persone che pensano di essere unici tendono a sposare più delle altre persone le teorie complottiste. Inoltre, coloro che tendono a considerare vere le diverse tipologie di complotto hanno maggiori probabilità di credere a quelle supposizioni che sono sostenute da pochissime persone. In altre parole, credere nei complotti è tipico nelle persone che tendono a sposare teorie poco popolari, dando più importanza all’esclusività di una convinzione che alla sua credibilità. Credere che esistano strane macchinazioni mondiali dietro a quasi tutti gli eventi eccezionali non è solo il risultato dello sforzo di dare un senso al mondo, ma può anche essere gratificante, in quanto ci darebbe quell’aura di conoscenza esclusiva, in grado di allontanarci dal resto delle “capre dormienti”. Insomma, andiamo bene.
La bufala del dottor Shiva sul complotto dei potenti per il vaccino del Coronavirus. Redazione su Il Riformista il 16 Aprile 2020. Si è addirittura conquistato un paragrafo sulla sua pagina Wikipedia: “disinformazione sul Covid-19”. Eppure le sue teorie continuano a circolare in rete. Si tratta del dottor Shiva Ayyadurai, nato in India ma trapiantato negli Stati Uniti. Scienziato, ingegnere e imprenditore, si legge sulla sua pagina Wikipedia. Già diventato noto in passato per essersi attribuito l’invenzione dell’email, in questi giorni sta diventando celebre per aver rilanciato teorie complottiste e bufale sul coronavirus. In un’intervista al The Next News Network ha dichiarato che la pandemia è un complotto dei cosiddetti “poteri forti” per costringere il mondo a sottoporsi a un vaccino. E chi sarebbero i burattinai di questa pandemia? Più o meno i soliti noti: ovvero i politici Bill Clinton e Hillary Clinton, il filantropo e fondatore di Microsoft Bill Gates, Big Pharma ed Anthony Fauci, immunologo e consigliere della Casa Bianca. Tutti pronti a trarre profitto da un vaccino da somministrare a tutto il mondo. Il video è stato tradotto e ripreso anche da siti italiani con titoli come: “tutto quello che dobbiamo sapere sul Covid-19”, oppure “tutto quello che stanno nascondendo sul coronavirus”. E non è l’unica fake news rilanciata dal Shiva Ayyadurai. Precedentemente, oltre ad aver suggerito al presidente degli Stati Uniti Donald Trump come non fosse opportuno ordinare il lockdown a causa del covid, aveva anche sostenuto l’efficacia della vitamina C contro il contagio. Una teoria simile era circolata un mese fa, in particolare in Lombardia, attraverso una catena whatsapp. Un messaggio vocale sosteneva infatti l’efficacia delle compresse da un grammo di Cebion contro il coronavirus, salvo poi essere categoricamente smentito dalla comunità scientifica. Già prima di diventare celebre in tutto il mondo per il coronavirus Shiva Ayyadyurai si era anche una delle invenzioni più rivoluzionare del ventesimo secolo: la posta elettronica. Aveva infatti sostenuto che furono i suoi studi negli anni ’70 a portare alla formulazione dell’email. Gli studi sulla tecnologia erano cominciati però già nel decennio precedente fino a quando nel 1971 Roy Tomlinson non mise a punto il sistema tramite ARPANET.
Ora riceve minacce di morte. “Credevo che il coronavirus fosse un complotto del governo”, negazionista finisce in terapia intensiva. Redazione su Il Riformista il 29 Maggio 2020. “Pensavamo che il governo lo stesse usando per distrarci, o aveva a che fare con il 5G. Quindi non abbiamo seguito le regole o cercato aiuto prima”. A parlare è Brian Lee Hitchens, 46enne residente in Florida. Lui e sua moglie non hanno rispettato le misure di sicurezza, hanno contratto il coronavirus, sono finiti in terapia intensiva e il primo pensiero dell’uomo non appena è riuscito a respirare da solo è stato raccontare la sua esperienza a chi, come lui, credeva che il Covid-19 fosse tutto un complotto. “State attenti a cosa leggete, alle fake news, ora mi rendo conto che il coronavirus non è assolutamente falso, è là fuori e si sta diffondendo”, ha scritto in un post pubblicato su Facebook. La moglie è ancora attaccata al ventilatore e la sua condizione non migliora: “I suoi polmoni sono infiammati – ha raccontato alla Bbc – Il suo corpo non risponde.” Quasi quotidianamente, dal suo diario Facebook, dà notizie sulle condizione di salute sue e della moglie, ringrazia i medici e chiede agli amici di pregare per loro. Ma non tutti hanno preso positivamente la sua conversione dal negazionismo alla scienza. C’è chi lo accusa di mentire, chi augura a lui e alla moglie di non sopravvivere. “A tutti voi hater là fuori che mi avete mandato messaggi terribili dicendo che merito di morire, spero che stiate leggendo forte e chiaro questo: ‘Io sono negativo! Lode al Signore!”
Simone Pierini per leggo.it il 29 maggio 2020. Il complottista pentito. Credeva che il coronavirus fosse una bufala inventata dal governo per controllarci. Ha dato credito alle cospirazioni legate al 5G come possibile causa del Covid-19. Per lui la pandemia era soltanto un bluff, poco più di una banale influenza o frutto di qualche complotto mondiale. Ha scelto di non seguire le regole, di non dar perso alle indicazioni sulla quarantena, sul distanziamento, sull'uso della mascherina e su qualunque precauzione necessaria per evitare il contagio. Poi è risultato positivo al test e con lui anche la moglie. Sono entrambi finiti in ospedale con la donna attaccata a un ventilatore in terapia intensiva. Ha toccato con mano il dramma di una malattia invisibile e ha finalmente aperto gli occhi. «State attenti a cosa leggete, alle fake news, ora mi rendo conto che il coronavirus non è assolutamente falso, è là fuori e si sta diffondendo», le sue parole mentre la moglie lottava tra la vita e la morte. È la storia di Brian Lee Hitchens, 46enne residente in Florida, che lui stesso ha raccontato attraverso il suo profilo Facebook, ripresa successivamente da testate statunitensi e pubblicata oggi su Il Foglio in un articolo a firma del professor Enrico Bucci, scienziato e docente alla Temple University di Philadelphia. Brian Lee Hitchens era diventato un negazionista del virus, stregato dalle tantissime fake news che continuano a girare nel web e tra i social network. A queste aveva dato credito ignorando i rischi del coronavirus a conferma di quanto la disinformazione sia pericolosa per se stessi e per le persone che ci circondano. Dal giorno del pentimento l'uomo ha pensato solo a ringraziare gli infermieri e i medici in prima linea. Attraverso la sua esperienza ha cercato di indirizzare tante persone che come lui danno credito al mondo complottista di aprire gli occhi e di rendersi conto di quanto realmente grave sia questa pandemia. La moglie sta migliorando ma lotta ancora con il virus. Lui invece ne è uscito, risultato negativo ai successivi tamponi. Purtroppo però ora si sta scontrando con altro. Gli stessi complottisti, haters, ora lo hanno messo nel mirino, gli hanno augurato la morte a lui e alla moglie. E lui ha denunciato tutto in un post pubblico. «Devo solo togliermi qualcosa dal petto stamattina - ha scritto - A tutti voi hater là fuori che mi avete mandato messaggi terribili dicendo che merito di morire, spero che stiate leggendo forte e chiaro questo: "Io sono negativo! Lode al Signore!"».
Coronavirus e complottisti: “Il COVID-19 non esiste, il virus è il 5G”. Le Iene News il 6 maggio 2020. Il nostro Gaston Zama ci porta a conoscere i massimi esponenti del complottismo, concordi su un punto fondamentale: "Il Covid-19 non esiste, è tutta una copertura architettata per coprire i danni del 5G”. Ecco le loro teorie. Nel 2020 solo una cosa si diffonde più veloce del COVID-19: il virus del complottismo. Il nostro Gaston Zama ci porta in questo mondo, attraverso le voci dei massimi esponenti della categoria. E sono concordi su un punto fondamentale: "Il COVID-19 non esiste, è tutta una copertura architettata per coprire i danni del 5G". Rosario Marcianò, precursore delle scie chimiche in Italia e autore di “Attacco dal cielo”, ha le idee chiare: “La situazione in cui ci troviamo adesso è stata preparata da lungo tempo”. Il COVID-19 sarebbe stato tutto studiato a tavolino, nei minimi dettagli. “Siamo sotto controllo da tanti anni ormai. Ci spiano costantemente”, dice invece Il Corvo. Secondo alcuni mantenere l’anonimato è il modo migliore per portare avanti la verità, Marcianò invece ci ha sempre messo la faccia. “Sui media nazionali vedo solo la versione ufficiale”, ci dice. “Le notizie alternative sulla rete vengono insabbiate”. “Il coronavirus è stato solo l’inizio per spaventare il popolo”, aggiunge Il Corvo. E Marcianò ci porta dentro la sua teoria: “Io sono dell’opinione che le conseguenze derivanti dall’uso intensivo del 5G vengono coperte con questa storia del COVID-19. Io non ho paura di prenderlo, perché non esiste”. “E’ solo un diversivo”, aggiunge ancora Il Corvo. Parliamo del 5G, la neonata tecnologia di quinta generazione con prestazioni migliori rispetto al 4G. “Il 5G rispetto agli altri campi magnetici ha in peggio la frequenza”, spiega Marcianò. “Le microonde. Tanto è vero che noi le usiamo per cuocere il pollo. Potremmo essere dei polli che vengono leggermente cotti”. “A te fa piacere vivere in un forno a microonde? A me no”, asserisce Il Corvo. Il segnale del 5G è vero, viaggia grazie alle microonde. Ma le frequenze sono diverse: “L’importante è l’energia: nel forno a microonde viene pompato un chilowatt, nel modem di casa la potenza è 0,1 watt. Diecimila volte più piccola”, spiega Patrizia Caraveo, direttrice dell’Istituto di astrofisica spaziale e fisica cosmica di Milano. L’infondata teoria di cui vi abbiamo parlato qui sopra ha scatenato il panico in tutto il mondo. C’è anche chi ha dato fuoco alle torri del 5G. Il governo inglese è stato perfino obbligato a smentire la teoria pubblicamente: “Questa storia sul 5G è pura spazzatura, non ha senso, è il peggior tipo di fake news”. Ma ci sono anche altre sfumature in questa teoria: c’è anche chi, come Il Corvo, sostiene che “le antenne del 5G sono praticamente i vettori del virus”. Siete impazienti di saperne di più sulle teorie complottiste? E soprattutto perché non sono vere? Beh, allora guardate il servizio di Gaston Zama qui sopra!
Il nostro Gaston Zama querela uno dei complottisti del Covid19 intervistato nel suo servizio. Le Iene News l'8 maggio 2020. Le Iene News l'8 maggio 2020. Prima una shit storm, poi insulti e minacce sempre più pesanti. Il nostro Gaston Zama si è visto costretto a denunciare uno dei complottisti del Covid19 di cui ha raccontato le sue teorie nel suo ultimo servizio de Le Iene. Ancora prima della puntata di martedì, i complottisti del COVID19 hanno colpito con una tempesta di insulti il nostro Gaston Zama. Dopo la messa in onda del suo servizio che potete vedere qui sopra, sono passati a minacce sempre più forti. Così è stato costretto a denunciare "Il Greg", uno dei complottisti. “Ragazzi ho appena dato mandato di querelare questa persona qui e vi spiego il perché. Nel mio servizio mi sono concentrato in particolare su una delle mille tesi strampalate che girano di questi tempi, ovvero quella che mette in correlazione il COVID19 con il 5G. Prima della messa in onda, quando ho comunicato sui social che avrei affrontato quell'argomento/quel complotto, sono stato subito colpito da una “shit storm” - una tempesta di insulti, minacce e quant'altro che si è poi amplificata dopo la messa in onda del servizio. Nulla di drammatico eh, ci mancherebbe altro, però con il passare delle ore gli insulti sono diventati sempre più infamanti, motivo per cui querelo questa persona che tra le altre cose in un suo filmato caricato su youtube mi definisce “un criminale”. Spero di cuore che sia la prima e ultima querela della mia vita nei confronti di qualcuno. Ancora una volta ci tengo davvero a ringraziare tutte quelle persone che mi stanno scrivendo dei bellissimi messaggi, non era scontato anche perché ovviamente i problemi sono altri, sia ben chiaro! Però non nego che questi vostri messaggi d'affetto nei miei confronti mi facciano davvero piacere. Scusate il messaggio prolisso ma ci tenevo, ora perdonatemi ma scappo in cucina a scolare la rana”.
I complottisti estremisti e le shit storm organizzate sui social. Le Iene News il 19 maggio 2020. Dopo la messa in onda del servizio sul complottismo su 5G e il coronavirus, siamo finiti al centro di una shit storm organizzata sui social da gruppi specializzati in questo genere di attività. Con l’aiuto dell’esperto Alex Orlowki e i consigli della Polizia postale, il nostro Gaston Zama ci porta a conoscere questo oscuro mondo online. Dopo il servizio del nostro Gaston Zama sui complottisti del COVID-19 si è scatenata una vera tempesta sui social, come potete vedere qui sopra. Nel servizio parlavamo dei cospirazionisti che pensano che il coronavirus sia collegato al 5G. In molti si sono scatenati online, con tanti insulti ma nessuna spiegazione su come per esempio l’Iran - dove non c’è il 5G - abbia avuto così tanti casi di coronavirus. Attenzione, non tutti i complottisti sono dei facinorosi. Come il Moralizzatore: “Secondo me nessun pensiero deve andare a finire in violenza verbale. Ho letto anche minacce di morte”. Insomma, un complottista moderato. “Io non trovo un nesso tra il 5G e il coronavirus”, ci dice ancora il Moralizzatore. “Secondo me il discorso è un altro”. Ma prima di scendere di nuovo nei meandri di questo mondo, vi sveliamo una cosa: consci di cosa sarebbe potuto accadere, ci eravamo rivolti ad Alex Orlowski, esperto di reti sociali e disinformazione online. Dal momento in cui abbiamo condiviso sui social il servizio, ha monitorato ogni schizzo della shit storm. Alex ci ha spiegato come vengono organizzate queste ‘tempeste di merda', come potete vedere nel servizio qui sopra. La shit storm contro il servizio di Gaston Zama ha generato oltre 12mila commenti nel primo post su Facebook, con migliaia di insulti: “Insulti che spesso cadono nelle minacce, quando ti senti parte e protetto da un gruppo… lo lo chiamerei squadrismo online”, ci dice Alex. Il gruppo che sembra aver organizzato tutto questo non è nato per attaccare noi, ma era attivo già da tempo. Tra i bersagli ci sono stati anche Enrico Mentana e il leader delle Sardine. Il nostro servizio è stato accolto positivamente da moltissime persone online, l’indagine di Alex però si è focalizzata su quei gruppi che ci hanno attaccato insultandoci. E potete vedere quali sono nel servizio qui sopra. “È come un esercito organizzato”. Tra i tanti gruppi coinvolti in questa shit storm, sono molti ad avere come oggetto il 5G o i vaccini. Tra le vittime dello shit storm nelle ultime settimane c’è stato anche Vasco Rossi, che su Instagram ha consigliato di scaricare l’app Immuni per il tracciamento dei casi di coronavirus in Italia. Alex Orlowski ha anche analizzato quali sono le parole più usate per insultarci: “Venduti, vergognatevi, buffoni, disinformati”, e via discorrendo. E non solo: è anche riuscito a ricostruire numerose caratteristiche delle persone che hanno partecipato alla shit storm contro di noi. Qual è l’identikit del complottista che ci insulta? Uomo, tra i 40 e 60 anni, con capacità linguistiche di un ragazzino. Questa collaudata macchina del fango “è una tecnica molto in uso sia da parte di alcune forze politiche che da gruppi di attivisti”, ci spiega Alex. Attivisti di alcune frange estremiste di no vax, no 5G e altre. Di alcune di queste tesi il nostro Gaston Zama ci ha parlato nel precedente servizio. E attenzione, che abbiamo fatto anche un’altra scoperta: il leader del gruppo che ha innescato la shit storm contro di noi è un terrapiattista. Queste persone, insomma, si attivano per bombardare chiunque cerchi di smentire il loro credo. A finire vittime di queste shitstorm è stato anche David Puente, noto debunker: “È evidente che il mio lavoro dia fastidio a qualcuno”, ci dice. “Invece di rispondere in maniera educata, tende a passare agli insulti. C’è stato chi mi ha accusato di pedofilia e anche chi ha diffuso il mio indirizzo di casa alle persone che mi hanno minacciato di morte online”. Anche Barbascura, chimico e youtuber, non se la passa benissimo dopo aver spiegato che non esiste alcuna correlazione tra il 5G e il coronavirus: “Non ho alcun problema che tu mi dica che sono un coglione, ma a un certo punto una o più persone hanno diffuso i miei dati personali. Mi hanno anche scritto: ‘Ti veniamo a trovare sotto casa, ho degli amici che ti vorrebbero tanto conoscere’ e cose del genere”. Sia lui che David Puente hanno denunciato queste persone, che però sono fermamente convinte che sul web non ci siano regole. “Questo è quello che devono dire i leoni da tastiera”, ci spiega Alessandra Belardini, direttore divisione operativa della Polizia postale. “Quando poi si vengono a identificare da leoni diventano un’altra cosa. La diffamazione online è un reato grave che arriva alla reclusione da 6 mesi a 3 anni”. Per le minacce online le pene sono ancora più severe: “Consigliamo al cittadini di agire non solo penalmente ma anche attraverso il risarcimento del danno, che a volta fa anche più male”. Il complottismo e le fake news in questi mesi hanno raggiunto nuove vette e anche per questo stanno arrivano segnali importanti: il re dei complottisti David Icke in Inghilterra è stato bloccato su Facebook e il suo canale su YouTube è sparito. E lo stesso sembra stia accadendo anche in Italia. Le nostre tonnellate di dati raccolte da Alex e il suo team, oltre a altre informazioni, saranno fornite alla Polizia postale. Nel frattempo, preparate i pop corn per la settimana prossima!
Leonardo Leone, un imprenditore tra business e complottismo sul coronavirus. Le Iene News il 26 maggio 2020. Nella terza puntata dei servizi dedicati al complottismo sul coronavirus, il nostro Gaston Zama ci porta a conoscere Leonardo Leone, “imprenditore”, “formatore”, “facilitatore”. E anche convinto della teoria secondo cui il COVID-19 sarebbe stato creato in laboratorio a Wuhan e poi accidentalmente rilasciato. Leonardo Leone è “un imprenditore con numerose aziende in settori differenti e oltre 280 dipendenti”. Uno dei suoi motti è “accontentarsi di partecipare è come accontentarsi di sopravvivere”. Leonardo Leone invece vuole sempre vincere, ma le cose per lui non sono sempre state rose e fiori: “Anche a me è capitato di sbagliare un rigore. Anzi, ne ho sbagliati tanti”. Ma lui ha fatto tesoro dei suoi sbagli, e come traspare dai suoi social oggi ha tutto quello che desidera. Leonardo adesso insegna agli altri la ricetta del suo successo. Da imprenditore è mutato in “formatore e facilitatore”. E voi vi starete chiedendo: ma questo cosa c’entra con il complottismo sul coronavirus? Qualche mese fa, alla fine di uno dei suoi normali meeting, ha parlato proprio del COVID-19: “Sono incazzato a bestia, bisogna fare chiarezza. Numero uno: il coronavirus non è un virus che è nato dal pesce del c*zzo, non è vero che le teste di pterodattilo che si mangiano i cinesi sono andate a male…”. Una rabbia che da quel giorno Leonardo Leone non è mai riuscito a smaltire. Lui non accetta la tesi del contagio da animale a uomo. “Io non credo al caso”, dice Leone. “È certo che non è partito dal mercato di Wuhan, perché lì c’era un laboratorio che si occupa di ricerche in merito ai virus. E sembra che la causa di questa diffusione del virus sia che si siano rotte delle provette e un medico si sia infettato”, dice Leone al nostro Gaston Zama. Una tesi strampalata, che però è condivisa da alcune persone che appaiono sul suo canale YouTube, come potete vedere nel servizio qui sopra. L’idea che il virus sia stato creato in laboratorio comunque è sostenuta anche dal premio Nobel Luc Montagnier, che però è stato seccamente smentito da molti studiosi. Secondo Leone nelle ricerche al laboratorio di Wuhan c’entrerebbero anche gli americani: “L’errore è stato umano di far rompere delle provette, dove uno interno è stato contagiato”, sostiene. E quindi, se è stato un errore non può essere un piano americano in combutta coi cinesi, ma a insospettire Leonardo c’è anche un altro fattore: “Guarda caso, proprio mentre lì (in Cina, ndr) c’è il Capodanno”. Anche perché lui non crede mai al caso. “Svegliamoci un po’, andiamo oltre le apparenze”, ci dice. Come sottolineano spesso i titoli dei suoi filmati su YouTube. Leone parlando con il nostro Gaston Zama allarga il tiro: “Ci sono virologi che asseriscono e certificano che la Sars, l’Ebola e tante altre robe successe nel passato siano un’invenzione dell’uomo e c’è chi dice che invece è tutta roba d’animali e già esistevano. C’è chi dice che i vaccini ammazzano le persone e chi dice che li curano”. Anche se la scienza dice che i vaccini le salvano, le persone: “Eh, la scienza... ma non voglio aprire questa parentesi”. Anche se, sempre su YouTube, lo fa come potete vedere nel servizio qui sopra. E c’è anche altro che insospettisce Leone: “Guarda caso le due regioni (più colpite, ndr) hanno il più grosso impatto sul Pil in Italia”, dice in uno dei suoi interventi. “Un altro caso…”, dice a Gaston Zama. Anche se lui dice sempre che alle coincidenze non ci crede. Leone comunque non si sbilancia, anche se in Rete c’è chi invece sostiene sia tutto un piano architettato. Da chi? Da Angela Merkel che, secondo altri cospirazionisti, sarebbe nientepopodimeno che la figlia di Adolf Hitler. Insomma in questo caso la figlia del Fuhrer, assieme ad altre forze oscure tra cui Bill Gates, avrebbe pianificato la diffusione del coronavirus in Italia per danneggiare la nostra economia a favore di quella tedesca. “Guarda caso qui in Italia le più sfortunate sono le tre regioni più potenti”, dice Leone a Gaston Zama. E confida anche di essere a favore dell’Europa, ma “non sul discorso economico”. Torniamo comunque alla Lombardia e al Veneto: “Le tre nazioni che stanno pagando di più il coronavirus sono l’Italia, la Cina e l’Iran. Non sono queste tre nazioni con cui gli Stati Uniti non hanno tutta questa simpatia?”, dice in un video del 13 marzo. Il motivo dell’antipatia degli States verso l’Italia? La via della Seta! Parliamo dell’accordo commerciale firmato da Italia e Cina qualche mese fa che secondo i cospirazionisti avrebbe infastidito i nostri alleati americani che poi avrebbero fatto il virus con gli stessi cinesi che poi avrebbero diffuso il virus in Europa con l’aiuto della figlia di Hitler e Bill Gates in Veneto e Lombardia. Senza contare che adesso il virus ha fatto più morti negli Stati Uniti che in Cina. “Il senso del mio video è proprio questo, far vedere un’altra realtà”, dice Leone a Gaston Zama. “Se questo panico fosse voluto, ti andrebbe di vivere in questo panico?”. Comunque se è vero che prima della pandemia Leone era mutato da imprenditore a “formatore e facilitatore”, aiutando altri a raggiungere il successo, è anche vero che a quel tempo alcuni suoi video su YouTube arrivavano a poche centinaia di visualizzazioni. Ma adesso Leone ha cambiato pelle, cucendosi addosso le numerose sfumature del complotto e i nuovi filmati raggiungono milioni di visualizzazioni. A fine febbraio, durante il suo incontro con Gaston Zama e quando ancora il COVID-19 non era ancora una pandemia e in Italia i casi non erano così numerosi, ci ha chiesto: “Era il caso di bloccare cinque Regioni? Io ritengo che questa quarantena possa creare più danni di quanti ne possa fare la pandemia stessa”. Alla fine della chiacchierata, che potete vedere qui sopra, ci ha lanciato una sfida: “Vediamo se ho ragione tra un po’ di tempo”. Era il 27 febbraio, c’erano due morti. Oggi sono oltre 32mila, più di 300mila in tutto il mondo. Tra i Paesi più colpiti ci sono quelli i cui governi hanno reagito con più lentezza alla minaccia del coronavirus. Su tutti, gli Stati Uniti di Donald Trump con numeri che sono ancora destinati a salire. Destinati a salire come i follower di Leonardo Leone, che a colpi di complotti ha continuato a progredire nella sua mutazione aumentando il seguito su Facebook e Youtube. Ma forse è solo un caso.
Giornalisti zitti sull'uomo di Ravanusa arrestato e sedato per un'opinione. E’ successo in provincia di Agrigento, nel silenzio generale. A essere colpito dopo la task-force “Minculpop” di Martella è anche il giornalismo indipendente. Rec News compreso. Secondo le Nazioni Unite oggi si festeggia la Giornata della Libertà di Stampa. In Italia, Patria di un dibattito sulla presunta epidemia che si è rivelato inquinato e viziato dagli stessi inesatti dati istituzionali, sappiamo che siamo lontani da questo principio. Oggi più di allora, perché ormai il problema della libertà di esprimersi non è solo dei giornalisti e perché ormai sono tutte le libertà a mancare. Con la scusa del virus.
Ieri in provincia di Agrigento, in Sicilia, un uomo ha preso un megafono e dalla sua auto, senza creare occlusione al traco che ormai non c’è, si è messo a dire che “il virus non esiste”. Queste parole, ormai, dopo i bollettini dell’ISS, le parole di esperti come Tarro che ora si vorrebbe demolire, i falsi positivi, le mire di Bill Gates, le possibilità oerte dalla trasfusione di plasma gratuita e la presenza di cure sistematicamente ignorate, hanno un peso. Ma in Italia anziché discuterne, degli agenti arrestano un uomo che dovrebbe essere protetto dall’Articolo 21 della Costituzione, e lo sedano. Gli praticano un TSO, un trattamento sanitario forzato, tenendolo fermo assieme a personale medico. In rete circola già la voce che fosse “squilibrato”. Valutate da soli (video in basso) se, in realtà, non fosse solo più sveglio della media e – dunque – pericoloso.
Che ne ha fatto quell’uomo? Che ne fanno gli anziani della Sardegna allontanati dalle loro case per la “presunzione” che fossero contagiati, come si domanda in questi giorni il giornalista Cesare Sacchetti? Che ne hanno fatto – ci hanno chiesto – i bambini che a Milano e a Torino sono stati tolti a genitori “contagiati” settimane fa e non sono più tornati? Sindaco Sala, sindaco Appendino, i cittadini – che dovrebbero denunciare alla stampa indipendente (perché con quella commerciale è inutile) e alle Procure, aspettano risposte immediate. Dove sono i servizi indignati dei tg, dei programmi e dei quotidiani di regime che pure hanno schiere di corrispondenti? Perché nessuno ha parlato di quel povero uomo in Sicilia e di questi bambini?
Che cos’è il cittadino per le Forze dell’Ordine che eseguono ordini in maniera supina anche quando sono ingiusti e vanno contro quello che hanno imparato nel corso di una lunga e faticosa carriera? Che cos’è il giornalista che davvero può dirsi tale per la Polizia e per la Polizia Postale? Non una sentinella che vigila sul malaffare politico, da qualunque parte esso provenga, ma un nemico da combattere e a cui causare problemi, da vessare attraverso prassi inconsuete per impedirgli di lavorare. Da perseguitare, stalkerare, tempestandolo di domande che avrebbero facile risposta consultando le FAQ o il footer, dove sono ben esposte le informazioni di servizio. Che ruolo hanno quei pm politicizzati che scrivono sui giornali della concorrenza e lasciano dormire denunce presentate da anni, solo perché non sono gradite ai loro vicini?
Sta accadendo anche a Rec News per i suoi numerosi articoli scomodi: non saremo così stupidi da non tutelarci. Le pressioni – da qualunque parte provengano – come sempre non ci faranno abbassare la testa. Non ci impediranno di pubblicare il frutto delle nostre indagini giornalistiche, per quanto scomode. Se il sito, un giorno, dovesse essere sottoposto alla censura della task-force da Minculpop di Andrea Martella ne apriremo altri dieci uguali. Troveremo sempre nuovi modi per comunicare con la gente, perché questa è la nostra missione, fosse anche tornando al volantinaggio come ai tempi dell’Università. Buona giornata della “Libertà di stampa” a tutti.
Chi è il sindaco “sceriffo” di Ravanusa che ha autorizzato il “TSO da opinione”. Recnews.it il 03/05/2020. Si chiama Carmelo D’Angelo, e a febbraio di quest’anno è stato rinviato a giudizio per abuso d’ufficio. Fa parte della lista civica “Andiamo avanti”. Chi ha autorizzato il trattamento sanitario sul 40enne di Ravanusa (Agrigento) che sul web sta provocando tanto sdegno, nel silenzio colpevole di Tg, programmi di approfondimento, e quotidiani? Ovviamente, il sindaco, che è Carmelo D’Angelo. In carica a partire dal 2013 dopo una parentesi di consigliere provinciale, fa parte della lista civica “Andiamo avanti”. E’ considerato vicino al deputato Vincenzo Fontana, che dal 2015 al 2017 è stato componente della Commissione Servizi Sociali e Sanitari. Ma questo non è bastato a redarguire il “figlioccio politico” sui comportamenti da tenere nei riguardi di un cittadino che esprime in maniera legittima la propria opinione. A febbraio del 2020 D’Angelo viene rinviato a giudizio con l’accusa di abuso di ufficio. L’udienza avrebbe dovuto tenersi il 25 marzo, ma così non è stato “causa coronavirus”. La vicenda processuale è nata dopo la denuncia di un avvocato che ha lamentato il divieto, da parte del sindaco, di autorizzare l’uso degli spazi di una biblioteca per il cantante Povia. Gli spazi sarebbero invece stati destinati all’attuale leader di Italia Viva Matteo Renzi. Ancora in carica, ad aprile D’Angelo ha tutto il tempo di mettere mano all’ordinanza “Antiscampagnate” per il periodo pasquale. Uomo di destra, sembra comunque in perfetta sintonia – oltre che con i renziani – con i divieti imposti dal premier Conte. Ma la “Antiscampagnate” impallidisce di fronte a quanto accaduto nella giornata di ieri (stando alla data del video, in alto), quando il 40enne è stato fermato mentre si trovava nel suo veicolo. Stava parlando in maniera pacifica con un megafono del “coronavirus”. L’uomo è stato fatto scendere dal veicolo – non è chiaro con quali modalità – e dopo con la forza è stato immobilizzato e steso a terra da quattro carabinieri, mentre due uomini (forse agenti in borghese) erano intorno. Un totale di sei contro uno. A quel punto, gli è stato somministrato un TSO sedativo da un infermiere o medico, alla presenza di altri due sanitari in camice. Erano presenti anche testimoni. Molte delle persone sono identificabili (in basso). Sul web già circola la voce che si trattasse di uno “squilibrato”. Nel video che precede l’arresto, tuttavia, l’uomo parla in maniera rilassata, affermando di essere perseguitato per le sue opinioni. Il malcapitato, non armato e senza neppure urlare, non ha fatto alcuna resistenza. E, ora, non si sa dove sia.
Ravanusa, dal giornale “anti” Falcone e Borsellino arriva la cronaca postuma delle gesta del sindaco. Rec News 05/05/2020.
Dopo i nostri articoli sul caso Ravanusa sul “TSO da opinione” e sul sindaco responsabile del provvedimento, c’è chi si è svegliato. Non per dire che episodi del genere non devono più accadere, ma per dare ragione ai nuovi metodi.
Dopo i nostri due articoli sul caso Ravanusa (uno sull’uomo sottoposto a TSO per aver espresso un’opinione e uno sul sindaco responsabile del provvedimento) sono comparsi due articoli. Uno sostiene che da parte dei carabinieri non ci sia stato alcun abuso e che anzi le misure fossero più che legittime, ma la trattazione manifesta già due limiti: il primo riguarda i motivi del provvedimento. Ettore Lembo scrive che “la persona sottoposta all’intervento risulterebbe non nuova a certe particolari iniziative”. Ma questo basta, domandiamo, a giustificare un trattamento sanitario forzato? E perché, se l’uomo in questione era davvero pericoloso, si trovava in strada alla guida della sua auto, in pieno giorno?
Alcune vicende di Dario Giuseppe Musso – questo il nome dell’uomo che ha subìto il TSO – risultano travagliate? E’ possibile, fatto sta che il suo arresto politico (perché trattamento sanitario forzato o no di questo si tratta) avviene a inizio maggio di quest’anno per un motivo specifico riconducibile al gesto di prendere un megafono e dire che “non c’è nessun virus“. Che è, per inciso, il senso di quanto hanno ammesso fior fior di esperti, nel momento in cui hanno parlato di allarmismo ingiustificato e di terrorismo psicologico e mediatico. E qui subentra il secondo punto debole della trattazione de La notizia.
Il sito afferma che l’episodio del megafono fosse “marginale”, e che il vero motivo fosse riconducibile al presunto gesto di aver tentato di dare fuoco alla carta di identità. Ma allora perché il TSO non era avvenuto prima, sempre che un accendino in mano basti a motivarlo? Perché Musso, se ritenuto pericoloso, quel giorno se ne andava in giro con la sua auto? Ma non è nulla in confronto al metodo di “verifica” che il firmatario dell’articolo propone: “Un paio di telefonate a amici e conoscenti”, scrive Lembo, sarebbero bastati a non fornire una “errata informazione” che “potrebbe sottoporre ad una distorta luce persone e organismi istituzionali”. Messo in buon conto che il dovere del giornalista dovrebbe essere proprio quello di richiamare all’ordine i politici quando sbagliano, a chi domanda, Lembo, per ristabilire ordine e verità? Proprio a quegli “organismi istituzionali”, cioè al sindaco D’Angelo, che si preoccupa per giunta di ringraziare (!) e ai carabinieri.
E qui giungiamo al secondo sito, che agisce in maniera ancora più singolare e, giorni dopo l’accaduto, se ne esce col postumo Ravanusa, offende i carabinieri per strada: il sindaco dispone il Tso. E’ un articolo di cronaca di quelli “a freddo”, da sfornare con giorni e giorni di ritardo, quando arresto e TSO sono lontani ma gli articoli di chi si permette di parlarne sono vicini. A confezionarlo è Il giornale di Sicilia, la cui versione cartacea passerà alla storia per aver pubblicato lettere contro i magistrati Falcone e Borsellino. Musso, a detta di Paolo Picone che firma l’articolo “se ne andava in giro ad insultare i carabinieri – non è chiaro in che modo e utilizzando quali parole, sempre ammesso che questo possa giustificare un TSO – e a invitare la gente a uscire di casa”.
Eccoci al punto. Non si può disturbare la narrativa di Giuseppi, che è la narrativa degli estimatori dei vaccini, che è la narrativa di chi ha interesse a chiuderci in casa per cambiare la nostra vita perché “niente sarà più come prima”. Non si può dire che è una recita, un esperimento sociale, sennò ti arrestano e ti addormentano. E poi chissà dove ti portano. Dov’è Dario Musso? Visto che legge assieme ai suoi amici giornalisti, caro sindaco D’Angelo, vorremmo saperlo. Perché vogliamo spiegare ai nostri lettori cosa rischiano a essere amministrati da sindaci troppo zelanti che forse a volte dimenticano la loro missione: fare l’interesse del cittadino. Vorremmo sapere dove Musso è stato, quanto è stato trattenuto e dove e per quanto tempo, e – soprattutto – perché. Perché non abbiamo letto di mandati di cattura e perché dire che “il coronavirus non esiste” non è un reato, né un motivo in grado di giustificare la presenza di una decina tra Vigili Urbani, carabinieri e personale sanitario che giocano a tutti contro uno.
Musso è uno squilibrato, un soggetto pericoloso? Abbiamo ascoltato le sue parole prima del TSO e siamo convinti del contrario. Che, cioè, sia solo più sveglio della media, e più coraggioso. Pensiamo che abbia toccato un nervo scoperto, e che per questo sia stato punito. Se è pazzo, lo sono anche tutti quelli che si sono accorti che è tutta una farsa, una commedia a cielo aperto. Per noi di sicuro c’è questo: che dovendo scegliere tra la follia e la supina sudditanza, opteremo sempre per la prima.
Per strada col megafono: “Non c'è la pandemia”. Gli fanno un Tso, il sindaco: “Segni pregressi di instabilità”. Le Iene News il 9 maggio 2020. Un uomo di circa 30 anni è stato sottoposto a Trattamento sanitario obbligatorio in provincia di Agrigento. È andato in giro in macchina dicendo al megafono che “non c’è nessuna pandemia” e invitando i cittadini a togliersi le mascherine. Per il suo avvocato non si registravano ragioni per il Tso, per il sindaco invece c’erano “segnali pregressi di instabilità mentale”. “Lo hanno sedato perché esponeva le sue ragioni in modo pacifico”. Siete in tanti ad averci segnalato quanto accaduto in provincia di Agrigento: il 2 maggio un uomo intorno ai 30 anni è stato sottoposto a Tso dopo esser andato in giro in macchina gridando al megafono che “non c’è pandemia, levatevi le mascherine e andate a Roma”. Nei video che sono diventati virali online si vedono alcuni momenti dell’uomo che incita la popolazione a non rispettare le norme di contenimento del coronavirus, come potete vedere qui sopra. E si vedono inoltre i momenti in cui viene sottoposto al Trattamento sanitario obbligatorio che viene disposto dal sindaco su richiesta delle autorità sanitarie. Nei momenti del fermo, una persona con il camice bianco sembrerebbe praticargli una iniezione. L’avvocato dell’uomo, intervistato da vari media tra cui Radio radicale, ha detto che “è stato disposto un Tso per iniziativa diretta di un sindaco per una manifestazione non autorizzata condotta con un megafono per le strade del paese”. Secondo il legale si tratterebbe di “un'aberrazione giuridica che non resterà priva di seguito. Non sussistevano i requisiti di legge per il Tso e gli atti già acquisiti difettano di motivazione". La famiglia ha anche fatto sapere di aver avviato le pratiche per la revoca del Trattamento sanitario obbligatorio. Il legale ha anche lamentato difficoltà nel mettersi in contatto con l’uomo dopo il Tso. Sono in tanti sui social media a sostenere che l’uomo sia stato fermato per zittirlo mentre esprimeva le sue opinioni. La versione delle autorità, però, è molto diversa: il sindaco della città - cioè la persona che ha disposto il Tso - ha detto al Giornale di Sicilia che “a malincuore ho dovuto disporre il trattamento per i segnali pregressi di instabilità mentale che l'uomo aveva manifestato. In precedenti occasioni, infatti, si era reso protagonista di azioni che hanno messo in allarme la comunità e si era scagliato contro un carabiniere che lo aveva fermato in un posto di controllo e lui aveva bruciato la carta di identità". Una situazione, quindi, che si sarebbe protratta nel tempo e avrebbe richiesto l’intervento delle autorità sanitarie. Almeno questa è la versione del sindaco, che come vi abbiamo detto è contestata dall’avvocato della famiglia.
I retroscena del TSO a Dario Musso l’attivista sedato a Ravanusa. Redazione .casertakeste.it l'11 maggio 2020. Ravanusa – Sono due i documenti che svelano importanti retroscena sul ricovero di Dario Musso, il 33enne di Ravanusa sottoposto a TSO lo scorso 2 maggio dopo aver preso un megafono per gridare che “non c’è nessuna pandemia”. Il primo è la “proposta” di trattamento obbligatorio redatta da due dottoresse, il secondo, l’ordinanza del sindaco Carmelo D’Angelo. Entrambi sono stati diffusi ed esaminati dall’avvocato Francesco Catania. Diversi gli aspetti che saltano all’occhio, soprattutto se raffrontati al video realizzato da una testimone oculare. Anzitutto, nella proposta di TSO si legge che il ragazzo sarebbe stato in preda a “scompenso psichico con agitazione psicomotoria”. Per dirla in altri termini: alterazioni mentali e convulsioni. Il video, però, lo mostra piuttosto tranquillo mentre si lascia sopraffare dalle Forze dell’Ordine, quasi affidandovisi. Il perché lo ha spiegato nel corso di una video-intervista il fratello Lillo Massimiliano: “Pensava – ha detto – che sarebbe stato solo arrestato”. I medici sottoscrivono dunque un documento che parla di “alterazioni psichiche tali da richiedere urgenti interventi terapeutici”, e affermano di aver “accertato che il paziente rifiuta gli urgenti interventi terapeutici richiesti dal caso”. Ma quali interventi Musso avrebbe rifiutato, sempre che la somministrazione di un TSO fosse attinente? “Le misure sanitarie extraospedaliere adottate – recita inoltre il pre-stampato su cui si sofferma anche l’avvocato Catania – non risultano attualmente idonee”. Altro segno burocratico, quest’ultimo, di quell’invito a ricevere assistenza che Musso avrebbe dovuto avere prima di subire un trattamento coatto. Invito che, a giudicare dal video, non è mai stato fatto. Dunque le due dottoresse propongono un trattamento ospedaliero presso il Servizio psichiatrico dell’Ospedale di Canicattì che nei fatti, stando a quanto riferito ancora dal fratello e legale, si traduce in una degenza caratterizzata da arti superiori e inferiori legati, catetere, feci rilasciate sul posto, flebo e cibo somministrato da personale infermieristico. Dario meritava tutto questo per il solo fatto di aver preso il megafono o per aver reagito – una settimana prima – a un controllo manifestando tutto il suo dissenso per il sistema di restrizioni in atto? Secondo il sindaco Carmelo D’Angelo, sì. E’ lui a firmare l’ordinanza in cui viene recepita la proposta della dottoressa Maria Grazia Migliore, e a sottoscrivere tutto quanto “rilevato” dal personale medico. Con un’apparente scappatoia: “Chiunque – si legge nel provvedimento – può rivolgere al sindaco richiesta di revoca o di modifica del presente provvedimento”. Una sorta di scaricabarile che, tuttavia, visti i tempi stringenti imposti non avrebbe comunque permesso ai familiari o a chiunque altro di opporsi. Secondo D’Angelo sussistevano, infatti, “evidenti ragioni di celerità di esecuzione del provvedimento”, tali da impedire, perfino, l’accesso agli atti, e tali da “non dover procedere alla comunicazione di avvio del procedimento”.
TSO Ravanusa, “Aberrazione giuridica”. Il caso approda in Parlamento. Rec News 06/05/2020. Secondo il legale del ragazzo si sarebbe configurata la violazione della Costituzione e della legge che regola le prestazioni sanitarie. Secondo il legale del ragazzo si sarebbe configurata la violazione della Costituzione e della legge che regola le prestazioni sanitarie. A Ravanusa i coinvolti a vario titolo (sindaco compreso) nell’episodio di Dario Musso – il giovane sottoposto a trattamento sanitario forzato – hanno commesso una “Aberrazione giuridica”, tanto che il caso – si apprende – approderà in Parlamento tramite interrogazione. In particolare, si sarebbe configurata la violazione degli articoli 21 (libertà di espressione con ogni mezzo di diffusione) e 32 e della Legge 833/1978. A sostenerlo è il legale giovane in un articolo de La notizia.
“Non c’erano i requisiti di legge per il TSO”. L’avvocato sostiene infatti che non ci fossero “i requisiti di legge per il TSO” , e che gli atti acquisiti difettassero “di motivazione”. La normativa vigente, infatti, dispone che prima di procedere a un trattamento forzato che di sicuro lascia conseguenze del soggetto che lo riceve, debbano giungere due certificazioni scritte da parte di due diversi medici all’ufficio del sindaco, e che – aspetto non di poco conto – il soggetto debba essere invitato a ricevere cure. I tempi sono dunque piuttosto lunghi, di sicuro giorni, e stimabili a seconda della gravità del comportamento del soggetto. Ma a Ravanusa, per ammissione dello stesso sindaco, tutto è successo da un momento all’altro.
Il caso del “picchiatore seriale dell’Arcella”. Musso era pericoloso? Nel 2014 in provincia di Padova ci fu il caso del “Picchiatore dell’Arcella”. La vicenda è documentata dal mattino di Padova. Si tratta dell’allora 33enne Mohajer Kourosh, iraniano colpevole di ben sette aggressioni siche “feroci”, stando al termine utilizzato dalla testata. Mohajer senza dubbio è uno di quei mirabili esempi di integrazione: sua l’aggressione a una coppia di anziani, suoi i pugni contro un sessantenne e le minacce a un altro anziano “con un calcinaccio”. Conducibile a lui anche l’aggressione di tre agenti di polizia che tentavano di fermarlo. Caro sindaco, valuti lei se il picchiatore di anziani debba ricevere il Tso. Cordialità.
Eppure per lui il sostituto procuratore Sergio Dini scriveva: “Quanto sopra anche la signoria vostra valuti, nell’ambito delle competenze e delle attribuzioni che le sono proprie, l’opportunità di procedere a Tso nei confronti del predetto. Cordialità”. Come andò a finire? Che più di un mese dopo “Mohajer è stato rintracciato e intrattenuto dagli uomini della polizia municipale negli uffici del commissariato di via Pietro Liberi. L’uomo (…) è stato trasportato in ambulanza al Pronto soccorso dopo una prima valutazione del medico del 118 accorso sul posto su richiesta della polizia municipale”.
Per gli aggressori ultimatum e inviti scritti. Per chi esprime la propria opinione, internamento coatto. “Come sempre avviene in casi del genere – si legge ancora – la valutazione su un eventuale trattamento sanitario obbligatorio, sarà condotta dallo psichiatra di turno che, sentito un secondo collega come prescritto dalla legge, redigerà l’apposito verbale ed eventualmente la sottoporrà al sindaco per la firma. Tale evenienza non è accaduta in nessuno dei tre fermi di polizia operati da polizia e carabinieri (…) Sabato, come risulta da documentazione depositata presso l’azienda ospedaliera, lo psichiatra di turno non ha ritenuto necessario avviare la procedura del Tso”.
A Ravanusa c’erano davvero condizioni tali di “squilibrio” da legittimare l’operato del sindaco e degli altri?
Questo il caso di un picchiatore seriale abituato ad aggredire gli anziani a pugni in faccia, per cui l’autorità preposta “non ha ritenuto necessario avviare la procedura del Tso”. A Ravanusa lo “squilibrio” manifestato era maggiore di questo? Sarà chi di competenza a stabilirlo, tanto più che la famiglia del giovane – fa sapere l’avvocato – ha denunciato l’accaduto. Che, si legge, approderà anche nei Palazzi istituzionali tramite un’interrogazione parlamentare.
Da “la Verità” il 3 maggio 2020. Scivolone di Enrico Letta a causa dell'onnipresente mania per gli inglesismi. Il nostro ha twittato: «Le frontiere non hanno bloccato il virus. Così come la polluzione». L'idea era quella di prendersela con l'inquinamento (dall' inglese «pollution»). Peccato che in italiano per polluzione si intenda, come recita la Treccani, l'«eiaculazione spontanea e involontaria che ha luogo durante il sonno». E pensare che per evitare la figuraccia sarebbe bastato usare l' italiano, senza brutte copie dalle lingue straniere.
Carlo Tarallo per “la Verità” il 3 maggio 2020. Sogno, o sondaggio? In questi giorni di totale caos, con il governo protagonista di uno spettacolo indecoroso, fatto di messaggi contraddittori, ritardi nell' erogazione dei contributi alle famiglie e alle imprese, scuse, dietrofront, figuracce nazionali e internazionali, secondo alcuni luminari dei sondaggi, Giuseppe Conte godrebbe del gradimento del 70% degli italiani. Anzi, più che secondo alcuni, secondo uno: Nando Pagnoncelli, patron di Ipsos, guru dell' intenzione di voto, negli ultimi giorni ha sostanzialmente posizionato Giuseppi su un piedistallo. Il sondaggio pubblicato domenica scorsa, 26 aprile, sul Corriere della Sera, vedrebbe il ciuffo del premier svettare al 66% di gradimento da parte degli italiani (5 punti in più rispetto a marzo). Il buon Pagnoncelli, nei giorni successivi, è andato diffondendo il sondaggio in tv, e in particolare a La 7, emittente di Urbano Cairo, ormai diventata la Telekabul di Conte. Martedì scorso, a Di Martedì, Pagnoncelli ha coccolato affettuosamente Giovanni Floris e i suoi telespettatori, sciorinando i risultati del sondaggione della domenica precedente, quello con la fiducia in Conte al 66% e nel governo al 58%; due giorni dopo, a Otto e mezzo, Lilli Gruber ha arrotondato per eccesso e ha gratificato Conte con una fiducia al 70%. Un plebiscito che neanche Mubarak, negli anni d' oro, avrebbe riscosso al Cairo, nel senso della capitale dell' Egitto. Ma Cairo, inteso come Urbano, patron di Corriere e La 7, ormai ha indossato i panni del VisConte, e quindi non gli dispiace di certo che i suoi giornali e le sue tv facciano la ola al presidente del Consiglio. Quello che è poco «urbano», però, è propinare ai telespettatori solo e soltanto i sondaggi che dipingono un Conte a livelli di gradimento da vera e propria pop star, mentre basta uno sguardo ai social o una chiacchierata con amici, parenti e congiunti, per verificare che la maggioranza degli italiani non ne possono più del premier giallorosso e delle sue continue giravolte a reti unificate. Per renderci conto di quanto Conte, al contrario di quanto va proclamando Pagnoncelli, non goda affatto della fiducia della maggioranza degli italiani, vediamo i risultati degli altri sondaggi effettuati negli ultimi giorni. Ixè per Cartabianca (Rai 3) il 29 aprile assegna a Conte una fiducia del 60% degli italiani (6 punti in meno di Pagnoncelli, 10 in meno della affermazione della Gruber),e un 57% al governo nella sua interezza; Emg, per la Rai, il 28 aprile, ha chiesto agli italiani: «In questi mesi di chiusura il governo ha fatto abbastanza per preparare la fase 2?». Ha risposto «sì» solo il 28%, mentre la fiducia in Conte viene valutata appena al 42%, in calo di un punto rispetto alla settimana precedente; Tecnè per Quarta Repubblica (Rti) lo scorso 26 aprile, lo stesso giorno del sondaggio di Ipsos, ha chiesto un giudizio su come il premier sta gestendo l' emergenza coronavirus: le risposte positive sono state del 54%, 12 punti in meno della fiducia che nello stesso momento Pagnoncelli attribuiva a Conte. Molto articolato il sondaggio realizzato lo scorso 21 aprile da Winpoll per il Sole 24 Ore. Alla domanda: «Quali di questi personaggi politici ha apprezzato durante questa crisi?», solo il 35% ha risposto Conte (il presidente del Veneto, Luca Zaia, svetta con il 46%, superando anche il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, al 32%). Alla domanda: «In caso di un governo di unità nazionale, secondo lei, chi dovrebbe essere il presidente del Consiglio?», il 37,6% risponde Giuseppi Conte, il 62,4% Mario Draghi. Alla domanda: «In generale, quanto è soddisfatto di come il governo sta gestendo l' emergenza sanitaria?», i soddisfatti sono appena il 44%. Il 23 aprile Monitor Italia, per l' agenzia Dire, ha misurato il gradimento verso il governo nel suo insieme: solo il 31,6% ha dichiarato di avere fiducia nell' esecutivo. Passiamo a Termometro politico, che il 21 aprile ha chiesto agli italiani: «Lei ha fiducia nel premier Giuseppe Conte?». Le risposte: sì, molta 21,9%; sì, abbastanza 20,7%; no, poca 11,5%; no per nulla 45,2%. Questi sondaggi sono tutti pubblicati sul sito sondaggipoliticoelettorali.it, curato dal Dipartimento informazione e editoria della presidenza del Consiglio dei ministri. Trattasi di numeri, freddi numeri, freddi come quelli di Ipsos, che però assegna a Conte, rispetto ai colleghi degli altri istituti, tra i 20 e i 30 punti in più di gradimento. Naturalmente, nessuno mette in dubbio la correttezza, la professionalità e l' esperienza di Pagnoncelli, che magari avrà telefonato, casualmente, a una serie di congiunti e affetti stabili del premier. Resta però il dubbio sul perché i media di Cairo non abbiano la voglia di mostrare ai lettori e ai telespettatori anche i sondaggi che fotografano una situazione completamente ribaltata, con la stragrande maggioranza degli italiani che non hanno fiducia né in Conte e tanto meno nel governo da lui guidato. Sarebbe un modo assai più urbano di fotografare la realtà.
Ilvo Diamanti per “la Repubblica” il 3 maggio 2020. La notte del virus continua. E si fatica a vedere la luce, all' orizzonte. Semmai, ci stiamo abituando a muoverci nel buio. O almeno, nella penombra. Peraltro, i fari che hanno illuminato il nostro percorso, nelle ultime settimane, hanno perso un po' di energia. Ma resistono. Senza che altri riescano a rimpiazzarli. In altri termini, il governo e il premier, Giuseppe Conte, vedono ridursi il grande consenso conquistato di recente. Ma di poco. Mentre i principali partiti di opposizione e i loro leader si perdono sullo sfondo, buio, di questa emergenza. Riassumerei così le opinioni degli italiani, che emergono dal sondaggio condotto da Demos, nei giorni scorsi, per l' Atlante Politico di Repubblica. Il consenso verso il governo, infatti, nell' ultimo mese subisce un calo significativo: 8 punti. Tuttavia, il sostegno nei suoi confronti resta maggioritario: 63%. Per incontrare indici di fiducia verso il governo altrettanto elevati, se saltiamo il dato del mese scorso, bisogna risalire al settembre 2018, all' inizio del primo governo Conte, imperniato sull' alleanza fra Lega e M5s. O, prima ancora, al 2014, quand' era premier Renzi. La Lega di Salvini, peraltro, scende ancora, nelle indicazioni di voto. Resta il primo partito, in Italia, con il 26,6%. Ma scivola di quasi 8 punti, rispetto alle elezioni Europee dello scorso maggio (2019). A Centro-Destra, i Fratelli d' Italia di Giorgia Meloni confermano le posizioni degli ultimi mesi, attestandosi sul 13,6%. Mentre FI sembra aver frenato una discesa che pareva inarrestabile. E si ferma al 6,2%. Ben lontano dai fasti di un passato, peraltro, neppure lontano. Rispetto alle elezioni Politiche del 2018, comunque, il suo peso elettorale risulta più che dimezzato. Parallelamente, le forze di governo si consolidano. Senza, però, mostrare grandi progressi. Il Pd si avvicina al 22%. Mentre il M5S risale oltre il 16%, dopo molti mesi di declino. LeU e la Sinistra mantengono il loro spazio, per quanto limitato. Chi non sembra in grado di ripartire, o meglio, di partire, è Italia Viva. Il Partito di Renzi. Poco sopra il 2%. Più che un "partito personale", appare un "partito - e un leader - senza persone". Senza elettori. E ciò spiega, in parte, l' atteggiamento polemico di Renzi. Alla ricerca di visibilità e "distinzione", soprattutto in questa fase. La fiducia verso i leader precisa queste tendenze. Conferma la posizione del premier, Conte. In calo di non pochi punti: 7. Ma ancora saldamente davanti a tutti, con il 64% di valutazioni positive. Seguito dal governatore del Veneto, Luca Zaia, oltre il 50%. Ma, soprattutto, molto avanti rispetto a Matteo Salvini, il "capo" del suo partito. Il quale scende al 37%: quasi 10 punti in meno, in un mese. Così si allinea ad Attilio Fontana, governatore della Lombardia. La "sua" regione. Come Salvini rammenta e ripete spesso, nelle ultime settimane. Con due conseguenze, forse non del tutto intenzionali: ri-dimensionare Fontana e mettere fra parentesi l' identità "nazionale" della sua Lega Il calo di gradimento più sensibile, fra i leader, riguarda, però, Giorgia Meloni: 12 punti in meno rispetto al mese scorso. Superata da Roberto Speranza. Ministro della Sanità. Al centro dell' attenzione e delle "speranze" dei cittadini. Poco sotto (al 40%), incontriamo altre figure importanti di questa stagione politica, Dario Franceschini e Luigi Di Maio. Seguiti dal segretario del Pd, Nicola Zingaretti. Accanto a Silvio Berlusconi. In fondo alla graduatoria (o quasi) rimane Matteo Renzi, apprezzato (si fa per dire) dal 20% degli elettori. Certamente più del suo partito. Dal sondaggio di Demos emerge l' immagine di viaggio incerto. Attraverso un tempo senza tempo, che alterna momenti di emozione e di frustrazione. Oggi viviamo una fase di attesa, dopo il picco dei consensi raggiunto dal governo in mezzo - o meglio, in cima - all' emergenza determinata dal Covid. La paura e, più ancora, la necessità di affrontare una minaccia senza volto, che colpisce persone e "volti", talora noti e "familiari", ha suscitato un moto solidale. I cittadini, dunque, si sono stretti intorno al "capo" - del governo. Nazionale ma anche regionale. Chiusi in casa. In famiglia. Eppure "insieme". Hanno messo da parte le divisioni. Politiche - ma non solo. E hanno di-mostrato uno spirito unitario, che non si ricordava da tempo. Oggi, dopo oltre un mese ai "domiciliari", questo sentimento resiste. Con qualche in-sofferenza. Ma due italiani su tre continuano a valutare positivamente l' azione del governo. E delle Regioni. E più ancora - 3 su 4 - il ruolo del Presidente della Repubblica. Anche l' informazione è apprezzata, mentre c' è insoddisfazione verso i soggetti - partiti e leader - che non accettano il clima di "unità nazionale". E verso l' Unione Europea. Che ci lascia "soli". Peraltro, (quasi) tutti gli italiani oggi riconoscono l' importanza del sistema sanitario e della Protezione civile. Ma, soprattutto, hanno scoperto la capacità dei cittadini come loro, come noi, di adeguare i comportamenti "personali" alle regole imposte dall' emergenza. Per il bene comune. Per rispondere alla preoccupazione che coinvolge, soprattutto, chi vive con noi e vicino a noi. I nostri familiari. Così, oggi gli italiani si accingono ad affrontare la cosiddetta fase 2, che prevede un piano di apertura graduale. Nel sistema del lavoro e delle imprese. Nella nostra vita e nei nostri spostamenti personali. Un piano che, fra i cittadini, suscita ancora larga adesione (oltre il 60%), ma anche po' di frustrazione. Soprattutto fra i lavoratori autonomi. E fra i più giovani, che sopportano con maggiore fatica l' isolamento. Perché, anche se siamo convinti che il cosiddetto "distanziamento sociale" sia utile e che "andrà tutto bene", è altrettanto vero che "da soli" e "distanti dagli altri" non si sta bene. C' è adesione al piano predisposto per la Fase 2, ma anche frustrazione da parte dei lavoratori autonomi e dei giovani Nel giudizio degli italiani penalizzati partiti e leader che si contrappongono al clima di "unità nazionale". Delusione per l' Unione europea.
Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” il 3 maggio 2020. La Repubblica ha preso un brutto vizio, cambia spesso direttore nella speranza di cambiare se stessa, tuttavia non riesce a mutare. Va indietro. Sempre. Nella perdita di lettori tutti i giornali se la cavano abbastanza bene. Quindi non c' è nulla da rimproverare ai vari timonieri. Semmai ci sarebbe qualche appunto da muovere agli editori, i quali riescono a essere peggiori dei giornalisti, cosa non facile. Sta di fatto che questo quotidiano, un tempo di moda e letto pertanto da una folla di fighetti di sinistra ma non troppo di sinistra, oggi, dato che i tempi si sono evoluti, è gradito soltanto a gente nostalgica che non ha niente da rimpiangere. La sua è una malinconia che fa tenerezza poiché è senza speranza di un ritorno al passato. Vi sono ancora buone firme che scrivono sul capolavoro fondato da Scalfari, eppure sono più decrepite del vecchissimo ed eroico Eugenio, e non giungono a incidere sul pensiero corrente. L'editorialista più arrugginito è Michele Serra, al quale si ingrippano le dita sul computer ogni volta che lo usa. Compone articoli con una svogliatezza che rivela una totale mancanza di idee, perfino le più cretine. Il primo maggio ne ha pubblicato uno che andrebbe analizzato da un bravo psicologo. Poche righe per dire che Giorgia Meloni è fascista e che Matteo Salvini è più fascista di lei, non avendo entrambi trovato un vaccino antifascista, peraltro già scoperto 75 anni orsono e ora superfluo. Inutile assumere un farmaco per una malattia debellata da quasi un secolo. Il leghista e la sorella d' Italia, come tutti, prestano il fianco alle critiche. Ovvio. Però, allorché sfotte la destra e trascura di compiere altrettanto con la sinistra, Serra si copre di ridicolo pur facendo piangere di disgusto. Michele ha mai guardato in faccia Nicola Zingaretti, capo assoluto del Pd? Ha mai ascoltato un suo discorso? Ha esaminato sia pure distrattamente la sua linea politica a zigzag? Io non ritengo che si debba applaudire all' attuale opposizione, ma se Serra prestasse orecchio alle bischerate del suo segretario e ne verificasse gli atti avrebbe il pudore almeno di tacere sulla condotta di Giorgia e Matteo, i quali al confronto del fratellino di Montalbano sembrano madame Curie e Quintino Sella. Caro Serra, eri prode e spiritoso, adesso sei una lingua lessa da tagliare a fette. Senza contare che chi, come te, è stato comunista, sarebbe obbligato a contemplarsi allo specchio resistendo all' impulso di sputare.
Michele Serra per “la Repubblica” il 3 maggio 2020. Fossimo cittadini di un altro Paese, meglio ancora di Marte, potremmo seguire con supremo divertimento l' incredibile spettacolo dei fascisti veri (Meloni) che danno frequenti lezioni di misura e di savoir faire ai fascisti improvvisati (Salvini), che perfino nei dettagli - i modi truci, la mascherina nera, l' occupazione vociante e sgomitante del Parlamento - sembrano molto più fascisti dei fascisti. Come modello antropologico, il capo ultras (Salvini) è decisamente più impressionante della capessa di borgata. Nel secondo caso ci si può illudere che una gita a Frascati porti a una transazione pacifica, nel primo si cerca riparo nel bar più vicino sperando che non ti vedano. Meloni moderata? Non fatelo sapere a Steve Bannon e all' internazionale nera, che proprio su di lei puntano le loro carte. Certo appare un poco meno violenta e più riflessiva, diciamo meno maleducata, del suo nemico interno; l' effetto potrebbe essere che l'Uomo Forte, ma poco sagace, sta regalando voti alla Donna Abile, che glieli sfila dalle tasche senza dover fare niente. Fa tutto lui. È un problema che ci riguarda solo di riflesso. Riguarderebbe, ovviamente, l' elettorato italiano di destra, largamente indifferente all' antifascismo (non hanno ancora trovato il vaccino) e dunque liberissimo di orientarsi, tra Meloni e Salvini, con assoluta spensieratezza. L' alternativa "liberale" sarebbe Berlusconi. Questo per dire come sono messi, a destra. Per parziale consolazione di noi di sinistra.
Primi al mondo in supercazzola. La celeberrima "supercazzola" del Conte Mascetti (cioè Ugo Tognazzi nel film Amici miei) è l'arte di parlare senza dire nulla, confondendo e quasi ipnotizzando l'interlocutore, già predisposto a lasciarsi incantare. Alessandro Gnocchi, Lunedì 11/05/2020 su Il Giornale. La celeberrima «supercazzola» del Conte Mascetti (cioè Ugo Tognazzi nel film Amici miei) è l'arte di parlare senza dire nulla, confondendo e quasi ipnotizzando l'interlocutore, già predisposto a lasciarsi incantare. Ieri, il governo ha rilasciato supercazzole a giornali unificati. Sul Corriere della Sera, sotto al titolo sferzante Le parole di Conte, il premier, dopo aver annunciato, bontà sua, che concederà ai sudditi di fare le vacanze, si è lanciato in una supercazzola da competizione, come fosse Antani: «Stiamo lavorando giorno e notte per rafforzare le attività di monitoraggio, contact tracing e tele-assistenza, in un'ampia strategia integrata che prevede potenziamento degli ospedali, delle terapie intensive e della medicina del territorio. Aspettiamo di vedere il funzionamento della App, ma invito a considerare che potremmo essere i primi al mondo ad avere sviluppato un sistema pubblico con tutte le garanzie». Traduzione: «Manca ancora tutto quello che avremmo dovuto fare durante la quarantena. Però siamo i primi al mondo». Scatenato anche Paolo Gentiloni, il commissario europeo per l'Economia, la «voce forte» dell'Italia a Bruxelles. A Repubblica rifila una supercazzola nella quale alterna momenti visionari a passaggi strappalacrime per il tentativo disperato di illudere il lettore. Esempi ravvicinati del primo tipo: «L'Europa esce più forte perché ha messo a nudo le velleità dei nazionalismi, del mito dell'uomo forte» e «Risparmieremo miliardi». Esempio ravvicinato del secondo tipo: «Il governo ha reagito con prontezza e mi auguro che anche le prossime misure verranno prese rapidamente e che soprattutto si acceleri la loro attuazione». Siamo dei fenomeni. Anche se non si capisce perché. Non poteva mancare il ministro dell'Economia Roberto Gualtieri. Se Mario Monicelli fosse vivo, avrebbe preso l'intervista al Messaggero e l'avrebbe infilata nella sceneggiatura di un nuovo capitolo di Amici miei. Ci sono ampie anticipazioni del decreto aprile: uscirà in maggio, per aiutare le imprese in giugno, che tempismo. Fatti certi, nessuno. Però una cosa è chiara: «Si tratta di un insieme di interventi organico e coerente che sarà tra i più ampi e ambiziosi d'Europa». Tutti concordi: siamo i migliori. «Tarapia tapioco» concluderebbe il conte Mascetti prima di rivolgere un pensiero malinconico ai trentamila morti e alla peggior performance economica dopo la Grecia.
Maria Giovanna Maglie: "Nessuna tv ve lo mostra ma succede". La censura sulle proteste contro Conte. Libero Quotidiano il 09 maggio 2020. Maria Giovanna Maglie, con un post pubblicato sul suo profilo Twitter rilancia un video in cui vengono mostrate le proteste in Italia contro il governo Conte e la gestione delle riaperture. "Magari nessuna tv ve lo mostra ma succede, ed è solo l'inizio", scrive la giornalista. Nel filmato di RadioSavana si vedono i cortei molto composti e con tutte le precauzione (i partecipanti indossano tutti la mascherina e rispettano le distanze di sicurezza. E si legge: "Avviso di sfratto in corso. Proteste in tutta Italia contro Conte: Milano piazzale Giulo Cesare, Torino piazza Santa Rita, Roma Porta San Paolo. Proteste in corso ovunque: la mascherina non è un bavaglio, l'Italia deve tornare al Popolo".
Le fake news che puntellano Conte. Giuseppe Marino, Venerdì 01/05/2020 su Il Giornale. A fianco della guerra al virus si va consumando una discreta battaglia comunicativa. A colpi anche di notizie gonfiate, distorte, a volte semplicemente false. Le falle nella gestione del governo Conte sono diventate man mano sempre più evidenti: l’erogazione dei fondi per privati e aziende, i contrasti con le Regioni, la scarsa trasparenza nel monitoraggio statistico dell’epidemia, i ritardi nel preparare un piano sanitario e misure di sicurezza per la Fase 2. E il premier sa benissimo che il momento in cui sarà davvero allentata la quarantena sarà anche l’ora della resa dei conti. Ecco perché non ha fretta. Nel frattempo, per coprire i ritardi e giustificare una reazione al Covid-19 che solo in Italia si è risolta esclusivamente in un lockdown strettissimo, aiuta la diffusione di una serie di notizie sballate, gonfiate e distorte. Nel primo periodo dell’epidemia, i media più fedeli a Conte davano un enorme risalto a notizie di violazioni alla quarantena, scatenando l’isteria collettiva della caccia al runner e l’inseguimento con il drone. Il messaggio connesso era chiaro: se la lotta al virus va male è colpa degli italiani indisciplinati che evadono. Un chiaro falso, perché dopo 9 milioni di controlli di polizia il tasso di violazione delle restrizioni è risultato minimo: meno del 4 per cento. Un classico anche le cattive notizie dall’estero inventate o manipolate. Prima ci fu la deformazione del discorso di Boris Johnson, a cui si attribuì la volontà di far infettare e morire gli inglesi per avere l’immunità di gregge, termine mai utilizzato da BoJo, che invece aveva con duro realismo avvisato i concittadini che i lutti sarebbero stati inevitabili. Niente più che una durezza sconosciuta ai nostri leader, ma una durezza onesta, non certo spietata. E al momento ci sono molti più morti in Italia che nel Regno Unito. C’è stato poi il caso Svezia. Solitamente considerata un modello da seguire a sinistra per il suo abnorme stato sociale, è diventata una cinica dispensatrice di morte non appena ci si è resi conto che non seguiva il tanto decantato (dal governo) “modello Italia”: niente lockdown, solo misure di prevenzione e sicurezza consigliate ai cittadini, non ordinate. Subito uscì una severa condanna del sistema ospedaliero che non curava i deboli, scambiando le tristi, ma comuni, linee guida da applicare in casi estremi per una legge cinica e discriminatoria. Peccato che linee guida simili, come ha svelato proprio il Giornale, siano state applicate anche in Italia. Mentre in Svezia, mai arrivata al collasso delle strutture ospedaliere, le linee guida sono rimaste teoria. Poi si è cominciato a prevedere che senza lockdown in Svezia sarebbero successi sfracelli. Finché non è venuto fuori che in Svezia ci sono 2.500 morti per dieci milioni di abitanti, contro i 3.000 per quattro milioni di abitanti del Piemonte, per dire. L’ultimo sipario sulla verità si è alzato quando, mentre Conte ci costringeva all’umiliante balletto delle visite ai congiunti, l’Oms dichiarava la Svezia senza lockdown un modello da seguire. Ma il capolavoro vero della disinformazia è arrivato, guarda caso, il giorno dopo che Conte è stato sbranato per la penosa conferenza stampa che ha prolungato la Fase 1, deludendo l’Italia e pasticciando tra congiunti e seconde case, senza nemmeno eliminare l’autocertificazione cartacea, un’esclusiva che ci invidiano solo a Cuba e in Corea del Nord. Il giorno dopo i giornali più filogovernativi hanno pubblicato il “dossier segreto che ha convinto il governo a prorogare il lockdown” ammonendo che “ci sarebbero stati 151mila ricoveri in terapia intensiva” in caso di apertura totale. Come se qualcuno avesse mai parlato di apertura totale. Tanto per capirsi, nel peggior momento dell’epidemia i ricoverati sono stati 4.100. Sarebbe stata un’apocalissi. Il professor Remuzzi, direttore dell’Istituto di ricerca Mario Negri, ha liquidato così questa ipotesi: “Se prevedi che tutto, ma proprio tutto vada male, si avrà un numero importante. Ma non quello, al quale si arriva sovrastimando in modo abnorme la popolazione anziana in Italia”. Numero pompati insomma, puro doping informativo. Tanto che se davvero il governo ha deciso in base a questo dossier terroristico c’è da gridare allo scandalo. E Conte ci ha solo tenuto a precisare che il dossier “non era un segreto”. Infatti. Tutt’al più un segreto di Pulcinella. A proposito: cosa ne dice la task force di Conte contro le fake news?
Contagi in risalita in Germania dopo le riaperture e ritorno alla Fase 1? È falso. Matteo Gamba Le Iene News il 30 aprile 2020. Da tre giorni in Italia giornali e tv raccontano che l’indice R0 di contagiosità del Covid-19 è salito a 1 e che il governo tedesco vorrebbe tornare indietro sulle aperture (tra l’altro, fin dall’inizio più ampie che da noi e con risultati molti più efficaci). Peccato che media e politici tedeschi non ne parlino. E che il dato non sia così. Vi spieghiamo tutto, facendo un po’ di calcoli e ascoltando la testimonianza di un italiano che ci ha contattato da Dusseldorf. “Il tasso dei contagi risale dopo le riaperture: la Germania torna alla Fase 1”. Addirittura: “Allarme per un’impennata di contagi in Germania”. In questi ultimi tre giorni abbiamo letto e sentito questo sui media italiani. Ma è vero? No. Lo dimostrano i dati, i media e le autorità tedesche che non ne hanno parlato e la testimonianza dei tanti che ci hanno contattato dalla Germania. Da un Paese portato a modello nella gestione dell’emergenza coronavirus: al momento sesto al mondo per casi (161.539 contro i 203.591 dell’Italia, terza), conta un numero di morti in proporzione molto più basso rispetto agli altri (6.467 rispetto ai 27.682 del nostro paese per esempio). “Nessuno qui in Germania ha parlato di un indice di contagio risalito a 1 né tanto meno del fatto che si voglia tornare alla Fase 1, che qui tra l’altro non chiamano così, o ripensare la politica delle riaperture”, ci racconta al telefono Stefano Mento, romano che vive e lavora da 9 anni a Dusseldorf, uno dei tanti che ci ha contattato. “Nella fase del lockdown hanno chiuso le scuole e proibito gli assembramenti ma non hanno impedito alla gente di uscire e lavorare. E non c’erano autocertificazioni, poliziotti, droni o posti di blocco continui. Dal 4 maggio, dopo le prime riaperture dei negozi del 20 aprile, molti bambini e ragazzi torneranno in classe, riapriranno anche i parrucchieri, per esempio, fatto salvo il rispetto della distanza di un metro e l’evitare assembramenti superiori a 50 persone. Riapre quasi tutto insomma e nessuno pensa di tornare indietro. Stanno già preparandosi anche alla stagione estiva da giugno, con la possibilità di riprendere a usare gli aerei con accordi con alcuni altri paesi. Se gli infettati non supereranno l’1% della popolazione di 83 milioni di abitanti non ci sarà nessun dietrofront”. Ma ripartiamo dai dati. Al centro delle notizie date in Italia c’era l’indice R0 (si legge “erre con zero”), che misura il numero di persone contagiate in media da una persona infetta e che dà un quadro importante dell’andamento di un’epidemia. Per l’Istituto Koch di Berlino, responsabile di controllo e prevenzione delle malattie infettive e una delle massime autorità del mondo in materia, in Germania i dati dell’R0 sono questi: a inizio marzo era a 3 (tre persone contagiate da ogni infetto), dal 21 marzo si è stabilizzato attorno a 1, dal 15 aprile è rimasto sempre sotto questa cifra. È un elemento molto importante perché sotto a 1 il dato ci dice che l’epidemia tende a rallentare. Da dove sono nati gli allarmi italiani? Il 27 aprile l’R0 in Germania è stato dello 0,96 (arrotondato a 1). Il giorno dopo è già sceso a 0,90, lo stesso registrato il 20 aprile quando ci sono state le prime riaperture. Quindi il dato non ha subito variazioni con l’allentamento delle restrizioni. C’è stato solo un leggero aumento dal 18 aprile, ma restando comunque sotto i livelli di guardia. Ieri, 29 aprile, l’R0 era a 0,75, uno dei dati più bassi mai registrati qui (è il secondo più basso nella serie dal 7 aprile quando si partiva da 1,3) Il livello 1 non è mai stato di fatto oltrepassato e non solo: per destare allarme deve ripetersi per qualche giorno per essere statisticamente attendibile. E infatti in Germania nessuno, politici, media o autorità sanitarie, si è allarmato. Perché in Italia si è scritto il contrario? Facile pensare che la questione sia stata usata all’interno delle polemiche sulle poche riaperture decise dal governo Conte per il 4 maggio prossimo. “Il messaggio è che si riapre con il massimo della prudenza. Basta poco per tornare indietro e il caso della Germania lo dimostra”, ha detto per esempio il ministro della Sanità Roberto Speranza il 28 aprile durante la trasmissione DiMartedì su La7. In Italia intanto, secondo quanto ha dichiarato il 23 aprile il presidente del Consiglio superiore di sanità Franco Locatelli l’R0 è sceso a livelli compresi tra 0,5 e 0,7. Il presidente dell’Istituto superiore di sanità (Iss) Silvio Brusaferro ha appena dichiarato che l’indice Rt, che misura la trasmissibilità con un altro modello matematico, è inferiore a 1 in tutte le regioni. A proposito, perché l’approccio della Germania, pur colpita da tantissimi casi ma con un tasso di mortalità molto più basso degli altri principali paesi, è considerato un modello? Dietro non ci sono ricette miracolistiche. L’organizzazione tedesca è sembrata da tradizione più efficiente, forte della sanità forse migliore al mondo. I contagiati sono stati curati quanto più possibile a casa attraverso la rete dei medici di base per evitare il rischio di lazzaretti nelle corsie degli ospedali fonti di contagi continui. È stata evitata quanto più possibile, davvero, la morte degli anziani nelle case di cura. Si è proceduto a test e trattamenti precoci, forti di un numero di posti letto in terapia intensiva per i malati più gravi, per esempio, che è 5 volte superiore a quello italiano. Tamponi, guanti e mascherine c’erano e non c’è stata una ecatombe di medici e infermieri e quindi nemmeno un’eccessiva diffusione del coronavirus da parte degli operatori sanitari. Le misure di contenimento decise dal governo Merkel sono state tempestive, senza ritardi o allarmismi e senza nessun bollettino quotidiano di morti e contagiati. Sono state meno stringenti che in Italia (avete presente le immagini che ci ha mandato Giulia di un normale giovedì a Berlino? Cliccate qui) e sono state osservate con tradizionale disciplina. Non c’è stato nessun miracolo appunto, solo un approccio efficace al contenimento del Covid-19. Come oggi non c’è alcun nuovo allarme per presunte risalite dei contagi dopo i primi allentamenti del lockdown e non c’è nessuna volontà di tornare indietro sulle riaperture, anche stavolta molto più estese che da noi.
Articolo del “Wall Street Journal” – dalla rassegna stampa estera di “Epr comunicazione” il 30 aprile 2020. Qualche giorno fa Donald Trump l’aveva sparata grossa, con la storia delle iniezioni di disinfettanti. Però, inavvertitamente o meno, l’altra sua idea ha un fondamento scientifico, e ne parla il WSJ riportando le parole del Ceo di un’azienda farmaceutica. “Fino a pochi giorni fa gestivo una semi sconosciuta azienda farmaceutica, la Aytu BioScience. Poi siamo diventati famosi. Il 20 aprile abbiamo pubblicato un comunicato stampa intitolato ‘Aytu BioScience firma una licenza globale esclusiva con l’ospedale Cedars-Sinai per il potenziale trattamento del coronavirus". Il trattamento si chiama Healight, ed è stato sviluppato da medici ricercatori del programma di scienze e tecnologie mediche dell'ospedale. La tecnologia, in sviluppo dal 2016, utilizza la luce ultravioletta come antimicrobico ed è un potenziale trattamento promettente per il Covid-19. Il programma Medically Associated Science and Technology (MAST) del Cedars-Sinai ha sviluppato la piattaforma Healight in attesa di brevetto dal 2016 e ha prodotto un numero crescente di prove scientifiche che dimostrano la sicurezza preclinica e l'efficacia della tecnologia come trattamento antivirale e antibatterico. La tecnologia Healight impiega la somministrazione di raggi ultravioletti intermittenti (UV) attraverso un nuovo dispositivo medico endotracheale. Aytu e Cedars-Sinai si sono impegnati con la Food and Drug Administration per perseguire un rapido percorso verso l'uso umano attraverso l’autorizzazione all'uso d'emergenza. Ma quasi nessuno se n'è accorto - fino a giovedì, quando il presidente Trump ha pensato: "... supponendo che tu abbia possa portare la luce all'interno del corpo...". Io e il mio team sapevamo che i commenti del presidente avrebbero potuto scatenare una reazione contro l'idea della luce UV come trattamento, che avrebbe potuto ostacolare la nostra capacità di far girare la voce. Abbiamo deciso di creare un account YouTube, caricare un'animazione video che avevamo creato e twittarla. Ha ricevuto circa 50.000 visualizzazioni in 24 ore. Poi YouTube l'ha tolto. Anche Vimeo. Twitter ha sospeso il nostro account. Questo non lascia spazio alla scienza, in cui i dati parlano da soli, indipendentemente dall'ideologia. Purtroppo, l'eccitazione viscerale del conflitto politico attira molti più clic e valutazioni migliori rispetto al mondo metodico della scienza.
Coronavirus, le strade piene di persone non sempre corrispondono al vero. Asia Angaroni il 28/04/2020 su Notizie.it. Nei giorni di piena emergenza coronavirus, hanno suscitato molte polemiche le foto delle strade piene di gente. Tuttavia, non sempre dicono il vero. Hanno fatto non poco scalpore le immagini del centro di Genova affollato di persone, proprio quando l’Italia si trovava ad affrontare l’apice dell’epidemia. Via Sestri, infatti, era piena di gente nonostante il richiamo del presidente della Regione Giovanni Toti. Neppure la polizia presente in strada intimoriva le persone, che hanno evitato l’isolamento passeggiando per il centro. Stessa situazione a Roma, dove nonostante i divieti imposti per far fronte all’emergenza coronavirus, le strade sono state fotografate piene di gente. Per le vie della Capitale, nel pieno dell’allarme Covid-19, erano troppe le persone in giro e, si teme, non tutte con comprovate esigenze. Scenario analogo a Napoli, dove i rioni affollati e la troppa gente in giro a fare la spesa hanno spinto il presidente De Luca a intensificare i controlli. Tuttavia, Ólafur Steinar Gestsson e Philip Davali, due fotografi di Copenaphen, andando a fotografare le stesse scene con obiettivi diversi hanno dimostrato la verità. Non sempre quelle immagini corrispondono al vero. Le foto che ritraggono lunghe file di persone, il più delle volte in attesa che arrivi il proprio turno per entrare in negozio, possono trarre in inganno. Le immagini mostrano molte persone troppo vicine tra loro, non rispettando i limiti di distanziamento sociale richiesti obbligatoriamente per tutelare la salute propria e altrui, contenendo così il coronavirus. Molte anche le fotografie di strade apparentemente trafficate. Com’è possibile che ci sia così tanta gente in auto nonostante i divieti governativi italiani e stranieri? La verità è stata dimostrata Ólafur Steinar Gestsson e Philip Davali, i quali sono stati mandati dall’agenzia Ritzau Scanpix a fotografare le stesse scene usando obiettivi diversi. Così è emerso che le foto, se scattate usando un teleobiettivo e non un obiettivo grandangolare, possono far pensare che il distanziamento tra le persone non sia stato rispettato, ma non è così. I due fotografi, autori di questa attenta analisi, lo hanno spiegato in un articolo pubblicato sul sito del canale televisivo danese TV 2. Il giornalista Thomas Baekdal, servendosi di altre immagini ed evidenziando alcuni particolari, ha provato la veridicità di quanto detto dai fotografi. Con un obiettivo grandangolare, infatti, si ottengono immagini che mostrano le cose come le vedono gli occhi umani. Al contrario, con il teleobiettivo la scena appare schiacciata. Per questo motivo, le persone che magari si trovano a due metri di distanza possono sembrare molto vicine.
Le parole dei fotografi. Ólafur Steinar Gestsson ha spiegato che, se dovesse fotografare alcuni frammenti di vita quotidiana ai tempi del coronavirus, userà soprattutto obiettivi grandangolari. A sua detta, usare i teleobiettivi non è scorretto. Infatti, non sempre gli obiettivi grandangolari garantiscono un’immagine più realistica. Tuttavia, ritiene che l’effetto estetico delle foto sia secondario rispetto alla resa realistica che si ottiene con un grandangolare. “Una possibile soluzione potrebbe essere di indicare nella didascalia della foto come è stata scattata, in modo che i photoeditor dei giornali possano sceglierla come credono meglio”, è la sua proposta. L’effetto dei teleobiettivi è stato notato su Twitter anche da altri utenti. Quest’ultimi hanno commentato un articolo del quotidiano norvegese Dagbladet secondo cui, sabato 4 aprile, nel centro di Oslo moltissimi cittadini passeggiavano indifferenti di fronte alle regole sul distanziamento sociale. Notando la posizione di un segnale stradale e di un lampione, è emerso che la fotografia mostrava un tratto di strada molto più lungo rispetto a quanto appariva nella foto. Il che conferma che spesso i teleobiettivi fanno apparire vicine cose anche molto distanti.
Il virus nero. Report Rai. PUNTATA DEL 27/04/2020 di Giorgio Mottola. Oltre al coronavirus, stiamo vivendo una pandemia di disinformazione. Dall’inizio dei contagi hanno iniziato a circolare notizie false o manipolate, che hanno avuto su Whatsapp e su Facebook il loro epicentro di diffusione. Report ha scoperto un filo nero che lega tra di loro alcuni dei contenuti di disinformazione diventati più virali. Siti di destra estrema e di alternative right hanno spinto in tutto il mondo la diffusione di video e post, contribuendo a creare una narrazione complottistica e allarmistica sul coronavirus. Chi li finanzia? Report ha fatto un viaggio nell’impero economico del leader neofascista più longevo della storia recente d’Italia: Roberto Fiore, capo di Forza Nuova. Fuggito a Londra negli anni ‘80, da latitante si è ritrovato a gestire un floridissimo business che arrivava a fatturare oltre 30 milioni di euro all’anno. Con documenti inediti, racconteremo com’è nata la sua fortuna finanziaria e come si è sostenuto il network neofascista europeo. Nel corso dell’inchiesta l’inviato di Report Giorgio Mottola ha raccolto fatti inediti che potrebbero portare a novità rilevanti sulla strage della stazione di Bologna, e soprattutto ha incontrato un latitante dell'estrema destra, tra i trenta ricercati più importanti, che vive indisturbato a Londra e gestisce un piccolo impero economico.
“IL VIRUS NERO” Di Giorgio Mottola Consulenza Andrea Palladino Collaborazione Norma Ferrara – Simona Peluso Immagini Dario D’India – Alfredo Farina Immagini Davide Fonda – Tommaso Javidi Montaggio e grafica Giorgio Vallati.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Il modo in cui il video del TGR Leonardo diventa virale presenta alcune anomalie. Sui motori di ricerca era difficilissimo trovarlo. E così, per cinque anni, il servizio è rimasto sepolto nell’archivio del sito della Rai: fino al mese scorso le visualizzazioni registrate risultavano zero.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Mentre eravamo a casa blindati e anche un po’ irritati perché costretti alla lunga quarantena, è arrivato sui nostri telefonini e anche sui social questo video. Era un vecchio TGR Leonardo dove si parlava di un esperimento fatto in un laboratorio da ricercatori cinesi su un Coronavirus. E il sospetto è venuto a tutti: il SARS-coV-2 è di origine umana, è il frutto amaro dei ricercatori cinesi. L’abbiamo un po’ postato tutti, anche io l’ho postato sul mio profilo anche se specificando che nonostante gli scienziati avessero escluso la mano umana dietro il virus, questo video continuava a diffondersi più velocemente del contagio del Coronavirus. Chi è che lo ha fatto viaggiare così tanto? Chi è che lo ha reso virale? Con quale scopo? E soprattutto la notizia era vera o falsa? Il confine è sottile.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Se avete un profilo sui social network o semplicemente usate Whatsapp, mentre eravate sigillati in casa in quarantena, di sicuro avete visto questo video.
TGR LEONARDO – DEL 16/11/2015 È un esperimento, certo ma preoccupa, preoccupa tanti scienziati. Un gruppo di ricercatori cinesi innesta una proteina presa dai pipistrelli sul virus della Sars. La polmonite acuta, ricavato da topi. E ne esce un supervirus che potrebbe colpire l’uomo. Resta chiuso nei laboratori, ovvio. Serve solo per motivi di studio, ma vale la pena correre il rischio, creare una minaccia così grande solo per poterla esaminare?
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Il servizio dà conto di una notizia vera, basata su un articolo scientifico pubblicato da Nature. Ma il fatto risale al 2015 e pur parlando di coronavirus, non c’è nessun collegamento con il SARS-coV-2, il virus con cui noi tutti siamo alle prese da qualche mese.
ALEX ORLOWSKI – ESPERTO PROPAGANDA ON LINE Non è una fake news, si chiama falso contesto, cioè false contest. Quindi prendere una notizia fatta in maniera corretta a livello giornalistico e cambiare contesto. L’autorevolezza della Rai è conosciuta in tutto il mondo per cui anche per chi non capisce l’italiano, se vede la Rai e vede che è del 2015 e la mette in un falso contesto, cambia il senso dell’informazione.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Sui social il video viene presentato come la dimostrazione che il Covid-19 è stato costruito in laboratorio. E sebbene, subito dopo la pubblicazione, in tanti, a partire dal sito Open, dimostrino la manipolazione di senso del video, sui social e Whatsapp arriva in poche ore a milioni di visualizzazioni.
ALEX ORLOWSKI – ESPERTO PROPAGANDA ON LINE Abbiamo avuto moltissimi diciamo measleading del titolo con cui la gente pubblicava: vedete già la Rai lo aveva scoperto nel 2015. Il Coronavirus lo hanno inventato i cinesi in laboratorio. Poi le persone non conoscendo la lingua spesso, o gli stessi italiani non guardano il video, non cercano di interpretarlo, hanno capito un’altra cosa.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Il modo in cui il video del TGR Leonardo diventa virale presenta alcune anomalie. Sui motori di ricerca era difficilissimo trovarlo. E così, per cinque anni, il servizio è rimasto sepolto nell’archivio del sito della Rai: fino al mese scorso le visualizzazioni registrate risultavano zero. Poi all’improvviso il 25 marzo arriva la prima visualizzazione e tra le 16 e le 18 le visualizzazioni schizzano a 474. La prima piattaforma su cui compare il video è Whatsapp. E Report è riuscito a scoprire chi è la persona che per primo lo ha condiviso. La paziente zero del video virale.
GIORGIO MOTTOLA Quindi lei in qualche modo è la paziente zero di questo video virale su Coronavirus?
CRISTINA ROMIERI Sì, sembra proprio di sì. Perché il 24 marzo ho trovato un appunto, questo esattamente, che stavo buttando via quando vedo scritto “scienziati cinesi hanno creato super virus”. Poi mi sono ricordata che era una trasmissione, anche perché lo avevo scritto, TGR Leonardo del 16/11/2015. E ho cercato naturalmente anche il video per capire se avevo inteso bene, e non l’ho trovato.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Come conferma anche il post pubblicato su Facebook, il 24 marzo la signora Cristina ritrova un suo appunto sul TGR Leonardo e cerca il video online. Non riuscendo a trovarlo, chiede aiuto a un suo amico.
CRISTINA ROMIERI Lo trova il mattino dopo, 25 marzo, un mio amico e verso le 11.30 –ho controllato appunto i messaggini- mi dice sì, l’ho trovato e me lo invia. Allora, sia lui che io lo inviamo, ma in maniera molto ridotta, appunto ad alcune persone.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ed eccola la prova. Alle 11.38 del 25 marzo l’amico della signora Cristina le manda il video su Whatsapp scaricato e tagliato, proprio come nella versione che poi ha iniziato a circolare.
GIORGIO MOTTOLA Ma quando voi avete cominciato a far girare quel video, l’obbiettivo era farlo diventare virale? CRISTINA ROMIERI No. Assolutamente. No, no, non avevamo questa pretesa.
GIORGIO MOTTOLA Quando ha scoperto che questo video cominciava e essere utilizzato per fare sostanzialmente disinformazione, lei che cosa ha pensato? CRISTINA ROMIERI Mi è dispiaciuto naturalmente. Non avevo nessun scopo politico…assolutamente no.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO La disinformazione politica parte quando da Whatsapp il video inizia a diffondersi su Facebook.
GIORGIO MOTTOLA Dov’è che si comincia a visualizzare all’improvviso questo video?
ALEX ORLOWSKI – ESPERTO PROPAGANDA ON LINE I gruppi di Facebook che sono una grande fonte di viralizzazione di certi temi e nello stesso momento su Twitter, che è un altro canale e poi contemporaneamente, e questo è un segnale, un segnale anche della galassia che ha voluto viralizzare questo video, su Vkontank, che è il social network russo. Ci sono certi video che se ad esempio nascono dagli Stati Uniti o nascono dal Sudamerica o dall’Asia, non li troverai mai viralizzati su Vkontakt. Quando invece nascono da certi gruppi di ultradestra, sovranisti o far right, in Europa uno dei canali per la veicolarizzazione è anche Vkontakt.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma su Vkontak, il social russo divenuto rifugio dell’estrema destra europea, comincia a diffondersi in un secondo momento. Alle 18:20 del 25 marzo, ad appena un’ora e mezza dalla prima visualizzazione, il video del Tgr Leonardo viene pubblicato dal profilo di Matteo Salvini e poi da quello di Giorgia Meloni, raggiungendo oltre 3 milioni di visualizzazioni. Qualche minuto prima, alle 18.07 il video era stato caricato per la prima volta anche su Youtube da Stefano Monti, un attivista dei 5 Stelle, candidato con il Movimento alle regionali in Emilia nel 2014.
STEFANO MONTI Sono Stefano Monti, mi occupo di programmazione, informatica e tecnologia.
ALEX ORLOWSKI – ESPERTO PROPAGANDA ON LINE Questo video è stato spinto sicuramente dalla destra sovranista europea, italiana in particolare, all’inizio, ma in congiunta è stata quasi un’associazione parallela con alcuni simpatizzanti della prima ora del Movimento 5 Stelle. I simpatizzanti che amavano molto le notizie complottiste di Beppe Grillo, questa forma di clickbait, so, conosco, pseudoscience.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Dall’Italia il video ha poi fatto il giro del mondo. Lo hanno ripreso attivisti della chiesa ortodossa in Romania, raggiungendo le 500mila visualizzazioni. Siti dell’alternative right, la destra radicale americana, come Infowars, bannato più volte dai social per la diffusione di notizie false, forum neonazisti europei come Stormfront e Zero Hedge, sito dell’ultradestra bulgara.
ALEX ORLOWSKI – ESPERTO PROPAGANDA ON LINE Questo grafico mostra da che pagine sono stati spinti di più questi contenuti legati a TGR Leonardo.
GIORGIO MOTTOLA E cosa emerge?
ALEX ORLOWSKI – ESPERTO PROPAGANDA ON LINE Emerge che praticamente sono legati in maggior parte al mondo dell’alternative right, ultraright, poi abbiamo una parte che è legata solamente alla pseudoscience, per cui siti di ufologia, moltissimi siti di ufologia, è incredibile. Sovranisti, cospirazionisti eccetera.
GIORGIO MOTTOLA Leggo anche no 5G.
ALEX ORLOWSKI – ESPERTO PROPAGANDA ON LINE No 5G ci sta dando dentro parecchio.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Su facebook il 5G viene indicato come causa del Coronavirus e su molte pagine circolano video di falsi raid per distruggere le antenne.
VOCE FUORI CAMPO Ha preso fuoco un’antenna. Un’antenna Telecom.
GIORGIO MOTTOLA Leggo anche pagine contro il papa.
ALEX ORLOWSKI – ESPERTO PROPAGANDA ON LINE Molte di queste pagine non sono solo di alt right e fake news, ma sono ad esempio basate su fake news contro il papa o fake news contro l’islam ad esempio.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO On line la disinformazione sul Coronavirus si è mossa a una velocità maggiore di quella con cui si è diffuso il contagio. Uno degli esempi è questo video, pubblicato da ByoBlu, denunciato dalla comunità scientifica come pericoloso e antiscientifico, un nanopatologo sostiene che l’emergenza Coronavirus è tutta una bufala.
DA BYOBLU24 STEFANO MONTANARI - NANOPATOLOGO Ma tutte queste bare appartengono ai 650 mila morti che abbiamo tutti gli anni in Italia, non c’è un aumento di mortalità. Qui stiamo parlando di tre morti, sempre che ci siano sempre questi tre morti.
GIORGIO MOTTOLA Qual è stato il principale veicolo di diffusione di disinformazione sul Coronavirus?
LUCA NICOTRA – AVAAZ ONG Dalla nostra indagine emerge chiaramente che Facebook è la principale piattaforma di questa pandemia di disinformazione online. Subito dopo seguita da Whatsapp che è proprietà di Facebook, quindi diciamo maggiore responsabilità da parte di Zuckerberg e la sua compagnia.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Dalle ricerche condotte da Avaaz risulta che Facebook è stato il principale veicolo di disinformazione on line. Contenuti falsi o notizie manipolate sul Coronavirus sono state condivise in Europa oltre un milione di volte e visualizzate circa 117milioni. E l’Italia insieme alla Spagna è il paese in cui la disinformazione sui social è stata maggiormente fuori controllo. Infatti, a differenza di quanto accade per il mondo anglosassone, Facebook ai propri utenti italiani segnala di rado quali sono le notizie false.
LUCA NICOTRA – AVAAZ ONG Il nostro paese come anche in Spagna invece il 70 per cento delle notizie non hanno alcuna avvertenza dopo settimane dalla loro pubblicazione, quindi continuano a essere condivise, decine, centinaia, migliaia di volte ogni giorno, visualizzate da milioni di persone a settimane dalla loro pubblicazione. Addirittura, anche nel caso in cui in seguito ci sia un giornalista, un fact-checker indipendente che dimostri che si tratta in realtà di notizie false, ebbene, anche in quel caso, le milioni di persone che hanno visto quelle notizie false, non lo sapranno mai.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E in tempi di pandemia questo rischia di avere degli effetti devastanti. Molta disinformazione riguarda ad esempio la salute e i comportamenti da adottare per prevenire il Coronavirus. Ad esempio sullo stesso video di Byoblu si sconsiglia l’utilizzo dei guanti.
DA BYOBLU24 STEFANO MONTANARI - NANOPATOLOGO Il guanto impedisce alle nostre difese immunitarie che stanno sulla pelle, impedisce di agire. Quindi quei guanti fanno infinitamente peggio dei non guanti.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Altri post hanno suggerito invece di bere acqua ogni quindici minuti per far scendere il virus nell’intestino ed espellerlo. Questi post sono stati pubblicati in decine di lingue, adattandoli ai vari paesi e ogni volta indicando una fonte scientifica o istituzionale diversa.
LUCA NICOTRA – AVAAZ ONG Disinformazione che sostanzialmente si comporta esattamente come un virus, cioè muta assumendo in ogni contesto le forme più utili a, in questo caso, infettare le nostre menti e quello che crediamo essere la verità.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO L’altro cavallo di battaglia della disinformazione ha riguardato il ruolo di Bill Gates nella nascita del Coronavirus. La sua fondazione da anni finanzia studi per trovare un vaccino all’influenza e da tempo lancia un allarme sul rischio di una nuova pandemia. Proprio come hanno fatto migliaia di scienziati e capi di Stato. Ma il solo fatto che Bill Gates abbia parlato in passato, lo ha trasformato in probabile untore.
IL VASO PANDORA La Bill e Melinda Gates tre settimane prima del primo scoppio fa una simulazione della pandemia globale proprio da Coronavirus, arrivano i militari americani in occasione di questa festa militare in Cina, due settimane dopo, giusto il tempo dell’incubazione, scoppia il primo caso di Coronavirus e ovviamente la causa è il mercato del pesce.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Tra i partiti italiani più attivi sul fronte della disinformazione online, c’è senza alcun dubbio il movimento neofascista di Forza Nuova, secondo cui molti certificati di morte per Coronavirus sarebbero stati falsificati per far guadagnare più soldi alle onoranze funebri.
GIULIANO CASTELLINO – DIRIGENTE FORZA NUOVA Vi porto decine e decine di quelli che a Roma chiamiamo becchini che continuano a lavorare che vanno nelle sale mortuarie e i dottori, gli infermieri dicono di che è morto? Scrivi Coronavirus perché prendiamo più soldi dalla Comunità Europea.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO All’inizio dell’epidemia il presidente di Forza Nuova, Roberto Fiore, aveva lanciato su Twitter questo appello: “Interrompete la quarantena e usate il Tocilizumab”, il farmaco che ha dato sollievo a molti malati in crisi respiratorie, ma che nessuno studio scientifico ha identificato come la cura definitiva contro i danni causati dal Covid.
GIORGIO MOTTOLA Quand’è che ha studiato medicina e virologia lei?
ROBERTO FIORE – PRESIDENTE FORZA NUOVA Quando io ho parlato di quel farmaco avevo la certezza, la ragionevole certezza che il farmaco funzionasse, avevo già visto cos’era avvenuto in alcuni casi.
GIORGIO MOTTOLA Lei è l’anti Burioni praticamente?
ROBERTO FIORE – PRESIDENTE FORZA NUOVA Non voglio cadere nella polemica.
GIORGIO MOTTOLA No, non è una polemica però è un virologo insomma.
ROBERTO FIORE – PRESIDENTE FORZA NUOVA No, assolutamente no.
GIORGIO MOTTOLA Lei dice fermiamo la quarantena, dice. Usate quel farmaco, blocchiamo la quarantena.
ROBERTO FIORE – PRESIDENTE FORZA NUOVA Era ancora una fase in cui i morti erano ancora bassi.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Forza Nuova ha lanciato una violenta campagna sui social per boicottare la quarantena e un appello per la riapertura delle chiese a Pasqua. L’appello di Forza Nuova è stato rilanciato in televisione dal leader della Lega Matteo Salvini.
DA SKYTG24 MATTEO SALVINI Io sostengo le richieste di coloro che dicono in maniera ordinata, composta, sanitariamente sicura, fateci entrare in chiesa per Pasqua. Fateci assistere anche in 3, 4, in 5 alla messa di Pasqua. Mi dicono: si può andare dal tabaccaio, perché senza sigarette non si sta, per molti anche la cura dell’anima, oltre che la cura del corpo è fondamentale…
GIORGIO MOTTOLA Forse Salvini vi tocca denunciarlo per plagio piuttosto. Visto che negli ultimi anni ha ripreso tutte le vostre parole d’ordine…
ROBERTO FIORE – PRESIDENTE FORZA NUOVA Questo non è un fatto negativo. È un fatto positivo. Diceva Almirante: quando senti dai tuoi avversari dire delle cose che tu hai detto fino a oggi, ecco significa che stai vincendo.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Il tema dell’informazione è da tempo al centro dell’agenda dell’estrema destra italiana. Alla presenza dell’ex ministro e sindaco di Roma, Gianni Alemanno, durante un convegno il portavoce di Casapound Simone Di Stefano ha annunciato in modo chiaro il loro piano, che vede al centro anche la Rai.
SIMONE DI STEFANO – VICEPRESIDENTE CASAPOUND Non bastano i social, non basta avere una pagina Facebook con 4 milioni di like, questo non basta. Dobbiamo andare in Rai. Quest’area sovranista quanti giornalisti ha da mettere sul campo? Ve lo dico io, cinque di punta e una trentina sparsi nelle varie redazioni, trenta, quaranta giornalisti. Non bastano. Bisogna fare di più. Bisogna che quest’area sovranista vasta si metta insieme per creare scuole di giornalismo, per mettere giù più riviste, per comprare una radio.
SIGRIDO RANUCCI IN STUDIO Dubito che in Rai ci siano una cinquantina di giornalisti disposti a fare da cassa di risonanza al portavoce di Casapound. Evidentemente non gli bastano i 4 milioni di like di cui si vanta. Vede la Rai come un terreno da conquistare. Noi di Report avevamo denunciato in una delle scorse puntate quanto dai profili dei suoi militanti erano state spammate invece delle fake news. Casapound e Forza Nuova figliano da Terza Posizione, che è stato un movimento che è stato fondato da Roberto Fiore negli anni ’70. Nell’ottobre dell’80 viene spiccato nei suoi confronti un mandato di arresto perché sospettato di essere coinvolto nella strage di Bologna. Fatto per cui lo diciamo chiaramente è stato prosciolto per mancanza di indizi, anzi, sono stati poi aperti dei processi per calunnia nei confronti di chi aveva ipotizzato un suo coinvolgimento. Tuttavia c’era invece anche l’accusa di appartenere all’associazione sovversiva, fatto che gli è costato anche una condanna di 5 anni e sei mesi. Però non ha fatto un solo giorno di carcere in Italia. Questo perché è stato latitante per lungo tempo in particolare a Londra dove ha costruito da latitante anche un successo imprenditoriale aiutando anche altri neofascisti. È stato sdoganato nel 2008 da Berlusconi e oggi Fiore è legato a doppio filo ai fondatori di un movimento, la coalizione per la vita e la famiglia dell’estremista franco-belga Escada, un movimento che fa una battaglia contro papa Francesco. Però Fiore e Forza Nuova possono invece vantare oggi di essere gli ispiratori dei sovranisti istituzionali. Suo lo slogan “Prima gli italiani” che è stato poi fatto proprio da Salvini e dall’onorevole Meloni, oppure il termine “Sostituzione Etnica”, che è stato usato contro i migranti. Poi quando c’è stato da fare la battaglia per riaprire la liturgia all’interno delle chiese, lui ha lanciato la battaglia e altri son venuti poi dietro. Tutto questo, fa dire poi a Fiore, “sto vincendo io”; lo abbiamo sentito dalle parole raccolte dal nostro Giorgio Mottola. Ma non è l’unico esempio: c’è anche il filo che lega all’ultranazionalismo russo. Nel 2012 Roberto Fiore fonda la società, l’associazione, Alexandrite che era un link tra le imprese italiane e quelle Russe. E nel 2013 fa la stessa cosa il portavoce di Salvini, Savoini, quello coinvolto nella presunta trattativa del Metropol di Mosca, sulla compravendita di gasolio. Lui fonda l’associazione Lombardia Russia con la stessa finalità. Insomma. Dopo 30 anni, Fiore è ancora un leader. È presidente dell’Alleanza per la Pace e per la Libertà, il network che coinvolge, lega tutti i più importanti partiti dell’estrema destra europea. Il sogno di costituire un partito fascista internazionale però risale a vecchia data. Aveva provato anche a fare dietro un santo, San Michele arcangelo, il santo con la spada, una comune dell’internazionale nera nella campagna spagnola. Dove però la terra è po’ rossa, un po’ come su Marte. Il nostro Giorgio Mottola.
Da liberoquotidiano.it il 26 aprile 2020. Smentita a casa sua. Si parla di Lilli Gruber, che a Otto e Mezzo su La7 ha dovuto incassare il "colpo basso" di Riccardo Luna, giornalista di Repubblica e componente della task-force del governo contro le fake-news. Il tema erano le controverse dichiarazioni di Donald Trump circa la possibilità di testare iniezioni di candeggina. E la Gruber, rivolgendosi a Fabrizio Pregliasco, presente in collegamento, ha affermato: "Trump ha detto che potrebbero funzionare delle iniezioni di disinfettante, chi può credere ad una simile panzana?”. E Pregliasco ha parlato di "esempio micidiale di disinformazione", in riferimento alla "ricetta" di Trump. Ma a quel punto si è inserito Luna, il quale ha puntualizzato: "Se si va a vedere la conferenza stampa si scopre che Trump non lo ha detto. Ha atto una domanda, che è molto diverso". Dunque, Luna ha spiegato nel dettaglio quanto accaduto: "Le conferenze sono molto divertenti, se non fosse che stiamo parlando di una tragedia. Trump ne ha dette di tutti i colori, ma questa volta ha fatto una domanda, ha chiesto ad un medico se poteva essere una buona idea, ovviamente non lo era. Si comporta come un uomo della strada. La cosa migliore che è accaduta è che il medico lo ha spiegato, tutta la stampa lo ha spiegato. Il miglior antidoto contro le fake sono la credibilità dei giornalisti e degli scienziati. La domanda di Trump è finita lì". Evidente l'imbarazzo della Gruber, che con palese stizza e disappunto ha affermato: "Sì sì, diciamo così... era una domanda alla Trump... ma chi non è esperto e poco avveduto e attento...". Gelo in studio.
Alberto D’Argenio per “la Repubblica” il 26 aprile 2020. L' accusa arriva dal New York Times : su pressione della Cina, la Commissione europea ha annacquato un rapporto sulla disinformazione legata al Covid 19 alleggerendo le accuse contro la propaganda di Pechino. Bruxelles nega, scrive una lettera di smentita e con un portavoce attacca: «Se leggete il nostro documento con occhi aperti e senza un doppio fine, vedrete che non ci pieghiamo ad alcuna pressione esterna». La questione è intricata, da inizio pandemia gli europei accusano Russia e Cina di diffondere fake news per indebolire l' Unione e allargare la loro influenza sulle nostre opinioni pubbliche. Ma senza eccedere nel linguaggio verso due attori globali con i quali i rapporti sono complessi per ragioni politiche ed economiche. La polemica ruota intorno alla bozza del secondo rapporto sulla disinformazione legata al coronavirus firmato da EuVsDisinfo, l' unità della Commissione che dal 2015 setaccia la Rete a caccia di fake news. Il documento non ancora pronto per la pubblicazione accusava direttamente Pechino: «La Cina continua a condurre una campagna di disinformazione globale per sviare le accuse legate allo scoppio della pandemia e migliorare la sua immagine internazionale ». A inizio della scorsa settimana, il testo provvisorio circola per la normale consultazione tra governi europei e, in questo caso, anche dei principali partner internazionali. Qualcosa va storto, perché martedì alcuni stralci duri verso il Dragone appaiono sui media. Secondo la ricostruzione del New York Times , entra in gioco la diplomazia cinese, che pressa Bruxelles affinché blocchi la pubblicazione del rapporto. L' articolo documenta le pressioni pubblicando una mail interna scritta dallo stesso capo dell' unità contro la disinformazione, il tedesco Lutz Gullner: «I cinesi stanno già minacciando reazioni». Quindi afferma che Esther Osorio, consigliere dell' Alto rappresentante Josep Borrell, avrebbe chiesto di rendere il rapporto meno lesivo nei confronti della Cina. Da Bruxelles affermano che mail e azioni attribuite a Osorio sono decontestualizzate e manipolate. Il rapporto resta fermo qualche giorno e viene pubblicato venerdì. Alcuni passaggi in effetti sono diversi rispetto alla bozza. Manca la frase sulla «campagna di disinformazione globale» condotta dalla Cina. Resta identica quella che recita: «Nonostante il grave impatto potenziale sull' opinione pubblica, funzionari e fonti controllate da diversi governi, inclusi Russia e - in misura minore - Cina, continuano a diffondere narrativa complottista e disinformazione presso il pubblico europeo». In generale i riferimenti al governo cinese vengono alleggeriti con «fonti ufficiali cinesi». Le modifiche di per sé non sono sorprendenti: è normale che i documenti preparati dai funzionari della Commissione Ue vengano poi modificati dal commissario competente e dal suo gabinetto, che agiscono con uno sguardo più politico. A Bruxelles il 2020 è vissuto come l' anno della svolta nei rapporti con la Cina. Virus permettendo, sarebbero in programma due vertici bilaterali, con gli europei in pressing su Xi sul fondamentale trattato per il riequilibrio commerciale. Alcuni diplomatici Ue citati dai media internazionali inquadrano il giallo sulle fake news come un pericoloso precedente. Ma dietro le quinte altri diplomatici europei aprono una diversa prospettiva: «Gli americani attraverso alcuni governi dell' Europa centro-orientale premono affinché i rapporti di EuVsDisinfo contengano più retorica anti- cinese e anti-russa». Fonti della Commissione negano di essersi sottomesse a Pechino e sottolineano che il rapporto finale ha un raro livello di coincidenza con la bozza. Di fatto il documento pubblicato l' altro ieri resta duro, afferma che la propaganda di Russia e Cina «potenzialmente può avere conseguenze su sicurezza pubblica, salute ed efficacia della comunicazione» nella gestione della crisi. Mosca e Pechino «mirano a danneggiare la fiducia nelle istituzioni e nei governi» dell' Ue. Insomma, provano ad aggravare la crisi sanitaria (molto diffuse le fake sulle false cure) e indebolire, o addirittura sfaldare, l' Unione per approfittarne in termini politici ed economici. Nel rapporto abbondano le teorie complottiste russe e cinesi che penetrano nella società raggiungendo centinaia di milioni di persone via social o messaggini: il virus non esiste, il Covid è diffuso dalle reti 5G, la pandemia è esagerata dai media e dai governi per instaurare un regime fascista o per impiantare microchip che controlleranno la popolazione. Grazie alla propaganda di Pechino sugli aiuti concessi all' Italia, ora il 52% dei connazionali (prima erano il 10%) ritiene la Cina un partner amico. Con speculare crollo della fiducia nella Ue dal 42 al 27%. Non a caso il 9 aprile, intervistato da Repubblica , Borrell aveva affermato: «È chiaro che Russia e Cina vogliono aumentare la loro influenza a livello globale. Stanno usando la crisi sanitaria per farlo». Parole che nei giorni successivi hanno scatenato un' ondata di fake news contro il titolare degli Esteri europeo.
Un oceano di fake news sui social per arpionare Conte. Pino Casamassima su Il Dubbio il 19 aprile 2020. Con fake, insulti da trivio ma pure con livorose e pantagrueliche filippiche, pasdaran antigovernativi mettono nel mirino dell’arpione Conte e i suoi ministri. Con fake, insulti da trivio ma pure con livorose e pantagrueliche filippiche, pasdaran antigovernativi mettono nel mirino dell’arpione Conte e i di lui ministri: ora questo, ora quello, “democraticamente”. Su tv, giornali, ma soprattutto sui social, bossiani e migliani d’estrazione dei premiati cantieri Salvini& Meloni vanno all’assalto della nuova Balena Bianca ( Conte). L’ultimo degli arpioni si chiama Mes ed è stato affilato sul tornio della “legittimità”. I suddetti pasdaran marittimi sono composti – oltre che da politici, nani e ballerine della Rive Droite italica – da giornalisti e perfino qualche maître à penser. Tutti insieme, appassionatamente, costituiscono una ciurma che si trastulla con cori che manco quello dell’Aida per forza narrativa. Pur tuttavia, non ce la fanno proprio a superare la foresta ostativa che li separa da quel mare in cui naviga la Balena bianca, e che anzi, a somiglianza di quella di Birnan, avanza contro di loro, bruciando sistematicamente tutte le fake diligentemente prodotte dalla premiata ditta Salvini& Meloni. Certo, l’uno non è Macbeth né l’altra la sua Lady, ma “espressioni politiche d’un tempo” appese a un estenuante «domani, domani e domani». Fra i tanti «domani e domani» succedutisi dallo scorso solleone che molte parti del capitano ustionò, si è tentato in tutte le maniere di arpionare il Conte nelle acque agitatissime del mare magnum di una politica in balia della tempesta perfetta scatenata dal più fetente dei Virus. Per dire, dopo che una accorata e accurata campagna denigratoria nulla aveva sortito, i pasdaran avevano deciso di spingersi regolarmente nel mare aperto dei social con le loro reti dispiegate a caccia di pesci contiani ( molto ricercati perché assai apprezzati quelli della Rive Gauche), con risultati però scarsi, ché il peschereccio della suddetta premiata ditta si riempie sistematicamente di scarti ittici, quali: Loligo Vulgaris ( «il premier non è un leader» ), Pomatomus Saltator ( «non è eletto» ), Octopus Vulgaris ( «non è un politico» ), Scorpaena Scrofa ( «non è un tecnico» ). Insomma, roba da «Non è». E proprio con queste conclusioni ittiche dal riverbero parmenideo ( «Il Capitano è, il non- capitano non è» ), qualche mezzo maître dell’esclusivo hotel Salvini- Meloni, ha servito in tavola tranci di Esatelis Cete Album ( parti di «Balena bianca» andati a male spacciati per «Conti Vulgaris» : chessò, un Casalinus Vulgaris). Sedotti – semmai ce ne fosse bisogno dato il pedigree d’origine padana – dalle muscolose esibizioni del Capitano al famoso consesso estivo tenutosi in quel di Papete, pasdaran del di lui seguito, uniti a quelli dal brand melonide, hanno esposto sulla bancarella di quei social così ben fotografati da Umberto Eco, una mercanzia secondo loro sufficiente a sfamare dalle Alpi alla Trinacria. «Argomentazioni» tuttavia olezzanti di Nulla: vecchie riserve ittiche scongelate le cui lische denunciano provenienze marcescenti e già utilizzate contro altri balenotteri della politica, che ad Arcore e Casa Pound ancora ridono. Insomma, merce avariata: usata già perfino sulle spiagge della prima Repubblica. Con sprezzo del ridicolo i pasdaran inondano insomma la rete con innumerevoli arpioni- fake tuttavia regolarmente smascherati e annullati nello spazio temporale di un singolo di Laura Pausini, non di una suite dei Pink Floyd. Taliban leghisti e ittici fratellini italici ( fra cui anche stimati professionisti dell’architettura, l’ingegneria, la docenza perfino universitaria, eccetera) s’immolano al grido di “Ipse dixit”, riferendosi non al metepsicotico Pitagora, ma al papetiano Archimede Pitagorico da comizi citofonati o alla signora che da un palco romano aveva rivendicato d’esser “una donna, non una santa” – anzi no, quella era la cantante. Rewind: rivendicando d’essere “una donna”, “una madre”, oltre che una “cristiana” (rubando per una frazione di propaganda la scena al cuore immacolato del Capitano). E se per Kant «l’uomo non può disporre della verità ma la verità può disporre dell’uomo», quella poveretta – della verità – su quei due, no: non può proprio contare, ché – per dirla con Arthur Block «Nessuno è più sincero di un politico che mente».
L'indiscrezione: "Mentana ha offerto le sue dimissioni a Urbano Cairo". Secondo un'indiscrezione di Dagospia, Enrico Mentana avrebbe rassegnato le sue dimissioni a Cairo dopo una puntata di Otto e mezzo. Francesca Galici, Venerdì 17/04/2020 Il Giornale. Nei giorni precedenti ha tenuto banco il botta e risposta a distanza tra Enrico Mentana e Palazzo Chigi, frutto dell'esternazione del direttore del Tg La7 in coda all'ultima conferenza stampa di Giuseppe Conte, tenutasi lo scorso 10 aprile. Il dietro le quinte pare sia stato anche più movimentato, come raccontato dal sito Dagospia, tanto da spingere Enrico Mentana a rassegnare le sue dimissioni all'editore Urbano Cairo. "Stavolta devo fare nomi e cognomi", così Giuseppe Conte ha introdotto il suo attacco politico a Giorgia Meloni e Matteo Salvini nel corso della conferenza stampa indetta per annunciare il decreto di proroga del lockdown del Paese. Quel passaggio è stato oggetto di critica da più parti. Enrico Mentana, al rientro in studio dopo il discorso alla nazione del premier, ha sentito di dissociarsi giornalisticamente da quell'attacco: "Se avessimo saputo che Conte avrebbe fatto un uso personalistico della conferenza stampa, attaccando l'opposizione, non avremmo mandato in onda quella parte." Le parole di Enrico Mentana sono risuonate per giorni nelle stanze del potere e sono rimbalzate su tutti i giornali e i media nazionali. Tutto questo finché non è arrivata una nota ufficiale di Palazzo Chigi a chiarire quanto avvenuto nel corso della conferenza stampa del Presidente del Consiglio. L'ufficio stampa di Giuseppe Conte ha rivendicato il diritto di smentire quelle da loro considerate fake news in una conferenza che non era a reti unificate. Il segnale - aggiungono - era di libero accesso per i network, per questo chiunque avrebbe potuto scegliere di trasmettere o meno il discorso del Presidente del Consiglio. Poche ore dopo, Enrico Mentana ha chiarito il suo intervento con un lungo monologo di apertura del suo telegiornale, rimarcando gli ideali della libertà di informazione, soprattutto in un momento così difficile, informazione che non deve però passare per la polemica politica. In questo scenario, martedì sera si è inserita Lilli Gruber. Ospiti di Otto e mezzo, Paolo Pagliaro e Marco Travaglio hanno appoggiato la scelta di Giuseppe Conte di criticare le opposizioni, nonostante il delicato momento socio-economico del Paese. Secondo quanto rivelato da Dagospia, quindi, il comportamento di Lilli Gruber avrebbe innervosito Enrico Mentana al punto che, stando alla cronaca del sito diretto da Roberto Dagostino, il direttore del Tg La7 avrebbe messo le sue dimissioni sul tavolo di Urbano Cairo. Un gesto plateale da parte di Enrico Mentana, che si sarebbe chiuso in un nulla di fatto grazie alla solidarietà espressa nei suoi confronti dall'editore. Inoltre, Enrico Mentana avrebbe chiesto - sempre secondo quanto riporta Dagospia - a Urbano Cairo di chiudere il contratto con Marco Travaglio sia a Otto e mezzo che a Di Martedì di Giovanni Floris. Non è tardata ad arrivare la risposta di Marco Traviglio su Dagospia: "Caro Dago, non sono abituato a parlare a comando, dunque l'altra sera a Otto e mezzo non ho criticato Enrico Mentana "su input" di Lilli Gruber (che peraltro non si è mai permessa di darmi input sulle cose da dire): ho semplicemente esposto il mio pensiero, identico a quello che avevo scritto nei giorni precedenti sul Fatto quotidiano. E ho anche evitato di nominare Enrico, che nel frattempo veniva linciato sui social con espressioni orrende e comunque spropositate rispetto alla sua frase infelice."
E subito è arrivata la Dago-riposta: "Caro Marco, l'input non era rivolto al tuo pensiero ma al Punto di Paolo Pagliaro".
Da liberoquotidiano.it il 17 aprile 2020. Vittorio Feltri non le manda a dire. Ancora una volta nel mirino del direttore di Libero c'è il programma di La7 condotto da Myrta Merlino, o meglio, i presenti in studio. "Massimo Giannini, Gerardo Greco e Marco Damilano hanno stabilito il loro domicilio presso L’aria che tira di Myrta Merlino, dove sono ospiti fissi e mi auguro stipendiati almeno dal Pd". In effetti non c'è puntata in cui non ci siano il direttore di Radio Capital, l'ex giornalista Rai e il direttore dell'Espresso. In particolare è Greco ad essere ormai una presenza fissa che accompagna la Merlino, seduto proprio davanti a lei, l'unico in tutto lo studio. D'altronde dopo essere stato cacciato in tempi record dalla direzione del Tg4 non si può di certo dire che il giornalista sia così impegnato. "Il mio Tg4 - annunciava agli esordi - avrà una vena narrativa per tentare di occupare uno spazio che non c'è". Niente da fare, gli ascolti non hanno ricambiato e Mediaset gli ha dato il benservito. Ed ecco che si ritrova su La7.
Paolo Mastrolilli per “la Stampa” il 15 aprile 2020. «Non stiamo combattendo solo un' epidemia, ma anche una "infodemia"». Il direttore generale dell' Organizzazione Mondiale della Sanità Tedros Adhanom Ghebreyesus, finito nel frattempo nel mirino del presidente Trump che minaccia di tagliargli i fondi, non aveva specificato a chi si riferiva, quando il 15 febbraio scorso aveva lanciato questo allarme alla conferenza di Monaco per la sicurezza. Nel frattempo però l' Oms ha creato una piattaforma chiamata WHO Information Network for Epidemics, proprio per diffondere il più possibile notizie corrette sul coronavirus. «Noi sappiamo che ogni epidemia - ha detto al giornale «The Lancet» Sylvie Briand, direttrice dell' Infectious Hazards Management all' Oms - viene accompagnata da uno tsunami di informazioni. Ma anche all' interno di queste informazioni, trovi sempre falsità, voci, eccetera. Sappiamo che questo fenomeno esisteva anche nel Medioevo. La differenza è che ora, con i social media, tutto ciò viene amplificato, e va molto più veloce e lontano». La disinformazione sul Covid-19 è arrivata da più parti. La Cina ha prima nascosto la sua esistenza, e poi ha accusato i militari americani di averlo portato nel suo territorio. Lo stesso Trump ha detto dalla Casa Bianca cose poi smentite o corrette dagli esperti. Parecchie notizie sbagliate vengono da singoli individui, gruppi o media, in buona e cattiva fede, o per pura ignoranza. Un' inchiesta del «New York Times», però, è arrivata alla conclusione che la Russia sta sfruttando l' epidemia in maniera sistematica, per attaccare gli Usa, indebolire la loro immagine nel mondo, e seminare il sospetto e la divisione nella società americana. Un po' come aveva fatto nel 2016 con le elezioni presidenziali, ma stavolta prendendo di mira il sistema sanitario. Il punto di partenza dell' inchiesta, che aiuta a capire la genesi di queste operazioni, sta nel passato di Putin. Nessuno sa con precisione quale fosse la sua missione quando era colonnello del Kgb, ma secondo il Times la sua ascesa nei servizi era coincisa con un' operazione lanciata per distrarre l' attenzione dal fatto che l' Urss aveva creato un arsenale segreto di armi biologiche, in violazione di un trattato firmato nel 1972 con gli Usa. Per raggiungere il suo scopo, l' intelligence sovietica aveva diffuso con successo la bufala secondo cui l' Aids era un' arma razziale sviluppata dai militari americani per decimare i neri. La campagna aveva avuto successo, nel senso che aveva macchiato la reputazione di Washington, e reso gli afroamericani diffidenti. Putin continua a ripetere questa strategia ogni volta che si presenta l' occasione, come aveva già fatto con l' influenza H1N1, quando RT mandava in onda Wayne Madsen per accusare Washington di aver fabbricato il virus a Fort Detrick. Lo stesso era accaduto con l' ebola nel 2014, e le teorie cospirative di Cyril Broderick. Mosca poi alimenta le campagne contro i vaccini, anche se il Cremlino li promuove in Russia. Gli obiettivi di queste campagne sono molteplici: screditare gli Usa nel modo, intaccarne la superiorità scientifica, dividerli al loro interno, e indebolire la popolazione facendo rifiutare assistenza sanitaria essenziale. Putin non poteva lasciarsi sfuggire l' occasione del Covid-19, come ha denunciato Lea Gabrielle, leader del Global Engagement Center del dipartimento di Stato che combatte la disinformazione. Già il 3 febbraio, ad esempio, l' account di Twitter «The Russophile» aveva iniziato a diffondere la notizia che il Covid era un' arma disegnata per uccidere. E' un' offensiva che costa poco ma porta grandi frutti, e quindi continuerà.
La task force contro le fake news serve solo a decidere la verità di Stato. Michele Passione de Il Riformista il 16 Aprile 2020. A proposito della fase 2 dell’emergenza Covid 19, che Dio solo sa quando arriverà e quali forme di vita si tirerà dietro, dalle colonne del Riformista avete posto il tema della “ricostruzione affidata ad esperti”, guidati da Vittorio Colao, evidenziando come anche in questo caso sia stato scavalcato il Parlamento. Già prima di questa decisione, peraltro, da più parti si è avviato un dibattito sul governo dei tecnocrati, alimentato a onor del vero non solo da condivisibili rilievi sul ruolo della Politica, ma spesso da strumentali richieste di chi attualmente vede la propria rendita di posizione appannata da un’emergenza che ha (momentaneamente?) sovvertito l’ordine delle cose e degli assetti di potere politico. Non è questa la sede (né ne avremmo titolo e competenza) per affrontare il tema sulle elites, sull’uno vale uno, su quanto tutto ciò che sta accadendo possa provocare controspinte al sovranismo o, invece, un serrate le fila verso nuove forme solidaristiche. Staremo a vedere. Ma siccome non bastano i virologi e gli esperti di ogni tipo per orientare il cammino di chi pensa che “in carcere è più sicuro” (ed è meglio chiudere i porti), ecco l’ultima trovata, questa volta a firma di Andrea Martella, Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei Ministri (con delega in materia di informazione e editoria), una laurea in filosofia, deputato del Pd. L’idea è semplice: un bel decreto (sei pagine, questa volta riusciremo a leggerlo anche noi) di tre articoli, preceduto da ben sedici (16!) richiami alle fonti più varie, nonché da undici (11!) considerazioni e rilievi (su tutte, quella di contrasto alle fake news relative al Covid – 19). Così, ecco svelato il compito affidato all’immancabile Unità di monitoraggio, affidata al consigliere Ferruccio Sepe e a due dirigenti del ministero della Salute e del dipartimento della Protezione Civile, coadiuvati da otto esperti: raccogliere e classificare i contenuti falsi, non dimostrati o fuorvianti, creati o condivisi con riferimento al Covid-19, definire modalità idonee a potenziare e rendere più visibile ed accessibile l’informazione generata dalle fonti istituzionali, incentivare la segnalazione di contenuti non veritieri relativi al coronavirus da parte dei cittadini.
La Verità: di Stato, e di eccezione. Come si conviene in un’ottica infantilizzante, dove si sostituisce l’obbedienza alla consapevolezza, se siamo buoni, se non faremo distinguo, se sapremo distinguere bene il bianco dal nero, forse ci faranno uno sconto, una liberazione anticipata. Essere, più che sembrare (Esse quam videri), c’è scritto in fondo all’Aula Magna della Scuola Militare Nunziatella di Napoli. Sempre in quel luogo, sotto il grande orologio (che per noi si è fermato) campeggia l’altro motto informale dantesco. “il perder tempo a chi più sa più spiace”. Per fortuna i nostri eroi lo fanno gratis. Sta scritto all’articolo tre.
In Rai vietato parlare dei morti in ospizio nelle Regioni rosse. Vietato parlare delle residenze per gli anziani nelle regioni rosse. Ne avevamo il dubbio, ora si è cristallizzato in una certezza. Francesco Maria Del Vigo, Giovedì 16/04/2020 su Il Giornale. Vietato parlare delle residenze per gli anziani nelle regioni rosse. Ne avevamo il dubbio, ora si è cristallizzato in una certezza. Mass media, opinionisti e magistrati sono focalizzati sul caso delle Rsa milanesi e lombarde. Strutture finite sotto la lente d'ingrandimento per l'enorme numero di vittime registrato nelle ultime settimane. Un interesse legittimo, anche se, in alcuni casi, legato a stretto filo a un interesse politico: screditare il sistema Lombardia e il suo governatore. Ma cosa sta succedendo nelle residenze per anziani del resto d'Italia? Su tutto il Paese sono distribuite 4.629 residenze per anziani con decine di migliaia di pazienti. Ma quasi nessuno ne parla. Tutto coperto da un muro di omertà. Qualche trafiletto sui giornali e poco spazio in tv. Certo, Milano e la Lombardia sono l'epicentro della pandemia e di conseguenza è normale spostare i riflettori su una realtà così drammatica. Ma perché non indagare anche sui decessi avvenuti nelle residenze delle altre regioni? La risposta ce la fornisce, involontariamente, l'ex ministra Valeria Fedeli, ora capogruppo del Pd in vigilanza Rai: «È vergognoso che il Tg2 si sia inventato un servizio sulle morti nelle case di cura per anziani toscane, cercando di equiparare la situazione a quanto sta avvenendo in Lombardia. In Toscana non sta accadendo nulla di comparabile con quanto avvenuto nelle Rsa lombarde. Quello che non è accettabile è che il Tg2 cerchi di raccontare una realtà che non esiste. Sarà un'altra delle questioni che sarà urgente sollevare in commissione di Vigilanza Rai». Quindi, «Fedeli» alla linea della censura sovietica, secondo l'esponente dei democratici il Tg2 di Gennaro Sangiuliano non può infilare il naso nelle strutture sanitarie toscane. Non sia mai che esca fuori qualche magagna anche lì e magari ci vada di mezzo anche il rossissimo governatore Enrico Rossi. Compagno non tocca compagno. Poco importa che le toghe si siano mosse per fare luce anche sulle strutture toscane, emiliane e pugliesi. Meglio tacere e fare il pesce in barile, nascondere tutto sotto l'ampio ombrello mediatico dell'inchiesta lombarda. Anche in tempi di pandemia il bilancino delle convenienze politiche non smette di lavorare. Così, se il governatore è amico, un servizio giornalistico che cerca di fare luce su uno dei drammi dell'emergenza Covid diventa «vergognoso e non accettabile». Ripetiamo le parole della Fedeli: «Vergognoso e inaccettabile» e, giusto per essere precisi: su dodici servizi sulle Rsa solo tre si sono occupati di Toscana, Emilia-Romagna e Puglia. Tutti gli altri di Lombardia e Piemonte. Ma evidentemente bastano tre servizi su altrettante regioni (toh, tutte rosse), per evocare la censura da parte della Commissione di vigilanza. L'unica cosa vergognosa e inaccettabile, cara onorevole Fedeli, è il suo attacco alla libertà di informazione e al servizio pubblico. Ma purtroppo questo, per la sinistra, è un vecchio vizio.
“IL VIRUS NON DURERÀ”, "LA PAURA È PIÙ PERICOLOSA" – VI RICORDATE COSA SCRIVEVA IL CORRIERE DELLA SERA’ IL 28 FEBBRAIO? IL DIRETTORE LUCIANO FONTANA RILANCIAVA #MILANONONSIFERMA E PARLAVA DI NORMALITÀ DA RICONQUISTARE – RASSEGNA AL CONTRARIO DI COME IL PRIMO QUOTIDIANO ITALIANO (NON) HA RACCONTATO L’EMERGENZA CORONAVIRUS
DAGONOTA il 13 aprile 2020. Oggi, lunedì dell’Angelo, “Pasquetta”, i giornali non escono. Una disgrazia. O forse un’occasione per capire “come” leggerli. Prendiamo quello che viene considerato il “primo” quotidiano italiano, il “Corriere della Sera”; cosa ha scritto - in tempi non (ancora) sospetti sul coronavirus? Questa “rassegna” va letta al contrario: iniziate, cioè, dall’ultimo articolo, quello in cui uno dei primi “esperti” intervistati (25 gennaio), sostiene che il virus “non durerà” e piano, piano, arrivate al direttore, Luciano Fontana, che ancora il 28 febbraio rilanciava #milanononsiferma. C’è da ridere o da piangere, scegliete voi. Corriere Della Sera - Coronavirus by Alessandro Berrettoni on Scribd.
CORRIERE DELLA SERA PRIME PAGINE
RISPONDE LUCIANO FONTANA. IL COMPITO DI INFORMARE E I RISCHI DI ALLARMISMO FONTANA LUCIANO
Int. a GALLI MASSIMO: «I PAZIENTI GRAVI NEGLI OSPEDALI? CONTAGI VECCHI E SINTOMI LENTI» DE BAC MARGHERITA
FESTE PER BAMBINI SPAZI CONDIVISI, CENE A CASA MILANO SFIDA IL VIRUS ROSASPINA ELISABETTA
I SOGNI SVANISCONO, LA SFIDA RIMANE SEVERGNINI BEPPE
LE NOSTRE INCERTEZZE FERRERA MAURIZIO
LETTERA. RISPONDE ALDO CAZZULLO. NON SIAMO CONSIDERATI GLI UNTORI D'EUROPA CAZZULLO ALDO
PRESSING POLITICO SULLA SERIE A TELEFONATE, SOSPETTI E INTERESSI DALLERA DANIELE
SCUOLE ANCORA CHIUSE IN 3 REGIONI LE CONDIZIONI PER RIAPRIRE I MUSEI TROCINO ALESSANDRO
Int. a SORRENTINO ROSARIO: «C'È UN'EPIDEMIA PARALLELA: LA PAURA È PIÙ PERICOLOSA DELVIRUS» CACCIA FABRIZIO
Int. a DEMICHELI VITTORIO: «LA PRIORITÀ RESTA LIMITARE I CONTATTI TRA LE PERSONE: LO DICONO IDATI» RAVIZZA SIMONA
Int. a ZAIA LUCA: «SONO STATO MASSACRATO PER UNA FRASE USCITA MALE SE CROLLA IL NOSTRO PIL TORNIAMO AL MEDIOEVO» IMARISIO MARCO
FOCOLAI LIMITATI, OSPEDALI EFFICIENTI CINQUE MOTIVI PER AVERE FIDUCIA DE BAC MARGHERITA
Int. a BOCCIA FRANCESCO: «PENSARE IN QUESTE ORE A GIOCHINI DI PALAZZO È CANNIBALISMO DI STATO» GUERZONI MONICA
LA NORMALITÀ DA RICONQUISTARE FONTANA LUCIANO
NESSUNO VUOL DARE IL CAMBIO AI TRE INFERMIERI DI CODOGNO «ABBANDONATI DAI COLLEGHI» FASANO GIUSI
RESTIAMO VIGILI MA NON È IL VIRUS EBOLA HARARI SERGIO
RIAPRE IL DUOMO DI MILANO, LA CITTÀ PROVA A RIPARTIRE SENESI ANDREA
Int. a RICCIARDI WALTER: «RIUSCIREMO A CONTENERE IL VIRUS SOVRASTIMATI I CASI POSITIVI» DE BAC MARGHERITA
«SU PAZIENTI ASINTOMATICI NIENTE PIÙ TAMPONI» PLAUSO ALL'ITALIA DA OMS E UE CACCIA FABRIZIO
Int. a BURIONI ROBERTO: BURIONI E LE SCUSE CONTAGIOSE - BURIONI E LA PSICOSI: «NON È UN RAFFREDDORE MA NEMMENO LA PESTE DELUSO DALL'EUROPA» GRAMELLINI MASSIMO
DURANTE UNA RIUNIONE NOTTURNA CONCORDATO IL CAMBIO DI STRATEGIA SARZANINI FIORENZA
Int. a FONTANA ATTILIO: IL PRESIDENTE IN VIDEO CON LA MASCHERINA «MA NON SPAVENTATEVI» ROSSI GIAMPIERO
L'ANIMALE SOCIALE POLITO ANTONIO
LODI, APERTA UN'INDAGINE PER EPIDEMIA COLPOSA GUASTELLA GIUSEPPE
POSITIVA COLLABORATRICE DI FONTANA I LGOVERNATORE IN «AUTOISOLAMENTO» G.SAN.
VIA DA CODOGNO, TROVATO A FIRENZE ALTRI 5 IN FUGA DALLA ZONA ROSSA GASTALDI FRANCESCO
DAI TAMPONI ALL'ISOLAMENTO, LE DECISIONI SBAGLIATE E GIUSTE DE BAC MARGHERITA
Int. a CONTE GIUSEPPE: È L'ORA DELL'UNITÀ NAZIONALE NO A CHI SPECULA PER AVERE VOTI» GUERZONI MONICA
LA MATEMATICA DEL CONTAGIO CHE CI AIUTA A RAGIONARE IN MEZZO AL CAOS GIORDANO PAOLO
SLITTA IL SALONE DEL MOBILE, SI FARÀ A GIUGNO VALTOLINA GIACOMO
CULTURA,SCIENZA EDISTRUZIONE IL GRANDE VUOTO BOCCI ALESSANDRO
Int. a LEO ERMANNO: «UNA VITA A CURARE MALATI PERCHÉ DICO: NIENTE PANICO» BAZZI ADRIANA
CONTE ATTACCA LA GESTIONE DELL'OSPEDALE E AVVISA LE REGIONI. SCONTRO CON FONTANA PICCOLILLO VIRGINIA
IL VIRUS DALLE ZONE ROSSE COLPISCE E CONTAGIA: IL CONTO SALE A 7 MORTI FRIGNANI RINALDO
Int. a ANDREONI MASSIMO: PERCHÉ TANTI CASI NEL NOSTRO PAESE LA CRESCITA LEGATA AI MOLTI CONTROLLI CHE FACCIAMO DE BAC MARGHERITA
TUTTE LE VITTIME ERANO ANZIANE E CON ALTRE PATOLOGIE MARRONE CRISTINA
USCIRNE PIÙ FORTI? DIPENDE SOLTANTO DA NOI CAZZULLO ALDO
«CHI PUÒ LAVORI DA CASA» LE AZIENDE CHE PUNTANO SULLO SMART WORKING PER CONTENERE I RISCHI SANTUCCI GIANNI
Int. a GALLI MASSIMO: «L'EPIDEMIA È PARTITA DA UN OSPEDALE ECCO PERCHÉ TANTI CASI IN ITALIA» RIPAMONTI LUIGI
«MA QUALE PANDEMIA» SFOGO E CRITICHE PER LA VIROLOGA BETTONI SARA
Int. a BORRELLI ANGELO: BORRELLI: LA VITA SOCIALE AUMENTA I CONTAGI PRONTI 3.500 POSTI LETTO ARACHI ALESSANDRA
CINEMA, PALESTRE, LOCALI GUIDA AL COPRI FUOCO DEL NORD GIANNATTASIO MAURIZIO
SI METTE ALLA PROVA LA TENUTA DI UN SISTEMA SCHIAVI GIANGIACOMO
UN NEMICO CHE SI SCONFIGGE UNENDO TUTTE LE FORZE CASSESE SABINO
ZAIA FERMA IL CARNEVALE. «MA È TARDI» IMARISIO MARCO
Int. a GALLI MASSIMO: «IL BOOM DEI MALATI? VIRUS IMPREVEDIBILI MA UNA PERSONA DA SOLA PUÒ INFETTARNE DECINE» BAZZI ADRIANA
«NEGATIVO A TUTTI I TEST» NON È LUI IL PAZIENTE ZERO FASANO GIUSI
Int. a FONTANA ATTILIO: «SONO PREOCCUPATO MA NIENTE POLEMICHE SUGLI INGRESSI SERVONO PIÙ CONTROLLI» LIO PIERPAOLO
AGENTI IN STRADA, CORRIDOI PER IL CIBO COSÌ SI «CINTURA» UNA CITTÀ INFETTATA FIORENZA SARZANINI
CHI HA CONTAGIATO CHI? MISTERO SUI PRIMI «DIFFUSORI» LA PISTA DEGLI 8 CINESI AL BAR RAVIZZA SIMONA
COME CAPIRE E SCONFIGGERE LE NOSTRE NUOVE PAURE BATTISTA PIERLUIGI
FUORI TUTTI, L'OSPEDALE SARÀ SVUOTATO IMARISIO MARCO
LA FIDUCIA NECESSARIA HARARI SERGIO
LA SOCIETÀ FRAGILE SEVERGNINI BEPPE LE AZIENDE AI DIPENDENTI DELLE AREE A RISCHIO:«NON VENITE AL LAVORO» MASSARO FABRIZIO
Int. a SILERI PIERPAOLO: «ORA FASE NUOVA. CHIUDERE PRIMA? ERA INUTILE» SALVIA LORENZO
«STOP A SCHENGEN». «NON SERVE» SCONTRO LEGA-GOVERNO SUI CONFINI PICCOLILLO VIRGINIA
ADRIANO, RICOVERATO DA 10 GIORNI IL TEST SOLO GIOVEDÌ, POI LA CRISI NICOLUSSI MORO MICHELA
Int. a BURIONI ROBERTO: BURIONI: IO ALLARMISTA? ISOLARE I VIAGGIATORI PROVENIENTI DALLA CINA È L'UNICO RIMEDIO CACCIA FABRIZIO
DICIASSETTE CONTAGIATI E 11 COMUNI ISOLATI IN VENETO MUORE UN UOMO DI 78 ANNI BETTONI SARA
IL FOCOLAIO DEL VIRUS AL BAR E I TRE PENSIONATI INFETTATI BAGATTA ANDREA
IL VIRUS ARRIVA DA NASO E BOCCA A MENO DI DUE METRI ATTENTI ALLA TOSSE DE BAC MARGHERITA
L'ATLETA GRAVE E LA MOGLIE INCINTA «È INTUBATO, CHE PENA VEDERLO COSÌ» GASTALDI FRANCESCO
NEI CENTRI DELLA ZONA COLPITA CHIUDONO LE SCUOLE E GLI ASILI BRUNO RICCARDO
VIRUS, PRIMO CONTAGIO IN LOMBARDIA: «È RICOVERATO IN TERAPIA INTENSIVA» RICCI SARGENTINI MONICA
LA CURA AL PLASMA? ATTENTI ALLE NOTIZIE FALSE» DE BAC MARGHERITA
CORONAVIRUS E IMPRESE: POSSIBILI AIUTI SENSINI MARIO
Int. a CAPUA ILARIA: ILARIA CAPUA: «AFRICA A RISCHIO QUESTO MORBO GIRERÀ IL MONDO» BAZZI ADRIANA
NIENTE PSICOSI COLLETTIVA: NON FA PIÙ PAURA DELLA SARS E L'EMERGENZA CI UNISCE PAGNONCELLI NANDO
SANITÀ, LA LEZIONE DEL VIRUS HARARI SERGIO
SI PUÒ PREVEDERE QUANTO ANCORA DURERÀ L'EPIDEMIA E SE POTRÀ TORNARE TURIN SILVIA
IL VACCINO DEL BUONSENSO BUCCINI GOFFREDO
Int. a PETROSILLO NICOLA: «IN ITALIA NESSUN CONTAGIO IL CONTENIMENTO HA FUNZIONATO» M.D.B.
VIRUS, L'EPIDEMIA ADESSO RALLENTA DIMESSI I TURISTI CINESI A ROMA DE BAC MARGHERITA
«IL GRANDE NEMICO SI PUÒ FERMARE» DE BAC MARGHERITA
Int. a BORRELLI ANGELO: «CONTROLLI NELLE STAZIONI FERROVIARIE? SE SERVIRANNO NOI SIAMO PRONTI» SARZANINI FIORENZA
INCUBAZIONE E DIFESE QUANTO SONO ATTENDIBILI LE RICERCHE RECENTI DE BAC MARGHERITA
L'ALLARME DELL'OMS SUI CONTAGI «SONO LA PUNTA DELL'ICEBERG» M.D.B.
SARS E NUOVO VIRUS CONTAGI A CONFRONTO DE BAC MARGHERITA
VISCO: DAL VIRUS EFFETTI SULL'ECONOMIA SERVONO INVESTIMENTI PUBBLICI MASSARO FABRIZIO
Int. a SPERANZA ROBERTO: «SULLO STOP AI VOLI VADO AVANTI LA SALUTE VALE PIÙ DELL'ECONOMIA» GUERZONI MONICA
DALLE LEZIONI ALLE GITE, IL NERVOSISMO DEI PRESIDI «ADESSO CI DICANO COSA DOBBIA MOFARE» SANTARPIA VALENTINA
COME SI ESEGUE IL TAMPONE E PERCHÉ VA FATTO A PERIODI REGOLARI DE BAC MARGHERITA
I SINTOMI DEL VIRUS COME DISTINGUERLO DALL'INFLUENZA MARRONE CRISTINA
Int. a AZZOLINA LUCIA: LA MINISTRA AZZOLINA:«ANDARE A SCUOLA È UN DIRITTO DEI BAMBINI LE PAURE SONO INFONDATE» FREGONARA GIANNA
VIRUS, PRIMO ITALIANO CONTAGIATO R. FR.
Int. a PALÙ GIORGIO: TEST E SPERIMENTAZIONI MA PER UNA TERAPIA QUANTO TEMPO CI VORRÀ? DE BAC MARGHERITA
Int. a BORRELLI ANGELO: «I MIEI NIPOTI? IO LI MANDEREI IN CLASSE CON CINESI» PICCOLILLO VIRGINIA
Int. a ZAIA LUCA: «NON È POLITICA, PER LA PREVENZIONE SERVE L'ISOLAMENTO» ZAPPERI CESARE
IL VIRUS SPAVENTA I GOVERNI LONDRA E PARIGI:RIENTRATE SANTEVECCHI GUIDO
«HO UN SERPENTE IN CASA: RISCHIO?» 1.600CHIAMATE (FOLLI) AL MINISTERO DE BAC MARGHERITA
«USATE IL SALUTO ROMANO», POLEMICHE SU LARUSSA
L'INUTILE CACCIA ALL'UNTORE SEVERGNINI BEPPE
SCUOLE, I GOVERNATORI DEI NORD: «ANCHE I BIMBI VANNO ISOLATI» GLI ITALIANI RIENTRATI STANNO BENE FRIGNANI RINALDO
Int. a NICASTRI EMANUELE: «DATI POSITIVI, MA NON SIGNIFICA CHE L'EPIDEMIA STIA ARRETRANDO» DE BAC MARGHERITA
ISOLATO IL VIRUS «A ROMA IL CEPPO DI WUHAN» CAVALLI GIOVANNA
Int. a IPPOLITO GIUSEPPE: «AMBULANZE E CAPPUCCI SPECIALI QUI IL LIVELLO DI SICUREZZA È MASSIMO» DE BAC MARGHERITA
Int. a BORRELLI ANGELO: «PONTE INCROCIATO PER I RIMPATRI I NOSTRI ARRIVANO, I CINESI PARTONO» PICCOLILLO VIRGINIA
AL BAR TUTTI INFETTIVOLOGI È IL GIUCAS CASELLA GLOBALE CAZZULLO ALDO
Int. a GALLI MASSIMO: I 5 GIORNI PER L'INCUBAZIONEE IL REBUS DEI VACCINI TUTTO QUELLO CHE SAPPIAMO E COSA PUÒ SUCCEDERE BAZZI ADRIANA
MEDICI NEI PORTI E STOP AI VISTI ALTRI CASI SOSPETTI MA ZERO CONTAGI M.D.B.
DENTRO L'ITALIA SPAVENTATA SERRA ELVIRA
FIDUCIA E SOLIDARIETÀ PER COMBATTERE LA PAURA POLITO ANTONIO
FONDI, TRASPORTI, TURISMO IL PIANO ANTI-VIRUS PICCOLILLO VIRGINIA
Int. a MANTOVANI ALBERTO: NÉ VACCINO NÉ CURA MA C'È LA DIAGNOSI RAPIDA: QUALI ARMI CONTRO IL VIRUS? BAZZI ADRIANA
PERCHÉ ASPETTATIVE E TIMORI MODIFICANO CONSUMI E EXPORT GAGGI MASSIMO
Int. a SPERANZA ROBERTO: SPERANZA: PRIMI IN EUROPA A FERMARE I VOLI DALLA CINA IL LIVELLO DI ATTENZIONE È ALTO GUERZONI MONICA
UN GOVERNO SPINTO ALL'UNITÀ DALL'EMERGENZA SANITARIA FRANCO MASSIMO
Int. a BRUSAFERRO SILVIO: «LE PROCEDURE D'EMERGENZA ERANO GIÀ ATTIVE» DE BAC MARGHERITA
CHE COSA CAMBIA ORA COME SI USA LA MASCHERINA DE BAC MARGHERITA
IL CORONAVIRUS INSEGNA: LA SCIENZA HA SEMPRE BISOGNO DI TRASPARENZA SIDERI MASSIMO
IL VIRUS ARRIVA IN ITALIA «POSITIVI DUE TURISTI CINESI» GUERZONI MONICA
LA MISURA DELLA PAURA HARARI SERGIO
L'OMS: «L'EMERGENZA È GLOBALE» SANTEVECCHI GUIDO
STANZE SINGOLE CON PC E TV, TRE VISITE MEDICHE AL GIORNO LE REGOLE DELLA QUARANTENA CACCIA FABRIZIO
195PRIME PAGINE
TASSO DI CONTAGIO, CONTROLLI SUI VOLI, MALATI SENZA SINTOMI COME DIFENDERCI DAL CORONAVIRUS DE BAC MARGHERITA
È CONTAGIO IN GERMANIA: GIÀ 4 CASI G.SANT.
PERCHÉ SONO I VACCINI LA «CINTURA DI SICUREZZA» DEL MONDO GLOBALIZZATO MANTOVANI ALBERTO
VIRUS, IL CONTAGIO SPAVENTA LE BORSE G.SANT.
MASCHERINE, CIBI, VACCINI, RISTORANTI: COME PROTEGGERSI SENZA PROBLEMI DE BAC MARGHERITA
I SINTOMI SONO SIMILI A QUELLI DELL'INFLUENZA GUIDA PER DISTINGUERE IL VERO DAL FALSO DE BAC MARGHERITA
Int. a CAVALIERI RENZO: «RALLENTERÀ L'ECONOMIA,MA NON DURERÀ» SALOM PAOLO
Coronavirus, Facebook contro le bufale. Rimossi i contenuti pericolosi, avvisi agli utenti e fondi per il fact checking. Dalla candeggina da bere al 5G che favorisce il contagio. Mark Zuckerberg annuncia una serie di azioni per contrastare l'infodemia sul Covid 19. Cancellati centinaia di migliaia di post, mentre 40 milioni di contenuti sono stati classificati come inattendibili. Oltre 350 milioni di persone hanno potuto vedere le schede dell'Oms che smontano le fake news. In Italia il movimento Avaaz ha contribuito a far rimuovere 17 post nocivi, mentre Pagella Politica è impegnata nel fact checking. Andrea Iannuzzi il 16 aprile 2020 su La Repubblica. "La rete 5 G favorisce la diffusione del Covid 19". Falso, dice l'Organizzazione mondiale della sanità. "Esporsi al sole o a temperature superiori a 25 gradi previene il contagio da coronavirus". Falso. "Bere candeggina cura dal coronavirus". Falso, ma anche pericoloso. Sono tre esempi di pseudo-notizie circolate nelle ultime settimane come effetto della cosiddetta infodemia, cioè la diffusione incontrollata di informazioni fuorvianti legate a un'emergenza sanitaria, in questo caso la pandemia da coronavirus Sars-Cov-2. Non essendoci in commercio un vaccino contro le bufale, servono strategie e iniziative per limitarne gli effetti dannosi: l'equivalente digitale delle mascherine e del distanziamento sociale, per consentire ai cittadini di difendersi dal contagio della disinformazione e di stare lontani dai clic ingannevoli sul coronavirus. A cominciare dagli ambienti più affollati come i social media. Per questo motivo, Facebook ha deciso di potenziare i propri servizi di contrasto alle fake news sul Covid 19, attraverso una serie di azioni appena annunciate dallo stesso Mark Zuckerberg in un suo post. Per dare un'idea di quale sia il volume di traffico sull'argomento coronavirus, dall'inizio dell'epidemia l'azienda californiana stima di "aver indirizzato oltre due miliardi di persone verso le risorse messe a disposizione dall'Oms e da altre autorità sanitarie attraverso il nostro Centro informazioni sul Covid 19 e i pop-up presenti su Facebook e Instagram, su cui hanno cliccato oltre 350 milioni di persone per saperne di più". Ma oltre a promuovere la corretta informazione sul Covid 19, cioè prevenire la diffusione di bufale attraverso la consapevolezza, il problema è come arginarle una volta che entrano in circolo. Prima di tutto, eliminando tutto quello che può creare danni all'incolumità delle persone: laddove le autorità sanitarie segnalino la presenza di fake news pericolose - come la candeggina da bere o la notizia che il distanziamento sociale non serva a ridurre i rischi di contagio da coronavirus - Facebook le rimuove, in deroga ai propri principi anti-censura, impedendone l'ulteriore diffusione. Secondo i dati forniti da Facebook, sono stati "centinaia di migliaia" i post eliminati. Inoltre, chiunque abbia interagito con questo tipo di contenuti (con like, commenti, condivisioni), riceve sulla propria bacheca un avviso con un link al sito dell'Oms, in particolare alla sezione chiamata "Myth busters", nella quale le bufale sul coronavirus vengono smontate una ad una. In questo modo Facebook spera di far aumentare la consapevolezza negli utenti, aiutandoli a diventare essi stessi cacciatori di bufale all'interno delle proprie cerchie sociali, delle chat, dei gruppi. Questo progetto, che si avvale di partner esterni, in Italia è stato realizzato con la collaborazione di Avaaz. In particolare, il movimento di attivisti ha condotto un'indagine, condividendone con Facebook i risultati, secondo la quale milioni di utenti sono esposti alla disinformazione. "I ricercatori di Avaaz - si legge in una nota diffusa dal movimento - hanno analizzato un campione di oltre 100 notizie false sul coronavirus in sei lingue. Questi post sono stati condivisi 1,7 milioni di volte e sono stati visualizzati, secondo le stime, 117 milioni di volte, nonostante fossero già stati confutati da fact checker indipendenti". Secondo Avaaz le contromisure usate fino a oggi da Facebook non sono state abbastanza efficaci: "Possono trascorrere fino a 22 giorni prima che l'azienda pubblichi le rettifiche per le notizie false sul coronavirus. Il 41% delle storie analizzate è rimasto sulla piattaforma senza nessun avvertimento. Facebook non ha ancora applicato le etichette di segnalazione sul 68% dei cotenuti in lingua italiana, contro il 29% dei contenuti in lingua inglese". La stessa Avaaz ha contribuito a ripulire il social network dalle bufale: grazie alle sue segnalazioni, Facebook ha rimosso 17 post, per una stima di circa 2,4 milioni di visualizzazioni.
La seconda arma messa in campo è quella già collaudata con le campagne elettorali in varie parti del mondo: team indipendenti di verificatori - i cosiddetti fact checker - sono all'opera in tutti i Paesi e in tutte le lingue per stanare le informazioni sul coronavirus non supportate da evidenza scientifica e segnalarne la scarsa attendibilità. In questo caso, il contenuto non viene cancellato, ma riceve un marchio che lo caratterizza come fake news, viene penalizzato dall'algoritmo di Facebook e corredato di link utili a smontare le falsità in esso contenute. "Durante il mese di marzo - spiega Guy Rosen, vicepresidente con delega all'"integrity" - abbiamo mostrato avvisi su circa 40 milioni di post su Facebook, basati su circa 4.000 articoli di analisi ad opera dei nostri partner indipendenti per il fact checking (che in Italia è Pagella politica, ndr). In circa il 95 per cento dei casi, quando le persone hanno visualizzato quegli avvisi, non sono andate a vedere il contenuto originale", segno che l'azione di "debunking" (cioè smontare la notizia falsa con notizie attendibili) ha dato i suoi frutti. Per rendere questo servizio più ampio ed efficace, Facebook ha avviato un programma di sovvenzioni da un milione di dollari destinate ai fact checker di tutto il mondo, in collaborazione con l'International Fact checking network: a beneficiarne sono state 13 organizzazioni in Spagna, Colombia, India, Congo e anche in Italia (Pagella Politica). Attualmente Facebook lavora con oltre 60 team nel mondo, che operano in 50 lingue diverse: gli ultimi arrivi sono MyGoPen a Taiwan, Afp e Dpa in Olanda, Reuters nel Regno Unito.
Infine, solo negli Stati Uniti per il momento, nel Centro informazioni Covid 19 allestito da Facebook è stata aperta una sezione chiamata "Get the Facts", nella quale ci sono articoli già verificati che smontano la disinformazione sul coronavirus. Basterà tutto questo? Certo non riuscirà ad azzerare le bufale, così come le misure di prevenzione e protezione dal Covid 19 non garantiscono l'azzeramento del contagio. Prima di condividere un contenuto, è importante essere consapevoli dei danni che si possono creare. La verifica spetta in ultima analisi a ciascuno di noi: quando si hanno dei dubbi, meglio astenersi, o almeno incrociare le fonti. Perché le misure messe in campo abbiano successo, anche sui social media sono indispensabili la collaborazione e le buone pratiche dei cittadini.
Davide Desario per leggo.it il 9 aprile 2020. Il coronavirus? È colpa dell’invasione delle antenne 5G. E la prova? Sarebbe la strage di uccelli nelle nostre città. È l’ultima teoria cospirazionista che impazza sul web e rimbalza, a colpi di condivisioni indiscriminate, sui social corredata da fotografie (come quella in questa pagina) con centinaia di volatili stecchiti sull’asfalto. Nessuno si domanda davvero dove e quando siano state scattate quelle immagini. Eppure basterebbe consultare un esperto. Come Alessandro Polinori, vicepresidente della Lipu (Lega italiana protezione uccelli, non certo un’associazione filogovernativa).
Polinori anche lei si è imbattuto su internet in quelle fotografie impressionanti?
«Certo. Sono di inizio febbraio 2020, in via del Policlinico a Roma»
Un periodo che coincide con l’esplosione del coronavirus.
«È solo una coincidenza, la causa di quella strage è tutt’altra».
Quale?
«Quella notte ci fu un vento fortissimo. Gli storni dormivano sugli alberi. Le forti raffiche fecero cadere un albero e gli uccelli non riuscirono a scappare e si schiantarono. Ne morirono centinaia. Nei nostri centri vennero portati 86 esemplari feriti che abbiamo curato. Non avevano alcun segno di intossicazione o altro, ma solo lesioni da impatto».
Ma girano anche altre foto.
«Sì, alcune di un episodio analogo di febbraio del 2018. In quel periodo gli Storni che sono venuti a svernare in Italia ripartono per il nord Europa. Basta che chi guida il gruppo abbia un problema, sia accecato o attaccato da un gabbiano o da un falco, sbagli traiettoria e tutti gli altri lo seguono e si schiantano con lui. Sono fenomeni naturali. Come le altre foto di Rondoni (parenti alla lontana delle rondini ndr) trovati a decine senza vita a maggio del 2019 sulle terrazze. Anche lì spuntarono le teorie più fantasiose».
Invece cosa era accaduto?
«Quella specie in primavera migra in Italia per riprodursi, aspettandosi di trovare temperature miti e insetti da mangiare. Quell’anno a maggio la minima era sui 9 gradi: niente insetti e i molti rondoni stremati dalla traversata e senza cibo morirono di stenti».
E cosa mi dice adesso degli uccelli trovati morti a Genova nei pressi di un’antenna 5G?
«Si tratta di meno di dieci esemplari di usignolo giapponese. Non conosciamo la causa. Stiamo verificando la possibilità di far effettuare analisi da parte dell’istituto zooprofilattico. Ma credo che se fosse dipeso dalle antenne i casi sarebbero molti di più».
Insomma lei non ci crede ai danni del 5G.
«Non siamo ancora in grado di pronunciarci. Ci sono ricercatori che stanno studiando. Seguire la scienza è fondamentale. In ogni caso, al momento, almeno rispetto alle foto di morie di uccelli di cui si discute in rete, possiamo dire che si tratti di fenomeni naturali e non legati alle antenne 5G, né tantomeno al coronavirus».
DAGONEWS l'8 aprile 2020. Matthew Belloni, direttore editoriale di The Hollywood Reporter, si è dimesso dopo 14 anni. Un addio amichevole con la proprietà, ma che in realtà, come riporta il The Daily Beast, nasconde delle frizione. Secondo diverse fonti e documenti, l’addio di Belloni è arrivato dopo scontri con i responsabili della casa madre della rivista, Valence Media, e la società partner MRC. I dirigenti delle aziende hanno tentato di seppellire storie, influenzare il tono con cui venivano coperte e scoraggiato commenti e articoli negativi su individui e società "sensibili". «L'annuncio è il risultato di conversazioni che ho avuto per mesi con Modi [Wiczyk, uno dei CEO di Valence] sulla direzione di THR - ha scritto Belloni - Alcuni potrebbero vedere altro, ma dirò solo che le persone ben intenzionate, diligenti e ambiziose possono non essere d'accordo sulle priorità e sulle strategie fondamentali. Questo è quello che è successo qui e il mio arrivederci è amichevole al 100%». Nel 2018, Billboard/THR si sono fusi con il produttore televisivo Dick Clark e le produzioni cinematografiche e televisive Media Rights Capital, dando vita alla Valence Media. In una dichiarazione all'epoca, i CEO di Valence Asif Satchu e Modi Wiczyk hanno sottolineato che Billboard/THR sarebbero rimasti editorialmente indipendenti. Ma nell'ultimo anno, i dirigenti dell'azienda hanno tentato di fare esattamente il contrario. The Daily Beast ha esaminato le e-mail tra Belloni e il presidente della MRC Deanna Brown che sono circolate tra alcuni membri dello staff per scoprire come molte volte il direttore editoriale si sia trovato sotto pressione da parte della società per insabbiare storie negative. «Non si tratta di non coprire le "mancanze" nel settore e di educare il mondo sul perché le cose non abbiano avuto successo – scriveva Brown - Ma il tipo di negatività che ci stai mettendo è estenuante e non fa parte della nostra strategia». Nella mail si faceva riferimento a un evento con l’attrice Reese Witherspoon. In un'altra occasione, Brown si lamentava con Belloni del tono di un pezzo su Jennifer Lopez che aveva firmato un nuovo contratto con il marchio Guess. Nella mail si metteva in dubbio il motivo per cui l'autore aveva incluso una riga sulle accuse di molestie sessuali nei confronti del cofondatore di Guess, Paul Marciano, ricordandogli che MRC aveva fatto affari con Lopez. «Avevamo un accordo sul fatto che mi avresti avvertito di qualsiasi cosa controversa». Secondo diverse fonti, MRC ha tentato di “uccidere” una storia succosa del reporter Kim Masters su Louise Linton, l'attrice sposata con il segretario al tesoro Steven Mnuchin. Secondo diverse fonti, dopo aver appreso della storia, qualcuno vicino a Linton si è lamentato con i superiori di Valence, che hanno fatto appello a THR per "ammazzare" la storia. Alla fine il pezzo è stato pubblicato, ma alla luce di quanto raccontato dal Daily Beast l’addio di Belloni ha un altro sapore.
Le fake news, l’altro virus che dobbiamo tenere lontano. Caterina Flick, avvocata, docente di Informatica giuridica e Sistemi giuridici dei Big data presso Università internazionale telematica Uninettuno, su Il Dubbio il 6 aprile 2020. Soprattutto nei primi giorni dell’emergenza la paura e i social network hanno favorito la diffusione di notizie deformate o false. Ha contribuito al fenomeno pure la tendenza delle istituzioni a diffondere annunci in conferenza stampa prima che i provvedimenti arrivassero in Gazzetta ufficiale. Solo un’informazione corretta può evitarci quest’ulteriore patologia. L’emergenza per il coronavirus, e le misure restrittive adottate dal governo, stanno stravolgendo le abitudini di tutti noi. Ci ritroviamo chiusi tra le mura domestiche, con contatti fisici interdetti, obbligati ad accelerare la transizione al digitale. Ne consegue, da un lato, la ricerca di aggiornamenti immediati, ovunque si trovino in rete; dall’altro l’utilizzo di sistemi di messaggistica istantanea e social network, sui quali sono veicolate allo stesso modo e con la stessa velocità messaggi scritti, audio, video contenenti informazioni, senza distinzione di fonti e senza curarsi (o curandosi poco) di verificarle. In questo modo informazioni vere e false “rimbalzano” di chat in chat, seguite da smentite e avvertimenti di non dare credito alle notizie circolate qualche minuto prima. Il timore delle persone, chiuse fra quattro mura, è facilmente sfruttato per confezionare bufale che, nella migliore delle ipotesi, sono di dubbio gusto; è questo il caso di comunicazioni che suggeriscono rimedi preventivi e cure miracolose, come l’assunzione di aglio o di bevande calde, o paventano fantasiosi metodi di contagio. In alcuni casi notizie apparentemente avallate da fonti giornalistiche o altre fonti ufficiali si sono rivelate false, tanto da portare a denunce per procurato allarme. In altri casi ci si trova di fronte a tentativi di truffa e attacchi informatici che “infettano” smartphone e altri dispositivi. Di certo la diffusione della disinformazione preoccupa, tanto che pochi giorni fa l’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, ha puntato il dito sulla disinformazione che circola in tutto il mondo, ricordando che fare disinformazione in questo ambito significa giocare con la vita delle persone. Sul fronte interno l’annuncio del Copasir circa l’esistenza di una campagna di disinformazione a danno dell’Italia ha portato il sottosegretario all’Editoria Andrea Martella a proporre la creazione di una task force dedicata al contrasto delle fake news. Va detto che il meccanismo delle fake news è stato agevolato – almeno inizialmente – dal sistema adottato dalle istituzioni di offrire comunicazioni istantanee, dirette alla pancia dei cittadini, attraverso social network, tweet, comunicati che precedevano – anziché seguire – l’adozione dei provvedimenti; nel lasso di tempo tra la prima comunicazione e la pubblicazione del testo ufficiale di ogni provvedimento, le chat whatsapp di tutti gli italiani si sono riempite di bozze, controbozze, affermazioni, smentite, commenti, critiche. Alla confusione hanno contribuito anche alcune testate giornalistiche e produttori di notizie che, specie nella fase iniziale dell’epidemia, hanno concorso alla diffusione di notizie contraddittorie, basate sul pathos più che su informazioni concrete. Media e organi istituzionali, mai come in questo momento, hanno un compito fondamentale nel divulgare informazioni che possano aiutare i cittadini a comprendere la situazione e le ragioni dei provvedimenti assunti, non potendo – né gli uni né gli altri – prevedere il futuro. I primi attraverso fact checking approfonditi, i secondi con la scelta di canali consoni, entrambi affidandosi ad un linguaggio chiaro e pacato. Ai tempi del coronavirus le fake news sono esse stesse un virus da cui guardarsi; la cura è un’informazione seria e completa da parte delle istituzioni e degli organi di informazione, tenendo presente che ne va della loro reputazione.
Gabriele Carrer per formiche.net l'8 aprile 2020. L’opinione pubblica italiana è passata in pochissime settimane dall’essere bollata come razzista verso i cinesi all’essere filocinese come mai. Almeno a giudicare dalle ultime rilevazioni Swg per il telegiornale de La7 da cui emerge che il 36% degli intervistati risponde Cina alla domanda “Per sviluppare le proprie alleanze internazionali al di fuori dell’Europa, l’Italia dovrebbe guardare di più a chi?”. Solo il 30% indica gli Stati Uniti d’America. Siamo dunque passati dal presunto razzismo anticinese (la stessa definizione che i diplomatici di Pechino hanno spesso utilizzato per respingere le accuse sui ritardi delle autorità) all’entusiasmo per il pugno di ferro contro il coronavirus e per un modello, quello Wuhan, che non ha ancora riscontri empirici anche soltanto per via della mancanza di trasparenza da parte delle autorità cinesi sulle cifre di contagiati e vittime. Perché questo cambiamento? Non soltanto perché, come denunciato da Formiche la scorsa settimana, è stata messa in moto una propaganda a suon di bot. O ancora perché, sempre come spiegato su Formiche, la macchina della propaganda cinese è penetrata nei media italiani. Ma anche perché Pechino ha potuto godere di un sostengo del tutto particolare, una grandissima e una “sproporzionata” visibilità televisiva. L’arrivo degli aiuti cinesi all’Italia per affrontare la pandemia di coronavirus ha avuto oltre il triplo della visibilità su televisioni e radio Rai rispetto all’annuncio del presidente statunitense Donald Trump di inviare assistenza per 100 milioni di dollari al nostro Paese. E più di due volte e mezza quella assicurata al cargo russo giunto a Pratica di Mare. Formiche ha chiesto a DataStampa, agenzia storica che cura la rassegna di molti e rilevanti enti e organismi pubblici italiani, di analizzare i passaggi audiovisivi presenti nella sua banca di dati nei giorni successivi all’arrivo degli aiuti per affrontare il Covid-19 da parte delle tre potenze. La ricerca, spiega DataStampa, “è stata effettuata all’interno della nostra banca dati ed esattamente nelle giornate” da noi “indicate per ogni singolo evento”. Per la Cina il 13 e il 14 marzo visto che il 12 un Airbus A-350 della China Eastern proveniente da Shanghai era atterrato all’Aeroporto di Fiumicino con a bordo nove medici specializzati cinesi dall’Hubei e trenta tonnellate di materiale sanitario. Per la Russia il 23 e il 24 marzo dopo che il 22 era giunto a Pratica di Mare il primo aereo di aiuti inviati da Mosca: quello al centro dello scontro tra la Difesa russa e La Stampa. Per gli Stati Uniti, il 30 e il 31 marzo, i giorni successivi la dichiarazione dalla Casa Bianca (del 29) con cui il presidente Donald Trump aveva annunciato l’invio di strumenti e prodotti sanitari per 100 milioni di dollari all’Italia. Queste le emittenti che compaiono nell’analisi della banca dati di DataStampa: Rai 1, Rai 2, Rai 3, Rete 4, Canale 5, Italia 1, LA7, Rai News 24, TGCOM 24, Sky TG24, TV 2000, Class Cnbc, TeleRoma 56, Rai Radio Uno, Rai Radio Due, Radio 24, RTL, Radio Capital. Ecco i numeri. Si tratta in totale (radio e tv pubbliche e non) di dieci servizi per gli Stati Uniti, undici per la Russia e 42 per la Cina. Per quanto riguarda le emittenti Rai, nei loro due giorni gli aiuti cinesi hanno goduto da parte delle televisioni e delle radio del servizio pubblico di 1.904 secondi di visibilità, cioè oltre mezz’ora. Quelli russi, invece, 741 secondi, cioè poco più di 12 minuti. Infine, quelli statunitensi meno di 10 minuti, ossia 589 secondi. Guardando alle sei televisioni e radio della Rai si nota l’ampia visibilità data agli aiuti cinesi. Addirittura Rai News 24, l’emittente che ha garantito più spazio (560 secondi, cioè oltre 9 minuti) è anche l’unica, assieme a Rai Radio Due a non aver dedicato alcun servizio né agli aiuti russi né a quelli statunitensi. Considerando, invece, anche le televisioni e le radio private il dislivello aumenta. Gli aiuti cinesi hanno avuto 9.026 secondi, cioè oltre due ore e mezza; quelli statunitensi scavalcano quelli russi, attestandosi rispettivamente a 1.204 secondi (poco più di 20 minuti) e a 969 secondi (poco più di 16 minuti). In particolare, a garantire agli aiuti cinesi oltre sette volte la visibilità di quelli statunitensi sono due lunghi speciali di TGCOM 24 da oltre mezz’ora ciascuno (andati in onda entrambi il 13 marzo), i 745 secondi (oltre 12 minuti) di LA7, i 659 secondi di Sky TG 24 (quasi 11 minuti) e i 560 di Rai News 24 (oltre 9 minuti). Meritano un’ultima considerazione alcuni programmi e interventi. Per quanto riguarda l’annuncio degli aiuti statunitensi, su dieci stringhe, soltanto due programmi hanno deciso di dare spazio ai ringraziamenti del ministro degli Esteri Luigi Di Maio agli alleati storici per la loro solidarietà. Nel caso, invece, degli aiuti russi, su undici stringhe, troviamo due dichiarazioni del capo della Farnesina e una sua intervista. Grande spazio a commenti e analisi è stato, al contrario, garantito – in particolare dal servizio pubblico – agli aiuti cinesi con interviste e dichiarazioni del ministro Di Maio, di Francesco Rocca, presidente nazionale della Croce Rossa italiana, di Yang Huichuan, vice presidente della Croce Rossa cinese, di alcuni dei medici cinesi giunti in Italia oltre che di Chao Ming dell’Angi (Associazione nuova generazione italo-cinese). In una trasmissione del 13 marzo (Cinque giorni sui mercati) Class Cnbc ha ospitato il direttore delle relazioni istituzionali di ZTE Italia, una delle aziende che ha donato aiuti all’Italia ma anche una di quelle, con Huawei, nel mirino del Copasir. Si è parlato degli aiuti cinesi anche in un servizio di 2.07 minuti all’interno del programma La vita in diretta su Rai 1, programma condotto da Lorella Cuccarini e Alberto Matano. La gratitudine verso la Cina ci sta. La domanda è: il servizio pubblico non ha per caso, un filino, esagerato?
Salvatore Cannavò per il “Fatto quotidiano” l'8 aprile 2020. Con la Russia si sta perdendo il senso delle proporzioni. Mettiamo da parte la questione degli articoli de La Stampa che hanno ipotizzato lo zampino dell' intelligence di Mosca tra i militari che scorrazzerebbero liberamente in quel di Bergamo con la scusa degli aiuti. Un drappello di giornalisti "liberi" vuole provare a dividere la categoria tra buoni e cattivi su questo, ma la notizia di Boris Johnson in terapia intensiva è ancora più surreale. Rainews, infatti, è stata l' unica fonte italiana a riprendere la notizia dell' aggravarsi delle condizioni del premier inglese nel pomeriggio di lunedì citando l' agenzia di stampa russa Ria Novosti. Il dem Michele Anzaldi subito ne approfitta per sferrare il solito attacco alla Rai: "Dopo le critiche degli intellettuali arrivano anche le proteste degli inglesi, per aver rilanciato la fake news russa sul premier Johnson. Questo è il modo di gestire l' informazione?". La povera Rainews cancella la notizia e i vari giornalisti "liberi" dopo aver gridato alla "fake-news" devono rassegnarsi al silenzio quando la notizia si conferma vera. A noi Putin non piace per nulla e Il Fatto è tra i giornali che più di tutti ha dato spazio alle proteste contro il presidente russo (tanto da essere bersaglio di una protesta da parte di filo-russi con tanto di presidio sotto al nostro giornale). Ma se si arriva perfino a non riconoscere una notizia (non ci voleva l' intelligence per capire che se il premier di una potenza mondiale si ricovera qualcosa di grave c' è) c' è un problema. Certo, Ria Novosti si sarà giovata di qualche fonte "poco ortodossa". Ma attaccare chiunque non si schieri con le campagne stampa precostituite accusandolo di fiancheggiare i regimi autoritari non profuma di liberalismo. E l' anti-complottismo ci mette poco a trasformarsi in complottismo. Tanto più se anche il governo offre il fianco con improbabili task-force anti-fake. Volete il Tribunale dell' informazione?
Antonio Padellaro per “il Fatto quotidiano” l'8 aprile 2020. È un bel libro Fake di Christian Salmon, forse il saggio più documentato di "come la politica mondiale ha divorato se stessa". Si parla della conquista del potere attraverso le "verità" fatte a pezzi, della battaglia politica "in forma di scambi violenti e brutali sui social networks". Si parla naturalmente di Steve Bannon e di come la strategia dell' intossicazione abbia portato Donald Trump alla Casa Bianca. Si parla di Jair Bolsonaro e della demagogia populista alla Salvini. Un libro però con un difetto: è stato pubblicato a febbraio del 2020, proprio quando la falce globale del Covid-19 mutava improvvisamente le nostre esistenze e stravolgeva il modello di comunicazione dominante. Esiste dunque un fake post Coronavirus su cui certamente Salmon starà lavorando. A cominciare dalla constatazione di come il virus, quello purtroppo reale, abbia in un mese attaccato e reso tragicamente ridicolo il potere conquistato attraverso la viralità della menzogna e della propaganda sotto forma di calunnia dell' avversario. Nel momento in cui la paura vera soppianta quella artefatta, sommersi dall' epidemia dopo averla negata i Trump e i Bolsonaro appaiono per quello che sono: delle fake news viventi (per non parlare di Boris Johnson, vittima della nemesi "di gregge"). Che senso ha allora, sottosegretario Andrea Martella, creare cosiddette task force per inseguire fake news travestite da barzellette (come la vaccinazione attraverso tisane e gargarismi o il morbo diffuso dalla Spectre cinese)? E come si potrà impedire di credere alle balle a chi vuole crederci? Mentre oggi le fake più pericolose sono semmai quelle nascoste nella comunicazione ufficiale, per esempio della Regione Lombardia. Da chi ha consentito l' estensione del contagio nelle residenze per anziani, a chi ha ritardato la zona rossa in Val Seriana. Ma per scoprirlo possono bastare i giornalisti.
Stefano Bressani per ilsussidiario.net il 5 aprile 2020. In un sabato pomeriggio di ordinario coprifuoco, il sottosegretario alla Presidenza con delega all’editoria, il dem Andrea Martella, ha annunciato di aver costituito a Palazzo Chigi una “Unità di contrasto della diffusione di fake news relative al Covid-19 sul web e sui social network”. Martella ha chiamato a farne parte: Riccardo Luna (editorialista di Repubblica); Francesco Piccinini (direttore di Fanpage ed ex digital manager del gruppo Caltagirone); David Puente (oggi in forza a Open, la testata online fondata da Enrico Mentana); Ruben Razzante (giurista, recente fondatore di dirittodellinformazione.it); Luisa Verdoliva (docente di ingegneria all’Università Federico II di Napoli e vincitrice del Google Faculty Research Award nel 2018), Roberta Villa (free lance di giornalismo medico) e Fabiana Zollo (ricercatrice dell’Università di Venezia). Fabrizio Rondolino, ex portavoce di Massimo D’Alema a Palazzo Chigi e collega di partito di Martella, ha subito sintetizzato la questione con un appello-tweet: “Andrea, per favore: il governo non può controllare la ‘verità’. Non in Occidente, almeno. Spero che vogliate rimediare al più presto ad uno scivolone davvero molto grave”. Tutte le domande, naturalmente, restano. Quali poteri e strumenti investigativi avrà la task force? Con quali criteri Martella ha scelto i componenti di quello che appare come un vero e proprio “squadrone” di controllo sul lavoro di centinaia di giornalisti digitali? Perché su un tema tanto delicato come la libertà di espressione e di stampa (tutelata dall’articolo 21 della Costituzione) è intervenuto un sottosegretario del premier, non è chiaro: in forza di quale normativa? E questo mentre altre libertà costituzionali sono sospese direttamente da Palazzo Chigi con atti non aventi neppure forza di legge ordinaria. Il Parlamento non ha nulla da dire? E l’Ordine dei Giornalisti? Non da ultimo: perché l’ambito di monitoraggio è – nei fatti – “ristretto” a web e social media? Forse il giornalismo tradizionale (non digitale) è immune a prescindere dal rischio fake? Per non parlare della comunicazione istituzionale: a cominciare da quella di Palazzo Chigi. Per esempio: la task force indagherà sul fatto ancora fresco dell’attribuzione ufficiosa a un attacco hacker del clamoroso crackdown informatico Inps? Oppure: ieri il Fatto Quotidiano ha lanciato uno scoop. Il “paziente zero” del coronavirus in Italia sarebbe stato in ricoverato a Milano dieci giorni prima del day–zero di Codogno. Se fosse verificata, la notizia riaccrediterebbe l’immediata denuncia–accusa di Conte contro “il mancato rispetto dei protocolli in alcuni ospedali lombardi”. Il premier ha poi ritrattato, ma lo scaricabarile con il governatore della Regione Lombardia e i sindaci Pd dei capoluoghi regionali è in piena escalation. Nel frattempo, il Fatto non manca di citare fra le fonti della sua storia la professoressa Maria Rita Gismondo, direttrice del laboratorio di microbiologia dell’Ospedale Sacco di Milano: nota per aver dichiarato che il Covid-19 presentava “una problematica di poco superiore all’influenza”. Era l’1 marzo: 15mila morti fa.
Dagonota il 10 aprile 2020.
Inizio Febbraio / Zaia: “Facciamo fare la quarantena a chi arriva dalla Cina”: le organizzazioni della sanità e i governi prendono le distanze dalla dichiarazione di Zaia… I soliti razzisti della Lega.
Metà Febbraio / Sala: “Milano non si ferma”: inutili le paure indotte, la città va avanti. Eccoci, siamo andati in un ristorante cinese a mangiare, eccoci dal parrucchiere cinese vedete imbecilli, popolino: non succede niente, ve lo dice la giornalista… Chi dice il contrario è sovranista, salviniano praticamente un buzzurro ignorante.
Fine Febbraio/ Il primo caso, evviva il primo caso anche da noi! E’ stato isolato a Codogno: il Paziente 1, come il Paziente inglese anzi come Ignoto 1 (Bossetti). Zona rossa, zona rossa, forse ci sarà una zona rossa ma altrove si potrà circolare liberamente (eccome no!).
Fine Febbraio / MASCHERINE: le mascherine non servono è inutile metterle, si crea solo allarme tra la popolazione. Anche il direttore della Protezione civile ieri ha ribadito che le mascherine non vanno messe, non servono protezioni. Per fortuna lo dice la “protezione” civile; non mettete il profilattico tanto nessuna resta incinta.
Inizio Marzo / Allo Spallanzani trovata la soluzione al Coronavirus. Ecco il ministro Speranza in conferenza stampa ed ecco le tre donne eroiche biologhe, una è sottopagata, a termine. Vergogna. Da noi la ricerca è sottostimata eppure guarda qui che risultati… Quali? Quali risultati dal mondo della ricerca scientifica? Lo so anch’io che è sottopagata. Cercano, ma trovano?
Prima di Marzo / Si estende la zona rossa a tutta la regione, no a tutta la nazione, ma le mascherine sono inutili: non creiamo allarmismi. Mancano i respiratori, mancano i respiratori. I posti di terapia intensiva.
Seconda di Marzo / Virologi in campo: io l’avevo detto, lui non l’aveva detto, si fa così, si fa cosà, trovato farmaco a Napoli, un farmaco viene dal Giappone, no uno dall’Australia, no un altro dall’America… Ma bisogna seguire la procedura che abbiamo stabilito negli ultimi sei convegni internazionali: se il virus c’è adesso ci aggiorniamo al 2021.
Pieno Marzo / L’Eroico sacrificio dei medici: ecco l’infermiera, ecco il dottore, ecco la caposala… vedete il viso segnato dalla mascherina: anch’io, anch’io. Costruiamo un ospedale in fiera, no da campo, no prendiamo quelli vecchie riadattiamoli… Così è, se mi pare.
Fine Marzo / Muoiono solo i vecchi, no anche i giovani, solo chi ha malattie pregresse, no anche chi non ce le ha… Prima o poi moriamo tutti: non servivano i virologi per saperlo.
Fine Marzo / Circolare, gente, circolare. Circolare n.1, no ci vuole la n.2. No, Conte ha detto che ci vuole la n.3 poi c’è una aggiuntina, arriva la quattro. Domani è un altro giorno, si vedrà…
Inizio Aprile / Gli altri stati colpiti, tiè: noi siamo arrivati uno. Adesso anche la Spagna e la Francia (non li abbiamo battuti ai Mondiali?); sì pure la Germania che non ci dà le mascherine… Da noi arriva il picco, siamo quasi sul picco, no arriva il plateau, siamo sulla cresta: “State a Casa”. Scendiamo? “State a casa: vanifichiamo gli sforzi”. Il cane? Sì, può uscire. Il bambino? Boh è una circolare “interpretativa” del Ministero degli Interni. La seconda casa? No. La terza?...
Inizio Aprile / Bertolaso è stato chiamato dalla Regione: malato. Borrelli (il lettore ufficiale del bollettino in stile Nicoletta Orsomando) è stato chiamato dal Governo: malato. Forse no. Porta la mascherina? No, lui fa il distanziamento mentre Fontana fa l’uomo mascherato.
Seconda di Aprile / L’Organizzazione mondiale della sanità dormiva? E l’Istituto superiore di sanità? Ronf. E la protezione civile che protezione ha fatto: “State a casa, state a casa”: lo facevano cinquecento anni fa i governatori spagnoli. Fallimentari.
Seconda di aprile / Gli Eurobond: la Germania non vuole. Gli Eurobond: l’Olanda non vuole. Il Mes: l’Italia non vuole. Facciamolo alla francese, Carla Bruni non vuole.
Terza di Aprile / Evviva: anche ieri 1000 multe. C’erano persino pure due pensionati che cercavano di raggiungere la casa di famiglia a Casaletto di Casalino, un noto posto di vacanze, per vederla un’ultima volta ma eroicamente la polizia li ha individuati e ha bloccata la loro utilitaria. Evviva: schierati 100 agenti, no 1000, no diecimila perché magari, qualcuno, fa due giri dell’isolato. Un po’ come quando si cercano i rapinatori: si fa la denuncia e la si mette nel cassetto.
Non sono fake news, è propaganda. E lo Stato non crei la sua "verità". La pandemia è un enorme banco di prova per la rete, la libertà, la crescita della consapevolezza digitale. Non si può affrontare questo passaggio epocale solo con "task force" governative che mettano il bollino sui siti. Francesco Nicodemo, consulente di strategie digitale e autore del saggio “Disinformazia. La comunicazione al tempo dei social media”, Marsilio, 2017 , il 09 aprile 2020 su L'Espresso. «Hic sunt leones»: sulle carte antiche era così che si definiva la fine del mondo conosciuto e oltre il confine c’era l’Africa inesplorata e pericolosa con i suoi leoni. Quel confine è lo stesso che immaginano i legislatori quando pensano alla rete: un luogo di cui avere paura. Dovrebbero dire invece: hic sunt homines, perché tutte le decisioni che si prendono su questa tecnologia riguardano l’uomo e le sue libertà. E la pandemia in corso è un banco di prova incredibile. Lo stesso fenomeno della disinformazione intorno al coronavirus è osservato attraverso una lente deformata. Se parliamo di infodemia, cioè della circolazione fuori controllo di dati e notizie, l’enorme flusso di informazioni sull’emergenza coronavirus porta con sé inevitabilmente la diffusione della disinformazia. Contro le fake news il sottosegretario all’Editoria Andrea Martella ha annunciato la formazione a Palazzo Chigi di una task force ,con l’obiettivo di contrastarne la diffusione sulle piattaforme online in diretto contatto con chi le gestisce. L’istituzione del gruppo di lavoro ha generato due tipi di contestazione. C’è chi contesta l’idea che la disinformazione riguardi unicamente la rete. E chi pensa che l’istituzione di un soggetto governativo e non indipendente per certificare ciò che è vero e ciò che falso, inneschi questioni politiche di non poco peso. Gli attacchi di Meloni e Salvini sono un plastico esempio. Gli esperti del gruppo di lavoro hanno chiarito che «l’obiettivo non è in nessun modo quello di esercitare censure o limitare la libertà di espressione o il diritto dei cittadini di informarsi. E quindi non è nostra intenzione assegnare patenti di veridicità alle notizie». Le conclusioni di una recente ricerca del Reuters Institute for the Study of Journalism all’Università di Oxford su tipi, fonti e slogan della disinformazione attorno al coronavirus vanno nella stessa direzione. I ricercatori hanno analizzato un campione di 225 informazioni in lingua inglese errate, giudicate false o fuorvianti dai fact-checker e pubblicate in inglese tra gennaio e la fine di marzo 2020, raccolte da First Draft News. In questo studio la maggior parte (59%) delle fakenews considerate è una riconfigurazione di informazioni esistenti. Solo il 38% è stato completamente costruito. La disinformazione comprende quasi sempre "falsi a basso costo” prodotti attraverso strumenti molto più semplici. In ogni caso le notizie rielaborate per ingannare rappresentano l'87%delle interazioni con i social media nel campione, mentre le la disinformazione completamente fabbricata il 12%. Sarebbe quindi più corretto parlare di propaganda e manipolazione dell’opinione pubblica, piuttosto che di fake news. Altri dati della ricerca confermerebbero questa idea. La disinformazione dall'alto verso il basso da parte di politici, celebrità e altre figure pubbliche di spicco sono solo il 20% sul totale del campione della ricerca, ma qualitativamente hanno un impatto enorme perché rappresentano il 69% dell'engagement totale dei social media. Lo stesso contenuto delle fake news analizzate sembra avere a che fare soprattutto con la propaganda: nello studio, il 39% dei casi riguarda l’azione dei governi e delle autorità e il 24% la diffusione del virus nelle comunità. Le conclusioni dello studio ci riportano alle dichiarazioni del gruppo di lavoro italiano nominato da Martella. La diversità della disinformazione del coronavirus dimostra che non c’è un'unica soluzione: «La diffusione di informazioni errate su Covid-19 richiederà uno sforzo sostenuto e coordinato da parte di fact-checkers, media indipendenti, le piattaforme digitali e le autorità pubbliche per aiutare il pubblico a capire e orientarsi nella pandemia».
Che fare, dunque? La disinformazia va affrontata attraverso il coinvolgimento delle piattaforme e soprattutto la responsabilizzazione degli utenti. “User first”, o ancora meglio “people” first, dovremmo dire. L’empowerment del cittadino online, però, è perseguibile solo attraverso la garanzia di un accesso libero e sostenibile alle informazioni e alle infrastrutture della società digitale. Viceversa, il rischio è favorire forme di controllo potenzialmente autoritarie, come sul suolo europeo sta già avvenendo. Ogni riferimento a quello che avviene in Russia e in Ungheria non è per nulla casuale. Ma se vogliamo difendere i principi della democrazia liberale, bisogna percorrere un altro sentiero: quello della consapevolezza del cittadino utente e della fiducia nella capacità dell’uomo di distinguere da sé cosa è vero e cosa è falso. Abbiamo bisogno di avere gli strumenti per comprendere le informazioni, non di uno Stato paternalista che certifica la “verità”. La consapevolezza, allora, significa far crescere nei cittadini una nuova capacità critica e una nuova responsabilità digitale, al tempo della rete in cui ciascuno di noi è consumatore e produttore di informazioni. L’ecosistema mediatico, poi, deve essere indipendente e garantire il pluralismo: in questo senso l’applicazione troppo rigida di normative, come ad esempio la direttiva europea sul diritto d’autore, rischia da un lato di limitare il libero accesso alle notizie di qualità, e dall’altro di favorire, paradossalmente, proprio la cattiva informazione. Serve infine che la rete sia alla portata di tutti. Vanno rimossi gli ostacoli che impediscono alla persona di partecipare appieno alla società digitale. Quando parliamo di Internet stiamo parlando innanzitutto di nuovi diritti. L’uomo è teleologico non sussidiario ai processi politici, economici e sociali che l’innovazione genera. Non possiamo correre il rischio di far diventare la rete un moltiplicatore della disuguaglianza sociale, invece che il primo fattore della sua rimozione.
«Nessuna censura: stanare le fake-news che danneggiano la nostra comunità». Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 7 aprile 2020. Ruben Razzante, professore di diritto dell’informazione: «Non si tratta di un bavaglio». «Non vogliamo mettere alcun bavaglio: vogliamo solo offrire agli utenti della Rete e dei social degli strumenti che gli consentano di verificare se una informazione sul Covid sia corretta o meno», dichiara Ruben Razzante, professore di diritto dell’informazione all’Università cattolica di Milano, autore del primo manuale di diritto dell’informazione e della comunicazione e fondatore del portale anti- fake news www. diritto dell’informazione. it Il professore milanese è fra gli otto componenti della neo costituita “Unità di monitoraggio per il contrasto della diffusione di fake news relativa al Covid- 19 sul web e sui social network”. La task force, voluta dal sottosegretario all’editoria Andrea Martella (Pd), lavorerà gratuitamente e sarà operativa fino al superamento dell’emergenza epidemiologica.
Professor Razzante, da dove pensate di iniziare?
«Sicuramente la prima attività sarà quella di monitorare e segnalare le notizie palesemente false che generano comportamenti sbagliati per la nostra salute. Si punterà poi a potenziare e rendere visibile l’informazione generata dalle fonti istituzionali».
Alcuni politici e commentatori hanno parlato di voglia di censura da parte del governo.
«Ripeto: noi vogliano solo fornire strumenti per esercitare un sano discernimento e fare verifiche su più fonti. Nessuno dirà che tutte le notizie provenienti da un determinato sito sono false perché nessuno vuole censurare alcunché. Parlare dunque di censura in questo contesto è inappropriato. La libertà di opinione è garantita. Ma quando un’interpretazione viene spacciata come verità oggettiva si fa disinformazione, si mistifica la realtà condizionando negativamente i comportamenti e vanificando tutti gli sforzi nella battaglia contro il coronavirus».
L’emergenza Covid- 19 ha offerto terreno fertile per le fake news?
«Sicuramente. Le fake news sono sostanzialmente notizie verosimili che puntano all’emotività delle persone. Ecco perché è fondamentale, per scovarle, l’interlocuzione stretta con gli utenti e con i gestori delle piattaforme».
Quali possono essere le conseguenze delle fake news sulla lotta Covid- 19?
«Possono indebolire lo sforzo di contenimento del contagio. Penso, ad esempio, alle tesi complottiste che insinuano che il governo alimenti l’epidemia per guadagnare benefici dai fondi dell’Ue – minando dunque l’esigenza del lockdown – o quelle degli animali domestici “untori” che hanno già provocato abbandoni di cani e gatti, fino alle pseudo- terapie che promettono un’illusoria e facile guarigione dal virus. Anche l’Arma dei carabinieri è stata vittima delle fake news: all’inizio del mese in una circolare in cui si elencavano i mezzi per prevenire il contagio è stato citato uno studio dell’Università americana Johns Hopkings, poi risultato inesistente, che era diventato virale sulle chat WhatsApp. Oltre ad essere subdole la viralità è l’altra caratteristica delle fake news. Alcuni siti – solo per aumentare le visualizzazioni – pubblicano contenuti palesemente inverosimili ma in grado di fare breccia nel pubblico più sprovveduto. Questa informazione- spazzatura influenza i comportamenti e produce dei danni alla nostra salute: deve essere combattuta e arginata».
L’informazione corretta allora fondamentale per la lotta al virus?
«Agli italiani sono state imposte una serie di restrizioni per la loro salute. Ma senza una informazione corretta tali misure possono non venire rispettate da tutti, con il rischio che aumentino i contagi. Iniziative contro le fake news sono già state intraprese da Unione europea, Organizzazione mondiale della sanità e governo inglese».
Lei, molti anni fa, aveva suggerito l’idea che gli articoli scritti sui social o sul web da parte di un giornalista fossero firmati indicando anche il suo numero di tessera professionale di iscrizione all’Ordine. Crede sia ancora attuale la proposta?
«Penso proprio di si. La verifica delle fonti da parte del lettore è fondamentale».
Coronavirus, task force del governo contro le “bufale”. Meloni: “Per oscurare le verità scomode?” Marta Lima domenica 5 aprile 2020 su Il Secolo d'Italia. Una task force del governo per controllare la diffusione di “fake news”, altrimenti dette bufale, sul coronavirus. Senza che al suo interno vi sia neanche un medico, un competente, uno che ne capisca di scienza e di eventuali verità messe in dubbio dalle “fake”. Una bufala? No, tutto vero. Lo annuncia il sottosegretario Martella, con grande enfasi. Sulla nuova iniziativa del governo, più o meno utile ma decisamente maldestra nei modi, si abbatte la critica e l’ironia di Giorgia Meloni, che parla di “sedicente task force anti Fake news”. “Avrà il compito di assicurarsi che sia diffusa solo LA VERITÀ sul Covid-19 (proprio come il Ministero della Verità di orwelliana memoria). Sempre il Governo ha scelto di imperio gli “esperti” (tra loro neppure un medico o un virologo) che decideranno cosa si può dire e cosa no. Utile ricordare che tra le “fake news” c’erano fino a ieri anche il fatto che gli asintomatici trasmettono il virus. Che fosse utile tenere in quarantena chi proviene da zone a rischio, che fosse saggio indossare la mascherina in pubblico. Credo che si stiano limitando le libertà fondamentali e costituzionali con eccessiva disinvoltura”. La leader di Fratelli d’Italia, in sintesi, teme che l’organismo, di cui faranno parte solo giornalisti e docenti di comunicazione (in gran parte di area politica riconducibile alla maggioranza) possa censurare le verità “scomode” per il governo, senza aver alcun supporto scientifico da parte di chi realmente è in grado di esprimersi.
Il post scriptum della Meloni è chiaro. “Mi manderanno in un campo di rieducazione per queste mie parole o si limiteranno a oscurare il post su Facebook?”. O magari si limiteranno a censurare le fake news su Renzi, più che sul coronavirus? E la task force si esprimerà anche sulle fake news dei grillini, come il terrapiattismo, il no-vaccinismo, la cospirazione dei piedi sporchi?
Mollicone: una task force anti-sovranista?
“Mi rivolgo al sottosegretario Martella: stiamo fronte comune per il sostegno all’editoria e la stampa in questa difficile fase, ma dobbiamo denunciare come la task force voluta dal governo sia marcatamente sbilanciata verso sinistra, in un chiaro orientamento antisovranista, tanto da includere esperti e personaggi come Puente”. Lo afferma il deputato di Fdi, Federico Mollicone. “Questi debunker di professione dovrebbero scegliere cosa sia vero o falso per tutta Italia? Chiediamo un riequilibrio della composizione con tecnici non politicizzati, componenti delle autorità garanti e medici. Il contrasto alla disinformazione sul Covid-19 è necessario per tutelare la salute umana e l’economia nazionale, ma non vorremmo che gli strumenti messi in campo possano diventare una censura politica, sullo stile orwelliano”, conclude Mollicone.
Fakenews? C’è solo da scegliere tra le frescacce del governo Conte. Francesco Storace de Il Secolo D'Italia martedì 7 aprile 2020. C’è qualche rischio per la commissione censura voluta da Palazzo Chigi, le fakenews sono diffuse dal governo e non sanno come fare. I ministri, disperati, devono far vedere che sono capaci di fare qualcosa, e si agitano. Ma si muovono male. Tra le pratiche su cui bisogna fare chiarezza ce ne sono diverse. Innumerevoli le frescacce di governo, una fabbrica di balle, e qualcosa bisognerà pur decidere per giustificare l’incredibile esistenza dell’organismo che si dovrebbe occupare proprio di fake news. Ad esempio, la questione delle mascherine e dei vari dispositivi di protezione individuale. La protezione civile sforna ogni giorno numeri su numeri, ma non rende conto mai del materiale inutilizzabile inviato alle regioni. Borrelli e soci fanno la somma sul loro sito, ma le cifre sono sballate. C’è voluta una circolare dell’ordine dei medici per invitare gli operatori sanitari a non indossare le mascherine inviate dalla protezione civile. Erano inutili. Ma la sottrazione Borrelli non la fa. Ieri la deputata di Fratelli d’Italia Augusta Montaruli ha svergognato la bufala di governo: “In Piemonte sono arrivate migliaia di mascherine “finte” che a tutela del personale sanitario sono rimaste nei magazzini oppure un migliaio di maschere inutilizzabili”. La stessa cosa è successa anche nel Lazio dove la regione ha dovuto bloccare dopo qualche giorno la distribuzione dei dispositivi per l’allarme dei sindacati. Altra frescaccia di governo è quella relativa alla “collaborazione” con l’opposizione. Giorni fa Giorgia Meloni era in collegamento con Rete4 e ha dovuto interrompere la trasmissione perché Palazzo Chigi la cercava urgentemente. Era per comunicarle che Conte stava per fare un annuncio agli italiani. Un minuto dopo il premier si materializzava su facebook…. Ieri è stata la volta di Patuanelli. Il ministro dello sviluppo economico ha fatto annunciare dal blog delle stelle per venerdì prossimo un decreto “del governo e del M5s” (deve essere un nuovo organo costituzionale creato in nottata all’insaputa degli italiani). Il cosiddetto “decreto liquidità”. Ovviamente l’opposizione non ne è stata informata, né chiamata a condividerne i contenuti prima di portarlo all’approvazione del Consiglio dei ministri. È sufficiente il like, il pollicione, dei militanti pentastellati a prescindere dal contenuto. Tra le fakenews di governo una delle più clamorose è stata quella sui 25 miliardi “per gli italiani” incredibilmente gonfiata fino a 350 miliardi di euro e ieri sera a 750…Palla clamorosa, frescaccia straordinaria. A smontarla è bastata una lettera pubblicata proprio ieri su Il Tempo a firma del consigliere regionale di Fratelli d’Italia Massimiliano Maselli. Quello che è stato un provvedimento che ha semplicemente spostato i termini di pagamento è stato spacciato come una manovra di investimenti, quelle che moltiplicano davvero la leva dei numeri. Però il cannone propagandistico era già stato azionato e agli italiani è toccato tracannare persino questa panzana. Anche se di euro non se ne vedono né 25 miliardi e né 350…. Non vedremo neanche i 750. L’opposizione dovrebbe proporre a Conte – continuando così – di poter istituire e finanziare anche una commissione censura di minoranza. Così per dimostrare quante sono le balle incredibili dettate dalla comunicazione fasulla al tempo del coronavirus. Ovviamente, non si avverte alcun bisogno di organismi del genere, ma solo di serietà. Purtroppo, un governo che nasce in grembo al Grande Fratello televisivo non può fare altro… Fakenews? Gli specialisti sono loro. E non da oggi.
Antonello Guerrera per repubblica.it il 6 aprile 2020. Sta accadendo qualcosa di assurdo in Regno Unito. Negli ultimi giorni, si sono verificati diversi casi di assalti incendiari ad antenne o centraline della rete ultraveloce per cellulari di ultima generazione 5G, o almeno presunti tali. È capitato a Birmingham, Liverpool, Melling (sempre nell'inglese Merseyside) e ora anche a Belfast, in Irlanda del Nord. In alcune circostanze, subito dopo online sono spuntati video che riprendono alcune persone attaccare le antenne e poi esultare al grido di "fuck 5G" o anche "viva la revolución". Filmati subito cancellati da Youtube e altre piattaforme. Come mai? La risposta è in alcune teorie complottiste che girano da qualche tempo online e che legano, senza alcuna prova scientifica, la piaga del coronavirus all'introduzione, ancora graduale, della rete telefono-dati 5G. Sono due le teorie del complotto più diffuse online. La prima sostiene che le reti 5G indebolirebbero il nostro sistema immunitario, rendendoci quindi più esposti al coronavirus. Questa teoria, rilanciata oltremanica dal controverso tabloid Daily Star, è sostenuta, tra gli altri, da un attivista e professore di filosofia del College dell'Isola di Wight, ma scientificamente è una bufala perché le onde radio del 5G e le sue radiazioni elettromagnetiche sono ben sotto il livello di guardia internazionale, addirittura 66 volte in meno del limite oltre il quale radiazioni e onde possono modificare il Dna e quindi creare gravi problemi alla salute come i tumori.
La seconda teoria del complotto sostiene invece che grazie alle reti 5G "i batteri riuscirebbero a comunicare e a diffondersi più velocemente e densamente" nelle nostre comunità e dunque in questo caso anche il coronavirus sarebbe facilitato nella sua azione. Anche questa ipotesi è stata rilanciata dallo stesso "Daily Star", citando uno studio del 2011 di alcuni ricercatori della Northeastern University di Boston e di quella di Perugia per cui "i batteri riuscirebbero a comunicare" e diffondersi meglio grazie a un solido supporto elettromagnetico. Uno studio controverso, che non è mai stato pienamente dimostrato. Ma soprattutto, il coronavirus è, appunto, un virus: non un batterio. Tra l'altro ci sono Paesi, come l'Iran, che non hanno nemmeno iniziato la sperimentazione del 5G, ma dove il coronavirus ha fatto comunque strage. Ma tutto ciò non è bastato a placare la psicosi e i dilaganti complottismi online. Anzi, sono stati ritwittati e condivisi anche da alcune personalità del cinema e della tv, come l'attore americano Woody Harrelson o le star televisive anglosassoni Jason Gardiner e Amanda Holden. Oggi in conferenza stampa, il ministro britannico Michael Gove ha definito queste teorie "sciocchezze pericolosissime". Mentre il capo della sanità britannica Stephen Powis si è detto "assolutamente furioso e disgustato dal comportamento di queste persone che attaccano infrastrutture che invece sono utilissime per combattere l'emergenza coronavirus".
Luigi Ippolito per corriere.it il 15 aprile 2020. L’ultima è stata la torre dei telefonini che serve l’ospedale d’emergenza allestito a Birmingham per combattere il coronavirus: anche quella è stata data alle fiamme dai seguaci della teoria cospirativa secondo cui il virus letale è causato dalle antenne del 5G. Una tesi tanto bizzarra quanto ormai ampiamente propagata sui social media: ma che adesso in Gran Bretagna si sta trasformando in una vera ondata di terrorismo diffuso. Sono ormai una quarantina le torri dei telefonini bruciate nelle ultime settimane: e circa venti sono andate in fumo solo nel weekend di Pasqua. A Londra tre adolescenti sono stati arrestati con l’accusa di rogo doloso. Ma intanto decine di ingeneri che lavorano per le compagnie telefoniche hanno subito attacchi fisici o verbali e ricevuto minacce di morte.
La teoria. I seguaci della strampalata teoria cospirazionista sottolineano che Wuhan, la città cinese da dove il virus è partito, era stata una delle prime a installare le antenne del 5G: la tesi è che le radiazioni emesse indeboliscono il sistema immunitario e inibiscono l’afflusso di ossigeno ai polmoni. Una versione più estrema sostiene che in realtà il coronavirus non esiste, ma è solo una copertura inventata dai governi per mascherare altre malattie causate dal 5G. Tutte frottole, ovviamente. Ma che hanno trovato credito in Gran Bretagna grazie a diverse celebrities: Amanda Holden, una giudice di un popolare talent show, ha twittato una petizione che metteva il virus in relazione al 5G; e Eamonn Holmes, presentatore del programma del mattino su ITV, è stato deferito all’autorità di vigilanza delle telecomunicazioni per aver detto in tv che i «media tradizionali» sono troppo svelti a negare quella teoria, senza preoccuparsi di verificarla (insinuando dunque che possa essere vera).
Il danno. Youtube ha promesso di rimuovere i video che propalano la bufala del 5G: ma intanto la teoria dilaga sui social media, con consigli di sedicenti «esperti» che suggeriscono come mettersi al riparo dalle antenne del 5G. O come distruggerle. Il problema è che in questi tempi di isolamento le comunicazioni telefoniche sono quanto mai preziose. «Spezza già il cuore – ha detto il capo di Vodafone Uk, Nick Jeffery, dopo l’attacco all’antenna dell’ospedale di Birmingham – che le famiglie non possano essere al capezzale dei loro cari. Ma è ancora più sconvolgente che anche il conforto di una telefonata o una videochiamata possa ora essere negato a causa delle azioni di pochi cospirazionisti». Il danno, più che le antenne del 5G, lo fanno i covidioti.
Gustavo Bialetti per “la Verità” l'1 aprile 2020. «Picciotti, assaltiamo supermarket e polizia». Titolo che compariva ieri sulla prima pagina del Fatto Quotidiano. Beh, direte, che c' è di strano: un giornale dà notizie. Certo. Ma se queste notizie erano state pubblicate da altri quotidiani (tra i quali quello che avete in mano) due giorni prima, e se il giorno precedente il quotidiano diretto da Marco Travaglio aveva fatto il titolo principale contro la stampa di destra e i sindacati, accusati di «soffiare sul fuoco della rivolta» proprio per aver parlato dei rischi derivanti dalle tensioni sociali collegate all' emergenza coronavirus, beh capite che qualche problema c' è. Se poi si vanno a rileggere le parole di fuoco vergate dallo stesso Travaglio nell' editoriale, sotto il titolo (sprezzante del rischio ripetitività) «Benzina sul fuoco», c' è da che rimanere allibiti. Già perché due giorni fa riferire di possibili «assalti ai supermercati per un paio di episodi circoscritti al Sud» significava «incoraggiare gli altri a provarci». Era, insomma roba «da irresponsabili», ai quali «chiedere un pizzico di responsabilità è fatica sprecata». E il giorno dopo il medesimo allarme ricicciato sarebbe invece degno di robusto titolo in prima pagina solo perché santificato dalla testata travagliata? Forse è pretendere un po' troppo persino da lettori di stomaco forte come quelli del Fatto. O dobbiamo forse pensare che Travaglio sappia quel che scrive il suo giornale solo a giorni alterni? «Si dice che chi gioca con il fuoco fa la fine del pollo arrosto», concludeva beffardo il suo pezzo. Pienamente d' accordo, caro collega. Ma il fuoco peggiore, credici, è quello dell' amore che acceca. E il sentimento che ti ha travolto per Giuseppi Conte ti fa apparire proprio cotto a puntino.
Sito INPS hackerato ? Ecco perché il premier Conte ed il presidente dell' istituto diffondono "fake news". Il Corriere del Giorno. Una tesi questa falsa e tendenziosa, rilanciata anche dal premier Giuseppe Conte ma immediatamente smentita da Anonymous Italia che sul profilo Twitter scrive: “Caro Inps, vorremmo prenderci il merito di aver buttato giù il vostro sito web. Ma la verità è che siete talmente incapaci che avete fatto tutto da soli, togliendoci il divertimento!”. Il sistema informatico dell’INPS ancor prima dell’arrembaggio alle richieste dei bonus da 600 euro, era finito sotto osservazione da parte della polizia delle telecomunicazioni a causa di sospetti attacchi chiamati “Dos” (“Denial of service“), sia singoli che di più persone contemporaneamente, effettuati per farlo saltare a causa una eccedenza di accessi contemporanei che mandano in blocco i server e ne provocano il blocco. Un attività che era stata stati respinta in quanto il sistema aveva retto agli assalti. Quanto accaduto ieri invece, sembrerebbe non essere l’azione di uno o più hacker, come ipotizzato dallo stesso Istituto, e persino dal premier Giuseppe Conte, ma in realtà a causa di una ridotta capacità dei server e dei sistemi informatici dell’ INPS di ricezione rispetto all’imponente afflusso di domande. In realtà quindi i server dell’ INPS non sarebbe stato abbastanza potenti per essere in grado di reggere a sollecitazioni e accessi di massa, nel momento in cui le richieste di accesso si sono accumulate al ritmo di più di cento al secondo, con un crescendo ha mandato in crash server e software gestionali . “Ha subito un crash autonomo” , come confermano gli esperti. L’ipotesi degli investigatori della Polizia Postale e dei “Servizi” si radica sulla circostanza che in presenza di un attacco esterno, il sistema si blocca ma non rende visibili i dati degli utenti che hanno provato ad accedervi. Nel primo giorno di assegnazione dei bonus, c’è stato un “crash” che ha reso di dominio pubblico i dati personali di coloro che voleva collegarsi e registrarsi, una conseguenza questa tipica di un sistema che va in tilt che fa “crash”. Quindi secondo gli analisti informatici è molto più probabile che ci sia una banale inadeguatezza del sistema a fronte di milioni di domande, dietro il fallimento delle operazioni di registrazione delle domande per ottenere i bonus, non regolate secondo criteri prestabiliti di priorità o provenienza. Altro che un disegno criminale preordinato da parte di ignoti hackers come si giustificano il presidente del consiglio Giuseppe Conte ed il presidente “grillino ” dell’ INPS, Pasquale Tridico il quale dopo l’ammonimento del Garante della Privacy, la richiesta delle sue dimissioni avanzate da Matteo Salvini e le opposizioni, continua a coprirsi di ridicolo insiste su quello che “la grande colpa è degli “hacker” ! Una tesi questa falsa e tendenziosa, rilanciata anche dal premier Giuseppe Conte ma immediatamente smentita da Anonymous Italia che sul profilo Twitter scrive: “Caro Inps, vorremmo prenderci il merito di aver buttato giù il vostro sito web. Ma la verità è che siete talmente incapaci che avete fatto tutto da soli, togliendoci il divertimento!”. “Inoltre comunica di aver sanzionato pesantemente il Governo – si legge ancora nel post – per la diffusione di fake news, in quanto non è stato un attacco hacker a mettere in ginocchio il portale dell’Inps. Ma bensì – conclude Anonymous – l’incapacità dell’attuale incaricato alla protezione dei dati“. “Quantomeno per bon ton civico dopo il disastro di ieri dell’Inps sarebbe stata cosa gradita se il premier Conte e il presidente Tridico invece di arrampicarsi sugli specchi si fossero scusati con gli italiani. Ricevere quel numero di domande era un’azione prevedibile e sostenibile: ieri è stata disvelata una falla enorme che deve preoccupare l’oggi e il domani. L’attacco degli hacker è avvenuto intorno a mezzogiorno, quando già il sito faceva follie e gli italiani impazzivano: è stata, cioè, eventualmente un’aggravante“. ha detto Giorgio Mulé, deputato di Forza Italia e portavoce dei gruppi azzurri di Camera e Senato, intervenendo a Sky Tg24. “Questo ci fa dire che c’è un problema strutturale di competenze e capacità, i responsabili se non vogliono dimettersi, atto di semplice dignità politica, almeno chiedano scusa al Paese”, conclude.
Giovanni Ruggiero per open.online il 3 aprile 2020. Ha cominciato a rimbalzare tra le chat Whatsapp per arrivare rapidamente sui social un video che mostra i figli di Matteo Renzi giocare a pallavolo nel campetto del giardino di casa a Pontassieve, in provincia di Firenze. A girarlo e diffonderlo sarebbe stato un vicino di casa del senatore di Italia viva, secondo il quale con i figli di Renzi ci sarebbero anche degli amici che, in barba a tutte le restrizioni imposte per il Coronavirus, vengono accompagnati dagli uomini della scorta per poter godersi la partitella lontano da occhi indiscreti. A stretto giro però ha dovuto chiarire lo stesso Renzi, che in un audio ha spiegato come in realtà nel video si vede chiaramente che i suoi figli siano nel giardino di casa assieme a lui con sua moglie: «Non c’è nessuna macchina della scorta che va a prendere qualcuno…. c’è un vicino di casa, che sarà denunciato in sede civile e penale, che non soltanto viola ogni tipo di regola registrando un video in casa altrui, con minorenni. Ma poi dice il falso quando parla di cinque persone amiche di Renzi… I due presunti amici siamo io e Agnese, babbo e mamma».
Zingaretti: "Fake news sul mio coronavirus, denuncio e i soldi andranno alla sanità". Il segretario del Pd contro le bufale che lo volevano mai contagiato o curato in una clinica privata. La Repubblica il 02 aprile 2020. Nicola Zingaretti, guarito due giorni fa da coronavirus, all'attacco delle false notizie sul suo contagio: "Chi non ha argomenti sparge odio e fake news. Denunceremo e tutti i risarcimenti saranno devoluti alla Protezione civile e alla ricerca pubblica in sanità" scrive su Facebook il segretario del Pd, che poi rilancia: "A quanti è già arrivata via WhatsApp o sui social una bufala sul mio conto? In pochi giorni questi 'bufalari' sono stati capaci di dire che: non ho mai contratto il coronavirus, poi invece che l'ho preso ma mi sono curato in clinica privata. E altre sciocchezze ancora". "Non si tratta solo di fake news gravissime - aggiunge - ma di una vera e propria campagna denigratoria e di disinformazione che mira a creare notizie false per poi diffonderle ovunque. Oggi riguarda me, ma questo fenomeno potrebbe coinvolgere chiunque e va arginato perché, mai come in questo momento, noi abbiamo bisogno di unità, coesione, impegno alla diffusione di informazioni utili". Il 7 marzo scorso Zingaretti aveva annunciato di essere positivo al Covid19 e due giorni fa di essere guarito, dopo averne passati 23 in isolamento a casa: "Ho passato brutte giornate ma sono guarito" ha detto.
Tutte le bufale degli “esperti”. Alessandro Rico il 2 aprile 2020 su Nicola Porro.it. È ormai operativa la «task force» Rai contro le «fake news», guidata dal direttore di Rainews, Antonio Di Bella: «Un comitato scientifico di virologi, medici e uomini di scienza che permetta di valutare volta per volta le molte informazioni che arrivano in maniera tumultuosa sulle nostre scrivanie relativamente al coronavirus». Per carità: un po’ di pulizia, male non fa. Ne abbiamo sentite tante: le tisane calde che ammazzano l’agente patogeno, l’ibuprofene che lo rende più aggressivo, le spremute d’arancia che prevengono il contagio, i cani che lo propagano… Eppure, siamo proprio sicuri che gli esperti si siano guadagnati sufficiente credibilità? La domanda è legittima, perché dall’inizio dell’emergenza, i competenti hanno detto tutto e il contrario di tutto. Il primo aprile, ad esempio, l’Ansa, citando una ricerca di Nature, ha definito il coronavirus «molto contagioso anche con sintomi lievi». Ma allora, come possiamo fidarci ciecamente delle campagne che recano il bollino del ministero della Salute? Tutti ricorderete, infatti, che prima del focolaio di Codogno, in tv circolava uno spot con Michele Mirabella, che ci rassicurava sul contagio da coronavirus: «Non è affatto facile». Una gaffe o una bufala? Sarebbe abbastanza per pretendere le dimissioni del ministro – e del presidente del Consiglio, visto che le comunicazioni istituzionali sono coordinate dal Dipartimento per l’informazione e l’editoria di Palazzo Chigi. Ma è pur vero che i politici non hanno sempre avuto buoni consigli dagli «uomini di scienza», come li chiama il direttore Di Bella. Sempre a proposito del contagio, basti citare Roberto Burioni bifronte: lo stesso luminare che avvisava del pericolo dei portatori sani, diceva però che era più facile essere colpiti da un fulmine che beccarsi il Covid-19. E la virologa del sacco, Maria Rita Gismondo? Sul Fatto Quotidiano ha scritto – ed è condivisibile – che «ci siamo fatti trovare impreparati dalla pandemia a livello internazionale». Ma lei era quella che, nei primissimi giorni dell’emergenza in Lombardia, si lamentava per la quantità spropositata di tamponi inviati al suo laboratorio. E affermava che il coronavirus era una «problematica appena superiore all’influenza stagionale». Dopo una ventina di giorni, ha dovuto ammettere di essere «attonita». Quando la dottoressa ha ipotizzato che in Lombardia il virus fosse mutato, i colleghi le hanno fatto pervenire una diffida. Allora, nessuno aveva fiatato. E le mascherine? Si sono sprecati i «chiarimenti» su quanto fossero inutili. Secondo Giovanni Maga, del Cnr, servivano solamente «in una zona ad alto rischio di contagio». Poi ci siamo accorti che tutta Italia è a rischio contagio. È ancora visibile, sul sito del ministero della Salute, il post del 25 febbraio, secondo cui le mascherine vanno indossate «solo se sospetti di aver contratto il nuovo coronavirus». Ma siccome gli asintomatici sono comunque contagiosi, dobbiamo considerarci tutti «sospetti». A esser maliziosi, si può «sospettare» che certi messaggi fossero stati diffusi perché qualcuno sapeva che di mascherine non ce n’erano. Le poche disponibili era meglio riservarle ai medici. E i tamponi? Anche la Lombardia è stata ondivaga: un giorno Attilio Fontana ha assicurato che la Regione s’era attenuta scrupolosamente alle direttive degli esperti, che erano stati somministrati più test che in tutte le altre Regioni. Il giorno dopo è partita la missione degli esami a tappeto, sulla falsariga del Veneto di Luca Zaia. A livello centrale, non è mai stato chiaro quale fosse la policy. All’inizio se ne sono fatti a pacchi, poi sono stati riservati ai pazienti con sintomi, molti dei quali nondimeno hanno lamentato di essere stati ignorati; in questi giorni, gli esami clinici stanno di nuovo aumentando. Ci sono Vip che in tv raccontano di aver svolto il test pur non avendo sintomi; e persone che sono morte senza diagnosi, come denunciano i sindaci della Bergamasca. D’altronde, persino la Protezione civile nei primi giorni aveva provato a mischiare le carte, distinguendo tra i morti «per» e quelli «con» il coronavirus. Senza contare che i virologi e gli epidemiologi, perennemente in tv, nei talk show dicono e contraddicono. Tra loro ci sono profondi disaccordi, magari legittimi, perché il morbo è nuovo. Ma se il principio di non contraddizione non è morto pure lui di coronavirus (o con il coronavirus), non si possono prendere per oro colato, al tempo stesso, l’esperto che sostiene A e l’altro che sostiene B. Nella squadra speciale contro le bufale, i camici bianchi sono tutti d’accordo? Perché se no, il rischio è che l’altisonante «task force» si riduca a smentire quelle che nemmeno il complottista scimmiottato da Maurizio Crozza considererebbe notizie attendibili. Tipo il consiglio di fare gargarismi con la candeggina. Ecco, anziché sbugiardare questa fesseria, perché il dicastero di Roberto Speranza non ci spiega come mai, ogni dì alle 18, il commissario Angelo Borrelli ci legge un bollettino con dati che egli stesso considera ampiamente sottostimati? A chi crediamo? Alla Protezione civile, per cui sono state infettate 110.000 persone, o all’Imperial College di Londra, che parla di 5,9 milioni di contagiati? Non ci scordiamo che le autorità politiche e sanitarie mondiali, quelle che esigono fiducia e obbedienza, hanno comprato a scatola chiusa i numeri forniti dai cinesi, elogiandone la gestione dell’epidemia. Nonostante Pechino l’abbia nascosta per mesi, mettendo addirittura in galera il medico che per primo aveva lanciato l’allarme. «Ufficialmente», stava diffondendo «fake news»…
Bolsonaro, la clorochina e i complotti: Facebook cancella le fake news sul coronavirus. Redazione de Il Riformista il 31 Marzo 2020. I principali social network stanno mettendo in atto una politica di oscuramento delle fake news sul coronavirus. È una tendenza in atto da metà marzo. Facebook ha comunicato di aver adottato tale decisione il 26 marzo, Twitter il giorno successivo. A occuparsene delle squadre di moderatori mentre i social hanno dato spazio e aperto a collaborazioni con l’Organizzazione mondiale della Salute e con altre piattaforme o applicazioni per promuovere l’informazione sulla pandemia. Le bufale oscurate da tale politica vanno dalle dichiarazioni dei politici, alle tesi complottiste, ai farmaci fatti passare come il rimedio miracoloso alla pandemia. Tra i primi a farne le spese il presidente brasiliano Jair Bolsonaro. Nazionalista, di estrema destra, Bolsonaro continua a ripetere che il coronavirus non è poi così diverso da una normale influenza. Ha dichiarato che l’Italia ne è così fortemente colpita perché è un Paese di vecchi. Domenica 29 marzo Bolsonaro era stato ripreso mentre passeggiava nella capitale Brasilia e, incurante, salutava i cittadini e non si preoccupava di rispettare le norme di sicurezza che si stanno adottando in quasi tutti i Paesi del mondo. Facebook, Twitter e poi anche Instagram hanno cancellato il video che riprendeva la passeggiata. E Bolsonaro si è difeso dicendo: “Non ero mica a passeggio, ero andato a vedere il mio popolo”. A causare l’atteggiamento del presidente brasiliano è probabilmente il rischio per il suo Paese di un collasso economico: “Se la disoccupazione continua a evolversi come sta facendo adesso, causerà più morti che l’epidemia. ma per altri motivi, come la depressione e il suicidio”. Infine Bolsonaro è tornato a minimizzare il pericolo che il Covid-19 può rappresentare: “Se uno ha meno di 40 anni, solo nello zero virgola qualcosa per cento dei casi la malattia causa la morte”. Altro politico che si è visto cancellare dai social un post è Rudy Giuliani. Il politico statunitense, repubblicano, avvocato e consigliere del presidente Donald Trump, ex sindaco di New York e promotore della strategia “tolleranza zero”, era intervenuto sull’emergenza definendo l’idrossiclorochina come al “100 per cento efficace” contro il coronavirus. Negli ultimi giorni infatti Facebook e Twitter stanno cancellando i post che promuovo in maniera fuorviante il farmaco. Testato a Marsiglia dal professore Didier Raoult, in combinazione con un antibiotico, ha dato vita a un vivace dibattito scientifico, anche se i test al momento non permettono di affermare la sua completa efficacia. E infatti si sono verificati dei casi da intossicazione da Plaquenil (nome commerciale dell’idrossiclorochina) proprio in Francia, nella regione della Nouvelle-Aquitaine. Il farmaco era stato celebrato anche da Bolsonaro e Trump lo ha definito un “dono del cielo”. L’agenzia del farmaco degli Stati Uniti (US Food and Drug Administration, FDA) ha autorizzato comunque il 30 marzo l’uso della clorochina e dell’idrossiclorochina, farmaci anti-malaria, specificando tuttavia che la pericolosità del farmaco non è stata studiata per i casi di coronavirus. Queste regole di moderazione “globale”, come le ha definite Twitter interpellato da Le Monde, non risparmiano le tesi complottiste. Una delle più virali è quella, proveniente dagli ambienti suprematisti e dell’estrema destra, secondo la quale i neri non potrebbero contrarre il coronavirus. Una bufala naturalmente.
Simioli: "Ascierto l'ha fatta grossa: il vaccino per il Covid-19! Voglio dire una cosa a Gerry Scotti". Francesco Manno il 22 marzo 2020 su areanapoli.it. Gianni Simioli, speaker di Radio Marte e di Rtl 102.5, ha pubblicato un messaggio sui suoi profili ufficiali social. Lo speaker di Radio Marte e Rtl 102.5, Gianni Simioli, ha pubblicato un messaggio sul suo profilo ufficiale Facebook. Ecco quanto si legge: "Caro Dott. Gerry Scotti, di seguito le giro le ultimissime sulla cura Ascierto. E’ lo stesso Ascierto che lei ha deriso e ridicolizzato a Striscia la notizia: si deve vergognare! Lo so, poi ha spiegato a una radio locale che lei legge un copione e che la “colpa” del suo “errore di valutazione“ è tutta da addebitare a chi scrive i testi del programma. Ma lei veramente pensa che siamo i meridionali napoletani che le ha raccontato qualcuno? Signor Gerry Scotti io non sono nessuno, non valgo ciò che vale lei per le aziende del sud che la pagano, spero profumatamente, per dire che è buonissimo questo o quel prodotto di Napoli o del meridione d’Italia (pur di conquistare i mercati del nord), eppure sono in grado di rifiutarmi di leggere una promozione che trovo distante kilometri dalla mia etica, filosofia o sentimento di vita". Gianni Simioli ha poi aggiunto: "È arrivata un’altra notizia da accogliere con ottimismo e un orgoglioso sorriso. Mentre la penisola si divide tra i runner che non rinunciano alla corsetta e la Palombelli che non si da ragione delle basse percentuali di contagio al Sud, qui, a Napoli, c’è un pazzo visionario, spinto da un’intera regione, che non si ferma. Si, sempre Lui, il Dottor Ascierto. Questa volta ha deciso di farla grossa: il vaccino per il Covid19! È di queste ore una sua intervista, registrata ai microfoni di SKY, nella quale è riassunta una speranza di tutto il paese. Il Dottore ha infatti dichiarato: “La Takis è un’azienda che lavora con noi per dei vaccini su alcuni melanoma che studiamo. In collaborazione con il Pascale e il Cotugno sperimenteranno anche un vaccino per il Coronavirus. Proprio qui al Cotugno, e questa è certamente una buona notizia. Non sarà una cosa di domani ma l’impressione è che con cauto ottimismo e lavoro ce la faremo, noi andiamo avanti”. Questa è la risposta di Napoli e di Ascierto a giorni di mala stampa e fake news su di Lui e sulla sanità campana. Questa è la risposta che unirà l’Italia di coloro che da Nord a Sud lottano e sperano di festeggiare presto, insieme, l’uscita dal periodo più buio della nostra storia. E ci arriveremo, credetemi. Non so quando ma così sarà. E sarà una grande festa per tutti. Anche per Striscia la Notizia, Barbara Palombelli e ilFatto Quotidiano. Si, esatto, perché noi siamo l’Italia che lotta, vince, ama ed include tutti. Anche chi non lo meriterebbe".
Luca Marconi per corriere.it il 22 marzo 2020. «Diffamazione aggravata», per un servizio televisivo «gravemente lesivo» nei confronti del direttore della Struttura complessa Melanoma e Terapie intensive del Pascale di Napoli, Paolo Ascierto, il «promotore» dello studio Aifa , l’Agenzia italiana del farmaco, sul Tocilizumab, il farmaco per le complicanze da artrite reumatoide che agisce anche sulle polmoniti da covid-19, liberando quota parte delle terapie intensive di cui oggi si ha tanto bisogno: è quel che contestano i vertici dell’istituto Pascale a Striscia la Notizia, intervenuta a suo modo per raccontare l’attacco polemico subìto da Ascierto a “Carta Bianca”, da parte dell’infettivologo Massimo Galli, direttore del reparto di Malattie Infettive dell’ospedale Sacco di Milano. Nel servizio ancora online Striscia riprende l’intervento di Galli, ma affidandosi ai commenti di Gerry Scotti («il professore Galli ha scoperto che l’alunno Ascierto ha copiato») per poi recuperare un vecchio meme con un incolpevole Emilio Fede che conclude: «Che figura ...». Ma ecco il comunicato del Pascale: «Con riferimento al programma televisivo “Striscia la notizia” del 17 marzo 2020, nel corso del quale è andato in onda un servizio che ha richiamato la trasmissione “Carta Bianca” di Bianca Berlinguer e il confronto avvenuto tra il prof. Paolo Ascierto del Pascale di Napoli e il prof. Massimo Galli dell’ospedale Sacco di Milano, si precisa quanto segue: l’Istituto Nazionale Tumori IRCCS Fondazione Pascale e il prof. Paolo Ascierto esprimono innanzitutto la più viva gratitudine verso tutti coloro che in questi giorni hanno manifestato la loro solidarietà e vicinanza nei confronti al prof. Ascierto». «Ritengono il servizio di “Striscia la notizia”, montato ad arte, gravemente lesivo dell’onore e della reputazione del prof. Paolo Ascierto e dell’Istituto Nazionale Tumori IRCCS Fondazione Pascale, oltre che del tutto inopportuno e inappropriato in relazione alla drammaticità del momento che si vive, denotando una mancanza assoluta di sensibilità, specie nei confronti dei medici impegnati in prima linea e di quanti, come il prof. Ascierto, sommessamente sperimentano trattamenti terapeutici e cure, peraltro con risultati positivi. Per tali motivi, la Direzione Generale dell’Istituto Nazionale Tumori IRCCS Fondazione Pascale e il prof. Paolo Ascierto hanno dato mandato all’avv. prof. Andrea R. Castaldo per sporgere querela per diffamazione aggravata nei confronti del conduttore della trasmissione, di quanti hanno curato il servizio e del Direttore Responsabile».
Dal profilo Facebook di Barbara Palombelli il 23 marzo 2020: Venerdì sera, si parlava dei bergamaschi e del loro senso del dovere e del lavoro... di andare a lavorare anche con la febbre. Con il sindaco Gori e gli ospiti in collegamento ci si chiedeva come mai proprio Bergamo fosse la città martire, se le aziende aperte fossero state, insieme alla partita giocata col Valencia, responsabili di questo dramma... qualcuno ha capito male e ha montato una immaginaria tempesta... non è il momento delle polemiche, non risponderò a nessuno.
Da liberoquotidiano.it il 23 marzo 2020. Barbara Palombelli con un post duro su Facebook annuncia che passerà alle vie legali. Tutto parte dalla sua trasmissione, Stasera Italia in onda tutte le sere su Retequattro, in collegamento con diversi ospiti tra cui il sindaco di Bergamo Giorgio Gori, commentando la drammatica situazione della città bergamasca, piegata dal Coronavirus, la giornalista specificava: “Il 90% dei morti è nelle regioni del Nord. Cosa può esserci di diverso? Persone più ligie, che vanno tutte a lavorare?. Considerazione che ha causato una pioggia di insulti e critiche. “La libertà di opinione è sacra. La diffamazione via web è un reato. Tutti i post e gli autori contenenti ingiurie, calunnie e diffamazioni vengono e verranno identificati e chiamati a rispondere in sede civile di quanto hanno scritto“. Così la moglie di Francesco Rutelli sul suo profilo Facebook. “I miei avvocati sono al lavoro. Estrapolare una frase da un contesto in cui si parlava esclusivamente della tragedia di Bergamo, travisandone il contenuto, è un’operazione scorretta. Di tutto il resto si occuperanno polizia postale, magistratura e avvocati.”
“Ascierto non ha saputo replicare a Galli”, niente scuse di Striscia la Notizia. Redazione de Il Riformista il 22 Marzo 2020. Niente scuse e nessun passo indietro da parte di “Striscia la Notizia” dopo la querela presentata dall’Istituto Nazionale Tumori IRCCS Fondazione Pascale e dal professor Paolo Ascierto in seguito al servizio andato in onda la scorso 17 marzo che ha richiamato la trasmissione “Carta Bianca” di Bianca Berlinguer e il confronto medico-scientifico avvenuto tra l’oncologo campano e il profersso Massimo Galli, dell’Istituto Sacco di Milano. La trasmissione di Canale 5 in una nota fornisce alcune precisazioni sul tipo di servizio andato in onda, dove accusava Ascierto di aver “copiato” il trattamento del farmaco anti-artrite Tocilizumab dai cinesi accusandolo di una “pessima figura”. “In merito alla notizia della querela presentata dalla Direzione dell’Istituto Nazionale Tumori IRCCS Fondazione Pascale e dal prof. Paolo Ascierto nei confronti di Striscia la notizia, vogliamo precisare, come già specificato nei giorni scorsi, che non era nostra intenzione entrare nel merito del curriculum e della storia professionale dei due esperti. Né, a maggior ragione, valutare i protocolli sanitari in atto per attribuire il primato della scoperta a uno o all’altro o a nessuno dei due. Il nostro servizio si è semplicemente limitato a riproporre il confronto televisivo tra i due medici, andato in onda nel programma di Bianca Berlinguer, durante il quale il dottor Ascierto non è stato in grado di controbattere in modo efficace alle contestazioni del professor Galli. La missione di Striscia la notizia è da sempre quella di fare satira televisiva ed è quello che continuerà a fare. Cogliamo l’occasione per ringraziare medici, infermieri, operatori sanitari e tutte le figure coinvolte per lo straordinario lavoro che stanno svolgendo”. La controparte ha invece ritenuto il servizio” montato ad arte e gravemente lesivo dell’onore e della reputazione del prof. Paolo Ascierto e dell’Istituto Nazionale Tumori IRCCS Fondazione Pascale, oltre che del tutto inopportuno e inappropriato in relazione alla drammaticità del momento che si vive, denotando una mancanza assoluta di sensibilità, specie nei confronti dei medici impegnati in prima linea e di quanti, come il prof. Ascierto, sommessamente sperimentano trattamenti terapeutici e cure, peraltro con risultati positivi”.
Perchè Striscia la Notizia dimentica le parole di Galli e si accanisce con Ascierto? Data cruciale.... Il noto giornale satirico dovrebbe ricordare le parole del famoso infettivologo dell'ospedale "Sacco" di Milano: una previsione totalmente sbagliata. Luca Cirillo su areanapoli.it il 20 marzo 2020. E' di oggi la notizia che la Direzione generale dell'Istituto nazionale tumori Irccs Fondazione Pascale e il professor Paolo Ascierto hanno dato mandato all'avvocato Andrea Castaldo per sporgere querela per diffamazione aggravata nei confronti del direttore responsabile e del conduttore di Striscia la Notizia e di quanti hanno curato il servizio trasmesso il 17 marzo che ha richiamato la trasmissione "Carta Bianca" di Bianca Berlinguer e il confronto medico-scientifico avvenuto tra Ascierto e il professor Massimo Galli sul tema della sperimentazione del farmaco Tocilizumab su pazienti affetti da coronavirus. L'Istituto Pascale e il professor Ascierto "ritengono il servizio su richiamato di Striscia la notizia, montato ad arte, gravemente lesivo dell'onore e della reputazione di Paolo Ascierto e dell'Istituto Nazionale Tumori Irccs Fondazione Pascale, oltre che del tutto inopportuno e inappropriato in relazione alla drammaticità del momento che si vive, denotando una mancanza assoluta di sensibilità, specie nei confronti dei medici impegnati in prima linea e di quanti, come Ascierto, sommessamente sperimentano trattamenti terapeutici e cure, peraltro con risultati positivi". Al di là di ogni possibile polemica e satira, una domanda sorge spontanea senza alcun tono polemico: perchè Striscia la Notizia che definisce "figuraccia" quella del Prof. Ascierto (ovviamente in maniera forzata e del tutto fuori luogo anche se è un giornale satirico), non va a ripescare le parole del Prof. Galli? Quali? C'è una data cruciale, ovvero il giorno 10 febbraio. Quel giorno, in un convegno Medico a Milano, il noto infettivologo dichiarò: "In Cina è in netta crescita per quanto riguarda la zona di Wuhan, anche se negli ultimi due giorni l’incremento è stato proporzionalmente inferiore rispetto ai giorni precedenti. Quindi dobbiamo attendere una o due settimane per capire dove si andrà a parare e sarà molto importante considerare le epidemie satelliti, ovvero la presenza del virus in altre grandi aree urbane della Cina. Rispetto a quanto ci si poteva attendere, la diffusione a livello internazionale di questo virus è stata molto inferiore rispetto a quanto è capitato ad esempio per la SARS nel 2003. Questo vuol dire che le misure di limitazione dei viaggi assunte abbastanza presto hanno consentito di contenere il fenomeno e questo vale soprattutto per il nostro Paese dove abbiamo solo tre casi importati. Si tratta – ha proseguito – di due cittadini cinesi e uno italiano, persone che si sono infettate poco prima di partire dalla Cina e da Wuhan nel caso specifico. La malattia da noi difficilmente potrà diffondersi: l’esiguità del numero dei casi riscontrati fino ad ora e la modalità con cui si sono manifestati in persone che si sono infettate poco prima di partire da Wuhan, ci dà la dimensione del contenimento complessivo della problematica". Forse è più questa una brutta figura? Forse... Del resto, errare è umano. Restiamo umani.
Striscia la Notizia nei guai: la fake news su Reggio Calabria. Linda l'01/04/2020 su Notizie.it. Striscia la Notizia smentita dall'ospedale di Reggio Calabria: la fake news denunciata dalla struttura sanitaria. Tutti sono ormai a conoscenza del grande gesto compiuto da Fedez e Chiara Ferragni nel raccogliere fondi per il San Raffaele di Milano. La loro iniziativa ha del resto spinto molte persone ad aprire altre sottoscrizioni destinate a diverse strutture ospedaliere di tutta Italia. Proprio in questo frangente anche Striscia la Notizia ha voluto realizzare un servizio per aiutare gli italiani a scegliere delle campagne solidali serie e che non siano delle truffe. Prima di fare la propria donazione, ognuno deve quindi assicurarsi che l’attività sia svolta su siti web ufficiali e confermati. In tale contesto, anche l’ospedale di Reggio Calabria ha deciso di aprire una campagna solidale sul sito GoFundMe. Tuttavia qualche giorno fa Striscia la Notizia ha fatto notare al suo pubblico come sulla piattaforma non risultasse ancora tale struttura nell’accettazione della campagna. Il tg satirico di Antonio Ricci ha invece precisato come il San Raffaele di Milano abbia dato la propria autorizzazione. Stando dunque al programma di Canale 5, il rischio era che il denaro raccolto potesse finire sul conto corretto del soggetto creatore della campagna e non all’ospedale vero e proprio. La replica non è tuttavia tardata ad arrivare. La notizia è stata infatti smentita direttamente dei colleghi del tg satirico di Mediaset. Nelle ultime ore il GOM ha di fatto firmato una delibera con cui ha autorizzato ufficialmente la donazione della raccolta fondi dei cittadini calabresi. È stato infine messo in chiaro come nel servizio di Striscia la Notizia sia stata data sostanzialmente una fake news.
Enrico Mentana, un "anche" di troppo? Criticato da alcuni napoletani, replica: "Ridicoli piagnoni, imparate l'italiano". Libero Quotidiano il 02 aprile 2020. Enrico Mentana nella bufera. A far discutere è un post pubblicato dal direttore del Tg La7 sul suo profilo Facebook. Qui il giornalista condivide un articolo dal titolo: “Ma a Napoli c’è anche un’eccellenza nella lotta al coronavirus: il Cotugno”. A rimarcare il pezzo, il suo commento: "A Napoli c’è anche un’eccellenza“. E così, per l'"anche", è stato preso di mira da non pochi utenti: sono più di 9mila i commenti lasciati e ai quali Mentana non evita di rispondere. “Ridicoli piagnoni che vi attaccate a un semplice anche, imparate l’italiano - scrive -. Amo Napoli più di voi evidentemente”. Una frase che ha gettato benzina sul fuoco, alimentando ancora di più la polemica in corso: "'Anche', è proprio più forte di voi. Intanto qui nessuno ci pensa e l'eccellente personale sanitario fa i salti mortali per assistere con i pochissimi mezzi messi a disposizione chi ha la "fortuna" di poter essere curato. L'eccellenza qui c'è sempre!" scrive una ragazza mentre qualcuno le fa eco: " ... “anche”...Non cambierà mai. E non parlo di lei, direttore. Ma della discriminazione generale verso il Sud. Insomma, tutti contro Mentana.
Per i media inglesi il Cotugno è un modello per l’Italia. Per Mentana: “A Napoli c’è anche un’eccellenza”. Da Chiara Di Tommaso l'1 aprile 2020 su Vesuvio Live. Il Cotugno di Napoli è un’ospedale modello per tutta l’Italia, una mosca bianca. A dirlo è un servizio, ricco di elogi, fatto da Skynews, una delle fonti più autorevoli nel campo dell’informazione. Sotto la lente di ingrandimento finisce un dato significativo: quello dei medici e infermieri che non sono stati contagiati dal coronavirus nell’Ospedale napoletano. Un dato in controtendenza rispetto a quello di tutta Italia dove si registrano oltre 8 mila contagi nel personale sanitario. Ma in un articolo di Open, questa notizia viene leggermente cambiata. Come? Semplicemente nel titolo:
“Ma a Napoli c’è anche un’eccellenza nella lotta contro il Coronavirus: il Cotugno”.
Il ma a inizio frase indica un certo atteggiamento avversativo a una notizia che è invece solo positiva. Una scelta ben precisa perché come sostiene la Treccani, “Il caso più noto e studiato è quello del ma che, oltre a essere usato come congiunzione coordinativa con valore avversativo, ha una serie di usi pragmatici, che segnalano cioè un atteggiamento del parlante rispetto all’enunciato stesso o all’enunciazione. In questi casi il ma è solitamente collocato in apertura di frase. Un primo esempio è rappresentato da frasi esclamative abrupte in cui il ma segnala la contrarietà del parlante (ma tu guarda!, ma bravo!, ma no!). Il ma può essere inoltre usato a inizio di frase con un valore parafrasabile all’incirca come «nonostante sia vero quanto detto (o presupposto) finora, più importante ancora è quello che segue …». Lo si incontra nello scritto dopo una pausa forte (marcata da un punto o punto e virgola) o a inizio assoluto di testo, per segnare il passaggio ad altro argomento o per rinviare enfaticamente a un argomento noto”.
Peccato che l’intero articolo racconti solo dell’elogio di Sky News al Cotugno e manchi del tutto il riferimento a un altro argomento, appunto avversartivo. Resta quindi un titolo fuorviante che genera solo commenti negativi. Anche il fondatore di Open, Enrico Mentana, posta questa notizia sul suo profilo Facebook riportando, in parte, il titolo dell’articolo.
“A Napoli c’è anche un’eccellenza”
Qui è la parola ‘anche’ ad aver suscitato più di una reazione nei lettori. In tantissimi infatti sotto al post criticano la scelta del giornalista di aver usato quella congiunzione.
Scrive Raffaele: “Che significa “a Napoli c’ è anche un eccellenza”? lo ritengo abbastanza offensivo da un professionista come lei. Ha perso tutta la mia stima”.
Mentre Tiziana commenta: “L”anche” poteva essere evitato… mettendolo sta affermando che il resto non è eccellenza o, addirittura, induce a pensare che il resto è al di sotto dei livelli standard (per non dire, alla napoletana, il resto è munnezz)”.
Ma c’è anche chi pensa che questa sia stata solo una mossa per ottenere più like, come Paolo che scrive: “Quell’ “anche” è molto triste, so che l’ha messo per far sollevare un ennesima polemica, ma offende tanti che in questo momento, fuuri dal Cotugno, si stanno facendo in quattro contro il Virus. Rettifichi il titolo, non approfitti di questo momento di grande emotività per racimolare qualche commento o like in più”.
Sanità in Puglia, lo scandalo dell'Ospedale di Mottola. La7 30/03/2020. Nell'Italia in emergenza per il Coronavirus a Mottola, vicino Taranto, c'è un Ospedale nuovo che è praticamente chiuso. Danilo Lupo è andato a scoprirlo. Giampiero Barulli, il Sindaco di Mottola:"E' una vergogna italiana!".
Tgnobaonline 31-03-2020. Ospedale di Mottola attaccato da La 7, ma la Asl svela falso scoop. Un ospedale nuovissimo, chiuso e inutilizzato per l’emergenza coronavirus, parliamo dell’Umberto primo di Mottola finito nel tritacarne mediatico
Servizio di Francesco Iato. Riprese e montaggio di Pasquale D'Attoma. Intervista a Stefano Rossi, direttore generale Asl Taranto.
Chi c'è dietro l'ondata di fake news sul coronavirus riversata sull'Italia. Il nostro Paese, è l'allarme del Copasir, è al centro di una campagna di disinformazione che, secondo l'Ue, viene da lontano e riguarda tutta l'Europa. Abbiamo fatto il punto con chi, a Bruxelles, ha il compito di tenere alta la guardia. Marco Gritti il 8 marzo 2020 su Agi. Non è soltanto il SARS-CoV-2 a diffondersi in maniera sempre più capillare in tutto il mondo: accanto all’emergenza sanitaria dovuta al coronavirus, infatti, aumentano i casi di notizie false. Capitano gli errori dovuti alla fretta di comunicare o alla leggerezza nello scrivere, certo, ma qui parliamo soprattutto delle vere e proprie teorie strampalate, complottismi che sfidano le prove offerta dalla comunità scientifica, e ricostruzioni fantasiose alimentate da interessi politici ed economici. Tante, stando almeno ai rapporti del progetto europeo EUvsDisinfo, sono le bufale provenienti dalla Russia. EUvsDisinfo è gestito della task force East StratCom, il gruppo di lavoro creato nel 2015 dal Servizio europeo per l'azione esterna (SEAE, il servizio diplomatico dell'UE) per tenere traccia e cercare di contrastare le campagne di disinformazione lanciate da Mosca contro l'Unione europea, i suoi stati membri e i paesi limitrofi. In queste settimane di emergenza coronavirus, si legge sul sito, i casi di notizie manipolate nelle quali c’è lo zampino del Cremlino non sono poche.
L’allarme di Bruxelles: “Diffondere disinformazione significa giocare con la vita altrui”. A lanciare l’allarme fake news, il 23 marzo, era stato anche l’Alto rappresentante dell'Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell: “Sul coronavirus stanno circolando molte informazioni inesatte, tante leggende e in generale parecchia disinformazione in tutto il mondo - sosteneva il capo della diplomazia europea - Fare disinformazione significa giocare con la vita delle persone”. Ma quali sono queste storielle? Secondo EUvsDisinfo, il primo caso noto di disinformazione orchestrata da Mosca risale alla fine di gennaio: l’ipotesi, apparsa sul portale Sputnik Bielorussia, è che il virus sia stato messo a punto nei laboratori della Nato in Cina e che la sua diffusione nell’Hubei sia collegata alle imminenti elezioni negli Stati Uniti. Lo scopo di tutto questo, in particolare, sarebbe il tentativo del mondo occidentale di obbligare Pechino ad accogliere in Cina, nel prossimo futuro, esperti della Nato, praticamente delle spie in grado di mettere il becco nella gestione degli affari politici ed economici di Pechino. Al momento, però, ogni evidenza scientifica indica che l’origine del virus sia di origine animale: niente a che vedere con presunti laboratori della Nato.
Negli Usa, in Cina o nel Regno Unito? Le fake sull’origine del virus. Ciò che ha messo in allarme il SEAE è il tipo di pubblicazioni sulle quali queste notizie false sono apparse: EUvsDisinfo sottolinea infatti come in molti casi si tratti di media che hanno legami più o meno diretti con il governo russo: oltre a Sputnik (finanziata dal Cremlino), c’è ad esempio l’emittente televisiva TV Zvezda, posseduta dal ministero della Difesa di Mosca. Tornando ai temi delle fake news, come detto uno dei più ricorrenti riguarda l’origine del virus, inteso come un’arma chimica messa a punto da un governo per sconquassare gli equilibri mondiali. Una volta l’origine andrebbe ricercata in Cina (il paese che, secondo questa teoria, si troverebbe in prima linea nello sviluppo di un vaccino e che in questo modo lo potrebbe rivendere guadagnando un mucchio di soldi), un’altra volta gli americani, e a volte ci finisce di mezzo anche il Regno Unito (il virus, in questo caso, proverrebbe dallo stesso laboratorio dove si è lavorato ad avvelenare Sergej Skripal). Un altro grande filone riguarda i motivi per cui questo virus sarebbe stato diffuso. In un articolo pubblicato sulla versione lettone di Sputnik, vengono citate tante teorie sugli effetti della pandemia: aiuterebbe il Partito Comunista Cinese a fermare le proteste di Hong Kong, quello francese a frenare le proteste dei gilet gialli, e l’Italia a risolvere il problema delle pensioni. L’Europa, poi, potrebbe tirare un sospiro di sollievo rispetto all’emergenza migranti provenienti dalla Turchia, e Greta Thunberg trarre profitto per guadagnare ulteriore spinta nella sua battaglia per l’ecologia.
Che fare per opporsi alle fake news? Oltre a spulciare sul database di EUvsDisinfo, che offre risposte alle molte tesi in circolazione (compresa quella che dietro la pandemia vi sia lo zampino di Bill Gates o George Soros), la cosa più opportuna da fare è informarsi da fonti ufficiali o che riportino dati verificabili. Quello scientifico è - e rimane - il metodo migliore per la conoscenza dei fenomeni, cioè comprendere la realtà. Per quanto riguarda i presunti trucchi per sfuggire al contagio (dal farsi un bagno caldo al mangiare aglio), ad esempio, l’Organizzazione mondiale della sanità ha da tempo messo a punto una serie di domande e risposte.
Gabriele Carrer e Francesco Bechis per formiche.net il 30 marzo 2020. Quasi la metà dei post su Twitter pubblicati tra l’11 e il 23 marzo con l’hashtag #forzaCinaeItalia è opera di bot. Prodotto dei cosiddetti account automatizzati è anche oltre un terzo di quelli con l’hashtag #grazieCina. Secondo un’analisi di Social Data Intelligence realizzata per Formiche dal Lab R&D di Alkemy SpA, in collaborazione con Deweave, Luiss Data Lab e Catchy, il 46,3% dei post su Twitter pubblicati tra l’11 e il 23 marzo con l’hashtag #forzaCinaeItalia, quasi la metà, è stata generata da bot, account automatizzati creati con il preciso scopo di fare da cassa di risonanza. Lo stesso vale per un altro popolare hashtag, #grazieCina, che nello stesso arco di tempo ha dato ampia eco all’operazione diplomatica cinese: più di un terzo dei tweet che lo contenevano, il 37,1%, era prodotto da bot. La propaganda del governo cinese in Italia è entrata dunque in una nuova fase. Il 12 marzo un Airbus A-350 della China Eastern proveniente da Shanghai è atterrato all’Aeroporto di Fiumicino con a bordo nove medici specializzati cinesi dall’Hubei e trenta tonnellate di materiale sanitario. Nei giorni precedenti e successivi all’arrivo, l’account Twitter dell’ambasciata cinese in Italia (@ambCina) ha dato ampio resoconto dell’operazione, dallo sbarco al tragitto che ha portato l’équipe medica a Padova, utilizzando l’hashtag #forzaCinaeItalia. I cinguettii con questo hashtag hanno ricevuto un numero di “mi piace” e retweet di gran lunga superiore alla norma. Non si tratta di un caso. L’analisi del gruppo di ricercatori, composto da Luca Tacchetti, Alice Andreuzzi, Nicola Piras, Alessandra Spada e Stefano Vacca, si basa su un campione di 47.821 tweet. Grafici alla mano, il livello di attività, coinvolgimento (retweet + like) e gradimento (like) dell’account Twitter dell’ambasciata cinese a Roma e dei post riguardanti l’operazione di soccorso del governo cinese sembrano fotografare un’operazione premeditata che non ha precedenti in Italia. Non è un mistero per chi conosce lo spazio cibernetico l’esistenza sui social network dei bot, account creati ad hoc per aumentare, attraverso post, like, retweet, citazioni, la portata e l’efficacia di un preciso messaggio e assumendo la forma di una eco chamber. È ormai da tempo acclarata l’esistenza di un vero e proprio mercato dei bot cui attingono frequentemente sia attori privati sia entità statuali. Nel caso della propaganda cinese intorno all’arrivo di aiuti in Italia, il team di studiosi ha costruito l’analisi sulla base della definizione di bot offerta dall’Oxford Internet Institute (Oii), che suggerisce alcuni indicatori per riconoscere un account automatizzato da uno vero. Primo: la sua attività. Secondo l’Oii sono sospetti gli account che pubblicano più di 50 tweet al giorno. Secondo: il tasso di amplificazione. Uno dei ruoli principali dei bot è quello di fare da “cassa di risonanza” per alcuni account specifici. La cronologia di un bot tipico è quindi composta da una lunga serie di retweet e citazioni di notizie, con pochi o nessun post originale. Terzo: la sorgente (source), ovvero il tipo di applicazione di provenienza dei tweet pubblicati dagli account. Oltre le classiche applicazioni i bot spesso utilizzano fonti non tradizionalmente riconosciute. Nello specifico i bot filocinesi sono stati individuati per una serie di criteri. Primo, l’attività e la timezone: “Gli account selezionati presentano una media di condivisione post su Twitter di oltre 50 tweet al giorno, arrivando il più attivo a 91,72 post. Tale attività è da considerarsi automatizzata. Ciò si riscontra inoltre dall’analisi della timezone (orario di pubblicazione), presumibilmente falso per via dell’attività continua nell’intero arco della giornata, senza pause tra la notte e il giorno”, spiega il report. Secondo, il tasso di amplificazione: l’attività degli account “è concentrata sul retweet e mention. Gli account selezionati non producono un alto numero di post organici”. Terzo, follower/following: gli account sospetti sono spesso seguiti da altri “account automatizzati”. Quarto, l’affiliazione politica: “Si ritiene che gli account facciamo riferimento alla stessa affiliazione politica, a favore degli interventi cinesi. Interessante che non vi siano riferimenti ad iniziative di altri Paesi (esempio Russia o Usa)”. Quinto, l’handle: “la composizione dei nickname è infatti alfanumerica”, e questo prova come i profili siano “generati da un algoritmo”. Sesto e ultimo, l’anonimato: “Alcuni account presentano lunghi periodi di assenza di comunicazione”. Dal lavoro di Alkemy emerge, inoltre, come gli hashtag #forzaCinaeItalia e #graziecina siano utilizzati in modo limitato: sono sempre secondari rispetto ai temi principali Covid19 e Cina. E tra gli hashtag correlati a #Cina troviamo #Lagarde, #Ue, #Europa ma anche #vergogna, a dimostrazione di come spesso la propaganda sugli “aiuti” cinesi sia stata messa a confronto con un presunto immobilismo dell’Unione europea. Centrale in questa campagna risulta essere l’account ufficiale dell’ambasciata cinese in Italia, molto attivo per post pubblicati per il periodo analizzato. Nonostante ciò, le interazioni rispetto agli argomenti condivisi, da parte degli utenti Twitter, sono episodiche e limitate a singoli eventi. Il picco è stato registrato giovedì 12 marzo in occasione dell’arrivo del volo da Shanghai con gli aiuti cinesi: i tweet dell’ambasciata, molti dei quali contenenti l’hashtag #forzaCinaeItalia, hanno ricevuto un altissimo engagement, spiegano i grafici di Alkemy. L’attività di coinvolgimento subisce in seguito una brusca flessione, attestandosi su un livello comunque molto più alto rispetto alle rilevazioni di febbraio. Ampia condivisone hanno avuto anche tweet riconducibili a fake news. Come il video, rilanciato anche da Hua Chunyinh, portavoce del ministero degli Esteri cinese, per sostenere che gli italiani fossero usciti sui balconi a ringraziare la Cina e a cantare l’inno cinese. Quel video è una fake news, come ha spiegato Pagella Politica. Di particolare interesse anche i profili degli utenti attivi nell’echo chamber cinese. Soltanto uno degli account analizzati presenta nella biografia il messaggio politico “No Nato, No Europa”, gli altri hanno bio più generiche o addirittura vuote. “Alcuni account presentano interessanti casi di “silenzio” ovvero lunghi periodi di assenza di comunicazione – scrivono i ricercatori – l’attività di comunicazione si avvia a ridosso di determinati eventi (ad esempio arrivo in Italia degli aiuti cinesi)”. Si tratta dunque di utenti che rimangono silenti per mesi, o per anni, per poi far registrare un boom di post in concomitanza di eventi pubblici come le elezioni in Emilia-Romagna, il Festival di Sanremo e, con un picco senza paragoni, l’arrivo dei medici da Shangai. Il contenuto dei messaggi spesso cambia di tono, il che sembra suggerire che si tratta di account sul mercato, attivabili a pagamento e a seconda delle necessità. Come si può osservare, l’indice di attività assume valori molto alti per numero di post pubblicati dai singoli account. Si osserva un balzo delle curve in occasione della prima metà di marzo 2020, con l’arrivo degli aiuti dalla Cina. L’indice di coinvolgimento non presenta un trend stabile, ma si registrano picchi delle curve in occasione di singoli eventi. Dai risultati della ricerca di Alkemy sembra emergere una regia dietro la campagna di propaganda che ha circondato l’arrivo di aiuti dalla Cina in Italia. Appaiono dunque fondati i sospetti del Copasir (Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica), l’organo di raccordo fra Parlamento, governo e intelligence che di recente ha lanciato un allarme interferenze straniere in Italia sull’onda della pandemia di coronavirus. Un’emergenza nell’emergenza che è ormai all’attenzione di un fronte bipartisan di politici e studiosi negli Stati Uniti. Laura Rosenberger, direttore dell’Alliance for Securing Democracy e senior fellow del German Marshall Fund, ha evidenziato come il governo cinese abbia mutuato dalla Russia diverse tattiche della disinformazione via internet con lo scopo di ripristinare la propria immagine dopo i ritardi che hanno causato l’esplosione della pandemia a Wuhan. Dalle analisi di Alkemy sembra che queste tattiche abbiamo trovato applicazione in Italia. Con modalità finora inedite.
Marco Travaglio per il “Fatto quotidiano” il 30 marzo 2020. So già che quello che sto per scrivere verrà usato dal Partito Divanista Italiano per attribuirmi cose mai dette né pensate: e cioè che il governo Conte è infallibile e incriticabile perchè va tutto bene. Ma lo scrivo lo stesso. Quello che si sente e si legge in certi social, talk e giornali è benzina sul fuoco della rivolta popolare. E in questo momento di tutto abbiamo bisogno, fuorché di irresponsabili che soffino sulla cenere che cova nelle case di molti di italiani ai domiciliari, senza lavoro nè stipendio, terrorizzati dal contagio e dal futuro, in cerca di un colpevole visibile su cui scaricare la rabbia, essendo il virus invisibile e inadatto alla bisogna. Chiedere un pizzico di responsabilità agli irresponsabili è forse fatica sprecata. Ma forse non tutti lo sono e comunque vale la pena tentare.
Caro Vittorio Feltri, titolare a tutta prima pagina "Assalto ai supermercati". Il cibo c'è, mancano i soldi per comprarlo" per un paio di episodi circoscritti al Sud (enfatizzati anche da Maurizio Molinari su La Stampa) significa incoraggiare altri a provarci. E descrivere l'Italia come un lazzaretto di mendicanti fa a pugni con la tua teoria della "presunta povertà" che ti fece scrivere su Libero il 13.4.18: "Non è vero che siamo alla canna del gas, al contrario il nostro è uno dei Paesi più ricchi del mondo. Peccato che non ce ne accorgiamo perché ci descriviamo quali straccioni I numeri della nostra economia, anche domestica, sono invidiabili. I risparmi privati sono mostruosamente alti". E il 12.5.19 aggiungevi con la consueta eleganza: "Probabilmente quelli che noi, semplificando, cataloghiamo alla voce pezzenti non sono altro che lavoratori in nero, in grado di guadagnare quanto basta onde sopravvivere. Non pagano le tasse e magari ottengono il reddito di cittadinanza I poveri sono più finti che reali, e non abbocchiamo. Chi è squattrinato muore di fame e al presente non si registrano decessi per inedia". Possibile che, dopo un mese scarso di quarantena, siamo già tutti alla fame?
Caro Maurizio Belpietro, continua pure a raccontare ai lettori de La Verità che in Italia il problema non è il virus, ma Conte. Quella è una sciocchezza (secondo me), ma innocua. Però forse titolare sulla "Rabbia di esercito e polizia" e tradurre l' allarme dei Servizi sul Sud "Meridione affamato: tira aria di rivolta" potrebbe rivelarsi un tantino pericoloso. Dai un' occhiata al video postato su Facebook da una gentildonna beneventana che minaccia il sindaco Mastella di andarlo a prendere con 5mila squadristi armati di "mazze di ferro" e capirai cosa potrebbe uscire dal vaso di Pandora, se lo apriamo.
Caro Alessandro Sallusti, il tuo editoriale sullo statista di Rignano che vuole riaprire tutto e dovrebbe fare da cavia con tutta la famiglia, è perfetto. So che sei contro il reddito di cittadinanza, ma non credi che ora sia una benedizione dal cielo che mette al riparo 2,5 milioni di italiani dalla miseria (e da certe idee strane) e andrebbe allargato anziché abolito (come chiede il centrodestra e dunque l' Innominabile)? Persino B., in un lampo di saggezza, lo propose nel 2017. Se non a me, dài retta a lui.
Cari dirigenti dell' Unione sindacale di base, ma che vi dice il cervello quando postate su Fb "Reddito o rivolta"? Ma lo sapete che vuol dire "rivolta"? E contro chi?
Caro Cazzaro Verde, capisco che tu sia in lutto perchè Conte ti ha strappato di mano, anzi di bocca pure la bandiera della polemica contro quest'Europa di bottegai. Dunque continua pure a martellarlo su tutto lo scibile umano. Ma evita, se puoi, di impartirgli lezioni di matematica, tu che non riesci neppure a calcolare il Pil (sbagli di tre zeri), i metri quadri di casa tua ("un bilocale in periferia": sì, buonanotte) e temo pure la tabellina del 2. Prendi nota: se il governo aggiunge per l'emergenza, cioè per questi giorni, 400 milioni al fondo semestrale di solidarietà di 4 miliardi per i Comuni (anche a quelli governati dalla Lega) affinchè aiutino i poveri a fare la spesa, non puoi dividerli per 60 milioni e ricavarne una mancia di "7 euro a testa". Perché i poveri non sono 60 milioni (altrimenti ci saresti pure tu), e neppure 5 milioni (grazie al Rdc votato anche da te e subito rinnegato come le altre poche cose buone fatte a tua insaputa). Sono molti meno: i 400 milioni aiutano le famiglie bisognose per 3 settimane con buoni pasto di 3-400 euro.
Caro (si fa per dire) Innominabile, continua pure a trafficare per buttar giù il governo che hai contribuito a creare. Ma, siccome fino all'altroieri volevi "Tutta l'Italia zona rossa", piantala di chiedere di riaprire tutto dopo il 3 aprile (prima scadenza del "lockdown"). Non per coerenza, che per te è un vizio capitale insieme alla lealtà e alla correttezza, ma per motivi di ordine pubblico. I gruppi Facebook che minacciano rivolte, jacquerie, grand guignol, assalti ai forni e ai supermercati fissano tutti il D-Day al 3 aprile. Quindi evita, per il tuo e nostro bene, di alimentare quest'attesa messianica del 3 aprile. Si dice che chi gioca col fuoco fa la fine del pollo arrosto. Tu pollo già lo sei: vuoi pure finire arrosto?
Marco Palombi per il Fatto Quotidiano il 29 marzo 2020. Un' antica tradizione di studi si dedica all' interpretazione dei testi sacri: da qualche giorno questa nobile attività si esercita, com' è giusto, anche sull' articolo pubblicato da Mario Draghi sul FT . Il testo, d' altronde, si presta: durante una crisi come questa bisogna spendere, non importano i vincoli di bilancio. Mes, non Mes? Bce? Eurobond? Dio solo lo sa: ognuno lì dentro può trovare il suo Draghi e ce lo trova. Sul CorSera l' ex presidente della Bce è "il puntello" di Conte; su Repubblica "voleva rivolgersi all' Europa, e non all' Italia". Per La Stampa, si trattava di "un invito a cedere rivolto a quel ministero (il Tesoro, ndr) nel quale diversi dirigenti si professano suoi seguaci". Sul Sole il vero destinatario dell' articolo è la Bce: "Correttamente non è mai citata, ma il consiglio non è per questo meno chiaro". Nella stessa pagina, però, si sostiene invece che "è significativo" che non abbia nominato la Bce: sono le banche private che devono intervenire, "nella visione di Draghi, il ruolo dello Stato è fondamentale ma quasi privo di discrezionalità". Emmanuel Macron non è d' accordo: "Credo che dica esattamente questo: i governi nazionali devono agire senza limiti". Poi ci sono quelli che hanno già abbandonato gli studi e sono in piena crisi mistica che "Solo Draghi può salvare il Paese" (Italia Oggi). Riassumendo: Draghi puntella Conte, parla all' Europa e pure al Mef, dice alla Bce di darsi da fare, ma anche di non allargarsi troppo, ai governi di stare fermi, ma pure di agire. Unicuique suum (Mario), direbbero all' Osservatore Romano.
Preparano il bavaglio: sarà il potere a decidere chi dice il vero e chi fake news. Chi decide cosa è vero o falso caro Martella? Chi decide chi è esperto dell'informazione e chi no? Chi decide chi dice verità e chi fake news? Il potere. Diego Fusaro su radioradio.it il 28 Marzo 2020. Finora in nome dell’emergenza ci avevano tolto la libertà di muoverci e di uscire di casa, adesso cercano di imbavagliarci togliendoci la libertà di pensiero e di espressione. Il bavaglio è quasi pronto, ecco cosa riporta l’ANSA: “Martella, sanzioni certe contro le fake news. Sottosegretario all’Editoria: ‘Per avere notizie vere e bussole precise bisogna rivolgersi ai professionisti dell’informazione'”. Alcune considerazioni filosofiche. A rigore ciò che dico dovrà essere punito come fake news, perché non solo non proviene dalle fonti ufficiali degli esperti, ma assai spesso le contraddice. Prima che mi sia negato il diritto di farlo mi affretto a dire ciò che penso. L’occidente nega sé stesso in quanto nega uno dei suoi principi fondamentali, la libera ermeneutica, cioè la facoltà di interpretare. Il parametro dell’esattezza vale per le scienze della natura, ma non per quella dello spirito in cui è richiesto il lavoro dell’interpretazione che presuppone che vi siano letture e visioni diverse e anche opposte. Negare la possibilità di punti di vista diversi, squalificando come fake news quelle non coerenti con la linea decisa, significa negare il principio dell’ermeneutica e l’esistenza stessa della democrazia che si basa sul dialogo tra diversi. Chi decide cosa è vero o falso caro Martella? Chi decide chi è esperto dell’informazione e chi no? Chi dice verità e chi fake news? Il potere.
Coronavirus: mancano le mascherine, ma presto avremo i bavagli. Diego Fusaro su Affari Italiani Domenica, 29 marzo 2020. Lampi del pensiero di Diego Fusaro. Ci toglieranno la libertà di pensare e di esprimerci liberamente? Finora ci era stata tolta, in nome dell’emergenza, la libertà di muoverci. E di uscire di casa. Pare che adesso stiano facendo piani di volo per toglierci, sempre per il nostro bene, quella di pensare e di esprimerci liberamente. Il bavaglio è quasi pronto. Stanno ultimando le ultime rifiniture. Insomma, mancano le mascherine, ma presto avremo i bavagli. Ne ha dato puntuale notizia l’Ansa: “Coronavirus: Martella, sanzioni certe contro le fake news”. Il Sottosegretario all’Editoria ha spiegato che, per avere notizie vere e bussole precise bisogna rivolgersi ai professionisti dell’informazione. E ha testualmente aggiunto, con toni che suonano irresistibilmente orwelliani, che “Il Coronavirus cambia e cambierà il mondo. E deve spingere a scrivere la parola fine all'epoca del 'tutti sanno fare tutto'. Se per curarsi bisogna rivolgersi ai medici, per avere notizie vere e bussole precise bisogna rivolgersi ai professionisti dell'informazione". Chiaro, no? Mi siano concesse alcune piccole considerazioni filosofiche. Non ho la pretesa che vengano prese in considerazione. Del resto, non sono un “professionista dell’informazione”, nel senso chiarito da Martella. E dunque ciò che dico non è certo come matematicamente lo è ciò di chi, ad esempio, vi scrive ogni giorno dalla prima pagina di “Repubblica” o vi parla ogni sera da Rai1. Prima considerazione. A rigore, ciò che dico dovrà essere punito come fake news, perché non solo non proviene dalle fonti ufficiali degli esperti, ma assai spesso lo contraddice. Prima che mi sia negato il diritto di farlo, mi affretto allora a dire ciò che penso. L’Occidente nega se stesso, dacché nega uno dei suoi princìpi fondativi e fondamentali: la libera ermeneutica, ossia la facoltà di interpretare. Martella dovrebbe sapere che se nelle scienze della natura può valere il parametro dell’esattezza, esso non vale nelle scienze dello spirito: ove è invece richiesto quell’interpretare che presuppone vi siano versioni e letture diverse, e talvolta anche opposte. Senza essere per forza nietzscheani fautori del teorema per cui “non esistono fatti ma solo interpretazioni”, una cosa è certa: i fatti possono essere variamente interpretati. Ora, negare la possibilità dei punti di vista diversi e delle differenti interpretazioni, squalificando come “fake news” quelle che non risultano coerenti con la linea che si è deciso essere esatta e indubitabile, significa appunto negare il principio dell’ermeneutica. Di più, significa negare la possibilità stessa della democrazia, che si regge sul dialogo tra i diversi, e non su quella delegittimazione del diverso su cui, invece, si fonda il dispotismo. Chi decide che cosa è vero o falso, caro Martella? Il dialogo socratico tra le diverse posizioni, avrebbe detto Platone. Gli esperti dell’informazione, mi dirà invece lei. E chi decide – le domanderebbe ora Socrate – chi è esperto dell’informazione e chi no, chi dice verità indubitabili e chi propala fake news? La risposta è chiara, gliela leggo sulle labbra, anche se – mi rendo conto – non la si può dire, almeno non così brutalmente: il potere decide chi è esperto e chi no, chi è titolato a diffondere la tesi che si presuppone essere vera e chi invece deve essere silenziato perché dice fake news, cioè tesi che contrastano con ciò che giova al potere e dunque è vero. È davvero straordinario come la tesi vera sia sempre puntualmente quella che conferma il potere e il suo ordinamento: ma è il potere che ama il vero o è il potere a decidere cosa deve essere vero? La domanda è legittima e urgente. Ne abbiamo avuto una triste conferma in questi giorni: un servizio del TGR Leonardo del 2015 che diceva cose opposte a quelle che oggi dice la linea ufficiale degli esperti. Quest’ultima ha sostanzialmente dichiarato fake news il servizio del 2015. Ma allora anche gli esperti dicono fake news? O, semplicemente, il potere decide di volta in volta, a seconda dei suoi interessi, cosa sia vero e cosa sia fake news? Eppure dovremmo sapere che il vero è index sui et falsi (Hegel). Il vero non dovrebbe bastare da solo a smascherare, con la sua potenza, il falso? Può davvero dirsi vero e non menzogna supportata dal potere un vero che si imponga per decreto e non in forma dialogata? Il vero, se è tale, non mette a tacere per legge il falso: al contrario, il vero è tale nella misura in cui, mostrando se stesso, mostra in pari tempo la falsità del falso. Senza violenza, senza punizioni a norma di legge. È semmai il falso che, quando vuole a tutti i costi imporsi come vero, deve mettere per legge a tacere il vero, di modo che quest’ultimo non possa più esibirsi. Bisogna sempre diffidare di un vero, che per trionfare, debba ricorrere al silenziamento per legge del suo opposto: è, infatti, storicamente questa una prerogativa della falsità, allorché si trova al potere. Vorrei ricordarle l’ovvio, gentile Sottosegretario: ma anche l’ovvio vuole la sua parte. Se apriamo la strada alla sanzione delle fake news, apriamo la strada alla sanzione, sotto il nome di fake news, di ogni prospettiva divergente dall’ordine simbolico dominante.
Diego Fusaro (Torino 1983) insegna storia della filosofia presso lo IASSP di Milano (Istituto Alti Studi Strategici e Politici) ed è fondatore dell'associazione Interesse Nazionale . Tra i suoi libri più fortunati, "Bentornato Marx!" (Bompiani 2009), "Il futuro è nostro" (Bompiani 2009), "Pensare altrimenti" (Einaudi 2017).
COSE NOSTRE. Coronavirus, cercatori di verità e fake news. Angelo Maria Perrino Mercoledì, 25 marzo 2020 su affaritaliani.it. C’è un portale a pagamento con sede in USA, e conto corrente dove inviare il bonifico per abbonarsi in Irlanda, che dal quindicesimo piano di un grattacielo di New York si impanca a giudice e, in nome della Verità posseduta in esclusiva, addita siti e giornali di tutto il mondo che sul coronavirus, a proprio insindacabile giudizio, diffondono fake news. Il loro mestiere, pagato dai loro lettori, è proprio questo: la caccia senza quartiere delle fake news nel mare magnum della rete internet. Con relativi voti e pagelle. Sotto la mannaia di questo portale e dei suoi vigilantes in rete, indomiti Sherlock Holmes della bufala e arbitri di purezza giornalistica, cadono 131 testate nel mondo e 17 in Italia. Tra questi veniamo additati anche noi di Affaritaliani.it, peraltro in compagnia di siti importanti come Tgcom24.it o politically incorrect come Scenari economici. Questo “portale della Verità”, fondato da un “imprenditore dei media”, ci contesta, bontà sua, solo due articoli, sui 150- 200 che mediamente tutti i giorni mandiamo in rete. Un’inezia, un peccato veniale che ci fa onore, vista l’incertezza che avvolgeva, nei giorni del misfatto, e ancora avvolge, da ogni punto di vista, il fenomeno del virus. Dicono queste vestali newyorchesi della verginità giornalistica che i due articoli sono falsi e non poggiano su fonti certe. Peccato che quello del 2 febbraio porta tanto di firma di una nota dottoressa milanese vicepresidente dell’Istituto malattie croniche. Mentre l’altro dà conto, in un pastone da Roma, del ricovero dei primi contagiati, la coppia di cinesi allo Spallanzani, del diffondersi del virus e anche di un file audio che va diffondendosi in rete, con la voce di un anonimo italiano (presentato con ogni cautela come tale) reduce dalla Cina, che racconta quel che ha visto a Wuhan, denuncia le censure del regime e i sospetti sulle possibili origini artificiali del virus e lancia l’allarme, provvidenziale, sulla gravità dell’epidemia e sui rischi che corriamo. Copertura doverosa, copertura di cronaca con qualche alert. Normale, no? Ma per il portale della verità statunitense in cerca di furbesca pubblicità gratuita, no!!! non si deve!!! Loro consigliano invece: "Per informazioni affidabili sul Coronavirus di Wuhan ti invitiamo a consultare siti di istituti di sanità pubblica come quelli del Ministero della Salute, dell’Ordine dei medici e dell’Organizzazione mondiale della Sanità”. Solo fonti ufficiali, insomma. I giornali? Cacca...Che dire? De minimis non curat praetor, insegnavano saggiamente i latini. Ma all’"imprenditore dei media", come viene definito, che ha fondato questo portale della verità a pagamento, io, da vecchio pioniere della rete con 40 anni di giornalismo professionistico alle spalle, darei un consiglio: anziché emettere condanne sommarie dal suo indebito e usurpato pulpito di etica e deontologia giornalistica, anziché sindacare il sudato e apprezzato lavoro altrui (con Affaritaliani.it siamo a due milioni di pagine viste al giorno, grazie a una credibilità conquistata giorno dopo giorno in 24 anni di lavoro in rete) si provi a dedicare le energie sue e del suo team di vigilantes del web e cacciatori di fake news a produrla qualche notizia sul Coronavirus, mestiere invero un po’ più complicato, anziché fare le pulci al lavoro degli altri. Ciò detto passiamo le pratiche ai nostri legali. E con questi diffamatori (e qualche sito italiano che li ha golosamente rilanciati) ci vediamo in tribunale. Con il vostro Paura (sic) Angelo, estensore-segugio che ha firmato la sentenza di condanna per noi. Se esiste e non è, proprio lui, uno pseudonimo fake.
Nella guerra alle fake news chi decide dov’è la verità? L’ Agcom, l’Autorità garante delle comunicazioni, ha messo in atto una pressante lotta alle fake news. Luigi Mascheroni, Domenica 22/03/2020 su Il Giornale. L’ Agcom, l’Autorità garante delle comunicazioni, ha messo in atto una pressante lotta alle fake news. A radio, tv e web ha chiesto di «assicurare un’adeguata copertura informativa sul coronavirus» - e fino a qui benissimo - «garantendo la presenza di autorevoli esperti del mondo della scienza e della medicina così da fornire informazioni verificate efondate», pena la segnalazione degli illeciti. Volere debellare il virus delle informazioni false o non corrette, in Rete e sui social, è più che legittimo. Ma, al di là dell’appello al controllo delle fonti «non scientificamente accreditate», resta la domanda: quali sono i criteri? Chi e come decide qual è la verità scientifica? Facile denunciare le bufale di un Panzironi. Ma quando a parlare sono virologi e scienziati autorevolima che pure hanno posizione molto diverse, cosa si fa? Per giorni dueluminari dellamedicina sostenevanol’uno che siamoin presenza di una peste, l’altra di un’influenza. E quindi? Per stare nel campo della scienza: si possono anche oscurare i siti dei terrapiattisti. Però abbiamo mandato in Parlamento chi crede alle scie chimiche, e fino a ieri i no-vax avevano sui media una visibilità ben superiore alle loro credenziali scientifiche. Secondo l’Agcom andrebbero tutti disinfestati. Ma è la terapia giusta? Per più di un liberale il comunicato dell’Agcom sa di censura. Quale giornalista può giudicare se un infettivologo ha dignità - o meglio: libertà - di parola o no? Chi valuta la correttezza di un’ipotesi scientifica? L’Agcom? Gli psicologi fanno notare che l’enorme flusso di notizie sul virus crea uno stress emotivo che a sua volta - secondo studi clinici verificati - è direttamente correlato a un abbassamento delle difese immunitarie. Sembra un paradosso. Ma non è una fake new.
VENTI DI CENSURA SPIRANO SULL’ITALIA: OGGI POTREBBE TOCCARE A BYOBLU E DOMANI A CHI? Enrica Perucchietti, Giornalista e scrittrice, il 26 marzo 2020. Ciò che le TV e i media non ti dicono. Venti di censura spirano sull’Europa attizzando i roghi che i novelli tribunali dell’Inquisizione hanno acceso per perseguitare coloro che diffondono le famigerate “fake news”. Venti che non risparmiano nessun Paese, nemmeno il nostro. E anzi, proprio da noi si sta creando un clima di caccia alle streghe, con tanto di denuncia e tentativo di oscuramento di siti alternativi che non si allineano al pensiero unico. È toccato a Byoblu, per esempio: il Patto Trasversale per la Scienza ha chiesto alla Procura l’oscuramento della celebre piattaforma on line per aver intervistato il patologo Stefano Montanari.
Ora si passa alle aule di tribunale. Per chi esulta, sia chiaro che oggi è toccato a loro, domani toccherà a qualcun altro, reo di non sottomettersi alla grancassa mediatica mainstream. O per aver osato dissentire pubblicamente. O, peggio ancora, per aver osato pensare in modo critico. Per essersi cioè macchiato di psicoreato. Sull’ondata dell’emergenza, si stanno stringendo sempre più le maglie del controllo sociale e sorveglianza tecnologica. Stiamo assistendo alla costituzione da un lato di un Miniver orwelliano, che decide cosa è giusto divulgare e cosa no, e dall’altro di un Miniamor con la sua solerte psicopolizia. Come se non bastasse la guerra alle fake news si sta facendo sempre più accesa, serrata, e ancora pochi ricercatori, intellettuali e giornalisti si stanno opponendo a tutto ciò. Quei pochi che sono in prima linea stanno iniziando invece a essere colpiti dai dardi dei mastini del pensiero unico e spero vivamente che in un momento così delicato non vengano lasciati soli. Non è il momento dei protagonismi, questo, ma di serrare le file e fare squadra. Questi provvedimenti riecheggiano, dicevamo, il Ministero della Verità orwelliano, il cui slogan è «La guerra è pace, La libertà è schiavitù, L’ignoranza è forza». Il Miniver si occupa di falsificare l’informazione e la propaganda per rendere il materiale diffuso conforme alle direttive e all’ideologia del Socing. Il Partito, infatti, sottomette le menti dei cittadini tramite il “controllo della realtà”, ossia il bipensiero e niente deve sfuggire alle maglie del suo dominio onnipervasivo. Il Grande Fratello, infatti svuota le menti dei cittadini per riempirle dei propri contenuti, attraverso una costante forma di manipolazione mentale. A settant’anni di distanza dalla pubblicazione del capolavoro distopico le tematiche cardine di 1984 sembrano più attuali che mai. Presto non si potrà più pensare “fuori dal coro”, né dissentire o fare informazione in modo alternativo: si verrà altrimenti accusati di psicoreato. Una forma di psicoreato 2.0 all’interno di questa assurda battaglia contro le bufale, il cui obiettivo è evidentemente imbavagliare il web e non tutelare i cittadini, fare una corretta informazione o contrastare il cyberbullismo. In La libertà di Stampa Orwell osservava come «se si incoraggiano i metodi totalitari, può venire il giorno in cui essi saranno usati contro chi li incoraggia, e non più a favore». Come previsto, in poco tempo siamo arrivati a riscontri impressionanti, degni di una vera e propria distopia. Dietro la campagna contro le fake news si nasconde un evidente tentativo di censurare l’informazione alternativa e il web. In una parola, censurare. Censurare, lo ribadisco, non solo l’opinione, persino il pensiero. Il pensiero critico non può essere tollerato da un potere autoritario che rischia di perdere consenso e di essere osteggiato da forze appunto alternative ma soprattutto libere. Perché, come scriveva Orwell, lo psicoreato non comporta la morte, esso è la morte.
Giallo sul video del Tg Leonardo. Prima scompare da Youtube. Poi riappare. Censura a singhiozzo. Gloria Sabatini giovedì 26 marzo 2020 su Il Secolo d'Italia. Scomparso. Non c’è traccia. Una manina nella mattina deve aver cancellato da Youtube il video del Tgr Leonardo del 2015. Quello dove compariva il servizio giornalistico sulla costruzione in un laboratorio cinese di un virus potente, fatto in provetta, che – solo per casualità – attacca i polmoni umani. Diventato virale, il video ha disturbato la comunità scientifica nazionale. O meglio i media amici degli scienziati politicamente corretti. Poi è riapparso. Un po’ sì, un po’ no. Sarà un caso. Colpa del sistema a rischio tilt? O della norma sul copyright dei servizi Rai e Mediaset che quasi nessuno rispetta? Poco importa. Chi voleva vederlo lo ha visto. E l’imbarazzo degli amici della Cina è grande.
Il video scompare da Youtube. Poi ritorna…“Attenzione”, dicono gli scienziati, quel virus non è lo stesso che ha causato la pandemia che ha messo in ginocchio il pianeta. Certo. Non è lo stesso. E allora? Non si può diffondere un servizio giornalistico di cinque anni fa, che comunque attiene all’attualità sanitaria di queste settimane? Si è complottisti? I politici non possono chiedere lumi su che cosa sia avvenuto dal 2015 a oggi in materia di sperimentazioni cinesi? Ieri sera tutti i tg Rai hanno ospitato le rettifiche degli scienziati. Che, voce solenne e sguardo grave, hanno spiegato ai poveri analfabeti di biologia che il Covid19 è totalmente estraneo a quella sperimentazione in laboratorio. Che il coronavirus ha una natura biologica, naturale bla bla. E che il supervirus artificiale made in China è altra roba. Bla bla. Oggi l’oscuramento del video sulla piattaforma Youtube. “Anteprima non disponibile”. Si poteva vedere solo navigando online sugli archivi Rai. Poi la ricomparsa. Fratelli d’Italia ieri ha osato chiedere lumi. Chissà se qualcuno risponderà. Giorgia Meloni lo ha fatto con un post su Facebook. Matteo Salvini ha fatto più o meno lo stesso. Magari confondendo, nella sua foga consueta, quel virus con il covid19. Tanto che Repubblica si precipita a sfoderane un titolone “Salvini è incappato nell’errore”.
L’interrogazione di Delmastro. Andrea Delmastro, in commissione Esteri della Camera, è sceso in campo. “Siamo sicuri – chiede in un’interrogazione il deputato di Fratelli d’Italia – che il governo cinese abbia comunicato tutto sul coronavirus sulla sua origine e sulla sua diffusione?”. Nonostante le rassicurazioni delle autorità sanitarie di Pechino, insiste Delmastro,” stiamo cercando di scoprire la vera fonte del coronavirus. E di costringere i cinesi a essere più trasparenti nelle comunicazioni del virus. Forse c’è qualcosa in più del pipistrello o serpente come causa della pandemia. Ci auguriamo che le sperimentazioni batteriologiche fatta guarda il caso a Wuhan non c’entrino nulla con quanto sta accadendo oggi”. La risposta alla sua interrogazione, che l’esponente di FdI inserisce in un video su Facebook, è parzialmente soddisfacente. “Ma capiamo – dice Delmastro – che di più ora non potete dirci…”
Coronavirus, vero o falso? La censura delle tv su Trump e la verità su Facchinetti. Per il presidente statunitense il bollettino quotidiano sull'emergenza sta diventato uno spot da campagna elettorale. Il caso dei proventi sulla canzone scritta da due dei Pooh per Bergamo. Riccardo Luna il 30 marzo 2020 su La Repubblica. Mentre gli Stati Uniti diventavano il primo paese al mondo per casi di coronavirus Sars Cov2, lì si apriva un sorprendente dibattito sul tema delle fake news. Alcune fra le principali emittenti radio e tv hanno deciso di non mandare più in onda in diretta la conferenza stampa quotidiana che il presidente Trump tiene dalla Casa Bianca assieme ad alcuni membri della task force sanitaria. Motivo: le cose che dice il presidente sarebbero totalmente antiscientifiche e quindi rischiano di ispirare comportamenti sbagliati nell'opinione pubblica. Lo scontro fra il presidente e i grandi media non è di oggi ma il coronavirus lo ha portato ad un livello mai visto prima. È come se da noi improvvisamente la conferenza stampa di Giuseppe Conte non venisse più trasmessa in diretta per dare modo ai giornalisti di verificare la veridicità delle cose che il premier sostiene (ah già, in quel caso potrebbe riprendere ad andare in diretta sulla sua pagina Facebook). Influisce anche l'imminente campagna elettorale (si vota a novembre): quel punto stampa per Trump è diventato una facile occasione per entrare nelle case degli americani in diretta per un tempo molto lungo, fino a due ore al giorno; d'altro canto, per molti giornalisti, le contraddizioni e le sottovalutazioni del presidente hanno già creato seri problemi di salute pubblica. A mandare in diretta le conferenze stampa è rimasta Fox News.
IMPRECISO. Ieri è stato il giorno dal falso volantino del Ministero dell'Interno, affisso negli androni di alcuni condomini di Roma con l'invito a lasciare subito le case abitate come domicilio per andare in quelle di residenza (raro esempio di fake news analogica e addirittura cartacea). Ma intanto su Whatsapp continua a girare una presunta fake news che probabilmente nasce da un equivoco. Riguarda la canzone "Rinascerò, rinascerai", il canto d'amore di Roby Facchinetti (e Stefano D'Orazio) per Bergamo con tutti i proventi destinati all'ospedale bergamasco Papa Giovanni XXIII. Nel messaggio si afferma che per raccogliere fondi basta guardare il video su YouTube, e quindi le visualizzazioni servono a raccogliere fondi. L'ex Pooh non l'ha presa bene e con un post su Facebook si è dissociato da quel messaggio sostenendo che "l'unico modo per essere d'aiuto è acquistare il brano sulle piattaforme digitali autorizzate". In realtà le cose non stanno così. Nel comunicato stampa di lancio del brano si afferma che "tutti i proventi dei download e dei diritti d'autore ed editoriali saranno totalmente devoluti - rispettivamente da SonyMusic e dalla Siae - a favore dell'ospedale". Quindi valgono anche le visualizzazioni su YouTube. Per monetizzare un brano in questo modo è sufficiente avere un canale con 1000 iscritti; quello di Roby Facchinetti ne ha oltre 30 mila. Il brano intanto è primo su iTunes (download) e su YouTube ha già superato tre milioni di views e quattromila commenti da tutto il mondo, con utenti che aggiungono la traduzione del testo nella loro lingua. Le fake news sono altre.
La “bufala del giorno”: il Pd all’attacco delle fake news. Ma dimentica il brindisi di Zingaretti ai Navigli. Eugenio Battisti de Il Secolo d'Italia giovedì 26 marzo 2020. In mezzo ai tanti post della pagina Facebook del Pd spunta una campagna all’arma bianca contro le bufale giornalistiche. Nascosta tra gli inviti a non mollare. A restare a casa. Interrotta dall’intervento integrale di Graziano Delrio a Montecitorio. “Di fronte al moltiplicarsi incontrollato di bufale e fake news legate all’emergenza coronavirus – si legge – abbiamo deciso di scendere in prima linea. E di denunciare, ogni giorno, la ‘bufala del giorno'”. Lo facciamo – dicono dal partito di Zingaretti (ancora in quarantena?) – perché pensiamo che diffondere notizie incontrollate in queste ore drammatiche sia un fatto di una gravità inaudita. “E lo facciamo perché dietro a tutto questo si nascondono personaggi pericolosi, mitomani, ma anche gruppi che dal caos hanno tutto da guadagnare. E noi questo non possiamo permetterlo”. Da oggi un team di esperti, insomma, comincerà a setacciare le bufale. Bene. Può essere utile. Ma che dire del brindisi sorridente ai Navigli del leader maximo? L’abbraccio di Zingaretti al popolo milanese in piena emergenza contagio? Quello non fu peggio di una fake? Istigazione a fregarsene dell’allarme e abbracciarsi alla faccia di quei fascio-leghisti che invitavano alla cautela e alla quarantena per chi proveniva dalla Cina. “Abbiamo deciso di cominciare da una bufala che per noi è particolarmente grave. Perché va a toccare le nostre corde più esposte. E gioca con la speranza, che è quanto ci resta di più prezioso. Nei giorni scorsi è circolata in varie lingue, per arrivare anche in Italia. Spaccia questa immagine di test diagnostici della Sugentech per un vaccino capace di “togliere l’infezione in tre ore”. Pronto per essere lanciato da Trump domenica prossima. È una bufala! Sperimentazioni per un vaccino sono in corso, ma ci vorrà ancora del tempo. E i vaccini non tolgono le infezioni, ma le prevengono”. In mezzo al dramma del contagio, agli italiani che piangono i familiari morti, il Pd non resiste alla tentazione di andare all’attacco di Trump. Per non perdere l’allenamento. “Da oggi lo diciamo noi: facciamo girare! E segnaliamo ogni notizia che ci sembra sospetta o palesemente inventata. E soprattutto, condividiamo con responsabilità”.
Social impazziti: in Italia si parla solo di Coronavirus. E spesso sono fake news. Claudio Rizza su Il Dubbio il 19 marzo 2020. E’ un’infodemia, cioé una produzione continua e fuori controllo di informazioni h.24, messaggi veri e falsi, con gli stessi dati, le stesse paure, minimizzazioni, allarmi, raccomandazioni, consigli, pontificazioni. Altro che coronavirus, la vera pandemia è quella social. E’ l’isteria collettiva che ha inquinato il web e che Andrea Barchiesi, capo della Reputation Manager ed esperto della Rete, ha illustrato con poche cifre esemplificative: in Italia i contenuti on line sul virus hanno un rapporto di 1:3000. Nel mondo, invece, si scende a 1:200, cioé quindici volte meno. E’ un’infodemia, cioé una produzione continua e fuori controllo di informazioni h.24, messaggi veri e falsi, con gli stessi dati, le stesse paure, minimizzazioni, allarmi, raccomandazioni, consigli, pontificazioni. Il tutto a reti unificate, tra notizie, commenti, talk inesauribili, professionisti e dilettanti allo sbaraglio, la Babele in cui stiamo vivendo. Gli esperti la chiamano “autoinduzione circolare” e, come spiega Barchiesi, “i casi reali crescono in modo moderato, la percezione cresce in modo esponenziale”. E si spiegano i supermercati svuotati, l’amuchina più cara del caviale, le borse a picco, e le esplosioni di irrazionalità che lasciano nei supermercati invenduta la birra messicana Corona. Bisogna difendersi dalle fake news, e per primi tocca ai media, controllando le notizie e le fonti, sbugiardando i falsari, con il massimo rigore. Ma stando chiusi a casa, s’intende.
Riccardo Luna per “la Repubblica” il 22 marzo 2020. Man mano che i numeri della pandemia crescono, il clima cambia ovunque. In Sud Africa il governo ha stabilito che chi diffonde fakenews sul coronavirus rischia fino a 6 mesi di carcere; negli Emirati arabi si arriva a 5 anni con espulsione dal paese; in Marocco l' altro ieri ci sono stati una dozzina di arresti di persone accusate di aver diffuso sui social media notizia false sulla pandemia. È evidente che in un momento di panico generale diffondere notizie false può creare danni collaterali importanti: in India per esempio all' inizio di febbraio su Whatsapp hanno iniziato a circolare messaggi che collegavano il Covid-19 ai polli. Visti i precedenti con l' influenza aviaria, i messaggi sono stati presi sul serio e inoltrati a milioni di persone e un mese dopo la vendita di polli ed uova era crollata del 70 per cento. Anche per questo ieri Facebook ha annunciato un accordo col governo indiano che prevede una chat dedicata su Whatsapp chiamata "don' t panic".
ALCOL. Anche in Sud Africa Facebook ha fatto un accordo con il governo e varato una chat su Whatsapp. Una delle prime applicazioni è stata spiegare perché è stato deciso di limitare la distribuzione e la vendita di alcolici in questo momento. Nella chat dicono per esempio che bere alcol non ci proteggerà dal coronavirus ed anzi renderà il sistema immunitario più debole e le decisioni meno lucide. Per combattere lo stress, è la conclusione, ci sono metodi più efficaci. (Va detto che l' Organizzazione mondiale della Sanità non ha mai evidenziato effetti benefici degli alcolici per fermare coronavirus, ma la credenza che invece possano averne nelle settimane scorse aveva causato alcune decine di morti in Iran).
SUPERMERCATI. Su vari gruppi Whatsapp nostrani gira la notizia di una promozione di supermercati che regalano 200 euro di sconti su certi prodotti a chi compila un sondaggio. È una bufala, segnala Covid19ItaliaHelp. Ma anche il video che gira sempre in Italia dove si vede la gente che prende d' assalto un supermercato in Germania non si riferisce al panico da virus, ma ad un episodio dello scorso anno quando tutti volevano fare la spesa con i coupon.
DELFINI. Il National Geographic ha segnalato delle fake news meno dannose ma non per questo meno infondate: su Tik Tok e Instagram nei giorni scorsi diversi utenti hanno condiviso foto di delfini e cigni nei canali deserti di Venezia e di elefanti; mentre su Weibo, un social network cinese, circolavano foto di elefanti che avevano invaso un villaggio e si erano ubriacati bevendo vino. Quello che tiene assieme questo tipo di post, secondo la prestigiosa rivista, è una presunta rivincita della natura mentre gli esseri umani si sono barricati in casa. Ma i cigni a Venezia non sono una novità, soprattutto a Burano; le foto dei delfini erano state scattate in Sardegna. Mentre in Cina c' è stata una indagine governativa per venire a capo della questione e si è scoperto che una dozzina di elefanti la settimana scorsa hanno effettivamente fatto irruzione in un paio di villaggi, ma questo accade abitualmente. E comunque non erano gli elefanti della foto postata sui social.
Covid-19 e bufale, ecco come orientarsi. Il Dubbio il 21 marzo 2020. Ecco le principali fake news smentite dal ministero della Salute. Il ministero della Salute prova a prevenire il diffondersi delle bufale, nel tentativo di contenere il panico e l’insorgere di comportamenti potenzialmente dannosi per la salute, raccomandando di cercare informazioni sul nuovo coronavirus e sulla malattia che provoca «su fonti istituzionali ufficiali e certificate». Sono numerose, infatti, in questo periodo, le fake news su siti web e social network, «che inducono ad assumere comportamenti non corretti e inefficaci per prevenire il contagio da nuovo coronavirus». Ecco quelle più frequenti:
1) I farmaci antivirali prevengono l’infezione da nuovo coronavirus
FALSO- Non ci sono evidenze su una loro azione preventiva
2) La Tachipirina cura l’infezione da nuovo coronavirus
FALSO – La tachipirina svolge un’azione antipiretica ed è quindi molto utile in caso di febbre alta, ma non cura l’infezione da nuovo coronavirus
3) Mangiare aglio può aiutare a prevenire l’infezione da nuovo coronavirus
FALSO- L’aglio è un alimento con alcune proprietà antimicrobiche ma non ci sono evidenze di azione preventiva nei confronti del nuovo coronavirus
4) Bere tanta acqua lava il virus dalla vie aeree e lo spinge nello stomaco dove viene distrutto dall’acido
FALSO- L’acqua non lava via il virus e non serve per prevenire il contagio
5) Mangiare tante arance e limoni previene il contagio perché la vitamina C ha azione protettiva nei confronti del nuovo coronavirus
FALSO- Non ci sono evidenze scientifiche che provino un’azione della vitamina C sul virus
6) Mangiare tante proteine aumenta l’efficacia del sistema immunitario
FALSO- Non ci sono evidenze che superare la normale dose giornaliera di proteine raccomandata (0,8gr. per kg di peso corporeo, se non si svolgono attività fisiche pesanti) fornisca benefici al sistema immunitario
7) Gli antibiotici prevengono l’infezione da nuovo coronavirus
FALSO- Gli antibiotici non hanno effetto sui virus e quindi neanche sul coronavirus
8) Il virus Sars-CoV-2 vola nell’aria fino a 5 metri
FALSO- Non esistono evidenze scientifiche
9) Bere acqua o bevande calde uccide il virus
FALSO- Il virus è in grado di resistere e replicarsi alla temperatura corporea che è di circa 37°
10) Il nuovo coronavirus può essere trasmesso attraverso le punture di zanzara
FALSO- Il nuovo coronavirus è un virus respiratorio che si diffonde principalmente attraverso le goccioline generate quando una persona infetta tossisce o starnutisce, o attraverso goccioline di saliva o secrezioni dal naso
11) Il risciacquo regolare del naso con soluzione salina può aiutare a prevenire l’infezione da nuovo coronavirus
FALSO- Non ci sono prove che il risciacquo regolare del naso con soluzione salina protegga le persone dalle infezioni da nuovo coronavirus
12) Una lampada a raggi ultravioletti può uccidere il nuovo coronavirus
FALSO- Le lampade UV non devono essere utilizzate per sterilizzare le mani o altre aree della pelle poiché le radiazioni UV possono causare irritazione
"Ora più che mai bisogna lottare contro le fake news". La conduttrice di «Agorà»: «Servizio pubblico è anche mettere ordine nel diluvio di notizie». Laura Rio, Sabato 21/03/2020 su Il Giornale. Lei non è andata in onda per un solo giorno, lunedì scorso. Martedì, dopo gli accertamenti, le autorità sanitarie hanno stabilito che si poteva continuare: Serena Bortone nella sua Agorà, al mattino su Raitre, aveva avuto una decina di giorni fa tra gli ospiti Anna Ascani, vice ministro dell'Istruzione, risultata positiva al Coronavirus.
E quando lo si è saputo, come per altri programmi, si era scelto di sospendere.
Serena, avevi temuto di chiudere il programma?
«Temuto non è una parola che mi appartiene. La priorità è la salute, non tanto la mia, quanto di chi mi sta vicino. Ciò detto, nel rispetto delle regole previste, tra cui fondamentale è il distanziamento, sono contenta che Agorà sia tornato in onda. Il servizio pubblico è fondamentale».
Ti senti addosso una grande responsabilità. Tutte le tv sono in prima linea, ma la Rai lo è ancor di più, perché diventa un collante del Paese...
«Assolutamente. Ogni mattina quando entro in studio, sento l'enorme importanza del nostro lavoro. Dobbiamo informare con severità ma anche con calma, senza trasmettere panico. Chiarezza e sorriso sono gli elementi fondamentali da trasferire a chi ci ascolta».
Non è semplice...
«Infatti, nostro compito è aiutare il cittadino a districarsi sia nella comprensione delle misure sanitarie da prendere, sia nell'evoluzione della ricerca medica che sta studiando i possibili rimedi, sia nelle disposizioni governative. Dobbiamo comunicare che lo sforzo che i cittadini stanno affrontando è per il bene di ognuno, dei propri cari e di tutti».
Fondamentale è anche contribuire a fare chiarezza nel diluvio di notizie.
«Infatti. Tra tv, social, web stanno circolando tante fake news. Per questo, ogni giorno, con un esperto, rispondiamo alle domande e smontiamo le sciocchezze. Fin da subito, da quando arrivarono le prime notizie dalla Cina, decidemmo di aprire una finestra nel programma. Poi non ci siamo più fermati».
Gli spettatori hanno voglia anche di calore, di solidarietà.
«È il nostro core business da sempre, mettere in contatto il territorio, le fragilità locali, con la politica. E lo abbiamo accentuato in questa emergenza. Ci siamo attivati per raggiungere le persone chiuse in casa, e i medici e gli infermieri negli ospedali che raccontano la situazione drammatica che stanno affrontando».
Non solo bollettino di guerra, anche consigli utili e messaggi positivi.
«Mai come ora in tv arrivano esempi di solidarietà. Per esempio, noi ci colleghiamo tutte le mattine con Roberto Cighetti, insegnante di scienze di Codogno, che ci racconta come prepara le lezioni per i suoi studenti, ci fa vedere la sua famiglia, ci parla dei preparativi del matrimonio del fratello. Oppure sentiamo lo psicanalista positivo al virus che, da casa, si collega con i suoi pazienti».
Pensi che Skype e degli altri mezzi di collegamento siano di grande aiuto?
«Certo, utili e anche di buon esempio, visto che le autorità sanitarie ci chiedono di non andare in giro. Le immagini non saranno perfette però in questa situazione arrivare al maggior numero di persone possibile è più importante della qualità del video. Anche il semplice telefono è efficacissimo».
Però molti inviati sono ancora sul campo.
«E li ringrazio e ne ammiro il coraggio. Come quello di chi resta negli studi a garantire le trasmissioni. Del resto l'alternativa sarebbe togliere alla gente l'informazione. La nostra squadra ora lavora in smart working. I nostri inviati osservano tutte le precauzioni necessarie e quando torneranno a Roma dovranno stare in quarantena».
Le forme di agilità sperimentate potrebbero cambiare il modo di fare informazione?
«Beh, ricordiamoci che la tv di Stato ha sedi in tutti i capoluoghi. E dotazioni che garantiscono qualità dell'immagine. Ma è una sperimentazione utile soprattutto nelle situazioni di emergenza».
Cosa rappresenta la Tv in tutto questo?
«La Rai, si sa, è lo specchio del Paese. Il Coronavirus mette insieme due elementi diversi rispetto al passato: la paura (dell'altro) e il controllo (contro il diffondersi del virus). Noi riusciremo a vincere questa battaglia se supereremo l'elemento della paura. E per fare questo dobbiamo rispettare le regole che ci hanno dato. Mi viene in mente Cecità di Saramago che racconta di un contagio attraverso gli occhi: se innestiamo una guerra uno contro l'altro abbiamo solo da perdere. Se usiamo la ragione e la tolleranza, se mettiamo a disposizione azione e sentimenti in un momento in cui non possiamo condividere nulla, come paese ne usciremo più forti di prima».
GIANLUCA ODDENINO per lastampa.it il 18 marzo 2020. Dal terremoto alle false notizie. Cristiano Ronaldo sta vivendo la sua «quarantena» a Madeira, l’isola al centro dell’Oceano Atlantico dove è nato e risiede la sua famiglia, ma resta al centro delle attenzioni. Non solo quelle mediatiche, con il mistero della notizia di voler trasformare gli hotel CR7-Pestana in ospedali gratuiti per combattere il coronavirus, ma anche della natura. Questa mattina due forti scosse di terremoto di magnitudo 4.5 hanno svegliato bruscamente Funchal e i suoi abitanti. Tra questi lo stesso Ronaldo, in isolamento volontario dopo essere rientrato dall’Italia per lo stop al campionato e così poter stare vicino alla madre, recentemente colpita da ictus. Cristiano Ronaldo sta bene, ma a sua insaputa è stato coinvolto in uno strano caso di fake news. In mattina il quotidiano sportivo Marca aveva dato la notizia del gesto dell’attaccante juventino di trasformare gli hotel portoghesi della sua catena in ospedali momentanei, per ospitare chi verrà colpito dal coronavirus con tutti i costi a suo carico. La notizia era stata lanciata da «Arena Desportiva», con tanto di dettagli, ma la persona citata nell’articolo (Paula Carvalho, presidente dell’associazione noprofit «Essencia Humana») ha smentito ogni coinvolgimento. E a seguire anche il gruppo Pestana ha negato questo tipo di intervento. Non è la prima volta che Ronaldo viene coinvolto in false notizie che fanno il giro del mondo, anche quando di mezzo c’è la solidarietà, ma il penta Pallone d’Oro è comunque in prima linea per l’emergenza coronavirus. Con gesti privati e parole pubbliche. «Vi parlo non come un calciatore – aveva scritto Cristiano Ronaldo sui social nei giorni scorsi -, ma come un figlio, un padre, un essere umano coinvolto con questi ultimi sviluppi che stanno colpendo il mondo intero. E’ importante seguire i consigli dell’Organizzazione Mondiale della Sanità e degli organi di governo su come gestire la situazione attuale: proteggere la vita deve venire prima di ogni altro interesse».
Davide Frattini per corriere.it. Nove pagine. Per provare a districarsi tra migliaia di messaggi e notizie sparsi su Internet che vogliono diffondere «confusione, panico, paura» legati al Covid-19. L’Unione Europea è convinta che la Russia stia mettendo in campo le stesse armi digitali già dispiegate durante le campagne di disinformazione attorno a referendum sulla Brexit britannica, alle rivolte dei gilet gialli in Francia o per la sistematica diffamazione dei Caschi Blu in Siria, il gruppo di pronto soccorso creato nelle aree controllate dai ribelli (Mosca è intervenuta militarmente in sostegno del regime di Bashar Assad). Il dossier – redatto dal Servizio europeo per l’azione esterna, porta la data di due giorni fa ed è stato rivelato dal quotidiano Financial Times – illustra i tentativi di sfruttare le reazioni dei cittadini europei alla pandemia: «L’obiettivo globale del Cremlino è quello di aggravare la crisi nei Paesi occidentali minando la fiducia nel sistema sanitario nazionale e ostacolando così una risposta efficace all’emergenza». Implicati nella disinformatia sarebbero gli stessi account (legati alla struttura statale russa) già usati in altre operazioni: dal 22 gennaio pubblicano messaggi in italiano, inglese, spagnolo, tedesco, francese. La disinformazione russa, un problema da non sottovalutare. Tra gli esempi: in Italia puntano a esasperare la sfiducia verso la capacità del governo di gestire l’epidemia, mentre in Spagna «diffondono storie apocalittiche e accusano i capitalisti di voler avvantaggiarsi del caos causato dal virus». Allo stesso tempo esaltano la leadership del presidente Vladimir Putin e le sue decisioni per contenere la diffusione dell’infezione. Lo scopo generale è spingere la gente «a non fidarsi di fonti d’informazione attendibili».
Rory Cappelli per repubblica.it il 16 marzo 2020. "A Roma non hanno ancora capito bene la situazione" scrive domenica 15 marzo su Twitter il virologo Roberto Burioni accompagnando il commento con una fotografia delle sponde del Tevere pieno di gente nonostante le direttive del Governo sul contenimento del contagio da coronavirus. Peccato però che la foto fosse più che datata, si vede bene dai vestiti e dalla tipica sgranatura della stampa. Burioni ha pubblicato anche una foto del lungomare di Catania affermando la stessa cosa. La foto del lungotevere diventa bersaglio della feroce ironia romana: "Era in fame di like", scrive Stefania Parmi. 800A non ha mezzi termini: "Denunciate Burioni. Queste forme di sciacallaggio vanno punite". Alle 16.51, poi, il virologo cancella il post e ne pubblica un altro: "Ho rimosso le foto, ma vi prego state tutti a casa. Altrimenti non ne usciamo. Grazie". E Andrea C., subito, risponde: "Le scuse per aver diffuso una bufala dove sono?". Mentre _Sanacore_ scrive: "Ok, ma qualcuno avvisi la Raggi che sta a mannà e carabinieri".
Alessia Marani per ''Il Messaggero'' il 15 marzo 2020. Baci, abbracci e cotillon alla faccia del coronavirus. È il 3 marzo e mentre nella Lombardia, assediata dall' incubo del contagio, la situazione si avvicina al collasso e nel Lazio l' assessorato regionale alla Sanità sta facendo tutti gli sforzi possibili per attingere alle risorse necessarie ad affrontare la nuova emergenza e invitano anche i cittadini a «cambiare abitudini e comportamenti», a Roma, in una stanza del reparto del day hospital dell' Oncologia B dell' Umberto I, il più grande policlinico d' Europa, va in scena la festicciola di fine studi per una specializzanda. Brindisi, congratulazioni, tutti stretti in un locale di piccole dimensioni, un party in corsia sprovvisto di alcuna autorizzazione. Risultato? In nove tra medici dipendenti e volontari e specializzandi, si infettano trasmettendosi il Covid-19. Tra loro c' è anche il primario.
L' INCHIESTA. È quanto emerge dall' indagine epidemiologica svolta internamente i cui esiti sono ora al vaglio della Regione. Per gli operatori sanitari coinvolti si profilano provvedimenti disciplinari severi. Inizialmente, dunque, poteva sembrare che i medici fossero risultati positivi a furia di lavorare tutti insieme, indefessi. Invece andando a verificare i link epidemiologici di ciascuno è emersa un' altra verità. «Ci siamo trovati di fronte a un comportamento gravissimo, totalmente privo di prudenza che va stigmatizzato - tuona il direttore generale dell' Umberto I, Vincenzo Panella - messo in atto da coloro che per primi dovrebbero essere consapevoli dei pericoli». Non solo. Per il dg le conseguenze possono essere ancora più dannose per i loro pazienti: «In reparto stiamo verificando uno a uno se ci sono altri positivi tra i degenti, sottoposti a tampone, pochi i casi positivi che ora sono in isolamento domiciliare - aggiunge Panella - Ma alcuni di questi medici svolgono attività privata nelle case di cura e privatamente, quindi, non sappiamo con quante altri pazienti possano essere venuti a contatto».
UNICO LINK. L' ispezione epidemiologica ha evidenziato, dunque, che l' unico link tra i 9 infetti da Covid-19 (che, fra l' altro, stanno tutti in buone condizioni) era costituito proprio da quella festicciola con aperitivo e pasticcini che si era svolta il 3 marzo con tanto di messaggini di invito a partecipare. Proprio quando sul fronte sanitario erano già state diramate le direttive anti-coronavirus che raccomandavano a una massima prudenza. I nove contagiati, del resto, non hanno avuto, stando alle indagini ispettive, nessun altro momento di così stretto contatto, dal momento che i contagiati hanno turni diversi e la corsia è molto lunga e dispersiva.
PAZIENTI FRAGILI. La circostanza ha mandato su tutte le furie la direzione generale che pensa a sanzioni «che vanno oltre le misure previste per il mancato rispetto della profilassi anti-virus». All' Umberto I c' è anche un decimo dipendente contagiato ma per altri motivi legati a link epidemiologici con il Nord Italia e che, comunque, non era più andato al lavoro evitando quindi di mettere a repentaglio colleghi e assistiti. «Nel caso dell' Oncologia B però - conclude il direttore generale - il comportamento è stato inqualificabile a mio parere, alla luce anche del fatto che i pazienti che si rivolgono a quella struttura, gli oncologici, fanno parte della categoria dei più fragili e più vulnerabili al Covid-19. Pazienti che, a differenza di alcuni dei loro medici, non hanno nulla da festeggiare».
Alessia Marani per ''Il Messaggero'' il 15 marzo 2020.
L' INDAGINE. I medici che hanno partecipato alla festicciola-focolaio di coronavirus all' Umberto I rischiano fino al licenziamento. La commissione disciplinare del policlinico ha 5 giorni di tempo per definire il provvedimento a carico degli oncologi contagiati dopo avere partecipato al brindisi in reparto in onore di una specializzanda che aveva terminato gli studi. L' esito dell' indagine epidemiologica disposta dopo che 9 tra medici e specializzandi erano risultati positivi al Covid-19, ha infatti evidenziato come l' unico momento di contatto ravvicinato fosse stato quell' incontro non autorizzato, come ha spiegato lo stesso dg Vincenzo Panella che ha stigmatizzato il comportamento dei camici bianchi, tra questi un dirigente di primo livello e non il primario, quale «gravissimo». Tuttavia, prima di arrivare alla misura estrema la commissione potrà optare per ipotesi che vanno dalla censura alla sospensione più o meno lunga dal servizio. Intanto per la carenza di personale malato o in quarantena, l' ospedale ha chiuso i ricoveri «fino a data da definire» nella Oncologia B, dimettendo i pazienti o accogliendoli in altre aree mediche. Ieri i locali del VII Padiglione sono stati sanificati. Non solo. Casi positivi ci sarebbero anche nella Reumatologia, attigua all' Oncologia. Così la preoccupazione tra il personale ospedaliero sale.
LE PROTEZIONI. Da giorni viene denunciata la carenza di mascherine e di dispositivi di protezione individuale adeguati e quando i primi sono arrivati, i dipendenti erano ammassati per approvvigionarsene in un unico punto di distribuzione. «Abbiamo visto il compagno di una delle colleghe positiva, aggirasi nelle cliniche come se nulla fosse, ed è un anestesista», raccontano nella cittadella della Salute. I sanitari coinvolti e altri loro colleghi ritengono, piuttosto, che quella della festa, una «consuetudine» tra medici e universitari, sia stata solo una «sfortunata coincidenza» e che l' origine del cluster vada trovata altrove. «Il viurs è ambientale e i medici lasciati senza protezione, soprattutto in quei giorni, sono stati facilmente soggetti al Covid, la festa non c' entra», dice Giuseppe Lavra, segretario Cimo medici. Del resto, in quegli stessi giorni di inizio marzo anche l' attività delle riunioni usuali stavano proseguendo senza particolari limitazioni. Ma lo spettro del Covid-19 si stava facendo sempre più concreto con gli inviti delle autorità nazionali a limitare baci, abbracci e a modificare la socialità. Tuttavia, all' Umberto I, c' era ancora voglia di festeggiare. Adesso, però, il timore è che proprio da certi comportamenti assunti con disinvoltura, complice la promiscuità degli ambienti accessibili a volontari e studenti, e la carenza di mascherine FFp2 e Ffp3, sia messa a repentaglio la salute dei pazienti ma anche dei familiari degli stessi operatori. Timori che non riguardano solo l' Umberto I ma che interessano tutti gli ospedali romani dove si stanno registrando altri casi positivi tra i sanitari, tra cui un primario al Sant' Andrea e un infermiere al Casilino. A turbare gli operatori vi è anche la direttiva regionale per cui i medici e i sanitari venuti in contatto con pazienti risultati positivi, ma asintomatici, possano comunque restare in servizio. «Così invece di tutelare la prima linea nella lotta al Covid-19 - afferma Guido Coen Tirelli, segretario regionale Anaao Assomed - ci trasformano in potenziali untori». Il NurSind, il sindacato degli infermieri, mostra le ultime mascherine arrivata: «Hanno la stessa consistenza dei sottili panni antipolvere - spiega Stefano Baroni - inoltre i capisala ne contingentano l' uso e addirittura le tengono sottochiave».
Dagospia il 15 marzo 2020. Comunicato di Paolo Marchetti, professore e Responsabile della UOC di Oncologia Medica B, Azienda Ospedaliero-Universitaria Policlinico Umberto I, Roma. "Che pena... Mentre i medici di tutta Italia mettono a rischio la propria salute, mentre sacrificano riposo e affetti per continuare la propria opera anche durante questa terribile epidemia, c’è chi rilancia notizie sbagliate e già parzialmente smentite. E per cosa? Per lo scoop del secolo? No, solo per qualche visualizzazione in più. La nostra resilienza potrebbe essere interpretata come ammissione di colpevolezza. Nel rispetto delle ansie e delle paure dei nostri Pazienti, che meritano ben altra attenzione e considerazione, per i Colleghi della UOC di Oncologia Medica B, che hanno contratto il COVID-19 a causa della loro attività professionale e non certo perché impiegavano il loro tempo in “festini” e per gli altri nostri medici, che, rimasti indenni dall’infezione, si stanno prodigando per il bene dei malati, ritengo doverose alcune fondamentali precisazioni rispetto a quanto pubblicato sul web e su alcuni giornali tra ieri ed oggi.
1. Il 3 marzo non vi era alcuna limitazione alle riunioni del personale sanitario. Infatti, solo il giorno successivo 4 marzo 2020 è stato pubblicato il DPCM, che, allo scopo di contrastare e contenere il diffondersi del virus COVID-19, sull’intero territorio nazionale imponeva, tra l’altro, le seguenti misure: ... a) sono sospesi i congressi, le riunioni, i meeting e gli eventi sociali, in cui è coinvolto personale sanitario o personale incaricato dello svolgimento di servizi pubblici essenziali o di pubblica utilità... h) nelle Università e nelle Istituzioni di alta formazione artistica musicale e coreutica, per tutta la durata della sospensione, le attività didattiche o curriculari possono essere svolte, ove possibile, con modalità a distanza, individuate dalle medesime Università e Istituzioni... A conferma dell’assenza di restrizioni, nello stesso giorno 3 marzo, oltre alla sessione per l’esame finale della Scuola di Specializzazione in Oncologia, si è tenuta (prima della contestata riunione di commiato degli specializzandi) la riunione del Consiglio di Dipartimento di Scienze Radiologiche, Oncologiche e Anatomo-Patologiche (a cui hanno partecipato 29 medici e docenti, tra cui 2 medici e un amministrativo poi risultati positivi al test per il COVID-19), operanti presso il Policlinico Umberto I e una riunione collegiale tra oncologi e radioterapisti, presieduta dal Direttore del Dipartimento di Scienze Oncologiche, a cui hanno partecipato 13 medici, di cui uno successivamente positivo al test per il COVID-19.
2. Anche da un punto di vista temporale, la ricostruzione effettuata dalla stampa non è condivisibile, perché non corretta da un punto di vista clinico-epidemiologico. Al termine della seduta di specializzazione, si è svolta la contestata riunione degli specializzandi, durante la quale la dottoressa che si era specializzata ha voluto salutare i colleghi con cui aveva lavorato per 5 anni, essendo stata assunta in altra struttura sanitaria. Non un “festino”, ma un commiato, a cui molti degli intervenuti hanno dedicato solo un fugace saluto durato uno/due minuti. Il primario della UOC di Oncologia Medica B non era stato informato di questa riunione, a cui non ha ovviamente partecipato, a differenza di quanto affermato in alcuni articoli. Degli 11 presenti, 4 sono risultati positivi al test tra il 7 e il 9 marzo (di cui uno ha partecipato al Consiglio di Dipartimento e, quindi, è arrivato quando la riunione degli specializzandi era al termine). Tra le 20 persone afferenti alla UOC di Oncologia Medica B, che non hanno partecipato alla riunione di commiato della specializzanda, 5 sono risultati positivi al test per il COVID-19 tra l’8 e il 9 marzo. Appare, quindi, evidente come le percentuali dell’epidemia all’interno della Oncologia Medica B siano non significativamente diverse ( chi-square test; p non significativo) e, quindi, perfettamente sovrapponibili tra coloro che hanno partecipato alla contestata riunione di commiato e coloro che non vi hanno partecipato, rendendo non plausibile il supposto e non provato nesso di causalità tra la riunione stessa e la diffusione dell’infezione, anche alla luce della concomitanza (e non sequenzialità) delle date di positività ai test. Ritengo che questa ricostruzione degli avvenimenti chiarisca oltre ogni ragionevole dubbio quanto realmente avvenuto e meriti la più ampia diffusione sui mezzi di stampa, che hanno riportato informazioni fuorvianti e in parte errate."
Maria Giovanna Maglie per Dagospia il 15 marzo 2020. "Ci ricorderemo di chi ci ha aiutato come ha fatto la Cina. Noi abbiamo dimostrato solidarietà verso il governo cinese colpito da pregiudizio e razzismo e ora loro ricambiano". Questo è Giggino Di Maio ministro degli Esteri di Giuseppi Conte. Questo invece e' il consigliere per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti d'America, Robert O’Brien: “Se avessimo potuto sequenziare il virus e avere la cooperazione necessaria dalla Cina, se i team dell’Oms e il Cdc Usa fossero stati sul campo, avremmo potuto ridurre drasticamente quello che è successo in Cina e accade nel mondo. La Cina non ha gestito nel modo giusto l’epidemia di coronavirus, mettendo a tacere i medici coinvolti, con una risposta che “probabilmente è costata alla comunità internazionale due mesi preziosi". Due mondi completamente separati, vero? Devo essermi distratta nell'ultimo mese di emergenza quando siamo diventati la seconda nazione per contagio e per decessi. Tra le prime catastrofiche conseguenze deve essere accaduto che siamo usciti dell'Alleanza Atlantica e stiamo per aderire non più a un'Unione Europea in dissoluzione rapida ma a una qualche Alleanza di dittature la cui propaganda sta già col fiato sul nostro collo. Una pessima notizia deve essere allora per gli italiani che dai balconi cantano l'inno cinese che l'odiato tiranno Trump non ha il Corona virus. Eppure praticamente era stato dato per certo da quel che resta dei programmi televisivi censurati di qualsiasi intrattenimento in nome della sanificazione coatta - tanto che gli frega degli italiani a casa che la giornata la devono pur passare in qualche modo - e ridotti a megafono di Giuseppi. Invece l'odiato tiranno sta bene. E ci manda anche i segni del suo affetto non ricambiato con un Tweet nel quale sono immortalate le Frecce Tricolori che a lui piacciono forse più che da noi, dove il sospetto del Fascismo militare non è mai scomparso, sulle note di Nessun Dorma. Il clown tiranno Trump sta bene e approfittando del calo del greggio per la guerra tra russi e sauditi ha riempito le riserve americane a due lire, e ha annunciato il suo programma contro il virus con tutta la forza del governo federale e dell'Industria privata insieme davanti agli americani. 50 miliardi di dollari per cominciare. Sì, vabbe', ma vuoi mettere la povera America dove c'è la sanità privata con la splendida Italia del servizio sanitario pubblico di assistenza più bello che ci sia? Lo sento dire dalle 50 alle 60 volte al giorno, spesso in bocca oltre che a pensosi conduttori televisivi anche a scienziati trasformati in Star della TV. Non mi riferisco a quelli che faticano e soffrono negli ospedali, quelli parlano poco e solo di cose che stanno facendo e di strumenti eletti che non hanno. Mi riferisco ai burocrati di Stato, a quelli che per settimane hanno detto che guai al panico perché era un'influenza, a quelli che hanno autorizzato lo spot di Michele Mirabella con i bastoncini cinesi in mano e la frase rassicurante "il contagio non è facile". Quelli che in applicazione della politica ora hanno preso saldamente il potere qui da noi. Quelli che se gli fai qualche domanda un po' più approfondita, vedi il vuoto nei loro occhi perché certezze poche, ma di una cosa sono certi, che Boris Johnson è un cretino, Donald Trump un Clown, chiunque osi avanzare qualche critica sui metodi usati in Italia dalla cupola, scienziati tuttologi più Protezione Civile annunciamorti più Grande fratello tendenza Rocco, è un mascalzone irresponsabile. L'unità non si tocca, ovvero guai a chi osi avanzare una critica o un dubbio. Con buona pace delle libertà personali perdute, con questo faremo i conti dolorosamente dopo. Ecco, le libertà personali saranno l'ultima cosa a essere ceduta dall'altra parte dell'oceano, dove la gente circola senza carta d'identità. E si', l'assistenza in situazione normale è soprattutto privata, ma vi svelo un segreto.
Prendiamo che il costo per un'azienda di un lavoratore dipendente in Italia sia di 83.000 Euro.
-Tasse e contributi previdenziali €46.000
Netto in busta in Italia: €37.000
Ora facciamo la stesso calcolo con il costo a un azienda per un lavoratore dipendente in USA sempre di 83.000 Dollari.
-Tasse e contributi previdenziali $23.000
-assicurazione medica (costo medio). $8.000
Netto in busta USA: $52.000.
Quindi il lavoratore americano si è pagato la famigerata quota di assicurazione privata eppure guadagna $15000 in più rispetto al suo collega italiano.
Naturalmente dovreste per onestà aggiungere le maggiori detraibilità, e l’IVA che in USA va dallo 0 al 9%.
In USA la benzina costa meno della metà, il 99% delle autostrade è gratuito, l'energia elettrica costa la metà, non ci sono marche da bollo, la restituzione delle tasse pagate in più avviene entro 10 giorni dalla dichiarazione. Infine, ma potrei andare avanti, la disoccupazione sotto il tiranno e' circa del 3%, ovvero tutti lavorano, una quota record di lavori part-time si è trasformata in tempo pieno. Ora naturalmente possiamo tornare alla nostra straordinaria sanità pubblica pagata a suon di tasse e aggiungerci tempi di attesa, ticket, miliardi in prestazioni private alle quali si fa ricorso perché di fronte alla paura di una malattia non stai certo ad aspettare 6/9 mesi per accedere all'assistenza pubblica. E possiamo tornare alla situazione attuale nella quale le chiusure di ospedali e la riduzione drastica di aree di terapia intensiva ci racconta il quadro tragico di 10 anni di tagli indiscriminati. Sì vabbè, ma lo sai che in America fanno pagare il tampone del coronavirus 3200 dollari? Anche questo lo sento dire dalle 50 alle 60 volte al giorno da pensosi conduttori televisivi e altrettanti scienziati da Studio Tv. Solo che non è vero, mai pagati. Questa è una nota del CDC, il centro per il controllo delle malattie, del 4 Febbraio."What to Know About Treatment and Coverage: At this time, the CDC is the only facility equipped to test for COVID 19, or to designate other laboratories to do so. The CDC is not billing for testing for COVID 19, so patients will not incur costs when tested by the CDC.
Al momento il CDC è l'unica struttura attrezzate per i test del covid 19 o autorizzato a designare altri laboratori. Il CDC non chiede denaro per il test e i pazienti non hanno quindi alcun costo quando sottoposti al test. Da dove è nata la bugia sui costi del tampone? Da un cittadino americano rimpatriato da Singapore dopo 15 anni di residenza lì che non era assicurato. L'ospedale gli ha mandato il conto complessivo delle cure, non solo del test, per errore: Poi lo hanno cercato e raggiunto per dirgli che tutte le spese sarebbero state pagate dal governo federale, solo che nel frattempo il tipo, che si chiama. Wucinski, si era messo a raccogliere fondi per se medesimo raggiungendo illegalmente la cifra di $17000. Come mai nessun zelante debunker ha smontato questa storia? Se mi sbaglio correggetemi, mi farebbe piacere. Torniamo all'annuncio di Trump, fatto insieme ai rappresentanti delle più grandi imprese nazionali. Immaginatevi i Barilla, Berlusconi De Benedetti gli Zoppas, i Riello, Del Vlpecchio, per fare solo qualche esempio, tutti assieme. Uno per uno hanno parlato tutti impegnandosi a iniziative eccezionali in una fase eccezionale. Con loro sono stati concordati i cambiamenti nel mondo del lavoro e le iniziative contro il coronavirus. Intanto Trump ha deciso di cambiare completamente il sistema sanitario di prevenzione creato da Obama, che metteva tutto in mano al CDC, con uno interamente nuovo basato su prevenzione ad ampio raggio. Il percorso e le regole della malattia saranno seguite su un sito web fatto da Google e accompagnate da test di massa fatti a bordo dell'automobile in alcune stazioni per test che si stanno attrezzando nel paese, 7 stati già le hanno.. Poi il presidente ha chiuso tutti gli ingressi. Un metodo perfetto di fronte al virus che sta arrivando aggressivo anche negli Stati Uniti? Non lo sappiamo, ma sappiamo che il presidente degli Stati Uniti ha illustrato con una scelta storica che il metodo delle democrazie occidentali non si tocca e che il modello non può essere mai quello della dittatura comunista cinese. Alla quale dittatura il consigliere per la sicurezza nazionale Robert O’Brien si era opposto chiaramente dando una lezione anche a noi mercoledì scorso, denunciando che l’iniziale insabbiamento e la cattiva gestione da parte delle autorità cinesi “probabilmente è costata alla comunità internazionale due mesi”. Ecco, se riuscissimo a ricordare quel che l'America ci indica. Lo riassume bene al solito Atlantico quotidiano, prezioso giornale on-line, e questa volta cito un articolo di Federico Punzi. Secondo documenti governativi visionati dal South China Morning Post, il primo caso di coronavirus diagnosticato in Cina, un 55enne della provincia di Hubei, può essere fatto risalire al 17 novembre scorso, e non all’8 dicembre, come il governo cinese aveva riferito all’Oms. Al 31 dicembre erano almeno 266 le persone che avevano contratto il nuovo coronavirus ed erano sotto supervisione medica, già 381 al primo di gennaio, mentre ancora l’11 gennaio le autorità sanitarie di Wuhan dichiaravano solo 41 casi confermati. Secondo una testimonianza, la prima diagnosi di un nuovo coronavirus risalirebbe invece al 16 dicembre. Quindi, tra tentativi di comprendere l’origine della malattia e di insabbiamento, sarebbero da un minimo di uno a due pieni i mesi persi. Invece noi, meglio la principale agenzia di stampa italiana, Ansa, abbiamo fatto un bell' accordo con quella ufficiale cinese, Xinhua. Quotidianamente l’Ansa fa arrivare sui terminali dei suoi clienti numerosi lanci firmati Xinhua, del seguente ridicolo tenore l“Covid-19: Cina modello globale per lotta ai contagi”, “Il suo impegno, ampiamente riconosciuto da tutto il resto del mondo, offre un esempio di come costruire una comunità umana unita dal futuro condiviso”. Un esempio? Sapete cosa sono le forniture arrivate tra squilli di trombe l'altro giorno dalla Cina con tanto di Twitter trionfali dell'ambasciata di Roma Viva Italia Cina? Un primo piccolo quasi inesistente risarcimento del danno terribile che ci hanno fatto. Sembrerebbe invece più praticato secondo il modello della propaganda cinese, che suppongo investa molto denaro in numerosi settori del nostro Paese, che è stupido Boris Johnson ed è un Clown Donald Trump. Circola molto in questi giorni la domanda: lei si sente più tranquillo qui o in Inghilterra/ Stati Uniti? Ovunque tranne che in Cina o in Iran o in Corea del Nord, va bene come risposta, o non si porta più?
Ps: Un amico americano mi manda a dire che nella conferenza stampa di venerdì Donald Trump ha detto che le ditte fornitrici di servizi avrebbero sospeso distacchi e riscossioni. il giorno seguente dal suo fornitore di energia elettrica è arrivata la seguente comunicazione. "An important coronavirus update: The steps we’re taking to help ensure reliability. As a provider of an essential service, we are determined to continue delivering the reliable power you need while helping to protect the health and well-being of our community. Since some customers may be facing unusual financial hardships, we are suspending disconnections for nonpayment effective immediately. This applies to all home and business accounts in Florida, Indiana, Kentucky, North Carolina, Ohio and South Carolina."
Sintetizzo. Informazioni importanti sul coronavirus. I passi che stiamo prendendo per dare un contributo. Continueremo a fornirvi il servizio e nessun distacco perché alcuni di voi potrebbero andare incontro a problemi finanziari. Mentre aspettate al 15 pomeriggio decisioni sulla vostra vita che scadono domani mattina 16, fatevi di nuovo la domanda sul posto nel quale preferireste vivere.
Da "liberoquotidiano.it" l'11 marzo 2020. In molti si sono apprestati in questi giorni a comprare numerose casse di acqua in vista dell'emergenza coronavirus, arrivando addirittura a prendere d'assalto i supermercati. Eppure, a far luce sul mito che l'acqua del rubinetto sia dannosa, è l'Istituto superiore di sanità. In una nota pubblicata l'Iss ribadisce come non sia necessario fare incetta di bottiglie ingombranti, perché il coronavirus Sars-CoV-2 non si trasmette attraverso l’acqua del rubinetto. “Le correnti pratiche di depurazione – spiegano gli esperti – sono efficaci nell’abbattimento del virus, dati i tempi di ritenzione e i fenomeni di diluizione che caratterizzano i trattamenti, uniti a condizioni ambientali che pregiudicano la vitalità dei virus (temperatura, luce solare, livelli di pH elevati).” Ma non solo, perché negli acquedotti si svolge una fase finale di disinfezione che consente di rimuovere i virus dall’acqua, prima che sia immessa nelle condutture. Insomma, almeno su questo possiamo stare tranquilli.
Coronavirus, vitamina C e bagni caldi per combatterlo? Non ascoltate questo medico! Le Iene News il 13 marzo 2020. Sulla sua pagina Facebook il medico Roberto Santi continua a suggerire di assumere vitamina C in endovena per prevenire e curare il coronavirus. In un audio suggerisce come rimedio anche dei bagni caldi. Tutte informazioni smentite dall’OMS. Ci chiediamo: perché questo medico è ancora iscritto all’Ordine? “Propongo di somministrare 25 grammi al giorno di vitamina C endovena per 7 – 10 giorni ai malati. Se si utilizza questa cura è molto probabile che molti meno malati arrivino alla rianimazione”. A scriverlo sul suo profilo Facebook è il dottore Roberto Santi, iscritto all’ordine dei medici di Genova. Chiariamo subito una cosa: la vitamina C non è una cura al coronavirus. A ribadirlo è la stessa Federazione nazionale dell’ordine dei medici: “Non c’è nessuna prova che la vitamina C o altre vitamine riducano il rischio di ammalarsi o di contrarre forme gravi di Covid-19. Ma il nostro medico, come potete sentire nell’audio qui sopra, non solo sostiene che la vitamina C possa prevenire il coronavirus, ma addirittura curarlo. “Diciamo che aiuta a prevenire e quando bisogna curare bisogna aumentare il dosaggio”, dice nell’audio. La realtà è che non solo la vitamina C non aiuta a curare ma, come si legge sul sito della Federazione nazionale dell’ordine dei medici, assunta in dosi eccessive potrebbe essere dannosa: “Sebbene l’eccesso di vitamina C venga eliminato con le urine e non si accumuli nell’organismo, gli alti dosaggi […] possono favorire la comparsa di calcoli renali”. Ma quello della vitamina C non è l’unico rimedio a cui Santi fa riferimento. Alla nostra segnalatrice, infatti, suggerisce anche un’altra via: un bel bagno caldo! “Visto che ormai la malattia c’è bisogna fermarla, se ha una vasca in casa sarebbe bene riempirla di acqua molto calda e che ci si immerga. Poi dovrebbe trovare della vitamina C e prenderne 2 – 3 grammi ogni ora. Se noi curassimo con vitamina C chi ha i primi sintomi, in rianimazione poi non ci vanno, ci vanno molto molto meno”. E quando la segnalatrice chiede se sia una cura comprovata, risponde: “Guardi è comprovato nel senso che ci sono paesi come la Cina, il Giappone, la Corea che la usano per curare i pazienti e hanno beneficio. Hanno molti meno morti di noi”. Peccato che sia la stessa Organizzazione mondiale della sanità a ribadire che non esiste alcun farmaco raccomandato oggi per prevenire o trattare la malattia. E anche sull’ipotesi del bagno caldo la smentita arriva direttamente dall’Organizzazione mondiale della sanità: “Fare un bagno caldo non aiuta a prevenire il Covid-19. Anzi, immergersi in acqua caldissima può essere dannoso per il nostro corpo”. Quello che più preoccupa è che in un momento come questo ci sia un medico, che dovrebbe essere un punto di riferimento per i pazienti, che continua a diffondere notizie false e ufficialmente smentite dagli enti competenti. Ma per il dottor Santi questo sembra essere proprio un vizio. Come ribadisce nell’audio, il dottore sostiene di aver “curato completamente” perfino l’Aids con la vitamina C. Un’assurdità che purtroppo ribadisce anche pubblicamente sulla sua pagina Facebook, come leggete nel post qui sotto. “Sono oltre 10 anni che curo con la vitamina C anche pazienti affetti da Aids. Risultato? Finito su Le Iene con la Toffa che mi definiva ‘un medico ciarlatano’”. Già perché il dottor Santi è una nostra vecchia conoscenza, che purtroppo, evidentemente, non ha perso il vizio! In un servizio della nostra Nadia del 2017, affermava che si potesse curare il tumore con “la vitamina C ad altissimo dosaggio e poi una serie di altre sostanze antiossidanti”. Ovviamente una falsità. “Se io dico queste cose mi radiano dall’albo”, aveva detto il medico nel nostro servizio. Bene, l’ha detto, lo sta continuando a dire. Perché è ancora iscritto all’ordine? Per avere una risposta e segnalare la disinformazione che questo medico sta promuovendo in un momento così dedicato per il nostro paese e non solo, abbiamo provato a contattare l’ordine dei medici di Genova. Restiamo in attesa di una loro risposta. E nel frattempo a chiunque avesse dei dubbi raccomandiamo di informarsi solo presso le Asl di riferimento, gli enti preposti e i siti del ministero della Salute, dell'Istituto superiore della sanità e dell'Organizzazione mondiale della salute. Ad oggi, l’unica via per contenere il contagio è molto, molto semplice: restiamo a casa!
Il sindaco del "coronarovirus" a Le Iene: "Non sono l'idiota del villaggio". Le Iene News il 13 marzo 2020. Abbiamo parlato con il sindaco di Boscoreale Antonio Diplomatico, diventato una star sul web per il video pieno di gaffe in cui parla del "coronarovirus" e delle "fuck" news. "Ero stanco, il video è diventato virale per colpa degli sciacalli politici". "È venuto fuori che sarei l'idiota del villaggio, il più stupido tra tutti i personaggi del Paese, ma consideri che sono anche medico". È abbattuto Antonio Diplomatico, sindaco di Boscoreale, che con il suo video pieno di strafalcioni è diventato una star del web. Anche noi de Le Iene abbiamo lo abbiamo pubblicato (qui il video), e poco dopo ci hanno contattato i figli per difendere l'onore del padre. E così chiediamo subito al sindaco Diplomatico, che diplomatico lo è davvero oltre che nel cognome anche nei modi garbati, come sia stato possibile mettere in fila una serie di strafalcioni di tale livello: da "coronarovirus" a "sieropositivi" al virus, fino alle "fuck" news da combattere. "Ero in mezzo a mille decreti che ci arrivano in comune, fra Anci, ministero della Salute e regione Campania", ci spiega. "L'addetto stampa mi propone di fare un videomessaggio per invitare i cittadini a stare a casa. Così lo faccio parlando a braccio. Ma come si vede dal video giro la testa in continuazione, mi distraggo, perché c'era la porta aperta e passavano tante persone". Ma come è stato possibile aver pubblicato un video così pieno di errori? "Avevo lasciato il comune per andare nel mio studio dove faccio il medico. Dopo un'ora ricevo la chiamata dei miei figli che mi comunicano che il mio video era in rete e che era già diventato virale. Ma io non l'avevo rivisto, così ho chiamato subito l'addetto stampa per eliminarlo". Bel danno che le ha fatto. "Diverse persone mi stanno consigliando di avviare un procedimento disciplinare che potrebbe portarlo al licenziamento". Chiede la testa del suo addetto stampa? "Quello che è avvenuto nei miei confronti è inaudito, ho subito un danno inestimabile. Siamo una famiglia conosciuta, sono mortificato. Non sono vendicativo, ma devo pensarci". D'accordo, ma resta il fatto che ha messo in fila una gaffe dietro l'altra. E per di più è medico. "Ero molto stanco, si vede bene dalla faccia. Spesso capita di dire 'coronarovirus' al posto di coronavirus, e non solo a me. E poi i 'sieropositivi' non sono solo quelli che prendono l'HIV". E per le "fuck" news? "Non ho studiato l'inglese. Ai miei tempi c'erano le classi di francese. E poi mezz'ora prima avevamo analizzato le FAQ per rispondere alle domande dei cittadini...". Ora Diplomatico è affranto, ma noi de Le Iene vogliamo poter aiutare il sindaco a rimediare, d'altronde uno scivolone può capitare a tutti. "Sono passato per lo zimbello d'Italia. Ho provocato dolore ai miei familiari, e ho ricevuto tanti insulti dagli sciacalli politici che hanno recuperato il video e lo hanno fatto diventare virale". Una nota di consolazione: ora Boscoreale, un comune di 27.000 anime vicino Napoli, lo conoscono tutti. "Ma se conoscono il comune perché c'è un cretino al comando non mi fa piacere, anche perché non sono un cretino". Chiosa il figlio Mario, anch'egli medico: "Ha fatto tanti espropri alla camorra, numeri che difficilmente si possono trovare in Campania. Ci piacerebbe offrire un caffè a voi de Le Iene e invitarvi a raccontare questo". Volentieri, appuntamento preso con il sindaco Diplomatico!
Coronavirus, la bufala della vitamina C. L'esperto: "Nessuna evidenza di azione curativa o preventiva contro infezioni virali". Un audio anonimo su Wapp: "Efficace come cura sui pazienti contagiati". Andrea Gori, direttore Malattie Infettive del Policlinico di Milano, chiarisce: "Non rientra nelle terapie standardizzate in uso negli ospedali". Giulia Masoero Regis l'11 marzo 2020 su la Repubblica. "La vitamina C è molto efficace sui pazienti affetti da coronavirus. La stanno utilizzando come terapia e le persone rispondono benissimo". Sono le parole di una donna che, in un audio circolante su WhatsApp in questi giorni, attribuisce all’acido ascorbico il potere di curare la Covid-19. Nel farlo cita tre ospedali lombardi: il San Gerardo di Monza, il Policlinico e il Sacco di Milano. In queste strutture, sostiene, starebbero utilizzando con successo terapie a base di vitamina C per sconfiggere il nuovo virus. Si tratta però dell'ennesima bufala, da cui tutti gli ospedali menzionati si dissociano. "Smentisco categoricamente la notizia – afferma Andrea Gori, direttore Malattie Infettive del Policlinico di Milano - Le terapie che utilizziamo per trattare i pazienti con coronavirus al Policlinico, così come al Sacco e al San Gerardo, sono standardizzate perché sono state decise dai primari di malattie infettive di tutta la Regione Lombardia in modo coordinato. E la vitamina C non è assolutamente contemplata". Così come non è contemplato il Cebion, pure raccomandato dal web ma il cui utilizzo è sconsigliato dalla stessa azienda che lo produce, la Dompè farmaceutici, che si è dissociata dal messaggio ingannevole e ha comunicato che perseguirà le vie legali per difendere la propria reputazione.
Le terapie farmacologiche standard. L'approccio farmacologico per ora si struttura su tre medicinali. "Prima viene somministrato un antiretrovirale, il kaletra, utilizzato in passato per il trattamento dell’Hiv, insieme all’antireumatico idrossiclorochina. Successivamente, in alcuni casi selezionati, possiamo utilizzare anche remdesivr, un nuovo farmaco sperimentale la cui efficacia è stata documentata dagli studi pubblicati dopo l’esperienza cinese". Le notizie rassicuranti sull’utilità di rimedi semplici, come acqua calda, integratori e vitamina C, nel contrastare il virus continuano a diffondersi. Ma la verità è che non esistono evidenze scientifiche su sostanze non farmacologiche capaci di sconfiggerlo o prevenirne il contagio. "I trattamenti farmacologici utilizzati sono supportati da studi scientifici o da dati provenienti da trial clinici. Sull’acido ascorbico non esistono evidenze che ne supportino l’azione curativa o preventiva contro un’infezione virale" sottolinea l’esperto del Policlinico.
Il mito dell'acido ascorbico. Quello sul ruolo della vitamina C come cura per raffreddori e altri disturbi è un mito duro a morire, nato da Linus Pauling, uno scienziato americano (anche premio Nobel), che negli anni Settanta ne divulgò le doti terapeutiche. La comunità scientifica ha più volte smentito, ma ciclicamente si torna a parlarne. Soprattutto persistono i consigli di tipo preventivo: l’assunzione di vitamina C sotto forma di limoni, arance, kiwi oppure integratori è diffusamente suggerita per rinforzare le difese immunitarie. Non serve proprio a nulla? "Ciò che bisogna fare è seguire un’alimentazione sana e adottare un corretto stile di vita a tutto tondo: solo così si può pensare di rinforzare il sistema immunitario - conclude Gori - Ovviamente in una dieta sana può rientrare una spremuta, ma non è la spremuta a difenderci dalle infezioni e dalle malattie. Così come non lo sono gli integratori di qualsiasi altra natura".Da "leggo.it" il 10 marzo 2020. Anche Eleonora Brigliadori prende posizione sull'ormai arcinoto Coronavirus e lo fa naturalmente a modo suo. La showgirl è infatti impegnata sul social per dimostrare la falsità e l’inesistenza del virus, allertando i follower con video e rivelazioni. Dalla sua pagina Facebbook infatti spiega, postando un video, che a ordire il tutto sarebbe stata l’America: “Che ci fosse l'America – scrive in una condivisione - dietro tutto questo, era già chiaro a molti di noi!!! le parole di questo ex agente americano non fanno che confermare il quadro geopolitico che Dobbiamo comprendere e superare difendendoci a tutti i costi...!!!”. Poi ancora sul virus: “Mi viene da ridere a vedere video come questi... la più grande epidemia di questo tempo è la stupidità dell'uomo incapace di valutazione incapace di giudizio incapace di coraggio incapace di ricordare incapace di prendere decisioni incapace di vedere che ci stanno prendendo per il culo Questa è la vera epidemia... e Purtroppo nonostante l'epidemia continuano a vivere a respirare e a mandare in giro cazzate.. da Questi deficienti siamo governati da questi deficienti siamo Curati o meglio ci hanno fatto ammalare di deficienza per sentirsi alla pari...”. A chi le oppone le persone in rianimazione risponde: “quelli in rianimazione si sarebbero ammalati anche con un buffo di vento e questa non è diversa dalle altre influenze Anzi è molto meno letale ogni anno l'umanità ha superato i contagi ci sono sempre stati non c'è niente di nuovo tranne la volontà di creare terrorismo e di mandare la gente fuori di testa come probabilmente ti trovi tu”. Dietro ci sarebbe terrorismo mediatico: “Il terrorismo ha un effetto e questo è quello che di cui hanno bisogno probabilmente quelli che sono diventati materialisti e si fidano ancora dei medici ma soprattutto respirano male nella vita sociale la polmonite viene alle persone che hanno indebolito la loro sfera morale Nel respiro”.
“Il coronavirus è stato creato dagli Usa”. Perché il complotto non regge. Davide Bartoccini su Inside Over il 12 marzo 2020. Se le autorità cinesi, e dietro a loro quelle di tutte il mondo, hanno stabilito come con buone probabilità l’epidemia di Covid-19 si sia diffusa partendo da un mercato di Wuhan dove, tra i numerosi animali selvatici venduti come carne prelibata, comparivano i noti pipistrelli: ritenuti i protagonisti dello “spillover” del virus – i media iraniani e una parte di propaganda antiamericansta continuano a sostenere, senza l’ausilio di alcun tipo di prova, che la pandemia che ha messo in ginocchio la Cina e che ha contagiato migliaia di persone in Iran sia in realtà un’arma biologica creata in laboratorio dagli americani. La disinformazione sul Coronavirus si sta diffondendo più rapidamente di quanto non lo stia facendo questa terribile epidemia e, nonostante un portatore sano di fake news risulti ancora meno pericoloso di un portatore sano di Covid-19, ciò che sta accadendo in Iran, il terzo Paese con più contagi al mondo, desta comunque una certa preoccupazione: dati gli eventi che hanno scosso l’intera comunità internazionale e che minacciavano, fino ad appena un mese fa, di tramutare un’escalation regionale in una conflitto termonucleare di vasta scala. Nel regime controllato dagli ayatollah – che ovviamente esercitano, o possono esercitare, potere di censura sulla stampa – continua ad essere alimentata l’inquietate ipotesi che il virus che sta mettendo in ginocchio il loro Paese – come il mondo intero – sia in realtà un’arma di quello che usano chiamare “il grande Satana“: gli Stati Uniti. E ciò che è più inquietante, è che questa propaganda fallace sta “contagiando” seguaci anche in Russia e nella stessa Cina. Come riportato dal sito specializzato DefenseOne, la succitata teoria tenta di far passare attraverso una fantasiosa “narrazione” basata sul “concetto che gli Stati Uniti stanno armando la crisi per trarne un guadagno politico e ne stanno quindi peggiorando la diffusione a livello globale”, sostiene Rachel Chernaskey, responsabile del Foreign Influence Election 2020 Project. “Nell’ecosistema della disinformazione”, i media sponsorizzati dallo stato di ognuno di questi tre Paesi stanno giocando un ruolo centrale per veicolare l’opinione pubblica, e molti di essi, soprattutto nella Repubblica islamica dell’Iran sembrano non usare il “condizionale” quando espongo le loro teorie. L’epidemia ha colpito duramente l’Iran, causando 354 morti confermati e 9mila casi e non ha risparmiato nemmeno il parlamento iraniano, costringendo al ricovero almeno il 10% dei politici, compreso il vice ministro della sanità Iraj Harirchi. Questo clima di terrore percepito non ha fatto altro che coadiuvare teorie che al giorno d’oggi possono essere diffuse facilmente e che, se non contrastate attivamente dai media più accreditati, rischiano di sviare e influenzare negativamente la popolazione. Sarebbe proprio l’Iran, secondo il report stilato dall’esperta, a spingere maggiormente sull’ipotesi che il Coronavirus non sia altro che un’arma batteriologica di nuova concezione. La notizia è stata ripresa addirittura da una rete televisiva, PressTV, che ha trasmesso ripetutamente “teorie secondo le quali il Covid-19 potrebbe essere un’arma prodotta dagli Stati Uniti, o che gli scienziati di Isreale e ‘sionisti’ hanno usato l’epidemia come copertura per progettare un ceppo ancora più mortale del virus per scatenare l’umanità, e in particolare sull’Iran”. In questo pentolone di falsi collegamenti e teorie del complotto vengono citati anche ex agenti della Cia, e informazioni che invece citano – almeno in parte – collegamenti e fatti reali: i pipistrelli, la Cina e Wuhan. La Russia, che secondo i dati ufficiali sembra non essere stata “toccata” dall’epidemia – nonostante confini con la Cina per ben 4.250 km – si sta limitando a rilanciare alcune di queste congetture attraverso canali che però hanno un’enorme portata mediatica, come RT. Amplificando la portata del messaggio iraniano, e non aggiungono o smettendo nulla: nemmeno quando il generale Hossein Salami, capo del Corpo della Guardia rivoluzionaria islamica ha affermato che “il virus era un’arma statunitense contro Iran e Cina”. E sebbene sia impensabile che così tante persone credano – sebbene confuse dalla paura di avere a che fare con qualcosa di incontrollabile che sarebbe che fino a prova contraria è stato scatenato da un semplice pipistrello venduto come cibo pregiato in un mercato dall’altra parte del mondo – ad una teoria simile; basti guardare a cosa sta accendendo con il caso dell’esercitazione della Nato in Europa che coinvolgendo oltre 37mila soldati americani nel Vecchio Continente, e che è stata subito la base perfetta per una “ipotesi di complotto” che è arrivata a sostenere come i soldati di Washington siano arrivati “già vaccinati” e si stiano preparando a chissà quale “operazione” che approfitti della crisi mondiale provocata da quella che potrebbe essere dichiarata nei prossimi giorni una pandemia globale. Se gli americani hanno una colpa in tutto questo, forse potremmo trovarla solo a Hollywood.
Coronavirus e Defender Europe: sfatiamo le teorie del complotto. Paolo Mauri su Inside Over l'11marzo 2020. Come vi abbiamo già raccontato lo scorso venerdì, sta per iniziare Defender Europe 2020, la più grande esercitazione militare in 25 anni su suolo europeo e la terza dai tempi della Guerra Fredda. Le manovre, che avranno inizio tra la fine di marzo e l’inizio di aprile e si concluderanno a giugno, vedranno partecipare 18 nazioni, tra cui, oltre agli Stati Uniti, che dispiegheranno il contingente più numeroso, Regno Unito, Polonia, Germania, Italia e Paesi Baltici, solo per citare i maggiori. In particolare si prevede che la totalità delle truppe coinvolte ammonterà a 37mila unità con una larga preponderanza di soldati americani. Saranno 20mila infatti, con altrettanti pezzi di equipaggiamento, compresi 6mila facenti parte della Guardia Nazionale e 900 della Riserva. Lo scopo è quello di ridispiegare una forza “credibile” della grandezza di una divisione dagli Stati Uniti all’Europa. L’esercitazione, come abbiamo già detto, terminerà a giugno e sarà messa in atto in sei Paesi europei: Belgio, Olanda, Germania, Polonia, Lituania, Estonia e Lettonia. Dove si sono registrati, in queste ultime settimane, casi di contagio e diffusione del coronavirus Covid-19. La concomitanza dei due eventi ha scatenato una ridda di teorie complottiste partendo dalla considerazione (errata come vedremo) che i due eventi, il virus e l’esercitazione, siano collegati. La tesi che va per la maggiore è quella di una “invasione Usa” per controllare l’Europa con la scusa dell’epidemia, che apre la possibilità, quindi, che i soldati americani siano già vaccinati. Un’altra, che prende le mosse dalla precedente, è quella che ritiene Covid-19 un’arma batteriologica made in Usa per mettere in ginocchio la Cina.
Complotti e complottismi. Esiste una differenza sostanziale tra complotti e complottismi e risiede nel metodo di analisi: il complotto per essere tale deve essere comprovato, quindi occorre portare delle prove provabili che siano più di semplici sospetti, se questo non accade, come nella maggior parte dei casi delle conspiracy theory, si parla di complottismo. Facciamo un esempio chiarificante: uno studio scientifico che dimostrasse la presenza di vita intelligente su Marte non sarebbe complottismo, credere che la terra sia cava e abitata da una razza di alieni rettiliani che controllano il mondo lo è, perché non esiste uno straccio di prova in tal senso. Da più parti viene sollevata un’obiezione filosofica, ovvero che “scientificamente parlando” (sic!), si debbano considerare tutte le ipotesi, e soprattutto che basti il sospetto per aprire la strada a tutte le possibilità. Non è così. Se è vero che nel metodo scientifico vige sempre il dubbio – che potremmo chiamare al contrario “ragionevole percentuale di certezza” – questo non significa che le possibilità più strampalate possano avere il medesimo peso e validità rispetto a quelle principali, semplicemente per il fatto che occorre avere prove certe e provabili affinché acquistino valore.
Defender Europe e coronavirus. Ora che abbiamo chiarito cosa possa chiamarsi complotto e cosa complottismo, possiamo addentrarci nello sfatare le due teorie che riguardano l’esercitazione Defender Europe 2020 ed il coronavirus in Europa. Cominciamo dalla seconda, quella della “guerra batteriologica”. Abbiamo già approfondito poche settimane fa cosa sia la guerra batteriologica e soprattutto le caratteristiche che deve avere un agente patogeno per essere qualificato come arma batteriologica, dimostrando come Covid-19 non lo sia. Riassumendo molto semplicemente: l’assenza di un vaccino, l’elevata trasmissibilità, la bassa virulenza, il buon livello di immunità naturale sono indicatori che non ci troviamo ad avere a che fare con questa possibilità. Passiamo ora a confutare la prima teoria, cioè quella che vuole l’esercitazione un pretesto americano per invadere l’Europa con lo spettro del coronavirus, che vorrebbe i soldati Usa già vaccinati. Defender Europe 2020 è solo casualmente concomitante con l’epidemia di Covid-19: come abbiamo già detto nell’approfondimento sull’esercitazione le manovre erano già previste almeno dal 2019, quando sono state messe a bilancio dagli Stati Uniti unitamente alla richiesta dell’Us Army di fondi per un ammontare di 42 miliardi di dollari alla voce “operations and maintenance (O&M)”, ovvero operazioni e mantenimento. I soldati americani sono quindi già vaccinati? No, anzi, il comando europeo dell’Us Army ha riferito, come anche riportato su Formiche.net, che “sta monitorando da vicino Covid-19 e sta lavorando diligentemente con i funzionari delle nazioni ospitanti mentre prosegue l’esecuzione di Defender Europe 20. Per ora il virus non ha influito sull’esecuzione dell’esercitazione”, mentre è “costante” il confronto con le autorità sanitarie dei vari Paesi su cui le truppe si stanno muovendo. “Abbiamo piani di assistenza sanitaria e medica per identificare eventuali carenze che potremmo avere e stiamo affrontando tali carenze e requisiti con ogni singola nazione ospitante”, ha concluso Andrew Rohling, generale dell’esercito Usa e vicecomandante delle forze americane in Europa dal primo agosto scorso. Se non fosse ancora abbastanza chiara la preoccupazione per l’epidemia arrivano le parole dello stesso segretario generale della Nato Jens Stoltenberg che ha affermato che l’Alleanza ha stabilito piani di contingenza in caso di un significativo scoppio del virus, ma che per il momento l’esercitazione prosegue come da piani prestabiliti. “Stiamo chiaramente monitorando e seguendo la situazione molto da vicino perché potenzialmente potrebbe avere conseguenza anche per la Nato” ha detto il segretario durante un’intervista a Zagabria mentre si stava tenendo il vertice dei ministri della Difesa europei. “Non prevediamo di cancellare l’esercitazione, ma questo lo stabiliremo durante il corso degli eventi. Siamo pronti per aumentare gli sforzi e le misure preventive che stiamo già implementando” ha concluso Stoltenberg. Non si capisce poi perché Defender Europe 2020 preoccupi di più rispetto a Covid-19, ma anche rispetto ad altre manovre militari che sono attualmente in atto in Europa o in Italia e che vedono la presenza di contingenti dei Paesi Nato e degli Stati Uniti anche abbastanza numerosi. Pensiamo infatti a Dynamic Manta, esercitazione navale che si sta tenendo in Italia a cui partecipano 10 nazioni, oppure Cold Response 2020, che si sta tenendo nel nord della Norvegia e vede la partecipazione di 16mila uomini (di cui 7500 americani) di Regno Unito, Norvegia e Finlandia, impegnati in sedici giorni di manovre terrestri e anfibie. Certo, possiamo pensare, questa volta giustamente, che un così grande numero di uomini impegnati su così tanti fronti – quelle riportate non sono le uniche esercitazione che si stanno tenendo o si terranno a breve in Europa – sia comunque un rischio sanitario perché potrebbero aiutare a diffondere ulteriormente l’epidemia. Ma questa considerazione, l’unica sensata, non rientra nelle corde dei complottisti.
Enrico Marro per ilsole24ore.com il 9 marzo 2020. Quella del bere acqua che rende immuni al Covid-19 è una fake stagionata, forse nata a latitudini sudafricane, ma sempreverde un po’ dappertutto, Italia compresa. Nel nostro Paese va per la maggiore su WhatsApp ma anche su Facebook, e in una delle sue versioni inizia così: “RICEVO ORA E TRASMETTO X CONOSCENZA Il nuovo coronavirus NCP potrebbe non mostrare segni di infezione per molti giorni, prima dei quali non si può sapere se una persona è infetta”.
Parola di medico giapponese. Il messaggio poi continua, più sotto, con: “Questi sono seri ed eccellenti consigli da parte di medici giapponesi che trattano casi COVID-19. Tutti dovrebbero assicurarsi che la propria bocca e la propria gola siano umide, mai ASCIUTTE. ?Bevi qualche sorso d’acqua almeno ogni 15 minuti. PERCHÉ? Anche se il virus ti entra in bocca … l’acqua o altri liquidi lo spazzeranno via attraverso l'esofago e nello stomaco. Una volta nella pancia …L'acido gastrico dello stomaco ucciderà tutto il virus. ?Se non bevi abbastanza acqua più regolarmente … il virus può entrare nelle tue trombe e nei polmoni. È molto pericoloso. Condividi queste informazioni con la famiglia, gli amici e tutti i conoscenti, per solidarietà e senso civico!!!!”
La variante delle tisane bollenti. Una versione più dolorosa di questa bufala è la “catena” parallela che consiglia di bere tisane e tè bollenti per sterilizzare lo stomaco, per non parlare della fake circolata oltreoceano sulle magiche soluzioni a base di candeggina diluita con acqua.
Bere fa bene, ma non ci rende immuni. Lo stesso New York Times è sceso in campo per combattere la bufala dell’acqua anticoronavirus, affidandosi a un parere dell’infettivologo William Schaffner della Vanderbilt University. Bere acqua fa bene - ha spiegato il medico - e l’assunzione di liquidi ci aiuta quando siamo malati, ma da qui a pensare che ingollare litri e litri di liquidi ci renda immuni dal Covid-19 ce ne passa.
Le vere regole di prevenzione contro il Covid-19. Le regole per non ammalarsi sono le solite: lavarsi spesso le mani con acqua e sapone o con soluzioni a base di alcol, coprirsi la bocca quando si tossisce o starnutisce, mantenere una distanza di almeno un metro da altre persone quando startuniscono o tossiscono, oppure se hanno la febbre. Beviamo acqua, certo, magari birra Corona (brand messicano travolto senza alcuna colpa dalla coronafobia) ma non beviamoci le bufale. Evitando nel nostro piccolo di alimentare le catene delle fake news.
Matteo Carnieletto per it.insideover.com il 28 febbraio 2020. Supermercati presi d’assalto, psicosi e sciacalli. L’emergenza Coronavirus ha gettato l’Italia nella paranoia, mostrando il lato peggiore del Paese. Il raziocinio ha fatto spazio alla paura, l’accortezza è stata vinta dall’egoismo e la corretta informazione dal sensazionalismo. Ieri, il commissario straordinario per l’emergenza Antonio Borrelli ha detto che “bisogna fare attenzione alle fake news e fare riferimento ai canali ufficiali”. Per fare un po’ di chiarezza su questo tema così delicato e importante abbiamo deciso di ripercorrere le più importanti fake news sul Coronavirus.
Il complotto anti cinese. Come si è diffuso il Coronavirus? Nessuno lo sa con certezza e ci sono diverse ipotesi in merito. Tuttavia, quella che pare meno solida riguarda l’ipotesi di un attacco batteriologico volto a colpire la Cina. Riporta a tal proposito La Stampa: “La tesi centrale è che sia stato creato dall’America o da Israele, per ‘mettere in ginocchio la Cina’ e che lo stesso potrebbe accadere agli Stati della regione. Il quotidiano saudita Al-Watan lo definisce ‘il virus delle meraviglie’ perché ‘non colpisce gli Usa o Israele’ e, come la Sars, è apparso in un momento di espansione economica inarrestabile in Cina”. Ad oggi, nessuno sa con certezza come si sia diffuso il 2019-nCoV. Una delle ipotesi su come si sia diffuso il Coronavirus riguarda sì gli animali, ma non ha nulla a che fare con i laboratori in cui vengono prodotte vere o presunte armi batteriologiche. Come scrive il New York Times, infatti, i Coronavirus colpiscono facilmente uccelli e mammiferi. Tuttavia, non è ancora chiaro quale animale abbia trasmesso questa malattia agli uomini. Come riporta l’Istituto superiore di sanità, infatti, ci sono diverse ipotesi in merito: “Il nuovo coronavirus 2019-nCoV […] sembra essere originato da pipistrelli”, tuttavia “si ipotizza che la trasmissione non sia avvenuta direttamente da pipistrelli all’uomo, ma che vi sia un altro animale ancora da identificare che ha agito come una specie di trampolino di lancio per trasmettere il virus all’uomo”. Il 2019-nCoV potrebbe dunque esser stato trasferito da “alcune specie di serpenti, frequentemente venduti nei mercati di animali vivi”, oppure da un altro animale: il pangolino. Diverse ipotesi, dunque, ma che vanno in un’unica direzione: le pessime condizioni del mercato di Wuhan. L’origine “naturale” del Coronavirus è stata inoltre comprovata da diversi scienziati in uno studio pubblicato su The Lancet.
A proposito di animali. La paranoia da Coronavirus ha colpito anche gli animali domestici. Alcuni hanno infatti puntato il dito contro di loro, affermando che potessero essere degli incubatori del 2019-nCoV. Nulla di più falso, come affermato anche dall’Istituto nazionale di malattie infettive Spallanzani, dall’Istituto superiore della Sanità, dal Ministero della Salute: “Al momento non vi è alcuna evidenza scientifica che gli animali da compagnia, quali cani e gatti, abbiano contratto l’infezione o possano diffonderla”. Per completezza, rilanciamo le norme (di base) del ministero: “Si raccomanda di lavare le mani frequentemente con acqua e sapone o usando soluzioni alcoliche dopo il contatto con gli animali”.
“Bill Gates sapeva…” Ovviamente, in questa vicenda doveva in qualche modo c’entrare anche Bill Gates che, in qualche modo, avrebbe predetto (se non invocato) il Coronavirus. Tutto inizia con l’evento 201 organizzato dal Center for Health Security della Johns Hopkins University a ottobre 2019, che simula “lo scoppio di un nuovo coronavirus zoonotico trasmesso da pipistrelli a maiali a persone. Alla fine diventa efficacemente trasmissibile da persona a persona, portando a una grave pandemia. L’agente patogeno e la malattia che causa sono in gran parte modellati sulla Sars, ma è più trasmissibile in ambito comunitario da persone con sintomi lievi. La malattia inizia negli allevamenti di suini in Brasile, inizialmente in silenzio e lentamente, ma poi inizia a diffondersi più rapidamente negli ambienti sanitari”. Prosegue poi il Center for Health Security: “La malattia inizia negli allevamenti di suini in Brasile, inizialmente in silenzio e lentamente, ma poi comincia a diffondersi più rapidamente negli ambienti sanitari. Quando inizia a diffondersi efficacemente da persona a persona nei quartieri a basso reddito e densamente affollati di alcune delle megalopoli del Sud America, l’epidemia esplode. Viene prima esportato per via aerea in Portogallo, negli Stati Uniti e in Cina e poi in molti altri Paesi”. Scrive a tal proposito un sito che ha rilanciato la bufala: “È l’inquietante scenario delineato nell’Evento 201, una simulazione avvenuta a ottobre del 2019 finanziata dalla Fondazione Bill and Melinda Gates, Bloomberg e dal World Economic Forum. All’esercitazione hanno preso parte in qualità di attori i maggiori player dell’economia mondiale (vedi video in alto). Si parla chiaramente di Coronavirus, con la differenza che l’epidemia inizia in Brasile anziché in Cina e viene diffusa a partire da pipistrelli e maiali anziché dai pesci”. Ovviamente l’evento del Center for Health Security ha un unico scopo: elaborare lo scenario (peggiore) per cercare di risolvere in un futuro più o meno prossimo le vere crisi che colpiranno la popolazione mondiale. A riprova che Bill Gates non c’entra nulla con questa vicenda, le parole del presidente cinese Xi Jinping che, come riporta l’Ansa, ha detto di “essere profondamente riconoscente per l’atto di generosità della Bill & Melinda Gates Foundation e per la lettera ricevuta di solidarietà al popolo cinese in un momento così importante”. Il fondatore di Microsoft ha infatti donato 100 milioni di dollari per la ricerca di un vaccino al Coronavirus.
Il Coronavirus non prende i mezzi pubblici. La metropolitana e i mezzi pubblici di Milano in questi giorni sono quasi vuoti. Ma è davvero pericoloso prenderli? Scrive il ministero della Salute: “Sulla base dei dati disponibili, si ritiene altamente improbabile che possa verificarsi un contagio attraverso le maniglie degli autobus o sulla metropolitana. È invece certo che si è nel pieno della stagione influenzale. Pertanto, se dovessero comparire sintomi come febbre, tosse, mal di gola, mal di testa e, in particolare, difficoltà respiratorie, è opportuno rivolgersi al proprio medico curante. È comunque buona norma, per prevenire infezioni, anche respiratorie, il lavaggio frequente e accurato delle mani, dopo aver toccato oggetti e superfici potenzialmente sporchi, prima di portarle al viso, agli occhi e alla bocca”. Ovviamente un capitolo a parte merita il “contatto stretto”, ovvero, come riporta il ministero della Salute: Essere stato a stretto contatto (faccia a faccia) o nello stesso ambiente chiuso con un caso sospetto o confermato di Covid-19 Aver viaggiato in aereo nella stessa fila o nelle due file antecedenti o successive di un caso sospetto o confermato di Covid-19, compagni di viaggio o persone addette all’assistenza, e membri dell’equipaggio addetti alla sezione dell’aereo dove il caso indice era seduto (qualora il caso indice abbia una sintomatologia grave od abbia effettuato spostamenti all’interno dell’aereo indicando una maggiore esposizione dei passeggeri, considerare come contatti stretti tutti i passeggeri seduti nella stessa sezione dell’aereo o in tutto l’aereo).
Le mascher(in)e solo per carnevale. Tutti le cercano, ma non tutti le hanno. Le mascherine (insieme all’Amuchina) sono diventate la nuova fissa dei milanesi. Ma servono davvero a qualcosa? Sì, ma solo se avete contratto il virus (e più per gli altri che per voi): “L’Organizzazione mondiale della sanità raccomanda di indossare una mascherina solo se sospetti di aver contratto il nuovo Coronavirus e presenti sintomi quali tosse o starnuti o se ti prendi cura di una persona con sospetta infezione da nuovo Coronavirus (viaggio recente in Cina e sintomi respiratori). L’uso della mascherina aiuta a limitare la diffusione del virus ma deve essere adottata in aggiunta ad altre misure di igiene respiratoria e delle mani. Non è utile indossare più mascherine sovrapposte”. Visto il tempo, meglio usare le maschere solo per il carnevale.
“Il marito della mia amica lavora in Regione…”. È stato il vero focolaio dell’idiozia, quello che potrebbe aver fatto scattare la corsa alla spesa. Stiamo parlando dell’audio in cui una donna afferma: “Allora…vi devo dire una cosa di cui sono stata informata un paio d’ore fa. La mia amica ha il marito che lavora in Regione e mi ha detto praticamente che stanno già attivando la quarantena per i paesi intorno a Milano e… entro domani decidono se tra lunedì e martedì attivano la quarantena anche per Milano. Quindi vuol dire… tutti i negozi pubbli…pubblici chiusi! Fate la spesa, organizzatevi con le scorte perché se chiudono tutto, chiudono tutto per almeno un mese eh?”. Nulla di più falso, ovviamente, ma ormai era partito (e anche finito) l’assalto ai forni.
Falsi articoli per creare allarmismo. “Confermato a Chioggia il primo caso da coronavirus”. Titolava così un finto articolo de ilGiornale.it, modificato chissà da chi, che gettava nel panico la “piccola Venezia”. Una notizia totalmente infondata che, come ha scritto Andrea Indini, rappresenta “una bufala di una gravità inaudita che colpisce al cuore l’informazione in un momento in cui non bisogna in alcun modo scatenare il panico nel Paese”. Stessa triste sorte anche per la redazione del Corriere della Sera, che si è vista girare un finto articolo in cui “si dice che il Coronavirus avrebbe varcato le soglie del Bresciano colpendo due dipendenti del supermercato Auchan di Concesio e una coppia di anziani di Sarezzo, in Valtrompia”. Una balla, creata solo per creare panico nella popolazione.
No, il Coronavirus non è la nuova peste…Il Coronavirus è stato talvolta presentato come una minaccia eccessiva, paragonabile quasi alle peggiori epidemie che stanno colpendo il mondo. Tuttavia, i dati ci dicono altro, come spiega il ministero della Salute: “Come altre malattie respiratorie, l’infezione da nuovo coronavirus può causare sintomi lievi come raffreddore, mal di gola, tosse e febbre, oppure sintomi più severi quali polmonite e difficoltà respiratorie. Raramente può essere fatale“. In particolare “la maggior parte delle persone (circa l’80%) guarisce dalla malattia senza bisogno di cure speciali. Circa 1 persona su 6 con Covid-19 si ammala gravemente e sviluppa difficoltà respiratorie”. Il tasso di mortalità invece, secondo i dati diffusi dall’Organizzazione mondiale della Sanità, sarebbe molto più basso rispetto a quanto creduto fino ad ora: “La missione Oms in Cina si è conclusa e ha reso noto alcune conclusioni: si è evidenziato un tasso di letalità fra il 2 e il 4% a Wuhan, e dello 0,7% fuori Wuhan“. Su Worldometers troviamo invece il tasso di mortalità in base alle fasce d’età e si va dallo 0.2% dai 10 ai 39 anni fino al 14.80% per gli over 80 (come dimostrano tragicamente le morti registrate in Italia). Anche Roberto Burioni oggi, in un’intervista al Corriere, ha affermato: “La paura è un virus e il suo vaccino è l’informazione. Se un bambino teme che nella stanza ci sia un mostro, bisogna accendere la luce. Io sono il primo a dire che il coronavirus non è un raffreddore. Ma questo non significa che sia la peste”.
…e non rende sterili. Secondo un articolo del Thailand Medical News, che fa riferimento a un paper scientifico apparso online, gli uomini infettati da Coronavirus diventerebbero sterili. Nulla di più falso, come riporta Wired: “Anzitutto il paper in questione è disponibile in rete ma non è stato pubblicato da alcuna rivista scientifica, e inoltre non è stato sottoposto ad alcun processo di peer-review. Dunque i suoi contenuti sono in ogni caso da prendere con cautela. Soprattutto, poi, nel paper non c’è affatto scritto che i maschi diventano sterili a causa del coronavirus, ma si dice più semplicemente che nei pazienti più gravi possono esserci dei danni ai tessuti dei reni e dei testicoli, dovuti sia al virus sia alla tossicità indotta dai farmaci utilizzati per contenere i sintomi. E si legge che nel caso dei testicoli esiste la possibilità che i danni siano così gravi da determinare la comparsa di tumori oppure da compromettere la fertilità”. Ci possono dunque essere pericoli, ma si tratta solamente di ipotesi che non hanno ancora trovato alcuna conferma.
“Scuole chiuse in tutto il Paese”. Diversi siti hanno dato la notizia che, le scuole di tutta Italia rimarranno chiuse fino al 5 marzo. Anche in questo caso, nulla di più falso. Sono stati chiusi solamente gli istituti di Lombardia, Piemonte, Veneto, Emilia Romagna, Friuli Venezia Giulia, Trentino Alto Adige e Liguria e sono state sospese le gite fino al 15 marzo.
L’audio-fake che istiga all’assalto dei supermarket: la Procura apre un’indagine. Pubblicato mercoledì, 26 febbraio 2020 su Corriere.it da Giuseppe Guastella. Una «fake news» che potrebbe spingere, se non lo ha già fatto, i milanesi a fare incetta di generi alimentari e altro nei supermercati, come di fatto è avvenuto nei giorni scorsi. Oltra alla paura da coronavirus, anche un audio diffuso su Whatsapp potrebbe essere tra le cause della psicosi da accaparramento che si è verificata nei giorni scorsi a Milano. Nell’audio la voce di una donna incita a «fare la scorta» perché Milano finirà «in quarantena come mi ha detto la moglie di uno della Regione». Su chi ha realizzato e diffuso il file i procuratori aggiunti di Milano Tiziana Siciliano e Eugenio Fusco hanno aperto un’inchiesta per «diffusione di notizie false atte a turbare l’ordine pubblico». Stando a quanto ricostruito dalla polizia giudiziaria nell’inchiesta coordinata dal dipartimento «Ambiente, salute, sicurezza, lavoro» e da quello di contrasto alle truffe, l’audio, che dura poco più di un minuto, sta circolando almeno da sabato scorso, proprio da quando a Milano e non solo tantissime persone hanno dato l’assalto ai supermercati per fare scorte di spesa per la paura del coronavirus. Nell’audio la donna dice, tra le altre cose, che il marito di una sua amica lavora in Regione e sostiene di aver saputo, in pratica, che prima finiranno in quarantena i Comuni attorno a Milano, tra cui Garbagnate Milanese, e poi accadrà anche alla città (i riferimenti temporali che dà, tra l’altro, provano che non è successo). «Hanno perso il controllo», dice ancora la voce di donna, con tono serio e preoccupato. E incita a fare «la scorta» a «organizzarsi con la spesa». La Procura, che ha adottato una linea dura contro queste forme di sciacallaggio, ha scelto di contestare il reato previsto all’articolo 656 codice penale, ossia «pubblicazione o diffusione di notizie false, esagerate o tendenziose, atte a turbare l’ordine pubblico», ed è convinta che arriverà presto ad individuare chi ha messo in giro quel messaggio per creare panico. Un reato che prevede l’arresto fino a 3 mesi o la multa di 300 euro. Al vaglio, tra l’altro, c’è anche un altro audio, di meno di un minuto, nel quale sempre una voce di donna sostiene che anche Lodi, così come Codogno, finirà «in quarantena».
Da ilmessaggero.it il 26 febbraio 2020. Una donna incita a «fare la scorta» perché Milano finirà «in quarantena» per il coronavirus come mi ha detto la moglie di uno della Regione». I procuratori aggiunti di Milano Tiziana Siciliano e Eugenio Fusco hanno aperto un'inchiesta per diffusione di notizie false atte a turbare l'ordine pubblico in relazione all'audio che circola su Whatsapp: l'ipotesi è che quell'audio, ascoltato da numerose persone, abbia spinto molti sabato a dare l'assalto ai supermarket. Stando a quanto ricostruito dalla polizia giudiziaria nell'inchiesta coordinata dal dipartimento "ambiente, salute, sicurezza, lavoro" e da quello di contrasto alle truffe, l'audio, che dura poco più di un minuto, sta circolando almeno da sabato scorso, proprio da quando a Milano e non solo tantissime persone hanno dato l'assalto ai supermercati per fare scorte di spesa per la paura del Coronavirus. Nell'audio la donna dice, tra le altre cose, che il marito di una sua amica lavora in Regione e sostiene di aver saputo, in pratica, che prima finiranno in quarantena i comuni attorno a Milano, tra cui Garbagnate Milanese, e poi accadrà anche alla città (i riferimenti temporali che dà, tra l'altro, provano che non è successo). «Hanno perso il controllo», dice ancora la voce di donna, con tono serio e preoccupato. E incita a fare «la scorta» a «organizzarsi con la spesa». La Procura, che ha deciso il 'pugno durò contro queste forme di sciacallaggio, ha scelto di contestare il reato previsto all'articolo 656 codice penale, ossia «pubblicazione o diffusione di notizie false, esagerate o tendenziose, atte a turbare l'ordine pubblico», ed è convinta che arriverà ad individuare chi ha messo in giro quel messaggio per creare panico. Un reato che prevede l'arresto fino a 3 mesi o la multa di 300 euro. Al vaglio, tra l'altro, c'è anche un altro audio, di meno di un minuto, nel quale sempre una voce di donna sostiene che anche Lodi, così come Codogno, finirà «in quarantena».
Luca Mastinu per bufale.net il 6 marzo 2020. Nuovo audio WhatsApp attribuito ad Azzolina: “Il Coronavirus si sta trasformando in ceppi più gravi”. Un nuovo audio WhatsApp viene attribuito al Ministro dell’Istruzione Lucia Azzolina, con ulteriori approfondimenti già disponibili sul nostro sito. La voce che parla afferma di aver appena parlato in aula e che presto arriverà un comunicato stampa. La persona riferisce di trovarsi al Senato e di aver ascoltato un intervento di Elena Cattaneo che avrebbe detto che il Coronavirus si sta trasformando in ceppi più gravi. Oltre a una serie di considerazioni sulla chiusura delle scuole e degli uffici, la persona che parla dice che è possibile uno slittamento del Referendum e delle elezioni regionali (è vero, slitta il Referendum). In ogni caso ciò che ascoltiamo non sembra la voce di Lucia Azzolina, che per questioni fonetiche risulta differente dalla voce che sta circolando su WhatsApp. Non avendo alcuna prova che si tratti di Lucia Azzolina (cosa che noi escludiamo), e soprattutto non esistendo le fonti sulle dichiarazioni della Cattaneo circa la trasformazione del Coronavirus in ceppi più gravi, vi chiediamo di non condividere, e come sempre vi invitiamo a non considerare mai attendibili gli audio a tema Coronavirus che vi arrivano su WhatsApp. Nell’ultima ora, inoltre, il Ministro Azzolina ha smentito il contenuto dell’audio WhatsApp: Come ho più volte detto in questi giorni, in un momento così particolare per il Paese, è fondamentale non dare spazio a notizie false che poi diventano virali creando inutili allarmismi. In queste ore sta circolando un audio che mi viene attribuito con una voce femminile, palesemente non mia, che parla di un intervento in Parlamento che non ho mai fatto e riferisce parole che non ho mai detto. Ovviamente è un fake. Così come falso è il documento a mia firma che sta girando con indicazioni completamente inventate sulle modalità per svolgere la didattica a distanza. Ripeto. Le uniche fonti di informazioni attendibili sono quelle ufficiali del Governo. È grave e irresponsabile far circolare notizie che non fanno altro che generare confusione. Ho dato disposizioni per accertare gli autori. Siamo tutti chiamati alla responsabilità in questo momento. Infine vi riportiamo quanto scritto da Wired sulla base di un report dell’OMS (qui il documento originale): il Coronavirus non sta mutando significativamente, dunque non diverrà più aggressivo.
Aggiornamento: riceviamo dall’ufficio stampa della senatrice Elena Cattaneo, altra coinvolta nella bufala, e, con piacere, ridiffondiamo. In merito a un audio WhatsApp sulla diffusione del Coronavirus, in cui viene richiamato l’intervento in Aula della Senatrice a vita Professoressa Elena Cattaneo pronunciato nella giornata di ieri 4 marzo, in occasione della conversione in legge del DL 6/2020, si precisa che l’intervento della Sen.ce Cattaneo non corrisponde a quanto contenuto nel messaggio. Riferendo l’audio di affermazioni mai formulate, si invita chiunque ad attingere esclusivamente alle fonti dirette qui richiamate.
Da liberoquotidiano.it il 6 marzo 2020. Tutti i nodi vengono al pettine. Nella mattinata di giovedì 5 marzo Lucia Azzolina era stata scossa da un audio che viaggiava rapido tra le chat di Whatsapp, inerente ai meccanismi di diffusione del coronavirus. Un audio che era stato attribuito alla ministra dell'Istruzione, ma rivelatosi un fake. Per un po' la voce femminile che snocciolava raccomandazioni sull'emergenza è stata avvolta dal mistero. Poi però Daniela Sbrollini, senatrice di Italia Viva, è uscita allo scoperto con l'Adnkronos. "Ho preso atto della diffusione di un messaggio audio, destinato ad una chat tra amici, nel quale ho riferito il contenuto di un intervento in aula di una titolata collega. Tale audio - spiega la renziana - sostanzialmente privato, è stato divulgato e utilizzato strumentalmente da taluni che, evidentemente, intendono generare e diffondere confusione e timori". Chissà che la confessione non possa avere una ripercussione sul governo, considerando che i rapporti interni alla maggioranza sono già molto tesi: guarda caso proprio ad Italia Viva è capitato di commettere un errore così grossolano.
Coronavirus: l’audio allarmista era della renziana Sbrollini, non della ministra Azzolina. Pubblicato venerdì, 06 marzo 2020 su Corriere.it da Viginia Piccolillo. Non era della ministra Cinquestelle Lucia Azzolina, ma della senatrice di Italia viva, Daniela Sbrollini, l’audio che parlava con toni allarmistici di una presunta mutazione in corso del Covid-19, circolato mercoledì sulle chat di diversi parlamentari. A rivelarlo alla stampa la stessa senatrice renziana che ha parlato di «messaggio audio destinato a una chat tra amici nel quale ho riferito il contenuto di un intervento di una autorevole collega». Il riferimento era alla senatrice a vita e accademica dei lincei, Elena Cattaneo, farmacologa e biologa, nota per i suoi studi sulle cellule staminali. Nell’audio la senatrice Sbrollini le attribuiva frasi preoccupate per sul ceppo del Covid-19 in via di trasformazione, potenzialmente capace di aumentare la velocità di diffusione, smentite dallo staff della senatrice. Indignata la ministra Azzolina aveva immediatamente smentito su Facebook. «In un momento così particolare per il Paese, è fondamentale non dare spazio a notizie false che poi diventano virali creando inutili allarmismi», aveva detto la ministra riferendo di «un audio che mi viene attribuito con una voce femminile, palesemente non mia, che parla di un intervento in Parlamento che non ho mai fatto e riferisce parole che non ho mai detto. Ovviamente è un fake. Ho dato disposizioni per rintracciare gli autori. Le uniche fonti ufficiali sono quelle del governo». A quel punto la collega renziana è venuta allo scoperto. «Ho preso atto della diffusione di un messaggio audio, destinato ad una chat tra amici, nel quale ho riferito il contenuto di un intervento in aula di una titolata collega. Tale audio, sostanzialmente privato, è stato divulgato e utilizzato strumentalmente da taluni che, evidentemente, intendono generare e diffondere confusione e timori», ha detto all’Adn-Kronos, Daniela Sbrollini. Senza però smentire il riferimento alle parole della senatrice scienziata. Ma cosa aveva detto in realtà la senatrice Cattaneo? Il suo intervento integrale mostra che non c’era alcun riferimento al virus mutante. Piuttosto di quali strumenti abbia il nostro Paese per contrastare la «enorme pressione sanitaria, economica, sociale e politica causata da un virus sconosciuto che sta spaventando il mondo». Ne enumerava tre. Il primo, diceva, «è che mi rassicura pensare al nostro Sistema sanitario nazionale, alla collaborazione tra scienziati, personale sanitario, istituzioni sanitarie e politiche e mi incoraggia vedere i nostri ospedali, gli IRCSS pubblici e privati, in campo insieme. Mi vien da dire che siamo attrezzati». Poi parlava delle procedure di contenimento dell’epidemia: «Ho capito che dobbiamo concentrare la nostra attenzione verso le prossime due o tre settimane. Lì ci giochiamo tutto, perché le statistiche ci dicono che ogni contagiato è come una biglia che ne colpisce altre due, contagiandole (un po’ di più di 2)» che le misure varate dal governo hanno l’obiettivo di rallentare. «É l’esponenzialità che ci preoccupa, quella delle prossime due o tre settimane. L’obiettivo è proprio di rallentare l’effetto di queste biglie per schiacciare la curva dei contagi, diluirli, distribuirli nel tempo, nel territorio, dando la possibilità ai nostri ospedali pubblici e privati di farsi carico di tutto ciò». E auspicando la collaborazione dei cittadini aggiungeva, «se non collaboriamo tutti rischiamo davvero di avvicinarci a un precipizio». Infine, dopo aver indicato che il terzo strumento é la scienza e chiedendo come assicuriamo al nostro Paese la ricerca, invitava ad alimentare la fiducia dei cittadini «con la trasparenza», ma « senza aumentare le paure innate in ciascuno di noi».
Contro il coronavirus, "tutto andrà bene": i post anonimi invadono la Lombardia. Lucia Landoni il 6 marzo 2020 su La Repubblica. Si trovano sulle serrande dei negozi, sui muri e sugli alberi, in metropolitana e negli ospedali: post-it anonimi con un messaggio semplice, ma importante, soprattutto nel periodo dell'emergenza coronavirus. "Tutto andrà bene", si legge sui foglietti colorati che stanno apparendo in varie città – da Bergamo a Milano, da Castenedolo (nel Bresciano) a Rescaldina (nell'hinterland milanese) – e di riflesso si stanno moltiplicando sui social network, Instagram in particolare. "Tutto andrà bene è una strana magia: si scrive al futuro, si sorride subito", spiega la poetessa che ha ideato l’iniziativa, ma che vuole rimanere anonima "perché sia valorizzato il gesto e non la persona che lo compie. 'Tutto andrà bene' è una frase che appartiene a tutti e deve rimanere così". Intanto la sua idea sta regalando molti sorrisi: "Grazie a chi ha avuto questo pensiero bellissimo per noi” è il commento di uno dei commercianti che ha trovato il messaggio sulla porta del proprio negozio, mentre altri l’hanno definito “un buon auspicio", "come una ripartenza" e "un gesto di cura".
Margherita De Bac per il “Corriere della Sera” il 4 febbraio 2020. Chiamano anche per sapere se «è un rischio aver tenuto un serpente a casa» o «aver acquistato magliette made in China». Sono le domande più strambe raccolte dal 1500, numero verde istituito dal ministero della Salute con una doppia funzione. Rispondere alle domande sull' epidemia ed eseguire un primo screening sulle segnalazioni di casi sospetti. Una sorta di triage telefonico, per evitare le corse al pronto soccorso degli ospedali. Tra il 27 e il 29 gennaio, smistate circa 1600 chiamate, soprattutto da italiani e cinesi residenti in Italia, dirigenti scolastici e albergatori. I dubbi espressi con maggiore frequenza riguardano le precauzioni da adottare per proteggersi, le modalità di trasmissione del virus, il periodo di incubazione, i sintomi Numerose le richieste sulla possibilità di infettarsi maneggiando oggetti e alimenti di provenienza cinese. Il traffico di telefonate dipende dal clamore delle notizie. Quando si è saputo della coppia cinese con diagnosi positiva da ricoverata allo Spallanzani, il flusso ha avuto una impennata: 1200 contatti in 24 ore. La curva si è alzata in particolare dopo la conferenza stampa del premier Conte e del ministro della Salute Roberto Speranza. Il giorno successivo, sono arrivate altre 1500 chiamate. Fenomeno atteso per Giuseppe Ruocco, coordinatore al ministero Salute delle attività legate all' emergenza, tecnico della task force anti coronavirus. C' era lui nel 2003 quando il 1500 venne creato dall' allora ministro Girolamo Sirchia per affrontare l' emergenza SARS, la sindrome respiratoria grave simile alla nuova. Ora l' organico è stato rimpolpato anche con l' inserimento di mediatori di lingua cinese e psicologi che devono gestire 15 linee di risposta.
Coronavirus, tutte le fake news nelle telefonate al numero del ministero. Pubblicato mercoledì, 05 febbraio 2020 su Corriere.it da Margherita De Bac. «Il mio cane può essere contagiato, come posso proteggerlo?». Oppure «Ho acquistato una cintura in un negozio cinese, è un pericolo? Le fake news che invadono i social rimbalzano automaticamente sul numero aperto dal ministero della Salute proprio per offrire un punto di riferimento informativo ufficiale agli utenti spaventati. Dall’inizio dell’attivazione una media di 800 contatti al giorno soddisfatti, con punte oltre le 1200 in coincidenza con fatti di cronaca allarmanti ad esempio il ricovero allo Spallanzani della coppia di turisti. Oltre a svolgere la funzione di triage, cioè di screening delle segnalazioni serie di tipo sanitario e indirizzare gli interventi del 118, il 1500 raccoglie e risponde anche a domande sciocche, frutto della facile suggestione. La maggiore paura riguarda gli oggetti di fabbricazione cinese, erroneamente creduti veicolo di contagio del coronavirus. Il premio all’irrazionalità delle domande va al signore che, dopo aver acquistato in un negozio cinese una cintura di pelle, ha telefonato per accertarsi che non fosse pericoloso tenerla a casa: «Sa com’è, magari è stata toccata da un malato». La coordinatrice del servizio 1500 è Francesca Zaffino che si occupa di gestire il numero diversamente utilizzato tutto l’anno, utilizzato per le emergenze: «Non mi era mai capitato di affrontare una tale ondata di chiamate, in gran parte dettate da paura irragionevole. Noi rispondiamo con calma anche quando lo stesso interlocutore ci contatta più volte nello stesso giorno. Se necessario abbiamo nella squadra di operatori psicologi capaci di gestire l’ansia. Gli anziani che vivono da soli cercano la nostra voce per un conforto sebbene non abbiano nessuna ragione per agitarsi visto che non escono di casa». Le maggiori paure sono legate dunque alle merci Made in china. Chiamano anche la notte per ricevere rassicurazioni. «Mentre camminavo per strada ho incrociato un ragazzo cinese che mi sembra abbia tossico, devo andare a fare il test?», chiede uno delle migliaia di utenti. Altre domande: quanto sopravvivono i virus all’esterno? Sono stato a via Cavour dove sono passati i due coniugi cinesi ricoverati allo Spallanzani, rischio? Ci sono poi gli stalker, come un utente che telefona ripetutamente sostenendo di essere immune da qualsiasi infezione e dunque si offre ai ricercatori per essere utilizzato come caso da studiare. Gli operatori lo assecondano affinché la linea possa essere liberata in fretta per lasciare spazio alle domande serie. Fra i quesiti più frequenti, dove poter acquistare la mascherina, il cui uso è oltretutto inutile. Al mercato nero sono vendute anche a due euro ciascuna. «A chi ci racconta di esserne sprovvisto e di aver paura di circolare per strada consigliamo di coprirsi bocca e naso con sciarpa e fazzoletto ma solo affinché si sente psicologicamente sereno», dice Zaffino. Il traffico delle telefonate risente delle fame news rilanciate dai social. Il ministro della Salute Roberto Speranza ha chiuso un accordo con Twitter: chi digita coronavirus viene rimandato al sito ufficiale e alle informazioni corrette. Sono diverse decide gli interventi sanitari attivati dal numero del ministero in seguito alla descrizione di sintomi influenzali da parte di persone provenienti da Cina o che hanno avuto contatti con cittadini cinesi arrivati da fuori. «Trattiamo anche casi difficili come ad esempio quei turisti di Hong Kong rifiutati dall’albergatore di un break and breakfast dove avevano prenotato. E questo soltanto perché uno di loro mentre faceva il check in ha starnutito. Gente che resta in mezzo alla strada senza motivo».
I social network contro le notizie false sul coronavirus: le mosse di Facebook, Twitter e YouTube. Livia Liberatore su It.mashable.com l'1 febbraio 2020. I social media adottano misure contro la diffusione di notizie false e teorie del complotto sul coronavirus, che dal 30 gennaio è arrivato anche in Italia con i primi due pazienti, due turisti cinesi, ricoverati all'Istituto Spallanzani di Roma. Il coronavirus ha risvegliato ipocondrie e razzismi contro i cinesi: in questo clima il germe che è circolato di più è stato quello delle fake news. Bloomberg e altri giornali hanno isolato quelle più frequenti. Facebook, Twitter, Google e YouTube si sono messe al lavoro per fermare quello che sta succedendo fra i loro utenti.
Facebook e Instagram. Facebook è intervenuta in modo deciso. Come spiegato in un post sul blog della società, verranno rimossi dai "controllori" della piattaforma i contenuti "con affermazioni false o teorie del complotto che sono state contrassegnate dalle principali organizzazioni sanitarie globali e dalle autorità sanitarie locali e che potrebbero causare danni alle persone che ci credono". Fra queste fake news ci sono quelle "relative a false cure o metodi di prevenzione - come bere candeggina cura il coronavirus - o affermazioni che creano confusione sulle risorse sanitarie disponibili". Le misure contro le notizie false coinvolgono anche Instagram. "Bloccheremo o limiteremo anche gli hashtag utilizzati per diffondere disinformazione", affermano i responsabili di Facebook. "Aiuteremo le persone a ottenere informazioni pertinenti e aggiornate tramite messaggi in cima al feed delle notizie su Facebook", precisa inoltre la policy di Facebook sul coronavirus, "Quando qualcuno cerca informazioni relative al virus su Facebook o tocca un hashtag correlato su Instagram, apparirà un pop-up che fornisce informazioni verificate".
Twitter. La società ha annunciato che impedirà risultati di ricerca automatizzati che "potrebbero indirizzare gli individui a contenuti non attendibili" e indirizzerà invece gli utenti verso informazioni autorevoli di organizzazioni come i Centers for Disease Control and Prevention (CDC). "Abbiamo modificato il nostro sistema di ricerca in modo da garantire che quando si arriva al #coronavirus, si incontrano prima informazioni attendibili e autorevoli", ha scritto Twitter in una nota. La società ha stretto collaborazioni con organizzazioni di 14 paesi, tra cui Stati Uniti, Australia e Giappone, e afferma che si espanderà in più sedi "in caso di necessità".
Google e YouTube. Google ha annunciato il 30 gennaio che quando le persone cercano informazioni sul coronavirus, visualizzeranno un avviso speciale con gli aggiornamenti dell'Organizzazione Mondiale della Sanità. "Abbiamo lanciato un avviso SOS con l'Oms, per rendere facilmente accessibili le risorse sul coronavirus", ha scritto su Twitter il team di comunicazione dell'azienda. "Quando le persone cercano informazioni correlate su Google, troveranno l'avviso in cima alla pagina dei risultati con accesso diretto a suggerimenti sulla sicurezza, informazioni, risorse e aggiornamenti su Twitter dall'OMS". Qui viene illustrato come si visualizza l'avviso negli Stati Uniti. Anche YouTube, di proprietà di Google, ha affermato che promuoverà i video da fonti verificate quando le persone cercano clip sul virus. La società ha affermato che indicherà in modo specifico i contenuti di utenti fidati, come esperti di salute pubblica o notiziari, nei risultati di ricerca o nei panel che suggeriscono quali video guardare.
Coronavirus, le quattro fake news a cui tutti hanno creduto. Lisa Pendezza il 30 gennaio 2020 su Notizie.it. Dal fallito esperimento militare al piano di Bill Gates: tutte le fake news diffuse in Italia e nel mondo sull'epidemia di coronavirus. In tutto il mondo cresce la paura per il coronavirus, l’infezione che, dal focolaio di Wuhan, sta facendo registrare casi di contagio anche negli altri continenti. Sull’onda della psicosi, anche in diverse città italiane (come Napoli) le mascherine monouso sono andate a ruba, nonostante i dubbi degli esperti circa la loro utilità per proteggersi dalla trasmissione del virus CoV. A partire dai primi casi registrati in Cina, nel dicembre 2019, fino a quando, un mese dopo, il numero di vittime ha superato il centinaio, sono diverse le fake news diffuse sul web e dai media sui pericoli del coronavirus.
Quattro fake news sul coronavirus.
La prima fake news è quella secondo cui il coronavirus sarebbe frutto di un esperimento fallito all’interno di una base militare in Cina. La notizia è stata diffusa da una testata americana e ripresa in tutto il mondo, pur senza alcun fondamento.
C’è poi chi sostiene che il coronavirus è stato creato da un’azienda farmaceutica e che il vaccino per il CoV, in realtà, esisterebbe già da diversi anni. La verità, però, è che il vaccino per proteggere dall’infezione ancora non è stato messo a punto.
C’è poi la fake news secondo cui Bill Gates (che ha donato 10 milioni per la ricerca e la prevenzione) sarebbe stato già a conoscenza dell’epidemia. Diversi siti di bufale sostengono che il fondatore di Microsoft farebbe parte di un’élite globalista il cui fine ultimo sarebbe dimezzare la popolazione mondiale proprio sfruttando patologie letali come quella di Wuhan.
Ma la bufala più diffusa in Italia, in particolare dopo i numerosi casi sospetti nel Paese, è quella relativa ai pericoli che deriverebbero dalla frequentazione di negozi e ristoranti gestiti da cittadini cinesi. Sono tantissimi gli utenti che hanno ricevuto messaggi su WhatsApp che esortano a evitare tali locali per proteggersi, ignorando il fatto che il coronavirus non può essere trasmesso da oggetti inanimati.
“L'ha diffuso Bill Gates”. Tutte le bufale sull'emergenza coronavirus dalla Cina. Alessandro Barcella il 31 gennaio 2020 su le Iene News. Dalla polizia di Wuhan che “spara a chi tenta di scappare” a Bill Gates, fino alle “montagne di cadaveri nascoste negli ospedali cinesi” e all’esperimento “sfuggito di mano”. Ecco le teorie complottiste più assurde, compreso un audio su WhatsApp e alcuni messaggi che ci sono arrivati, sul coronavirus partito dalla Cina che è appena sbarcato anche in Italia. Il coronavirus cinese? Creato dalle lobby farmaceutiche, finanziate da Bill Gates. È solo l’ultima, in ordine di tempo, delle assurde teorie complottiste sull’emergenza coronavirus che stanno invadendo la rete. Teorie che adesso, dopo che sono stati accertati ieri sera i primi due casi di virus nel nostro Paese su due turisti cinesi a Roma e in assenza di un serio lavoro di “debunking”, stanno facendo letteralmente abboccare migliaia di persone. Ma analizziamola quest’ultima teoria complottista, portata avanti da un sito il cui nome è già tutto un programma: disinformazione.it. Il portale, che aspira ad andare “oltre la verità ufficiale”, mette in fila alcuni fatti e costruisce una sua inquietante “verità”. Leggiamola.
1. Dal 2001, dopo il morbo della “Mucca pazza”, abbiamo visto nel 2002, 2005 e 2009 rispettivamente Sars, influenza aviaria e peste suina. Pandemie devastanti che avrebbero decimato la popolazione del pianeta. Secondo i giornali avremmo camminato sopra montagne di cadaveri virulenti, ma stranamente le uniche montagne sono state di soldi per le lobbies farmaceutiche che hanno gentilmente sfornato vaccini, tamiflu, antibiotici, ecc.
2. Nel novembre 2013 la Fondazione Bill & Melinda Gates finanzia con 189.000 dollari l'Istituto britannico Pirbright.
3. A luglio 2015 l'Istituto Pirbright deposita il brevetto per i coronavirus attenuati da usare come vaccino per prevenire malattie polmonari e respiratorie...
4. Nel 2017 in Cina viene costruito, nel centro di Wuhan, il primo laboratorio con il massimo livello di biosicurezza (BSL-4), con lo scopo di affrontare le più grandi minacce biologiche del pianeta (Sars, Ebola, ecc.). Stranamente sarà la città dove si è registrato il primo caso del nuovo coronavirus...
5. Ad aprile 2018, durante la conferenza annuale della Massachusetts Medical Society a Boston il miliardario filantropo Bill Gates aveva predetto la diffusione di un nuovo virus che avrebbe potuto colpire il Sud dell'Asia causando 30 milioni di morti in 6 mesi. Profezia molto precisa: "Il mondo ha bisogno di prepararsi per le pandemie come i militari si preparano alla guerra".
6. Il 18 ottobre 2019 a New York si è svolto l'Event 201, una esercitazione di pandemia del massimo livello, con lo scopo ufficiale di gestire e ridurre le conseguenze economiche e sociali su larga scala di un'eventuale epidemia virale da coronavirus, che avrebbe causato “65 milioni” di vittime. Gli organizzatori dell'evento: Johns Hopkins Center for Health Security, World Economic Forum e l'immancabile Fondazione Bill & Melinda Gates.
Ipotesi sicuramente suggestive, ben costruite, in grado di convincere i più sprovveduti. Peccato che arrivino da un sito che del complottiamo ha fatto la propria ragione d’essere. E che, solo per citarne altre, elenca queste altre nuove bufale.
1. Esiste una “polvere neurale”, disseminata nell’ambiente e quindi diffusa nei nostri organismi, che ha lo scopo di controllare gli esseri umani. La polvere è diffusa anche attraverso le scie chimiche degli aerei.
2. Tutti media mondiali fanno parte di una cospirazione per spingere la gente a uno stile di vita che li fa ammalare, per poi garantire profitto alle multinazionali del farmaco.
3. Dietro alla tecnologia 5G si nasconde un piano occulto di dominazione da parte della Massoneria.
Vi bastano queste teorie complottiste per valutare quella sul coronavirus cinese? Ma non finisce qui. Parliamo della versione secondo la quale il coronavirus responsabile, al momento, di 213 morti e 9.776 contagiati, sarebbe uscito per errore proprio dal laboratorio di Wuhan, il National Bio-Safety Laboratory, dove si svolgerebbero “esperimenti militari coperti dal più grande segreto”. Una tesi rilanciata da alcuni media, anche italiani, e sostenuta poco tempo prima dal “Washington Times” (strano incrocio nel nome tra le autorevolissime testate americane Washingon Post e New York Times) che cita un esperto, che poi però incalzato da altri giornalisti è stato costretto ad ammettere di aver parlato “senza alcuna conferma tangibile”. Ma è davvero infinita la serie di bufale che saltano fuori a ogni emergenza, soprattutto se si parla di posti lontani in cui è più difficile avere conferme ufficiali. Il terreno di battaglia preferito dai bufalari sono i social, con messaggi audio o post, che fanno circolare notizie allarmanti proprio da Wuhan: una città nella quale “la polizia spara a vista a chi tenta di scappare” e dove “ci sono oltre 9.000 casi di infettati e molti più morti di quelli dichiarati nel resto del mondo”... Come l’audio messaggio che circola in queste ore su WhatsApp. E il cui testo potete leggere qui sotto: “La situazione qui… non è bella. La città di Wuhan è blindata già da giorni… eeeee… su ogni via già in ingresso che in uscita c’è un cordone di militari armati (sospiro) che hanno l’ordine di sparare chi tenta di entrare o di uscire… sembra tipo, un film. Eeee… al riguardo… i numeri, non credete a quello che dicono in televisione! Se i nostri telegiornali avessero detto i dati reali non sarei nemmeno partito per la Cina! Quando sono atterrato, già qua, i Cinesi parlavano di pandemia. Eee…. purtroppo è un virus che si evolve e prolifica molto velocemente. Eeeee… è un virus che è stato creato in un laboratorio militare a Wuhan eee… non dà alcun sintomo nei primi giorni. E sembra che non si riesca a vedere niente neanche dalle analisi del sangue, eee… sembra proprio per questo motivo che lo scienziato, che possiamo dire sia il paziente zero, è riuscito a sfuggire allo screening test del laboratorio e poi ha cominciato ad infettare tutte le persone! Hanno parlato subito, ovviamente, di un contagio da parte di serpenti o cose del genere per non diffondere il fatto che è un virus che hanno creato loro, modificando il virus della SARS, cercando di potenziarlo. (sospiro). Poi non si sa se hanno cercato di farlo a scopi militari per… utilizzarlo oppure per potersi difendere nel caso, ovviamente creano prima il virus per poi creare il vaccino. Il problema è che a oggi ovviamente il vaccino ancora non c’è. Eee… comunque sempre riguardo ai numeri qui parlano di circa 9.000 morti e circa 70mila contagiati, le strutture delle città, della città di Wuhan sono da giorni al collasso diciamo, eee… per questo motivo stanno costruendo un ospedale a tempi record cheeeee dovrebbe contenere circa 1000 letti e poi dopo stanno iniziando in questi giorni a costruirne un altro ancora più grande cheeeee… dovrebbe…. contenere quindi molti più letti quindi sì, stanno pensando in grande. Eeeeeeeeeeee… oltre a Wuhan, la città di Wuhan sono state bloccate anche altre città e a oggi sono circa 70 milioni, quindi più della popolazione italiana, queste persone qui, quelle bloccate nelle città, hanno coprifuoco e hanno il divieto di usare qualsiasi mezzo di trasporto a motore, eeeeeeh… poi cosa altro? Nella provincia di Hanui, che è quella di fianco a Wuhan, cheeee… è quella in cui mi trovo io, io sono ad Heifei di preciso, stanno passando anche qui dallo stato di allerta 1 allo stato di allerta 3, quindi città blindata. Noi per fortuna dovremmo riuscire a scappare proprio un pelo prima della chiusura, me lo auguro almeno (risata), poi le altre città, ad esempio Pechino e Shangai, che hanno cancellato il Capodanno Cinese, eccetera… anche in queste città stanno cancellando dei voli, eccetera, hanno… cancellato qualsiasi forma di trasporto pubblico ee… proprio a causa di questi voti cancellati non sono riuscito a partire prima, riusciamo a partire solo domani e oltretutto dobbiamo fare un volo con diversi scali, perché gli aerei si fermano a raccogliere passeggeri anche da altri (tosse) da altri aeroporti, quindi ci fermiamo, non scendiamo neanche, fanno salire gli altri e…. diciamo che però quello che mi preoccupa molto è anche la situazione in Italia, perché non so se hanno passato la notizia però pochi giorni fa è atterrato un aereo a Roma, con circa 200 passeggeri direttamente da Wuhan e sembra da quello che mi è sembrato di capire, di leggere, mi sembra che gli abbiano solo provato la febbre e fatto le analisi, ma non li abbiano messo in quarantena, e senza una quarantena di almeno dieci giorni non è possibile riconoscere il virus, perché non escono i sintomi, e fino a quando uno comincia ad avere febbre, tosse, mal di gola e comunque problemi respiratori… non se ne accorge, quindi insomma non è rassicurante questa cosa, se è veramente così, qua mi darete conferma voi se… se… se hanno passato al telegiornale qualche notizia o vero. Poi sì le cose principali sono queste qui, ci sarebbe molto altro da raccontarvi, queste sono le cose principali”.
Ci avete creduto? Siete terrorizzati? Qualcuno lo ha anche dimostrato commentando i nostri servizi sulla pagina Facebook de Le Iene. Ed ecco alcune delle nuove stravaganti teorie che avete rilanciato:
1. “Qualcuno ha voluto creare il panico durante le olimpiadi a Tokio, diffondendo il virus”.
2. “Al momento sono infetti solo i cinesi: qualcuno sta boicottando il paese asiatico”.
3. “Ogni paio di anni c'è un'epidemia.....prima era l'influenza aviaria, poi la SARS, poi l'ebola, poi il coronavirus..... Fatevi due domande...”.
4. “È una cazzata per creare psicosi collettiva per interessi di qualche multinazionale, tra un mese nessuno ne parlerà più”.
5. “I numeri reali non ci vengono detti. Se fosse così semplice
costituirebbero 2 ospedali in pochissimo tempo, bloccando aeroporti, ecc... i
numeri non sono reali, i morti sono molti di più”.
6. “La situazione è proprio grave ma questi Cinesi devono capire che questo è
successo come conseguenza delle preghiere de Mussulmani che sono stati
maltrattati, picchiati e richiusi nei campi per causa della religione che
professavano. Quindi per nessuna colpa. Ognuno deve essere libero di seguire la
religione che vuole. In poche parole "Dio vede e provvede". I mussulmani isolati
e maltrattati e ora ironia della sorte tutta la Cina isolata. Allah e grande”.
7. “Esistono trafficanti disposti a pagare decine e decine di
migliaia di euro pur di impadronirsi degli agenti patogeni: averli prima
permette di sviluppare i vaccini battendo la concorrenza”.
Ma come fare allora per contrastare la disinformazione e il complottismo?
Affidandosi alle uniche informazioni certificate e verificate, che provengono
dalle istituzioni deputate a fare vera informazione sull’emergenza coronavirus.
Come i siti delle istituzioni sanitarie cinesi, secondo i quali il virus ha
avuto origine da “animali selvatici” e “forse dal crisantemo cinese”.
“Molti animali selvatici possono trasportare agenti patogeni e diventare una fonte di trasmissione”, spiegano. “Zibetti, pipistrelli, ratti di bambù e girini sono ospiti comuni di coronavirus. Si presume che l'ospite naturale del nuovo coronavirus a Wuhan questa volta potrebbero essere pipistrelli, ma come sia trasmesso dai pipistrelli agli umani e quale sia l'intermediario non è ancora chiaro”. I dati attualmente in nostro possesso raccontano che il primo gruppo di persone infette è stato segnalato il 31 dicembre 2019, proprio nella città cinese di Wuhan, nella regione dello Hubei. L’origine del focolaio infettivo è al momento il mercato del pesce di Wuhan, il South China Seafood Market, dove viene venduto pesce selvatico. Il prestigioso Journal of Medical Virology avanza la teoria che, come spiegato dai siti cinesi che abbiamo citato, il virus sarebbe stato diffuso dai pipistrelli ai serpenti e poi all’uomo. Iene.it sta seguendo in tempo reale l'evolversi dell'emergenza coronavirus, che dalla Cina si sta diffondendo nel resto del mondo. Nella prima puntata della nostra inchiesta abbiamo raccolto la testimonianza di Nicoletta e Francesca, mamma e figlia trevigiane che da 20 anni vivono a Pechino. “La zona di Sanlitun, il distretto dei ristoranti di lusso, degli uffici e della vita notturna, è incredibilmente deserta. I marciapiedi e i lunghi viali di solito trafficatissimi sono vuoti: la città è spettrale. Le pochissime persone che si incrociano per strada indossano tutte le mascherine di protezione. Le farmacie di Pechino e i negozi hanno terminato le scorte di disinfettanti ”, ha spiegato mamma Nicoletta. Nella seconda puntata della nostra inchiesta, abbiamo mostrato gli incredibili dati di un rapporto, l'indice di sicurezza sanitaria globale 2019, che risponde a questa delicatissima domanda: l'Italia è davvero in grado di affrontare l'epidemia da coronavirus? E quello che emerge dal rapporto, che puoi leggere cliccando qui, è sconsolante: il nostro punteggio complessivo è di 56,2 punti e ci colloca diciottesimi in Europa (su 28 membri) e 31esimi nel mondo (su un totale di 195 paesi monitorati). Nella terza puntata della nostra inchiesta abbiamo raccolto l’appello di Paolo, uno dei circa settanta italiani bloccati a Wuhan, in Cina, da dove è partita l'epidemia mortale da coronavirus. E da questa città spettrale, che oggi conta oltre l'80% dei 213 morti registrati in tutto il paese asiatico, arriva la voce di Paolo, ancora in attesa trepidante di poter tornare a casa. “Noi italiani a Wuhan non abbiamo nessuna notizia certa di un aereo partito da Fiumicino per riportarci in patria. Nessuna notizia ufficiale dal consolato italiano. Stamattina ha iniziato a squillarmi il telefono molto presto, sin dalle 3-4. Parenti e amici mi chiedevano se fossero veritiere le notizie di questo volo ... Ci fa molto piacere, perché sono già dieci giorni che siamo qua senza sapere come andrà a finire questa avventura, questa brutta avventura ... ", racconta nel videomessaggio registrato nella sera italiana di mercoledì. Iene.it continuerà a seguire quotidianamente l'emergenza mondiale da coronavirus cinese, con contributi esclusivi e testimonianze sulla pandemia.
“Pandemia esagerata dai media per attaccare la Cina”. Il Dubbio il 6 febbraio 2020. La versione del giornalista americano Pauken, inviato a Pechino: “I cinesi sono sorpresi della reazione occidentale, si aspettavano solidarietà e non ostilità”. La situazione è «seria», ma la gente accetta le misure imposte dalle autorità per evitare che l’epidemia di coronavirus «sfugga al controllo». A parlare è Thomas Weir Pauken, giornalista americano che vive a Pechino, commentatore e collaboratore per la cinese Cctv e per l’emittente di Singapore Channel News Asia. «In generale la situazione è calma -spiega all’Adnkronos- all’inizio c’è stato nervosismo, preoccupazione, ma ora la gente capisce». Sicuramente, dice Pauken, che nelle sue collaborazioni giornalistiche usa anche lo pseudonimo di Tom McGregor, non ci saranno conseguenze per la leadership cinese a causa dell’epidemia. «Non parlo a nome del governo – chiarisce – ma in generale posso dire che non c’è un sentimento anti governativo». Piuttosto, prosegue Pauken, in Cina c’è la sensazione che all’estero la situazione sia stata «esagerata dai media», che invece di «mostrare solidarietà», in alcuni casi hanno «attaccato la Cina» per l’epidemia. In particolare, spiega Pauken, «i cinesi non sono contenti della reazione americana». Il sospetto, insomma, è che Washington abbia sfruttato la situazione per colpire Pechino.
Coronavirus, c’è chi crede derivi dalla birra Corona: le strane ricerche su Google. Pubblicato martedì, 04 febbraio 2020 su Corriere.it da Alessandro Vinci. Inizialmente si pensava a un bizzarro fraintendimento di qualche utente particolarmente distratto. Poi il fenomeno ha iniziato ad assumere proporzioni inaspettate, tanto da costringere perfino diversi telegiornali – ad esempio l’americano Fox News – a chiarire che no: il coronavirus non ha nulla a che fare con la birra Corona. Succede anche questo in tempo di psicosi, e a dimostrarlo sono innanzitutto i grafici di Google Trends. È infatti evidente come, nelle ultime due settimane, le ricerche mondiali dei termini «beer virus» e «Corona beer virus» siano aumentate in maniera esponenziale. I Paesi più attivi in tal senso? Nel primo caso Portogallo, Argentina e Paesi Bassi. Nel secondo Malesia, Danimarca, Romania e Taiwan. Pochissime ricerche invece in Italia.In attesa di verificare se l’equivoco avrà prodotto – come si sospetta – cali del fatturato, l’ufficio comunicazione di Constellation Brands , l’azienda produttrice di Corona, si è augurato pubblicamente «che i consumatori capiscano che non c’è nessuna connessione » tra il virus e la birra. Eccetto il nome, naturalmente. Da una parte vi è infatti un agente patogeno così ribattezzato in virtù della forma delle spicole che ne ricoprono la superficie, dall’altra un prodotto che richiama la decorazione della torre principale della chiesa di Nostra Signora di Guadalupe a Puerto Vallarta, in Messico, terra d’origine della bevanda. Intanto però il caso ha già fatto il giro del web , suscitando non poche ironie. Tra le più comuni, quelle che vedono le bottiglie di Corona in quarantena di fronte agli altri marchi del settore. Chi invece ha voluto leggere nella vicenda un preoccupante segnale per la salute della democrazia ha posto l’accento sulla scarsa capacità critica degli utenti, rei di aver associato due mondi così distanti. Rilievi sensati, ma che andrebbero rivisti alla luce dell’allarme infodemia – la sovrabbondanza di informazioni, anche false, in merito al coronavirus – lanciato domenica dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. Perché se tra le notizie verificate si infiltrano fake news e complottismi, allora tutto può improvvisamente apparire verosimile. Anche le teorie più strampalate. Quelle sì che non sono da bere.
Biagio Simonetta per ''Il Sole 24 Ore'' il 28 febbraio 2020. Era solo uno scherzo. L’ennesimo tentativo della Rete di prendersi un po’ in giro. Ora, invece, si sta trasformando in un problema vero. L’associazione fra il Coronavirus e la birra Corona, che sui social network ha dato sfogo all’inventiva simpatica di migliaia di utenti, sta avendo ricadute concrete (quindi economiche) sul marchio. Con tanto di perdite sui listini, alla borsa di New York. Ma andiamo con ordine. Da quando il Coronavirus è diventato argomento di massa, in Rete sono comparsi decine e decine di meme che lo hanno associato alla birra Corona. Foto per lo più bizzarre, che mettono in correlazione due temi in stretta antitesi: le preoccupazioni per un virus più o meno sconosciuto, e la goliardia di una bevuta. L’unica cosa in comune sta nel nome: Corona, appunto. Che i virus e la birra non abbiano alcuna relazione è quanto mai chiaro. E sarebbe inutile anche ribadirlo, se non fosse per le ricadute registrate dal sito YouGov, che dimostrano come la birra messicana abbia finito per essere vittima di questa esilarante associazione. Perché nonostante possa sembrare assurdo, qualcuno può averci creduto. E tutto il contesto sta remando contro. Su Google, le ricerche su “Coronavirus birra Corona” o “Virus Birra Corona” si sono moltiplicate. Tanto che l’azienda, nei giorni scorsi, è stata costretta a diramare una nota nella quale ha spiegato che non c’è alcun legame fra la birra e la polmonite cinese. Il punteggio relativo al marchio Corona, secondo l’indagine di YouGov, è sceso da 75 punti a 51 in queste ultime settimane. Il trend tiene conto delle informazioni positive e negative che circolano, negli Stati Uniti, su un particolare brand. Il mercato statunitense è molto importante, per la birra Corona (è la terza più consumata, dopo la Guinness e la Heineken). Sempre secondo YouGov, oggi l’intenzione di acquisto è al minimo da due anni. Ma è pur vero che si tratta di una birra molto legata all’estate, alle serate in spiaggia, dunque abbastanza soggetta alla stagionalità. Ad ogni modo, la Constellation Brands Inc (l’azienda che produce la birra messicana nei 50 stati che compongono la federazione americana) ha perso l’8% alla borsa di New York in questa settimana, come fa notare Bloomberg. Una storia ai limiti del grottesco. Una storia che racconta come il limite fra prudenza e psicosi, in questi giorni, è costituito da una linea sottilissima.
Rezza, Iss: «Le false notizie, tra la tavola e le mascherine». Il Dubbio l'1 Febbraio 2020. CORONA VIRUS, INTERVISTA AL DIRETTORE DEL DIPARTIMENTO MALATTIE INFETTIVE DELL’ISTITUTO SUPERIORE DI SANITÀ: «Non essendoci vaccino, attenzione alle persone fragili, agli anziani e ai malati cronici. Cordoni sanitari e quarantena le armi». Il direttore del Dipartimento malattie infettive dell’Istituto superiore di Sanità, Gianni Rezza, non è uno di quei medici che ci gira intorno. L’Organizzazione mondiale della Sanità dice che per i malati trattati con celerità il rischio è da basso a molto basso. Speriamo.
Come va, direttore?
«Siamo molto sotto pressione. I casi aumentano in Europa, Francia, Germania, Inghilterra, ma siamo organizzati».
E in Italia sono due. La psicosi ha di che nutrirsi.
«Senza esagerare. Il focolaio in Cina è piuttosto importante, non ci si può aspettare che ci si fermi qui. Il problema era chiaro dall’inizio: qualche ammalato sarebbe certo arrivato».
La prevenzione funziona?
«Siamo molto vigili, l’importante è che funzionino le procedure di controllo. Stanno funzionando».
Quali fake o false informazioni la colpiscono?
««La prima è la carne, l’emergenza alimentare è una roba che non sta né in cielo né in terra. Da dove sia uscito il virus non si sa, è inutile accanirsi. E’ certo molto simile a quello dei pipistrelli. Perché i pipistrelli? Perché in Cina espongono gli animali nei mercati, dove c’è un sacco di gente e certi virus sono in grado di fare il salto dall’animale all’uomo. Lo stesso salto di specie avvenuto con la Sars. Parte dal pipistrello e viaggia attraverso altri animali che lo veicolano, come i roditori. Con l’aviaria è stato trasmesso dal pollame. Ed è arrivato all’uomo».
La trasmissione tra uomo e uomo è veloce?
«Si trasmette abbastanza facilmente perché il virus s’è adattato, e avviene attraverso le goccioline di saliva».
Si pensa di evitare il contagio con le mascherine chirurgiche. Nelle farmacie sono esaurite, una sola scatola è arrivata a 50 euro.
«La cosa curiosa è che i cinesi di qui hanno svuotato le farmacie per spedirle in patria ma è proprio in Cina che tante vengono prodotte. Le mascherine un certo effetto possono averlo: sono poco filtranti, non trattengono molto, ma impediscono che il nostro fiato esca senza freno, trattengono le goccioline di saliva, e così riducono la trasmissione».
Cioé la mascherina protegge chi ti sta attorno e non dall’ingresso del virus.
«Nessuno ha ordinato di indossare le mascherine. Meglio prendere precauzioni banali, ma efficaci, come lavarsi spesso le mani, tossire o starnutire nell’incavo del gomito: va benissimo perché riduciamo anche l’incidenza dell’influenza».
Dicono che solo il 2,5- 3% muore per il coronavirus.
«Non si sa con certezza. Il 2- 3% è una casistica ufficiale, ma è un numero sia sottostimato che sovrastimato. Sottostimato perché devi dare il tempo al malato di morire e non sappiamo se è stato fatto un follow up di questi pazienti gravi. Sovrastimato, perché le casistiche ufficiali sono su una parte di tutti i malati, probabilmente si tratta di quelli più gravi. I più lievi non vanno neanche in ospedale. Per cui la mortalità non dovrebbe essere altissima. Il vaccino non esiste, come invece c’è per l’influenza. E dunque le persone fragili, anziane, con malattie croniche sono le più esposte, non si possono proteggere».
Quanto ci si mette a produrre un vaccino?
«Anni. Pure se hai la tecnologia per produrlo, una volta trovato, ci vuole tempo. Va sperimentata la sicurezza, l’efficacia, poi produrlo e distribuirlo, serve qualche anno. Ecco perché i vaccini sono sicuri, sono supertestati».
Come si cura il malato?
«In molti casi la polmonite è lieve e non richiede particolari cure, se non terapie di supporto: se si tratta di una polmonite virale grave si può andare in rianimazione. L’emergenza più alta consiste nello sperare che funzioni il cordone sanitario in Cina, e applicare la quarantena sui casi isolati. Da noi in Europa bisogna rintracciare immediatamente le persone che sono state a contatto, come stiamo facendo».
Certo non vorrei essere un cinese a Roma, guardato come un appestato.
«Men che mai vorrei essere un cinese che vive laggiù in Cina».
Fake news, quando l'antidoto fa più male del virus. Riccardo Luna il 3 febbraio 2020 su La Repubblica. Pare che Google, Twitter e Facebook siano impegnati in una lotta senza precedenti per fermare la disinformazione sul coronavirus. E' una battaglia complicata: nei giorni scorsi su Google c'è stato un (piccolo) picco di ricerche che collegavano il virus alla birra Corona. Su Facebook è tornato a circolare un vecchio post di un gruppo di medicina alternativa che afferma che l'olio all'origano avrebbe effetti benefici per contrastare il virus. Facebook ha fatto sapere che non si limiterà a rendere meno visibili certi post ma li cancellerà del tutto, una scelta molto forte, mai fatta prima anche in presenza di fake news conclamate. Questa svolta dovrebbe riguardare anche Instagram dove circolano autentiche leggende metropolitane sull'epidemia, più pericolose perché dirette ad un pubblico, quello dei giovanissimi, che è meno abituato a frequentare i siti dei grandi giornali; mentre nulla cambia per Whatsapp dove girano messaggi vocali costruiti per alimentare il panico. In questo scenario colpisce la scelta di Twitter di oscurare il profilo di ZeroHedge: si tratta di un seguitissimo blog di finanza fondato nel 2009 probabilmente da un 30enne di origine bulgara ma residente negli Stati Uniti che si firma come un personaggio del film Fight Club, Tyler Durden. E' considerato un blog di estrema destra, ma non è un fabbrica di fake news anche se in dieci anni qualche cantonata l'ha presa (ma se il criterio per oscurare un giornale fosse quello delle cantonate, non ne resterebbe nessuno). Nei giorni scorsi ha fatto un post per raccontare il profilo di un scienziato cinese di base a Wuhan, la città da dove è partita l'epidemia; questo scienziato è considerato il massimo esperto mondiale di coronavirus trasmesso dai pipistrelli. Dopo aver citato diverse ricerche in corso nel laboratorio dello scienziato, il post concludeva che per saperne di più sul virus sarebbe bene fargli visita indicando indirizzo del laboratorio, e telefono e email pubblici, presi dal sito ufficiale. Secondo un altro sito americano, di orientamento opposto, Buzzfeed, quel post metteva alla gogna lo scienziato. Tesi subito accolta da Twitter, ma contestata da molti utenti. Un conto sono le bufale, un altro la controinformazione. Il modo migliore per reagire a domande probabilmente infondate è rispondere chiaramente non censurare, perché altrimenti si dà l'impressione di voler coprire una scomoda verità. I social devono arginare bufale e minacce non diventare tribunali della verità ufficiale.
Coronavirus, il sospetto di Nicola Porro: "Se i numeri fossero veri, perché bloccare tutti i voli?". Libero Quotidiano l'1 Febbraio 2020. Sul coronavirus si annidano i peggiori sospetti. Dopo l'allarme dell'Oms sono in molti a interrogarsi sulla reale entità dell'epidemia arrivata dal cuore della Cina. Anche Nicola Porro, sulle colonne del Giornale, non risparmia teorie. "Il presidente del Consiglio Conte ha giustamente detto di 'non diffondere il panico e di non cambiare gli stili di vita'. Peccato che l'allarmismo lo stiano diffondendo anche loro. Vi sembra normale che l'Italia - chiede sospettoso - sia il primo Paese al mondo a cancellare tutti i voli da e per la Cina?". Per il conduttore di Quarta Repubblica non si tratta semplicemente di una "misura prudenziale, ma di una mossa emergenziale". "Parliamoci chiaro - prosegue Porro -. Il non detto di tutta questa vicenda è che anche il governo italiano evidentemente non crede ai numeri sulle morti in Cina. Se esse davvero fossero poco più di duecento non si capisce bene per quale motivo fare i primi della classe in questo cordone sanitario mondiale. Ripetiamo, se i dati pubblici delle organizzazioni mondiali sono corretti, questo virus si diffonde con bassa intensità, non colpisce severamente gli esseri umani in buona condizione di salute e la sua mortalità è ridotta". E invece gli annunci di Giuseppe Conte e Roberto Speranza, ministro della Salute, fanno pensare a tutt'altro.
Coronavirus, ecco perché il governo Conte ha mentito. Deborah Bergamini de Il Riformista 1 Febbraio 2020. L’ 8 dicembre 2019 nella città di Wuhan scatta l’allarme per il primo caso di coronavirus. Nonostante l’appello lanciato da alcuni medici, le autorità cinesi decidono di occultare l’informazione e punire decine di dottori per aver diffuso “pettegolezzi” sull’epidemia. Il 31 dicembre, mentre l’attenzione del mondo occidentale è rivolta all’arrivo del nuovo anno, le autorità cinesi (La Commissione Sanitaria Municipale di Wuhan) comunicano all’Organizzazione Mondiale della Sanità l’esistenza di «un focolaio di casi di polmonite a eziologia non nota» nella città di Wuhan. Il 9 gennaio 2020 il Centro cinese per il controllo e la prevenzione delle malattie comunica di aver identificato un nuovo coronavirus (2019-nCoV). Il 20 gennaio 2020 in Italia viene rafforzata la sorveglianza dei passeggeri diretti da Wuhan e di ogni altro volo con segnalati casi sospetti di coronavirus. Il 21 gennaio vengono rilevati casi con storia di viaggi a Wuhan in altre aree della Cina, come Pechino, Guangdong e Shanghai. Anche Thailandia, il Giappone e la Corea del Sud hanno segnalato casi. Il 22 gennaio la Cina sospende i voli da e per Wuhan. Nello stesso giorno viene pubblicato uno studio condotto da ricercatori cinesi secondo cui il coronavirus avrebbe origine dai serpenti. Studio poi smentito da ricercatori non cinesi. Tra l’1 dicembre e il 22 gennaio si ha notizia di 17 decessi dovuti al virus e di oltre 500 contagi. Tra il 23 gennaio e il 31 gennaio, gli ultimi dati sul coronavirus riferiscono di 213 morti (sono decuplicati in una settimana?) e oltre 10mila infezioni. La mattina del 23 gennaio 2020 il governo italiano consente – nonostante il già vigente blocco dei voli da e per Wuhan – che passeggeri provenienti da quella regione sbarchino nel nostro Paese, dopo un banale controllo termico, senza essere messi in quarantena. Il 30 gennaio il governo annuncia i primi due casi di coronavirus in Italia, casi che riguardano proprio passeggeri arrivati da Wuhan – così riportano più fonti stampa non smentite – nel giorno in cui la Cina aveva già sospeso i collegamenti con quell’area. Nella stessa data il presidente del Consiglio annuncia la sospensione dei collegamenti da e per la Cina, dopo che molte compagnie aeree di altri Paesi avevano già adottato un simile provvedimento. Questi sono i fatti. E di questi fatti già la settimana scorsa avevamo chiesto conto al ministro della Salute e al governo. Avevamo chiesto perché non si fossero messe in quarantena le centinaia di passeggeri arrivate dal focolaio dell’epidemia. Avevamo chiesto perché non si fosse usata maggiore prudenza. Avevamo chiesto al ministro della Sanità – vista la tipologia di controlli di sicurezza effettuati in aeroporto – se «c’è o non c’è la possibilità – anche minima – che tra le persone atterrate ci sia un portatore della malattia?». Non abbiamo ricevuto alcuna risposta. Una settimana dopo, in compenso, a seguito dell’annuncio del presidente del Consiglio dei due casi accertati di coronavirus, abbiamo appreso che le persone affette dal coronavirus sarebbero arrivate in Italia proprio il 23 gennaio, dopo che la Cina aveva sospeso i collegamenti per Wuhan. Abbiamo anche appreso – parole del presidente del Consiglio – che “abbiamo già predisposto, come già stavamo facendo. tutte le misure precauzionali per isolare questi due casi”». Come no. Dopo che la coppia di coniugi cinesi ha girato alcune delle zone più popolate delle nostre principali città d’arte, noi «abbiamo predisposto tutte le misure precauzionali». Precauzione vuol dire prendere in anticipo decisioni che impediscano di correre dei rischi, non dopo. Precauzione vuol dire non ritenere per forza attendibili le informazioni fornite da uno Stato non democratico come la Cina. Precauzione voleva dire tenere in quarantena i passeggeri arrivati dalle zone a rischio, fino a quando dei con trolli adeguati non avessero dato sufficienti rassicurazioni sul loro stato di salute. Parlare di precauzione adesso è un po’ fuori tempo massimo. Quando si ha l’onere di governare bisogna assumersi la responsabilità di essere informati e di fare delle scelte rapide. Purtroppo invece si è lasciato che tutto continuasse come sempre (a proposito: come mai tanta titubanza verso la Cina?). Chiedere – dopo che il virus si è iniziato a diffondere – “che il Paese sia unito e che si evitino speculazioni” è una richiesta fuori tempo massimo. Il Paese avrebbe dovuto e potuto essere unito quando le opposizioni invitavano a maggiore attenzione. Naturalmente, e su questo sono convinta che nessuno abbia dubbi, siamo tutti uniti nel volere il meglio per il nostro Paese e per i nostri concittadini. Siamo tutti uniti nell’auspicare che nessuno debba correre rischi. Il fatto, però, che siamo tutti mossi dalla stessa speranza non vuol dire che dobbiamo condividere anche il metodo per raggiungere questo obiettivo. Personalmente credo che aver chiesto maggior cura al governo non sia stata una speculazione politica, ma un modo diverso di approcciarsi alla gestione di una situazione evidentemente critica. Non sono felice di aver avuto ragione: in questa circostanza avrei preferito di gran lunga avere torto. Avrei preferito che nessuno dei passeggeri arrivati da Wuhan giovedì scorso fosse stato portatore del virus, ma purtroppo non è andata così.
· Epidemia e Smart Working.
"CON LO SMART WORKING GLI STATALI IN VACANZA" LE ACCUSE DI ICHINO FANNO INFURIARE I SINDACATI. Luca Monticelli per “la Stampa” il 16 giugno 2020. Per la maggior parte dei dipendenti pubblici lo smart working è «una lunga vacanza retribuita al cento per cento». Il giuslavorista Pietro Ichino, ex parlamentare di Pci, Pd ed esponente del partito di Mario Monti, si scaglia contro i lavoratori della Pa, in una lunga intervista a Libero. Secondo il professore della Statale di Milano sarebbe stato meglio «estendere a questi settori il trattamento di integrazione salariale, destinando il risparmio a premiare i medici e gli infermieri in prima linea, o a fornire i pc agli insegnanti, costretti a fare la didattica a distanza con mezzi propri». Un ragionamento che manda su tutte le furie i sindacalisti. La leader della Funzione pubblica della Cgil, Serena Sorrentino, ricorda innanzitutto che il lavoro agile «non è stata una scelta dei lavoratori, ma una direttiva del governo approvata per decreto che l'ha reso la modalità ordinaria. Fin quando sarà in vigore ci atterremo alle procedure. Poi, non si può generalizzare, la stragrande maggioranza degli impiegati del settore pubblico ha lavorato in presenza mentre chi era in smart working ha aumentato i propri ritmi». Tutti gli osservatori stanno monitorando la produttività, sottolinea la dirigente di Corso Italia, e «il risultato che emerge è che è aumentata». Inoltre «i servizi pubblici, in quanto essenziali, non sono mai andati in completo lockdown. La sanità, i comuni, gli assistenti sociali, gli operatori che hanno garantito l'erogazione del reddito di emergenza, l'assistenza alle persone fragili, la polizia locale, sono tutte categorie che non si sono mai fermate. Quindi puntare il dito contro i lavoratori pubblici non ha senso». E tra chi era in smart working, Sorrentino fa l'esempio degli amministrativi dell'Agenzia delle Dogane che «da remoto hanno sbloccato la fornitura dei dispositivi di protezione quando c'era l'emergenza». Infine, la responsabile della Fp Cgil ribadisce di essere d'accordo con la ministra della Pa Fabiana Dadone: «Una quota di lavoro agile va garantito anche in futuro, non come strumento emergenziale, ma come una possibilità per i cittadini. Questo non vuol dire solo stare a casa, ma organizzare l'impiego rendendolo compatibile con i propri tempi di vita. Può essere un utile strumento di conciliazione e di flessibilità in grado di aumentare la partecipazione al lavoro influendo positivamente sulla produttività. Si tratta di un segno di civiltà, non di un abuso». Michelangelo Librandi, segretario della Uil Fpl, attacca: «I nostri colleghi chiedono di tornare al lavoro in sicurezza e nello stesso tempo di regolamentare lo smart working. Ancora una volta il settore della pubblica amministrazione viene trattato in modo vergognoso, quella del professor Ichino è una polemica sterile. In Italia c'è questa mentalità secondo la quale il lavoratore pubblico deve essere controllato a vista, è una vera e propria ossessione mentre il rendimento non interessa a nessuno, l'importante è vedere una persona alla scrivania invece di valutare quello che fa».
Sulle donne grava un doppio lavoro. Rischi e vantaggi dello smart working, quale è il futuro? Titti Di Salvo su Il Riformista il 7 Maggio 2020. Prima del Coronavirus solo il 2 per cento dei lavoratori dipendenti in Italia era in smart working . Il 29% nel Regno Unito, il 16,6 % in Francia. Poi con il Coronavirus quella telematica è diventata l’unica modalità di lavoro possibile in alcuni settori. E nonostante l’assenza della banda ultra larga in molte parti del Paese e l’analfabetismo digitale, le persone in smart working sono diventate milioni in poche settimane. In questo tempo di pandemia con lo smart working la fatica per le donne raddoppia e il lavoro “produttivo” si somma al lavoro di cura. Non condiviso e senza servizi pubblici o privati di supporto, dalla baby sitter, agli asili, alla scuola, alle badanti. Ma lo smart working potrebbe rappresentare per il futuro una leva positiva per il cambiamento, per due ragioni. Perché può innescare una svolta culturale appunto nella condivisione del lavoro di cura e nel superamento degli stereotipi di genere: lo smart working può essere una modalità di lavoro scelta, nuova e utile, per donne e uomini e per la collettività. Considerando per esempio che la misurazione dell’impatto dell’attuale smart working sulle emissioni di CO2 nell’aria registra una riduzione di 60 tonnellate (dati piattaforma Jojob). E perché corrisponde ad un modello di organizzazione del lavoro fondato sul raggiungimento dei risultati piuttosto che sul controllo e la presenza fisica, che ha sempre penalizzato le donne anche dal punto di vista salariale. Sono molto divertenti, e girano veloci sui social, “meme” sui lavoratori e lavoratrici in smart working modello Tempi moderni di Charlie Chaplin. Ma è proprio così per forza? Allora parliamone. Anche perché l’innovazione digitale aiuterà il cambiamento necessario di quel modello produttivo la cui fragilità è stata scoperchiata e per sempre dal Covid. Esiste una cornice legislativa dello smart working contenuta nello Statuto del lavoro autonomo del 2017. Quasi oscurata al suo interno. E questo già dice tutto. C’è stata ostilità alla normazione di questa modalità di lavoro. Nella cultura del lavoro la dimensione collettiva è stata quella dei diritti e della dignità. In particolare per le donne il lavoro ha rappresentato non solo l’emancipazione ma anche la conquista dell’autonomia e libertà. Questo insieme di preoccupazioni, la diffidenza da parte delle imprese per la rivoluzione organizzativa necessaria e l’analfabetismo digitale diffuso, hanno rallentato la contrattazione di regole e diritti. Solo di recente i contratti collettivi hanno cominciato ad occuparsene. Quindi il primo problema è la definizione contrattuale della griglia dei diritti dello smart working a partire dal diritto alla disconnessione e dalla volontarietà. E senza dimenticare il salario. La sindaca di Roma ha comunicato a chi è in smart working, in questa fase peraltro obbligatorio, la non erogazione dei ticket pasto. Che effettivamente sono legati alla presenza ma rappresentano da tempo una integrazione salariale spendibile non solo come buono pasto per retribuzioni non certo alte. Diciamo anche che in tempo di pandemia si è chiamato smart working il telelavoro. Lo smart working prevederebbe invece un tempo di svolgimento del lavoro a casa e un tempo fuori casa. Consentendo cioè flessibilità per le persone e flessibilità dei sistemi organizzativi delle imprese in luogo di sistemi rigidi e autoritari. Nel tempo in cui ciò è possibile perché il contenuto del lavoro per il 70 per cento consiste nel trasferimento di informazioni. Per il 30 per cento invece si tratta di lavoro non sostituibile tecnologicamente: dalle professioni manuali a quelle sanitarie ai lavori di cura. Quei lavori essenziali che hanno continuato a svolgersi in questi mesi di lockdown, svolti prevalentemente da donne e non riconosciuti socialmente. In secondo luogo il rischio che lo smart working faccia fare passi indietro alle donne c’è. Anche se non è questo il tempo in cui lo si può valutare compiutamente. Un tempo sospeso di emergenza in cui alle madri e ai padri in smart working (e ai bambini e ragazzi) è mancato il supporto anche educativo delle scuole, così come delle baby sitter e dei servizi pubblici in generale. Ma sicuramente c’è. E parrebbe che più del 70 per cento di chi è rientrato al lavoro il 4 maggio sia di genere maschile. Perché gli stereotipi culturali sui ruoli di genere sono ben solidi, non li crea lo smart working. Ma li può rafforzare o indebolire a seconda delle politiche pubbliche culturali e sociali. Importante è a questo proposito tenere insieme la ripresa delle attività produttive almeno con la progettazione in tempi certi della riapertura delle scuole. Ma anche il riconoscimento del bonus baby sitting pure a chi è in smart working. D‘altra parte sono gli stessi stereotipi per i quali nella organizzazione del lavoro tradizionale le donne guadagnano di meno perché parte del salario è legato alla presenza, così come il riconoscimento del lavoro e gli avanzamenti di carriera. Quindi soprattutto parliamone. Parliamo del lavoro, del futuro per le donne e per gli uomini, parliamo della nostra vita, parliamo del cambiamento.
Smart working: tra vantaggi per vita e ambiente e pericoli dal pc. Le Iene News il 6 maggio 2020. Matteo Viviani ci racconta la rivoluzione del lavoro da casa. Dall’avere più tempo a disposizione ai pericoli dell’isolamento, dai risparmi economici e ambientali ai rischi per tutti che si arrivano dagli hacker. Con l’arrivo della pandemia lo smart working è diventato non solo parola d’uso comune ma pratica quotidiana per milioni di italiani che lavorano da casa via computer. Anche i leader politici non fanno più grandi vertici ma si contattano in video chiamata. Stessa cosa per dottori, studenti: si fa tutto quello che è possibile da remoto. Tutto sta cambiando: il rapper Travis Scott, per esempio, ha realizzato un concerto virtuale con 12 milioni di partecipanti. Ma siamo davvero pronti? Ci saremmo arrivati comunque anche senza il coronavirus? “Con più tempo “, sostiene l’imprenditore digitale Marco Montemagno. Per chi non aveva grande familiarità con il mondo digitale dover adattare a lavora da remoto da casa con computer e webcam può essere complesso. “Una persona che vive per conto suo è magari più facilitata rispetto a un genitore”, la psicologa Ilaria Cadorin. “Sei però sempre connesso, la gente non sa staccare: se sei a casa da solo è facile perdersi”, ricorda Montemagno. “Sta arrivando un 20% di pazienti nuovi per i problemi da isolamento”, continua Cadorin. “Per i genitori poi è difficile per esempio spiegare che in certi momenti non sono disponibili per i figli, soprattutto per quelli più piccoli. Figuriamoci in spazi piccoli, compresi i casi di rapporti di coppia in crisi”. Dobbiamo studiare e cercare nuovi equilibri. “Non me l’aspettavo ma si produce di più”, dice Stefano Fratepietro, esperto di sicurezza informatica. La capacità di concentrazione è facilitata. “Sono 7 anni che faccio questa vita: non tornerei mai indietro, sei padrone del tuo tempo, è una libertà meravigliosa”, è convinto Montemagno. Altri vantaggi? Si risparmia il tempo passato in macchina nel traffico per andare e tornare: “Il 50% dei pendolari passa 90 minuti in auto ogni giorno” dice l’imprenditore Gerard Albertengo. “Ogni settimana così ci risparmiamo un giorno di ferie con lo smart working e un sacco di soldi in benzina”. Aiutando anche l’ambiente. Matteo Viviani fa i suoi conti. Lavorando casa dall’8 marzo ha evitato di buttare nell’ambiente 268 chili di anidride carbonica, risparmiato 412 euro e accumulato l’equivalente di 7 giorni di ferie. E sul fronte della sicurezza informatica? I nostri computer da casa, e anche i router (le “scatoline” che ci collegano a Internet: cambiate la password!), spesso sono molto vulnerabili e purtroppo c’è un sistema che può svelare ai malintenzionati quali sono. Cosa può fare chi ci entra dentro: credere di farci vedere un sito, mentre in realtà siamo su un altro. E quando si tratta di poste, banca, Inps, Amazon, gmail… viene qualche brivido. Prima della quarantena c’erano 29mila sistema esposti su Internet, oggi ce ne sono 39mila, a volte con sistemi non più difendibili. Parliamo anche di computer che gestiscono la contabilità di imprese. C’è un’azienda con 90 dipendenti e 20 anni di storia che ha chiuso così, per colpa di un attacco hacker puramente vandalico che ha distrutto tutti i suoi dati. Una difesa c’è: installare tutti gli aggiornamenti che ci arrivano e sistemi antivirus validi. Un esempio dei pericoli? Recentemente sono state rubate le credenziali di 600mila email e messe in vendita. Tra le tante novità dello smart working, quella di una maggiore sicurezza informatica è sicuramente una delle frontiere da non trascurare.
Valentina Arcovio per “il Messaggero” il 25 marzo 2020. Lo chiamano smart working, ma per la nostra schiena è tutt'altro che un «lavoro agile». Alla fine di questa lunga quarantena saranno poche le colonne vertebrali che ne usciranno indenni. «Utilizzare ogni giorno postazioni di lavoro improvvisate può scatenare tutta una serie di sintomi e disturbi che da acuti possono diventare cronici», conferma Gianpaolo Ronconi, responsabile dell'Unità Degenza e Servizi di Riabilitazione della Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli IRCCS di Roma. «Senza contare poi lo stress e l'ansia di questi giorni, tutte condizioni che molto spesso si somatizzano sulla schiena, causando dolore», aggiunge. Il principale problema rimane l'assenza di una scrivania e di una sedia ergonomica, così come la mancanza di ausili utili al mantenimento di una postura corretta. «Alla fine si rischia una limitata mobilità articolare, oltre dolore a livello del rachide lombo-sacrale, che si irradia anche agli arti inferiori, e contratture muscolari», dice il fisiatra. Tuttavia, con qualche piccolo accorgimento è possibile alleggerire il carico sulla schiena. Prima regola: evitare di lavorare in posizioni strambe, magari seduti sul divano con il laptop sulle gambe. «Per sopperire alla mancanza di una sedia ergonomica ci si può aiutare aggiungendo un cuscino dietro la schiena, purché si cambi spesso posizione o si modifichino anche le dimensioni del cuscino» suggerisce Ronconi. È bene anche posizionarsi all'altezza giusta rispetto al computer e in mancanza di un supporto solleva laptop ci si può ingegnare. «Si possono utilizzare dei libri, impilati in modo da formare un piano inclinato, come le vecchie scrivanie di una volta e può essere una buona idea utilizzare anche un rialzo per i piedi, che può aiutare a mantenere una postura adeguata». La ridotta pressione sulle gambe, infatti, aiuta la circolazione del sangue nelle zone periferiche e riduce la pressione sulla parte bassa della schiena e delle ginocchia. Insieme al poggiapiedi, bisogna fare attenzione anche alla posizione del polso per evitare di sviluppare problemi più gravi dopo. Postura ergonomica a parte, per il fisiatra è bene non trascorrere troppo tempo seduti. «Bisognerebbe alzarsi almeno una volta all'ora e dedicare dieci minuti di tempo a semplici esercizi di stretching», raccomanda Ronconi. «Un esercizio può essere quello di flettere il tronco verso gli arti inferiori senza piegare le ginocchia. Potrebbe farci bene fare degli squat, cioè dei piegamenti sulle ginocchia mantenendo il tronco rigido. E ancora: flettere il tronco sui lati oppure fare movimenti di rotazione con il busto». Infine, fare attività fisica, per quanto la si possa fare tra le mura domestiche, può anche contribuire a distogliere l'attenzione dal frigorifero e dalla dispensa. «Aumentare di peso significa anche sovraccaricare la nostra schiena e quindi è qualcosa che va del tutto evitato».
Maria Berlinguer per “la Stampa” il 18 marzo 2020. «Assediati dall' epidemia stiamo imparando in fretta molte cose. Per esempio che uno non vale uno e in questa fase un virologo è assai più utile di un sociologo. E ancora che la sanità pubblica è meglio di quella privata e che è bene che sia controllata dallo Stato e non dalle regioni, per non parlare dei sovranisti che volevano abbattere la globalizzazione, ora in stato confusionale di fronte a un virus che non rispetta i limiti geografici, un' epidemia che possiamo sconfiggere solo mettendo in comune ricerche ed esperienze a livello mondiale. E poi dei no vax, dei terrepiattisti e delle fake news con la grande rivincita dei giornali, delle tv e delle radio». Il sociologo Domenico De Masi il primo testo sul telelavoro lo ha scritto 40 anni fa. Nel '91 ha fondato senza scopo di lucro la Sit, la società italiana telelavoro, per spingere i governi a favorire lo smart working, convinto che i vantaggi per aziende e lavoratori del lavoro domestico sia irrinunciabili. Parole cadute nel vuoto se fino al 2019 sono 570mila italiani hanno telelavorato.
E ora?
«Sotto la pressione di fatti imprevisti e drammatici sta diventando possibile lavorare da casa. Quello che sta accadendo in questi giorni è un grande esperimento sociologico. Su 23 milioni di lavoratori in Italia 16 milioni svolgono lavori intellettuali. 8 su 10 di questi potrebbero lavorare da casa con grandi vantaggi per il lavoratore che potrebbe gestire i suoi tempi, decidere se lavorare di giorno o di notte, restare in pigiama o vestirsi, interrompere per un caffè con un amico o andare a fare la spesa. Risparmierebbe tutto il tempo che occorre per raggiungere il posto di lavoro e lo stress che questo comporta, oltre il costo della benzina o dei trasporti. Potrebbe avere un rapporto conviviale con il quartiere dove abita, oggi spesso ridotto a zona in cui si dorme. Tutti vantaggi che aumenterebbe la sua produttività».
E l' azienda cosa ne guadagnerebbe?
«Un aumento di produttività dei dipendenti, come dimostrano tutte le esperienze realizzate. Inoltre avrebbe molti risparmi. Meno persone in azienda, meno canoni di affitto e meno bollette. Non parliamo poi dei vantaggi che la collettività avrebbe dal cambio di passo in termini di minore inquinamento atmosferico».
Un quadro idilliaco. Allora perché il lavoro agile in Italia non ha preso piede?
«È andato a sbattere con la volontà dei capi di avere i lavoratori sotto controllo ravvicinato, non si fidano dei loro dipendenti. Io la chiamo la sindrome di Clinton che infatti doveva avere la stagista a portata di mano. Per far decollare il lavoro agile è necessario un cambio totale di passo: non è il processo produttivo ciò che conta ma l' obiettivo che ti è stato dato. Puoi lavorare da casa tua, dalla spiaggia o dal tuo bagno. Quello che conta è il risultato finale».
In questi giorni sono molte le aziende che hanno optato per il telelavoro. Quando, speriamo tutti presto, finirà l' incubo coronavirus si tornerà in ufficio come prima?
«Difficile dirlo anche perché c' è il rischio che i vantaggi innegabili dello smart working siano associati alla prigionia che tutti stiamo subendo. Quando finalmente finirà questa pandemia magari avremo tutti voglia di tornare nel traffico e in ufficio. Non siamo degli indios, il caos, il traffico e il rumore fanno parte della nostra vita. Stare in casa 24 ore su 24 non appartiene al nostro modo di vivere. È anzi un rischio per le coppie che sono in crisi e per le famiglie dove non c' è dialogo con i figli. Le nostre emozioni finora le giocavamo in più campi da gioco: l' ufficio, gli amici magari lo sport. Ora c' è solo la casa dove facciamo i conti con la ridistribuzione degli spazi. La convivenza forzata tira fuori ed esaspera il peggio e il meglio di tutti noi, i conti li faremo alla fine».
Come sono cambiate le sue giornate?
«Non molto. Anche prima lavoravo molto in casa. Certo esco poco, piccole passeggiate. Dal '66 abito a corso Vittorio Emanuele, trafficatissimo anche di notte. Ieri a mezzogiorno ho fatto un giro fino a piazza Navona: eravamo in quattro, compreso un barbone».
Smart working, negli uffici pubblici ora è un «obbligo». Sì all’uso di pc personali. Pubblicato mercoledì, 04 marzo 2020 da Corriere.it. La circolare è stata pubblicata sul sito della Funzione pubblica mercoledì 4 marzo 2020. Le nuove norme prevedono il ricorso, in via prioritaria, al lavoro agile come forma più evoluta di flessibilità per lo svolgimento della prestazione lavorativa, in un’ottica di progressivo superamento del telelavoro e l’utilizzo di soluzioni «cloud» per agevolare l’accesso condiviso a dati, informazioni e documenti. Tra le misure più avanzate quella secondo cui il dipendente può utilizzare propri dispositivi, pc o tablet, a fronte dell’indisponibilità o insufficienza di dotazione informatica da parte dell’amministrazione, garantendo adeguati livelli di sicurezza e protezione della rete secondo le esigenze e le modalità definite dalle singole pubbliche amministrazioni. Sarà attivato un sistema bilanciato di reportistica interna anche in un’ottica di progressiva integrazione con il sistema di misurazione e valutazione della performance. Le amministrazioni pubbliche, vista anche l’emergenza legata al Coronavirus, sono comunque invitate a incentivare lo smart working.Sul fronte dei concorsi pubblici, spiega invece Dadone al Messaggero, «per ora sono previste piccole dilazioni nei calendari, prove solo laddove strettamente necessario. Ovviamente dipenderà tutto dall’evoluzione della situazione, sicuramente è inutile e controproducente sminuire i rischi. Per il resto - sottolinea -un riassetto organizzativo delle prove stesse non comporterà grossi disagi. E naturalmente contiamo di tornare a una situazione di normalità nel più breve tempo possibile. In cantiere, però, abbiamo l’implementazione di nuove modalità di svolgimento dei concorsi per ridurne la durata e rendere più snelle le procedure selettive».
Coronavirus: subito lo smart working. Il decreto e le 3 regole da applicare Perché conviene a tutti. Pubblicato lunedì, 24 febbraio 2020 su Corriere.it da Sergio Bocconi. Non è la prima volta che accade (è stato già applicato per esempio nel caso della tragedia del crollo del ponte Morandi) e si rivela uno strumento prezioso. «Però il decreto riguarda solo le zone “rosse”, quelle indicate come focolaio di virus e isolate, e non è chiaro quali siano gli adempimenti necessari per avviare subito questa modalità di lavoro. Sarebbe comunque auspicabile estendere la semplificazione per l’adozione dello smart working in tutta l’Italia del Nord», dice Arianna Visentini, amministratore delegato di Variazioni srl, società di consulenza specializzata nella flessibilità organizzativa, perimetro ampio che comprende anche il lavoro agile.«Il tema normativo è certo fondamentale, ma non è l’unico per le aziende che non utilizzano già abitualmente lo smart working», prosegue, «e cioè per la maggior parte soprattutto delle piccole e medie imprese». E in effetti c’è un tema di base, per nulla scontato, che è quello della tecnologia. «In genere lo smart working viene svolto con l’utilizzo di device aziendali, e quindi è già tutto predisposto perché l’architettura funzioni al meglio. Ma in assenza di tali soluzioni già in essere, in casi di emergenza può rendersi necessario e utile anche permettere l’utilizzo ai dipendenti che, come in questo caso si trovano a lavorare da remoto in seguito a provvedimenti delle autorità, di device propri: pc, tablet, smartphone». C’è tuttavia un tema di accesso ai dati aziendali, nel caso appunto i dipendenti non siano già abilitati al lavoro agile. Si tratta dunque di fare un secondo passo: o ricorrere a Vpn attivabili in tempi rapidi, cioè piccoli software direttamente scaricabili su qualunque device proprio, oppure procedere con altri software applicativi, e cioè con piattaforme di condivisione dei dati (come Office 365, oppure Google suite o Microsoft team). Questi consentono in generale di condividere documenti, gestire e-mail, conference call a distanza, lavorare a quattro mani.«Si rende comunque indispensabile una rapida familiarizzazione non solo tecnica con questi strumenti», dice Arianna Visentini, «occorre anche un passaggio culturale: non è scontata la competenza del lavoro in team, soprattutto con un presupposto di fiducia ulteriore richiesto dallo smart working, cioè da remoto. L’auspicio dunque è che questa modalità di lavoro non venga associata solo a situazioni di emergenza, ma che si faccia tesoro che questo strumento è efficace anche e soprattutto in condizioni di normalità».
Gianni Santucci per il “Corriere della Sera” il 24 febbraio 2020. I genitori sono entrambi malati, positivi al coronavirus. L' uomo, dipendente di Unicredit, che non vive con i genitori, nelle ultime ore ha (correttamente) segnalato la situazione alla sua azienda e sono in corso gli accertamenti. La banca, al di là delle condizioni del suo dipendente, e come molte altre grande aziende milanesi, ha deciso però una politica di massimo incentivo allo smart working (lavoro da casa). Nel giorno in cui le istituzioni decidono misure drastiche per limitare la diffusione della malattia nelle Regioni del Nord, anche il tessuto economico milanese risponde. Partecipa. Contribuisce alla linea guida di limitare il più possibile la mobilità e l' aggregazione delle persone. Heineken (Sesto San Giovanni) chiede a tutti di i dipendenti, per quanto possibile, di lavorare da casa; la stessa cosa accade a Luxottica e Zambon (casa farmaceutica a Bresso, alle porte di Milano). È una sorta di onda di senso civico da parte di chi guida le grandi aziende. Giorgio Armani ha deciso di chiudere per una settimana gli uffici di Milano e le sedi di produzione in Lombardia, Emilia-Romagna, Veneto, Trentino Alto Adige e Piemonte. Al personale «coinvolto dalla misura, presa per fronteggiare l' emergenza coronavirus, non saranno trattenute le ferie». Dirigenti e responsabili dovranno restare reperibili. Armani ha anche presentato la collezione della linea con una sfilata a porte chiuse, scelta seguita anche da Laura Biagiotti. Tod' s ha preferito optare per smart working e limitazione delle trasferte. Anche Assimoco (compagnia assicurativa) ed Henkel hanno chiesto di connettersi in tele-lavoro ai dipendenti che per raggiungere gli uffici dovrebbero usare i mezzi pubblici. Identico incentivo per Tim e Wind Tre. Così a Sky, smart working «ad eccezione di un numero ristretto di persone che svolgono attività fondamentali per la continuità operativa». A partire dalla sospensione delle lezioni, degli esami e delle lauree nelle università, le istituzioni hanno lavorato sull' idea di ridurre gli spostamenti e l' affollamento. Le aziende si sono adeguate. Nella nota interna che Unicredit ha inviato ai propri lavoratori viene spiegato: «Abbiamo chiesto ai dipendenti che lavorano, vivono o hanno visitato zone interessate dal fenomeno nelle ultime due settimane di rimanere a casa per almeno 14 giorni (lavoro da remoto o permesso retribuito)». Lo stesso vale per chi ha situazioni di salute già complesse o per i pendolari che viaggiano in zone vicine ai focolai dell' epidemia. «Incoraggiamo tutti questi dipendenti - continua la nota - insieme a quanti lavorano negli uffici centrali delle città dove è stata annunciata la chiusura delle principali istituzioni pubbliche (scuole, università), a utilizzare ove possibile sistemi di lavoro alternativi, previa autorizzazione del proprio manager, come il lavoro da remoto». Le sedi dunque non saranno chiuse, ma l' obiettivo delle principali aziende milanesi è stato quello, per quanto possibile, di «svuotarle». Una misura che riguarderà anche gli uffici milanesi di piazza Gae Aulenti («Abbiamo chiuso tutte le aree comuni presso gli uffici direzionali di Milano e Cologno Monzese, quali le mense, la palestra e l' asilo nido»). La massima riduzione di viaggi e trasferte è stata decisa sia da Unicredit, sia da Intesa Sanpaolo, che in una nota ha spiegato: «Lo s mart working , laddove previsto, sarà incentivato. Per i dipendenti residenti nei Comuni interessati dalle ordinanze o per coloro i quali vi prestino opera, sono previsti permessi retribuiti e sarà prevista la possibilità di lavorare da casa». Tecnologia per arginare il virus. E le paure. Alle missioni saranno preferite le video conferenze.
Domenico De Masi per "il Fatto quotidiano” il 26 febbraio 2020. Nel 1997 morì di cancro, appena trentatreenne, Giovannino Agnelli, presidente della Piaggio e destinato dallo zio Gianni a succedergli alla guida della Fiat. Negli ultimi mesi di vita lavorò da casa e, in un' intervista, dichiarò che, suo malgrado, aveva scoperto gli immensi vantaggi del telelavoro. Qualcosa di analogo, ma a livello planetario, sta avvenendo in questi giorni. Il 2 febbraio scorso il Daily Herald di Chicago ha pubblicato un lungo articolo con il titolo "Il Coronavirus costringe al più vasto esperimento di telelavoro nel mondo". Ormai in Cina lavorare da casa non è un privilegio o una conquista dei lavoratori, ma una necessità. Se questo immenso Paese, che ormai è la più grande fabbrica e il più grande ufficio del pianeta, vuole sopravvivere nonostante la quarantena cui sono costretti 60 milioni di cittadini, non ha altra scelta che ricorrere a un telelavoro di massa, facendo a rotta di collo una riconversione organizzativa che avrebbe potuto realizzare già da anni, con calma e perfezione, se ne avesse avuto l' avvedutezza. Ciò significa che, invece di andare in ufficio come facevano quotidianamente, oggi milioni di cinesi concordano via Internet il lavoro con il proprio capo, organizzano riunioni con i clienti e discussioni di gruppo tramite videochat oppure discutono i piani su piattaforme software di produttività come WeChat Work o Lark, simile a Bytedance. Anche molti uomini d' affari cinesi che erano in viaggio quando è scoppiata l' epidemia, hanno preferito restarsene all' estero e telelavorare con i colleghi isolati a Wuhan. Intanto le imprese cominciano a prendere atto che il telelavoro aumenta il rendimento. Del resto, già uno studio condotto nel 2015 dall' Università di Stanford in California aveva scoperto che la produttività tra i dipendenti dei call center dell' agenzia di viaggi cinese Ctrip era aumentata del 13% da quando essi avevano lavorato da casa. Il Coronavirus è una grande calamità umana ed economica. Inutile dire che sarebbe stato infinitamente meglio se non fosse mai comparso. Ma, dal momento che sta facendo i suoi danni, tanto vale cavarne anche qualche vantaggio. Il Nord Italia, dove il Covid-19 ha fatto la sua sciagurata comparsa, è anche l' area più operosa del Paese, per cui le migliaia di lavoratori in quarantena, calvinisticamente disabituati a starsene con le mani in mano, finiranno per telelavorare. E, una volta acquisita la buona abitudine, può darsi che la conserveranno anche dopo che l' epidemia sarà passata. Ma in cosa consiste il telelavoro? Per molti secoli, gli uomini hanno identificato il loro luogo di vita con il loro luogo di lavoro, la loro casa con la loro bottega. Poi per 200 anni, dalla metà del Settecento alla metà del Novecento, la nostra società è stata egemonizzata dal lavoro in fabbrica e dalla cultura industriale. La maggioranza dei lavoratori erano operai; ogni automobile, ogni frigorifero, ogni bene materiale veniva prodotto interamente entro i confini di un determinato paese; ogni mansione veniva svolta entro un orario fisso e in un luogo preciso: la fabbrica. Ora, però, nell' attuale società postindustriale, il 70% dei lavoratori svolge lavori intellettuali da impiegato, quadro, manager o professionista. Questo lavoro non comporta la manipolazione di materie prime come l' acciaio o il carbone, trattati per mezzo di macchinari mastodontici, pericolosi e fragorosi come un altoforno o una catena di montaggio. L' impiegato, il manager, il professionista manipolano informazioni che possono essere trasferite ovunque in tempo reale e che vanno trattate tramite computer portatili che comunicano tra loro anche se dislocati a migliaia di chilometri di distanza. Perciò, da alcuni anni a questa parte, parallelamente alla diffusione di Internet, cresce il numero di impiegati che la mattina non vanno in azienda ma se ne restano a casa (teleworking) o svolgono i loro compiti dove meglio gli pare (smart working). Il capo gli assegna un obiettivo e una scadenza. Il dipendente, quando ha terminato, trasmette il risultato al capo, che ne valuta la qualità. I vantaggi sono molteplici. Per i lavoratori aumenta, con l' autonomia, la possibilità di autoregolare tempi, luoghi e ritmi; si riduce la separatezza tra lavoro e vita; migliorano sia le condizioni di lavoro sia la gestione della vita familiare e sociale; si risparmia il tempo, la fatica, la spesa e i rischi del pendolarismo. Per l' azienda si riducono le spese degli edifici e dei servizi, diminuisce la microconflittualità, aumenta la produttività. Per la collettività si riduce il traffico, l' inquinamento e le spese per manutenzione stradale; si eliminano le ore di punta; si deconcentrano le aree superaffollate; si porta il lavoro anche nelle zone periferiche, isolate o depresse; si estende il lavoro all casalinghe e agli invalidi; si creano nuove occupazioni e nuove professioni. Paradossalmente le migliori esperienze di telelavoro ci vengono dal lavoro "nero" in cui milioni di persone svolgono un' attività da casa o per strada senza altro legame con il datore di lavoro che il telefono e il computer. Sul piano pratico, di fatto, oggi tutti telelavoriamo. Basta tendere l' orecchio quando siamo in treno, nella strada o in un locale pubblico per sentire persone che, al cellulare, parlano di lavoro, si consultano, danno o ricevono ordini. Magari non lo sanno ma stanno facendo smart working. Sul piano contrattuale, invece, le aziende resistono caparbiamente all' introduzione del telelavoro. Alcuni lavori, come quello del chirurgo o del pompiere, oggettivamente non possono essere telelavorati, ma buona parte delle mansioni svolte negli uffici potrebbe essere effettuata a distanza. Se oggi in Italia, in base ai dati dell' Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano, solo 570 mila lavoratori operano in remoto, i motivi sono molti ma prevale quello che gli antropologi definiscono cultural gap: cioè un ritardo.
Coronavirus e smartworking: oltre 11 milioni di italiani senza connessione. Pubblicato domenica, 15 marzo 2020 da Corriere.it. Secondo i consulenti del lavoro, i dipendenti che non svolgono mansioni manuali o a contatto con il pubblico e che quindi possono lavorare da casa sono 8,2 milioni. La nostra normativa prevede e regolamenta due possibilità: lo smartworking, detto anche «lavoro agile», oppure il telelavoro. Nel primo caso scegli i giorni in cui non vai in ufficio, lavori da dove vuoi, e devi produrre un certo risultato in un dato tempo. In sostanza ti consente per esempio di svolgere le tue mansioni da casa se un giorno hai il figlio malato e non puoi lasciarlo solo. Il telelavoro è invece una scelta che si fa all’origine: lavori sempre da casa e devi essere connesso durante tutto l’orario d’ufficio. Ha poco successo perché il datore di lavoro ti deve dotare di computer e fare una serie di verifiche sui requisiti dell’abitazione, e alla fine viene utilizzato solo nei casi di disabilità o lontananza del luogo di lavoro. Oggi l’emergenza ha costretto buona parte dei lavoratori a passare tutti rapidamente in smartworking, ma in realtà è un telelavoro. Per entrambe le modalità le aziende devono avere un server abilitato per le connessioni esterne, ovvero un sistema che attraverso password e autentificazioni consenta di accedere al desktop dell’ufficio e dialogare con i file dell’azienda. Insomma stiamo affrontando un mega test che fa i conti con l’arretratezza tecnologica di tante aziende e un problema su tutti: in molte parti del Paese la connessione non tiene o non c’è.In Italia la banda larga ultraveloce raggiunge il 24% della popolazione, contro la media UE del 60%.Poi ci sono le «aree bianche», dove il piano da circa 1 miliardo di euro per estendere la fibra ottica a 9,6 milioni di unità immobiliari e in cui vivono 14,7 milioni di abitanti, risale al 2015. La gara fu vinta dalla società pubblica Open Fiber, che sbaragliò i concorrenti applicando un forte ribasso. Fra ricorsi, ritardi autorizzativi e grovigli burocratici i lavori sono partiti a fine 2018 con ultimazione prevista nel 2020. Ebbene, oggi gli immobili connessi in fibra ottica e wireless alla nuova rete a banda ultra larga sono 2,2 milioni, e peraltro la fibra si ferma a una distanza di 10/40 metri dalle abitazioni. Anche dove c’è una buona connessione, l’operatività è spesso ostacolata dall’ l’arretratezza tecnologica di molte aziende e da una mentalità poco aperta all’innovazione. Chi si oppone sono soprattutto i quadri intermedi che preferiscono avere i loro subordinati tutti fisicamente sotto controllo. Pochi (anche tra i capiazienda) capiscono che la vera rivoluzione non sta nel lavorare fuori ufficio ma nella produzione di risultati. Un’analisi del Politecnico di Milano mostra che la percentuale delle piccole e medie imprese che non hanno alcun interesse allo smartworking è passato nell’ultimo anno dal 38% al 51%. E oggi, con un’ emergenza arrivata tra capo e collo, sono costrette ad improvvisare: tutti in telelavoro a casa, mentre l’azienda si ritrova con la stessa organizzazione di prima e molti dipendenti che non sanno usare i programmi. Anche le pubbliche amministrazioni, che in base ad una legge del 2018 dovrebbero consentire il lavoro smart al 10% dei dipendenti, nella realtà iniziative strutturate sono state realizzate solo nel 16% dei dipartimenti. Pure qui si scontano resistenze dovute e ad un personale poco digitalizzato, oltre alle inefficienze organizzative. Pochi giorni fa, però, il coronavirus ha sbloccato tutto: una circolare della ministra Dadone ha consentito a tutti i dipendenti della Pa di lavorare da casa anche usando il proprio computer, purché non si aumentino i costi per gli uffici pubblici. Tutte le obiezioni poste negli ultimi anni (tutela dei dati aziendali, difficoltà tecnologiche) sono state superate in un colpo solo. Insomma la sperimentazione la stiamo facendo nelle condizioni peggiori possibili. Chi regge meglio sono le grandi imprese, che avevano iniziato da tempo ad organizzarsi. Ad attuare per prima un piano di smartworking allargato è stata Siemens nel 2011. A ruota sono arrivate le società delle telecomunicazioni, grandi banche, assicurazioni, utility, e anche le fabbriche più avanzate, perché le macchine possono essere programmate a distanza. Se guardiamo i numeri vediamo che Siemens aveva già 3.300 dipendenti in smartworking, e oggi non ha dovuto modificare il suo piano. L’Eni ne aveva 4.500 in modalità smart, in emergenza se ne sono aggiunti altri 11.000. Segue la Regione Emilia Romagna e Liguria, la multiutility Iren, Cnh Industrial e tante altre che nel giro di pochi giorni, e senza troppe difficoltà, hanno potuto continuare l’attività con il lavoro agile. Il lavoro agile è meritocratico: sei valutato in base ai risultati che porti e non per il tempo che passi alla scrivania. Ci guadagna l’ambiente perché meno traffico vuol dire meno inquinamento. Ci guadagnano le aziende: riducono gli spazi, pagano affitti più bassi e bollette della luce più leggere, e hanno una produttività del lavoro più alta. Uno studio della Bocconi appena pubblicato ha messo a confronto due gruppi di lavoratori uguali. Ne è risultato che i lavoratori in smartworking, su 9 mesi di sperimentazione, hanno fatto 6 giorni in meno di assenze, il rispetto delle scadenze è aumentato del 4,5% e l’efficienza del 5%.
· La necessità e lo sciacallaggio.
(AGR il 2 aprile 2020) I carabinieri hanno arrestato ad Ostia due balordi che si introducevano nelle case degli anziani per rubare con la scusa di distribuire gratuitamente delle mascherine. E’ accaduto oggi ad Ostia ponente, in via delle Zattere e l’intervento dei carabinieri del Gruppo Ostia, avvertiti da un condomino che ha sentito le grida d’aiuto di una donna anziana, ha impedito la rapina. La notizia ha confermato quanto si andava dicendo nei giorni scorsi all’Axa ed a Casalpalocco, quando “girava” una notizia che avvertiva la presenza di malintenzionati che con la scusa delle mascherine provavano ad introdursi in casa per derubare il malcapitato. Non era, dunque, una fake news, anche se non poteva essere verificata. Due giorni fa, infatti, il Presidente del Consorzio Axa, Pietro Ferranti, aveva ricevuto e pubblicato sul sito del Consorzio una informativa, che stavano girando per Axa Palocco delle persone che, con la scusa di dover consegnare delle mascherine donate dal comune, tentano di introdursi in casa. Senza prove certe che la notizia fosse veritiera e di conseguenza avrebbe comportato una denuncia, nel dubbio ha messo sull’avviso i consorziati. Un informativa che da qualche giorno girava anche a Roma ed è stata rilanciata anche da alcuni TG. E torniamo ad Ostia, in via delle Zattere, quando attorno all’ora di pranzo i due hanno suonato al campanelli di una donna, chiedendo di aprirgli il portone perché dovevano consegnare delle mascherine donate dal comune.
Truffe al citofono, prezzi folli, falsi tamponi e attacchi hacker: gli sciacalli del coronavirus. Da Nord a Sud si specula sulla tragedia. Call center che approfittano del momento di fragilità delle persone anziane. Rivenditori che mandano alle stelle il costo della farina, messaggi WhatsApp e "clicca qui". Fino al vergognoso assalto al Policlinico di Palermo. Maurizio De Fazio il 2 aprile 2020 su L'Espresso. Uno degli ultimi episodi risale alle ultime ore. All’ospedale San Camillo-Forlanini di Roma, in piena notte, qualcuno ha sabotato i computer che dovevano servire per l’analisi dei test del Coronavirus. Una simile azione disumana, in questo caso un attacco hacker, era andata in scena persino in una delle strutture-simbolo di queste settimane di lotta disperata e indomita contro l’epidemia, lo Spallanzani. Già, perché proliferano gli sciacalli del Covid-19: una curva che non decresce mai. Finti postini. Tecnici e funzionari governativi posticci. Pseudo-cacciatori di untori inesistenti. Ladri e predoni alla vecchia e manzoniana maniera. Fabbricanti di fake news in servizio permanente effettivo, che propalano complotti inauditi, agitando l’indice di plastica su grandi vecchi e cecchini transazionali del droplet. Con punte di ingegno amorale e criminale che tendono all’infinito: a metà marzo il Codacons ha segnalato che su un sito web veniva contrabbandato, a mo’ di “kit di prevenzione”, un ossigenatore smerciato alla tenera cifra di 995,70 euro. Per non parlare del rialzo dei prezzi dei generi alimentari di primissima necessità. Secondo Altroconsumo, nella quinta settimana dell’emergenza il costo al dettaglio delle farine ha conosciuto, per esempio, un aumento astronomico del 187 per cento rispetto al medesimo periodo del 2019. Mentre imperversano call center più o meno clandestini che pubblicizzano abbassamenti repentini delle tariffe del gas e dell’energia elettrica. Ti chiamano al telefono, sicuri di saperti reperibile e vulnerabile perché segregato/a in casa da tempo immemore; e non appena pronunci un banale “sì”, ti ritrovi in balia di un contratto attivato incidentalmente con qualche fornitore arcano, con bollette a molti zero.
I cyber-sciacalli. Fioccano le mail provenienti in apparenza da enti e istituzioni serie, come l’Organizzazione mondiale della sanità. In verità, si tratta sempre di tentativi di estorsione di soldi e dati personali sensibili, di phishing, smascherati di volta in volta dalla polizia postale. Ma parliamo di un’idra perversa e abietta dalle cento teste. C’è la fantomatica agenzia delle entrate che è «lieta di informarci che abbiamo ricevuto un rimborso di 267 euro». Solo che per accedere all’indennizzo dobbiamo compilare un modulo, e soprattutto «cliccare qui». C’è il messaggio WhatsApp circolato proprio negli ultimissimi giorni che promette buoni-spesa del valore di 200 euro. C’è la speciosa e pretestuosa pagina Facebook che invita al crowdfunding per un reparto di terapia intensiva a rischio collasso. Per aumentare il climax, abbondano le immagini di medici e infermieri bardati con mezzi di fortuna, con tanto di camici fatti di buste della spazzatura. Se vogliamo aiutarli, non resta che «versare sulla carta Postepay indicata». Non rispondete a quel citofono. Accade lungo l’intera penisola e purtroppo qualcuno abbocca, specialmente le vittime più numerose della pandemia: gli anziani. Non si capisce con quale autocertificazione, ma girano stuoli di individui che suonano al campanello di casa garantendo di essere stati incaricati dalla Regione per effettuare controlli con il tampone. Ovviamente, sono truffatori, che si infilano tra le pareti domestiche per controllare ben altro: gli oggetti preziosi, i portafogli, i gadget tecnologici. Nel frattempo spuntano a macchia d’olio, affissi sui portoni condominiali, manifesti che preannunciano imminenti visite nelle nostre abitazioni da parte delle forze dell'ordine. Sotto la falsa divisa, tuttavia si cela un cuore da furfante, privo di qualsivoglia codice etico residuo. Si danno un gran daffare pure gli stampatori della vergogna: non si contano i volantini sequestrati su carta intestata «Ministero dell’Interno-Dipartimento di pubblica sicurezza», col logo «Repubblica Italiana». Sembrano verosimili, ma sono apocrifi, nonché infarciti di informazioni fasulle e menzognere. «Segnalateceli» si sbraccia senza posa il Viminale.
Il mercato drogato delle mascherine. Prima ci hanno assicurato che non servivano alla popolazione generale, poi, di fronte al dilagare dei contagi, dietrofront di massa; ma scagli il primo rotolo di carta forno chi ce l’ha, un’autentica mascherina regolamentare. Nel Belpaese continuano a non trovarsi, nonostante gli ordini a milioni. E così è il trionfo del business parallelo, che più torbido non si potrebbe. Sono scattate anche inchieste giudiziarie sul tema. E quando si materializzano, se non finiscono nel dark web, nei gruppi chiusi di Facebook o nelle mani della criminalità organizzata, vedono impennarsi sistematicamente il prezzo. Di recente la Federconsumatori ha denunciato incrementi esorbitanti, fino al 600%. Confezioni da 5 mascherine FFP2 a 50 euro in farmacia, da 10 esemplari a 145 euro. Mascherine in stoffa «agli ioni d’argento» vendute a 20 euro al pezzo. Marzio Govoni, presidente della suddetta associazione a Modena, evoca manovre speculative e agita lo spettro dell’art 501 del codice penale, «un reato che prevede pene durissime: reclusione fino a tre anni, multe fino a 25 mila euro, sequestro delle merci, inibizione dall'attività». Nel mercato nero va persino peggio: a Milano per accaparrarsi una FFP2 possono volerci 30 euro. La contrattazione avviene direttamente davanti al supermercato, o in fila alle poste. Un mese fa, all’alba della serrata nazionale, la Guardia di Finanza aveva condotto una maxi-operazione conclusasi col sequestro di migliaia di mascherine non sicure e la denuncia di venti persone. Qualcuna veniva commercializzata a 5 mila euro…
Iene bollate. Gli ordini degli avvocati della Lombardia e di altre regioni hanno stigmatizzato duramente la condotta di alcuni loro iscritti, che approfittano del contesto attuale per procacciarsi «clientela con operazioni di marketing» oltremodo censurabili, arrivando a «sollecitare i familiari delle vittime a intraprendere azioni risarcitorie contro ospedali, medici e infermieri, ossia proprio coloro che in questo momento mettono a repentaglio la propria vita per salvare la nostra». Scrive l'Urcofer (Unione regionale dei consigli dell'ordine forense dell'Emilia-Romagna): «Negli ultimi giorni abbiamo assistito su social media e sugli organi di informazione a una proliferazione di messaggi da parte di sedicenti avvocati o studi legali con offerte asseritamente idonee a garantire elevati "standard di competenza ed efficienza", relativamente a varie problematiche connesse alla situazione di emergenza epidemiologica Covid 19. In alcuni casi, le prestazioni offerte per “contrastarla” giungono persino a sollecitare l'avvio di azioni risarcitorie nei confronti di ospedali, medici ed infermieri, con disponibilità ad assistere gratuitamente le vittime e i loro familiari. Si tratta, con tutta evidenza, di comportamenti odiosi, inqualificabili e intollerabili. Ancor più inaccettabile è che tali atti di sciacallaggio provengano da appartenenti alla nostra categoria professionale, in provocatoria e quasi irridente violazione del divieto di ricorrere a informazioni ingannevoli, suggestive, comparative e comunque non improntate a correttezza».
I ladri-avvoltoi. Last but not least, ci sono loro, i più classici degli sciacalli, dalla peste in poi. Come quelli che hanno fatto visita ripetutamente al Policlinico di Palermo, razziando pc, denaro ed effetti personali. O gli ignoti che hanno saccheggiato un bar di Ortona, in Abruzzo, che era chiuso per lutto oltre che per quarantena. Lo ricordavano bene i fiori e il manifesto funebre sulla saracinesca abbassata. Il suo titolare era morto qualche giorno prima, per coronavirus.
Bari, volantini-truffaldini affissi nei portoni. La Questura smentisce che le forze dell'ordine lasciano certi avvisi. Il consiglio: mai aprire a persone sconosciute: Giampaolo Balsamo il 28 Marzo 2020 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Truffa Coronavirus. Non c’è emergenza che non si accompagni a tristi episodi di sciacallaggio macchinati da persone senza scrupolo pronte a tutte pur di lucrare. Non fa eccezione il Coronavirus, che in poche ore ha già fatto segnalare diversi tentativi di truffe e raggiri, soprattutto a danni delle persone più anziane. E così, in un momento di grande confusione, i soliti sciacalli entrano in azione. L'ultima «trovata», subito segnalata alla Questura di Bari, è quella relativa ad alcuni volantini, affissi i diversi condominii baresi nei quali, oltre che comparire la falsa intestazione del Ministero dell’Interno - Dipartimento della Pubblica Sicurezza, si invitano gli «eventuali non residenti di questo edificio» a «lasciare le abitazioni ospitanti», anche con la minaccia di sanzioni e possibile arresto da parte delle forze dell'ordine. Si tratta evidentemente, spiegano alla Questura, di un tentativo di truffa, dal momento che non è stato predisposto alcun documento di questo tipo. Non solo. Gli stessi poliziotti ricordano di non aprire la porta di casa a persone sconosciute e, in caso di dubbi, si invita a contattare subito i numeri di emergenza delle forze dell’ordine. Questi volantini-truffaldini, pare, stanno girando anche sui social e sono numerose le segnalazioni da parte di persone che hanno segnalato la loro presenza nei portoni di alcuni palazzi. Ad agire, infatti, potrebbero essere bande di truffatori che si servono dei volantini come possibili «esche» per future truffe specie ai danni di anziani soli.
SEGNALARE TRAMITE YOUPOL - Nel periodo di emergenza Covid-19 la maggior parte dei cittadini resta a casa in ottemperanza alle indicazioni governative. Per garantire la massima accessibilità al pronto intervento della Polizia di Stato, l’applicazione si aggiorna prevedendo la possibilità di segnalare i reati di violenza domestica con le stesse modalità e caratteristiche delle altre tipologie di segnalazione. Ideata per contrastare bullismo e spaccio di sostanze stupefacenti nelle scuole, l’app è caratterizzata dalla possibilità di trasmettere in tempo reale messaggi ed immagini agli operatori della Polizia di Stato. Le segnalazioni sono automaticamente geo-referenziate, ma è possibile per l’utente modificare il luogo dove sono avvenuti i fatti. E’ inoltre possibile dall’app chiamare direttamente il NUE e dove non è ancora attivo risponderà la sala operativa 113 della Questura. Tutte le segnalazioni vengono ricevute dalla Sala Operativa della Questura competente per territorio. Per chi non vuole registrarsi fornendo i propri dati, è prevista la possibilità di segnalare in forma anonima. Anche chi è stato testimone diretto o indiretto – per esempio i vicini di casa - può ovviamente segnalare il fatto all’autorità di polizia, inviando un messaggio anche con foto e video. L’applicativo, nato dalla ferma convinzione che ogni cittadino è parte responsabile ed attiva nella vita democratica del Paese, è facilmente installabile su tutti gli smartphone e tablet accedendo alle piattaforme per i sistemi operativi IOS e Android.
Saccheggiato camion di alimentari diretto al supermercato. Cecilia Lidya Casadei il 26/03/2020 Notizie.it. Nella campagna barese, un camion contenente alimentari è stato saccheggiato da un gruppo di rapinatori. Tre uomini hanno saccheggiato un camion contenente alimentari in direzione Calabria. La rapina è avvenuta lungo la strada statale 96, poco prima della mezzanotte, quando un SUV si è avvicinato al mezzo per costringere l’autista ad accostare. Il tir è stato condotto nelle campagne tra Sannicandro di Bari e Adelfia, dove l’autista è stato costretto a scendere minacciato con delle armi da fuoco. Sul mezzo c’erano almeno 30 bancali di generi alimentari partiti da un deposito di Bitonto, Bari, e diretti ad un supermercato in Calabria. Dopo ore di sequestro, il camionista è stato rilasciato ma il suo mezzo è ripartito con a bordo i tre delinquenti. Le Forze dell’Ordine sono giunte sul posto per soccorrere l’uomo, facendo partire ricerche su tutto il territorio. La refurtiva, o comunque parte di essa, è stata ritrovata in un deposito sito nella barese Barletta mentre il camion in zona Bisceglie, abbandonato. Dei tre rapinatori al momento non vi è traccia, se verranno trovati dai Carabinieri dovranno rispondere di sequestro di persona e furto. Vista la quantità di controlli che si stanno svolgendo su tutto il territorio italiano, per via delle restrizioni in materia Coronavirus, non è escluso che si riesca a risalire ai delinquenti o quantomeno al SUV usato per commettere il reato. Da diversi giorni, infatti, l’Ente Nazionale per l’Aviazione Civile ha disposto il permesso di far volare droni per monitorare la situazione, su aree urbane ed extra urbane.
(ANSA il 27 marzo 2020) - Novecento falsi kit per diagnosticare il Coronavirus, privi di autorizzazione e certificazione delle autorità sanitarie, sono stati sequestrati dalla Guardia di Finanza in un centro di analisi biochimiche di Gioia Tauro, in provincia di Reggio Calabria. I kit venivano venduti on line su un sito web ad ignari cittadini che pensavano di aver trovato in rete la possibilità di effettuare da soli i test per il virus. La Guardia di Finanza è riuscita però ad intervenire prima che partisse la spedizione del materiale. Il Centro di analisi è stato individuato dai finanzieri di Reggio Calabria e Gioia Tauro nell'ambito dei controlli scattati in tutta Italia per individuare chi approfitta dell'emergenza per truffare sia i cittadini sia le stesse amministrazioni. I kit scoperti non avevano né la validazione delle autorità sanitarie nazionali né la certificazione Ce: alcuni erano già stati pagati dai cittadini con un bonifico. Vendere a "cittadini ignari ed impauriti dispositivi per i quali non è provata in alcun modo l'efficacia - dice la Gdf - pone in serio pericolo la salute e l'incolumità pubblica", considerato che "l'eventuale responso di negatività del test, avrebbe potuto consegnare 'patenti' di estraneità al contagio a soggetti" che, invece, "avrebbero potuto contribuire alla diffusione del virus". Al titolare del Laboratorio di analisi è stata contestata la violazione della specifica fattispecie prevista dalle direttive CE, punita con la sanzione amministrativa da 21.400 a 128.400 euro.
Specula sul coronavirus raddoppiando i prezzi: denunciato gestore di supermercato nel Canavese. Rischia fino a 3 anni di carcere. Gli aumenti su pane, olio, arance e persino la colomba pasquale superavano il 200%. Cristina Palazzo il 25 Marzo 2020 su La Repubblica. Pane e olio a prezzi raddoppiati, un chilo e mezzo di arance invece di 1,30 euro costava 2,89 euro, e anche la colomba pasquale che da 3 euro, come recitava l'offerta sul volantino, veniva venduta a 7 euro. È quanto hanno scoperto i finanzieri della tenenza di Lanzo Torinese in un supermercato della catena Conad di Favria, in questi giorni di emergenza coronavirus in cui tanti, quando vanno a fare la spesa, preferiscono fare grandi scorte di cibo per uscire il meno possibile di casa. I finanzieri hanno accertato che i prezzi non rispettavano le offerte del circuito commerciale di cui fa parte il punto vendita: si parla di incrementi anche fino a oltre il 200 per cento rispetto a quanto dettato dal marchio. La lista è lunga: dalle arance ma anche la bottiglia di olio di oliva che invece di 3,59 euro finiva nello scontrino a 5,45 euro, o la passata di pomodoro che, da listino sotto all'euro, ne costava 1,66. Veniva venduto al doppio del prezzo il prosciutto (23,90 al chilo invece di poco meno di 15 come da volantino), caffè e persino il cibo per i gatti. E nel negozio non c'era alcun volantino che permettesse al cliente di fare il confronto: l'unica possibilità era farlo tramite i siti internet della catena, cosa che hanno in effetti fatto i finanzieri constatando l'imbroglio, compiuto all'oscuro della casa madre Conad. I baschi verdi hanno accertato che il responsabile del punto vendita, inoltre, continuava a vendere merce per cui il decreto della Presidenza del consiglio dei ministri ha impedito la vendita perché non considerata di prima necessità. Per il negoziante è scattata la denuncia alla procura di Ivrea per "manovre speculative su merci", reato che prevede multe fino a 25mila euro e fino a tre anni di carcere. L'uomo è stato denunciato anche per la vendita di prodotti non consentiti. Per non creare però disagi per la clientela, e quindi consentire agli abitanti della zona di poter acquistare la merce indispensabile, le fiamme gialle hanno chiesto l'autorizzazione per evitare il sequestro delle merci.
Lorenzo De Cicco per “il Messaggero” il 17 marzo 2020. C'è chi si è visto consegnare un pacco di mascherine Ffp2 (buon livello, anche se il migliore è di categoria Ffp3), con una scritta sulla scatola che lasciava poco margine d'interpretazione: «Molo 2». Il terminal di un aeroporto. Pure lo scambio contanti-protezioni con valvole, è avvenuto nei pressi di un grande scalo. Casualità? Altre ruberie - le più spregevoli, forse - si sono registrate in corsia. Nei reparti degli ospedali che già vivono giorni tribolati per l'emergenza Covid-19, con medici e infermieri in prima linea per arginare il contagio. A Parma, una delle province più tormentate dal Coronavirus, due operatori sanitari hanno saccheggiato le scorte per poi rivendere tutto a prezzi stratosferici (fino a 70 euro al pezzo), poi sono stati rintracciati dalla Finanza. Nel Lazio, all'ospedale di Cassino, sono stati forzati gli armadietti degli infermieri, per portare via le preziose mascherine. Altri furti ancora si sono registrati a Torino e a Sanremo, tutti in ospedale. È la caccia all'«oro» col filtro, per sentirsi al sicuro in tempi di emergenza virale. La Regione Lazio ha chiesto agli ospedali di sorvegliare le scatole delle protezioni, come fossero tesori. E lo sono, ormai. Tanto che il governo ha garantito che a breve si avvierà la produzione nazionale, forse nei laboratori delle carceri. Sin qui si è importato dall'estero. Dalla Cina ne arriveranno 5 milioni, dice la Farnesina. E le aziende 3D si offrono per stampare altri esemplari ancora. Ma intanto scarseggiano. Le reclamano tutti - semplici cittadini, vigili urbani, autisti, netturbini - e naturalmente i più esposti, medici e infermieri. A Roma, l'Anaao-Assomed, che raggruppa i dirigenti del settore sanitario, ha presentato un esposto per denunciare la mancanza di mascherine ad alta protezione, le Ffp3. In Lombardia, ieri i rianimatori affermavano che le scorte si sarebbero esaurite in 2 giorni. Se è così per il personale medico, figurarsi per tutti gli altri. Nelle farmacie ci sono più cartelli «mascherine esaurite» che réclame dell'aspirina. Qualcuno ha captato il grande business, anche fraudolento. Truffe artigianali, come quella di chi ha provato a spacciare per mascherine pezzi di stoffa rabberciati per l'occasione - è accaduto a Roma, tra i banchi del Trionfale, come ha scoperto la Polizia locale - e chi ha messo in piedi un affare su larga scala. Dal 22 febbraio ad oggi le Fiamme gialle hanno sequestrato 60mila pezzi illegali o venduti a prezzi totalmente fuori mercato, con rincari schizzati fino al 6000%. Quasi 5mila articoli sono stati scoperti alla dogana. È un business che viaggia soprattutto sulla rete: proprio ieri il Nucleo tutela privacy e frodi tecnologiche ha sequestrato 36 pagine di annunci tra Amazon ed E-Bay. Sono stati denunciati 16 venditori italiani e 28 stranieri, gente che ora rischia fino a 3 anni di carcere e una multa fino a 25mila euro per «manovre speculative su prodotti di prima necessità». Altri farmacisti, da Lametia Terme all'hinterland napoletano, sono stati scoperti a separare le mascherine dalle scatole per rivenderle singolarmente. A costi gonfiati. Esempio: mascherina da 35 cent offerta ai clienti per 15 euro. C'è anche chi ha ordinato le mascherine e non ha visto arrivare nulla. Nemmeno un lembo di stoffa o di carta igienica. Alla Polizia Postale solo nelle ultime 2 settimane sono arrivate 6mila segnalazioni e denunce alla voce Coronavirus. In gran parte si tratta di persone che hanno ordinato online mascherine, gel e disinfettanti, ma dopo avere pagato non hanno ricevuto niente. E chi aveva messo l'annuncio? Sparito.
Andrea Galli per corriere.it il 24 marzo 2020. Si son presi anche l’ultimo check-point. Case popolari dell’Aler in via degli Etruschi 4, nel quartiere di Calvairate-Molise, proprio lì dove l’inquilino Teobaldo Rocca, 62 anni, capo riconosciuto dei difensori, ne aveva fatto una questione di principio, organizzando un perpetuo servizio di vigilanza e perfino allestendo un allarme sonoro, da azionare alla prima minaccia di occupazione. Venerdì sera un gruppo di uomini ha approfittato del buio e dell’immobilismo da coprifuoco, ha attraversato il cortile, salito le scale e ci ha dato dentro col flessibile. Rapidi e decisi, un’operazione da assalto in banca. Dietro gli uomini (sono subito scomparsi, un testimone ha parlato di tre individui), c’erano una mamma con due bimbi, forse suoi, forse no (è prassi di questo fenomeno la creazione e la conseguente esibizione di falsi certificati dello stato di famiglia); in ogni modo, varco aperto nella porta dell’appartamento vuoto e mai assegnato, i piccoli spinti dentro insieme alla donna, una ragazza rom, e fine della storia. Valli a sgomberare. Adesso, di questi tempi. Non era mai capitato che un abusivo s’insediasse in questo caseggiato, ed ecco il peso specifico dell’episodio. Il fatto poi che sia avvenuto è un evidente «effetto collaterale del virus». Per intanto, due anni lodevoli di strategia e di interventi nelle case popolari, sia dell’Aler sia di Mm, potrebbero esser stati vani. Ci si approfitta dell’insolita aria in città e delle attuali priorità. Tra questo quartiere, più Lorenteggio, Giambellino e San Siro, radio-inquilini racconta di un numero che va dalle 45 alle 50 occupazioni nel corso delle ultime due settimane. Un conto da lasciare in sospeso, tanto probabilmente aumenterà. Ricordiamo chi è Rocca: origini calabresi, aveva pochi anni quando la mamma si oppose ai malavitosi locali, i quali per ripicca le incendiarono l’oliveto. «Non è mai stata una questione di paura» ha sempre detto lui, «ma forse adesso inizio a preoccuparmi, soprattutto per la mia famiglia. In passato, mia moglie era già stata aggredita. Tralascio qui, per non annoiare, l’elenco delle minacce di vendetta o peggio, di tutti i messaggi più o meno velati che ho ricevuto...». Una preoccupazione non (soltanto) per il blitz dell’altra sera in sé, s’intende, ma per la situazione esplosiva che sta nascendo intorno. Insubria 3, Cuoco 7, Etruschi 6 sono altri indirizzi dell’invasione. Un fermento al solito di matrice mista, nordafricani che creano varchi e romeni che si infilano, salvo più avanti — e così avverrà di sicuro anche con la giovane rom e i presunti figli di Etruschi 4 — spariranno lasciando posto ai «reali» occupanti. Nemmeno è escluso che questo ribaltamento di scenario, con l’inerzia che s’è rivoluzionata, rianimi quel fronte antagonista (che sulla pelle dei disperati crea propaganda), indebolito dalla catena di inchieste, arresti, denunce. Di nuovo Rocca: si espone in prima persona, non invoca l’anonimato, ribadisce di non essere né un matto né un visionario, sa benissimo che Milano attende ogni giorno il bollettino della Regione sul virus per sapere se resisterà oppure cadrà, e mai come ora il momento è solenne, drammatico, decisivo; eppure, tutto questo premesso, in stabili largamente abitati da anziani, spesso malati, il risveglio del racket delle occupazioni inquieta. Vi sono censimenti reali e contemporanei? Se già un tempo, appena un vecchietto spariva per un ricovero e al ritorno trovava il suo appartamento occupato, chissà cosa succederà in questi giorni durante i quali, è lecito ipotizzarlo, ci sono stati e saranno numerosi trasporti in ospedale degli stessi anziani. Nel timore, sempre concreto, di un peggioramento della situazione sotto il punto di vista dell’ordine sociale, cosa può significare la riesplosione delle occupazioni? «Un’autentica mortificazione, la conferma del disegno di abbandonare chi abita le case popolari al loro destino, sventolando cause di forza maggiore».
Gli sciacalli in azione: rom abusivi a caccia di alloggi. Anziani terrorizzati da malviventi armati di flessibile e piede di porco. Fratelli d'Italia denuncia: "Rom approfittano della situazione di emergenza". Luca Sablone, Lunedì 23/03/2020 su Il Giornale. I rom occupano abusivamente le case popolari Aler per "avere un posto in cui stare": questo l'ultimo atto di sciacallaggio messo in atto ai danni degli abitanti italiani della zona Lorenteggio. Un'inquilina del caseggiato di via Segneri 10, un condominio misto con 12 alloggi di proprietà e oltre 80 di Aler, ha spiegato l'assurda situazione: "Stiamo vigilando di notte, per evitare occupazioni. Siamo esausti. Una quindicina sono vuoti, altrettanti sono invasi abusivamente. E non vogliamo un aumento di illegalità". Qui è stata sfondata la porta di un alloggio al terzo piano e, come se non bastasse, una famiglia di nomadi ha fatto irruzione al piano terra portando via oggetti. L'escalation di occupazioni è stata segnalata in più quartieri: gli abusivi stanno approfittando dell'emergenza Coronavirus che sta travolgendo l'Italia per mettere a segno le loro attività clandestine, sfuggendo così ai controlli delle forze dell'ordine che ora sono completamente impegnate su più fronti per altre priorità. Perciò a tentare di sventare le occupazioni sono gli stessi inquilini, come testimonia un'abitante: "La notte tra venerdì e sabato io ho fatto da sentinella". Riccardo De Corato, l'assessore alla Sicurezza della Regione Lombardia, ha fatto sapere che dopo le denunce arrivate dal Giambellino, dal Lorenteggio, dai Navigli e da Barona "è toccato al quartiere Molise-Calvairate essere assaltato".
Rom approfittano della situazione. Stefano Bolognini, assessore regionale alla Casa, ha annunciato che a partire da oggi - lunedì 23 marzo - nelle case popolari gestite da Aler Milano verrà garantita la presenza della polizia locale: "Questa iniziativa garantirà non solo il rispetto delle limitazioni presenti nel Dpcm, ma anche un maggior presidio di legalità in quartieri spesso difficili". Come riportato da IlGiorno, sulla questione è intervenuto Francesco Rocca di Fratelli d'Italia: "In piena emergenza Coronavirus, gruppi di rom approfittano della situazione di emergenza: abbiamo un’occupazione al giorno nel quartiere". Il presidente della commissione Sicurezza del Municipio 4 ha raccontato un grave episodio che si è verificato sabato sera: "Armati di flessibile e piede di porco, non curandosi neppure delle regole che impongono di stare a casa, ignoti hanno sfondato la porta di un alloggio terrorizzando gli inquilini più anziani". Anche le case del Comune a Quarto Oggiaro sono state prese d'assalto. "Se qualcuno pensa di approfittarne in questo periodo delicato si sbaglia alla grande", avverte Fabio Galesi del Partito democratico. L'assessore del Municipio 8 ha chiesto alla Regione di intervenire "con misure sia di sorveglianza sanitaria che economiche", sospendendo ad esempio "il pagamento dei canoni e tutte le incombenze amministrative per gli inquilini delle case popolari lombarde, siano esse di proprietà Aler o dei comuni".
Sequestrati oltre 35mila articoli sanitari in Puglia in vendita illecita per il CoronaVirus. Il Corriere del Giorno il 14 Marzo 2020. I rispettive titolari delle attività economiche sono stati segnalati al termine delle operazioni amministrative di controllo, alle competenti Camere di Commercio ed ora rischiano una sanzione amministrativa fino a oltre 25.000 euro. Attuazione l’indirizzo strategico fornito dal Comando Generale della Guardia di Finanza ai Reparti territoriali e delle direttive del Comando Regionale Puglia, il Comando Provinciale di Bari ha intensificato le attività di controllo economico del territorio e del web per contrastare le condotte di chi – approfittando dell’attuale situazione d’emergenza collegata alla crescente espansione del virus COVID-19 (cioè il “Coronavirus”) in terra pugliese, effettuano pratiche commerciali disoneste, truffe e frodi ai danni della popolazione, con la vendita di prodotti sanitari a prezzi esorbitanti o non conformi alle norme. Il I° Gruppo Bari e il Gruppo Barletta delle Fiamme Gialle hanno eseguito un ulteriore rilevante sequestro amministrativo nelle province di Bari e BAT di oltre 5.300 articoli sanitari, tra mascherine di protezione individuale, detergenti e guanti in lattice, commercializzati in violazione delle disposizioni recate dal Codice del consumo e in materia di sicurezza prodotti. Le attività di servizio fanno seguito all’operazione “Antivirus” – effettuata lo scorso lunedì dai finanzieri del I° Gruppo Bari, con il coordinamento della Procura della Repubblica di Bari – che ha consentito di sottoporre a sequestro penale oltre 30.000 prodotti (mascherine protettive, gel e salviette per le mani), posti in commercio con modalità fraudolente e truffaldine, per un valore di mercato di circa 220.000 euro, all’esito di oltre 30 perquisizioni effettuate in ben 22 Comuni delle province di Bari e BAT. In particolare le società destinatarie dei sequestri avevano messo in vendita gel e salviette igienizzanti per le mani spacciandoli con scritte e simboli ingannevoli sulle confezioni nonché con messaggi pubblicitari, come prodotti con azione disinfettante e, comunque, a prezzi decisamente più alti rispetto a quelli praticati prima dello scoppio dell’emergenza sanitaria in Italia per il Covid-19. Dopo questa operazione le Fiamme Gialle non hanno minimamente allentato il fiato sul collo dei “furbetti”; anzi hanno incrementato le analisi di rischio, attraverso le numerose banche dati disponibili in uso al Corpo, nonché mediante mirate attività di screening e riscontro delle segnalazioni pervenute da numerosi cittadini a carico di taluni esercizi commerciali – principalmente farmacie, ferramenta e commercianti all’ingrosso e al dettaglio, anche attraverso note piattaforme di e-commerce, di saponi, detersivi e profumi – che vendevano articoli sanitari correlati all’emergenza del Coronavirus. Ed ancora una volta gli sforzi investigativi sono stati premiati! Infatti, i militari della Compagnia di Altamura hanno sottoposto a sequestro amministrativo presso una locale ferramenta nonché un commerciante di saponi e detersivi di Gravina in Puglia (BA) oltre 1.000 mascherine di protezione individuale non sicure per la salute dei consumatori, in quanto prive di marcatura e di indicazioni in lingua italiana. La Compagnia di Monopoli invece ha sequestrato , sempre amministrativamente ,presso due supermercati di Conversano (BA) e Polignano a Mare (BA) nonché presso una profumeria di Monopoli (BA) oltre 3.300 tra igienizzanti e guanti in lattice privi di etichettatura in lingua italiana, che non offrivano, quindi, alcuna garanzia sulla loro composizione nonché sulla loro sicurezza ed efficacia. Anche la Compagnia di Trani e la Tenenza di Molfetta hanno effettuato presso due farmacie, a Ruvo di Puglia (BA) e a Terlizzi (BA) un sequestro di circa 750 mascherine non conformi alla normativa in materia di sicurezza prodotti e prive del marchio. Infine, la Compagnia di Andria e la Compagnia di Barletta, a seguito di specifiche segnalazioni giunte da solerti cittadini al numero di pubblica utilità 117 della Guardia di Finanza, hanno sequestrato presso due farmacie, rispettivamente, ad Andria (BAT) e a Barletta (BAT) altre 260 mascherine, anch’esse non in linea con le pertinenti prescrizioni in materia di sicurezza prodotti. I rispettive titolari delle attività economiche sono stati segnalati al termine delle operazioni amministrative di controllo, alle competenti Camere di Commercio ed ora rischiano una sanzione amministrativa fino a oltre 25.000 euro, la cui misura sarà determinata, in ogni singolo caso, facendo riferimento al prezzo di listino di ciascun prodotto ed al numero delle unità poste in vendita. L’ attività sinora svolta e che continuerà ad essere effettuata costituisce un’ulteriore testimonianza della costante attenzione rivolta dal Comando Provinciale dalla Guardia di Finanza di Bari, in un momento di particolare emergenza sanitaria ed economica dell’intero Paese, nel contrasto della commercializzazione di prodotti attinenti alla salute, privi dei prescritti requisiti di sicurezza, a danno dei consumatori e del corretto funzionamento del mercato.
POI DICI CHE LA GENTE CREDE AI COMPLOTTI. Giuseppe Sarcina per corriere.it del 06 dicembre 2019. Bridgewater, il più grande hedge fund del mondo, teme il crollo delle Borse mondiali nel mese di marzo. Per questo motivo il suo fondatore, Ray Dalio, ha appena versato 1,5 miliardi di dollari per sottoscrivere contratti di assicurazione («put options») con l’obiettivo di proteggere, in tutto o in parte, il portafoglio di gestione: circa 150 miliardi di dollari in azioni e investimenti finanziari. Una scommessa sul ribasso dei listini. Le «put options» consentono di vendere titoli a un prezzo prefissato ed entro una data certa. In sostanza se un gestore prevede l’arrivo di un ciclo negativo, può tutelarsi siglando accordi di vendita dei titoli prima che cadano le quotazioni. È esattamente quello che ha fatto Bridgewater, firmando «put options» con Goldman Sachs e altri istituti. La mossa di Dalio, raccontata dal Wall Street Journal, ha naturalmente allarmato i mercati e gli analisti di Wall Street. Tanto che lo stesso finanziere, ieri 5 dicembre, è venuto allo scoperto, spiegando che in realtà l’operazione non nasce dalla sfiducia, ma è parte di una particolare strategia di gestione al servizio dei suoi clienti. Sarà. Tuttavia restano gli interrogativi, visto che per il momento continuano ad arrivare segnali positivi dall’economia reale. Il pil cresce, sia pure al ritmo moderato del 2%; i consumi interni tengono, nonostante i rincari delle forniture causati dai dazi imposti in giro per il mondo da Donald Trump. Anche la Federal Reserve esclude l’arrivo di una recessione imminente e anzi sostiene che il sistema produttivo americano resta solido, con l’inflazione sotto controllo e un crescente numero di posti di lavoro a disposizione. Un percorso che si specchia nella curva dell’indice Dow Jones, a Wall Street. Nell’ultimo anno è salito del 10,9%; negli ultimi sei mesi del 7,6%. La crescita economica dura, senza interruzioni, dal 2009. Ma a Bridgewater, evidentemente, pensano che l’inversione di marcia sia vicina.
Giuliana Ferraino per corriere.it il 26 marzo 2020. In Borsa l’importanza del momento giusto — quando è tempo di comprare o di vendere azioni — è fondamentale, insieme alla regola che è meglio sacrificare un po’ di guadagni ora per non rischiare dopo di perdere molto di più. Un principio osservato anche dal numero uno di Amazon, Jeff Bezos, l’uomo più ricco del mondo, che in queste settimane di estrema volatilità ha dimostrato uno tempismo straordinario sui mercati. Nella prima settimana, poco prima che Wall Street raggiungesse il massimo storico, Bezos ha venduto azioni della società da lui fondata, per 3,4 miliardi di dollari, pari a circa il 3% della sua partecipazione. Questa mossa gli ha permesso di evitare perdite, sulla carta, intorno a 317 milioni di dollari, se avesse mantenuto quelle azioni fino al 20 marzo, a causa della correzione dei mercati in piena emergenza Covid-19. Ma non è stato l’unico top manager ad anticipare la caduta dei mercati. Larry Fink, presidente, Ceo e co-fondatore di BlackRock, la maggior società del risparmio gestito del mondo, ha venduto azioni proprie pari a 25 milioni di dollari il 14 febbraio, scongiurando una perdita potenziale di 9,3 milioni. Lance Uggla, ceo di IHS Markit, società di dati e analitica, il 19 febbraio ha venduto azioni dela sua azienda per 47 miliardi di dollari; se le avesse conservate avrebbe avuto una perdita di 19,2 milioni. Marc Rowan, co-fondatore e direttore di Apollo Global Management, tra febbraio e inizio marzo ha venduto 99 milioni di dollari di azioni, scansando perdite potenziali per circa 40 milioni. Sono oltre 150 i top manager che hanno venduto, tra l’inizio di febbraio e il 20 marzo, azioni delle proprie società quotata in Borsa, per almeno un milione a testa e un valore complessivo di circa 9,2 miliardi di dollari, scongiurando in questo modo perdite per 1,9 miliardi totali, calcola un’inchiesta del Wall Street Journal, che ha analizzato più di 4 mila comunicazioni inviate nel periodo in esame alla Sec, l’autorità di controllo dei mercati americani. Al momento, non c’è nessuna indicazione o sospetto che i manager abbiano vendute le azioni grazie all’accesso a informazioni privilegiate, precisa il quotidiano finanziario. Anzi, molti top manager sono soliti vendere un pacchetto di azioni in questo periodo dell’anno per ragioni fiscali o per altri motivi. Ad esempio, anche l’anno scorso, a febbraio, Fink ha venduto 18 milioni di dollari di azioni BlackRock, sostiene un portavoce del gruppo Usa. Vendite che rappresentano circa il 5% della sua partecipazione. E Jeff Bezos, nella prima settimana di febbraio ha venduto quasi lo stesso ammontare di azioni, cedute nel corso degli ultimi 12 mesi, emerge dalle informazioni inviate alla Sec. Ma la somma totale delle azioni vendute dai manager tra febbraio e il 20 marzo di quest’anno è salita del 30% rispetto agli ultimi due anni, in base ai documenti al regolatore e ai dati di S&P Global Market Intelligence
Chi si approfitta del coronavirus. Andrea Indini su Inside Over l'11 marzo 2020. Lunedì Wall Street ha segnato il peggior declino dell’ultimo decennio. Un combinato di fattori negativi sta mettendo in ginocchio l’America e tutto il resto del mondo: la diffusione inarrestabile del coronavirus e il crollo dei prezzi del petrolio. È il cigno nero che molti economisti aspettavano da tempo. E, se gli Stati Uniti hanno subito la peggior performance dal 2008, quando fallì la Lehman Brothers e scoppiò la bolla immobiliare che portò alla peggiore recessione dal 1929, le Borse europee hanno addirittura fatto di peggio bruciando 611 miliardi di euro. La maglia nera è andata a Milano dove si è chiuso con un rosso superiore all’11% e sono andati in fumo oltre 63 miliardi di capitalizzazione, portando a 180 miliardi il conto dall’inizio della crisi. È in questi momenti più difficili che gli squali entrano in azione. Questo il motivo per cui, all’indomani della blindatura del Nord Italia, il centrodestra aveva suggerito al premier Giuseppe Conte di chiudere la Borsa di Milano e di vietare le vendite allo scoperto. Dal governo non è stata intrapresa alcuna misure per tutelare i risparmi degli italiani e così l’assalto è iniziato. Il rischio è che nelle prossime settimane assisteremo ad altre scorribande, non solo sui mercati. Intanto vi invito a segnarvi due date. La prima: il 16 marzo quando l’Eurogruppo voterà la riforma del Fondo salva Stati. La seconda: il 15 luglio quando scadranno due pandemic bond che potrebbero liberare 320 milioni di dollari per i Paesi colpiti dal coronavirus (sempre che l’Oms si decida a definirla pandemia).
Mes. L’economia italiana è in ginocchio. Non dobbiamo girarci troppo intorno coi termini. Se prima dell’avvento del coronavirus le agenzie di rating avevano qualche dubbio sulla possibilità della recessione, ora ne sono pressoché certe. Nel giro di tre settimane scarse l’epidemia da Covid-19 non ha solo devastato il nostro sistema sanitario, ma anche ha ulteriormente infiacchito un’economia già malata. Il Paese è completamente fermo e con il passare delle ore gli altri Stati europei lo stanno isolando. Siamo lasciati a noi stessi. E, mentre Conte cerca di strappare qualche punto percentuale in più sullo sforamento del debito, Bruxelles si affretta a farci votare la riforma del Meccanismo europeo di stabilità (Mes). È stato l’Ecofin, il consiglio dei ministri dell’Economia dei Paesi membri a decidere, proprio mentre nel Vecchio Continente esplodeva il contagio, di anticipare la firma della riforma da aprile a marzo. Un blitz del tutto ingiustificato dal momento che, essendo il trattato operativo, non si riscontra alcuna urgenza che giustifichi questa corsa suicida. A meno che l’intento di Bruxelles non sia quello di aggirare i parlamenti nazionali, già fortemente limitati dall’emergenza sanitaria. E sì che Conte e il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri si erano formalmente impegnati a far esprimere le Camere su un tema tanto cruciale per il Paese. Il voto, che finirà per penalizzare pesantemente l’Italia e avvantaggiare (come al solito) la Francia e la Germania, è fissato al 16 marzo quando si riunirà il prossimo Eurogruppo. Nonostante le proteste dell’opposizione e di una parte dei Cinque Stelle, il governo Conte è pronto ad assecondare l’Unione europea nell’approvazione della riforma dannosa di un trattato già zeppo di vincoli dannosi. Il tutto mentre l’economia del nostro Paese è fiaccata dal contagio, che imposto la chiusura di molti settori, e dagli speculatori che a Piazza Affari stanno facendo carne da macello dei nostri titoli.
Pandemic bond. Da quando il coronavirus è arrivato in Italia, il dato più drammatico, oltre ovviamente al numero dei morti, è sicuramente il menefreghismo dell’Unione europea. Che a Bruxelles non fossero in grado di gestire le emergenze, lo avevamo sperimentato (sulla nostra stessa pelle) già in passato. E, se gli euroburocrati si voltano dall’altra parte, alla Banca mondiale non fanno certo di meglio. Basta analizzare il caso dei pandemic bond, due obbligazioni dai profitti pazzeschi quotati sulla Borsa del Lussemburgo. Il primo bond vale la bellezza di 225 milioni di dollari ed è legato a pandemie come il coronavirus. Per mettere le mani su questo gruzzoletto serve, tra le varie clausole pensate per blindare tutti quei soldi, che ci siano almeno 2.500 vittime in un Paese e almeno 20 in un altro. Il secondo bond vale, invece, 95 milioni di euro ma è legato a una gamma più ampia di casistiche e per farlo scattare bastano 250 decessi. I tassi di entrambi sono molto alti (uno è al 6,5%, l’altro all’11%) sia perché il rischio potenziale è altrettanto alto sia perché le clausole, che permettono alla Banca mondiale di non restituire il capitale agli obbligazionisti, sono a dir poco diaboliche. Tra queste ci sono l’attestazione della pandemia, il tipo di virus, il tasso di crescita del contagio, il numero di Paesi coinvolti, la distribuzione delle vittime nei diversi Paesi e così via. Il risultato? Banche e gestori hanno continuato a incassare e nessun Paese colpito da un’epidemia ha potuto beneficiare di questi soldi. Nemmeno il Congo che l’anno scorso ha pianto 2mila morti per ebola. Con il coronavirus le clausole sul numero di vittime e dei Paesi coinvolti sono già state rispettate. Manca ancora lo scoglio della definizione di “pandemia”. Qualora l’Oms dovesse alzare il livello di rischio del contagio, per la prima volta i 320 milioni di dollari potrebbero finire a chi ne ha davvero bisogno. E questo non deve piacere alle banche. Forse è anche per questo che l’Oms sta tardando a dichiarare la pandemia? Se lo dovesse fare entro la data di scadenza, infatti, i sottoscrittori perderebbero tutto il capitale a favore dei Paesi colpiti dal virus cinese.
Fabrizio Massaro per il “Corriere della Sera” l'8 marzo 2020. C' è anche una finanza che scommette sui virus: è quella dei «pandemic bond», le obbligazioni sulle pandemie. Non c' è niente di complottistico: è uno strumento creato dalla Banca Mondiale nel 2017 per avere capitali pronti per Paesi in emergenza sanitaria, nel caso di diffusione globale di influenza, coronavirus (come la Sars e la Mers) o filovirus (Ebola). L'intento è lodevole: solo che il meccanismo, che ha raccolto 320 milioni, più altri 100 in derivati, da investitori internazionali (al 70% europei), non funziona. Non ha funzionato nel 2018 con l' epidemia di Ebola; e non sta funzionando con il coronavirus che provoca migliaia di vittime. Eppure la Banca Mondiale (più precisamente, il suo braccio finanziario per le epidemie, il Pef) paga interessi molto alti, dal 7% al 12% circa l' anno agli investitori, per disporre di questa «assicurazione». Non funziona per l'astrusità delle regole del bond, a sua volta diviso in due categorie, o classi (la A, meno rischiosa, e la B, più speculativa). Le clausole sono molto stringenti e poco coerenti con le necessità di denaro immediato. Per esempio serve un certo numero di morti - 2.500 in un Paese e 20 in un altro - perché la malattia possa essere definita «pandemia». E serve che venga dichiarata dall' Oms entro 84 giorni dal primo caso. Ora le condizioni ci sarebbero. Tanto che le quotazioni dei bond, che scadono a giugno, stanno crollando. Se si ritardasse oltre metà aprile nella dichiarazione di pandemia, il Pef dovrebbe dover restituire i 320 milioni agli investitori, che hanno anche incassato decine di milioni di interessi. E chi ha bisogno di soldi e aiuto, dovrà cercarli altrove. E comunque, anche se arrivassero, sarà troppo tardi: perché sarebbero serviti prima, per contenere la pandemia.
Paolo Dimalio per il “Fatto quotidiano” il 9 marzo 2020. Mentre la pandemia s' avvicina, su Amazon si vendono tazze, thermos, felpe, magliette, cappelli, sacche sportive, cuscini, apribottiglie, adesivi, modellini in resina, tutto griffato "coronavirus". Ad esempio, lo shop chiamato Krissy è una miniera. A 17,85 si può acquistare un' allegra t-shirt con la scritta I survived Coronavirus, sotto al disegno di un omino stilizzato che prende a calci la molecola stilizzata. Il berretto sta a 18,45 , l' apribottiglie a 11,65. Ma la concorrenza è agguerrita, in ogni categoria merceologica. Se vuoi un gadget per ridere del virus, il catalogo di Amazon è infinito e i prezzi contenuti. Talvolta si sale di fascia: il modellino della molecola, "per l' insegnamento nelle università", costa 124,61. Un utente si chiede: "È buono almeno da mangiare a quel prezzo?". Che male c' è a guadagnare su un morbo che sta affossando l' economia? Soprattutto se si danno consigli utili. Infatti le guide contro il virus, nella categoria "libri" su Amazon, si diffondono come un contagio. Ad esempio, Coronavirus: vademecum essenziale per informarsi e prevenire. Il volume costa 8,99 , ma il lettore potrebbe restare deluso. L' avviso legale a pagina 1 dice: "L' autore non è impegnato nella fornitura di consulenza medica o professionale () e non è responsabile per eventuali danni dovuti alle informazioni". L' autrice s' è impegnata, dice il testo, ma il risultato è dubbio: "Ogni tentativo è stato fatto per fornire informazioni complete e accurate. Nessuna garanzia è espressa o implicita". Al 1º posto in classifica, tra i libri gratis del Kindle store (il negozio dei libri elettronici) c' è il titolo Coronavirus: guida definitiva per la sopravvivenza. La versione cartacea costa 7 , ma non è detto che siano ben spesi: "Si prega il lettore di consultare un professionista autorizzato, prima di tentare le tecniche descritte". 7,6 miliardi di persone, in tutto il mondo, sono affamate d' informazioni; e non faticano a trovarle, online e in tv. Pure youtube è ricco di consigli: facile fare il pieno di click col Coronavirus. Oscillano tra le 400 e le 500 mila visualizzazioni, i video di Chris Martenson per informare sul morbo. Il ricercatore americano ha un dottorato alla Duke university e un master in Business administration alla Cornell. Il suo canale, Peak Prosperity, conta 260 mila iscritti: si può contribuire con 30 dollari al mese o 300 per tutto l' anno. Intanto, cresce il pubblico televisivo (dunque i ricavi pubblicitari), grazie alla paura dell' epidemia. Il 21 febbraio c' è il primo caso italiano: il giorno dopo la platea catodica aumenta di 300.000 spettatori, il 25 febbraio lo scarto supera il milione. Secondo l' istituto di ricerca, il 94% degli italiani cerca notizie sul virus almeno una volta al giorno; il 69% anche più spesso. L' Oms (Organizzazione mondiale della sanità) il 2 febbraio ha inventato il termine "infodemia": "Una sovrabbondanza di informazioni - alcune accurate, altre no - che rendono difficile trovare fonti e indicazioni affidabili". 40 milioni di cinesi, secondo il Global Times, hanno guardato in diretta streaming la costruzione dell' ospedale di Wuhan, sul sito del canale all news China Central Television. Il Coronavirus, del resto, è la prima epidemia al tempo dei social: per guadagnare like e visibilità, su TikTok e Facebook, alcuni adolescenti si sono finti malati. Thedailybeast.com ha raccontato le loro storie. Il 28 gennaio, un ragazzo di Vancouver ha postato un video dove chiamava i sanitari per un amico contagiato a scuola: 4,1 milioni di visualizzazioni e 817 mila like su TikTok. L' hashtag #coronavirus, su Instagram, ha infettato quasi 200 mila post, secondo The Independent: per lo più, giovani in pose glamour che sfoggiano mascherine. Logan Paul, 17 milioni di follower, ha lanciato lo slogan Fuck the coronavirus, con un selfie tra belle ragazze. Mentre alcuni provano a guadagnare con i like, altri coniano monete. La criptovaluta CoronaCoin, ad esempio, aumenta di valore con il conto delle vittime; però il 20% del ricavato andrà alla Croce Rossa. Sul web, la valuta non sfonda ed è subissata di critiche. Uno degli inventori, Sunny Kemp, s' è difeso: "Alcuni temono il blocco dell' industria, quindi investono. Del resto anche l' Oms ha emesso i Pandemic bond, non è speculazione anche quella?". Il virus ferisce le borse mondiali, ma se il prezzo delle azioni va giù per qualcuno è una buona notizia. "Sicuramente c' è stata speculazione - dice Giacomo Calef di Notz Stucki - perché i valori calano ogni giorno del 4-5%, per poi risalire con un rimbalzo del 5%". L' Italia rischia lo spread alle stelle come nel 2013? "Difficile muovere il prezzo dei titoli di Stato, più facile attaccare le banche, bastano pochi miliardi". Ognuno specula come può.
Attenzione agli "hackers-sciacalli" sul coronavirus. Il Corriere del Giorno il 6 Marzo 2020. Il Coronavirus non ferma i criminali del web, che non si fanno scrupoli ad approfittare del rischio di epidemia in corso per architettare nuove ed insidiose frodi informatiche. Ecco i consigli della Polizia Postale e della società Kaspersky per non cadere nelle truffe online. Il Servizio della Polizia Postale e delle Comunicazioni, in queste ore, sta vigilando con particolare attenzione, alla ricerca delle minacce informatiche disseminate su tutta la rete, che sfruttano il momento di comprensibile disorientamento e fragilità nella cittadinanza, conseguente alla diffusione del COVID-19. Fin all’alba della diffusione dell’epidemia dagli inizi di febbraio, , il CNAIPIC – Centro Nazionale Anticrimine informatico per la protezione delle Infrastrutture critiche della Polizia Postale ha rilevato e segnalato una campagna di false email, apparentemente provenienti da un centro medico e redatte in lingua giapponese, le quali, con il pretesto di fornire falsi aggiornamenti sullo stato di avanzamento della diffusione del virus, invitavano ad aprire un allegato malevolo – apparentemente un documento Microsoft Office – contenente un pericoloso virus il quale, una volta installato, mirava ad impossessarsi delle credenziali bancarie e dei dati personali della vittima. Subito dopo, è sempre un allegato malevolo ad una finta email, che si presentava stavolta come un file “zip” contente documenti excel, a rappresentare il veicolo per la diffusione di un temibilissimo virus di tipo RAT, chiamato “Pallax”. A seguito dell’inconsapevole click da parte l’ignara vittima sull’allegato malevolo, questo pericoloso virus (venduto per pochi dollari negli ambienti più nascosti del darkweb fin dal 2019), si installa rapidamente, consentendo agli hacker di assumere il pieno controllo del computer, smartphone o tablet attaccato, spiando i comportamenti della vittima, rubando dati sensibili e credenziali riservate, nonché, addirittura, assumendo il controllo della macchina attaccata in maniera assolutamente “invisibile”. Sempre un virus RAT dal simile funzionamento, è stato individuato dagli esperti della Postale nascosto dietro un file chiamato CoronaVirusSafetyMeasures_pdf, il quale gioca ancora una volta, sullo stato di agitazione emotiva in chi lo riceve – riesce una volta installatosi ad assumere il controllo del dispositivo infettato, trasformandolo all’insaputa della vittima in un computer zombie, gestito da remoto da un computer principale, che gli esperti del CNAIPIC stanno individuando, ed utilizzato per l’effettuazione di successivi attacchi informatici in tutto il mondo. La settimana scorsa, è stata la volta di una nuova campagna di frodi informatiche diffusasi attraverso email apparentemente provenienti da importanti istituti bancari, la quale, nascondendosi dietro ad una falsa informativa per la tutela della propria clientela, inviata agli ignari consumatori ad accedere ad un servizio online, dal quale si sarebbe potuta leggere una presunta “comunicazione urgente” relativa allo stato di allerta per il Coronavirus. In realtà, gli ignari utenti venivano reindirizzati ad un sito di phishing, cioè un clone realizzato apparentemente identico a quello della banca, dove si viene invitati a digitare le proprie credenziali per l’accesso ai servizi di home banking, dati che venivano, invece, carpiti dai pericolosi hackers ed utilizzati per svuotare successivamente i conti correnti. Gli investigatori ed analisti informatici della Polizia Postale hanno intercettato una campagna di frodi informatiche veicolata attraverso l’inoltro di email a firma di una tale dott.ssa Penelope Marchetti, presunta “esperta” dell’Organizzazione Mondiale della Sanità in Italia. I falsi messaggi di posta elettronica, dal linguaggio professionale ed assolutamente credibile, invitavano le vittime ad aprire un allegato infetto, contenente presunte precauzioni per evitare l’infezione da Coronavirus. Il malware, cioè il virus contenuto nel documento è della famiglia “Ostap” e viene nascosto in un archivio javascript. L’infezione mira a carpire i dati sensibili dell’ignaro utilizzatore del computer vittima per inoltrarli agli autori della frode informatica. L’invito della Polizia Postale è di diffidare da questi e da simili messaggi, evitando accuratamente di aprire gli allegati che essi contengono. Per ogni utile informazione, la Polizia di Stato mette a disposizione il proprio “commissariato virtuale”, raggiungibile all’indirizzo commissariatodips.it. Il coronavirus viene usato come esca dai criminali informatici con alcuni video che si presentano come documenti utili su come proteggersi dal Coronavirus in realtà, sono file in grado di distruggere, bloccare, modificare o copiare i dati degli utenti, oltre ad interferire con il funzionamento dei computer o delle reti dei dispositivi. Le tecnologie di rilevamento della società di sicurezza informatica Kaspersky hanno infatti individuato dei file dannosi che si presentavano come documenti relativi al virus e alle istruzioni su come proteggersi. I file dannosi scoperti si presentavano sotto forma di file pdf, mp4 e docx. “Finora abbiamo osservato solo 10 file unici ma, come spesso succede con argomenti di interesse generale, prevediamo che questa tendenza possa crescere – dichiara Anton Ivanov di Kaspersky – Tenuto conto che si tratta di un tema che sta generando grande preoccupazione tra le persone di tutto il mondo, siamo certi che rileveremo sempre più malware che si nascondono dietro a documenti falsi sulla diffusione del coronavirus”. Per evitare di cadere vittima di programmi malevoli nascosti in documenti con contenuti apparentemente esclusivi, Kaspersky raccomanda di evitare i link sospetti che promettono di offrire contenuti esclusivi e di informarsi tramite fonti affidabili e legittime. Ma anche di controllare l’estensione del file scaricato, i file di documenti e video non devono essere in formato .exe o .lnk, precisa la società di sicurezza.
Da parma.repubblica.it l'11 marzo 2020. Nei giorni scorsi i militari del Gruppo della Guardia di Finanza di Parma, a seguito di una segnalazione al numero di pubblica utilità 117, hanno individuato una sala slot all'interno della quale un dipendente, in servizio al bancone posto all'ingresso, aveva abusivamente posto in vendita prodotti disinfettanti e mascherine chirurgiche. L'addetto è stato sanzionato amministrativamente in violazione del codice del commercio ed è stato segnalato alla Procura della Repubblica di Parma per il reato di ricettazione in quanto è stato accertato, durante il controllo, che i dispositivi medico-sanitario provenivano dalla locale Ausl. Le successive indagini di polizia giudiziaria, coordinate dalla Procura della Repubblica di Parma (dottoressa Emanuela Podda) hanno permesso di individuare e identificare in C.P, quaranta anni residente a Parma, il dipendente della locale Ausl che avrebbe sottratto il materiale all'azienda sanitaria per poi cederlo per la vendita al fine di ottenerne un profitto. I prodotti erano venduti a prezzi esorbitanti (70 euro per una mascherina) sfruttando, in modo speculativo, l’aumento della domanda dell’ultimo periodo. A seguito delle indagini e di alcune perquisizioni domiciliari, eseguite dai militari del Gruppo di Parma, è stato individuato un altro operatore sanitario, G.I, di cinquantotto anni residente a Torrile, in possesso, nella propria abitazione, di merce sottratta dall'azienda ospedaliera di Parma. A carico di entrambi i dipendenti pubblici viene ipotizzato dall'autorità giudiziaria il reato di peculato. Tutti i prodotti (alcune centinaia di pezzi tra mascherine chirurgiche, guanti in lattice, prodotti igienizzanti), che al momento risultano di particolare utilità pubblica e di difficile reperimento, sono stati sottoposti a sequestro in vista della successiva restituzione alla locale azienda ospedaliera. Le attività investigative sono state eseguite con la più ampia collaborazione del personale amministrativo dell’ospedale di Parma che ha contribuito fattivamente all’individuazione dei dipendenti infedeli. Sono in corso ulteriori attività investigative, da parte della Guardia di Finanza di Parma, volte a ricercare, su tutto il territorio parmigiano, ulteriori siti di vendita di merci oggetto di manovre speculative, ovvero immessi in commercio fraudolentemente, identificando i responsabili e ricostruendo i profitti illecitamente ottenuti in danno dei consumatori finali. "È una vergogna. Che delle persone, a maggior ragione i dipendenti pubblici di un'azienda sanitaria, sfruttino l'emergenza che stiamo vivendo per fini di lucro a proprio vantaggio è davvero inaccettabile. Un fatto, se verificato, che da solo qualifica chi lo ha compiuto. Persone, nel caso, che dovranno essere tutte chiamate a scontare fino in fondo la pena" commenta il presidente della Regione Stefano Bonaccini. "Ringrazio gli inquirenti per aver scoperto quanto successo: da parte nostra e delle strutture sanitarie hanno il massimo della collaborazione affinché si arrivi velocemente all'accertamento pieno dei fatti. Quanto ai due dipendenti - chiude Bonaccini - chiedo ai vertici aziendali la massima rigorosità nell'applicare ogni procedimento disciplinare o procedura che li riguardi, senza guardare in faccia a nessuno. Se colpevoli, non sono certo degni di far parte della sanità dell'Emilia-Romagna". "Un comportamento ignobile che va punito con la massima severità e ad ogni livello, anche dal punto di vista interno delle stesse Aziende sanitarie cui appartengono i dipendenti, i cui procedimenti disciplinari possono essere molto più immediati di quello della giustizia ordinaria" afferma il vicepresidente dell'Assemblea legislativa dell'Emilia-Romagna ed esponente della Lega Fabio Rainieri. Se i fatti saranno confermati, "dovremo considerare chi li ha commessi non solo dei delinquenti ma dei veri e propri traditori, degni solo di essere puniti molto severamente e con pene esemplari", afferma il leghista che rivolge "un grande ringraziamento" alla Finanza.
(ANSA il 28 febbraio 2020) - Un ingente furto di mascherine e gel disinfettante nell'ospedale di Lavagna. A riportare l'accaduto è stata la direttrice generale della Asl4 Chiavarese Bruna Rebagliati in occasione della Conferenza dei Sindaci del territorio di competenza dell'Asl riunita in municipio a Chiavari questa mattina per fare il punto sulla situazione coronavirus. "Abbiamo denunciato l'accaduto - ha spiegato Rebagliati - e andremo in fondo alla vicenda perché non si può speculare in questo modo su dispositivi sanitari così importanti". Rebagliati ha aggiornato i sindaci sulle situazioni nel Tigullio dove non vi sono positività da coronavirus ma 44 isolamenti preventivi divisi in 18 nuclei familiari.
Da repubblica.it il 28 febbraio 2020. Erano comparsi qualche giorno fa per garantire una corretta igiene delle mani agli onorevoli di fronte all'emergenza Coronavirus. E oggi sono spariti. Sono i flaconi di Amuchina e gel igienizzante messi sui lavandini all'ingresso dei bagni della Camera, a pochi metri dall'emiciclo. I gel disinfettanti nei wc usati da deputati, funzionari e giornalisti accreditati di Montecitorio. Al loro posto sono rimaste solo le locandine dove l'Organizzazione mondiale della sanità spiega in undici passaggi come lavarsi le mani con acqua e sapone.
(ANSA il 4 marzo 2020) Due romene di 20 e 46 anni sono state denunciate dai carabinieri per procurato allarme dopo che avevano tossito di proposito e ripetutamente fuori dal centro unico di prenotazione dell'Asst (l'ex Asl) a Rho (Milano). E' accaduto nel pomeriggio di ieri in via Legnano. L'ipotesi dei militari è che le due volessero spaventare i presenti, approfittare della concitazione e del fuggi fuggi generale per borseggiare qualche vittima.
Da milanotoday.it il 4 marzo 2020. Probabilmente volevano "giocare" sulla psicosi. Evidentemente volevano creare il caos per poi "colpire" e scappare. Ma, purtroppo per loro, è finita diversamente da come speravano. Due donne - una 20enne e una 45enne, entrambe cittadine romene - sono state denunciate martedì pomeriggio dai carabinieri con l'accusa di procurato allarme. Le due - stando a quanto ricostruito dai militari, allertati da alcuni testimoni - si erano appostate fuori dal centro unico di prenotazione dell'Asst Rhodense di via Legnano a Rho e continuavano ad avvicinarsi alle persone in fila tossendo e dicendo di avere il Coronavirus. Quando i carabinieri sono arrivati sul posto, proprio davanti all'ambulatorio, hanno trovato le due ancora al "lavoro", le hanno identificate e denunciate. È verosimile, secondo la ricostruzione delle forze dell'ordine, che le donne volessero creare una sorta di "diversivo" per poi mettere a segno furti e borseggi. Entrambe, stando a quanto riferito, risultano residenti nel centro per l'autonomia abitativa di via Novara a Milano, la struttura comunale che ospita famiglie in emergenza abitativa.
(ANSA il 4 marzo 2020) - Un vero e proprio "Coronavirus Shop", almeno questa è la denominazione riportata in uno dei tanti siti individuati dalla Guardia di Finanza di Torino che sta proseguendo le indagini dopo la maxi operazione dei giorni scorsi che ha visto migliaia di articoli, spacciati come "antidoti" contro il virus, venduti a prezzi folli. Ionizzatori d'ambiente, mascherine, tute, guanti protettivi, prodotti igienizzanti, occhiali, kit vari, facciali filtranti, copri-sanitari, integratori alimentari insomma di tutto un po', il cui utilizzo da parte dei consumatori, almeno questo è quello che è stato ingannevolmente pubblicizzato dai venditori, poteva garantire l'immunità totale dal COVID-19. Salgono così a 33 in pochi giorni i truffatori del web tutti pronti a garantire una protezione totale dal contagio dal Coronavirus, grazie all'utilizzo delle più disparate apparecchiature ovvero dispositivi di protezione individuale di facile reperibilità sul mercato. Anche in questo caso i prezzi alla vendita per ogni singolo articolo, hanno raggiunto le migliaia di Euro. I Baschi verdi del Gruppo Pronto Impiego Torino, coordinati dai magistrati Vincenzo Pacileo e Alessandro Aghemo della Procura della Repubblica di Torino, sono riusciti a identificare ulteriori 14 imprenditori, tutti italiani, responsabili di frode in commercio. Rischiano ora fino a 2 anni di reclusione. La frode scoperta dalla Guardia di Finanza torinese riguarda tutto il territorio nazionale. Ferramenta, commercianti di detersivi, autoricambi, coltivatori diretti e allevatori di bestiame, venditori porta a porta, profumerie queste le attività dei "furbetti del web". Torino, Cosenza, Napoli, Foggia, Rimini, Salerno, Caserta, Modena, Cagliari, Campobasso, Mantova e Macerata, invece, le province coinvolte nell'operazione. I Finanzieri, chiudendo il "cerchio" intorno a questa prima fase investigativa, hanno inoltre segnalato all'Autorità Giudiziaria le 16 società coinvolte per la responsabilità amministrativa derivante dalla commissione dei reati, violazioni queste, che prevedono sanzioni e pene severissime; si va dalle sanzioni pecuniarie, alla confisca del profitto ottenuto, alla revoca delle licenze, sino al divieto di contrattare con la Pubblica Amministrazione. L'attività che è solo agli inizi, rientra nel quadro delle attività svolte in via esclusiva dalla Guardia di Finanza quale organo di Polizia Economico Finanziaria a tutela della concorrenza e del mercato posta ad argine delle Frodi in Commercio ed in materia di Sicurezza prodotti.
Da "il Giornale" il 27 febbraio 2020. Abusivi e sciacalli in azione in questi giorni, che sfruttano la paura dei cittadini. Da un lato aumentando in maniera spropositata i prezzi di gel igienizzanti e di presidi sanitari, dall' altro vendendo abusivamente e senza alcun rispetto delle norme igieniche essenziali le mascherine nei mezzanini delle metropolitane e nei mercati. Solo nella giornata di ieri, infatti, gli agenti della Guardia di Finanza hanno sequestrato centinaia di mascherine protettive, mentre verifiche sono in corso su spray igienizzanti venduti in un mercato rionale. Da giorni le Fiamme Gialle sono impegnate nel contrasto a possibili fenomeni di aumento ingiustificato dei prezzi o altre condotte illecite legate all' emergenza sanitaria per la diffusione del coronavirus e al panico conseguente che si è scatenato tra la popolazione. «Assaltate» farmacie e negozi di articoli sanitari, che ormai hanno esaurito qualsiasi scorta, i milanesi in preda alla psicosi si «accontentano» di acquistare quello che trovano in giro. In particolare, i finanzieri in tre distinti interventi, alla Stazione Centrale, alla stazione di Lambrate e alla stazione della metropolitana verde di Gioia, hanno sorpreso altrettanti venditori, «di cui due abusivi, tutti extracomunitari, che cedevano ai passanti mascherine protettive prive del marchio Ce. I beni sono stati sequestrati e i venditori sono stati sanzionati», si legge nella nota. Durante un controllo effettuato in un mercato rionale, invece, è stato «pizzicato» un ambulante che aveva esposto centinaia di flaconi di spray igienizzante, in vendita a un prezzo elevato, su cui sono in corso ulteriori accertamenti per verificarne il valore e la provenienza, anche con riguardo alla sicurezza del prodotto. È stato multato anche perché si avvaleva dell' aiuto di un collaboratore in nero. Nella giornata sono state complessivamente 745 le mascherine sequestrate e 4 gli ordini di allontanamento emessi dai Nuclei Tutela Trasporto Pubblico e Antiabusivismo della Polizia intervenuti per contrastare la vendita abusiva di presidi sanitari non conformi. Nel pomeriggio sono stati sequestrati altri 35 pezzi nella stazione metropolitana di Cadorna, oltre 410 pezzi in piazza Argentina, in aggiunta alle 300 mascherine «scoperte» nella prima parte della giornata tra le stazioni di Porta Genova, Romolo e Loreto. I presidi sanitari venivano venduti ad un prezzo di 4/5 euro l' una e agli indagati sono state comminate sanzioni per un totale di 15mila euro. Il caso di sciacallaggio più inquietante è avvenuto lunedì nei comi dell' hinterland: a Zibido San Giacomo, Solaro, San Donato finti volontari della Croce Rossa o dei dipendenti dell' Ats hanno cercato di intrufolarsi nelle case degli anziani per derubarli fingendosi inviati per eseguire i tamponi. Immediata l' allerta lanciata dai comuni, dagli enti e dalla Regione Lombardia.
Mascherine e disinfettanti online a prezzi folli online: la Procura di Milano apre un’indagine. Pubblicato lunedì, 24 febbraio 2020 su Corriere.it da Giuseppe Guastella. La Procura di Milano sospetta che ci sia qualcuno che stia facendo opera di sciacallaggio incettando mascherine e disinfettanti per poi venderli a prezzi esorbitanti via internet approfittando dell’apprensione, che in alcuni casi si sta trasformando in panico, causata dalla diffusione del Covid-19. I magistrati, infatti, hanno aperto un’inchiesta che è stata affidata ai dipartimenti diretti dai procuratori aggiunti Tiziana Siciliano ed Eugenio Fusco che ipotizza, per ora contro ignoti, il reato di «manovre speculative su merci» che prevede la reclusione da sei mesi a tre anni e la multa da 516 a 25.822 euro. Basta andare in rete e trovare mascherine antipolvere, probabilmente poco utili contro le infezioni, ma anche quelle più idonee a prevenire il contagio oppure i più banali disinfettanti per le mani che vengono venduti a prezzi altissimi rispetto a quelli praticati prima della crisi dovuta alla sindrome influenzale. In questa borsa nera della paura, ad esempio, mascherine chirurgiche a tre stati che, in confezione da 50 pezzi, normalmente vengono vendute a circa 8 euro, su Ebay hanno raggiunto il prezzo di 69 euro e vengono pubblicizzate con riferimento esplicito e magnetico a «Coronavirus 2019» e ad «Influenza». Il reato di «manovre speculative su merci» (art.501 bis del Codice Penale) punisce «chiunque, nell’esercizio di qualsiasi attività produttiva o commerciale, compie manovre speculative ovvero occulta, accaparra od incetta materie prime, generi alimentari di largo consumo o prodotti di prima necessità, in modo atto a determinarne la rarefazione o il rincaro sul mercato interno». Le indagini della Procura guidata da Francesco Greco saranno coordinate da Siciliano (Dipartimento tutela della salute) e Fusco (Frodi e tutela dei consumatori) saranno affidate alla Guardai di Finanza e alla Annonaria della Polizia locale che potranno perquisire negozi e magazzini che potrebbero essere anche sequestrati con le relative merci se dovesse emergere che i prodotti che devono servire per salvaguardare la salute dei cittadini sono stati occultati per compiere manovre speculative.
Coronavirus, vendite mascherine: la Guardia di Finanza nelle sedi di Amazon e eBay. Pubblicato mercoledì, 26 febbraio 2020 da Corriere.it. Il fascicolo era stato aperto d’iniziativa dalla procura basandosi su articoli di stampa che riportavano prezzi esorbitanti fino a 100 euro per prodotti come «Amuchina» e simili e per mascherine «ad alto potere filtrante per il rischio biologico», indicate per situazioni di rischio. Quello che si dovrà accertare è quanto i grandi siti di e-commerce traggano come profitto, soprattutto nel momento in cui sono venditori terzi a piazzare i loro beni sulle piattaforme e a decidere il prezzo. Cifre che sono schizzate sul web nel momento in cui questi beni, diventati «di prima necessità» nei giorni dell’emergenza, erano diventati introvabili nei negozi fisici. Anche su questi comunque ci sarà un’attività di indagine, di cui la procura ha incaricato l’Annonaria della polizia locale. «Pieno successo dell’esposto del Codacons che ha portato la Procura di Milano a disporre ispezioni presso le sedi Amazon ed Ebay», scrive il Codacons in una nota, a proposito delle perquisizioni della Guardia di finanza nelle sedi dei due colossi di internet. «La nostra denuncia va a segno e registra una prima vittoria dei consumatori contro gli speculatori - spiega il presidente Carlo Rienzi - E chiediamo alle autorità di disporre l’oscuramento immediato di quelle pagine che sul web proseguono nel lucrare sulle paure dei cittadini».
(ANSA il 26 febbraio 2020) - Il Nucleo di polizia economico-finanziaria della Gdf di Milano ha effettuato acquisizioni di documenti e dati nelle sedi di Amazon e eBay nell'ambito dell'inchiesta dei procuratori aggiunti Tiziana Siciliano e Eugenio Fusco sulle "manovre speculative" nelle vendite a prezzi folli di mascherine, gel disinfettanti e altri prodotti sanitari in questi giorni di emergenza Coronavirus. Il fascicolo, che ipotizza speculazioni sui prezzi di "generi di prima necessità", è a carico di ignoti.
Silvia Turin per il “Corriere della Sera” il 26 febbraio 2020. Le mascherine non servono alle persone sane, invece, sono necessarie a malati e operatori sanitari: ai primi per non diffondere il patogeno del coronavirus (o altri), ai secondi per non esserne contagiati. Per chi non è malato bastano infatti le consuete misure di igiene (in sintesi, lavarsi spesso le mani, igienizzare le superfici ed evitare contatti ravvicinati con chi presenta sintomi), come per l' influenza. Deve quindi indossare le mascherine chi sospetta di aver contratto il nuovo coronavirus e presenti febbre, tosse, starnuti e respiro corto; chi si prende cura di una persona con sospetta infezione da nuovo coronavirus; i sanitari e, in questo caso, le persone che vivono nelle aree considerate focolaio e dunque nella cosiddetta «zona rossa» che comprende 11 comuni tra lodigiano e padovano. Le mascherine più idonee a questi soggetti sono quelle di classe FFP3 o FFP2, certificate in conformità alla norma UNI EN 149, con valida marcatura CE seguita dal numero dell' organismo di controllo che ne autorizza la commercializzazione. Questo viene considerato lo standard necessario per essere certi della protezione fornita contro lo specifico «rischio biologico». I dispositivi di classe FFP3 hanno un' efficacia filtrante del 98%, rispetto al 92% garantito dalla classe FFP2. Le mascherine chirurgiche che vanno a ruba in questo momento servono in misura molto ridotta a limitare il rischio. In mancanza delle FFP3 e FFP2, possono essere usate in via precauzionale, come anche quelle a carbone attivo, a valvole o antipolvere, ma attenzione all' utilizzo: non si devono indossare più mascherine sovrapposte e ogni quattro ore andrebbero sostituite: questo vale per tutti i modelli. La procedura corretta per calzare una mascherina FFP3 o FFP2 prevede di lavarsi prima le mani con acqua e sapone (o con soluzione alcolica), coprire bocca e naso con la mascherina assicurandosi che aderisca bene al volto, evitare di toccarla mentre la si indossa, sostituirla quando diventa umida o comunque dopo 4 ore. Le mascherine sono monouso, si tolgono afferrando l'elastico senza toccarne la parte anteriore, si gettano immediatamente in un sacchetto chiuso e dopo ci si lava le mani. Proprio per questo non sono consigliate su bambini o persone con la barba, perché non si adattano perfettamente ai contorni del viso. Il kit protettivo completo dei sanitari comprende anche: camice monouso in Tnt (Tessuto Non Tessuto ndr ) idrorepellente, occhiali o occhiali a maschera, guanti, copricapo.
Gel e mascherine a peso d'oro: ecco chi specula sull'epidemia. L'emergenza Coronavirus ha fatto schizzare il prezzo alle stelle di mascherine e gel antibatterici, tanto che sul web i rincari possano superare anche il 700 per cento. Prezzi aumentati anche nelle farmacie. Roberto Chifari, Domenica 23/02/2020 su Il Giornale. In queste ore di grande paura c'è l'altro lato della medaglia sul Coronavirus. Mentre da un lato si cerca di contenere il contagio per evitare altre trasmissioni e decessi, c'è chi specula sulla psicosi che in queste ore ha colpito parte della popolazione italiana. Di fronte all'emergenza internazionale dichiarata dall'Organizzazione mondiale della Sanità, la richiesta di mascherine chirurgiche e di maschere protettive è salita alle stelle. Nelle farmacie italiane scarseggiano mascherine e gel disinfettanti, anzi nelle grandi città, le mascherine sono esaurite da tempo. Un cartello esposto fuori indica che non ce ne sono più. C'è una corsa a prenderne quante più possibili. Non tutte le mascherine vanno bene, quelle antivirus, per essere efficaci devono possedere un filtraggio omologato. Al momento i modelli conformi sono solo due: le mascherine FFP2 e quelle FFP3. Le FFP1 non rientrano nella normativa perché hanno una protezione di appena il 78%. Le mascherine FFP2 sono invece, considerate ad alta protezione, omologate per trattenere particelle fino a 0,6 micron, con un'efficienza di filtrazione minima del 92%. Le FFP3 sono addirittura considerate di livello superiore, approvate per trattenere particelle fino a 0,6 micron, con un'efficienza di filtrazione minima del 98%. Ed ecco che è partita la caccia alla mascherina. C'è chi è riuscito a comprarla in farmacia, c'è chi ha optato per il web. Sulla piattaforma più usata per comprare online le mascherine hanno raggiunto prezzi alle stelle. Una confezione da 5 pezzi di mascherine con valvola classe FFP3 costa 99,90 euro. Qualcosa si risparmia con le mascherine monouso, FFP2, quindi di una classa più bassa. Il pacco da 10 pezzi costa "appena" 56 euro a cui vanno aggiunte 18 euro di spedizione. Il presidente della Federazione ordini farmacisti italiani afferma che la grande richiesta di mascherine ha messo in difficoltà il sistema. "C'è una grande richiesta, si tratta di prodotti utilizzati in particolari condizioni, non hanno un uso abituale. Al netto di quanto ogni farmacia sta cercando di fare per approvvigionarsi, lunedì faro una richiesta al ministro per vedere come affrontare questa emergenza. Stiamo mettendo in campo delle soluzioni, abbiamo un'idea, ma ne parleremo lunedì". Una sfida per i farmacisti, soprattutto per coloro che operano nelle aree di contagio, nei due focolai di Lombardia e Veneto: "Stanno lavorando in condizioni di stress - rileva Mandelli- come tutti i professionisti vanno ringraziati con serenità per il loro lavoro". Intanto c'è anche chi ne approfitta per vendere a prezzi esorbitanti le convenzioni di gel igienizzante antibatterico. Sempre sul web si arriva a spendere anche 104 euro per una confezione di 4 bottigliette (da 80ml ciascuno) di gel antibatterico. Per una confezione da 12 si arriva fino a 200 euro. Se si considera che in tempi normali in farmacia prodotti come l’Amuchina Xgerm viene venduta a 3 euro che può arrivare a 4 euro mentre al supermercato in offerta si riesce a prendere ad un prezzo in offerta ancora più bassa, ci si rende conto del fenomeno dei rincari su un prodotto che adesso è diventato utile e necessario. C'è chi ha deciso di distribuirlo gratuitamente nelle scuole e negli uffici pubblici, come è successo ad Arezzo, e chi come a Mira, in provincia di Venezia, vuole distribuito gratuitamente. Il gel antibatterico è efficace, semplice da usare e soprattutto riesce ad eliminare il 99 per cento di germi, batteri e virus. La macchina organizzativa si è già mossa, così come l'industria. Rocco Crimi, ex deputato e tesoriere di Forza Italia, e ora dedicato a tempo pieno alla sua attività di farmacologo e imprenditore, considera l'igiene personale la prima prevenzione possibile in tempo di Coronavirus. "L'Italia sta esportando questi prodotti in Cina, che ne ha un bisogno estremo e urgente. E gli stabilimenti che li realizzano si trovano sul nostro territorio. Con procedure di sicurezza che rispettano standard severi, come in tutti i casi di produzioni a base di alcol".
Coronavirus, Roberto Burioni: gel antibatterici introvabili? Ecco la ricetta dell'Oms per farseli in casa. Libero Quotidiano il 25 Febbraio 2020. Tra i consigli per prevenire il contagio da coronavirus c'è quello di lavarsi bene e disinfettare le mani prima di toccare le parti del corpo più esposte. Lo dice sempre anche Roberto Burioni. Certo, nei giorni dell'emergenza, il gel antibatterico per le mani è praticamente introvabile sia nelle farmacie che nei supermercati italiani. Per l'Amuchina, uno dei gel più noti, si è persino scatenato un mercato nero. Per questo l'Organizzazione mondiale della Sanità (Oms) è intervenuta in soccorso dei milioni di italiani che non riescono a reperire uno dei suddetti prodotti. E la ricetta è stata pubblicata sul sito Medical Facts di Burioni. Servono pochi ingredienti: un recipiente ampio, pulito e ben graduato, una siringa, dell'acqua, alcol per liquori, acqua ossigenata 3% e della glicerina. Per preparare 1 litro di soluzione, occorre versare circa 833 ml di alcol nel recipiente; successivamente immettere con una siringa 42 ml di acqua ossigenata nella soluzione e mescolare bene. Poi aggiungere 15 ml di glicerina e mescolare nuovamente. Infine versare dell'acqua bollita, nella quantità che manca a raggiungere il litro di soluzione. Le operazioni non richiedono molto tempo e gli ingredienti si trovano spesso già in casa.
Gel disinfettante, la ricetta di Burioni: «Ecco come farlo, non compratelo a prezzi folli». Pubblicato mercoledì, 26 febbraio 2020 da Corriere.it. «Se non trovate i gel antibatterici, non comprate online quelli a 400 euro, va bene anche l’alcol denaturato comune». Lo consiglia Roberto Burioni sul portale MedicalFacts nel quale spiega anche cosa fare e cosa evitare per proteggersi dalla Covid-19 e come fare in casa il disinfettante per le mani. «I gel disinfettanti sembrano introvabili», ha scritto ancora Burioni, «e allora ecco una semplice ricetta, diffusa dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, per farselo in casa. Per prepararvelo avete bisogno di un recipiente ben pulito graduato (con pazienza potete pure usare delle siringhe) e dei seguenti prodotti:
- Alcol per liquori, quello che trovate al supermercato e che usate per fare il limoncello o il nocino.
- Acqua ossigenata 3%(o 10 volumi), quella che avete in casa.
- Glicerina, o glicerolo. Se non l’avete in casa andate dal farmacista.
Ora prendete un recipiente pulito dove sia segnato il livello di un litro (una caraffa graduata di quelle che si usano in cucina va benissimo), e versateci 833 ml di alcol usando un recipiente graduato (non state preparando il carburante di un razzo interplanetario, quindi se sono 832 o 834 non accadrà niente di male). Poi, con una siringa, prendete 42 ml di acqua ossigenata e aggiungetela all’alcol e mescolate. Adesso arriva la parte più complicata: dovete aggiungere 15 ml di glicerina, che però è molto densa e quindi vi farà un poco arrabbiare, ma non perdetevi d’animo. A questo punto miscelate bene e aggiungete acqua che avete fatto bollire per fare arrivare al volume totale di un litro. Ecco, che avete un litro di disinfettante per le mani che potete usare per riempire le boccette vostre e quelle di tutti i vostri amici». La corsa ai dispositivi protettivi come mascherine e guanti, ma anche i gel disinfettanti per le mani ha fatto schizzare i prezzi di questi prodotti, ormai sempre più difficili da trovare. «Lavatevi le mani. Spesso, anzi spessissimo», dice il virologo. «Va bene il sapone comune, non serve quello antibatterico. E se non trovate i gel, usate l’alcol normalissimo. Non ha un buon odore, ma funziona. Niente isteria, ma questo virus si trasmette con i nostri rapporti sociali. Se avete programmato una riunione o una convention di colleghi, è meglio rimandarla. Evitate contatti stretti, il virus ha bisogno di una vicinanza di meno di un metro, quindi no ai luoghi affollati e se usate i mezzi pubblici lavatevi le mani immediatamente».
Amuchina, boom della produzione alla Angelini (ma prezzi invariati). Pubblicato lunedì, 24 febbraio 2020 su Corriere.it da Daniela Polizzi. Angelini Pharma ha infatti comunicato che il prezzo ai propri canali diretti di tutti i prodotti a marchio Amuchina è rimasto invariato e non ha subito alcuna variazione rispetto al periodo pre-epidemia da Coronavirus e di non aver alcuna responsabilità relativamente ai rincari rilevati dai consumatori e segnalati anche dai media. In particolare Angelini Pharma ha aumentato la produzione nello stabilimento di Ancona e ha focalizzato la fabbrica di Casella sulla produzione di disinfettanti esternalizzando i detergenti. In passato è già accaduto che durante altre epidemie come la SARS negli anni 2000, o l’epidemia di colera in sud Italia negli anni ’80, la maggiore attenzione dei cittadini si sia tradotta in una maggiore richiesta di igiene. Amuchina è nata negli anni ‘30 per combattere la tubercolosi e negli anni ’40, durante la seconda guerra mondiale, ha trovato impiego nella disinfezione dell’acqua da bere. Negli anni ’50-’70 è diventata il prodotto più utilizzato negli ospedali per la disinfezione delle macchine per dialisi e per la dialisi peritoneale (disinfezione delle sacche, connessioni a Y, oggetti, ecc.).
Coronavirus, la truffa degli abusivi a Milano: maxi-sequestro di mascherine, cifre folli e molti pericoli. Libero Quotidiano il 26 Febbraio 2020. Sequestrate centinaia di mascherine protettive e verifiche in corso su spray igienizzanti venduti in un mercato rionale dagli uomini della Guardia di Finanza di Milano, impegnati nel contrasto a possibili fenomeni di aumento ingiustificato dei prezzi o altre condotte illecite legate all’emergenza sanitaria per la diffusione del coronavirus. In particolare, i finanzieri sono stati protagonisti di tre distinti interventi - presso la stazione Centrale, quella di Lambrate e la stazione metro Gioia - e hanno sorpreso altrettanti venditori, di cui "due abusivi e di nazionalità extracomunitaria che cedevano ai passanti mascherine protettive prive del marchio Ce. I beni sono stati sequestrati e i venditori sono stati sanzionati", si legge nella nota. Inoltre, durante un controllo effettuato in un mercato rionale è stato individuato un ambulante che aveva esposto centinaia di flaconi di spray igienizzante, in vendita a un prezzo elevato, su cui sono in corso ulteriori accertamenti per verificarne il valore e la provenienza, anche con riguardo alla sicurezza del prodotto. Peraltro è stato sanzionato in quanto si avvaleva di un collaboratore "in nero".
In aumento gli «sciacalli» del coronavirus: «Attenti a chi vi contatta per fare il tampone». Pubblicato lunedì, 24 febbraio 2020 da Corriere.it. Il Comune di Zibido San Giacomo (Milano) ha messo un avviso su Facebook: «Attenzione : finti operatori sanitari». Spiegando che «il comando dei carabinieri ci informa che alcuni truffatori si fingono paramedici che effettuano gratuitamente un test per il coronavirus, con l’obiettivo accedere alle abitazioni private e derubare le persone». Non è l’unica zona dove sono stati segnalati gli «sciacalli» del coronavirus. Telefonate da parte di sedicenti medici e infermieri che millantano la necessità di eseguire a domicilio il tampone per il Covid-19 sono state segnalate a Piacenza dove la Polizia locale invita i cittadini «a respingere qualsiasi approccio» e «non lasciar accedere, alla propria abitazione, chiunque si presenti con tale motivazione». I vigili urbani ricordano «che gli operatori sanitari effettuano visite ed eventuali esami a domicilio solo se allertati preventivamente dai cittadini stessi che, attraverso il medico di famiglia, il 118, il numero nazionale 1500 o lo 0523-317979 istituito dall’Azienda Usl di Piacenza, abbiano segnalato sintomi sospetti o la necessità di accertamenti». Alcuni tentativi di truffa sono stati segnalati anche Romano Canavese (Torino), ad opera di finti volontari della Croce Rossa che hanno telefonato a casa di anziani per effettuare il controllo del tampone.
Da giornalettismo.com il 24 febbraio 2020. L’emergenza e lo sciacallaggio sono due dinamiche che, purtroppo, viaggiano di pari passo. E così accade anche i timori e le paure per il Coronovirus vengano utilizzati da alcune persone senza scrupoli per tentativi di truffa e raggiri. A denunciare quel che è accaduto negli ultimi giorni in Lombardia è stata la Croce Rossa: si parla di finto personale medico che, spacciandosi per incaricati dal servizio sanitario regionale, provano a entrare nelle case degli anziani. Il tutto attraverso una truffa test Coronavirus. Un qualcosa che è molto simile ai prezzi rialzati dell’Amuchina. «Ci viene segnalato che alcuni anziani hanno ricevuto strane telefonate del tipo ‘siamo della Croce Rossa le veniamo a casa a fare il tampone per il Coronavirus’», ha scritto la pagina Facebook della Croce Rossa italiana – Comitato di Casatenovo (in provincia di Lecco). Contatti telefonici per prendere fittizi appuntamenti per recarsi nelle case, soprattutto di anziani. Una truffa in tutto e per tutto, come sottolineato dalla stessa CRI.
La truffa test Coronavirus in Lombardia. I profili social della Croce Rossa Italiana ricordano quali sono le reali procedure mediche che il personale è tenuto a seguire: «Non fidatevi di chi si presenta a domicilio per controlli. Non esistono medici che vengono a casa vostra per fare i tamponi. Nel dubbio chiamate sempre le autorità per una verifica». Non cadere, insomma, nella trappola truffa test Coronavirus che non seguono il reale protocollo coordinato.
Cosa fare se si viene contattati. La Croce Rossa Italiana ricorda che, qualora si dovessero ricevere telefonate come quelle descritte all’interno del post social, occorre mettersi in contatto con le autorità. Perché gli sciacalli – come insegnano tanti episodi di cronaca, come i terremoti – sono pronti a tutto, sfruttando i timori e le paure della gente.
Da primamonza.it il 25 febbraio 2020. Starnutisce al supermercato poi scappa con la spesa. Cavalcando la psicosi da coronavirus, un anziano ha fatto finta di stare male al supermercato Famila… poi ne ha approfittato.
Starnutisce al supermercato poi scappa con la spesa. Il panico per il virus proveniente dalla Cina, ma che purtroppo sta facendo anche vittime nella nostra regione, ha toccato anche Nova Milanese. Al supermercato di via Brodolini le dipendenti si sono trovati difronte una circostanza inaspettata. Nel pomeriggio di sabato 22 febbraio un anziano si è avvicinato alle casse automatiche con un sacchetto pieno di spesa…
Si è accasciato sul bancone. Improvvisamente si è accasciato sul bancone e ha chiesto aiuto alle cassiere presenti, simulando un malore: “Si è accasciato sul bancone del centro informazioni e starnutiva rumorosamente”, ha raccontato una cliente presente all’accaduto. Le notizie dei contagi del coronavirus delle ultime ore hanno agitato le commesse del punto vendita, che si sono allontanate dall’uomo, temendo per la loro salute e cercando riparo altrove.
Nessuno è riuscito a fermarlo. Improvvisamente l’anziano ha scavalcato l’impianto di sicurezza ed è scappato con il sacchetto pieno di spesa. Nella sorpresa generale, nessuno è riuscito a fermarlo. insomma, l’ha fatta franca davanti a clienti e commesse.
· Epidemia e Danno Economico.
Trump positivo ma il rublo crolla: tra virus e guerra fredda perde la Russia. Riccardo Amati su Il Riformista il 5 Ottobre 2020. La positività di Donald Trump al coronavirus e la maggior possibilità che sia lo sfidante Joe Biden ad aver la meglio sul presidente in carica nella contesa elettorale americana contribuiscono ad affossare la valuta russa. Secondo le aspettative degli investitori, una presidenza democratica sarebbe più aggressiva nelle sanzioni contro Mosca. Per i mercati del rublo la pressione potrebbe ulteriormente acuirsi. Prima e dopo il voto Usa. «Se vincerà Biden, si sconterà la probabilità di una politica ancor più anti-russa e il rublo scenderà», dice al Riformista Economia Chris Weafer, fondatore di Macro Advisory. La moneta ha perso circa il 7% sul dollaro nell’ultimo mese, meritandosi la maglia nera fra le valute dei Paesi emergenti. Servono ormai 78 rubli per acquistare un biglietto verde. «A guidare questo andamento è solo il sentiment politico», spiega Weafer, più volte premiato come il miglior analista finanziario sulla Russia da Thomson Reuters e Institutional Investor. «Stando ai fondamentali economici il rublo non dovrebbe superare quota 66: c’è una disconnessione tra valore reale e andamento dei mercati: la Russia ha riserve ingenti (circa 550 miliardi di dollari nello scorso aprile, ndr), non ha deficit con l’estero né deficit pubblico, e ha speso poco per le misure di supporto all’economia e alle famiglie dopo l’esplosione della pandemia (circa il 2% del pil, stima la banca Ing, ndr)». Il ritorno dei prezzi del greggio sopra i 40 dollari il barile dopo il crollo di marzo avrebbe dovuto sostenere la valuta del maggior esportatore di idrocarburi al mondo. Non è stato così. I mercati russi subiscono il rischio di nuove sanzioni che potrebbero materializzarsi entro la fine dell’anno. Il dipartimento del Tesoro Usa ha appena introdotto misure personali contro cittadini russi per presunte interferenze nella campagna elettorale. Provvedimenti più severi con impatto diretto sui mercati sono allo studio. Due progetti di legge bipartisan che sanzionerebbero il debito sovrano e quello societario della Russia son tornati a circolare a Capitol Hill, insieme a un nuovo provvedimento di sanzioni per l’avvelenamento di Alexei Navalny, l’oppositore di Vladimir Putin. Il direttore dell’Fbi Christopher Wray ha intanto accusato Mosca di condurre una campagna di denigrazione contro Joe Biden. Che promette ritorsioni definendo la Russia un «avversario». Mentre Trump ritiene che la Cina costituisca una minaccia ben più grave per l’America. Il Cremlino sostiene di non aver mai interferito nelle elezioni americane, né nel 2016 né tantomeno oggi. A Mosca si sostiene che la “russofobia” negli Stati Uniti permarrà chiunque sia il vincitore questo novembre. Secondo Weafer, «nel medio termine una presidenza Biden potrebbe addirittura essere più favorevole, vista l’imprevedibilità di Trump, a cui la diplomazia russa si adatta malvolentieri – e l’attuale utilizzo del fattore Russia per ragioni di politica interna a Washington: un utilizzo che senza più Trump alla Casa Bianca verrebbe meno». Ma al momento la differenza di atteggiamento tra i due contendenti è evidente. Visitando la capitale russa nove anni fa, Joe Biden dichiarò che Putin non avrebbe dovuto ricandidarsi per nuovi mandati. Pare che lo zar, che si è appena ritagliato la possibilità di rimanere sul trono fino 2036, non l’abbia mai mandata giù. Per lui e per il rublo si preparano tempi difficili.
Coronavirus, ecco come l’economia mondiale crolla e dove la Cina guadagna. Milena Gabanelli e Danilo Taino su DataRoom su Il Corriere della Sera il 5 ottobre 2020. Dopo quasi otto mesi di pandemia si contano i danni: oltre un milione di morti e una recessione globale. Ad agosto il World Economic Forum stimava fra gli 8 e 15 mila miliardi di dollari, che a fine anno diventeranno 17,3 secondo la Australian National University. Una cifra destinata a crescere almeno fino a quando non sarà disponibile il vaccino. L’aumento dei deficit pubblici nei Paesi avanzati si piazza attorno al 20% dei loro Pil, con una crescita altrettanto rilevante degli indebitamenti dei governi. Intanto nei 37 Paesi dell’Ocse la disoccupazione è passata dal 5,3% del 2019 al 9,7%. Nel secondo trimestre il commercio globale è sceso del 18,5%.
La Cina cresce con l’esportazione di materiale sanitario. In Cina le cose vanno meglio: a fine anno il Pil registrerà un più 1,9%. Un anno e mezzo fa uno studio della Brookings Institution stimò che il Pil effettivo è del 12% minore di quello delle statistiche ufficiali, ma trovare altri dati più credibili è impossibile. Le esportazioni sono aumentate del 10,4%, soprattutto materiale sanitario e apparecchiature elettromedicali di cui il mondo ha disperatamente bisogno. Con il crollo del turismo cinese internazionale sono aumentati i consumi interni: i cinesi acquistano a casa loro quello che prima acquistavano in Giappone e in Europa, soprattutto nel lusso. Il gruppo Kering (Gucci e YSL) ha fatto un più 40% nel secondo trimestre 2020. La People Bank of China ha allentato le riserve che devono detenere le banche e ha immesso nell’economia 212 miliardi di dollari. La disoccupazione è del 5,6%, ma ci sono 8,7 milioni di studenti appena usciti dalle università che devono trovare lavoro.
Un Paese più isolato. Di certo, però, il Paese è più isolato e considerato meno affidabile. Il mondo sta rivedendo le relazioni economiche e politiche con la potenza che porta grandi responsabilità nella crisi globale da virus, e che continua a negarle. Il presidente Xi e tutte le articolazioni dello Stato, interne ed estere, da mesi sostengono quanto la gestione di Pechino del grande focolaio di Wuhan sia stata eccezionale e di successo, a dimostrazione della superiorità del modello centralizzato e autoritario cinese rispetto a quello delle democrazie che ancora oggi faticano a controllare il moltiplicarsi del virus. Mentre la Cina è praticamente Covid-free (almeno ufficialmente). Certo, la sottovalutazione del rischio di Brasile, Stati Uniti e alcuni Paesi europei è da stigmatizzare, ma non c’è dubbio che un’imposizione drastica ed efficiente del lockdown, possibile in quei termini solo in un Paese a regime dittatoriale, è impraticabile in Occidente, dove è impossibile controllare ogni singolo comportamento. Dietro a questa narrazione, però, Pechino nasconde almeno due realtà.
La negazione delle responsabilità. La prima è la mancata trasparenza sulla diffusione del virus nelle prime settimane della pandemia a Wuhan e la negazione della serietà della situazione, ben rappresentata dalla repressione degli avvertimenti resi pubblici dal dottor Li Wenliang: fermato, censurato e messo in disparte (poi morto a causa del virus). La seconda riguarda i «mercati umidi» nei quali vengono anche venduti, e letteralmente scuoiati, animali vivi. Questi mercati, presenti nelle grandi città cinesi cresciute a dismisura negli ultimi due decenni e già i principali indiziati per la diffusione della prima Sars del 2002, avrebbero dovuto essere chiusi. In realtà le autorità non sono mai intervenute seriamente. Quindi poteva, la crisi, rimanere geograficamente limitata alla regione di Wuhan se le autorità non si fossero barricate in una posizione di negazione? Forse sì, ma finora Pechino ha rifiutato, anche minacciosamente, di aprire le porte a un’inchiesta internazionale indipendente sull’origine della pandemia, e chiesta da 194 Paesi. Le responsabilità che Pechino continua a negare con arroganza hanno avuto un effetto economico e un effetto politico.
Multinazionali: rami d’impresa trasferiti altrove. Numerose imprese, che avevano fatto della Cina il centro delle loro catene di fornitura e di produzione, stanno riconsiderando il rischio di affidarsi totalmente al sistema cinese e l’orientamento è quello di spostare parte della loro manifattura altrove. La multinazionale taiwanese Foxconn, che produce gli smartphone per la Apple in Cina, sta valutando la possibilità di trasferire alcune produzioni nell’America del Nord. Apple, Samsung, Hasbro, Nintendo, GoPro, La-Z-Boy hanno già spostato alcuni rami d’azienda, per lo più in Vietnam, a Taiwan, in Messico. Dall’altra parte però il mercato cinese è troppo grande per essere trascurato: Tesla, Bmw e Honeywell hanno annunciato l’apertura di nuovi impianti in Cina. L’effetto politico è che Pechino è oggi praticamente senza «amici», soprattutto in Asia. Ha «clienti» che tiene legati con denaro e attraverso i prestiti della Nuova via della Seta: il Pakistan, il Myanmar, la Cambogia. Ha una forte relazione con la poco affidabile Russia di Vladimir Putin. Ma tanto più un Paese è geograficamente vicino al gigante asiatico, tanto più prende le distanze dal punto di vista politico. La reazione di Xi è quella di inasprire la repressione interna e l’aggressività esterna, con l’aumento delle tensioni al confine con l’India, l’intensificata militarizzazione del Mare Cinese Meridionale, con gli «avvertimenti» a Taiwan e con un uso spregiudicato della diplomazia.
La Via della Seta rallenta. La situazione è in effetti preoccupante per Xi Jinping: sempre più governi sono restii a legarsi a Pechino attraverso progetti strutturali e indebitamento. Secondo la società di analisi Refinitiv, su 2.951 progetti della Belt & Road finora 666 sono stati completati, 2.207 sono in corso di realizzazione, 43 sono sospesi, 29 rinviati e 6 cancellati. Gli investimenti esteri cinesi all’estero, cresciuti dopo l’elezione di Xi nel 2013 a capo dello Stato e del Partito comunista fino a 255 miliardi di dollari nel 2017, sono iniziati a calare e a ottobre 2020 ammontano a 28 miliardi. L’Italia è in splendida controtendenza e sta per cedere ai gruppi cinesi Weichai e Cosco una parte consistente del porto di Taranto. La Nuova Via della Seta, il progetto chiave di Xi attraverso il quale Pechino intende costruire una rete di infrastrutture terrestri e marittime che tenga unita l’intera Eurasia con al centro la Cina, rischia di finire nella sabbia. I comportamenti di Pechino nella diffusione della pandemia sollevano timori anche nei Paesi che pure dell’aiuto cinese avrebbero bisogno.
La richiesta di risarcimento danni. Molti governi (non solo Trump) hanno sollevato l’eventualità di chiedere riparazioni, ma non esistono istituzioni internazionali in campo sanitario che possano ergersi a tribunali in materia di pandemie: non c’è una Corte di Giustizia come quella dell’Aia, non esiste un corpo giudicante tipo quello della Wto per le dispute commerciali. Inoltre il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, nel quale Pechino ha il diritto di veto, non emetterà alcuna censura nei confronti della Cina. In ogni caso Pechino ha una storia di non accettazione dei giudizi emessi da tribunali internazionali su contenziosi tra Stati: nel 2016 il Tribunale dell’Aia emise una sentenza a favore delle Filippine in una disputa sulle acque territoriali, ma la Cina l’ha tranquillamente ignorata. I casi quindi che si potranno aprire in corti nazionali, soprattutto negli Stati Uniti, avranno più una rilevanza politica che penale.
Il punto di non ritorno. La questione delle responsabilità per disastri sanitari, e delle regole comuni nella lotta ai mutamenti climatici, impongono come obiettivo urgente la creazione di un luogo in cui giudicare le pratiche internazionali, almeno per costringere i Paesi a muoversi responsabilmente nelle sfide che ci attendono per la sopravvivenza dell’intero pianeta. Nel frattempo il prezzo che la Cina pagherà per la crisi da Covid-19 sarà politico ed economico, se le multinazionali ridurranno la loro attività nel Paese. Sono questi i costi che Xi Jinping maggiormente teme. Non è più solo Washington a prendere le distanze da Pechino: anche il summit tra Xi e i vertici della Ue di poche settimane fa, che originariamente doveva essere il sigillo di una relazione profonda, ha visto gli europei sempre più convinti nel considerare la Cina un «rivale strategico» con interessi, obiettivi e metodi divergenti da quelli della Ue. La pandemia ha segnato un punto di non ritorno: l’Europa, gli Stati Uniti e il resto del mondo sono di fronte alla necessità di fare un serio reset delle relazioni con la Cina. Difficilissimo. Ma inevitabile.
Da repubblica.it il 28 febbraio 2020. Altro che invasione di migranti, ora con il coronavirus è fuga di braccianti stranieri e problemi ulteriori in vista per l'agricoltura italiana. Col timore di non poter più tornare alle loro case, viste le iniziative e le loro restrizioni dei loro governi, dalla Romania alla Polonia fino alla Bulgaria, nei confronti dei loro lavoratori impegnati nelle regioni del nord Italia più direttamente colpite, molti hanno fatto le valige. E' l'allarme lanciato dalla Coldiretti nel sottolineare che più di un quarto del made in Italy a tavola viene ottenuto da mani straniere con 370mila lavoratori regolari dall'estero impegnati ogni anno in Italia. La Romania, sottolinea la Coldiretti, impone la quarantena ai suoi cittadini provenienti da Lombardia e Veneto dove rappresentano la comunità straniera più numerosa nei campi con oltre centomila lavoratori a livello nazionale ma misure restrittive sono state previste anche dalle autorità sanitarie polacche che raccomandano di adottare l'auto-monitoraggio mentre la Bulgaria chiede a tutti i passeggeri provenienti da tutte le regioni italiane (sintomatici ed asintomatici) di compilare al rientro un questionario, in presenza di un ispettore sanitario con l'invito ad osservare una quarantena al proprio domicilio nel paese. Si tratta di decisioni che stanno provocato le disdette degli impegni di lavoro da parte di molti lavoratori stranieri in Italia che trovano regolarmente occupazione stagionale in agricoltura fornendo il 27% del totale delle giornate di lavoro necessarie al settore, secondo l'analisi della coldiretti. La comunità di lavoratori agricoli più presente in Italia, spiega Coldiretti, è proprio quella rumena con 107.591 Occupati, davanti a marocchini con 35.013 E indiani con 34.043, Che precedono albanesi (32.264), Senegalesi (14.165), Polacchi (13134), tunisini (13.106), Bulgari (11.261), Macedoni (10.428) E pakistani (10.272).
Sofia Fraschini per “il Giornale” il 4 marzo 2020. Il made in Italy vacilla. Un' azienda italiana su dieci è a rischio fallimento, almeno nel caso in cui l' emergenza coronavirus non si arrestasse entro l' anno. Insomma, parte del sistema-Paese è malato e la sua ripresa dipende dall' intensità delle cure che, se inadatte, potrebbero rivelarsi insufficienti e portare così al default. Prime della lista sarebbero le pmi che appartengono a tre settori chiave: il manifatturiero tessile, i trasporti e il turismo. Lo scenario emerge dallo studio «L' impatto del coronavirus sulle società industriali italiane» di Cerved Rating Agency, agenzia di valutazione del gruppo Cerved che attribuisce alle imprese sul territorio nazionale il merito creditizio (una sorta di pagellino di solidità economica). D' altra parte, gli effetti concreti sono già sotto i nostri occhi e si chiamano rallentamento della produzione, chiusure temporanee forzate, calo dei margini. Inoltre, l' epidemia, e soprattutto le misure adottate per contenerla, causeranno nel breve termine un minor Pil compreso tra i 9 miliardi e i 27 miliardi, a seconda delle ipotesi adottate sull' entità delle perdite (e dei guadagni) nei diversi settori. La flessione per l' intera economia invece va da un -1% a un -3 per cento. Questo perché a essere «malata» è quella parte d' Italia che traina l' intero paese: Lombardia e Veneto contano da sole per il 31% del Pil italiano. In questo quadro, nel caso più favorevole, si prevede che la crisi sanitaria possa perdurare fino a metà anno, con un' eco non trascurabile sulla solidità finanziaria delle nostre aziende, già investite dalla crisi. Nel caso più sfavorevole, invece, si delinea l' ipotesi, non poi così remota, del dilagare della pandemia, con effetti globali duraturi e deleteri fino alla fine dell' anno. Entrambi gli scenari sono stati applicati al portafoglio di simulazione, costituito da circa 25mila rating emessi recentemente da Cerved Rating Agency e sufficientemente rappresentativi del comparto delle aziende italiane. In base alla gravità dello scenario, e stimando alle condizioni attuali una probabilità di default pari al 4,9% come valore medio, si sale, nell' ipotesi soft, al 6,8% (con variazione per settore tra il 2,7% e il 10,6%), mentre nello scenario hard la probabilità di default media stimata nell' intervallo considerato arriva al 10,4%, con variazione per settore tra il 7,5% e il 15,4 per cento. Tra i malati più gravi ci sarebbero le imprese legate al turismo e le aziende del comparto manifatturiero che presentano interconnessioni maggiori con la Cina, soprattutto per l' import delle materie prime. Nel contesto delle imprese valutate costituiscono, invece, un discorso a parte le aziende del settore farmaceutico, sia per la produzione sia per il commercio al dettaglio di medicinali, per le quali è ragionevole attendersi un miglioramento della marginalità e una riduzione moderata dei profili di rischio. Ma questo settore resta la classica eccezione.
Da corriere.it il 23 febbraio 2020. L’epidemia: mercato auto Cina -92% a febbraio. L’effetto del coronavirus sull’industria dell’auto in Cina sta assumendo dimensioni più che preoccupanti, con il blocco imposto dal governo centrale alla riapertura delle fabbriche nella regione dello Hubei. Nei primi 16 giorni di febbraio - secondo le statistiche della China Passenger Car Association (CPCA) - il calo delle immatricolazioni è stato infatti del 92% e addirittura nella prima settimana del 96% con sole 811 vendite in tutta la Cina.
Il virus e gli effetti sul turismo: 50 mila cancellazioni. La psicosi da Coronavirus minaccia anche la salute delle imprese del turismo, a partire dalle agenzie di viaggio. Da quando si è diffuso l’allarme, infatti, circa 50 mila viaggiatori hanno cancellato un viaggio già prenotato, e altre decine di migliaia hanno annullato i preventivi. E’ quanto emerge da un sondaggio di Assoviaggi Confesercenti su un campione rappresentativo delle agenzie di viaggio italiane. L’ondata di cancellazioni ha colpito tutto il settore: quasi il 50% delle agenzie ha subito cancellazioni e ha dovuto rimborsare i viaggiatori. E se per il 48% di queste la spesa per pratiche di rimborso è stata inferiore ai mille euro, per un altro 37% la somma ha oscillato tra i 1.000 e i 5.000, mentre per ben il 15% restante è stata oltre i 5.000 euro. Le agenzie segnalano il 20,3% di cancellazioni proprio per la Cina, mentre ben il 32% di annullamenti riguarda il resto dell’Asia (oltre il 52% in totale). Ma c’è anche un 22% delle agenzie che ha dovuto rimborsare pratiche per l’Europa - Italia inclusa - ed un altro 26% altre destinazioni (America, Africa e altre).
Turismo, franata degli arrivi dall’Asia. Nel turismo effetti pesanti anche sull’«incoming», ovvero sull’arrivo dei turisti in Italia: il 37% ha rimborsato clienti provenienti dalla Cina, mentre un altro 14% ha risarcito clienti da altri paesi dell’Asia (51% in totale). Alle cancellazioni però si aggiungono i cambiamenti di meta: il 44% delle agenzie ha ricevuto richieste di riprogrammazione della meta, con dispendio di lavoro, risorse e nuova assistenza ai clienti. E anche il futuro è un’incognita: l’87% delle agenzie di viaggi dichiarano rallentamenti nell’andamento delle prenotazioni rispetto allo scorso anno, e quasi il 72% delle agenzie ha già ricevuto disdette rispetto a preventivi già elaborati. “Il sondaggio condotto in questi giorni - afferma Gianni Rebecchi, presidente di Assoviaggi - ci consegna, purtroppo, una fotografia preoccupante delle ripercussioni che la fase di picco dell’allarme Coronavirus ha avuto sugli agenti di viaggio. Una delle categorie maggiormente colpite proprio perché è la prima figura professionale al quale si rivolge il viaggiatore che decide di posticipare, modificare o annullare una partenza”. Per questo, «raccogliendo le istanze delle imprese in questo momento di crisi, chiediamo al governo mirati e tempestivi provvedimenti per contenere gli effetti negativi sul settore: dagli sgravi contributivi e fiscali - il 46% delle risposte emerse - al posticipo delle scadenze relativamente alle imposte nazionali e locali (il 37%), all’attivazione degli ammortizzatori sociali (il 12%). L’auspicio è che il peggio sia ormai alle spalle, ma è necessario mantenere un’informazione corretta ed adeguata che dia sempre la giusta misura della vicenda all’opinione pubblica, senza destabilizzarla ingiustificatamente», conclude.
Petrolio in calo, oro e palladio alle stelle. Gli effetti della pandemia da Coronavirus si sentono anche sul mercato delle materie prime, con le quotazioni del petrolio in picchiata da qualche mese: negli ultimi giorni il barile viene scambiato a 54 dollari, con l’attenzione degli investitori che resta focalizzata nell’impatto sull’economia mondiale del coronavirus. Il greggio Wti del Texas arretra dello 0,97% a 53,6 dollari al barile mentre il Brent perde l’1,11% a 58,6 dollari. Tra i beni rifugio, ancora caldi i prezzi dell’ora (attorno ai 1.600 dollari per oncia) e il palladio (ormai stabilmente a quota 2.500-2.600 dollari per oncia: ai record storici assoluti). Leggi qui l’articolo completo.
Compagnie aeree: il conto del coronavirus a 30 miliardi di dollari. L’impatto del Coronavirus infliggerà un duro colpo alle compagnie aeree. A denunciarlo è l’International Air Transport Association (Iata) che evidenzia un calo di passeggeri nella regione Asia-Pacifico del 13%, con mancati ricavi per 27,8 miliardi di dollari per i vettori che transitano nella regione. A livello globale, secondo i calcoli diffusi dall’associazione internazionale del trasporto aereo, le perdite totali saranno di 29,3 miliardi di dollari e rappresenterebbero una contrazione di traffico del 4,7%. In particolare, per le compagnie aree fuori da quell’area, la Iata stima 1,5 miliardi di mancati ricavi. A dicembre l’Associazione aveva previsto una crescita globale in termini di Rpk (revenues passenges kilometers) del 4,1%. La contrazione stimata annullerebbe però l’incremento per il 2020 con un aumento del solo 0,6%. Previsioni, queste, che si basano su uno scenario in cui l’impatto sulla domanda di Covid 19 sia simile a quello avuto con la Sars nel 2003 che allora fu responsabile di un calo del 5,1% in termini di Rpk della domanda per le compagnie dell’area Asia Pacifico.
Iata: bloccato il mercato cinese dei voli. Le stime fatte sul mercato dei collegamenti aerei presuppongono che il centro dell’emergenza sanitaria dell’epidemia di Covid-19 resti in Cina. Se si diffondesse più ampiamente nei mercati dell’Asia-Pacifico, l’impatto sulle compagnie aeree di altre regioni sarebbe maggiore. «È prematuro stimare cosa significherà questa perdita di entrate per la redditività globale», sottolinea l’Associazione. «Non sappiamo ancora esattamente come si svilupperà l’epidemia e se seguirà o meno lo stesso profilo della Sars. I governi utilizzeranno la politica fiscale e monetaria per cercare di compensare gli impatti economici negativi. Un certo sollievo può essere visto nei prezzi del carburante più bassi per alcune compagnie aeree», prosegue. «Questi sono tempi difficili per l’industria del trasporto aereo globale. Fermare la diffusione del virus è la priorità assoluta. Le compagnie aeree stanno seguendo le linee guida dell’Organizzazione Mondiale della Sanità e di altre autorità sanitarie pubbliche per mantenere i passeggeri al sicuro, il mondo connesso e il virus contenuto. Il forte calo della domanda a seguito di Covid-19 avrà un impatto finanziario sulle compagnie aeree grave per coloro che sono particolarmente esposti al mercato cinese», sottolinea Alexandre de Juniac, direttore generale e Ceo di Iata.
Ristorazione e bar. Il commercio al dettaglio subisce i colpi della crisi: tra il 2008 e il 2019, è sceso del 12,1%, pari a 70 mila negozi chiusi. È quanto emerge dal rapporto annuale di Confcommercio sulla demografia d’impresa nelle città italiane. Crolla anche il numero degli esercizi nei centri storici delle nostre città dove, dal 2008, si registra un taglio del 14,3%. Flessione del 2,5% anche per il commercio ambulante, che trova però una situazione diversa e più positiva al Sud. Nei centri storici del Mezzogiorno a un calo dei negozi fissi (-15,3%) si accompagna infatti un aumento netto del commercio ambulante (+14,8%). Dal rapporto emerge inoltre la crescita del settore ricettivo e della ristorazione. Alberghi, bar e ristoranti segnano complessivamente un +16,5%, pari a 49 mila nuove attività, tra le quali risulta molto forte lo street food e il take away. Stesso trend anche nei centri storici, dove si registra un crescita del 20,9%. Ma sul comparto pesa adesso l’allarme legato al coronavirus e il conseguente andamento negativo su tutto il turismo oltre che la ristorazione.
“Le compagnie aeree europee potrebbero sparire per sempre”. Parola di Easyjet. Il Dubbio 16 Marzo 2020. Il Ceo: “Continuiamo ad effettuare solo voli di salvataggio e rimpatrio per riportare le persone a casa. “L’industria dell’aviazione europea ha di fronte a sé un futuro incerto e non c’è alcuna garanzia che le compagnie aeree, con i benefici che recano alle persone, all’economia e alle imprese, saranno in grado di sopravvivere a quello che potrebbe trasformarsi in un sostanziale blocco dei viaggi nel lungo periodo, con una prospettiva di ripresa molto lenta”. Lo scrive Easyjet in una nota, specificando che “il futuro dipenderà molto dalla possibilità di mantenere l’accesso alla liquidità, compresa quella messa a disposizione dai governi di tutta Europa”. “In EasyJet stiamo facendo tutto ciò che è in nostro potere per far fronte alla sfida del Coronavirus in modo da poter continuare a fornire i benefici che l’aviazione porta alle persone, all’economia e alle imprese”, commenta Johan Lundgren, amministratore delegato del vettore. “Continuiamo ad effettuare voli di salvataggio e rimpatrio per riportare le persone a casa dove possiamo, così possono stare con la famiglia e gli amici in questi tempi difficili”, prosegue il ceo. Secondo Lundgren “l’aviazione europea deve affrontare un futuro precario ed è chiaro che sarà necessario un sostegno governativo coordinato per garantire che l’industria sopravviva e sia in grado di continuare a funzionare una volta che la crisi sarà finita”.
Coronavirus, l’anno zero delle compagnie aeree: «Rischio fallimento per quasi tutte». Pubblicato lunedì, 16 marzo 2020 su Corriere.it da Leonard Berberi. Il coronavirus rischia di far fallire la maggior parte delle compagnie aeree nel mondo entro un paio di mesi. La previsione, fosca, è del Centre for Aviation-Capa, centro studi australiano, che lancia l’allarme e chiede un intervento immediato dei governi. Le ultime a soccombere, stando alla lettura dei bilanci più recenti effettuata dal Corriere, dovrebbero essere i vettori statunitensi, che potrebbero resistere fino a nove mesi (quindi dicembre 2020-gennaio 2021) senza volare vendendo però diversi asset e procedendo con migliaia di esuberi. «Quando tutto questo sarà finito l’aviazione si ritroverà con molte meno aziende e un mercato tutto da rifondare», confida l’amministratore delegato di un vettore europeo. L’emergenza sanitaria, i blocchi da parte degli Stati, le politiche di contenimento decise dai governi (compreso quello italiano) che impongono anche lo stop agli spostamenti con qualsiasi mezzo hanno fatto precipitare la situazione nel settore del trasporto aereo che — ricordano diversi dirigenti — «richiede spese quotidiane elevate e costanti». I vettori hanno prima tagliati i collegamenti — prima con la Cina, poi con l’Italia —, ma quando il virus si è diffuso ormai ovunque hanno dovuto ridurre ulteriormente l’offerta, ritrovandosi a dover mettere a terra gli aerei e a procedere con gli esuberi o gli ammortizzatori sociali. Ma non basta. Per fare un esempio: United Airlines, uno dei vettori più grandi del mondo, ha annunciato il taglio dell’offerta del 50% tra aprile e maggio a causa del coronavirus, ma ha anche spiegato che nonostante questo il tasso di riempimento della metà dei voli rimasti non sarà superiore al 20-30%. Perché un volo venga considerato profittevole — o non in perdita — di solito bisognerebbe riempire il 78-80% del velivolo. Tra aprile e maggio decine di vettori — soprattutto in Europa — metteranno a terra buona parte della loro flotta, arrivando a cancellare in media l’80-90% dei voli. L’ultima a lanciare l’allarme è Ryanair, la più grande low cost del Vecchio Continente e la prima nell’area per passeggeri trasportati. In una nota lunedì mattina il gruppo — che comprende anche Lauda, Buzz e Malta Air — sottolinea che le restrizioni governative per contenere la diffusione del virus «porteranno alla messa a terra della maggior parte degli aerei nei prossimi 7-10 giorni». E anche in quegli Stati dove i divieti non ci sono ancora, spiega la low cost, «la distanza minima richiesta a bordo renderebbe il volo impraticabile se non impossibile». Per questo nei prossimi due mesi l’aviolinea taglia l’offerta di sedili fino all’80% e «non si può escludere la messa a terra di tutta la flotta». Lo stesso giorno una nota agli investitori da parte di easyJet — la seconda low cost europea e terzo vettore in Italia per passeggeri trasportati — anticipa che l’azienda metterà a terra la «maggior parte» della flotta e che procederà a un ulteriore taglio delle rotte e dei voli nei prossimi giorni. La società non fornisce numeri, ma la sforbiciata — stando a quanto riferiscono due fonti aziendali — potrebbe toccare anche il 90% e non viene escluso lo stop alle operazioni per un «limitato periodo di tempo», proprio come per Ryanair, «fino a quando la domanda non si riprenderà». «Non c’è alcuna garanzia che le compagnie europee sopravvivranno a un blocco di lungo periodo dei viaggi e ai rischi di una lenta ripresa», viene spiegato nella nota. Anche Finnair — vettore esposto sul fronte asiatico dove ottiene la maggior parte dei ricavi — ha deciso di tagliare i movimenti del 90% da subito «e fino a quando la situazione non migliorerà». Anche la profittevole Iag — holding di British Airways, Iberia, Vueling, Aer Lingus e Level — ha annunciato il taglio del 75% dei voli e posticipato il cambio al vertice: l’attuale ad Willie Walsh resterà per ancora qualche mese, mentre il successore Luis Gallego continuerà a dirigere Iberia. Il coronavirus provoca un terremoto anche dentro il gruppo Lufthansa (che include anche Swiss, Austrian Airlines, Eurowings, Brussels Airlines, l’italiana Air Dolomiti): oltre al taglio generale di almeno il 70% delle partenze, dal 18 marzo Austrian smette di volare senza precisare quando riprenderà. Conseguenze enormi anche per la polacca Lot, la nordica Norwegian Air e la low cost Wizz Air. Lo stesso anche per Air France-Klm che oltre a ritirare gli aerei più grandi, prevede una sforbiciata tra il 70 e il 90%. Non si salvano i vettori italiani, ormai ridotti a quattro — Alitalia, Air Dolomiti, Blue Panorama, Neos — dopo il crac di Ernest (a gennaio) e la messa in liquidazione in bonis di Air Italy (l’ex Meridiana, l’11 febbraio scorso). I ricavi sono crollati o si sono azzerati negli ultimi giorni. Per questo il governo sta lavorando su un doppio binario: da un lato stanziare 600 milioni di euro per il 2020 per l’intero settore del trasporto aereo e dall’altro la creazione di una società tutta o quasi pubblica che rilevi Alitalia, come anticipato dal Corriere sabato scorso. Nel 2020 le compagnie aeree, secondo le previsioni della Iata (la principale associazione internazionale di categoria), avrebbero dovuto registrare ricavi complessivi per 908 miliardi di dollari. Ma tre mesi dopo quelle stime la stessa Iata non esclude che i mancati introiti possano ammontare a 113 miliardi di dollari, cifra che in realtà dovrebbe persino aumentare. L’emergenza sanitaria inciderà anche sui passeggeri, sempre in crescita negli ultimi anni. Se nel 2019 si sono imbarcati in 4,54 miliardi in tutto il mondo per il 2020 la Iata stimava 4,72 miliardi. Con il coronavirus il dato potrebbe calare di almeno un miliardo.
Coronavirus, l’impatto sui locali da Cracco a Berton: «Perso fino all’80 percento dei clienti». Pubblicato mercoledì, 26 febbraio 2020 da Corriere.it. I tavoli dei ristoranti sono vuoti. Gli eventi annullati. Fino a otto prenotazioni su dieci disdette. È l’effetto della paura del contagio da Coronavirus nel Nord Italia, ma soprattutto a Milano. Un danno economico che la Fipe, la Federazione Italiana Pubblici Esercizi, stima di 2 miliardi di euro e che potrebbe mettere a rischio oltre 20 mila posti di lavoro. Questo, nonostante il Ministero della Salute abbia chiarito e rassicurato che «non c’è possibilità alcuna di contagio attraverso i cibi anche perché il Coronavirus — come spiegano i virologi — sopravvive fuori dall’essere umano per pochi secondi solamente». Tanto che, proprio i ristoranti, non sono stati considerati dalle disposizioni di chiusura temporanea (dalle ore 18 alle 6) disposte dalle autorità regionali per i luoghi commerciali di intrattenimento o svago: quindi bar, pub e discoteche. Visto l’andamento, però, alcuni chef hanno deciso di chiudere temporaneamente i propri ristoranti per limitare i danni economici causati dai pochi coperti. Ma la maggior parte ha scelto di continuare il servizio. «Restiamo aperti per senso di responsabilità, per mandare il messaggio che non bisogna essere preda della paura», è quello che ripetono gli chef a Milano.
Anche Venezia si ritrova deserta. «Così si rischia il 13% del Pil». Pubblicato martedì, 25 febbraio 2020 su Corriere.it Marco Imarisio. In San Marco oggi ci sarebbe spazio per due campi da calcio. Lungo le calli che conducono alla piazza più famosa e visitata del mondo incontriamo almeno tre negozi di alimentari che servono i clienti con le serrande abbassate. Un cartello avvisa che «l’attività è aperta, basta bussare». I clienti restano in strada ad attendere bottiglietta d’acqua e panino, che viene servita attraverso la saracinesca, da mani bardate con guanti da infermiere. «Dove vogliamo andare conciati così?» si chiede il titolare dell’Osteria Santa Fosca, che all’ora di pranzo è desolata come manco nei giorni dell’acqua granda. Nella città che più di ogni altra è abituata a vivere di turismo, la solitudine e gli spazi vuoti non saranno mai considerati un lusso. Ma non è solo Venezia. Il sagrato del Santo di Padova è come una natura morta. In un luogo che ogni anno attira da solo quattro milioni di pellegrini, padre Olivio Svanera, il rettore, ha scelto di tenere aperto comunque. «Mi sembra il momento più appropriato per pregare, chiedendo la salvezza delle tante famiglie che rischiano la rovina». Piange il turismo, la prima industria regionale, settanta milioni di presenze e diciotto miliardi di fatturato. E piange anche Monica Soranza, presidente della Federalberghi regionale, che si commuove sullo sfondo della basilica deserta. «Nessuno vuole più venire in Veneto, nessuno». Nel capoluogo le disdette hanno superato il sessanta per cento, con un aumento di 20 punti percentuali da un giorno all’altro. A Padova, idem. Nel polo termale di Abano e Montegrotto si contano un 25-30 per cento di cancellazioni che arriva già alla prossima primavera. Sostituire la parola Veneto con Italia, e non cambia nulla. Anzi. D’accordo, la tendenza all’autocommiserazione delle associazioni di settore aumenta in modo esponenziale a ogni occasione nefasta. Ma se confermato, quello emesso ieri da Confesercenti e Federturismo è un bollettino di guerra con toni molto più accorati del solito. Secondo le stime del World Trade and Tourism Council è a rischio il 13 per cento del Pil nazionale, che poi è la percentuale su cui incidono viaggi e soggiorni nel nostro Paese. Un giro d’affari da 146 miliardi l’anno, per un settore che conta 216 mila esercizi ricettivi e 12 mila agenzie di viaggio. Prima di quest’ultima settimana le stime più prudenti parlavano di una perdita di cinque miliardi di euro dovute al Coronavirus. Adesso non è neppure possibile fare una valutazione ulteriore. La maggior parte delle disdette riguarda la stagione primaverile, che da sola vale circa il 30 per cento circa del fatturato totale annuo del turismo. Tutta l’Italia è Paese. Mica solo il Veneto o la Lombardia. Confcommercio azzarda una stima generale da fine di mondo. Se va avanti così fino ad aprile-maggio, addio a una spesa turistica da 2,65 miliardi di euro, a centomila posti di lavoro, a sette miliardi di Pil come minimo. A guardare le notizie dai territori, non va meglio. Confesercenti Sicilia parla di un clamoroso 80 per cento di disdette delle prenotazioni alberghiere, con tanti saluti alla stagione primaverile. In Friuli-Venezia Giulia gli addetti ai lavori lamentano un crollo del’80 per cento di prenotazioni in città fino a un vertiginoso 95 per cento in montagna. Ascom Torino parla di turismo d’affari completamente congelato e in generale di una cancellazione su due dagli hotel cittadini. All’appello mancano soprattutto i visitatori che vengono dall’Est. Potrebbe andare anche peggio. L’agenzia di stampa russa Tass cita un rapporto dell’associazione dei tour operator Ator. «Le notizie sui casi di Coronavirus in Nord Italia circolate sui media hanno causato la preoccupazione dei nostri turisti. I tour operator stanno ricevendo numerose richieste di cancellazione, ma poche sono state eseguite finora». E l’avverbio finale non lascia certo tranquilli per il futuro. Tra un tavolo e l’altro con sigle e associazioni varie, ieri l’assessore veneto al Turismo Federico Caner ha raccolto il grido di dolore di un albergatore delle Dolomiti bellunesi. Aspettava due pullman dalla Repubblica Ceca. Ma i suoi ospiti, preoccupati di finire in quarantena al loro ritorno in madre patria, gli chiedevano garanzie. «A livello nazionale, dobbiamo reagire alla campagna negativa dei media mondiali nei nostri confronti. Serve più rispetto, e una promozione forte sulla sicurezza delle nostre località». Le parole accorate dell’assessore fanno venire un dubbio che inizia a circolare nella testa di molti rappresentanti delle istituzioni. Non è che stiamo esagerando? «Forse. Da un lato noi chiedevamo come affrontare l’emergenza, dall’altro c’era una forte spinta ad adottare misure così dure. Ma con il senno di poi, sono tutti bravi». Alla fine, i turisti cechi sono rimasti a casa loro.
Alessandra Arachi per il Corriere della Sera il 26 febbraio 2020. A metà giornata ieri ci ha pensato l' Enac, l'ente che controlla l' aviazione civile, a tagliare la testa al toro: «Chiamate direttamente la vostra compagnia aerea di riferimento per verificare l' effettiva operatività del vostro volo». A metà giornata ieri era difficile stare dietro ai provvedimenti restrittivi che piovevano dal mondo sull' Italia per via dei nostri contagi sul coronavirus, e anche se la maggior parte dei Paesi non sta chiudendo gli aeroporti ai voli italiani, l'esperienza dei turisti a Mauritius è diventata un monito. Tanto che i passeggeri della nave da crociera Msc Meraviglia - italiani e francesi - non sono sbarcati al porto di Ocho Rios, in Jamaica, visto che le autorità locali hanno negato loro il permesso. Il divieto - spiega Tpi, The Post International - è arrivato perché un membro dell' equipaggio ha manifestato sintomi influenzali. «Sono in vacanza con mio figlio, dovevamo sbarcare alle Isole Cayman, poi Cozumel, Bahamas e dovremmo tornare a Miami domenica prossima - racconta un passeggero - a questo punto non so cosa accadrà, ma il timore è che ora tutti i porti ci respingeranno». «Gli italiani possono continuare a viaggiare», garantisce il nostro ministro della Salute Roberto Speranza che ieri si è incontrato con i suoi omologhi di Austria, Francia, Slovenia, Svizzera, Croazia, Germania e anche con il commissario Ue Stella Kyriakides, e ha affermato: «Il nostro servizio sanitario nazionale, i nostri medici e scienziati sono considerati di grandissimo livello in Europa.
C' è fiducia da parte di tutti». Nell' Italia la fiducia ci sarà, senz' altro, ma la verità è che la paura di questo virus ha la meglio, e le precauzioni le stanno prendendo da ogni parte, a cominciare dalla Unione europea che ha invitato i funzionari della Commissione a non fare viaggi in Lombardia, o a mettersi in isolamento se sono stati in Italia negli ultimi quattordici giorni: consigliano di sostituire i viaggi con le teleconferenze. «Non verranno chiuse le nostre frontiere», ha garantito il ministro Speranza, ribadendo al tempo stesso che la nostra scelta di bloccare i voli da e per la Cina fu un provvedimento sensato. Per ora, hanno vietato gli ingressi quattro Stati: Giordania, Mauritius, Kuwait e Seychelles. Ma anche Paesi più vicini a noi si sono attrezzati, in testa la Romania che per chi arriva dalle «zone rosse» impone la quarantena, o anche la Francia che invita a non viaggiare in Italia, così come la Macedonia del Nord, insieme all' Irlanda. In Gran Bretagna invitano ad un autoisolamento per gli italiani chi arrivano dai focolai, ma anche dal nord dell' Italia (sopra Rimini, Firenze, Pisa). A Londra ieri hanno deciso di chiudere due istituti scolastici dopo il ritorno di alcuni studenti da due gite scolastiche nel nord Italia, una classe di ventinove ragazzi tornava da Bormio. Dagli Usa, il Dipartimento di Stato invita i cittadini americani a controllare i siti web e i nostri account social per le ultime informazioni. L' ambasciata americana a Roma ha rilasciato diversi avvisi rivolti ai cittadini americani perché evitino le zone indicate dal governo come «colpite». Intanto Luigi Di Maio. ministro degli Esteri, ha convocato gli ambasciatori dei Paesi esteri accrediti in Italia per informarli sull' andamento del contagio. L'emergenza da coronavirus rischia di avere un impatto elevatissimo sull'economia. L’ultimo effetto è quello legato al Salone del Mobile di Milano che da fine aprile è stato rinviato a giugno, dal 16 al 21. In generale Confesercenti ha calcolato una perdita di circa 3,9 miliardi di consumi, "una stima conservativa, basata sull'ipotesi di una crisi limitata" dice l’associazione.
Confesercenti: a rischio 60 mila posti di lavoro. La frenata dei consumi, afferma l'associazione in vista del vertice previsto per oggi pomeriggio al Mise, avrà conseguenze pesanti sul tessuto imprenditoriale: potrebbe portare alla chiusura di circa 15 mila piccole imprese in tutti i settori, dalla ristorazione alla ricettività, passando per il settore distributivo ed i servizi. L'impatto sull'occupazione potrebbe superare i 60mila posti di lavoro.
L'annuncio di Beppe rinviato il Salone del Mobile di Milano. La situazione è particolarmente grave nel turismo: «il comparto - afferma Confesercenti - è già in zona rossa, con le attività ricettive travolte da un diluvio di disdette, e la stagione primaverile, che vale il 30% circa del fatturato totale annuo del turismo, appare seriamente compromessa, con la prospettiva di ulteriori danni non solo per alberghi e bed & breakfast, ma anche bar, ristoranti e attività commerciali». «L'impatto dell'emergenza sull'economia può essere altissimo. Bisogna agire in fretta, e bene, per limitare i danni. I cali di viaggiatori registrati negli ultimi quattro giorni lasciano pensare il peggio: se continua così a lungo, centinaia di imprese, dagli alberghi alle attività commerciali, rischiano di saltare - dichiara la Presidente di Confesercenti Patrizia De Luise - Servono interventi straordinari: al tavolo del Mise con il Ministro Stefano Patuanelli, oggi, chiederemo di trattare tutte le imprese turistiche come se fossero nella zona rossa, estendendo loro la sospensione dei pagamenti, dai versamenti contributivi a muti e bollette, e pensando a forme di welfare per non lasciare a terra i lavoratori e gli imprenditori. Ma bisogna prepararsi a misure d'emergenza anche per ristoranti ed attività commerciali».
Federturismo: solo dalle gite, un danno da 316 milioni. «In 48 ore siamo diventati un Paese non sicuro in cui è meglio non venire e da cui è meglio non accogliere viaggiatori. Stiamo facendo al nostro turismo danni inestimabili. Solo il settore delle gite scolastiche muove un business da 316 milioni ma è la punta dell'iceberg. Stiamo annullando ogni manifestazione, ogni convegno, ogni vacanza non solo nelle zone focolaio ma in tutte le regioni italiane anche quelle dove non c'è nessun caso. Sono purtroppo coinvolti tutti settori dell'attività produttiva (alberghi, ristoranti, tour operator, trasporti ma anche parchi a temi, meeting industry etc)». A fare il punto con l'Ansa degli effetti della situazione coronavirus in continuo peggioramento per il settore turismo è la vicepresidente di Federturismo Confindustria Marina Lalli.
Agis: in una settimana persi 10 milioni di euro. Per lo spettacolo dal vivo, la settimana di chiusura (dallo scorso weekend fino al prossimo 1 marzo) dei luoghi di spettacolo situati nelle Regioni colpite dai casi di contagio del coronavirus provocherà un perdita economica di oltre 10 milioni di euro, diretta causa della cancellazione di 7.400 spettacoli. E' quanto emerge da una prima stima fornita da Agis - Associazione Generale Italiana dello Spettacolo ed elaborata sui dati Siae. «Una perdita in termini economici estremamente pesante, per far fronte alla quale, nella giornata di ieri, Agis ha indirizzato al ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo Dario Franceschini - si legge in una nota - una lettera in cui viene richiesta, con la massima urgenza, l'apertura di uno 'stato di crisi' con l'obiettivo di adottare quanto prima provvedimenti e misure a sostegno di un settore in questi giorni gravemente penalizzato».
E' allarme cinema, giù incassi e uscite rinviate. Incassi in picchiata nelle sale, uscite rinviate a data da destinarsi, dal nuovo Verdone al Ligabue di Diritti: l'effetto coronavirus pesa anche sul cinema, che vede bruscamente interrotta la tendenza positiva registrata dal mercato lo scorso anno e nelle prime settimane del 2020. Nel week end il box office ha lasciato sul terreno il 44% rispetto a una settimana fa, perdendo 4,4 milioni di euro (e 2,4 milioni sull'analogo fine settimana del 2019). Particolarmente critico il bilancio di domenica, giornata clou per gli incassi settimanali: -673mila euro rispetto a sabato, quasi 2 milioni persi sulla domenica precedente, 1,6 milioni su un anno fa. Un effetto immediato della chiusura delle sale nelle regioni coinvolte dall'emergenza (Piemonte, Lombardia, Veneto, Friuli Venezia Giulia, Emilia Romagna), vale a dire ben 850 schermi su un totale di 1830. Ma anche della paura del contagio: fatta eccezione per Molise, Puglia e Basilicata, domenica gli incassi sono andati giù un po' ovunque, con un -31% nel Lazio, -20% in Umbria, -12% in Liguria, -29% in Valle d'Aosta, stando alla radiografia del Cinetel. E certo non promette bene la raffica di rinvii: non arriverà in sala il 27 febbraio, come annunciato, Volevo nascondermi, l'atteso film di Giorgio Diritti con Elio Germano nei panni del pittore Ligabue, appena applaudito a Berlino, né Si vive una vola sola, il nuovo film di e con Carlo Verdone. Rinviati al momento sine die anche i cartoon Lupin III - The First, la versione in computer grafica del personaggio di Monkey Punch, diretta da Takashi Yamazaki, e Arctic - Un'avventura glaciale; Dopo il matrimonio, storia di perdita e rinascita con Michelle Williams e il premio Oscar Julianne Moore, e ancora Cambio tutto, nuova commedia di Guido Chiesa con Valentina Lodovini e Neri Marcorè (annunciata per il 5 marzo). Non 'smontano', al momento, Doppio sospetto, noir hitchcockiano diretto da Olivier Masset-Depasse (27 febbraio) e il cartone Disney Onward - Oltre la magia (5 marzo), così come è regolarmente programmato (dove possibile) Salvo amato, Livia mia, il nuovo episodio del Commissario Montalbano eccezionalmente in anteprima al cinema il 24, 25 e 26 febbraio prima di approdare su Rai1. Se il presidente dell'Anica, Francesco Rutelli, ha sottolineato il senso di responsabilità con cui l'industria si è adeguata alle misure per fronteggiare l'emergenza, pur evidenziando le "conseguenze economiche significative", Agis (Associazione generale italiana dello spettacolo) e Federvivo hanno chiesto al ministro della Cultura Franceschini di aprire uno "stato di crisi" per il settore. "Il blocco di ogni attività nelle regioni del Nord Italia sta generando infatti un impatto economico estremamente negativo, tanto per il crollo dei ricavi da bigliettazione quanto per la drastica riduzione delle paghe degli addetti del settore", hanno scritto in una lettera aperta, invocando "adeguate risorse" e "provvedimenti normativi che evitino qualsiasi penalizzazione". Prova a lanciare un messaggio positivo Mario Lorini, presidente dell'Anec, l'associazione degli esercenti: «Giustamente ci siamo adeguati alle disposizioni di chiusura delle sale nelle regioni interessate dall'emergenza, e siamo pronti a prendere atto di eventuali sviluppi. Ma altrove stiamo invitando tutti gli esercenti a lasciare le sale aperte: siamo da sempre luoghi di intrattenimento dove si trascorre volentieri il tempo libero e dove si decide di andare se si sta bene e si ha voglia di uscire, visto che ci sono decine di forme di intrattenimento alternative. E' vero, stanno slittando alcuni film molto attesi: ma una settimana fa è arrivato in sala un plotone di titoli interessanti. Pur restando ancorati, giorno per giorno, alla realtà, vogliamo dare un segnale di sicurezza e di tranquillità a un Paese che deve reagire».
Giro d’affari gel igienizzanti mani +827%. Tra gli impatti sull’economia, com’era ovvio, si registrano grandi incrementi nel settore degli igienizzanti. Su tutti, colpisce il dato di vendite dei gel igienizzanti per le mani: solo nelle prime sei settimane dell'anno si sono vendute più di 900mila confezioni nella grande distribuzione, pari a un fatturato di 2,5 milioni di euro, nove volte in più rispetto allo stesso periodo dell'anno precedente. Secondo i dati dell'Istituto globale di misurazione e analisi dati Nielsen, il "sellout" è stato di 900mila confezioni e il fatturato di questo segmento di prodotto ha messo a segno una crescita dell'827% rispetto allo stesso periodo dell'anno precedente. Entro fine febbraio, dopo le razzie in supermercati e discount, è previsto un milione di pezzi venduti.
Il “business” della pandemia: può costare 3mila miliardi. Federico Giuliani su Inside Over the world il 27 gennaio 2020. Una catastrofe sanitaria, prima di tutto. Quindi una catastrofe sociale. Poi anche economica e politica. L’epidemia del nuovo coronavirus ha avuto sulla Cina, e di riflesso sul resto del mondo, lo stesso effetto dell’esplosione di una bomba atomica. In un colpo solo lo Stato più popoloso del mondo, il Paese che stava lavorando duro per superare gli Stati Uniti (e per certi versi ci stava già riuscendo), la nazione che più è cresciuta economicamente negli ultimi decenni, si ritrova nudo e inerme di fronte a un nemico enorme e all’apparenza invincibile. Eppure, anche in un simile scenario apocalittico, c’è chi è pronto a fare affari. È il grande business della pandemia, come lo ha soprannominato Il Fatto Quotidiano, e riguarda l’incessante attività di ricerca e sviluppo messa in moto dai vari governi del mondo nel tentativo di trovare un vaccino capace di arginare l’avanzata del 2019-n-CoV. Dalla scienza è il momento di passare al business, anche se questa volta la scienza non è (ancora) riuscita a dare una risposta fondamentale a una domanda altrettanto tale: qual è l’origine del virus? Nessuno lo sa. Si è parlato di scarsa igiene, di serpenti, pipistrelli, zuppe di pipistrelli, di ipotetiche fughe da laboratori chimici. Ma sono tutte ipotesi, e di certezze neppure l’ombra. Dunque: business sia.
Quell’allarme inascoltato. Il contagio, la paura di contrarre il virus, il terrore di morire: è questa la benzina che ha spinto i Paesi del mondo a riflettere sull’esigenza di investire massicciamente in ricerca, profilassi e risposte adeguate contro le pandemie. Oggi è scoppiata l’emergenza coronavirus, domani chissà. Nel frattempo è partita la corsa alla creazione di possibili vaccini; ingenti risorse saranno investite per creare un possibile rimedio alla polmonite cinese. L’imperativo sarà quello di evitare che i citati investimenti e il coinvolgimento delle società farmaceutiche si trasformino in veri e propri sperperi. In ogni caso, qualche mese fa, l’Organizzazione mondiale della sanità e la Banca Mondiale hanno presentato un rapporto sulla preparazione globale contro le pandemie. Il risultato ha lasciato perplessi: prima o poi, sostenevano gli esperti, una pandemia sarebbe comparsa dal nulla mettendo in evidenza l’impreparazione dei governi. Quelle previsioni sembrano adesso avverarsi: “La concreta minaccia di una pandemia in rapida diffusione, altamente letale, di un agente patogeno respiratorio che uccida da 50 a 80 milioni di persone e cancelli quasi il 5% dell’economia globale”.
Il costo di una catastrofe sanitaria. Nella storia ci sono state numerose pandemie che hanno falcidiato centinaia di migliaia di persone. La “pandemia spagnola” del 1918-1919 uccise 50 milioni di individui e ne colpì 500 milioni; nel 1957 l’influenza “Asiatica” provocò 1,1 milioni di morti, la “Hong Kong del 1968 arrivò 1,1 milioni. Nel 2002-2003 la Sars contagiò 8.098 persone uccidendone 774; l’influenza suina A H1N1 causò nel 2010 tra le 152 e le 575mila vittime. La Mers del 2012 fu causa di morte per 858 persone. Ogni anno l’influenza stagione colpisce nel mondo una persona su otto. I morti? Dai 290mila ai 650mila. Accanto ai costi sanitari e sociali ci sono quelli economici. Per arginare le epidemie citate i governi devono stanziare miliardi e miliardi di dollari: la Sars è costata 40 miliardi, Ebola addirittura 53, l’influenza suina tra i 45 e i 55. Oggi, una nuova pandemia come quella Spagnola, costerebbe all’economia globale la bellezza di 3mila miliardi di dollari: il 2,2% del Pil mondiale. In mezzo alla psicosi collettiva ecco dunque spuntare il grande business delle case farmaceutiche, contattate da governi impauriti da possibili massacri. Gli Stati, nei casi sopra citati, firmarono contratti miliardari per assicurarsi scorte di vaccini, molte delle quali rimaste poi inutilizzate. Sarebbe auspicabile non dover più ripetere gli stessi errori del passato.
Per colpa del coronavirus la Cina rischia la recessione economica. Federico Giuliani su Inside Over il 27 gennaio 2020. Prima l’estenuante e logorante guerra dei dazi con gli Stati Uniti, poi la mazzata finale dell’epidemia del nuovo coronavirus. L’economia della Cina, già alle prese con alcuni problemi strutturali e politici, ora deve fare i conti anche con il contraccolpo provocato dall’ultima emergenza sanitaria che ha letteralmente paralizzato il Paese. Il Dragone conta 1,4 miliardi di individui ed è lo Stato più popoloso del mondo. Oggi questa nazione si ferma a causa del 2019-n-CoV e non sappiamo quando ripartirà a pompare renminbi a pieno regime. La sanità viene prima di tutto il resto, quindi Pechino ha disposto misure drastiche. Ecco un breve elenco: in quarantena 56 milioni di persone – quelle che vivono nell’area dalla quale è partito il contagio – sospesi i trasporti pubblici in numerose città, controlli a tappeto in tutto il Paese, sprangati musei e attrazioni turistiche, tra cui il Museo Nazionale della capitale, la Città Proibita e alcuni tratti della Grande Muraglia. Chiuso a data da destinarsi il parco di divertimento Shanghai Disneyland e Disneytown. Il governo cinese, secondo quanto riportato da Bloomberg, ha inoltre ordinato “a tutte le agenzie di viaggio di interrompere la vendita di tour interni e internazionali”.
Il prezzo economico da pagare. È interessante chiedersi quale sarà il prezzo economico che la Cina dovrà pagare per questa pandemia. D’altronde le parole di Xi Jinping non lasciano presagire una situazione tranquilla, visto che il presidente cinese ha parlato di una “situazione grave” perché “il virus accelera”. Come se non bastasse gli Stati Uniti sono pronti a dare il via a un’operazione per evacuare cittadini e diplomatici americani rimasti bloccati a Wuhan, epicentro dell’epidemia. Nella “città infetta” ci sono circa mille statunitensi, che torneranno a casa così come il personale del gruppo automobilistico francese Psa (circa una quarantina). La risposta di Pechino è drastica ma necessaria: chiuse le attività, sospeso il turismo. Logico che una decisione del genere comporti effetti negativi che ricadranno su numerosi settori economici. Questo è il periodo del Capodanno cinese, una settimana in cui si celebra la festa più importante del calendario cinese e dove i tour organizzati, sia interni che provenienti dall’estero, hanno sempre subito impennate considerevoli. In un colpo solo gli hotel, le compagnie aeree e le innumerevoli botteghe cinesi, meta prediletta per gli stranieri a caccia di souvenir, perderanno ingenti entrate economiche.
Il contraccolpo economico dei Paesi esteri. Le ripercussioni economiche ricadranno anche sui Paesi esteri. Già, perché la Cina è pur sempre – come ha scritto il quotidiano Repubblica – il più grande serbatoio del turismo mondiale. Questo significa che fino a quando l’emergenza sanitaria non rientrerà, l’enorme flusso di turisti cinesi verso l’Europa e il resto del mondo sarà attenuato se non del tutto bloccato. E questo significa che settori come il lusso made in Italy o made in France potrebbero subire botte non da poco. Tornando in Cina, alcune multinazionali hanno alzato bandiera bianca. Ha iniziato McDonald’s, annunciando la chiusura dei punti vendita nella zona rossa. Ora è il turno di Starbucks, che calerà molto presto le serrande di tutti i suoi bar. In un simile contesto apocalittico i consumi interni, cioè quelli che nei periodi più duri della guerra dei dazi erano riusciti a trainare l’economia nazionale, sono destinati a scendere. Ecco perché il rischio recessione è dietro l’angolo.
Morgan Stanley avverte: il virus ferma il Pil cinese. Andrea Muratore su Inside Over the world il 30 gennaio 2020. Mentre il direttore generale dell’Organizzazione mondiale della Sanità (Oms), Tedros Adhanom Ghebreyesus, arrivava a Pechino per incontrare Xi Jinping e parlare degli effetti del nuovo coronavirus che tiene in allarme l’Impero di Mezzo, Morgan Stanley stimava gli effetti dell’epidemia sul Pil cinese e mondiale. La sfida dei virus è tra le più importanti a livello politico, sociale e d’immagine che la Cina si sia trovata ad affrontare negli ultimi decenni. L’Impero di Mezzo ha conseguito successi economici ineguagliati, provocato il più massiccio contrasto alla povertà della storia umana (800 milioni di persone uscite dalla condizione nell’ultimo quarantennio) e conquistato uno status di potenza mondiale sempre più solido, ma al suo interno presenta elementi di fragilità. Il coronavirus non è certamente allarmante come la malaria, che a livello mondiale ha ucciso 19 milioni di persone negli ultimi 25 anni, ma rischia di scatenare un effetto-psicosi e dei rallentamenti dell’economia mondiale per il blocco agli scambi tra le aree messe in quarantena e il resto del pianeta.
E per la Cina, economia fondata sulle esportazioni questo potrebbe essere un grattacapo non da poco. Basti pensare che l’epicentro del contagio, Wuhan, è un terminale nevralgico nei commerci con il resto dell’Eurasia. Nel 2016 destò scalpore il completamento di un viaggio ferroviario tra il centro industriale nel cuore della Repubblica Popolare e la città francese di Lione. La città è un nodo strategico per le comunicazioni terrestri e aeree interne alla Cina e tra la Cina e il resto del mondo. Un aeroporto da 25 milioni di passeggeri l’anno, cinque autostrade e collegamenti ferroviari ad alta velocità tra Wuhan, città da 11 milioni di abitanti, e le altre metropoli costruiscono una rete di ampissima dimensione. Il cui blocco inciderebbe sull’economia cinese e globale. Dunque, secondo Morgan Stanley, “l’epidemia di Coronavirus in Cina potrebbe danneggiare la crescita globale nel breve termine”, come fa notare La Stampa “per esempio, tagliando fino a un punto percentuale la crescita cinese. Supponendo che i picchi del contagio arrivino tra febbraio e marzo, la crescita globale potrebbe essere ridotta tra 0,15 e 0,3 punti nel primo trimestre di quest’anno”. Gli scenari sulla crescita del Pil cinese, invece, variano tra lo 0,5 e l’1% nel caso di un picco a breve termine e tra lo 0,6 e l’1,1% in caso di picco dell’epidemia nel secondo trimestre. La stima è legata al calcolo della riduzione del Pil della regione di Wuhan, l’Hubei, la cui economia è di oltre 600 miliardi di dollari (quasi 4 trilioni di yuan) e la cui popolazione di circa 60 milioni di abitanti, ma anche agli effetti a cascata legati al calo delle esportazioni, agli effetti sull’indotto e al calo dell’appetibilità finanziaria della Cina per il mutato sentimento degli investitori. Una data chiave sarà, in tal senso, il 3 febbraio, giorno di riapertura dei mercati asiatici. La tempesta è più emotiva che sanitaria: l’effetto-panico provocato da una malattia, per ora, non ancora giunta a contagiare l’intero territorio cinese ha effetto sull’economia.
Economia e finanza non sono sistemi razionali, ma risultano estremamente riflessivi agli shock esterni. Se le Olimpiadi del 2008 erano state un evento simbolico capace di proiettare l’appetibilità economica della Cina a livelli mai visti in precedenza, il Coronavirus potrebbe, su scala ridotta, procedere in direzione opposta. Ponendo un ostacolo al decollo della Cina maggiore di quello imposto da dazi commerciali, proteste a Hong Kong, bolle finanziarie. Testimoniando che la Cina non è ancora pronta a essere definita superpotenza. Se i danni all’economia saranno poi quelli provocati da Morgan Stanley, il governo di Xi dovrà intervenire per evitare un calo della fiducia degli operatori nella prima potenza commerciale e industriale mondiale.
Da ilsole24ore.com il 3 febbraio 2020. Effetto coronavirus sull’economia cinese, con l’attività manifatturiera che a gennaio è cresciuta al ritmo più lento degli ultimi cinque mesi e la domanda di petrolio in netto calo, mentre l’allarme blocca la ripresa delle attività economiche in alcune province dopo il Capodanno. La frenata della domanda di petrolio e il conseguente crollo delle quotazioni (con il Wti sceso intorno ai 50 dollari e il Brent a 54) starebbe spingendo l’Opec, secondo diverse fonti, a valutare un taglio immediato della produzione di greggio nell’ordine di 500mila barili al giorno. Martedì e mercoledì una riunione dell’Opec ne discuterà. Non solo, ma secondo quanto riporta l’agenzia Bloomberg la Cina sta valutando se abbassare l’obiettivo di crescita per il 2020. Il governo potrebbe mettere in campo una serie di misure a sostegno dell'economia, tra cui un innalzamento del tetto al rapporto tra deficit e pil. Il target annuale di crescita cinese viene generalmente reso noto a marzo. Secondo gli economisti la Cina dovrebbe puntare a una crescita «attorno al 6%» dopo la forchetta del 6-6,5% fissata per il 2019, chiuso con una crescita del 6,1 per cento. Ma anche l’obiettivo del 6%, alla luce degli ultimi sviluppi, potrebbe essere rivisto al ribasso.
Indice Caixin in frenata. L’indice Caixin, che misura appunto l’attività manifatturiera, a gennaio è sceso dal 51,5 al 51,1 (le attese erano del 51,3), anche se rimane comunque superiore alla soglia dei 50 punti, che separa la crescita dalla contrazione. Segnali analoghi erano arrivati venerdì dall’indice Pmi, sceso a quota 50.
Domanda di petrolio in picchiata. Diversi analisti citati da Bloomberg riferiscono inoltre di un brusco calo della domanda di petrolio, calata circa del 20% (tre milioni di barili al giorno), secondo le stime dell’agenzia. La flessione è forse il maggiore shock subito dalla domanda di greggio dalla crisi finanziaria del 2008-2009 e potrebbe forzare la mano all’Opec e ai suoi alleati, che stanno considerando una riunione di emergenza per tagliare la produzione e arginare il calo dei prezzi.
I titoli azionari con alti dividendi che battono il BTp decennale. La Cina è il maggior importatore mondiale di petrolio dopo aver superato gli Stati Uniti nel 2016 e consuma oggi circa 14 milioni di barili al giorno: in pratica il fabbisogno di Francia, Germania, Italia, Spagna, Regno Unito , Giappone e Corea del Sud messe insieme.
Ferma l’attività in aree chiave. La terza cattiva notizia per l’economia del gigante asiatico è la decisione di almeno 24 tra province e municipalità cinesi - tra cui Shanghai, Chongqing e il Guandong - che hanno rinviato la ripresa delle attività economiche e produttive a non prima del 10 febbraio per i timori di contagio del coronavirus. Si tratta di aree che nel 2019 hanno pesato per oltre l’80% in termini di contributo al Pil di Pechino e per il 90% sull’export.
I costruttori di auto rinviano la riapertura. Le aziende internazionali si stanno adeguando e a loro volta rinviano la riapertura delle attività. L’ultima ad annunciarlo è stata Renault, che ha deciso di rinviare al 13 febbraio la ripresa della produzione nello stabilimento di Wuhan, che impiega 2mila persone. Altri costruttori con stabilimenti nell’area, come Psa, hanno preso decisioni analoghe.
Huawei avanti con la produzione. Non tuttte le aziende si fermano. Il gigante cinese delle telecomunicazioni Huawei Technologies Co Ltd ha ripreso la produzione dopo le vacanze del Capodanno lunare, in linea con una speciale esenzione che permette ad alcune industrie strategiche di rimanere in funzione. La maggior parte della produzione si trova nella provincia meridionale del Guangdong.
Lufthansa: voli fermi fino al 29 febbraio. Ancora tutto fermo invece sul fronte dei collegamenti aerei. Lufthansa ha annunciato il prolungamento dello stop di tutti i voli verso la Cina fino al 29 febbraio. Il gruppo tedesco, che controlla anche Swiss Air e Austrian Airlines, non effettuerà voli da e per Pechino e Shanghai fino al 29 di febbraio e fino al 28 di marzo da e per Nanchino, Shenyang e Qingdao. La compagnia aerea tedesca aveva annunciato in un primo tempo la decisione di sospendere i voli fino al 9 febbraio. Continueranno invece a essere assicurati i voli da e per Hong Kong. A regime Lufthansa e le sue controllate effettuano 54 voli verso la Cina e 19 verso Hong Kong.
Hong Kong in recessione. Chi già soffre per motivi diversi ma che con il coronavirus rischia di peggiorare è l’economia di Hong Kong. Il Governo ha certificato la recessione, con il Pil in calo dell’1,2% nell’intero 2019 a causa delle proteste di piazza contro Pechino. «Il coronavirus - osserva Martin Rasmussen, economista di Capital Economics - farà probabilmente restare in recessione Hong Kong anche nel 2020».
L’influenza del coronavirus su Art Basel Hong Kong. Roberta Pucci per exibart.com il 3 febbraio 2020. La diffusione del coronavirus potrebbe mettere a repentaglio Art Basel Hong Kong. Bloomberg ha annunciato che le gallerie partecipanti hanno chiesto, con una lettera agli organizzatori, di annullare l’ottava edizione dell’evento a marzo. A Hong Kong, dove sono stati confermati 10 casi, musei e scuole sono stati chiusi. La maratona di Hong Kong, che si sarebbe tenuta all’inizio del mese prossimo, è stata annullata. Il servizio ferroviario dalla terraferma è sospeso e i voli sono ridotti della metà. Art Basel Hong Kong, che ha attirato 88.000 persone l’anno scorso, aprirà ai VIP il 17 marzo presso il centro congressi ed esposizioni di Hong Kong. “Hong Kong è il posto dove nessuno vuole andare in questo momento”, ha affermato Janelle Reiring, co-fondatrice della Metro Pictures Gallery di New York. “A causa della politica, delle proteste e ora del virus. Nessuno vuole mandare le persone a lavorare lì dato lo stato attuale delle cose”. “Questo è un momento difficile per tutti noi”, hanno detto i direttori della fiera in una lettera agli espositori giovedì. “La possibilità di rinviare o cancellare un evento di questa portata – che richiede un anno intero per essere prodotto – è un processo complesso, con molti fattori e molteplici stakeholder coinvolti”. Ma le convinzioni dei galleristi restano, ad esempio Richard Nagy, il proprietario di un’importante galleria londinese, ha scritto in una mail agli organizzatori: “Purtroppo, crediamo che questa situazione abbia bisogno di una leadership decisiva e che Art Basel Hong Kong 2020, debba essere salvata da questa situazione rapidamente. Abbiamo raccolto delle informazioni e possiamo dirlo, nessuno dei nostri clienti stranieri parteciperà e sono sorpresi che la fiera sia ancora attiva.”
La risposta di Hong Kong. In una lettera inviata agli organizzatori da parte di un gruppo di galleristi di Kong Kong si legge: “Negli ultimi sette mesi di sconvolgimenti politici, le nostre gallerie hanno lavorato duramente per ospitare aperture, simposi, conferenze e altri eventi per artisti, collezionisti e visitatori. Nonostante i continui cambiamenti nel flusso del traffico, i mandati del governo e l’affaticamento collettivo, questi programmi sono stati ben accolti e frequentati. La cultura e l’arte occupano un posto speciale all’interno della città e sappiamo che le arti continueranno a prosperare qui.” Molti galleristi locali affermano che, dato l’avvicinarsi della scadenza dell’ultimo pagamento degli stand, le richieste di cancellazione da parte dei galleristi stranieri sono solo una mossa furba per chiedere uno sconto. L’unico timore fondato, infatti, potrebbe essere quello della mancanza di pubblico e di collezionisti, e quindi di un mancato incasso. La cancellazione di Art Basel Hong Kong, però, sarebbe un duro colpo per le gallerie della regione, molte delle quali non possono affrontare il costo della partecipazione ad altre fiere internazionali e fanno affidamento su Art Basel per avvicinare un pubblico nuovo ed internazionale
Dagospia - Ansa il 4 febbraio 2020. Hyundai Motor e la controllata Kia Motors hanno sospeso alcune linee di assemblaggio per la carenza di componenti dalla Cina a causa del coronavirus. Hyundai Motor ha fermato la produzione del brand Genesis all'impianto n.5 di Ulsan, in Corea del Sud. Azienda e sindacati hanno concordato la chiusura progessiva degli altri 4 impianti entro venerdì, giorno in cui si fermeranno altre due strutture, a Jeonju e Asan. Lo stop resterà fino al 10-11 febbraio, sempre che la società i procuri i pezzi necessari per la cablatura da produttori locali. La Casa coreana acquista molti componenti da Cina e Giappone, e si trovò in difficoltà anche quando il terremoto-tsunami di Fukushima nel 2011 mise fuori uso una fabbrica di elettronica che produceva chip. L'epidemia di coronavirus, ha spiegato la società, ha caustato l'interruzione della fornitura di parti per Hyundai, che gestisce 13 impianti in tutto il mondo, di cui sette in Corea del Sud e che nel 2019 ha venduto 4,4 milioni di veicoli. Nella sola Corea del Sud, la produzione si attesta su circa 1,8 milioni di veicoli, ovvero circa 35.000 a settimana. La decisione di Hyundai segue quella dei giorni scorsi dell'annullamento delle ore di lavoro straordinario durante il fine settimana per produrre il suv sportivo Palisade.
Coronavirus, gli effetti sul prezzo della benzina: ecco perché è destinato a calare. Libero Quotidiano il 3 Febbraio 2020. Il coronavirus fa sentire gli effetti dell’epidemia anche in tutti i Paesi produttori di petrolio. Secondo quanto registrato dal settimanale bollettino di Figisc e Anisa Confcommercio (la Federazione Italiana Gestori Impianti Stradali Carburanti) dovrebbe arrivare un'ulteriore riduzione del costo del greggio. Uno "sconto" quantificato in 0,5-0,7 centesimi di euro al litro. Il motivo? L'allarme per l'impatto sull'economia mondiale per il rischio di una diffusione globale del coronavirus. Infatti, gli effetti attuali (e i anche potenziali contraccolpi) dell'epidemia del virus cinese preoccupano – e non poco – tutti i Paesi produttori di petrolio, messi in allarme da un possibile crollo verticale del prezzo dell'oro nero stesso. Lo scrive l'edizione on line del Giornale di lunedì 3 febbraio. Sono previsti infatti degli importanti ribassi, per i primi giorni della prossima settimana il bollettino abituale di Anisa Confcommercio e Figisc segnala appunto un possibile calo dell’ordine di 0,5-0,7 cent al litro. Gli ultimi giorni della scorsa settimana è da ricordare che l’Eni aveva deciso di diminuire i prezzi dei carburanti consigliati ai gestori di un centesimo al litro per quanto riguarda la benzina e il diesel. In questo modo il prezzo medio nazionale praticato in modalità self della benzina è stato portato a 1,472 euro per il diesel e 1,580 euro per la benzina.
AGI il 3 febbraio 2020. - Ammonta a oltre 44 miliardi di euro l'anno il giro di affari tra l'Italia e la Cina. E' su questa cifra, la somma di 13 miliardi di esportazioni e di quasi 31 miliardi di importazioni, che può avere conseguenze negative l'eventuale prolungamento o peggioramento dell'espansione del cosiddetto Coronavirus. Si tratta di un dato in crescita significativa negli ultimi anni (oltre 5 miliardi in più dal 2016 al 2018) che va tenuto in altissima considerazione nella gestione dell'emergenza mondiale del virus cinese: macchinari, alimentari e abbigliamento i settori più significativi. Lo sottolinea il Centro studi di Unimpresa. "La salute delle persone, in tutto il Mondo, è al centro dei nostri pensieri. Non vogliamo, oggi, lanciare allarmi, ma invitare le autorità e le istituzioni, sia italiane sia estere, a occuparsi di questa complessa situazione con prudenza e con la massima attenzione, sapendo che l'emergenza sanitaria può avere effetti collaterali per le principali economie mondiali. In particolare, le micro, piccole e medie imprese italiane, sia direttamente sia come indotto, traggono profitti importanti dal business con la Cina e ciò non va sottovalutato" commenta il presidente di Unimpresa, Giovanna Ferrara. Nel 2018, secondo i dati delle camere di commercio rielaborati dal Centro studi di Unimpresa, il totale degli scambi commerciali Italia-Cina si è attestato a 44,1 miliardi: su tratta di 13,1 miliardi di esportazioni e di 30,8 miliardi di esportazioni. Il valore è in crescita di 5,6 miliardi (+14,6%) rispetto ai 38,4 miliardi del 2016, quando le importazioni arrivarono a 27,2 miliardi e le esportazioni a 11,1 miliardi. Nei primi nove mesi del 2019, le importazioni sono arrivate a 24,2 miliardi e le esportazioni a 9,4 miliardi per un totale di scambi pari a 33,6 miliardi.
Guido Santevecchi per il “Corriere della Sera” il 4 febbraio 2020. La linea critica del 6% di crescita annua per la Cina sembra ormai travolta dalla paura del virus. Non è cinismo occuparsi dei 420 miliardi di dollari persi in un giorno dalle Borse di Shanghai e Shenzhen, pur nel dolore per le perdite umane causate dal Coronavirus. Anche il crollo delle azioni può far male ai cittadini cinesi, oltre che al mondo globalizzato. Ci sono centinaia di milioni di lavoratori nella seconda economia del mondo che stanno soffrendo per la gigantesca quarantena. Le Borse di Shanghai e Shenzhen hanno riaperto ieri dopo il Capodanno lunare prolungato per l' emergenza sanitaria. C' erano state anche polemiche: se uffici e industrie «non essenziali» restano chiusi, perché far rischiare i trader? Il ritorno è stato traumatico: il 7,72% lasciato sul campo ha segnato il peggior giorno dall' agosto 2015, quando era esplosa la bolla della fiducia «nell' immancabile crescita dei titoli cinesi». Quell' illusione nel 2015 era stata sostenuta dalla propaganda statale e pagata da un «parco buoi» di milioni di piccoli e medi risparmiatori. Nel 2015 il governo di Pechino organizzò, più o meno segretamente, una «squadra nazionale» di investitori con la missione di comperare massicciamente per stabilizzare il mercato, in caso di emergenze. La Banca centrale ieri ha cercato di bilanciare lo choc da virus, annunciando un' iniezione da 1,2 trilioni di yuan (156 miliardi) per sostenere la liquidità. Shanghai ha aperto crollando del 9,1%, circa 3 mila titoli sono stati sospesi al ribasso (-10%) e quando c' è stato un recupero di quasi due punti sull' indice, gli esperti hanno visto la mano della «squadra nazionale». Il problema, ora che il primo trimestre 2020 è compromesso, è limitare i danni. Un problema di gestione economica e sanitaria insieme. Si fanno paragoni con la Sars, che nel 2003 cancellò il 2% di Pil cinese e lo 0,1% di quello mondiale. Ma allora la Cina era soprattutto fabbriche ed export: bastò riaprirle per tornare a correre e il 2003 finì al +9,9%. Nel 2003 i consumi interni contavano per il 37%, nel 2019 sono saliti oltre il 57%. Non sarà automatico il decollo post virus. I consumi interni nel Capodanno, il periodo migliore tra acquisti e viaggi (il virus ha già cancellato 25 mila voli), di solito crescono a doppia cifra, quest' anno sono negativi tra il 3 e il 5%, dice l' analista Tian Yun di Pechino. Gli economisti statali prevedono che il Pil 2020, se tutto andrà bene e il virus scomparirà, finirà sotto il 5%. Fabbriche, servizi, trasporti ferroviari e aerei, anche i pullman che collegano Pechino con la sua immensa area da 100 milioni di abitanti tra provincia dello Hebei e porto di Tianjin sono in vacanza a oltranza. Il blocco anti contagio del business «non essenziale» è stato dichiarato in 24 tra province, regioni e grandi municipalità cinesi, su 34. Attività sospese da Shanghai a Chongqing, al Guangdong. Pechino ancora in stato di sonnambulismo. Si calcola che le aree bloccate almeno fino al 10 febbraio, nel 2019 abbiano rappresentato l' 80% del Pil della Cina e il 90% dell' export. Un altro gigantesco problema attende il governo: i lavoratori migranti che erano tornati a casa per il Capodanno e ora dovrebbero rientrare nelle catene di montaggio e negli uffici, nelle città che per trent' anni si sono allargate a dismisura. Sono 288 milioni, su una forza lavoro di 775 milioni: come farli muovere in sicurezza? Senza le loro braccia la Cina va alla paralisi. Il virus è esploso al culmine del «Chunyun», la lunga vacanza che permette alla massa di operai e metalmeccanici che hanno costruito il boom statal-comunista di andare nelle province e nelle campagne dove hanno lasciato genitori anziani e figli piccoli. Ora i migranti interni sono ostaggi della paura che il «demone virus», come lo ha chiamato Xi Jinping, li insegua sulla via del ritorno. Però, il rientro dei migranti interni «dovrebbe essere consentito, con adeguate misure preventive», dice il governo. Wuhan è un grande polo automobilistico, la chiamano la Chicago dello Hubei, con fabbriche di Renault, Psa, Toyota, Honda, Hyundai. Ferme. «Supply chain» globalizzate in ansia, soprattutto in Europa. In un mercato dell' auto cinese già in recessione da due anni. E però, ora che su autobus e metropolitane affollate potrebbe salire il Coronavirus, gli analisti del settore prevedono una possibile spinta per le automobili private: «Acquisti da panico», li chiama Ivan Su di Morningstar.
Guido Santevecchi per il “Corriere della Sera” il 4 febbraio 2020. Cambia routine, per il virus, anche il Ministero degli Esteri di Pechino: ora gli incontri quotidiani con i corrispondenti della stampa straniera si svolgono solo su WeChat. E nell' informativa online, la portavoce diplomatica Hua Chunying ha preso di mira gli Stati Uniti. «Gli americani hanno creato panico e lo hanno diffuso senza sosta», ha scritto Hua. E ancora: «Dagli Stati Uniti non è arrivato alcun aiuto sostanziale». «In questa circostanza i Paesi dovrebbero lavorare insieme, non sfruttare le difficoltà altrui». Il virus della geopolitica è in piena diffusione. Mike Pompeo sostiene che Washington in realtà coopera, mandando aerei a Wuhan per recuperare americani e altri stranieri bloccati nel ground zero dell' epidemia. Pechino risponde che gli americani sono stati i primi a chiudere il loro consolato a Wuhan e andarsene, accrescendo il senso di panico internazionale. E gli Usa sono stati anche i primi a vietare l' ingresso a qualunque cittadino cinese, per motivi sanitari. La Grande Muraglia sanitaria umilia Pechino, che la percepisce anche come un modo di saldare qualche conto in sospeso. La stampa cinese si è sdegnata per l' osservazione di Wilbur Ross, segretario al Commercio Usa: «Il virus è un motivo di riflessione in più per il mondo del business, può essere un' opportunità di riportare posti di lavoro in America». Ma la nuova Muraglia anti-virus è stata alzata subito anche da un Paese alleato come la Russia, che ha chiuso i varchi terrestri lungo i 4.300 chilometri di frontiera. E ha sigillato il confine la Nord Corea, nonostante la Cina sia il grande padrino che salva da 70 anni il regime dei Kim dal collasso economico. È vero che Pyongyang è completamente impreparata a gestire una crisi come il coronavirus, ma Kim Jong-un avrebbe potuto rinunciare a qualche costoso test missilistico e dirottare i pochi fondi nella sanità (forse i cinesi glielo faranno notare, in seguito). Si isola dai viaggiatori cinesi anche Singapore, che ha radici mandarine nel suo sangue e nella sua imprenditorialità. Restrizioni in Giappone e Sud Corea. Hong Kong, che è Cina, continua a ribollire nel suo clima di rancori dopo otto mesi di rivolta. Sciopera il personale ospedaliero che chiede di tenere fuori dall' isola i cinesi continentali malati, per non sommergere il sistema sanitario della City. La governatrice Carrie Lam condanna la protesta, ma ha chiuso 10 dei 14 passaggi tra Hong Kong e la madrepatria. C' è un capitolo italiano. Era appena stato inaugurato l' Anno di Turismo e Cultura Italia Cina. Si puntava a superare quota 3 milioni di visitatori cinesi, ora l' obiettivo è di rimandare a casa le migliaia di persone bloccate per lo stop ai voli diretti con Fiumicino e Malpensa. Si lavorava anche alla visita del presidente Mattarella a novembre. Ora, il capo dello Stato scrive a Xi Jinping ringraziandolo per l' aiuto nel rimpatrio da Wuhan e offrendo solidarietà e aiuti. La Camera di Commercio italiana in Cina interviene con un documento critico sull' emergenza decretata dal governo Conte: «Potrebbe portare a un' evoluzione negativa dei rapporti bilaterali e avere un impatto sulla vita professionale e personale degli italiani in Cina, una volta che la situazione tornerà alla normalità». Bisogna stare attenti, in prospettiva, alla città di Wenzhou, nello Zhejiang. Le autorità si battono per evitare che «diventi la seconda Wuhan» per diffusione del contagio. La gente dello Zhejiang ha grandi rapporti con l' Italia e a Wenzhou potrebbero esserci degli italiani, di cui forse non sappiamo. Prima o poi il virus sarà debellato, e Pechino farà i conti con i vecchi amici che si sono troppo spaventati e con gli avversari che si sono troppo agitati.
Paolo Baroni per “la Stampa” il 5 febbraio 2020. «A febbraio l' anno scorso ci son stati 450-500 mila arrivi. E quest' anno zero! Non c' è un calo, è zero e basta. E riteniamo che almeno nel primo semestre di quest' anno il mercato cinese sarà off limits» sostiene il presidente di Federalberghi Bernabò Bocca tracciando un primo, allarmato, bilancio degli effetti del coronavirus. Una preoccupazione condivisa ai piani alti del governo, tanto che ieri sera il premier Conte ha annunciato la creazione di una «task force» ministeriale «per varare misure di contrasto all' impatto economico dell' emergenza, con riguardo ai settori più direttamente coinvolti».
Pioggia di disdette. Da subito si era capito che il turismo, assieme al comparto del lusso, avrebbe pagato il conto più salato ed ora che il governo ha bloccato tutti i voli diretti con la Cina e sospeso la concessione di nuovi visti i conti sono presto fatti. Il 2020 doveva essere l' anno della Cina in Italia, ci si aspettava di superare quota 4 milioni di turisti, ma anziché un anno record rischia di essere un anno flop. Di qui a maggio Federalberghi Toscana prevede tra 200 mila e 400 mila presenze in meno a fronte di un milione complessivo di presenze annue in regione. A Pisa le stime indicano un calo del 40%. A Venezia l' associazione albergatori parlava di una perdita di almeno 60 milioni di euro e a Roma, stando al presidente della Federalberghi della capitale, Giuseppe Roscioli, la perdita per il solo settore alberghiero potrebbe arrivare anche a 500 milioni di euro. La paura da Coronavirus «non solo ha inciso sui turisti provenienti dalla Cina - spiega - ma sta facendo diminuire anche quelli del Sud-est asiatico, del Giappone e altri Paesi. Arrivano molte cancellazioni e non arrivano nuove prenotazioni». Poi c' è tutto l' indotto, dalla ristorazione al commercio, che a sua volta subisce un immediato contraccolpo. A subire le perdite più forti sarà certamente il comparto del lusso. L' acquisto di questi beni, segnala l' ultimo rapporto della Fondazione Italia-Cina, è infatti «uno dei motivi principali che spinge il turista cinese a viaggiare all' estero, tanto che la quota di acquisti di lusso all' estero del consumatore cinese, seppur in lieve diminuzione negli ultimi anni, vale il 76% dell' intero mercato cinese del lusso». Stando ai dati delle vendite tax free elaborate da Planet Italia i cinesi valgono il 36% del mercato italiano, contro l' 11% degli americani ed il 7% dei russi, ed uno scontrino medio che vale 1.129 euro (+15%). A Milano, la piazza italiana preferita dai turisti per lo shopping, la spesa dei cinesi vale il 27% degli acquisti effettuati da stranieri, con uno scontrino medio di1.316 euro, a Roma il 22 per cento (1.227 euro), a Firenze il 27% (1.150) e a Venezia il 26%, con uno scontrino medio di 1.542 euro.
I conti dell' export Fin qui il contraccolpo immediato. Il resto del conto lo conosceremo un poco più avanti, in funzione della durata della durata dell' epidemia, e quindi del calo dei consumi interni cinesi e a seguire del Pil di Pechino e a ruota del resto del mondo. Da subito però le circa 1600 imprese italiane presenti in Cina scontano certamente il blocco delle attività industriali, cosa che potrebbe compromettere un fatturato di diversi miliardi di euro. Se invece si guarda all' export la frenata cinese mette a rischio un fatturato che nel 2018 ha toccato quota 13 miliardi di euro (a fronte di 31 miliardi di importazioni) e che l' anno passato, nel periodo gennaio-novembre, si è attestato a 11,8 miliardi, con la nostra industria meccanica che ha realizzato la metà degli 11,3 miliardi di euro contabilizzati dall' intero comparto manifatturiero. E che ora guarda con crescente apprensione agli sviluppi di questa nuova crisi globale.
Dagospia il 26 febbraio 2020. Da radiocusanocampus.it. Elena Donazzan, assessore al lavoro e all’istruzione, è intervenuta ai microfoni della trasmissione “L’Italia s’è desta”, condotta dal direttore Gianluca Fabi, Matteo Torrioli e Daniel Moretti su Radio Cusano Campus, emittente dell’Università Niccolò Cusano. Sull’emergenza Coronavirus. “Ai militari è stato chiesto un aiuto per presidiare le strade a Vo’ Euganeo, per noi non si tratta di una misura straordinaria –ha affermato Donazzan-. In Veneto nel momento in cui abbiamo riconosciuto la presenza di alcuni casi abbiamo voluto mettere in sicurezza la nostra gente e il nostro territorio e quando dico il nostro territorio intendo tutta Italia. Il 4 febbraio i governatori di Veneto, Lombardia, Friuli e Trento scrissero una lettera al governo per adottare ulteriori misure di sicurezza per le scuole. Il Ministero della Salute ha risposto in maniera piccata che stavano facendo delle discriminazioni. La sottovalutazione del problema c’è stata, adesso invece c’è forse un eccesso di allarmismo. Se avessimo adottato subito quelle misure magari non avremmo evitato il contagio, ma avremmo evitato il panico. Bisogna avere un piano di emergenza, in particolare su questioni legate al contagio delle persone perché oggi c’è un sistema di mobilità delle persone che in altri tempi non c’era”. Rischio recessione e 60mila posti di lavoro. “Per il Veneto questo è stato un anno orribile. Il Veneto produce 165 miliardi di Pil, se non proviamo ad aiutare le nostre imprese, se l’UE non aiuta l’Italia che è contribuente attivo netto, l’economia del nostro Paese crolla. E’ tempo che quello che abbiamo dato all’Europa ci venga restituito perché ne abbiamo bisogno per sopravvivere. Questa situazione ha un impatto economico devastante per le imprese. La situazione economica è più grave di quella sanitaria, il nostro sistema sanitario è assolutamente efficiente”. Scuole chiuse fino al 1 marzo. “La provvidenza mi è venuta in soccorso perché io metto una piccola sospensione delle lezioni il martedì grasso e il mercoledì delle ceneri, quindi tre giorni li avevo già sospesi dal calendario. Quindi di fatto c’è stata solo un’estensione per 3 giorni e non credo questo sia un problema. Il tema dei 200 giorni non deve essere così vincolante. Se poi la chiusura dovesse essere prolungata, poi ragioneremo con il mondo della scuola, ma non credo sia quello il problema”. Sul campanilismo nord-sud. “Lo trovo terribile. Non ho mai pensato che si dovesse augurare del male a un fratello. Mi piange il cuore quando vedo certi scontri. Quello che si scrive sul web meriterebbe una riflessione e una stigmatizzazione. Non esiste l’Italia senza nord e sud”.
Da “la Stampa” il 26 febbraio 2020. Il Coronavirus è peggio di Hitler. Almeno per i teatri italiani, che funzionarono più o meno regolarmente durante la Seconda guerra mondiale (a parte la Scala sventrata dalle bombe) e adesso in sette regioni del Nord sono chiusi per virus. Come tutto il resto, d' altronde. Alla Scala salta tutto fino a domenica 1° marzo, anche se è quasi certo che l' ordinanza verrà prolungata. Ancora da quantificare i danni per il botteghino, perché la biglietteria è sommersa da richieste d' informazioni (e di rimborsi). In realtà il teatro non è chiuso, è solo chiuso al pubblico. Ieri Damiano Michieletto provava regolarmente la regia di «Salome» che debutta, o dovrebbe, l' 8 marzo e Maurizio Bigonzetti in Sala ballo la coreografia per «Madina», la novità di Fabio Vacchi che «andrà su» il 22. Poi, chissà. E dire che il nuovo sovrintendente francese, Dominique Meyer, entra ufficialmente in carica proprio domenica prossima, in piena pestilenza: pronti, stop. La beffa più beffarda è toccata al «Turco in Italia» di Rossini: un mese di prove, «prima» applauditissima sabato, poi stop. E gratis o quasi, perché in Italia i teatri pagano agli artisti le recite ma non le prove. «Tu lavori, debutti, lo spettacolo piace e poi vai a casa. Che delusione», racconta appunto il Turco, il bravissimo basso Alex Esposito, dalla campagna «perché a Milano negli ultimi giorni sono tutti impazziti, sembrava di stare in un film catastrofico». «Forse, data la psicosi, il pubblico non sarebbe comunque più venuto a teatro. Il dispiacere c' è, però è meglio seguire le indicazioni delle autorità», spiega giudizioso il baritono Mattia Olivieri, beniamino della Scala. Approfitta delle vacanze forzate per studiare un raro Cherubini buffo per il Maggio. «Senta questi versi della mia aria: Vada in malora l' ipocondria / Che sempre offende la sanità». Questi librettisti, sempre sul pezzo...
REGIO TORINO. Anche i sovrintendenti non sono esattamente felici della situazione. Sebastian Schwarz del Regio di Torino si considera fortunato nella sfortuna, perché il blocco è arrivato subito dopo l' ultima di dieci pienissime recite di «Nabucco». «Ho dovuto cancellare soltanto un concerto e delle visite guidate». Però adesso si sta montando una nuova «Bohème» che debutta l' 11 marzo. «Sono dieci serate che al botteghino valgono almeno 900 mila euro». E intanto litiga con i sindacati che vorrebbero lo stop delle prove: «Eh, no. Finché a Torino sono aperti metro, bus, tram e supermercati è più facile contagiarsi lì che al Regio». Dall' altra parte della pianura padana, la Fenice di Venezia ha chiuso domenica dopo un' ultima matinée dell'«Elisir d' amore», date le circostanze un po' spettrale. Il sovrintendente, Fortunato Ortombina, fa due conti: «Fino a domenica prossima mi saltano l' ultimo "Elisir" e due None di Beethoven in Sala grande, e poi due spettacoli di carnevale e due concerti da camera nelle Sale Apollinee, più le visite guidate. Diciamo più o meno 300 mila euro, senza contare i 50 mila euro di Fus (i finanziamenti statali, ndr) che "vale" ogni recita fatta». Per la Fenice come per tutta Venezia, diciamo che piove sul bagnato. La città non si era ancora ripresa dall' acqua granda di novembre che ha depresso il turismo quando è arrivata quest' altra mazzata.
LA FENICE. «Stiamo ancora riparando i danni. Ho fuori uso i computer che governano i ponti mobili del palcoscenico. E devo sistemarli per montare la "Carmen" che apre il 25 marzo». Insomma, è un pianto. Nulla è più malinconico di un teatro che chiude, che poi per chi lo fa e per chi ci va è come chiudere casa. Dopo Bergamo e Trieste, il celebre soprano Carmela Remigio doveva portare la sua «Lucrezia Borgia» al Municipale di Piacenza venerdì e sabato: invece niente Donizetti perché anche l' Emilia-Romagna ha bloccato ogni attività. «Io ci rimetto il cachet e anche l' affitto già pagato dell' appartamento, e va bene. E certo, Piacenza è a 15 chilometri da Codogno. Però non capisco perché i teatri chiudano e le metropolitane siano aperte, i luoghi di cultura sì e i ristoranti no. Tanto più che i teatri italiani non sono certo in buona salute economica». Viene in mente Claudio Abbado quando spiegava inascoltato che i teatri sono servizi pubblici essenziali come i tribunali o gli ospedali. Anche perché così, se non di peste, rischiamo di morire di noia.
Francesco Bisozzi e Claudia Guasco per “il Messaggero” il 26 febbraio 2020. L'Italia in quarantena mette in ginocchio il turismo dopo che paesi come Francia e Inghilterra hanno attivato politiche di isolamento nei confronti di chi ritorna dalle zone della penisola colpite dal coronavirus. Risultato, in queste ore una pioggia di disdette sta falcidiando un settore che conta circa due milioni di lavoratori e vanta un giro d' affari da 146 miliardi di euro. A rischio questa primavera un terzo del fatturato annuo del comparto. Ballano decine di milioni di pernottamenti negli alberghi. E migliaia di agenzie di viaggio rischiano di dover abbassare la saracinesca a causa dell' ondata di panico legata al diffondersi della malattia. «Sono soprattutto gli stranieri a disdire in questa fase, spesso senza una giustificazione valida, dopo che le autorità di molti Stati hanno sconsigliato di effettuare viaggi nella penisola», spiega la vice presidente di Federturismo Marina Lalli. Pesa pure la sospensione delle gite scolastiche che sempre stando ai numeri in possesso di Federturismo muove ogni anno un business da 316 milioni di euro. Per la presidente della Federazione italiana imprese viaggi e turismo Ivana Jelinic, interpellata dal Messaggero, le disdette complessive al momento si attestano attorno al 70 per cento: «Risultano particolarmente esposte al collasso le agenzie di viaggio, che sono circa dodicimila in Italia e contano 60 mila dipendenti. L' emergenza presenta ricadute in tutti gli ambiti. Ci aspettiamo che vengano adottate al più presto misure di sostegno all' altezza della situazione». Per il leader della Lega Matteo Salvini il panico da coronavirus invece è già costato l' 80 per cento di disdette in entrata e uscita. Fari puntati a questo punto sulle misure restrittive adottate dagli altri Paesi che in questo momento danneggiano chi si sposta verso o da l' Itala. A rischio secondo il presidente di Federalberghi, Bernabò Bocca, 40 milioni di pernottamenti. «Siamo molto preoccupati, in pochissimo tempo la situazione è precipitata. Durante i mesi di febbraio e marzo gli esercizi ricettivi italiani ospitano 14,5 milioni di turisti italiani e stranieri». La stagione primaverile, calcola Confesercenti, vale il 30 per cento circa del fatturato totale annuo del turismo. Le imprese turistiche contribuiscono al prodotto interno lordo per il 13 per cento e per il 14,7 per cento all' occupazione nazionale. Nell' occhio del ciclone non solo alberghi e agenzie di viaggio, ma anche bar, ristoranti e attività commerciali. Al governo le associazioni di categoria hanno chiesto perciò di dichiarare lo stato di crisi del comparto e di adottare provvedimenti per tamponare l' emergenza, sospendendo il pagamento di tasse, contributi e mutui ed estendendo l' area d' intervento dei fondi di integrazione salariale. Più nel dettaglio, l' Associazione italiana distribuzione turistica, Assoviaggi, Astoi (l' associazione dei tour operator) e la Federazione del turismo organizzato hanno chiesto alla Farnesina di fare pressione sui Paesi che stanno introducendo blocchi verso l' Italia per cercare di allentare il più possibile le misure restrittive. Non solo. Le associazioni invocano il differimento del pagamento dei contributi previdenziali e del pagamento delle imposte dirette e indirette per un periodo non inferiore a dodici mesi come già avvenuto per gli eventi sismici, la riduzione dell' aliquota Irpef, l' accesso agevolato al credito e la sospensione del pagamento delle rate dei mutui, oltre all' istituzione di appositi fondi dell' Unione europea e di aiuti speciali per gli organizzatori di viaggi (tour operator e agenzie di viaggi) che consentano a questi ultimi di coprire le perdite derivanti dall' acquisto di servizi relativi a viaggi cancellati e di superare le difficoltà nei flussi di cassa per mantenere l' operatività aziendale. Intanto a causa del coronavirus è stato deciso di spostare il Salone del Mobile di Milano dal 21-26 aprile al 16-21 giugno. L' annullamento avrebbe provocato un danno di 120 milioni di euro.
Paolo Possamai per “la Stampa” il 26 febbraio 2020. Due giorni fa, uno dei grandi industriali della siderurgia, faceva circolare tra i suoi contatti in whatsapp un fotomontaggio dell' Ultima cena di Leonardo. Restava solo la tavola imbandita, nessuno degli apostoli e nemmeno Cristo. Una semplice didascalia: «Qui a Milano stiamo esagerando». E adesso lo pensano proprio tutti, tra Lombardia e Veneto, tra quanti hanno la responsabilità di un bilancio. Che sia della grande impresa o di un bar poco importa. «Siamo in presenza di un autentico effetto panico, generato da una comunicazione politica e da ordinanze percepite come eccessive» dice Agostino Bonomo, presidente di Confartigianato Veneto. Che aggiunge: «Spero che i decreti non siano confermati, ne va della vita di migliaia e migliaia di piccole imprese che vivono degli incassi giornalieri per pagare fornitori, dipendenti, mutui, bollette. C' è il concreto pericolo di una crisi gravissima, mai vista, fatta di crollo dei consumi interni e delle esportazioni. Paralisi della vita economica del paese». Lo stesso leit-motiv sta nella lettura che degli effetti delle ordinanze sul coronavirus si è composto Antonio Santocono. Non solo la sua esperienza da imprenditore (fondatore di Corvallis, impresa informatica da 160 milioni di ricavi nel 2018), ma il suo osservatorio da presidente di Camera di commercio di Padova lo portano a un giudizio lapidario. «Siamo a un cortocircuito dell' economia davvero drammatico - sostiene Santocono - dove la combinazione tra il comprensibile panico popolare e la follia di misure politiche del tutto sproporzionate può determinare una crisi senza precedenti. Siamo persuasi che la salvaguardia della salute sia perseguibile senza distruggere il tessuto economico». Ma che riflessi concreti misura sulla sua quotidiana attività? «Che espressione potrei usare se non follia quando le aziende di cui la mia impresa è consulente chiamano per chiedere che non mandiamo tecnici veneti?». Un aneddoto simile lo racconta Vincenzo Marinese, presidente di Confindustria Venezia e Rovigo. Ieri un fornitore croato che doveva consegnare un carico di calce viva a Marghera, sede dell' azienda di Marinese, ha rifiutato la commessa poiché poi al rientro non sarebbe più stato riammesso in Croazia. «Siamo alle prese con una comunicazione folle che rischiamo di non riuscire più a gestire, che alimenterà panico ingiustificato e d' altra parte ci costerà decine di miliardi di danni. Dobbiamo essere consapevoli che l'export riprenderà lentamente e che servirà tanto tempo perché la situazione rientri nella normalità»". Parole non equivocabili, che riflettono in modo vivido l' esperienza di una miriade di industriali che intasano mail e telefoni di associazioni di categoria e camere di commercio. Arrabbiatissimi davanti a chi parla di smart working come fosse la panacea: ma vi pare possibile governare il tornio dal salotto di casa? Chiedono assistenza, informazioni e spingono affinché le organizzazioni di rappresentanza battano i pugni sul tavolo di Giuseppe Conte e Luca Zaia, accomunati per la prima volta nel "pollice verso". E a suo modo anche la richiesta di cassa integrazione formulata dai big bellunesi dell' occhialeria Safilo, De Rigo, Marcolin riflette l' onda Covid-19. La rabbia monta in fabbrica e nelle botteghe artigiane come tra baristi, ristoratori, tabaccai, negozianti. Patrizio Bertin, presidente di Confcommercio Veneto, testimonia «enorme preoccupazione. Rischiamo la catastrofe. La comunicazione politica ha generato una sorta di allarme terroristico. Una onda di tsunami che rischiamo di non recuperare nemmeno in estate. Così muore il Paese. Osservo una anomala sproporzione tra il rischio coronavirus e la certezza della pandemia sulla economia». Ma che accade nei negozi di Bertin in questi giorni? «Ieri non ho incassato nemmeno i soldi per pagare la energia elettrica» risponde il presidente dei commercianti veneti. Che indica nel turismo il settore più terremotato dalle ordinanze anti-Covid 19: «Il turismo si fonda sulla fiducia. Abbiamo terrorizzato il nostro cliente e bombardato la nostra reputazione dinanzi al mondo». Enrico Marchi, presidente di Save, gestore dell' aeroporto di Venezia, a testimonianza dell' impazzimento sistemico in atto e con un mezzo sorriso sulla bocca, segnala che Alitalia ieri ha sospeso i voli tra Roma e lo scalo veneziano, come ha fatto Seul. Nord Italia infetto. Marco Michelli, albergatore a Bibione e vice presidente nazionale di Confturismo, segnala che «stanno arrivando disdette a raffica sulle prenotazioni estive da Germania e Nord Europa, la Pasqua e il ponte di Pentecoste dobbiamo già darle per perse. Le nostre coste e il Garda, oltre a Venezia e alle città d' arte, andranno a picco». Tant' è che la città Serenissima svende a 30-40 euro a notte le camere e comunque segna -40% nelle prenotazioni. «Abbiamo adottato misure draconiane e effettuato migliaia e migliaia di test. Logico che in Germania o in Francia emergano meno casi, visto che non li cercano. Devo sperare che il decreto non venga prolungato perché sarebbe la lastra tombale sulla prima regione turistica italiana» commenta Michielli. Quasi una voce unanime: non replicate le ordinanze!
Camilla Mozzetti per “il Messaggero - Cronaca di Roma” il 29 gennaio 2020. Nel cuore dell'Esquilino, tra le vie che abbracciano piazza Vittorio, i commercianti cinesi restano sull'uscio delle attività. «Non siamo in Cina ma la gente ha un po' di paura», dice uno di loro in via Napoleone III. Non si palesa ancora come una vera e propria psicosi anche se i sintomi sembrerebbero proprio quelli perché la diffusione del coronavirus ha comunque innalzato i livelli di allerta e di preoccupazione tra le persone che frequentano il quartiere, da anni abitato dalla comunità cinese, pur non avendo fatto registrare casi di contagio nella Capitale. Il risultato? I negozi restano vuoti nonostante i prezzi molto convenienti; che si tratti di abbigliamento, calzature, biancheria, «oggi abbiamo battuto appena cinque scontrini», dice la commessa di una delle tante attività commerciali sotto i portici di piazza Vittorio. «C'è la crisi ma gli affari ne stanno risentendo, noi diciamo di star tranquilli non siamo lì, ci troviamo a Roma, i nostri parenti sono a casa laggiù, ma la gente preferisce non entrare, passerà». Ad essere maggiormente colpiti, sono i ristoranti cinesi e non solo quelli dell'Esquilino. Mediamente in tutta la Capitale ci sono oltre 400 esercizi di somministrazione cinesi e in questi giorni le prenotazioni sono crollate del 70 per cento. Vale a dire che sette ristoranti su 10 hanno visto ridurre la clientela a pranzo e a cena e disdire le prenotazioni in una settimana importante come quella del Capodanno cinese, fanno sapere dalla comunità. Tavoli vuoti e cucine ferme «Sta venendo meno gente racconta il titolare di un ristorante sulla Tiburtina qui è tutto sicuro ma il calo c'è». «I clienti più affezionati sono rimasti aggiunge Anna Chiang storica titolare del ristorante Ruyi in via Valadier a Prati Speriamo che le cose migliorino, così è difficile. Da quando si è saputo del virus, tanti tavoli restano deserti». Il fenomeno si è esteso anche a quei bar, gestiti ad esempio, sempre intorno a piazza Vittorio da cittadini asiatici. Per strada, all'Esquilino, si incontra più di un passante con il volto coperto da una mascherina. Italiani e cinesi non c'è differenza. E anche dentro quelle attività che, nonostante la paura, lavorano un po' di più è il caso dei parrucchieri e delle estetiste i dipendenti si proteggono il naso e la bocca. «Solo un'accortezza per chi lavora da noi e per i clienti ma per ogni tipo di virus», spiega il titolare di un salone in via Carlo Alberto. Di certo, «a meno che non sia proprio necessario racconta Nilde P., di fronte agli ex magazzini Mas non entro in questi negozi pur servendomi spesso da loro. Sarà una sciocchezza ma preferisco in questo periodo non avere troppi contatti». Non finisce qui perché oltre ai ristoranti e ai negozi, a restar vuote sono anche le agenzie di viaggio specializzate sull'Oriente. Il coronavirus ha fatto scendere le prenotazioni dei viaggi verso la Cina. Molte delle agenzie che da tempo operano sempre all'Esquilino da via Conte Verde a via Foscolo hanno mediamente registrato un calo e un cambio sulle prenotazione del 5%. «Diversi clienti hanno preferito spostare il biglietto e rimandare al partenza al prossimo mese spiega una dipendente dell'agenzia Lantian cielo blu nonostante i festeggiamenti per il Capodanno cinese. Una scelta personale e precauzionale anche se credo che la situazione sia sotto controllo. I miei genitori sono in Cina, stanno bene ma certamente stanno facendo molta attenzione: restano in casa ed escono di meno».
L'altro contagio, gli effetti del Coronavirus sull'economia. I malati da coronavirus in Cina superano quelli della Sars. Per gli analisti anche l'impatto sul Pil cinese sarà peggiore. Molti grandi gruppi annunciano lo stop alle attività. Giulia Belardelli Giornalista HuffPost il 29 gennaio 2020. Più veloce del nuovo coronavirus, il virus della paura ha già contagiato l’economia cinese e allunga la sua ombra su quella globale. Parallelamente al bollettino dei contagi - quasi 6.200, già più della Sars - aumenta di ora in ora il numero delle aziende che decidono di fermare la propria attività in Cina a causa dell’epidemia. Dal settore auto al trasporto aereo, dalla ristorazione all’arredamento, passando per lo sport: nell’era in cui tutto è interconnesso, il misterioso virus 2019-n-CoV ha già costretto alla quarantena oltre 50 milioni di persone - un fatto senza precedenti nella storia moderna - e minaccia ora di far male - molto male - all’economia cinese, la seconda più potente del mondo. Lo ha detto chiaramente Kristalina Georgieva, numero uno del Fondo monetario internazionale: “anche se l’epidemia si dovesse fermare domani, ci sarebbe comunque un impatto negativo nel breve termine” legato soprattutto alle ripercussioni sul turismo e sul settore manifatturiero. E lo ha confermato anche il presidente della Fed Jerome Powell, che ha esteso le ombre a livello globale: il nuovo coronavirus dalla Cina genera incertezze per le prospettive di crescita dell’economia mondiale, anche se alcuni rischi legati alle recenti tensioni commerciali con il Paese asiatico sono diminuite. “Queste situazioni – ha sottolineato Georgieva - dimostrano che viviamo in un mondo dove c’è sempre più incertezza. Siamo ancora nel primo mese del 2020 e abbiamo già visto quello che è successo con gli incendi in Australia, le tensioni nel Medio Oriente e ora con il coronavirus”. Proprio per questo, ha aggiunto, “bisogna avere politiche più resistenti agli shock”. E quello che sta colpendo l’economia del Dragone è a tutti gli effetti uno shock. Toyota, British Airways, Lufthansa, American Airlines, Klm, Air France. Dopo McDonald’s, anche Starbucks e Ikea. È lunga la lista delle multinazionali che per paura dell’epidemia hanno rivisto la loro presenza in Cina. Senza contare i danni derivanti dallo stop al turismo e dall’annullamento di importanti appuntamenti sportivi, come le prove di Coppa del mondo di sci e la messa in quarantena della nazionale di calcio femminile. Toyota ha annunciato che interromperà la produzione in Cina fino al 9 febbraio, per i timori che l’infezione da coronavirus si diffonda ancora più rapidamente. “Considerati vari fattori, tra cui le linee guida dei governi locali e regionali e la situazione della fornitura di componenti, a partire dal 29 gennaio, abbiamo deciso di interrompere le operazioni nei nostri stabilimenti in Cina fino al 9 febbraio”, ha annunciato il portavoce della casa automobilistica Maki Niimi. “Monitoreremo la situazione e prenderemo eventuali ulteriori decisioni sulle operazioni il 10 febbraio”. Per la stessa ragione un numero sempre crescente di compagnie aeree sta decidendo di sospendere almeno una parte dei voli da e per la Cina. Il caso più eclatante è quello della British Airways, che ha deciso di sospendere tutti i collegamenti da e per la Cina, con effetto immediato e almeno fino al 31 gennaio. Seguono Lufthansa (fino al 9 febbraio) e American Airlines (dal 9 febbraio al 27 marzo per i collegamenti tra Los Angeles, Pechino e Shanghai). Alla lista si aggiungono Finnair, Cathay Pacific, Lion Air. E altre – come Klm e Air France – che annunciano la decisione di “ridurre il numero di voli”.
Aerei a terra e saracinesche chiuse: dopo McDonald’s, annunciano la chiusura temporanea di metà dei loro punti vendita in Cina multinazionali come Starbucks e Ikea. Alla fine del 2019 Starbucks contava in Cina 4.292 negozi, il 16% in più dell’anno precedente. La chiusura, ha precisato la società, avrà un impatto sul trimestre e sull’intero anno fiscale. Stessa decisione - metà dei negozi chiusi - l’ha presa anche Ikea, la multinazionale svedese dell’arredo. Per gli analisti della banca nipponica Nomura, gli effetti del coronavirus sull’economia cinese saranno peggiori di quelli registrati nel 2003 a causa della Sars, con il Pil del primo trimestre 2020 che rischia di “diminuire in modo significativo” rispetto al 6% del quarto trimestre del 2019. L’impatto potrebbe essere anche superiore alla frenata del 2% registrata dall’economia nel secondo trimestre del 2003. Nomura si aspetta che la Cina fornirà abbondante liquidità e credito, specialmente alle aziende più severamente colpite dalla pandemia anche se “sembra improbabile che queste misure possano risollevare l’economia, in quanto l’esplosione dell’epidemia può ulteriormente indebolire la domanda domestica e dunque rendere le politiche accomodanti meno efficaci”. Al coro si uniscono le agenzie di rating. I consumi, uno dei pilastri della crescita in fase di consolidamento, si avviano a subire un netto contraccolpo malgrado l’atteso Capodanno lunare, ha osservato Standard & Poor’s. L’agenzia di rating ha ipotizzato che un calo del 10% della spesa per trasporti ed entertainment impatterebbe di circa l′1,2% sul Pil. “L’avversione al rischio e le condizioni finanziarie più critiche potrebbero amplificare le conseguenze, anche sugli investimenti”, ha rimarcato il report. Intanto, Hong Kong ha perso il 2,82% al ritorno agli scambi dopo la lunga pausa del Capodanno lunare, mentre i listini europei hanno guadagnato sulla spinta della fiducia dei consumatori e Wall Street si è attestata in positivo dopo la decisione della Federal Reserve di tenere fermi i tassi d’interesse nella sua prima riunione dell’anno. Secondo Morgan Stanley però l’effetto coronavirus potrebbe, nel breve termine, incidere anche sulla crescita globale. Dato per assodato l’impatto negativo che l’epidemia avrà sul Pil, sulla portata ognuno dice la sua. Secondo il responsabile per l’azionario asiatico di Columbia Threadneedle, Soo Nam Ng, l’epidemia potrebbe arrivare a ridurre del 20% il Pil cinese del primo trimestre. Più cauto Marcel Zimmermann, gestore del fondo Lemanik Asian Opportunity, secondo cui “le misure prese per combattere il virus hanno sicuramente ridotto la crescita economica” ma “storicamente questi impatti”, al momento non quantificabili, “sono limitati in un contesto di medio termine”. L’economia di Wuhan, isolata e ‘chiusa’ dal governo di Pechino, rappresenta un importante centro logistico, dell’auto e dell’acciaio e contribuisce con 214 miliardi di dollari al Pil della Cina (l′1,6%). Secondo un economista dell’Accademia delle scienze sociali cinese, non è escluso che Pechino possa ricorrere a nuove misure di stimolo per l’economia. Nel quarto trimestre del 2019 la crescita della Cina ha fatto registrare il dato più basso degli ultimi 30 anni, un +6% sul quale ha influito la guerra dei dazi con Donald Trump. Ora l’epidemia da coronavirus potrebbe trascinare ulteriormente al ribasso questa tendenza. “La crescita del Pil nel primo trimestre del 2020 potrebbe essere di circa il 5,0% e non possiamo escludere la possibilità di scendere al di sotto del 5,0%”, ha detto Zhang Ming, studioso dell’importante think tank del governo. Valutazioni però che potrebbero non allinearsi a quelle ufficiali del governo, che non ha ancora rilasciato alcuna dichiarazione sul tema. L’economista cinese concorda con Nomura sul fatto che il coronavirus potrebbe avere un impatto sull’economia cinese significativamente più grande di quello della Sars, la cui epidemia interessò la Cina tra il 2002 e il 2003. Rispetto ad allora in Cina sono aumentati i consumi e la fruizione dei servizi. L’epidemia, che sta colpendo settori quali turismo, trasporti, ristorazione e intrattenimento, potrebbe avere delle ricadute sui posti di lavoro, causando un aumento del tasso di disoccupazione attualmente al 5,3%. Un intervento del governo a sostegno dell’economia potrebbe portare il disavanzo annuale oltre il 3% del Pil. E la Banca popolare cinese potrebbe ulteriormente ridurre i tassi di riserva e i tassi di interesse. Una cura d’emergenza per far fronte all’altro contagio, quello economico, prima che i suoi effetti costringano la leadership di Xi Jinping a rivedere al ribasso le proprie ambizioni.
Roberta Amoruso per “il Messaggero” il 29 gennaio 2020. Un certa prudenza nelle previsioni è d'obbligo, ma quando il coronavirus sarà stato disinnescato si parlerà di effetto transitorio sull'economia cinese e quindi anche su quella globale. Forse, sostengono gli economisti, ci vorranno sei mesi come nel caso della Sars, ma alla fine il coronavirus potrà lasciare il segno su uno o due trimestri, non di più. Va detto, però, che in diciassette anni di globalizzazione molto è cambiato nei pesi del Pil mondiale. E il Dragone è più importante che mai per l'economia globale. Se al momento dell'epidemia Sars, nel 2003, rappresentava il 4,2% dell'economia mondiale e contribuiva per il 18% alla crescita del Pil mondiale, nel 2018 la sua quota di Pil globale era salita al 15,8%, con il 35% della crescita globale targata Pechino. In particolare, il settore terziario del Paese, quello più esposto oggi a questo tipo di epidemia, ha avuto un certo peso nella crescita del Dragone negli ultimi dieci anni: il suo peso è passato dal 41 al 53% e il suo contributo alla crescita è passato dal 46% al 59%. La differenza non è poca cosa. E dunque qualche responsabilità finirà comunque per averla nei tempi della ripresa globale. Non solo perché Pechino acquista quasi 2.200 miliardi di dollari di beni nel mondo, ora in gran parte congelati, come i quasi 2.500 miliardi di export. Ma anche perché fermare la circolazione di 90-100 milioni di cinesi proprio nei giorni del Capodanno cinese vuol dire un colpo secco, seppure transitorio, a turismo e beni di lusso. Senza contare l'effetto pesante sui consumi interni. Sono cose che pesano, anche al tempo del commercio on-line. E come farà poi la Cina a rispettare il faticoso accordo con gli Usa sui dazi? Acquistare 200 miliardi di beni in più rispetto al 2017 nei prossimi due anni sarà un obiettivo difficile da raggiungere. Tra le poche certezze di chi in queste ore si esercita in previsioni, c'è che il nuovo virus cinese si può paragonare alla Sars del 2003, che costò un calo tra l'1 e il 2% al Pil del Dragone. E allora è da questo confronto, con le dovute cautele, che partono le valutazioni di questi giorni. La buona notizia è che il virus di diciassette anni fa aveva una mortalità tripla e non fu affrontato con la determinazione dimostrata in questi giorni dalle autorità cinesi. Quanto agli effetti sul resto della crescita mondiale, si è un po' meno ottimisti. Perché l'effetto sarà anche transitorio per Pechino - probabilmente ridurrà la crescita del Pil cinese sotto il 6%, rispetto al 6,5% previsto - ma ben più difficile è prevedere l'impatto sul resto del mondo. «Né si può escludere una recessione in Europa», osserva l'economista Mario Deaglio in occasione della presentazione del XXIV Rapporto sull'economia globale e l'Italia promosso da Centro Einaudi e Ubi Banca. Se i tempi si allungheranno, dice a sua volta Schroders, ne risentiranno i partner commerciali più coinvolti, dal resto dell'Asia all'Australia, ma anche l'Europa. I rischi per l'economia, e in particolare per quella italiana, secondo Deaglio partono innanzitutto dal turismo: «I cinesi sono al quarto posto come turisti in Italia, se scendono a zero è una bella botta, che quest'anno non riusciremo a recuperare. Ci sono poi decine di milioni di cinesi che non escono da casa né comprano merci italiane». Non bastasse, aggiunge l'economista, «l'Italia produce macchine agricole per il mercato cinese e importa semilavorati tecnici dalla Cina». Un pezzo importante di interscambio che conta 13 miliardi di esportazioni italiane in Cina, contro 30 miliardi di importazioni. Un capitolo a sé è quello del lusso, molto caro all'Italia. Secondo i dati di Planet, l'anno scorso le vendite agli acquirenti cinesi in Europa sono cresciute del 6% rispetto all'anno prima. Non solo. In Italia i cinesi valgono il 36% del mercato tax free, davanti ad americani e russi. Più in generale, la quota di acquisti all'estero dei cinesi vale il 76% dell'intero mercato del Dragone del lusso. Un pezzo di economia che oggi appare completamente congelata.
Da “il Messaggero” l'8 febbraio 2020. Il coronavirus mette a rischio anche le forniture di iPhone. Hon Hai Precision, colosso dell' elettronica di Taiwan conosciuto anche con il nome di Foxconn, produttore di componenti per Apple, ha chiesto ai dipendenti che lavorano a Shenzhen, suo quartier generale in Cina, di non tornare in fabbrica al termine delle festività legate al Capodanno Lunare, già prorogate dal governo di Pechino fino al 10 febbraio per cercare di ridurre l' impatto dell' epidemia. Un fermo della produzione che potrebbe avere conseguenze anche sui prodotti della Mela. La misura serve per contenere la diffusione del coronavirus, che sta paralizzando buona parte dell' industria dell' ex Celeste impero. «Per salvaguardare la salute e la sicurezza di tutti e rispettare le misure di prevenzione del governo, vi invitiamo a non tornare a Shenzhen», ha scritto l' azienda ai dipendenti in un messaggio consultato dall' agenzia Bloomberg. «Vi aggiorneremo sulla situazione della città. La nostra società proteggerà i diritti e gli interessi lavorativi di tutti. Per quanto riguarda la data del felice ritorno a Shenzhen, attendete nuove indicazioni». La più grande base produttiva degli iPhone, di cui Foxconn è uno dei fornitori principali, si trova più a nord, nella città di Zhengzhou, ma a Shenzhen lavora la maggior parte dei dipendenti del gruppo in Cina. Hon Hai intanto ha già ridotto le stime di crescita per quest' anno proprio per le misure adottate per contenere il contagio. La perdita di produzione ha spinto infatti Foxconn a tagliare le previsioni di aumento dei ricavi all' 1-3%, dal 3-5%. Nei giorni scorsi Foxcoon aveva tuttavia assicurato che la produzione di iPhone non avrebbe subito contraccolpi. Intanto il coronavirus rischia di mettere in difficoltà anche Fca. Una fabbrica europea - non si sa quale degli undici stabilimenti del gruppo - potrebbe fermare l' attività se l' emergenza sanitaria peggiorerà e impedirà l' arrivo di componenti dalla Cina.
Manila Alfano per “il Giornale” il 29 gennaio 2020. Tre mesi fa, il centro per la sicurezza sanitaria dell' università americana Johns Hopkins, aveva simulato quello che sta accadendo realmente: l' arrivo di una pandemia. Un virus, moderatamente mite, moderatamente letale ancora sconosciuto, senza possibilità di cura, nessun vaccino per proteggersi. Come il coronavirus, i primi casi sottovalutati, il tempo che passa e il vantaggio regalato al virus che intanto silenzioso dilaga, si diffonde a macchia d' olio, inesorabile. Una simulazione per dimostrare che il mondo non è ancora pronto a reagire a difendersi dalle pandemie, per mettere in guardia le autorità che senza un piano preventivo non si va avanti. Oggi, a tre mesi di distanza, quell' esercitazione teorica con analogie così forti rispetto alla realtà fa ancora più riflettere. E fa paura. Nella finzione, un nuovo virus si sta diffondendo velocemente in tutto il mondo. L' agente infettivo, simile alla Sars, progettato in un laboratorio in Svizzera da un gruppo terroristico, si trasmette da persona a persona principalmente tossendo. I primi focolai a Francoforte, in Germania, e in Sud America, a Caracas, Venezuela. Le truppe americane di stanza all' estero sono già state contagiate. Un caso anche in un campus universitario accende un focolario negli Stati Uniti. È pandemia. Non esistono vaccini, parte una corsa contro il tempo che non c' è. Una simulazione realizzata con veri funzionari del governo degli Stati Uniti per capire come potremmo reagire, quali strumenti avremmo per difenderci. Allora la risposta non era stata delle più positive e l' esercitazione aveva mostrato tutti i lati scoperti del nostro sistema globale. Il virus sottovalutato all' inizio era riuscito a espandersi in tutto il mondo, con effetti nefasti anche sull' economia globale. Come per il coronavirus partito dalla Cina, anche nella finzione, il virus aveva un periodo di incubazione breve, e dunque più difficile da isolare per poter trovare un vaccino. Come nella simulazione, anche nella realtà, la malattia nei primi quattordici giorni di incubazione non mostra i suoi sintomi, eppure è altamente contagiosa. Inquietanti similitudini che mostrano il lato scoperto di un sistema che si mostra quanto mai incapace di reagire, di proteggersi. La lezione dalla Johns Hopkins era piuttosto chiara: non siamo per nulla preparati. «Una volta che sei nel mezzo di una grave pandemia, le tue opzioni sono molto limitate», afferma Eric Toner, uno studioso senior presso il Center for Health Security della Johns Hopkins University. «La miglior risorsa è la pre-pianificazione». La finta pandemia seguita anche dalla Casa Bianca e basata su proiezioni realistiche per l' incapacità di sviluppare un vaccino entro i primi venti mesi aveva provocato virtualmente 150 milioni di morti a livello globale, il 2 per cento della popolazione. Con il coronavirus non sappiamo ancora come andrà a finire. Non è la prima simulazione dal centro Johns Hopkins, che lavora per preparare le comunità a minacce biologiche, pandemie e altri disastri, studi che vengono presi molto sul serio, dalla Casa Bianca che ad esempio, dopo una di queste esercitazioni ha deciso di comprare dosi di vaccino per la popolazione contro il vaiolo. Ieri lo stesso ateneo ha messo in rete un nuovo sistema per il monitoraggio dei contagi. Il coronavirus si sta diffondendo rapidamente, e le case farmaceutiche stanno lavorando giorno e notte per tentare un rimedio. La rivista scientifica Lancet ha riportato la storia di un ragazzino in Cina, senza sintomi che ha infettato il suo intero nucleo famigliare. Un virus che è stato largamente sottovalutato. Prima di dichiarare l' emergenza, le autorità cinesi hanno lasciato partire cinque milioni di persone. Che nel frattempo hanno potuto viaggiare ovunque e indisturbate.
Giusy Franzese per il Messaggero il 25 febbraio 2020. Viaggi annullati, prenotazioni cancellate. Il settore del turismo - che contribuisce intorno al 10% del Pil italiano e dà lavoro a oltre quattro milioni di persone tra fissi e stagionali - è uno dei comparti economici più colpiti dall'emergenza coronavirus. Già il blocco dei voli dalla Cina aveva messo in allarme gli operatori: sui circa 5 milioni di pernottamenti di turisti cinesi attesi nelle città italiane nel corso del 2020 si era calcolato che almeno un 25% sarebbe saltato. Anche perché, come ha ricordato la Fondazione e Camera di Commercio Italia-Cina, circa un quarto di tutti gli arrivi turistici annuali dalla Cina in Italia si colloca storicamente nel periodo tra il 25 gennaio e l'8 febbraio, più o meno in coincidenza con il Capodanno cinese. Adesso però, con l'atterraggio violento del Covid-19 nel lodigiano in particolare e in Lombardia e Veneto in generale, è molto peggio. «In pochissimo tempo la situazione è precipitata» avverte Bernabò Bocca, presidente di Federalberghi. In tutta Italia - ed è comprensibile - i dirigenti scolastici hanno annullato le gite scolastiche. Convegni, fiere e spettacoli sono rinviati a date da destinarsi, ed è così saltato tutto il business di alloggi e ristorazione collegato. Molti paesi - la Grecia, l'Irlanda e la Serbia, ad esempio - stanno sconsigliando ai loro cittadini di venire in Italia. E quelli che decidono di venirci lo stesso, al loro ritorno saranno messi in quarantena. Un deterrente non da poco. Gli albergatori di Venezia, tanto per fare un altro esempio, ieri hanno denunciato di aver avuto in questi pochi giorni già il 40% di disdette. «E il dato va crescendo» dice il vicedirettore dell'Associazione veneziana degli albergatori (Ava), Daniele Minotto. Federturismo fino alla settimana scorsa stimava perdite nel settore per quest'anno di circa cinque miliardi di euro. «Adesso ci troviamo nella condizione di non poter più nemmeno stimare l'impatto a causa della drammatica evoluzione in corso» dice la vicepresidente di Federturismo Confindustria Marina Lalli. La programmazione su ponti primaverili e pasquali è saltata. E si registrano importanti frenate anche nelle prenotazioni del secondo semestre 2020. Le principali associazioni del settore hanno quindi scritto al premier per chiedere lo stato di crisi con misure specifiche e urgenti a sostegno delle imprese e dei lavoratori. «La situazione è fuori controllo e di una gravità assoluta. Noi ci aspettiamo un intervento forte e mirato del governo - dice la presidente di Fiavet, Ivana Jlenic - perché le imprese turistiche non possono essere lasciate da sole. Se crolla il turismo, non ce n'è più per nessuno». «La posta in gioco - spiega ancora Bocca - è molto alta. Basti considerare che durante i mesi di febbraio e marzo gli esercizi ricettivi italiani ospitano 14,5 milioni di turisti italiani e stranieri, per quasi 40 milioni di pernottamenti. Al contrario di quel che si potrebbe credere, non siamo in bassa stagione: per alcune aree del Paese, questo è un periodo di intensa attività. Penso ad esempio al carnevale, alle settimane bianche, alle gite scolastiche e ad importanti manifestazioni fieristiche». Il comparto del turismo in Italia conta quasi 216 mila esercizi ricettivi e 12 mila agenzie di viaggio. Nel 2018 il movimento di passeggeri negli aeroporti italiani ha superato 180 milioni. Quasi 80 milioni transitano per i porti. Circa 75 milioni di escursioni turistiche sono realizzate con l’uso dell'auto e per motivi di turismo il treno assicura 4,5 milioni di convogli.
Francesca Gambarini per corriere.it il 24 febbraio 2020. L’effetto Coronavirus» si abbatte sui mercati mondiali. E l’Italia, che da venerdì è alle prese con la diffusione del virus, è tra i mercati finanziari più colpiti. Piazza Affari ha chiuso una giornata nera con l’indice Ftse Mib in calo del 5,43% a 23.427 punti, dopo essere arrivata a perdere oltre il 6%. La seduta negativa ha causato una riduzione della capitalizzazione del paniere dei titoli principali della Borsa di Milano di circa 30 miliardi di euro. La paura per un’escalation del coronavirus fuori dalla Cina affossa anche le altre Borse europee. L’indice Eurostoxx 600 ha perso il 3,84%. Londra arretra del 3,34% a 7.146 punti. Francoforte cede il 4,01% a 13.035 punti e Parigi il 3,94% a 5.791 punti. Anche Wall Street in picchiata, con perdite intorno al 3% (qui i mercati principali e l’andamento degli indici).
A Milano il decimo ribasso più ampio. Il crollo di lunedì a Piazza Affari, porta il Ftse Mib ad azzerare i guadagni dell’anno in corso. Il calo è il decimo ribasso più ampio degli anni 2000: la seduta peggiore per la Borsa di Milano è stato quello del 24 giugno 2016, quando il Regno Unito ha scelto di uscire dall’Unione Europea e l’indice principale di Piazza Affari ha perso il 12,48%. L’ultimo calo in doppia cifra prima di quello - gli indici erano però calcolati diversamente - fu sempre a giugno, ma nel 1981. L’11 settembre, il giorno dell’attentato alle Torri Gemelle, il calo fu del 7,57%; 3 giorni dopo, del 6,62%. Nel 2008, con la crisi seguita al crack di Lehman Brothers, la Borsa perse l’8,24%; nelle sedute successive i cali furono del 7,14% (10 ottobre 2008), 6,78% (16 ottobre) 6,20% (11 novembre) e 6,26% (1 dicembre). Anche nel 2011 la crisi sul debito italiano spinse Piazza Affari in profondo rosso: il primo novembre la correzione del Ftse Mib era stata del 6,8%. Quello di oggi, dunque, è «soltanto» il decimo ribasso più ampio dal 2000.
Spread a 145 punti. A Milano, dopo un’apertura già molto negativa (-3,4%), la Borsa è peggiorata durante l’arco della giornata: nel pomeriggio, in concomitanza con l’avvio in terreno fortemente negativo dei mercati americani (Dow Jones -3,2%, Nasdaq -4,5%), l’indice principale - ovvero il Ftse Mib - era arrivata a cedere il 6%. Intanto lo spread fra Btp e Bund tedeschi staziona a quota 145 punti, con il rendimento del decennale allo 0,96%.
«L’Italia verso la recessione». L’impatto dei contagi da coronavirus per l’Italia non si limita ai mercati finanziari. Ad aggravare la situazione contribuisce anche l’economia reale, con la recessione «tecnica» data quasi per scontata dopo il -0,3% del quarto trimestre 2019. E un 2020 che va verso la crescita negativa, con stime fra -0,5% e -1%: sono queste le prime stime degli economisti sull’impatto dei contagi in Italia. Se, dopo il -0,3% segnato nell’ultimo trimestre del 2019, il pil italiano dovesse subire una nuova contrazione nel primo trimestre sotto il peso dell’emergenza, il paese entrerebbe tecnicamente in recessione, segnando due trimestri consecutivi con il segno meno, con Lombardia e Veneto che da sole rappresentano circa un terzo del pil nazionale (leggi l’articolo completo). Il coronavirus ha «chiuso» il Nord-Est. Vale a dire la parte più forte del Paese che da solo vale oltre il 30% del Pil e il 40% delle esportazioni. Il governo sta cercando di rimediare annunciando la sospensione di tributi e bollette per tutta la «zona rossa» che si concentra nel Lodigiano.
Banche e lusso. A Piazza Affari, segno negativo per tutte le blue chips, con un particolare accanimento per le vendite sui titoli del lusso, gli industriali e i finanziari. Male i finanziari con Nexi a -8,61%, Unicredit -4,13%, Ubi Banca -6,55%, Intesa Sanpaolo -5,75%, Generali -5,40% Unicredit ha diffuso in mattinata una nota per confermare la volontà del ceo Mustier di rimanere alla guida del gruppo. Contengono le perdite i titoli più tradizionalmente difensivi, come le utility (Enel, Italgas, Hera, Terna, A2A). Male invece - fuori dal listino principale - le azioni di Fiera Milano (che ha rinviato «Mido», l’esposizione dell’occhialeria) in ribasso dell’11,5%. Giù anche il comparto lusso, visto che le ricadute economiche del coronavirus sul comparto potranno essere rilevanti: interruzioni della produzione e ritardi nella fornitura e possibili cali della domanda sono gli effetti più ovvi, ma danni potranno arrivare anche dalla cancellazioni di fiere e sfilate (a Milano, per esempio, vari stilisti come Armani hanno fatto sfilate a porte chiuse) e dalla mancata presenza di buyer cinesi, solitamente tra i più attivi.
Il caso Juventus. Crollo per Juventus Fc, unico titolo del listino principale con una perdita a doppia cifra. Il titolo del club bianconero ha perso l’11,83% con l’annuncio della chiusura del museo del club e con la possibilità di disputare le prossime partite di campionato a porte chiuse. Male, come detto, il lusso (Moncler -5,36%, Ferragamo -8,90%), gli industriali (CnhI -7,65%, Fca -6,13%). Telecom Italia ha perso il 3,97%, mentre tra gli energetici Enel ed Eni hanno chiuso in calo rispettivamente del 4,90 e del 4,67 per cento.
Compagnie aeree ko. La diffusione del coronavirus e le misure prese per limitare i flussi di viaggiatori stanno avendo pesanti conseguenze sui titoli delle compagnie aeree e delle società di trasporto, dei tour operator e delle catene alberghiere, in tutto il Vecchio Continente, dove il settore viaggi è il piuù penalizzato insieme alle società minerarie e all’automotive. Il sottoindice Stoxx600 «Travel&Leisure» cade del 5,6%. A Londra perde del 12% Easyjet, del 10% Ryanair e del 7,3% Iag (British Airways, Iberia, Vueling, Aer Lingus), il gruppo crocieristico Carnival cede oltre il 6% e il tour operator Tui l’8,4%. Male anche il gruppo di hotel e ristoranti Whitbread (-5,6%) e il colosso alberghiero Intercontinental Hotels (-6%). A Parigi Air France-Klm cade del 9,7%, a Madrid -6,4% per Melia Hotels. A Piazza Affari Atlantia, che gestisce gli aeroporti romani di Fiumicino e Ciampino, perde il 4% e l’Enav scivola del 3%. Secondo gli analisti di Banca Imi, il titolo della società di gestione del traffico aereo in Italia potrebbe essere impattato in modo marginale dalla riduzione dei volumi di traffico e quindi dei servizi forniti dalla compagnia anche se la più bassa attività tradizionale nei primi mesi dell’anno dovrebbe contenere gli effetti sul business.
L’Asia in rosso. Stesso effetto, in chiusura dei mercati, lunedì mattina in Asia. L’alert sul coronavirus diramato in Corea del Sud, il Paese più colpito al di fuori della Cina, ha scatenato forti vendite alla borsa di Seoul. L’indice azionario benchmark Kospi ha perso fino a -3,74%, zavorrato, tra gli altri, dai titoli del colosso automobilistico Hyundai Motor (-3,91%). Lo won sudcoreano si è indebolito a 1.217,85 per dollaro. In picchiata i titoli delle compagnie aeree Korean Air Lines -5,52% e Asiana Airlines -5,54%. Reuters ha riportato che entrambe le compagnie aeree sudcoreane hanno annunciato che sospenderanno i voli a Daegu, la quarta città più grande della Corea del Sud, con il numero più alto di persone infettate dal coronavirus. Il colosso degli smartphone sudcoreano Samsung ha annunciato sabato che un caso di coronavirus è stato confermato presso il suo complesso per la produzione di telefonia mobile in Corea del Sud; il titolo ha ceduto più del 2,5%. Fanno meglio i listini cinesi di Shanghai (-0,31%) e Shenzhen (+1,24%) per la percezione che l’espansione del virus stia rallentando nel Paese, anche se non sono state allentate le misure di sicurezza per la città-madre del contagio, Whuan. Chiusa la Borsa di Tokyo per festività.
Oro alle stelle.Continua intanto il boom delle quotazioni dell’oro. I prezzi del contratto spot sono volati nella giornata di ieri di oltre 30 dollari o +1,83%, salendo fino a $1,679,70 l’oncia, al record dal 6 febbraio del 2013, dunque in sette anni.
Petrolio giù. Durante la giornata, il petrolio affonda a New York, dove le quotazioni perdono il 4,29% a 51,08 dollari al barile. I future su Wall Street viaggiano in forte calo in scia all’impennata dei casi di contagio da coronavirus al di fuori della Cina.
Coronavirus e crollo del petrolio mandano in tilt le borse, in rosso anche Wall Street. Redazione de Il Riformista il 9 Marzo 2020. La Borsa lunedì 9 marzo apre con una profonda crisi. Complice l’esplosione de coronavirus in Italia e in Europa e anche la guerra del petrolio aperta dal mancato accordo tra Opec e Russia sui tagli alla produzione di greggio per sostenere il prezzo del barile. Piazza Affari parte con -10,6%, mentre lo spread tra Btp e Bund tedeschi schizza a 220 punti. Dalla chiusura sotto i 180 di venerdì sera è calato sotto 210. Il rendimento del decennale raggiunge l’1,3%. In un messaggio il Tesoro cerca di rasserenare il clima dichiarando che si impegnerà “affinché venga approntato in tempi rapidi un pacchetto di misure dell’Unione Europea in coordinamento con l’intera comunità internazionale”. Dei quaranta titoli che compongono il Ftse Mib, il listino principale della Borsa di Milano, solo Tenaris non riesce ancora ad entrare in contrattazione, per gli altri – molti quelli sospesi in asta di volatilità – fioccano invece i ribassi in doppia cifra percentuale, con Eni e Saipem che perdono oltre 20 punti. Nel resto d’Europa, Francoforte cede il 7%, Londra l’8,45% e Parigi cede il 6,42%. Dopo una minima stabilizzazione, il petrolio ha visto le quotazioni crollare di nuovo sui mercati asiatici: il barile di greggio Wti – la qualità americana – ha scontato un ribasso fino al 33 per cento. Una mazzata che non si vedeva dal 1991, ai tempi della Guerra del Golfo, che l’ha portato a vedere quota 27,3 dollari al barile: minimi dal 2016. I rendimenti dei titoli di Stato americani crollano con la fuga ai beni rifugio innescata dal crollo delle borse per il coronavirus. I rendimenti sui Treasury a 10 anni calano allo 0,5% per la prima volta nella storia, quelli sui Treasury a 30 anni affondano sotto l’1%, anche in questo caso è la prima volta. I future sui listini di Wall Street accentuano le perdite. Quelli sullo S&P 500 arrivano a perdere il 5%, mentre quelli sul Dow Jones perdono 1.119 punti.
L’allarme di Confesercenti: “Col Coronavirus a rischio 8 miliardi di Pil e 30mila attività”. Redazione de Il Riformista il 7 Marzo 2020. L’emergenza Coronavirus si prolunga, e l’impatto sull’economia peggiora: se la ‘fase acuta’ dell’allarme da contagio dovesse durare fino ad aprile, sarebbero a rischio 6,5 miliardi di consumi, interni e turistici, e 8 miliardi di Pil nel semestre. A stimarlo è Confesercenti, rivedendo le stime iniziali dell’associazione rilasciate il 25 febbraio, basate su un’ipotesi di un’emergenza più breve di quanto sia ora lecito supporre. Se, come sembra, l’allarme coronavirus dovesse protrarsi con l’attuale intensità fino al prossimo mese, ad aggravarsi sarebbe infatti anche l’impatto sui consumi turistici (-5 miliardi) e interni (-1,5 miliardi). La flessione, insieme al calo degli investimenti, porterebbe alla perdita di 8 miliardi di euro di Pil (-0,3%) e alla possibile chiusura di 30mila imprese. A essere coinvolti in diverso grado dalla frenata, settori che raccolgono circa un milione di attività: oltre al turismo, commercio, pubblici esercizi, servizi e trasporti. Stimiamo 2 miliardi di euro in meno di consumi per le imprese ricettive e 1,3 miliardi in meno per bar e ristoranti, mentre per agenzie di viaggio e tour operator la perdita è di 342 milioni. Per i negozi il calo è di 748 milioni di euro, 586 per i trasporti. L’impatto è concentrato principalmente nelle regioni del nord e nelle città d’interesse turistico. “Dal punto di vista economico, tutta l’Italia sta diventando una zona gialla, rossa nelle città d’arte”, commenta Patrizia De Luise, Presidente di Confesercenti. “Contenere i contagi è prioritario e gli imprenditori sono in prima fila per dare il proprio contributo, consapevoli della situazione straordinaria. Ma anche determinati a far sopravvivere le imprese: il punto è garantire la continuità delle attività economiche al di là dell’emergenza. I 7,5 miliardi di euro in arrivo dal governo sono una risposta importante, ma potrebbero rilevarsi insufficienti se il trend dovesse continuare a lungo”. “La priorità – continua De Luise – è agire sul fronte bancario, sospendendo le rate dei finanziamenti e agevolando il credito. Ma serve anche uno stop adeguato al fisco e l’estensione degli ammortizzatori sociali a micro imprese e autonomi. Poi, visto che siamo di fatto isolati dal mondo, il rilancio della domanda turistica interna: la nostra proposta è di scontare l’IVA a chi compra una vacanza presso una struttura ricettiva o un’agenzia di viaggio in Italia, e di permettere alle famiglie di detrarre il restante costo del soggiorno. Se possibile già da Pasqua, per favorire il riavvio della stagione turistica”.
Concerti rimandati, nessuna tutela: i lavoratori della musica dal vivo rischiano di scomparire. Eventi posticipati al 2021, locali chiusi, indennità insufficienti. E maestranze ferme da febbraio. Senza aiuti e con il sommerso in crescita, in 200mila fra fonici, addetti alle luci e tour manager sono in crisi. Ma anche i cantanti soffrono. Patrizio Ruviglioni su L'Espresso il 18 settembre 2020. Riparte la cultura, hanno riaperto cinema e musei, ma per la musica dal vivo – dopo un'estate di convalescenza ed esperimenti, con eventi in versione lite e a capienza ridotta – l'autunno sembra allontanare il ritorno alla normalità. Da ottobre, infatti, in calendario ci saranno pochissimi appuntamenti: alcuni sono stati annullati, molti altri posticipati al 2021, per quanto ancora nessuno sappia con certezza quando si potrà riprendere a pieno regime. Quasi fosse un nuovo lockdown, che però riguarda solo i concerti. «La verità è che, in queste condizioni, col pubblico contingentano di un terzo, non è sostenibile suonare nei palasport e nei grandi locali tipici della stagione che sta arrivando», spiega all'Espresso Demetrio Chiappa, della Fondazione Centro Studi Doc. La loro stima – riferita all'intero mondo dello spettacolo – è di 200mila lavoratori intermittenti, in un totale di oltre 400mila impegnati nel settore dell'eventistica. Sono le maestranze, e rappresentano ciò che si muove alle spalle degli artisti, ovvero musicisti e dj, ma anche fonici, tour manager, addetti alle luci, elettricisti, scenografi, sarti, assistenti e montatori di palco. Qualificati e altamente specializzati, sono raggruppati in cooperative per motivi di semplificazione burocratica, attivandosi su chiamata in base alle richieste dei cantanti. E scontano più di tutti la crisi: fermi da febbraio, col reddito di ultima istanza per i lavoratori colpiti dall’epidemia come unica indennità per i mesi di marzo, aprile e maggio (ottenuto tra l'altro a fatica, dopo una difficile equiparazione alle partite Iva), i mille euro una tantum del Decreto agosto per l'estate e la prospettiva di un inverno da disoccupati. Lamentano di essere trattati come hobbisti e non come professionisti, quindi senza riconoscimenti specifici, nonostante siano il motore di un settore che – col proprio silenzio – secondo Assomusica l’estate scorsa ha segnato un rosso di circa un miliardo di euro, di cui 600 milioni relativi all’indotto. Ora ci si aspetta che continueranno a ricevere i 600 euro insieme agli autonomi, ma entrambe le categorie, dice Chiappa, «non potranno lavorare davvero almeno fino a primavera, ed è comunque tutto avvolto nell'incertezza. Una situazione insostenibile, insomma».
Un problema di occupazione. Intanto, si naviga a vista: nell'impossibilità di usufruire delle classiche location, alcuni organizzatori ne stanno sperimentando di nuove, mentre i piccoli locali valutano se protrarre fino a dicembre gli show outdoor, che garantiscono un afflusso di spettatori maggiore e più sostenibile rispetto a quello imposto dall'indoor. Rigorosamente seduti, ovviamente distanziati. Il modello è la Germania, dove di solito si suona all'aria aperta anche a dicembre. «E a noi, in questo senso, sta andando bene: coi grandi eventi fermi, in molti hanno iniziato a usufruire dei nostri servizi da 250-300 paganti, in cui al momento vince la creatività di chi organizza», racconta Alessandro Bottai di OOOH.Events , una piattaforma di bigliettazione indipendente. Operatori come lui sono fra i pochi, nel settore, ad avere visto una crescita dei fatturati con la pandemia. «Chiaro: come tutti, col lockdown abbiamo temuto di cambiare mestiere. Ma ora club e artisti di nicchia sono tornati, scegliendoci per i servizi di ticketing». Il problema, semmai, è la latitanza delle popstar: senza i loro show l'occupazione delle maestranze «resterà molto bassa», puntualizza Chiappa, perché quelle produzioni assorbono «fino a trecento operatori l'una», mentre complessivamente dietro agli eventi di musica popolare lavorano in 60mila. E, nel frattempo, non è neanche detto che i soldi basteranno. Le piccole venue – fra crisi di liquidità e chiusure – provano a fare affidamento sui 10 milioni stanziati dal Mibact, convertendosi anche al food & beverage. Il fondo Music innovation hub, supportato da Spotify e promosso dalla FIMI (Federazione industria musicale italiana), ha invece raccolto oltre 500mila euro per le maestranze, con appuntamenti di solidarietà come i Seat Music Awards (due serate in diretta dall'Arena di Verona su Rai 1, il 2 e il 5 settembre scorso, con share rispettivamente del 22% e del 20%) e Heroes – Il futuro inizia adesso (6 settembre), il primo grande live italiano in streaming a pagamento. Entrambi hanno visto la partecipazione di decine di artisti (da Zucchero a Gianna Nannini, da Ligabue a Tiziano Ferro), a prova di quanto le difficilotà siano percepite anche fra i cantanti stessi, eppure le prospettive per il futuro latitano. Prova a immaginarle La musica che gira, un coordinamento di addetti che da un lato chiede sussidi a fondo perduto, riconoscimenti che ancora mancano, sgravi fiscali, e dall'altro propone riforme del settore e investimenti su innovazione e tecnologia. Ma per Doc, comunque, il prossimo inverno sarà «una stagione disperata, in cui c'è persino il rischio della crescita del sommerso. Quei pochi chiamati in causa, infatti, cederanno al ricatto di alcuni service, che per risparmiare pagheranno in nero». Un altro ostacolo, questo, per una mappatura degli operatori già difficile per la diversità delle mansioni in ballo, ma essenziale per garantire a tutti le tutele necessarie.
Stare fermi. Giordano Tricamo è tour manager per Teresa De Sio, organizzatore di concerti, batterista e direttore di una scuola di musica, dividendosi «per necessità e passione, fra partita Iva e intermittenza». La sua è una delle tante storie di precariato, fra multi-committenza e mobilità. Spiega: «Magari lavori tantissimo l'estate, guadagni bene, ma poi non sai che ne sarà in autunno. E le banche faticano a vedere in te una garanzia. Prima del lockdown avevo 15 date in programma come tour manager e un'altra situazione in rampa di lancio: ho perso tutto senza avere niente in cambio. E l'Inps mi nega i sussidi: come libero professionista (in veste di organizzatore, nda) perché essendo anche iscritto a una cooperativa come intermittente (da tour manager, nda) risulto dipendente, ma ovviamente senza cassa integrazione; e come intermittente stesso, continuando a rifiutare le richieste senza addurre motivazioni». Non è l'unico: in tanti, fra gli operatori, lamentano ritardi o esclusioni dalle indennità. Se non altro, l'estate gli ha dato la possibilità di organizzare un festival nella sua città, a Civitavecchia, seppur fra difficoltà burocratiche e tempi ristrettissimi. «È servito per pagare i debiti, perché le spese, soprattutto con la scuola, non sono mai mancate. Però ora sono di nuovo fermo: ho seguito un solo live come tour manager in tutta la stagione, e per l'inverno non se ne prospettano altri». È lo stesso destino che si aspetta Marco Dal Lago, fonico intermittente già con Elisa e Fiorella Mannoia, fino a poche settimane fa in tour con Francesco Gabbani. «Il lockdown è stato durissimo economicamente e mentalmente, ho perso delle date e ora dovrò restare a casa almeno fino alla prossima primavera», dice. «Certo, tornare in giro è stata una boccata d'ossigeno anche a livello morale, perché il nostro è un mestiere difficile, spesso compensato dalla passione, e io sono stato uno dei pochi ad aver avuto entrate quest'estate». Per questo pensa che in inverno prenderà il sussidio di disoccupazione, ma il punto resta la mancanza di prospettive: «I concerti prevedono l'aggregamento di persone per loro stessa natura, quindi, per una vera ripartenza, serve un vaccino, o un miracolo». E a rimetterci, comunque, sono anche gli stessi artisti, soprattutto emergenti e indipendenti: «Scrittura e registrazione di un disco valgono fino a due anni di lavoro, con costi da sostenere da soli o dall'etichetta, e che punti a recuperare con gli appuntamenti dal vivo, visto che le copie fisiche non si vendono più e lo streaming paga pochissimo in proporzione agli ascolti», racconta Colombre, nel 2017 in finale al Premio Tenco come miglior esordiente. Lo scorso 20 marzo ha pubblicato il suo secondo album: «Non rimandarlo, durante la pandemia, era questione di onestà, e non me ne sono pentito. Anzi: mi ha avvicinato agli ascoltatori. Però senza concerti i nostri piani sono saltati: per fortuna siamo rientrati con le spese quest'estate, quando mi sono messo in gioco con uno spettacolo nuovo, senza la band al completo ma con due archi; fra mascherine, distanziamento e formazione ridotta, sono stati show simbolici, non live veri. Ed è chiaro che, come i tecnici, anche i cantanti senza suonare vanno in crisi, oltre a perdere un passaggio fondamentale della promozione e dalla costruzione del rapporto coi fan. Per l'inverno non si sa nulla: un locale, in cui avrei dovuto suonare nel tour che da primavera ho rimandato a ottobre, nel frattempo ha chiuso; di cosa stiamo parlando?». Per arrivare almeno a primavera, dice allora Dal Lago, occorrono ammortizzatori sociali. Quelli, oppure reinventarsi. Tricamo: «Nei prossimi mesi mi occuperò solo della scuola, cercando di recuperare gli investimenti persi. Con le incognite del caso, ovviamente; ma non possiamo fermare anche l'insegnamento». «In effetti, dedicarsi a professioni collaterali potrebbe essere una delle soluzioni più percorse», conferma Chiappa. Finché poi, alla ripresa, non bisognerà vedere chi – di questo personale – risponderà ancora presente, fra locali che chiudono e festival in crisi per mancanza di sponsor. Citando il motto del flashmob che lo scorso giugno ha messo in silenzio il mondo dei live per un giorno, in segno di protesta verso l'assenza di tutele, si rischia un futuro “senza musica”. E senza chi, a quella musica, contribuisce in prima persona.
Paolo Giordano per il Giornale il 9 marzo 2020. La musica è rimasta in silenzio. Oltre al quotidiano e drammatico bollettino di contagi, il coronavirus provoca ogni giorno la cancellazione o il rinvio di concerti, eventi e pubblicazioni di dischi. Non è un problema vitale, si dirà, dei concerti si può fare a meno. Ma è un danno enorme a un settore già in crisi che dà lavoro a migliaia di famiglie. La lista di tour annullati o rinviati è lunghissima, e non riguarda soltanto artisti di casa nostra. Carlos Santana, per esempio, ha annullato il concerto di Bologna del 14 marzo e anche Avril Lavigne non sarà a Milano il 15 e il 16. Per quanto riguarda gli italiani, l' elenco è lunghissimo perché, specialmente dopo il Festival di Sanremo, sono decine i cantanti che avevano in programma date oppure eventi promozionali. Tutti rinviati, spesso a data da destinarsi. Francesco De Gregori ha annullato il tour americano e rinviato ad aprile/maggio le date italiane, i Pinguini Tattici Nucleari torneranno sul palco a ottobre, la Pfm a maggio, i Modà in autunno, i Subsonica ad aprile/maggio, Anastasio a ottobre, Raf e Tozzi a maggio, Le Vibrazioni con Peppe Vessicchio ad aprile, Gigi D' Alessio a maggio/giugno, Aiello e Gabry Ponte annullati, Junior Cally da aprile passa a ottobre. I Negrita si sono fermati e anche Brunori Sas ha posticipato le date di Bologna, Torino, Milano e Jesolo ad aprile. In sostanza è un calendario in continua evoluzione e non promette risvolti positivi nei prossimi mesi, anche perché, specialmente nel caso di tournèe internazionali, la programmazione è fatta con anticipo notevole e, al momento, incompatibile con l' evoluzione della situazione sanitaria. Secondo le stime dell' Agis (Associazione generale italiana dello spettacolo) che si basano su dati Siae, entro la fine di febbraio sono stati cancellati 7400 spettacoli sul territorio italiano. E il dato è in continua evoluzione. Per Assomusica, che è l' associazione degli organizzatori e produttori di spettacoli dal vivo, la perdita nel settore musicale ammonta già a circa 10 milioni di euro mentre la ricaduta sulle città che avrebbero dovuto ospitare gli eventi cancellati arriva a circa 20 milioni di euro. Nel complesso, a inizio marzo il danno era già di oltre 30 milioni di euro. Una cifra destinata a crescere in modo esponenziale. Clemente Zard, managing director di Vivo Concerti, conferma che «è un momento molto particolare nel mercato dei live, stiamo ottemperando alle disposizioni governative ma ovviamente fare una previsione non è così semplice. E questo non vale solo per noi organizzatori ma per tutte le categorie di fornitori e partner con cui lavoriamo: produzione, catering, tecnici e maestranze». Il panorama è quello di un settore al momento paralizzato che comprensibilmente non riesce ancora a riprogrammare con esattezza il prossimo calendario. Incertezza pura. Oltretutto, come riportano i dati, non si è soltanto fermata la vendita dei biglietti per eventi in queste settimane, ma risulta ferma anche quella per i concerti autunnali. In sostanza, il 2020 rischia di essere l' anno zero della musica dal vivo che, tra l' altro, è il principale motore economico del settore. Una volta era la vendita dei dischi a sostenere il mercato. Da qualche tempo quel ruolo è stato preso dai concerti, che però ora sono bloccati fino al 3 aprile e comunque in dubbio anche nelle settimane successive. È una situazione inedita che sta trasformando l' Italia nella «zona rossa» del pop internazionale. Un danno che purtroppo sarà difficile annullare in tempi brevi.
Isidoro Trovato per corriere.it il 17 marzo 2020.
Clausola coronavirus. Le chiusure ordinate dal governo per l’emergenza coronavirus stanno ponendo una serie di problemi a cascata, non solo economici ma anche contrattuali. Molti negozi e insegne in franchising sono costrette alla chiusura ma prolungata ma hanno contratti di royalties e diritti che andrebbero comunque pagati. Lo stesso vale per i negozi che stanno all’interno di centri commerciali e outlet. Adesso sono in tanti ad appellarsi a una sorta di «clausola coronavirus» . Abbiamo chiesto ai legali dello studio Legance qualche chiarimento.
Acquisizione di azienda o società. Che impatto può avere l’emergenza sanitaria sui contratti in corso? Molto dipende dalla natura del contratto e dalle specifiche prestazioni poste a carico delle parti. In alcune contratti aventi a oggetto operazioni straordinarie (come ad esempio l’acquisizione di un’azienda o di una società), è possibile che la rilevanza di quanto sta accadendo possa configurare una cosiddetta «MAC», una Material Adverse Change, ossia un cambiamento significativo delle condizioni macro-economiche che, a seconda di come è stata formulata la clausola, potrebbe consentire ad una delle parti (normalmente l’acquirente) di rifiutarsi di completare l’operazione.
Negozi e insegne in franchising. E per chi non ha clausole specifiche? Esistono motivi di recesso per negozi e insegne in franchising? Anche laddove il contratto non contempli una clausola Mac (Material Adverse Change), non è irragionevole ritenere che una parte possa ritenere che l’emergenza in corso sia di tale gravità da determinare la risoluzione del contratto, perché divenuto oramai eccessivamente oneroso o perché essa non è più in grado, malgrado ogni sforzo, di adempiere alla sua prestazione. Se, ad esempio, dovesse effettivamente essere ordinato il blocco di gran parte delle attività produttive, in una o più aree del territorio nazionale, come potrebbe imputarsi ad un fornitore la mancata consegna di una partita di merce?
I costi di gestione. A parte queste ipotesi estreme, vediamo molti negozi e ristoranti chiudere perché, con un’affluenza di consumatori ridotta al minimo, non riescono più a far fronte ai costi di gestione. Un negoziante, che gestisce il suo negozio in locazione, che tutela ha in questi casi? Può innanzitutto invocare la possibilità di recedere per gravi motivi. La legge sull’equo canone (L. 392/78) prevede infatti che, a prescindere da qualsiasi previsione in senso contrario del contratto, qualora ricorrano gravi motivi, il conduttore può sempre recedere dalla locazione, con un preavviso di sei mesi. La giurisprudenza ha tradizionalmente identificato, per gravi motivi, quelle circostanze sopravvenute e imprevedibili, al di fuori del controllo del conduttore, che rendono non più sostenibile la prosecuzione della locazione. Non vi è dubbio che la pandemia che stiamo subendo rientri ampiamente nelle prime due categorie, mentre spetterà al conduttore provare che il calo dei consumi o la forzata chiusura del locale sia di tale gravità da rendere intollerabilmente gravosa la prosecuzione della locazione. Ricordo che la giurisprudenza ha sempre concesso con il contagocce questo rimedio: mi sento pertanto di dire che qualche giorno di obbligata chiusura potrebbe non essere sufficiente per invocare il recesso. Altro punto di attenzione: questa norma consente solo di recedere dalla locazione ma non dà diritto a rinegoziare il canone anche se, nella mia esperienza, molto spesso una ragionevole offerta di revisione del canone da parte del locatore consente di preservare la locazione.
Consulenza giuridica. Che consiglio si può dare agli imprenditori in difficoltà in questo momento? Di non assumere decisioni di natura legale improvvisate, sull’onda dell’emotività che questa situazione sta causando. Il quadro normativo cambia, letteralmente, ogni giorno e occorrerà ancora attendere qualche settimana per giungere ad un assetto legale consolidato.
Lorena Loiacono per “il Messaggero” il 5 aprile 2020. Le scuole, chiuse da settimane, aspettano di riaprire. Ma non tutte ce la faranno: ce ne sono migliaia che rischiano di restare chiuse per sempre. Sono le private e le paritarie che, senza aiuti concreti, potrebbero davvero non riaprire mai più e così sarebbero migliaia i bambini a restare senza scuola. Un problema che parte dai nidi, tra cui il 60% è privato, e arriva fino ai licei. E' un grido di allarme in piena regola quello che si sta levando tra le strutture private: gli asili nido privati non percepiscono più la retta dalle famiglie e, in questo modo, potrebbero avere vita breve. Visto che devono comunque continuare a pagare l'eventuale affitto, non essendo considerati negozi, oltre agli stipendi e alle bollette. Basti pensare ad esempio che una struttura per l'infanzia, che accoglie mediamente 40 bambini in uno spazio di 300metri quadri, in una grande città arriva a pagare anche 3-5mila euro di affitto al mese. Qualora i nidi riaprissero a settembre, dopo 6 mesi, si tratterebbe di pagare solo di affitto 20-30mila euro senza aver percepito alcuna retta dalle famiglie. Impossibile. E migliaia di genitori allora, che a settembre potrebbero tornare a lavorare, non saranno nella condizione di farlo visto che le strutture private avranno chiuso i battenti. E sarà ancora più difficile trovare posti nelle strutture pubbliche: la disponibilità di posti nei nidi comunali, infatti, è ben al di sotto della richiesta. Sei strutture su 10 sono private. Sono circa 13.500 i nidi privati, a cui si aggiungono le scuole materne private per i bambini dai 3 ai 6, le ludoteche e gli spazi be.bi. Per un totale di oltre 20mila imprese, ora a rischio. L'allarme quindi riguarda sia chi lavora nelle strutture, che resterà senza stipendio, sia le famiglie che resteranno senza assistenza. «E' impossibile resistere per 6 mesi restando chiusi spiega Barbara Basile, portavoce del comitato del Lazio di Educhiamo che raccoglie oltre 1500 strutture per l'infanzia private di Italia purtroppo una buona metà già sta valutando la possibilità di non riaprire. E sarebbe un danno gravissimo: se davvero vogliamo far ripartire l'economia, pensiamo anche alle famiglie che si troveranno in difficoltà». A settembre infatti migliaia di genitori, che saranno nella condizione di tornare a lavoro, non potranno farlo perché si ritroveranno senza i nidi dove portare i bambini. «Chiediamo alle istituzioni un serio intervento spiegano dal comitato ad esempio un contributo a fondo perduto per fronteggiare tutte le spese, rapportato al fatturato». Il problema riguarda anche le strutture paritarie che vanno dall'infanzia alle scuole superiori: in Italia sono frequentate da quasi 900 mila ragazzi, oltre 1 su 10 tra gli studenti italiani. Molti genitori, in difficoltà economiche in questo periodo, stanno pensando di non confermare le iscrizioni dei figli nelle scuole paritarie per poi spostarli alla scuola pubblica. Le famiglie che frequentano le scuole paritarie si stanno organizzando in un Comitato dei presidenti dei consigli di istituto: «tanti genitori hanno le attività ferme, con inevitabili difficoltà a pagare le rette spiegano i promotori la prevista detrazione del 50% delle rette andrà sulla dichiarazione dei redditi 2021 ma potrebbe non bastare: serve un intervento immediato per aiutare le famiglie in difficoltà. Pensiamo ad una sorta di fondo salva-scuole, anche per evitare la possibile migrazione dalla paritaria alla scuola pubblica con tutte le conseguenze che comporterebbe. Un ulteriore problema potrebbe presentarsi nei prossimi mesi e per il prossimo anno scolastico». Per le scuole pubbliche, infatti, in questo periodo dell'anno non è semplice aprire nuove sezioni in tempo per settembre prossimo. «Rischiamo di dover affrontare un enorme problema spiega Stefano Sancandi, dirigente del liceo scientifico Primo Levi di Roma e coordinatore della rete di scuole pubbliche di un vasto territorio che riguarda la possibilità delle scuole pubbliche di assorbire alunni dalle paritarie: esiste un problema di numeri e di tempi. Ci sono scuole che non hanno aule disponibili, oltre a quelle già in uso, ma anche gli istituti che dispongono di locali in esubero comunque non avrebbero i docenti necessari per attivare nuove classi. La pianta organica dei docenti dell'anno 2020-2021 viene strutturata ora, in base alle iscrizioni già effettuate. Se tra luglio e settembre si presentassero decine di alunni per ogni scuola, non avremmo i docenti necessari per accoglierli. La scuola non è un semplice travaso, quindi si creerebbe un problema enorme».
Addio matrimoni, senza cerimonie sfumano 20 miliardi. Viviana Lanza Redazione de Il Riformista il 16 Aprile 2020. C’è tutto un mondo attorno ai matrimoni. È un indotto fatto di tante imprese, grandi e piccole, che forniscono servizi e prodotti per soddisfare le esigenze dei futuri sposi. È un settore che fattura miliardi di euro ogni anno e dà lavoro a milioni di lavoratori, fra professionisti, artigiani e maestranze. Ed è un mondo che in questo periodo vive sospeso in un limbo di preoccupazioni e incertezze e teme di essere ignorato dalle istituzioni. “C’è assoluta mancanza di provvedimenti per il settore wedding da parte delle istituzioni”, denuncia lo stilista di abiti da sposa Gianni Molaro che ha due atelier tra Napoli e Roma e ora si fa portavoce delle ansie e dei timori dei lavoratori di un settore capace di generare sempre grande occupazione. Adesso che l’emergenza sanitaria consente di pensare alla cosiddetta fase 2 e che le istituzioni stanno elaborando iniziative per consentire all’economia di rimettersi in moto dopo lo stop imposto dalle più stringenti misure adottate per contenere i rischi di contagio da Covid-19, ci sarà da pensare anche alle sorti degli operatori del settore del wedding. “Il governo – spiega Molaro – sta progettando la ripartenza di alcune piccole produzioni, tuttavia occorre dare anche la possibilità di raggiungere l’acquirente finale ovvero, nel caso specifico, di trovare soluzioni per permettere alle coppie di sposarsi con tutti gli investimenti che conosciamo”. Non basta, dunque, pensare di poter rinviare le nozze di qualche mese, occorrono misure per evitare che le ricadute della pandemia in termini economici e occupazionali abbiano effetti irrimediabili. Per comprendere le dimensioni del problema basta considerare alcuni dati. I mobilifici, nell’anno 2018, hanno fatturato 7,5 miliardi di euro, di cui 4 miliardi in Italia, e il 90% dell’arredamento viene acquistato da future coppie di sposi. Sempre nel 2018 i fiorai italiani hanno fatturato 5 miliardi di euro, provenienti per la maggior parte dai 196mila matrimoni celebrati. Esistono 700 aziende italiane, tra piccole e medie, che producono bomboniere, con circa 6mila punti vendita sparsi su tutto il territorio nazionale che registrano un fatturato di circa 800 milioni di euro offrendo occupazione a circa 30mila persone, mentre i fotografi fatturano, ogni anno, circa 400 milioni di euro unicamente grazie al settore wedding. Per non parlare dell’edilizia, fra idraulici, elettricisti, fabbri, falegnami, imbianchini, e dell’intera filiera di produzione delle materie prime. “Vogliamo parlare del comparto gioielleria? Oppure dei viaggi di nozze? – chiede lo stilista – I viaggi sono bloccati, per il momento, ma si potrebbero veicolare in buona parte nella nostra nazione, così da risolvere, seppure in parte, le difficoltà del settore turistico per quest’anno”. “Inoltre – aggiunge – ci sono estetisti e parrucchieri che da sempre, grazie ai matrimoni, mantengono una gran parte del loro fatturato”. C’è un mondo, dicevamo. Di cui fanno parte anche tutti coloro che si occupano di noleggio di auto, della stampa delle partecipazioni, della musica per l’intrattenimento, delle società di animazione. “E infine, ma non ultimo, c’è il mondo della moda da cerimonia, che in Italia ha svariati miliardi di fatturato, e di noi produttori di abiti da sposa – conclude Molaro – Dal governo vogliamo direttive certe per coloro che sono in procinto di sposarsi così come per tutti noi operatori del comparto”.
· La Mazzata sui lavoratori…di più sulle partite Iva.
Coronavirus, il Governo stanzia 25 miliardi per l’emergenza: “Nessuno perderà il lavoro”. Redazione de Il Riformista l'11 Marzo 2020. Conferenza stampa a Palazzo Chigi con il presidente del Consiglio Giuseppe Conte che ha annunciato l’approvazione di uno stanziamento “di 25 miliardi da non utilizzare subito ma poter utilizzare per far fronte a questa emergenza sanitaria ed economica che ha un forte impatto sociale”. Conte ha sottolineato la massima apertura dall’Unione Europea “per far fronte alla conseguenze sociali ed economiche”. “C’erano in collegamento von der Leyen e Lagarde, abbiamo concordato che è necessaria una maggiore liquidità e adottare tutti gli strumenti a disposizione per far fronte all’emergenza”, ha spiegato il presidente del Consiglio.
LE MISURE ECONOMICHE – Il ministro dell’Economia Gualtieri ha spiegato che il Consiglio dei ministri ha approvato un’integrazione alla relazione al parlamento, portando lo scostamento a 20 miliardi di indebitamento netto e 25 di maggiori stanziamenti di bilancio. Le risorse stanziate, ha aggiunto Gualtieri, “verranno usate in parte nel primo decreto che puntiamo ad approvare venerdì, che dovrebbe avere a disposizione risorse per 12 miliardi”. “Il primo decreto userà la metà delle risorse vedremo come si alzerà il deficit. É ancora prematuro indicare il livello di deficit che verrà raggiunto”, ha precisato Gualtieri. Lo stesso ministro ha annunciato che “i principi sono quelli che abbiamo già indicato: risorse per il sistema sanitario e Protezione civile”. Gualtieri ha ricordato come occorra “ringraziare medici e infermieri che si stanno adoperando per l’emergenza in Italia”. “Nessuno perderà il lavoro per il Coronavirus – ha quindi aggiunto – Il governo si muoverà il sostegno alle imprese, per interventi sulle scadenze fiscali e anche in preparazione di maccanismi di parziale ristoro per territori e imprese maggiormente colpiti da coronavirus”. “Anche alla luce dell’impegno dell’Ue alcuni interventi è possibile usufruiscano di risorse comuni europee per alleggerire l’impatto sul bilancio dello Stato che è comunque in grado di sostenere questo sforzo”, ha aggiunto il ministro.
AMMORTIZZATORI SOCIALI E VOUCHER – Nella conferenza è intervenuta anche la ministra del Lavoro, Nunzia Catalfo: “Come ministero del Lavoro stiamo preparando ed elaborando norme che vadano a tutele di famiglie e imprese con ammortizzatori sociali, una cassa in deroga speciale che vada a tutelare tutti i lavoratori indipendentemente dal settore cui appartengono su tutto il territorio nazionale. Ci saranno congedi parentali speciali o in alternativa il voucher babysitter e poi norme su stagionali e autonomi con previsioni di sospensione di versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali”. Il Consiglio dei Ministri ha approvato lo stanziamento straordinario di 25 miliardi di euro per far fronte alle difficoltà che il Paese sta vivendo a causa del #coronavirus. Stiamo facendo tutto ciò che è necessario, con ogni strumento a disposizione. Insieme ce la faremo.
LE RESTRIZIONI – Conte è poi intervenuto sulle misure più restrittive chieste da Lombardia e Veneto nella giornata di martedì. “Ieri c’è stata una videoconferenza con tutti i governatori, ho dato mandato al ministro della Salute Speranza che ha sentito Fontana, al quale ha chiesto di sollecitare per avere le sue formali richieste”. Conte ha comunque sottolineato che “non c’è alcuna chiusura verso eventuali misure più restrittive. Abbiamo già adottato un decreto per tutta la penisola, siamo disponibili a seguire l’evolversi del contagio”. Dal premier è arrivato anche un appello alle varie parti politiche per fare fronte comune “Mi rivolgo a coloro che partecipano al dibattito pubblico. Bisogna procedere con grande attenzione e senso responsabilità, abbiamo come obiettivo prioritario quello di tutelare la salute dei cittadini, ma teniamo conto che ci sono altri interessi in gioco: quando ci sono misure restrittive dobbiamo tener conto anche delle libertà civili e di impresa, dobbiamo sempre procedere con attenzione. Stiamo attenti e non affidiamoci a reazioni emotive”, ha ricordato il presidente del Consiglio.
Giuliano Balestreri per businessinsider.com il 12 marzo 2020. “Nessuno deve perdere il lavoro per il Coronavirus”: l’appello disperato del ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri, rischia di cadere nel vuoto proiettando l’Italia in una drammatica spirale negativa. Anche perché lo stesso ministro cade in contraddizione quando promette lo “stop alle rate sulla prima casa per 18 mesi per chi perde il lavoro”. D’altra parte l’emergenza sanitaria ha trasformato l’intera Penisola in un enorme zona rossa all’interno della quale si può circolare solo per “comprovate esigenze”. I negozi vuoti sono quindi solo l’altra faccia delle medaglia rispetto alle code davanti agli alimentari. Già la scorsa settimana, in Lombardia, l’attività dei distributori dei carburanti si era dimezzati, adesso – dice il sindacato dei gestori – “è vicina allo stallo. Aprire è diventato un costo. E utilizzare solo la modalità self service impedisce l’uso, per esempio ai disabili. Siamo in crisi”. Nel capoluogo lombardo sono sempre di più i ristoranti che hanno annunciato la chiusura fino alle fine dell’emergenza: un po’ per la tutela della salute, ma soprattutto per “l’impossibilità di rispettare le norme imposte”. A pagare il conto della crisi, però, saranno soprattutto i dipendenti: nella migliore delle ipotesi saranno chiamati a smaltire ferie e permessi – spostando in avanti il problema della gestione dei figli, quando sarà estate -, altrimenti resta l’ipotesi della cassa integrazione. Che però deve essere finanziata. “Anche prima del decreto, l’imposizione delle ferie era una prerogativa del datore di lavoro: è il primo strumento con cui le imprese cercheranno di resistere all’ondata d’urto della crisi” dice Carlo Majer, partner dello studio legale Littler, specializzato in diritto del lavoro: “In questo momento la sopravvivenza dell’azienda è il primo problema di manager e imprenditori. Purtroppo ci sono ancora tanti settori nei quali lo smart working non è applicabile e molte imprese devono fronteggiare un problema produttivo”. I numeri sono impressionanti: secondo l’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano, lo scorso anno, i lavoratori “agili” in Italia erano appena 570mila. Un numero in crescita del 20% rispetto al 2018, ma ancora risibile a fronte dell’intera popolazione. Anche perché è difficile capire quanti potrebbero realmente accedere a questa modalità di lavoro: “Se ci riferissimo ai soli “white collar” operanti in realtà con almeno 10 addetti – si legge sull’Osservatorio -, potremmo affermare che in Italia ci sono circa 5 milioni di lavoratori dipendenti che potrebbero accedere allo Smart Working, il che ci porterebbe a stimare una penetrazione attuale di circa il 10%. Questa analisi, tuttavia, rischia di essere limitata in prospettiva futura: infatti le nuove tecnologie abilitano cambiamenti profondi nell’organizzazione del lavoro (si pensi ad esempio alla multicanalità, al 3D Printing o all’Intelligenza Artificiale) destinati a rivoluzionare gli stereotipi sulle professionalità, rendendo flessibili e basate sull’informazione tantissime mansioni fino ad oggi ritenute rigide e vincolate, come quelle di operai, manutentori, addetti al retail e operatori di sportello. Se dunque allargassimo la platea dei potenziali smart worker anche oltre i confini settoriali comunemente considerati, sarebbe possibile stimare in Italia un numero di lavoratori molto più elevato, in prospettiva assai vicino al totale dei circa 18 milioni di lavoratori dipendenti presenti in Italia”. Insomma in prospettiva futura la platea potrebbe allargarsi a tutti o quasi, ma anche allargando al massimo le maglie del lavoro solo il 45% circa dei lavoratori può operare da remoto: un po’ perché mancano i progetti in questo senso, un po’ perché manca la cultura. “Con la tecnologia che abbiamo oggi a disposizione possiamo fare praticamente tutto da remoto, ma serve una cambio di passo mentale” dice Enrico Noseda, Chief Innovation Advisor di Cariplo Factory che poi aggiunge: “Bisogna imparare a lavorare in maniera più efficiente, valutando i risultati e non il tempo passato alla scrivania”. Nel frattempo, però, a pagare il conto sono tutti quelli che oggi non possono aggrapparsi al lavoro flessibile e ai quali le aziende stanno chiedendo di rimanere a casa: chi può brucia tutte le ferie rimaste, altri sfrutteranno congedi e permessi e tutti gli altri? Chi non ha figli o ha esaurito il monte ferie?
Congedo parentale. “Laddove non c’è un divieto di lavorare il rapporto di lavoro continuerà – spiega Majer – Le aziende che hanno problemi produttivi probabilmente lasceranno a casa i dipendenti pagandoli comunque. La risoluzione del rapporto di lavoro non sarebbe conveniente per nessuno. L’alternativa è legata all’intervento del governo sul fronte della cassa integrazione che da un lato sgraverebbe l’impresa dall’onere contributivo e dall’altro integrerebbe lo stipendio dei lavoratori”. Kiko, la catena di profumerie del gruppo Percassi, per esempio ha deciso di chiudere tutti i propri punti vendita fino al prossimo 3 aprile senza però far pesare la decisione sui dipendenti: resteranno a casa senza bruciare permessi o ferie. Bioesserì, invece, ricorrerà alla cassa integrazione: e così faranno molti dei ristoranti che hanno deciso di chiudere. Si salveranno quanti riusciranno a lavorare con le consegne a domicilio. Destino identico per i lavoratori dello spettacolo i attesa di capire quando ripartiranno le produzioni teatrali, cinematografiche e televisive rimarranno a casa e in virtù dei loro contratti atipici, molti perderanno il lavoro. Tutti gli altri, invece, avranno il problema di come gestire i figli quando ad agosto le scuole saranno chiuse e loro non avranno né ferie né congedi.
Coronavirus, ecco i rischi e le conseguenze per i lavoratori autonomi e le partite Iva. Franco Scarpelli, Professore di Diritto del lavoro all’Università di Milano-Bicocca, è avvocato del lavoro e tra i fondatori del network di studi Legalilavoro, rete nazionale di studi legali che assistono lavoratrici, lavoratori e organizzazioni sindacali, e Gionata Cavallini, Avvocato giuslavorista presso lo Studio Legalilavoro di Milano e dottore di ricerca in diritto del lavoro presso l’Università degli Studi di Milano, su Il Fatto Quotidiano l'11 marzo 2020. Le misure via via più restrittive per governare l’emergenza sanitaria impattano su tante attività produttive, ridotte o sospese. Molto si sta discutendo delle conseguenze per imprese e lavoratori dipendenti: ma quali sono le conseguenze e i rischi per i lavoratori autonomi?
Coronavirus, sospensione del lavoro, assenze e retribuzione: ecco cosa prevede la legge: Qui possiamo dare qualche indicazione generale, fermo restando che possono esserci differenze di regole caso per caso e per tipologie di lavoro autonomo (autonomi occasionali, collaborazioni coordinate e continuative, collaboratori in partita Iva, professionisti e autonomi classici). Una distinzione importante, come si dirà in conclusione, è poi quella tra rapporti di lavoro autonomo genuini o non. I provvedimenti di queste settimane contengono una sola misura di sostegno ai lavoratori autonomi, ovvero quella dell’art. 16 del d.l. del 2 marzo, che aveva previsto (solo per i lavoratori operanti nelle vecchie “zone rosse”) il diritto a una indennità mensile pari a 500 euro, per un massimo di tre mesi. Difficile immaginare che una simile misura possa essere estesa all’intero territorio nazionale: il costo sarebbe davvero elevato. Il vasto mondo dei lavoratori autonomi è messo a rischio da numerosi fattori: eventi incidenti sulla sfera personale (malattia o quarantena); eventi riguardanti l’impresa committente (sospensione delle attività, obbligatorie, per scelta o per oggettiva impossibilità); limitazioni alla circolazione nei territori nei quali debba essere svolta la prestazione. In generale, nei rapporti di lavoro autonomo il rischio grava sul lavoratore, compreso quello di non poter svolgere la prestazione per cause che lo riguardino, tra cui la malattia. Il cosiddetto Statuto del lavoro autonomo (legge n. 81/2017) prevede però che la malattia del lavoratore autonomo che presti un’attività continuativa non determini l’estinzione del rapporto, la cui esecuzione può essere sospesa su richiesta del lavoratore, senza diritto al corrispettivo e al massimo per 150 giorni, salvo che il committente provi di non avere interesse alla continuazione del rapporto. L’impossibilità di svolgere il lavoro per effetto dei provvedimenti restrittivi del governo è un rischio a carico del lavoratore autonomo. Va però detto che, poiché questi si obbliga a un risultato, e non dovrebbe essere soggetto a direttive o vincoli di tempo e luogo, in molti casi potrà offrire la prestazione con modalità compatibili con le prescrizioni imposte dalle autorità. Potremmo dire che lo “smart working”, che nel lavoro dipendente è oggetto di un accordo, nel lavoro autonomo è una modalità quasi naturale: dunque il collaboratore che proponga al committente di svolgere la prestazione a distanza, ove sia possibile, avrà diritto al compenso anche in caso di rifiuto. Laddove invece la prestazione divenga solo parzialmente impossibile per qualunque motivo (impossibilità parziale ex art. 1464 c.c.) si potrà convenire una riduzione del corrispettivo, e il committente potrà recedere dal contratto solo se dimostra di non avere interesse a tale adempimento parziale. Se invece è il committente che non può ricevere la prestazione, per una causa a lui imputabile, come quando sospenda l’attività senza esservi obbligata, e al di fuori delle ipotesi di oggettiva impossibilità, il prestatore avrà diritto ad essere pagato. In tutti questi casi valgono comunque i principi generali di correttezza e buona fede, nel rispetto dei quali ciascuna parte del rapporto dovrà sforzarsi di adottare approcci tesi a salvaguardare la posizione dell’altra parte. Alcune tecniche di tutela per gli autonomi, pertanto, esistono, ma è innegabile che questi ultimi si trovino spesso in una condizione di maggior debolezza rispetto ai lavoratori dipendenti. Diventa quindi ancor più importante verificare se, al di là della forma contrattuale formalizzata tra le parti (co.co.co., collaborazione occasionale, partita Iva), le effettive modalità di esecuzione del rapporto siano coerenti e compatibili con la forma prescelta, o non nascondano invece un rapporto di lavoro subordinato. Se così fosse, il prestatore autonomo che sia lasciato senza lavoro e senza corrispettivo potrà contestare la forma contrattuale adottata e richiedere le tutele previste per i lavoratori dipendenti. Ricordiamo poi che c’è una figura particolare, quella dei collaboratori che lavorano con modalità organizzate dal committente, per la quale è la legge stessa a prevedere l’applicazione della disciplina del lavoro subordinato (art. 2 d.lgs. 81/2015, assurto di recente a notorietà con il caso dei riders di Foodora). Facendo un esempio, se un’impresa sospende l’attività e chiede la cassa integrazione per i dipendenti, mentre “lascia a casa” i collaboratori autonomi questi ultimi, nell’ipotesi appena accennata, potrebbero pretendere le stesse tutele o un risarcimento equivalente. Certo, il quadro normativo è frastagliato e complesso, e anche in questi casi è meglio evitare le tutele “fai da te” e rivolgersi a un buon ufficio sindacale o a un avvocato del lavoro.
Coronavirus, il governo si scorda del popolo delle partite Iva. Anche se molti professionisti sono costretti a chiudere i propri esercizi a causa del coronavirus, questi dovranno comunque rispettare le scadenze fiscali e versare gli anticipi. Federico Giuliani, Giovedì 12/03/2020, su Il Giornale. Le misure messe in campo dal governo a sostegno dell'economia italiana, vessata dall'epidemia di coronavirus, sono un primo passo necessario ma ancora insufficiente. Il problema principale è che molti annunci sono più di forma che non di sostanza, come sottolinea il quotidiano La Verità. Partiamo dalla cifra stanziata per far fronte al tonfo provocato dal Covid-19. Quei 25 miliardi di euro, apparentemente non distanti dai 30 richiesti dal centrodestra, sono spalmati su due anni. Morale della favola: quest'anno saranno disponibili solo la metà dei denari promessi. Scendendo nel dettaglio, notiamo altre incongruenze. Prendiamo i mutui. In un primo momento sembrava che la moratoria delle rate valesse per tutti, o almeno per i residenti delle zone d'Italia più colpite dal coronavirus. Non è così, perché mentre per Codogno e comuni limitrofi era stata disposta la “temporanea sospensione dei pagamenti”, niente di tutto questo varrà per il resto del Paese, neppure per il resto della Lombardia. Chi è che potrà ritardare i pagamenti? Non tutti ma solo alcune categorie di persone - fra cui chi ha perso il lavoro – e per giunta relegate all'interno di una precisa fascia di reddito. Gli altri, nonostante le difficoltà, dovranno rispettare le scadenze bancarie come da calendario. Discorso simile anche per le tasse. Il fisco continua a tenere il fiato sul collo dei contribuenti anche al tempo del coronavirus. La promessa di sospendere le imposte in tutto il Nord sembrano destinate a rimaner tali, soprattutto per il popolo delle partite Iva. Ovvero: professionisti, artigiani, commercianti. In poche parole: chi rischia di subire una batosta più pesante degli altri.
Il coronavirus colpisce le partite Iva. In altre parole, oltre agli effetti diretti del coronavirus - riassumibili in meno affari, lavori sospesi, negozi chiusi e via dicendo - c'è da considerare le tasse. Anche se molti possessori della partita Iva sono costretti a tener chiusi i propri esercizi, questi dovranno rispettare tanto le scadenze fiscali quanto versare gli anticipi. Poco importa se l'incasso sarà irrisorio o, nella maggior parte dei casi, nullo: neppure il coronavirus, in questo caso, è riuscito a smuovere il calendario fiscale. Nel frattempo il viceministro dell'Economia, Antonio Misiani, ha spiegato su Radio Anch'io, in onda su Rai Radiouno che il governo sta ragionando in queste ore in merito proprio al problema legato alle partite Iva. "L'alternativa - ha spiegato - è fra strumenti di sostegno del reddito e sgravi fiscali, ma sicuramente saranno previsti interventi anche per questa tipologia di lavoro". "Dobbiamo poi garantire la liquidità alle imprese - ha proseguito - dobbiamo estendere il fondo di garanzie per le Pmi, stiamo costruendo con Abi e Bankitalia una moratoria per tutti i finanziamenti e le linee di credito del mondo delle imprese. E lavoreremo anche per rinviare il pagamento di alcune imposte, perchè l'imperativo è mettere il sistema produttivo italiano di reggere l'urto e ripartire il prima possibile".
· Il Supply Shock.
Il “SUPPLY SHOCK”. Ben Winck per businessinsider.com il 7 marzo 2020. Le ricadute dell’epidemia di coronavirus in corso stanno spingendo diversi osservatori a lanciare nuovi avvertimenti su una possibile recessione globale a pieno titolo. E gli economisti temono che l’inversione di tendenza non somiglierà a quelle sperimentate negli ultimi tempi. L’epidemia ha già portato le società a ridurre le proprie aspettative a breve termine riguardo al fatturato, e ha spinto gli analisti a rivedere al ribasso le stime relative alla crescita globale. Lo spettro di una contrazione economica è calato rapidamente su quella che molti, appena un mese fa, consideravano una sana espansione. Gli esperti adesso si stanno affrettando a formulare diagnosi sul rischio economico complessivo associato al coronavirus e a identificare le prime zone in cui si materializzerà. Le recessioni del passato hanno avuto inizio a seguito di un drastico indebolimento della spesa al consumo, che ha costretto le aziende a far fronte a un calo del fatturato e ha innescato un pericoloso circolo vizioso a base di ridimensionamento del personale, rallentamento dell’attività di acquisto di beni e contrazione economica. Le pressioni che gravano sulla domanda e sull’offerta possono rafforzarsi a vicenda, mettendo le banche centrali nella difficile posizione di alleviare lo stress prima che si aggravi. Ciò che rende unico il coronavirus è il fatto che sta iniziando ad avere ripercussioni sia sul fronte della domanda sia su quello dell’offerta. La cosiddetta “distruzione della domanda” dovuta agli ordini di quarantena relativi alla Cina rappresenta una grave minaccia a breve termine, hanno scritto gli analisti di Morgan Stanley in una nota venerdì scorso, aggiungendo che l’attività di consumo sarebbe calata nettamente nei settori del turismo, dell’intrattenimento e della vendita al dettaglio di oggetti fisici. Ma lo scombussolamento delle attività manifatturiere “avrà un impatto molto più ampio sull’economia globale tramite gli effetti di spillover sulle filiere globali”, ha affermato il team diretto da Chetan Ahya, chief economist di Morgan Stanley.
Analisi del supply shock. Gli ultimi dati economici provenienti dalla Cina indicano che i problemi relativi all’offerta in questo Paese sono tutt’altro che finiti. L’indice Pmi manifatturiero in Cina è sceso a 35,7 punti a febbraio dai 50 punti del mese precedente, segnando il livello più basso dal 2004. L’attività manifatturiera è scesa ai minimi da quando si registra questo dato, lasciando alle aziende la cui attività produttiva è concentrata in Cina poche speranze di assistere a un rimbalzo dell’offerta. Un supply shock pone le banche centrali in una posizione difficile a mano a mano che l’epidemia si intensifica. La Federal Reserve può ridurre il suo tasso d’interesse di riferimento per incoraggiare la spesa, ma l’attività di acquisto stimolata in questo modo non contribuisce più di tanto a far riprendere un’economia quando non ci sono scorte a disposizione, ha scritto Ryan Avent, editorialista economico dell’Economist, in una newsletter inviata il 25 febbraio. “Non importa quanti soldi appena stampati si mette in tasca alla gente se non ci sono negozi aperti e se, anche se ci fossero, non ci sarebbero camion disponibili per consegnare loro le merci” ha scritto Avent. Ciò malgrado i mercati continuano a scontare un 100% di probabilità di un taglio dei tassi nel mese di marzo, in base al Cme FedWatch Tool. Il presidente della Fed Jerome Powell ha ricordato questo ragionamento in un comunicato di venerdì scorso, nel quale ha dichiarato che la banca centrale è aperta all’idea di ridurre i tassi qualora l’epidemia rappresenti una minaccia sufficientemente grave. Goldman Sachs è arrivata persino a prevedere un possibile taglio di 50 punti base da parte della Fed prima del suo prossimo incontro.
Un vaccino efficace potrebbe fare un’enorme differenza. Una riduzione dei tassi potrebbe indubbiamente far tirare un sospiro di sollievo ad alcuni investitori attivi sui mercati azionari, ma un vaccino contro il coronavirus è “l’unico elemento che potrebbe far migliorare il sentiment in modo sostenibile ed efficace” ha scritto Seema Shah, chief strategist di Principal Global Investors, in un post pubblicato sul blog della società giovedì scorso. Diverse società biotech hanno fatto a gara per tutto il mese di febbraio per avviare dei trial su una serie di vaccini e farmaci che si sono dimostrati efficaci, e hanno visto lievitare il proprio corso azionario di conseguenza. Un funzionario della World Health Organization ha detto il 24 febbraio che il cocktail di farmaci di Gilead potrebbe essere il migliore trovato finora per combattere contro l’epidemia, ma non si prevede che i risultati dei test su esseri umani condotti in Cina arrivino prima di aprile. Finché non verrà messa a disposizione una soluzione medica i mercati rimarranno bloccati in un “gioco altamente incerto del tipo ‘stiamo a vedere’”, con un aumento dei rischi di recessione in tutto il mondo, ha detto Shah.
· Epidemia e Finanza.
Rosario Dimito per “il Messaggero” il 17 marzo 2020. Sei banche centrali schierano una potenza di fuoco rovesciando sui mercati, con azione coordinata, una valanga di miliardi di dollari, di euro di yen e così via per contrastare la minaccia di una recessione. La Fed ha usato ancora una volta le armi tradizionali per combattere il nemico, tagliando interesse di 100 punti base fino allo 0-0,25% (livello che non si vedeva dal 2015) e mettendo sul tavolo 700 miliardi di dollari da destinare all'acquisto di T-bond per 500 miliardi e di Mbs (Mortgage-backed securit, cioè cartolarizzazione di crediti legati ai mutui) per i restanti 200 miliardi. Inoltre ha ridotto a zero la percentuale di riserve obbligatorie e dato accesso illimitato alla discount window, cioè una finestra di sconto, per 90 giorni. Di fatto, la banca guidata da Jerome Powell ha sparato quasi tutte le sue cartucce con intensità massima nel tentativo di limitare (attenzione, limitare e non eliminare) gli effetti negativi della diffusione del coronavirus. Basterà? Solo il tempo dirà. Oltre alla Fed, mosse accomodanti ieri mattina sono state annunciate anche dalla BoJ, la banca centrale del Giappone, che ha aumentato il piano di Qe da 6 a 12 trilioni di Yen (113 miliardi di dollari). La liquidità servirà ad acquistare corporate bond ed Etf. Ma se Fed e BoJ hanno scoperto le loro carte, le banche centrali di Canada, Inghilterra, Svizzera, Cina hanno preferito intervenire - sembra massicciamente - senza però scoprire il loro gioco. Insomma, sembra di essere tornati al 2001, al tempo dell'attentato alle Torri Gemelle: solo allora fummo testimoni di un'azione così massiccia, con l'obiettivo di aumentare la liquidità nel sistema e permettere all'economia di continuare a funzionare. E' una lezione importante che venne appresa allora, replicata in un certo senso del 2008: agire subito e in modo concertato rafforza l'impatto delle decisioni prese. Ma davvero tutte le banche si sono mosse all'unisono? A quanto è dato sapere, la Bce avrebbe iniziato con ritardo gli acquisti sul mercato di titoli in esecuzione della discutibile decisione presa dal board giovedì scorso dove i falchi del Nord Europa hanno frenato la mano di Christine Lagarde, fino a farle pronunciare quella frase rovinosa: «Bce non può chiudere gli spread». Purtroppo all'interno di Francoforte permane una dannosa divisione che solo Mario Draghi aveva tenuto a bada. Fa rumore il movimentismo del capo economista di Eurotower, l'irlandese Philipe Lane, che ha cercato di correggere la gaffe della banchiera francese: «La Bce si riserva la possibile opzione di futuri tagli dei tassi». Aggiungendo, nell'intento di placare il polverone: «Siamo pronti a fare di più, ad adottare tutti i nostri strumenti» contro la fiammata degli spread. Perché un intervento più energico della Bce al fianco delle altre banche centrali sarebbe importante? «Nell'immediato la parola d'ordine è volatilità, non crisi, perché il sistema finanziario è robusto», è il commento di Stefano Caselli, professore di international finance alla Bocconi, «e molto dipenderà dalle capacità delle autorità monetarie e di vigilanza di infondere fiducia». Lane, insieme ai rappresentati italiani nel board della Bce e ad altri 3-4 esponenti dell'Europa meridionale, spingono per una correzione di rotta che potrebbe avvenire nella riunione del 30 aprile. Ma potrebbe essere tardi perché tra un mese e mezzo l'economia sarà segnata dalle devastazioni di questi giorni, soprattutto sul fronte della liquidità nelle casse delle imprese. Se le aziende rallentano o si fermano del tutto, come accade in questi giorni a causa dell'emergenza sanitaria, non si produce fatturato. Perciò vengono meno le risorse per pagare fornitori e dipendenti o le rate dei prestiti alle banche, che a loro volta potrebbero chiudere i rubinetti del credito per non correre il pericolo di riempire un'altra volta i loro bilanci di Npl. In questo scenario le aziende, soprattutto le piccole, rischiano di fallire e quindi avviare piani di licenziamenti. Da qui l'urgenza di mettere a disposizione liquidità aggiuntiva. Purtroppo però l'idea della maggioranza pilotata da Jens Weidmann, capo della Bundesbank è che sono i singoli governi a dover intervenire.
Morya Longo per ''Il Sole 24 Ore'' il 17 marzo 2020. Non è più solo il coronavirus. Non è più solo il flusso di notizie a far precipitare e risalire i mercati finanziari come fossero yo-yo impazziti. Il problema ormai è anche un altro: sta cadendo quel gigantesco castello di carta finanziaria costruito in un decennio di tassi bassi, liquidità abbondante e assuefazione ai rischi. Gli investitori stanno insomma smontando in fretta e furia tutte quelle strategie d’investimento che servivano per aumentare i rendimenti in tempi di calma, ma che ora diventano dei pericolosi boomerang. E dato che tutti fanno la stessa cosa contemporaneamente, i mercati si ingolfano e vanno in tilt: la liquidità sparisce, le quotazioni crollano, l’incertezza si autoalimenta. In un vortice. È così che nascono i tracolli seguiti da super-rimbalzi. O i movimenti apparentemente inspiegabili, come l’oro o i titoli di Stato Usa trentennali che cadono insieme alle Borse. «Le posizioni d’investimento che andavano bene nello scenario pre-coronavirus sono diventate complicate da sostenere nel nuovo contesto – spiega Bruno Rovelli, chief investment strategist di BlackRock -. All’inizio di una correzione si cerca solitamente di coprire i portafogli comprando beni rifugio, ma se le tensioni diventano eccessive gli investitori sono costretti a smontare le posizioni sui mercati. E vendono tutto, non solo ciò che è in perdita». A quel punto scattano meccanismi boomerang dei mercati, come i cosiddetti “margin call”, che amplificano i tracolli. Fino a creare un effetto domino incontrollabile, che si autoalimenta sia nei crolli sia nei rimbalzi. Il boomerang della volatilità Il primo grande problema di questi giorni è stato causato dall’improvviso aumento degli indici che misurano la volatilità: per esempio il Vix, passato da un livello pari a 15 il 20 febbraio a 75 ieri. Non solo gli algoritmi, ma anche molti gestori patrimoniali e fondi d’investimento usano infatti la volatilità (che sia proprio l’indice Vix oppure il Var) come principale parametro per misurare i rischi dei mercati. Insomma: un unico indicatore determina comportamenti di massa. Quando la volatilità era bassa, fino a metà febbraio, gli algoritmi e queste strategie riempivano dunque i portafogli di azioni e di titoli rischiosi. Per questo ancora a febbraio, con il coronavirus già pesante in Cina, Wall Street era sui massimi storici: perché la bassa volatilità “ingannava” tutti. Poi però il coronavirus è arrivato in Europa e la volatilità è aumentata. Apriti cielo: più l’indice Vix ha iniziato a salire più algoritmi e strategie basate su questi indicatori sono stati costretti a vendere azioni e titoli rischiosi. In massa. «Siccome le vendite sono state forti, amplificate da alcune strategie quantitative che hanno un’elevata leva, la volatilità ha continuato a crescere - spiega Mateo Ramenghi, direttore investimenti di Ubs -. Questo ha creato un corto circuito». Concordano gli analisti di Bank of America: «I forti cali delle Borse di questi giorni non sono tanto dettati dai fondamentali, quanto dal più grande shock sul Var dai tempi di Lehman». Datemi una leva... Ad amplificare il tracollo c’è stato anche un altro fenomeno: la leva. Tanti investitori negli ultimi anni hanno comprato azioni o bond facendosi prestare i soldi dalle banche. Solitamente ci si indebita dove i tassi sono bassi (ultimamente in Europa e Giappone) per investirli dove i ritorni sono maggiori (per esempio negli Usa). Ma quando tutto tracolla, si fa l’inverso: si vendono titoli in dollari (facendo cadere la moneta Usa) per rimborsare i prestiti in euro. Arrivando al paradosso dell’euro che nei giorni scorsi si apprezzava contro una valuta rifugio come il dollaro. Ma la leva fa un danno molto maggiore: dato che chi si fa prestare soldi per investire offre alla banca azioni in garanzia, man mano che le azioni perdono di valore la banca chiede nuove garanzie (più azioni, bond o cash) oppure è costretta a vendere a sua volta le azioni per recuperare soldi. Sono i cosiddetti «margin call», che in questi giorni hanno pesato sul mercato. «Noi nell’ultima settimana abbiamo dovuto chiedere di reintegrare le garanzie tre volte», testimonia un banchiere di un grosso istituto internazionale che lavora nel settore. Anche qui il meccanismo diventa autoreferenziale: più scattano i «margin call» più il mercato crolla e fa scattare nuovi «margin call». È questo che in alcune sedute pare abbia affossato l’oro, nonostante sia un bene rifugio. La pressione dei clienti Questi sono solo esempi. Si potrebbero citare le strategie chiamate «cash and carry» a leva, che in questi giorni hanno contribuito a mandare in tilt il mercato dei titoli di Stato Usa obbligando la Fed a intervenire iniettando liquidità. Anche ieri la Federal Reserve di New York ha annunciato l’acquisto di 37 miliardi di dollari in titoli di Stato Usa, come misura di emergenza. Si potrebbero citare molti altri esempi. Ma tutti portano allo stesso fenomeno: vendite forzate, che sono l’altra faccia degli spensierati acquisti che si vedevano fino a poche settimane fa. Il problema è che questo ingolfamento del mercato sta prosciugando la liquidità su tutto il mondo obbligazionario, e questo rende difficile per i fondi o gli Etf soddisfare le richieste dei clienti che vogliono smobilizzare. Nella sola ultima settimana- stima Bank Of America- i riscatti sono stati al record storico per i fondi obbligazionari (34 miliardi tra corporate bond ed emergenti) e sugli Etf. Così le pressioni aumentano. E non bastano giorni di isterici riassestamenti al rialzo, come ieri, per cambiare lo scenario.
Giuliana Ferraino per il “Corriere della Sera” il 17 marzo 2020. «Questa volta è diverso davvero», afferma Ken Rogoff, 66 anni, economista americano, professore a Harvard University, e campione di scacchi, citando il titolo di un suo libro famoso. «Non è una crisi come altre, è un' invasione degli alieni. Siamo in guerra». E, per vincere, «la politica monetaria da sola non basta. Serve un intervento fiscale da mille miliardi almeno in America e altri mille miliardi in Europa», sostiene. Ma non basterà a evitare una recessione globale. Perché i mercati finanziari hanno reagito così male alla mossa a sorpresa della Federal Reserve, che domenica ha azzerato i tassi di interesse, e ha rilanciato il programma di acquisti di titoli pubblici e privati per 700 miliardi, oltre ad aver concordato un intervento coordinato con le altre banche centrali, Bce inclusa?
«La mossa era già stata anticipata. E il fatto che la Fed abbia agito di domenica, senza aspettare altri due giorni per riunirsi come da calendario, ha innervosito i mercati, hanno immaginato che forse sapesse qualcosa che gli investitori non sanno. Inoltre, gli strumenti delle banche centrali hanno perso parte della loro efficacia. Ora tocca alla politica intervenire, con un massiccio stimolo fiscale: serve un piano da mille miliardi di dollari negli Stati Uniti, per cominciare, più grande che nel 2008. Ma anche l' Europa ha bisogno di un intervento di spesa da mille miliardi, possibilmente in un modo coordinato, dove ogni Paese fa quello che può, e quindi proporzionalmente la Germania fa di più».
Fine del Patto di Stabilità ?
«I tetti al debito li dobbiamo buttare dalla finestra in queste circostanze. Lo scopo di avere un bilancio solido è quello di usarlo in tempo di guerra o durante una catastrofe. Questa è una guerra. È come se fossimo stati invasi dagli alieni. Ho fiducia che vinceremo, ma il danno all' economia sarà profondo».
Qual è la priorità ora?
«Affrontare la crisi sanitaria, dovremo davvero agire come in guerra: comando e controllo, costruire ospedali...In Cina il governo ha ordinato alle imprese di convertire la produzione per le mascherine. Dobbiamo sostenere i settori più colpiti, i ristoranti, i viaggi, il turismo, tutto il comparto dei servizi. Anche le banche sono sotto pressione, perché se ci saranno molti default sui prestiti, si porrà di nuovo un problema di insolvenza, soprattutto in Europa, anche se il sistema bancario è più forte rispetto al 2008. E poi ci serve lo stimolo per aiutare la parte più sana dell' economia a correre quando usciremo dalla a crisi».
Quanto sarà ampia la frenata dell' economia?
«Che ci sarà una recessione globale è assolutamente certo, ci sono davvero poche possibilità di evitarla. Gli Stati Uniti sono soltanto un paio di settimane indietro all'Italia. Io posso lavorare da casa, ma non tutti possono farlo. Nel 2008 avevo un'idea chiara di dove ci avrebbe portato la crisi finanziaria, ma questa crisi ha una natura diversa. L'unica analogia che mi viene in mente è l'influenza spagnola del 1918, ma va indietro di cent' anni. Invece osserviamo una sorta di disastro naturale, che non abbiamo mai visto prima. Ed è solo l'inizio. Se l' emergenza dura un paio di mesi, saremo fortunati se la crescita (output) si dimezzerà in un mese. Ecco perché uno stimolo fiscale è cruciale. Un'altra cosa da fare? Togliere dal tavolo la guerra sui dazi, sarebbe un segnale importante, per indicare spirito di cooperazione davanti alla crisi».
Andrà tutto bene?
«Abbiamo cent' anni di storia di crisi finanziarie. Ne siamo sempre usciti, ne usciremo anche questa volta».
· L’epidemia e le banche.
Sanità, ricerca, imprese La filantropia risponde: 70 milioni contro il virus. Pubblicato martedì, 24 marzo 2020 su Corriere.it da Paolo Foschini. Da Roma a Torino, da Bolzano alla Sardegna: l’appello di Francesco Profumo a mettere in moto contro il coronavirus «la grande macchina» delle Fondazioni bancarie italiane era già stato raccolto prima ancora che il presidente di Acri ne anticipasse i contenuti la scorsa settimana su Buone Notizie. Gli stanziamenti della prima ora si sono moltiplicati fino a oltre 70 milioni (così ieri) e si sommano all’istituzione, da parte di Acri stessa, di un Fondo nazionale che con 5 milioni iniziali consentirà - per affetto «leva finanziaria» - di erogarne alcune decine con rimborso agevolato a migliaia di «piccoli» del Terzo settore. A questo si affiancherà un Fondo di copertura da 500mila euro per abbattere gli oneri finanziari del primo ciclo di erogazione. Di seguito una sintesi provvisoria dei principali impegni assunti dalle Fondazioni bancarie a livello locale che hanno obiettivi condivisi: «Non fermare la filiera della solidarietà, stare accanto alle comunità e dare sostegno al Terzo settore», come aveva chiesto il presidente Profumo. Gli interventi vanno dal fronte sanitario a quello sociale, dai contributi alla ricerca a quelli per il Terzo settore nonché per le piccole e medie imprese a rischio di saltare. L’elenco (per intero su Acri.it) è destinato a sicuri aggiornamenti futuri. Fondazione Compagnia di San Paolo ha stanziato 6 milioni per l’emergenza più altri 10,5 come «liquidità subito» per il sistema sociale e culturale, mentre Fondazione Crt ne ha messi tre per una cinquantina di nuove ambulanze e altre forniture sanitarie. Fondazione Cr Asti interverrà con 750mila, un milione è il budget per Cuneo di Fondazione Crc, 100mila euro quello di Alessandria così come quello di Biella (più 100mila raccolti con il bando «Comunità Fragile» accanto a Banca Simetica). Da Fondazione Cr Vercelli 230mila all’Asl e 100mila alla «Emergenza Covid19». Fondazione Agostino De Mari ha stanziato per Savona 110mila euro ora più un fondo da 285mila per i prossimi mesi, e con Fondazione Carispezia (che per la sua zona ha già stanziato mezzo milione) finanzierà il triage nella nave-ospedale allestita nel porto di Genova per il Norditalia. Effetto a catena anche in Lombardia, nel Novarese e nella zona del Verbano-Cusio-Ossola dopo i primi due milioni di euro destinati da Fondazione Cariplo al non profit e l’istituzione di un Fondo che attraverso le Fondazioni di comunità ha superato i 18 milioni in pochi giorni, con il record di Brescia che da sola ne ha raccolti più di dieci. A questo si aggiungono 170mila euro versati da Fondazione Banca del Monte di Lombardia. In Veneto Fondazione Cariverona ha stanziato 3,1 milioni per aziende sanitarie e Caritas, più 6 milioni di anticipo liquidità per il Terzo settore, mentre Fondazione Cariparo ne ha stanziati 5 per Padova e Rovigo. Fondazione Cassa di Risparmio di Bolzano ha stanziato un milione, le Fondazioni Cr Trieste e Cr Gorizia 250mila euro ciascuna, Fondazione Caritro sta deliberando in queste ore il suo sostegno alle necessità più urgenti di Trento e Rovereto. Fondazione di Piacenza e Vigevano ha donato 500mila euro e con Fondazione Cariparma (che ha istituito di suo un fondo da un milione) ha comprato 25 ventilatori polmonari. Altri 200mila euro arriveranno da Fondazione Monteparma. E poi: un milione da Fondazione Carisbo per Bologna, un altro mezzo da Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna; un milione e mezzo dalle Fondazioni di Modena, Carpi, Mirandola e Vignola, 45mila euro da Fondazione Cr Imola, mezzo milione da Fondazione Cr Forlì, e Fondazione Manodori ha acquistato strumentazione per l’Ausl di Reggio Emilia. Le Fondazioni Cr Lucca e Banca del Monte di Lucca hanno stanziato oltre 500mila euro, Livorno 100mila, Fondazione Mps sta sostenendo un progetto di ricerca di Fondazione Toscana Live Sciences e attiverà fondi per le piccole e medie aziende. E avanti: mezzo milione da Fondazione Cr Pistoia e Pescia, altri tre da Fondazione Cr Firenze, 300mila euro Fondazione Cr Prato, e Fondazione Cr San Miniato ha comprato cinque ventilatori all’Ospedale di Fucecchio. Le Fondazioni delle Marche: 100mila euro a Pesaro, 100mila a Fano, 400mila ad Ascoli Piceno, 60mila a Macerata.
In Umbria Fondazione Cr Perugia ha messo sul tavolo un milione e 200mila euro. Più un milione Fondazione Cr Orvieto, un milione Fondazione Cr Terni e Narni, altri 150mila Fondazione Cr Foligno. In Abruzzo sono arrivati i 100mila euro di Fondazione Tercas per Teramo e i 50mila di Fondazione Carispaq per L’Aquila, Avezzano, Sulmona. Nel Lazio ammonta a mezzo milione il contributo di Fondazione Roma nella partnership stretta con l’istituto Spallanzani per la realizzazione di una nuova struttura dedicata allo studio del Sars-CoV2.E infine: da Fondazione Banconapoli 600mila euro, Fondazione Carisal si è attivata con iniziative per i senzatetto nel Salernitano, 100mila euro stanziati da Fondazione di Sicilia, 200mila da Fondazione Puglia, quasi due milioni e mezzo da Fondazione di Sardegna. E oggi, in tutta Italia, saranno già diventati di più.
Da repubblica.it il 25 marzo 2020. Intesa Sanpaolo contribuisce alla realizzazione dell’ospedale da campo dell’Associazione Nazionale Alpini alla Fiera di Bergamo con un contributo di 350mila euro, che permette di acquistare ventilatori, sistemi radiologici, apparecchi per laboratorio analisi, monitor, aspiratori, produttori di ossigeno e altri materiali necessari all’attività sanitaria. Tale contributo per la realizzazione dell’ospedale da campo a Bergamo potrà essere incrementato di ulteriori 100mila euro anche grazie all’attivazione, fino al 6 aprile, di una raccolta fondi dedicata a questo specifico progetto e già operativa sul sito forfunding.it, la piattaforma di crowdfunding del Gruppo Intesa Sanpaolo aperta a tutti. Questo intervento di Intesa Sanpaolo a favore della comunità di Bergamo si aggiunge ai 100 milioni di euro già destinati alla Protezione Civile, che raggiungeranno presto le zone più colpite in tutta Italia, come la Lombardia. “Desideriamo esprimere la nostra vicinanza - ha detto Carlo Messina, consigliere delegato e ceo di Intesa Sanpaolo - alle comunità bergamasche con questo impegno concreto, che porterà strumenti e materiali indispensabili a far funzionare presto questa strutturamessa in campo con grande tempestività e disponibilità dalla Fondazione ANA Onlus. In un momento di tale gravità, Intesa Sanpaolo vuole dimostrare il proprio sostegno a Bergamo e dareun contributo che consenta di affrontare e risolvere insieme l’emergenza”. Sebastiano Favero, presidente nazionale di Ana e Ana Onlus ha invece sottolineato che “i nostri Alpini come in altre occasioni passate, sono sempre pronti ad andare in prima linea per aiutare chi ha bisogno. In questo momento particolarmente critico il nostro ospedale da campo e lesquadre di PC, rivestono un ruolo importante nel nostro intervento per la gente bergamasca portando, oltre che impegno e professionalità dei propri uomini e delle proprie donne, la dedizione assoluta per una causa comune. Forti della nostra storia anche questa volta ce la faremo a sconfiggere il nemico.”
Coronavirus, Intesa Sanpaolo: 15 miliardi di euro per le imprese italiane. Pubblicato martedì, 17 marzo 2020 su Corriere.it da Giulia Ciampanelli. Le misure, in particolare, sono finalizzate a consentire alle aziende di far fronte ai pagamenti, nonostante la progressiva riduzione o addirittura assenza di fatturato, e di tutelare così l'occupazione. Intesa Sanpaolo mette a disposizione due misure, alternative o cumulabili, per un importo complessivo di 15 miliardi di euro. In primis un plafond di 5 miliardi di euro, per nuove linee di credito aggiuntive rispetto a quelle preesistenti, della durata di 18 mesi (meno un giorno), di cui 6 di pre-ammortamento, con condizioni favorevoli, a partire dalle spese di istruttoria. Tali linee possono essere concesse a clienti e non clienti che al momento non beneficiano di linee di credito disponibili. L’istituto ha inoltre previsto la messa a disposizione di 10 miliardi di euro di liquidità per i clienti Intesa Sanpaolo, grazie a linee di credito già deliberate a loro favore e ora messe a disposizione per finalità ampie e flessibili, quali la gestione dei pagamenti urgenti. Questa nuova iniziativa di Intesa Sanpaolo si aggiunge alla moratoria annunciata il 24 febbraio, con la sospensione per 3 mesi delle rate dei finanziamenti in essere (per la sola quota capitale o per l’intera rata) prorogabile per altri 3/6 mesi in funzione della durata dell’emergenza. Le operazioni di finanziamento possono essere richieste - in via transitoria - anche a distanza, tramite un processo di scambio di informazioni e documenti direttamente tra il cliente ed il gestore. Tale processo si applica solo a clientela conosciuta e verificati i consensi privacy. «In questa fase di estrema emergenza, abbiamo il dovere di impegnare ogni risorsa, per dare il massimo sostegno alle imprese italiane e consentire loro, superate le difficoltà contingenti, di ripartire il prima possibile - ha dichiarato Carlo Messina, ceo di Intesa Sanpaolo -. Mettiamo in campo un ammontare significativo di risorse, pari quasi a un punto di Pil. Possiamo farlo perché Intesa Sanpaolo ha le dimensioni, la solidità e una presenza capillare tali da consentire interventi di dimensioni straordinarie in tutti i territori del Paese, dando supporto a tutte le imprese. Le direzioni regionali grazie alla professionalità delle nostre persone e all’ampia delega di cui dispongono nell’erogazione di credito assicureranno al meglio l’efficacia dell’intervento».
Generali, 100 milioni per emergenza virus Le parole di Visco per raffreddare lo spread. Pubblicato venerdì, 13 marzo 2020 su Corriere.it da Sergio Bocconi. Al nostro Paese è rivolto subito un primo sostegno fino a 30 milioni per finanziare le priorità che verranno definite insieme al Sistema sanitario nazionale e alla Protezione civile attraverso il Commissario straordinario nominato dal governo, Domenico Arcuri. Verranno inoltre attivate iniziative a favore delle persone: i clienti in particolari difficoltà, le piccole e medie imprese e i loro dipendenti. Donnet ha sottolineato che il gruppo «mette a disposizione risorse immediate e concrete. La crisi sanitaria ed economica può essere affrontata solamente con l’impegno di tutti. Siamo parte della storia italiana ed europea e, come accaduto in passato, facciamo e faremo del nostro meglio per contribuire al benessere della collettività». Donnet ha quindi espresso la propria gratitudine «al personale medico e a tutti i professionisti del sistema sanitario che lavorano senza sosta negli ospedali e ai governi che hanno preso ogni opportuna iniziativa. Questo è il momento dell’unità, l’Europa deve rimanere unita, le imprese e le istituzioni devono operare insieme». L’iniziativa è stata deliberata dal consiglio e annunciata insieme ai conti 2019: il gruppo del Leone chiude con risultato operativo record in aumento del 6,9% a 5,2 miliardi, utile in crescita del 15,7% a 2,7 miliardi e un dividendo che sale del 6,7% a 0,96 euro per azione. I premi lordi complessivi crescono del 4,3% a 69,8 miliardi, di cui 15,2 a valore sociale e ambientale, l’utile dell’asset management sale del 19% a 280 milioni, il solvency ratio (l’indice di stabilità) aumenta di otto punti al 224%. Generali avvia poi una svolta storica nella governance: il consiglio avrà la facoltà di presentare una propria lista di candidati in vista dell’assemblea per il rinnovo. Contemporaneamente verrà dato più spazio alle liste di minoranza: nel board, dove i componenti potranno variare fra 13 a 17 (oggi sono 13 e la forchetta possibile è più ampia: da 10 a 21), gli amministratori di minoranza (che aumentano da 1-3 a 4-5 secondo il numero dei partecipanti al board) potranno essere nominati dalle due liste classificate dopo la prima (oggi la rappresentanza è limitata a una sola lista di minoranza) che abbiano ottenuto almeno il 5% dei voti. I consiglieri indipendenti infine saranno pari almeno alla metà. Le modifiche statutarie saranno proposte nell’assemblea straordinaria che, insieme a quella ordinaria, è stata convocata per fine aprile a Trieste.
Coronavirus, da Fondazione Cariplo un fondo per gli enti non profit. Pubblicato domenica, 08 marzo 2020 da Corriere.it. Fondazione Cariplo interverrà in collaborazione con le Fondazioni di comunità, enti che per la loro vicinanza con il territorio sanno meglio intercettare bisogni e soluzioni delle comunità e che nei vent’anni dalla loro nascita si sono dimostrate capaci di promuovere la cultura del dono, della partecipazione e della solidarietà. Le fondazioni di comunità si stanno già organizzando in tal senso. Alcune di loro, in particolare quelle di Lodi e di Bergamo hanno annunciato a loro volta l’avvio di iniziative e di fondi speciali a cui Fondazione Cariplo darà il proprio apporto. Ad essere particolarmente in difficoltà sono gli Enti del Terzo Settore che gestiscono servizi e attività interessate dai provvedimenti presi in questi giorni a tutela della salute pubblica come i servizi non residenziali a supporto delle famiglie (asili nido, scuole materne, centri per anziani e per altre tipologie di fragilità) e moltissime attività culturali e di socializzazione. Ad oggi non è possibile quantificare con precisione l’effettivo impatto su queste realtà, ma alla luce di alcune stime diffuse in questi giorni sarà comunque molto pesante. Per questo Fondazione Cariplo ha stanziato risorse per sostenere innanzitutto iniziative emergenziali che sostengano e potenzino l’attivazione di servizi di prossimità a supporto della domiciliarità “forzata” di persone fragili. Successivamente, chiarito meglio il ventaglio di interventi governativi e regionali adottati, sarà importante focalizzare le risorse su interventi che mitighino gli effetti economici della chiusura delle attività e il rischio, in particolare per il settore culturale, che queste settimane di emergenza producano strascichi di medio periodo sulla predisposizione dei cittadini alla fruizione delle opportunità culturali e di socializzazione del territorio, riattivando iniziative di socialità a base comunitaria e sostengano il rilancio delle iniziative culturali non appena l’emergenza finirà. Le risorse messe a disposizione da Fondazione Cariplo saranno rivolte in via prioritaria, ma non esclusiva ai territori maggiormente colpiti dalle misure precauzionali attivate.
Daniele Manca e Fabrizio Massaro per corriere.it il 7 marzo 2020. Liquidità, liquidità, liquidità. Subito. Adesso. Allo Stato, per spenderla in ospedali e sanità. E alle imprese, per consentire loro di pagare stipendi e fornitori e superare questo momento difficile. Non è la prima di crisi che Carlo Messina si trova ad affrontare, ed è per questo che le parole che l’amministratore delegato di Intesa Sanpaolo pronuncia, mentre in Italia sembra prevalere la rassegnazione, sono di orgoglio nazionale: «Siamo un Paese forte, abbiamo imprese eccezionali, il mondo apprezza i nostri prodotti e gli italiani hanno 10.500 miliardi di risparmio, una cifra tra le più alte al mondo. Giusto essere preoccupati, ma con la certezza che supereremo l’emergenza e torneremo a crescere». Da banchiere che guida uno dei più grandi istituti in Europa sa che le parole contano, ma ancor di più contano i fatti. «Siamo pronti a donare fino a 100 milioni, li metteremo a disposizione del Paese, per progetti specifici che affrontino l’emergenza sanitaria. Con 100 milioni si possono fare tante cose». Sembra tradurre in cifre quelle parole che il presidente della Repubblica ha indirizzato al Paese giovedì sera, invitandolo a reagire.
Ma delle cose che si possono fare ce ne dica qualcuna, a cosa state pensando?
«Vogliamo rafforzare le strutture di terapia intensiva, portando i posti letto da 5.000 a 7.500, per portare il sistema sanitario in condizioni di mettere in sicurezza la salute degli italiani. Ulteriori risorse potranno essere utilizzate per creare ospedali da campo e per l’acquisto di apparecchiature mediche. Vogliamo dare un contributo in grado di far fronte in maniera sostanziale all’emergenza e rafforzare in maniera strutturale il sistema sanitario».
Un gesto raro in Italia, tanto che forse nemmeno la legge lo prevede. Donare soldi allo Stato, come si fa?
«Sì, non è semplice anche perché vogliamo legare le nostre donazioni a interventi specifici. Servirebbe una norma che ci aiuti a farlo. A noi e a tanti altri che siamo sicuri seguiranno».
Cioè, ci sono altri pronti a donare?
«Ma scusate, se si muove Intesa Sanpaolo non pensate che altre grandi aziende possano considerare ulteriori iniziative? Noi lanceremo anche una raccolta fondi presso i nostri clienti che vorranno dare il loro contributo. Con lo stesso obiettivo: uscire dall’emergenza e tornare a crescere, il prima possibile».
Ma perché voi?
«È il nostro modo di fare banca, non siamo solo il motore dell’economia ma il principale operatore privato nel campo delle iniziative per il sociale. E, credetemi, i grandi investitori internazionali approvano con convinzione. Ma le nostre misure per l’emergenza non si fermano qui».
Cosa vuol dire?
«Siamo pronti con interventi per l’emergenza economico-finanziaria, il che significa liquidità. Dalla prossima settimana attiveremo finanziamenti fino a 5 miliardi per prestiti a 18 mesi, con 6 mesi di preammortamento, a sostegno delle imprese. Per lo meno 1 miliardo andrà al turismo, il settore che ha subito il maggior impatto. Se il governo ponesse una garanzia pubblica sui nuovi crediti, la cifra salirebbe a 10 miliardi».
Si riferisce alla garanzia per i prestiti alle imprese…
«Certo, porre 1 miliardo a garanzia, che peraltro non peserebbe in quella misura sul bilancio dello Stato, renderebbe possibile l’attivazione di ulteriore credito altrimenti non erogabile, perché destinato ad aziende non finanziabili secondo i parametri di vigilanza. Nel complesso una misura che — se ben congegnata — servirà a far fronte alla crisi e a prendere lo slancio per la ripresa».
Ma intanto perché non applicate la moratoria?
«Lo stiamo già facendo, sia sugli interessi che sul capitale. Ma ora le imprese devono poter pagare dipendenti e fornitori, hanno bisogno di liquidità. Servono misure straordinarie. Aggiungo che la moratoria è prevista anche per le persone, qualora il datore di lavoro, in difficoltà a causa di questa emergenza, non potesse ricorrere ai benefici degli ammortizzatori sociali».
Ma riusciremo a evitare la recessione?
«La situazione purtroppo non riguarda solo l’Italia. Con realismo e determinazione possiamo superare la frenata, alla quale segue sempre un rimbalzo».
Il governo è stato troppo realista?
«Non sta a me giudicare, non è il mio ruolo. La mia parte è quella di fare in modo che una grande banca, tra le maggiori in Europa, quale è Intesa Sanpaolo, sia a fianco del Paese. Di un Paese che ha bisogno di avere fiducia in sé stesso. Nel suo risparmio unico al mondo, nelle sue imprese che nell’export, grazie alla qualità dei prodotti, hanno leadership mondiali».
Sembra però prevalere la paura…
«Se non ci muoviamo, se non si esce di casa, non si consuma, il rallentamento si sentirà. Ma la cura per ogni malattia, anche la più grave, inizia dalla fiducia di potercela fare. Ci siamo dimenticati quante crisi abbiamo superato soltanto negli ultimi dieci anni? E per merito di chi? Delle famiglie, delle imprese, e, mi permetta, anche delle banche sane, oltre che delle istituzioni».
E l’Europa?
«La dimensione di questo fenomeno riguarda l’Europa tutta. E non solo. Ma l’Italia ha in sé la possibilità di farcela da sola. Siamo strutturalmente un Paese forte. Supereremo sicuramente la crisi».
Ma in quanto tempo?
«Non c’è tempo. Bisogna farlo adesso. Mostrare al mondo che siamo forti e reagiamo. Prima di un rialzo significativo dello spread dovuto ai timori sul nostro debito pubblico, non giustificato perché abbiamo sempre onorato i nostri impegni. Dobbiamo evitare questa trappola».
Perché dovremmo riuscirci proprio adesso?
«Abbiamo sempre dimostrato di saper far fronte alle emergenze. Dobbiamo riaprire i cantieri. Sbloccare i progetti infrastrutturali, fermi per ragioni prive di senso. Il modello Genova è lì a dirci che si può fare. Perché non estenderlo a tutto il Paese? Noi siamo pronti a sostenere questo processo con tutta la forza di una banca leader in Europa, con profonde radici nei territori del nostro Paese».
Ma come farete, siete impegnati addirittura nell’acquisizione della quarta banca del Paese…
«L’operazione di fusione proposta da Intesa Sanpaolo a Ubi è un progetto che crede nell’Italia. Trae forza dal radicamento territoriale delle due banche e punta su un Paese in grado di porsi come interlocutore di rango in Europa. La forza di questa offerta è, a mio avviso, proprio il suo contenuto tutto italiano. Le dimensioni servono. Ubi è una banca ben gestita. Ma per realizzare le sue aspirazioni ha bisogno di far parte di un grande gruppo come il nostro».
Ma allora perché alcuni azionisti importanti di Ubi non vi seguono?
«Temono forse il venir meno del legame che Ubi ha con il territorio».
Timore lecito, entrando in una grande banca…
«Sbagliano. Intesa Sanpaolo è la banca dei territori. Siamo cresciuti valorizzando e aggregando grandi banche e realtà locali. È scritto nel prospetto: avremo direzioni regionali a Brescia, Bergamo, Bari e Cuneo, dove Ubi è radicata; alla loro guida ci saranno manager Ubi. Creeremo un polo di eccellenza per l’agricoltura, per l’agritech, con sede a Pavia. Ci saranno 10 miliardi all’anno in più di finanziamenti in tutte queste aree. Nessun imprenditore si vedrà ridurre la somma dei crediti che ha in essere con le due banche. I risparmiatori titolari di azioni Ubi, oltre al premio previsto dal concambio, vedrebbero raddoppiate le prospettive di dividendi attesi».
Non sarà questione di prezzo?
«Su questo voglio essere chiaro: nessun aumento di prezzo. E mi spiacerebbe se qualcuno comprasse azioni sperando in un rialzo. Ma vorrei guardare più in là: data la valenza dell’operazione per il Paese, oltre che per Intesa Sanpaolo e Ubi stessa, ci auguriamo la più ampia delle adesioni, ma — vorrei sottolineare — ne siamo talmente convinti che andremo avanti anche se dovessimo avere il 50,1%. D’altro canto, basta questa quota di controllo a realizzare gran parte delle sinergie previste».
Forse tengono al marchio Ubi.
«È comprensibile. L’importanza dei marchi riflette il legame con i clienti, anche se la forza delle banche è il frutto dell’impegno delle persone che ci lavorano. Per questo assumeremo 2.500 giovani, la metà dei quali nei territori di riferimento di Ubi, mentre le uscite saranno solo su base volontaria. Raddoppieremo gli interventi sociali ora previsti da Ubi. Vogliamo creare una realtà più forte cedendo i crediti deteriorati, i famosi Npl, che appesantiscono Ubi: senza far ciò il loro piano non potrà realizzarsi».
Ma intanto il coronavirus…
«Ripeto, la crisi ci impone di reagire, di ambire a orizzonti più ampi. Il Paese supererà questo momento difficile, ne siamo tutti certi. Nell’emergenza occorre mettere in campo misure straordinarie, per questo diamo il nostro contributo. Guardando avanti, con un progetto per un’Italia più forte in un’Europa che deve essere più unita e solidale».
· L’epidemia ed i benefattori.
Monica Ricci Sargentini e Irene Soave per il “Corriere della Sera” il 10 aprile 2020. Due ospedali da campo da 5.200 metri quadri donati dal Qatar, per mille posti letto totali. Cinque milioni di dollari dal Kuwait; 30 medici dalla Norvegia, 11 e 7 infermieri dalla Romania, 10 tonnellate di dispositivi dagli Emirati Arabi. È l' elenco (nemmeno completo) del personale e delle attrezzature arrivate in Italia solo nelle ultime 48 ore. Nel nostro Paese circolano 93 milioni di dispositivi medici giunti da altri Paesi: guanti, respiratori, calzari e soprattutto le preziose mascherine. L'etichetta per il governo è quella di «aiuti» ma in questa definizione, spiegano fonti del ministero degli Esteri, rientrano sia donazioni e missioni solidali che forniture acquistate. La differenza non è irrilevante, eppure non c' è un censimento per distinguere la merce comprata da quella regalata: fonti del Ministero, comunque, suggeriscono di considerare «acquistato, e non donato» la gran parte del materiale. Così finiscono nel conto degli «aiuti», ad esempio, anche i contratti firmati con aziende cinesi per l' acquisto di 100 milioni e 150 milioni di mascherine, che arriveranno al ritmo di 20 milioni a settimana. Tra i primi Paesi a intervenire, con molto clamore mediatico, c' è stata la Cina. La Croce Rossa cinese ha donato 31 tonnellate di materiali fra cui 40 ventilatori e 200 mila mascherine. Al 1° aprile erano arrivate, elenca il ministero degli Esteri: 22 milioni di mascherine, 289 ventilatori, decine di migliaia di dispositivi sanitari, quasi tutti acquistati. Tramite la Commissione Europea, poi, Cina e Taiwan hanno donato per ora 2.000 kit per tampone e 2.200.000 mascherine. Presenti sul nostro territorio anche 39 medici esperti su come gestire la pandemia. Il 28 gennaio è entrato in azione il «Meccanismo europeo di Protezione Civile», un accordo comune di mutuo soccorso in emergenze naturali. Ma è servito quasi solo a che i 27 cooperassero nei voli di rimpatrio di cittadini Ue dal resto del mondo. Nella Ue, forse il Paese più munifico è stato la Germania: un team medico di 4 sanitari in Campania, 300 respiratori, e forniture per 830 mila mascherine, cento ventilatori polmonari, e 7 tonnellate di altri dispositivi. Ma soprattutto 85 posti in terapia intensiva messi a disposizione da dieci Länder, compreso il trasporto su voli militari; altri 11 li ha offerti l' Austria, che ha inviato anche 1,5 milioni di mascherine. Dalla Francia arrivano un milione di mascherine, 20 mila camici, 2.400 tute. Dalla Repubblica Ceca 110 mila mascherine e 10 mila tute: la donazione equivaleva al quantitativo di materiali già destinati all' Italia e sequestrati per errore dalle autorità ceche il 17 marzo. La Norvegia ha inviato 30 medici; la Romania 11 medici e 4 infermieri a Lecco; l' Ucraina 13 medici e 17 infermieri nelle Marche; la Polonia un team di 15 sanitari a Brescia. Dopo le polemiche di marzo, quando un milione e 200 mila mascherine già pagate dall' Italia erano state bloccate ad Ankara, la Turchia ha inviato a Roma un cargo di aiuti: 150 mila mascherine, 500 litri di antibatterico, mille tute, altre 120 mila mascherine per la Croce Rossa. Sugli scatoloni, una frase del mistico Rumi: «Dietro ai momenti privi di speranza ci sono tante speranze, dietro al buio ci sono mille soli». La Farnesina elenca poi forniture sbloccate da Egitto, Romania, Brasile (2 milioni di mascherine), Tunisia. Dal Pakistan 500 mila pastiglie di clorochina; dall' India 40 mila mascherine. Dalla base militare americana di Ramstein è arrivato ad Aviano un sistema ospedaliero da 10 posti letto e 40 pazienti. La Defense Security Cooperation Agency ha donato alla Lombardia 140 letti ospedalieri e 8 camion di attrezzature. La Ong Samaritan' s Purse , che ha costruito l' ospedale da campo a Central Park, ne ha attivato uno a Cremona per 60 persone, più 8 in terapia intensiva. Il 31 marzo Donald Trump ha annunciato che invierà all' Italia «altro materiale sanitario» per 100 milioni di dollari. Il gesto ha attirato polemiche in patria, dove c' è penuria di materiale. Putin ha inviato ingenti aiuti all' Italia. La Protezione Civile conta a Bergamo «32 sanitari, 100 esperti di sanificazione con mezzi dedicati, 250 mila mascherine e 45 ventilatori». In un' inchiesta su La Stampa Jacopo Jacoboni ha sottolineato la presenza di 120 medici militari nella missione e la natura «interessata» degli aiuti. Una tesi che non è piaciuta al portavoce della Difesa russa che ha rivolto al giornalista una sinistra massima latina «chi si scava la fossa, in essa precipita». Ieri il presidente del Consiglio Giuseppe Conte si è schierato con Mosca: «Il sospetto che gli aiuti forniti dalla Russia siano interessati è un' offesa per me, per il governo italiano e per Vladimir Putin».
Federico Rampini per “la Repubblica” il 10 aprile 2020. Gli Stati Uniti annunciano una contro-offensiva americana all' inarrestabile avanzata in Europa delle "mascherine cinesi". Il problema è che ancora è una risposta a parole, un contropiede annunciato ma ancora immobile. La rimonta è partita solo a parole, mentre i fatti sono in ritardo. A Washington qualcuno però deve aver capito che il terreno perduto con la Cina stava diventando un abisso. E così ieri ci sono stati altri segnali, altre parole. Ci sono, per esempio, quelle bellissime che la moglie del presidente Trump, Melania, ha rivolto in una telefonata a Laura Mattarella, la figlia del presidente della Repubblica. La first lady offre le «sentite condoglianze per i tanti italiani che hanno perso la vita a causa del coronavirus», e - secondo il comunicato della Casa Bianca - ha «espresso ottimismo e speranza che la tendenza positiva in Italia continui: il popolo americano è al fianco del suo alleato, compreso l' invio di 100 milioni di dollari di aiuti, con la speranza che nelle prossime settimane si possa sconfiggere la pandemia». Poi c' è il segretario di Stato Mike Pompeo, che in un' intervista al Corriere della Sera dice che «gli italiani devono sapere che tutti gli americani saranno al loro fianco, faremo tutto ciò che sarà necessario per consentire all' economia italiana di riprendersi quando l' epidemia sarà finita». Non saranno 100 milioni di dollari in più o in meno a rovesciare le sorti della battaglia italiana contro il coronavirus. Ma Donald Trump di questi aiuti aveva parlato già il 30 marzo. Non c' è stato ancora nessun passo concreto, mentre già da metà marzo in Italia sono arrivati medici russi, cinesi e cubani, sono atterrate mascherine egiziane, clorochina pachistana. La piccola Albania, la martoriata Libia offrono medici all' Italia, mentre gli Stati Uniti sono congelati in una entropia sanitaria e geo-politica che conferma un percorso di allontanamento dall' Europa, e verrebbe da dire dal mondo. La chiamata di Melania è parte di una serie di telefonate alle consorti di capi di Stato stranieri dei paesi alleati, tra cui la moglie di Shinzo Abe in Giappone. Trump è sotto accusa anche negli Stati Uniti per questo approccio isolazionista al coronavirus che sta regalando nazioni alleate alla sfera d' influenza cinese. A fare la differenza, nei rapporti con gli alleati, sono altri comportamenti. Pochi giorni fa Trump aveva creato una crisi con Angela Merkel, bloccando in Thailandia forniture dirette in Germania di mascherine prodotte in Cina dall' americana 3M. L' ennesimo episodio di un protezionismo sanitario (ognuno vuole tenersi per sé la produzione di apparecchiature salva-vita e farmaci) che sta ulteriormente allentando il tessuto delle relazioni atlantiche. La Merkel ha reagito stringendo un accordo con Xi Jinping: Lufthansa trasporterà in Germania 40 milioni di mascherine made in China, prodotte da aziende di Stato. Il segretario di Stato Mike Pompeo ha mobilitato quindi il suo staff per tentare di risalire la china, e lanciare verso i partner europei una contro-narrazione, che sottolinei la generosità degli aiuti americani. Anche se a volte è vero che la Cina fa più marketing e relazioni pubbliche che sostanza, la diplomazia americana fatica a recuperare, dopo tre anni di diverbi e di sgarbi (inclusi i dazi) che hanno logorato i rapporti con gli alleati. Tornando all' Italia, ieri Pompeo ha tenuto anche una prima "town hall" in una teleconferenza con il personale delle 3 ambasciate americane a Roma, quella presso la Repubblica italiana, il Vaticano e le agenzie Onu. Si è accorto che gli allarmi che arrivavano da Roma nelle ultime settimane hanno una solidità, e che il personale in Europa va motivato. Il segretario ha parlato e ha ascoltato. Dice che per contrastare la pandemia «c' è ancora molto lavoro da fare». Una frase chiave fra le parole pronunciate da Pompeo nelle ultime ore è questa: «Gli Usa hanno imparato nel tempo come guidare il mondo, e lo faranno anche in questa emergenza ». Molti si chiedono 3 cose: se sono ancora in tempo, se vogliono ancora farlo, e soprattutto se sapranno farlo.
Chi ha donato più mascherine all'Italia. Guidi Fontanelli l'8/4/2020 su Panorama. Dopo essere stata l'epicentro della pandemia del nuovo Coronavirus, la Cina sta cercando di scrollarsi di dosso l'immagine dell'untore regalando tonnellate di mascherine e attrezzature mediche ai Paesi più colpiti. Tra i quali c'è naturalmente l'Italia. Un'operazione di pubbliche relazioni che sta funzionando, tanto da far apparire l'Europa molto meno generosa rispetto alla Repubblica popolare. Ma le cose stanno davvero così? Abbiamo chiesto alla Protezione civile l'elenco dei materiali ricevuti gratuitamente da altri Paesi. Al 6 aprile le donazioni arrivate da Paesi esteri attraverso contatti con il Dipartimento della Protezione civile comprendevano diversi prodotti: mascherine, gel disinfettante, tute, guanti, occhiali protettivi, ventilatori polmonari, medicinali. Prendiamo le mascherine: al primo posto ci sono in effetti ben 2,3 milioni di mascherine arrivate dalla Cina, seguite dal milione regalato dalla Francia, dalle 500 mila donate da Egitto e altrettante da Taiwan. Apparentemente la Cina batte tutti. Ma vanno fatti due distinguo. Il primo: di queste 2,3 milioni di mascherine, solo 100 mila sono arrivate direttamente dalla Cina alla Protezione civile italiana mentre 2,2 milioni sono state donate all'Unione europea, che poi le ha girate all'Italia. La consegna di questa enorme ammontare di mascherine è frutto infatti di un accordo tra la presidente della Commissione Ursula von der Leyen e il premier cinese Li Keqiang. A seguito della donazione diretta dalla Cina all'Ue, il Centro di coordinamento della risposta alle emergenze le ha distribuiite in Italia. "Pechino non ha dimenticato che a gennaio, nel pieno dello scoppio del virus in Cina, l'Unione europea ha dato il suo contributo. Abbiamo rapidamente donato più di 50 tonnellate di attrezzatura protettiva" ha sottolineato il premier cinese. Il secondo distinguo riguarda chi può permettersi di donare materiale in questo momento: mentre oggi per un Paese europeo è difficile privarsi di mascherine nel pieno dell'emergenza, per la Cina invece è più facile. Come ricorda il New York Times la Cina produceva la metà delle mascherine del mondo prima che il coronavirus emergesse sul suo territorio, e da allora ha ampliato la produzione di quasi 12 volte. Quindi alla fine, pur senza sminuire il sostegno della Cina (che ci ha regalato anche 500 mila guanti e altri beni), un grande ringraziamento andrebbe riservato alla Francia, che si è privata di un milione di mascherine durante la crisi per darle agli italiani. Oltre alle mascherine (vedi elenco) i Paesi che hanno donato materiali alla Protezione civile sono l'Austria (3.360 litri gel disinfettante), Emirati arabi (15.000 tute, 15.000 camici, 500.000 guanti, 30.000 copri scarpa, 6.000 Sanitizers), Egitto (6 tonnellate di ipoclorito di sodio, 1,5 tonnellate di gel disinfettante, 2,4 tonnellate di perossido di idrogeno, 300 tute protettive), Federazione Russa (45 ventilatori polmonari), Francia (2.400 tute, 20.000 sopra-vestito), Germania (4 ventilatori), Giappone (50 pompe infusionali e 1.000 infusori), Pakistan (500.000 pastiglie di clorochina), Polonia (2.000 litri disinfettante), Repubblica Ceca (10.000 tute), Repubblica popolare cinese (500.000 guanti, 1.000 Covid test kit, 50.000 tute), Svizzera (10.000 tute), Taiwan (4.000 occhiali protettivi, 212 caschi protettivi, 450 visiere, 390 tubi endotracheali, 1.020 aspiratori), Turchia (1.000 tute protettive, 500 litri di liquido antibatterico), Ucraina (250 litri di disinfettante), Usa (medicinali). Inoltre hanno fornito team medici Albania, Cina, Cuba, Germania e Polonia. Le donazioni non sono arrivate solo alla Protezione civile: i dati non comprendono infatti i materiali regalati direttamente alle Regioni, al Ministero della Difesa e al Ministero degli Esteri. A quest'ultimo abbiamo inviato una richiesta di informazioni il 30 marzo, ma fino all'8 aprile non abbiamo avuto risposta.
Mascherine donate alla Protezione civile (dati aggiornati al 6 aprile 2020)
Egitto 500.000
Taiwan, in gran parte attraverso il Meccanismo europeo di protezione civile 500.000
Turchia 150.500
Repubblica Ceca 110.000
Svizzera 50.000
Emirati Arabi Uniti 20.000
Coronavirus, i "vip" di sinistra hanno il braccino corto: la raccolta fondi è un flop. La sottoscrizione benefica per il coronavirus in favore della Croce Rossa e la Protezione Civile promossa da Repubblica per il 25 aprile non va come deve: oltre 1300 firme, tra le quali tantissimi nomi altisonanti ma finora poche decine di migliaia di euro raccolti. Francesca Galici, Venerdì 10/04/2020 su Il Giornale. Il coronavirus ha paralizzato l'Italia e con lei le festività che ricadono all'interno di questo lockdown. Marzo è passato senza che ce ne accorgessimo e siamo già quasi alla metà di aprile con Pasqua e Pasquetta da trascorrere ognuno nelle proprie case. Ma non solo, perché aprile è il mese delle scampagnate all'aria aperta e dei primi ponti festivi, che quest'anno non ci saranno. Il 25 aprile saremo ancora rinchiusi e lo stesso il 1 maggio. Ma il 25 aprile, la festa della Liberazione, qualcuno vuole comunque festeggiarla. Ecco che quindi è nato il sito 25aprile2020.it, dove gli antifà sono pronti a ritrovarsi per una scampagnata virtuale a partire dalle 11 del mattino, magari indossando cappellini e t-shirt del Che, frutto del merchandising più capitalista degli ultimi 50 anni. Alle 14, la gran festa si sposterà poi su Repubblica.it, vero megafono del carrozzone, mai come quest'anno anacronistico, il tutto al grido di #iorestolibero. Immancabile il manifesto delle intenzioni, un testo che per i toni sembra arrivare direttamente dagli anni Settanta con l'obiettivo di smuovere certe coscienze. Nel lungo appello si chiama alla discesa in piazza per "porre fine a tutte le guerre fratricide per unirci tutti nell'unica lotta contro i tre nemici comuni: il virus, il riscaldamento del pianeta e le diseguaglianze socio-economiche." Questo gran minestrone d'intenti lo chiamano "convocazione a cittadine e cittadini" in una piazza virtuale che sarà "ugualmente gremita e animata." Squillino le trombe e suonino i tamburi, ben 1300 "protagonisti italiani della cultura, della società civile, dello spettacolo e dello sport" hanno già aderito all'appello, che prevede anche la lodevole sottoscrizione per una donazione alla Caritas Italiana e alla Croce Rossa Italiana, un'iniziativa che non può che raccogliere il plauso bi-partisan per far fronte all'emergenza coronavirus. Con oltre 1300 firme chissà che gran raccolta avranno già fatto gli amici del 25 aprile, che si sono posti l'obiettivo di arrivare a 300.000 euro entro la data dell'adunata virtuale. Tra i sottoscrittori del manifesto, d'altronde, ci sono nomi del calibro di Eugenio Scalfari ed Ezio Mauro. C'è il direttore di Repubblica Carlo Verdelli e c'è quello del Corriere della Sera. C'è Marco Travaglio ma ci sono anche Romano Prodi, Gustavo Zagrebelsky, Dacia Maraini e Maurizio Landini. Immancabili i grandi radical chic della televisione e dello spettacolo di sinistra come Fabio Fazio, Giovanni Floris, Adriano Celentano, Vasco Rossi, Jovanotti e Ligabue, solo per citare alcuni di quelli che non hanno perso tempo a dare il loro endorsement alla convocazione del 25 aprile. Con questo ricchissimo parterre di promotori, chissà che gran raccolta stanno effettuando. Invece, a oggi, sono stati raccolti poco più di 60.000 euro. La raccolta è ospitata sulla stessa piattaforma nella quale, solo un mese fa, i Ferragnez hanno avviato la loro iniziativa per la costruizione di una nuova terapia intensiva dedicata al coronavirus per l'ospedale San Raffaele con una donazione di partenza da parte loro di 100mila euro, che poi sono diventati oltre 4 milioni grazie alla generosità di più di 200mila persone. Grazie a quei soldi, in 10 giorni è stato costruito un intero reparto di terapia intensiva già pienamente operativo. Scorrendo l'elenco dei sottoscrittori della raccolta fondi del gruppo #iorestolibero si possono trovare gli slanci di generosità di liberi e comuni cittadini, ognuno dei quali ha versato cifre che oscillano tra le poche centinaia e le poche decine di euro. E vip altisonanti che hanno firmato? A scorrere l'elenco ci sono pochi nomi noti tra chi, oltre a mettere una firma, ha messo anche una mano al portafoglio. Come scrive Giovanni Sallusti su Libero: "Del resto, se non credono i promotori al caviale, perché dovrebbero crederci gli italiani?" Come fa ben notare il giornalista, probabilmente è il concetto di beneficenza ideologica a stridere e a non convincere. Il coronavirus è un flagello trasversale che non guarda in faccia nessuno, buoni e cattivi, partigiani e nostalgici. I manifesti ideologici sulla Liberazione di ieri non si sposano con i problemi concreti di oggi delle terapie intensive e delle decine di migliaia di morti. "Davanti al virus, le chiacchiere stanno a zero. Come la generosità radical chic", chiosa Giovanni Sallusti nel suo articolo oggi in edicola con Libero.
Napoli capitale di solidarietà: “Dove mangiano due ne mangiano anche tre”. Rossella Grasso de Il Riformista il 2 Aprile 2020. La fame comincia a farsi sentire a Napoli. Il decreto che obbliga tutti a stare a casa ha generato non poche difficoltà per chi lavora al nero o si destreggia tra vari lavoretti più informali. E in città, come spesso al Sud, si tratta di una grossa fetta della popolazione. Il risultato è che tante famiglie non riescono più a mettere il piatto in tavola. Per questo motivo i napoletani sono scesi in campo per essere solidali, come sempre hanno fatto durante ogni sciagura che si è abbattuta sulla popolazione. Ogni Municipalità ha organizzato la sua “spesa sospesa”, per offrire cibo a chi è più in difficoltà. “Sospesa”, come l’abitudine di lasciare in sospeso un caffè al bar, per chi non può permetterselo. “Un gesto che i napoletani sono abituati a fare e che soprattutto in questo momento è necessario continuare a fare”, ha detto una signora anziana che non ha dimenticato la situazione in città durante il colera. Anche allora la solidarietà scese in campo. E memore del passato offre oggi quanto può sotto forma di spesa sospesa. Oggi sono le municipalità, i commercianti, i cittadini, semplici volontari a mettersi a disposizione per aiutare. “Io sono una mamma, sapendo che c’è qualcuno che non può mangiare non potevo stare a casa”, dice una signora mentre prepara le buste della spesa da consegnare. Funziona così: i negozianti hanno messo a disposizione merce a prezzo di costo che chiunque può comprare e lasciare nel carrello. Si possono fare donazioni che poi vengono trasformate in buoni spesa oppure versare credito sull’iban proposto dalle Municipalità per affrontare la crisi (tutti i dati sono reperibili facilmente sulle pagine Facebook e sui siti di ogni quartiere). Tramite gli assistenti sociali e le segnalazioni la spesa viene poi divisa e consegnata nel rispetto dell’anonimato da un esercito di volontari che ha deciso di mettersi al servizio della comunità. Dietro le mascherine ci sono sorrisi, dietro gli occhiali che sia appannano ci sono sguardi che regalano affetto e in quelle mani, coperte dai guanti, c’è il calore di una stretta di mano che prima o poi potremo tornare a scambiarci. Un piccolo e commuovente gesto che vede la partecipazione di tanti che in questo momento di crisi è fondamentale affinchè nessuno rimanga solo o indietro. I napoletani lo sanno bene: “Dove mangiano due, mangiano anche tre”.
L'Italia del buon cuore tra cestini e collette. La solidarietà si organizza online. E c'è chi si propone per badare agli animali o curare l'orto. Chiara Giannini, Martedì 31/03/2020 su Il Giornale. Il momento è difficile, ma l'Italia sta mostrando il suo lato migliore. Con centinaia di persone che non hanno neanche i soldi per mangiare e gli aiuti statali ai Comuni che si vedranno solo tra qualche giorno, tra la popolazione è scattata una vera e propria gara di solidarietà. Le iniziative si sprecano. La Fondazione Banco alimentare di Milano, ad esempio, sta indirizzando tutte le richieste di aiuto alle strutture caritative più vicine a chi chiede aiuto. Tra tutte c'è la Croce verde di Baggio che ha messo a disposizione un servizio di consegna di spesa e medicinali a casa per disabili, over 65 e persone che non possono muoversi perché in quarantena. A Rosignano Marittimo, in provincia di Livorno, Misericordia e Pubblica assistenza hanno attivato servizi di consegna alimenti ma anche di aiuto per accudire animali domestici e da cortile e per il mantenimento dell'orto. Per chi non ha possibilità di acquistare il cibo, a Garlenda, in provincia di Savona, gli amministratori di un gruppo Facebook hanno promosso un'iniziativa per le famiglie bisognose che si chiama «riempi il carrello di solidarietà». Chi va a fare la spesa può acquistare prodotti, lasciarli in un apposito cesto e il parroco si occuperà di ritirarli e distribuirli a chi ha necessità. La Croce rossa italiana cerca volontari temporanei e all'appello hanno già aderito in molti, anche militanti di Casapound, che vengono utilizzati per la consegna del cibo. I volontari dei circoli operai di Lotta comunista di Genova si sono resi disponibili per la distribuzione della spesa ma anche per parlare al telefono per chi si sente solo. Centinaia, quindi, le raccolte online. Diverse quelle che passano per i gruppi Whatsapp o Telegram che chiedono piccole donazioni su conti correnti comunali. I soldi vengono utilizzati per l'acquisto di cibo e generi di prima necessità. A Roma c'è chi porta da mangiare agli extracomunitari della stazione Tiburtina, con qualche problema, visti gli assembramenti vietati. E ci sono anche singoli cittadini che promuovono collette o iniziative solidali. C'è chi, come il giornalista Salvatore Dama, pubblica instant book in vendita su Amazon per raccogliere fondi per l'ospedale Giovanni XXIII di Bergamo (il suo libro si intitola Scendo a pisciare il cane di peluche). Fratelli d'Italia, come spiega il responsabile nazionale del Dipartimento immigrazione Paolo Diop, invece, «si sta impegnando per promuovere una norma che dia aiuti diretti alle persone con disabilità, soprattutto autistiche», in questo momento in cui le famiglie non possono lavorare. Ma ci sono anche rappresentanti delle forze dell'ordine che, al di là del loro impegno in divisa sul campo, stanno cercando di aiutare i più bisognosi con iniziative personali. È il caso di un rappresentante dell'Arma di Napoli, che ha fatto la spesa a un 87enne che aveva chiamato il 112 perché non aveva più cibo.
SIMONE MOSCA per milano.repubblica.it il 28 marzo 2020. Ci fu nel 1985 quel famoso spot alcolico che spiegava che "Milano rinasce ogni mattina". Che "Milano è da vivere, sognare, godere". Che "Milano è da bere". Era la réclame dell'amaro Ramazzotti che 35 anni dopo fa uscire dallo storico stabilimento di Canelli, Asti, con la stessa etichetta del famoso liquore, bottigliette di disinfettante per le mani. L'idea, del gruppo Pernod Ricard che oggi gestisce il marchio piemontese, è a fin di bene. Il gel Ramazzotti verrà donato agli ospedali locali. Un po' amaro, gradi Covid-19 circa, è il perfetto contrappasso per la Milano, non più da bere ma da sanificare. E' dei giorni scorsi, peraltro, la notizia della preoccupazione dei produttori vinicoli italiani per le giacenze. Non tanto per il momento, quanto nella prospettiva dei prossimi mesi. Da qui l'idea, maturata insieme alla filiera delle distillerie di alcool: utilizzare una parte delle giacenze per produrre alcool denaturato, un prodotto povero, ma sempre più richiesto per igienizzare aziende, uffici, condomini, e anche case. Da due delle principali associazioni di settore, Alleanza cooperative agroalimentare e AssoDistil, la proposta si è subito concretizzata, ed è stata inviata al ministro dell'Agricoltura Teresa Bellanova.
Il grazie di Silvia alla Protezione Civile: «I miei genitori aiutati a tempo record». Pubblicato giovedì, 19 marzo 2020 su Corriere.it da Fausta Chiesa. «Vorrei condividere una cosa bellissima accaduta oggi». Comincia così il post pubblicato su Facebook di Silvia Boni, 55 anni, di Cernusco sul Naviglio (Milano), che racconta una storia a lieto fine. «I miei genitori vivono da soli a Sesto San Giovanni. Di solito andavo a trovarli tutti i giorni, ma da due settimane non li vedo per prudenza: sio io sia loro siamo tappati in casa, io lavoro da casa e non vado più a correre». Tre giorni fa l’allarme, lanciato via telefono dalla madre di Silvia. «Mi ha chiamato nel panico – prosegue - perché non avevano più le medicine salvavita. Hanno 82 anni, entrambi sono cardiopatici e immunodepressi: sono due persone in gambissima, nonostante le malattie, ma devono prendere circa dieci pastiglie al giorno». Silvia volevo portarli di persona, ma sua madre non ha voluto. «Sarei potuta intervenire - racconta - ma mia madre non vuole assolutamente che io mi muova da casa. Ha una paura tremenda che io mi ammali di Covid-19, ha già perso una figlia in un incidente d’auto anni fa e mi vuole proteggere». Andare all’ambulatorio medico era una soluzione impraticabile. La soluzione arriva da una vicina di casa, nonché amica di Silvia. «Rossana, che in questi giorni li aiuta anche con la spesa, ha chiamato per me la Protezione Civile al numero istituito dal Comune di Sesto e ha mandato la fotocopia della prescrizione medica via email. Il giorno stesso della telefonata, i volontari della protezione civile in modo meraviglioso hanno suonato alla porta dei miei genitori con tutto il necessario, anticipando anche i soldi (non pochi) dei medicinali già acquistati. Il giorno dopo sono tornati a portare l’ultima scatola che mancava perché la medicina non era disponibile in farmacia». Silvia descrive il palazzo in cui vivono i suoi come un esempio di solidarietà: «Altri vicini prestano lo smartphone ai miei genitori per fare le videochiamate con me. Lo dico senza enfasi: c’è una cordata di solidarietà pazzesca. Grazie al corpo della Protezione Civile, grazie Rossana, grazie vicini di casa».
Coronavirus Milano, la lunga notte dei volontari in ambulanza. Pubblicato domenica, 22 marzo 2020 su Corriere.it da Elisabetta Andreis. «Mi resta addosso quel “senso di annegamento” che ci descrivono le persone quando entriamo nelle case. In un attimo siamo a contatto con le loro paure, il terrore di morire, di andare in ospedale. Le troviamo con la febbre alta da giorni e le crisi respiratorie, nello sgomento dei parenti. Stanno tutti insieme barricati dentro, ormai senza neanche mascherine o guanti. Il contagio è un attimo quando si convive, praticamente impossibile evitarlo...». Beatrice Tamburrini, laureanda in farmacia, dal 2014 è volontaria all’ambulanza Sos Milano. Le sue parole pesano. Eppure non ha pensato per un attimo di mollare: consapevole dei rischi, ma anche dell’assoluta necessità. A 25 anni è capo equipaggio, nelle case dei sospetti Covid-19 sale sempre da sola. L’unica a intabarrarsi con la tuta protettiva, la visiera, la cuffia, la mascherina FFP2 e due paia di guanti, uno sopra l’altro. «Non so più come dare coraggio alle persone, senza la mimica facciale. Non si vede più nulla di noi che possa trasmettere empatia — dice —. Siamo disarmati, con gli occhi nascosti e senza sorriso». Al 90 per cento nelle ultime tre settimane sono stati casi di sospetti Covid, informano dalla centrale operativa. Una chiamata dopo l’altra. Interventi lunghi per la vestizione e per la sanificazione del mezzo con pulizia profonda di ogni singola superficie dopo ogni trasporto. Cloro, alcool, spray in modo quasi maniacale. Venerdì sera, ore 23. Ennesima emergenza. Beatrice e Emiliano dietro, Davide alla guida, la sirena spiegata. C’è un signore di 75 anni che abita solo, col figlio che è arrivato a soccorrerlo: l’anziano ha febbre alta da dieci giorni, gli antibiotici non fanno effetto. Ha un livello di saturazione del sangue bassissimo: crisi respiratoria. «Eppure non voleva essere portato in ospedale, sgranava occhi, ripeteva che non voleva rimanere solo». La voce un po’ si strozza, a Beatrice: «In ambulanza, col poco fiato che gli restava in gola, ha chiesto se potevamo portarlo nello stesso ospedale in cui era la moglie. Ricoverata Covid». La squadra non è riuscita ad esaudire quel desiderio, purtroppo: «C’è un clima di guerra, un senso di perdita che affligge la gente», scuote la testa Beatrice. Altra chiamata: quarantenne, febbre alta da una settimana, tosse stizzosa. In casa con lui, vicino a viale Monza, la moglie e due bambini. Beatrice misura la percentuale di ossigeno, va bene. «Ci ha raccontato che nel pomeriggio era già stato in ospedale per una crisi respiratoria ma fatti gli esami lo avevano rimandato indietro raccomandandogli di tornare solo nel caso di complicazioni». È mezzanotte. Dall’altra parte di Milano, in Bovisa, un mezzo della Croce Rosa Celeste va a prendere un uomo sui 60 anni con anestesista e infermiere: «Alla fine era un “semplice” codice rosso, non Covid, ma abbiamo paura. Non ci sentiamo abbastanza protetti, perché non ci sono tamponi per noi?», chiede Riccardo Borlenghi, ingegnere, da 36 anni in servizio. Alla Croce Amica di Basiglio un volontario su tre si è tirato indietro per paura di contagiare familiari anziani, i cinquanta che restano offrono tutto il loro tempo libero con turni anche tripli, di notte e ai week end. Carlo Visconti, 39 anni, vicepresidente e soccorritore, oltre che docente al Politecnico, ha persino organizzato una vettura aggiuntiva per fare la spola a Bergamo: «Lì ormai si porta in ospedale solo chi si pensa possa essere recuperato. Non c’è turno senza che accada di lasciare qualcuno a casa — abbassa lo sguardo —. A Milano non è così, ma ultimamente abbiamo chiamate di persone più giovani. Finora hanno resistito senza crisi respiratorie». E adesso?
Da "lettera43.it" il 27 marzo 2020. Camici monouso destinati alla protezione degli operatori sanitari impegnati nella battaglia al coronavirus. Li produrrà il gruppo Armani che in una nota ha comunicato la conversione di tutti i propri stabilimenti produttivi italiani. Nelle scorse settimane, a seguito dell’iniziale donazione stanziata a favore della Protezione Civile e degli ospedali Luigi Sacco, San Raffaele, Istituto dei Tumori di Milano e dello Spallanzani di Roma, Giorgio Armani ha deciso di dare il suo contributo anche all’ospedale di Bergamo, a quello di Piacenza e a quello della Versilia, arrivando così a una donazione complessiva di 2 milioni di euro. Oltre ad Armani, hanno risposto agli appelli anche altri brand del fashion: da Scervino a Valentino, fino a Gucci e Prada e Ferragamo.
Da "ansa.it" il 27 marzo 2020. Piovono donazioni dal mondo della moda per l'emergenza sanitaria dovuta al coronavirus. 1 milione di euro è arrivato dalla Valentino Garavani e Giancarlo Giammetti Foundation per Il Columbus Covid 2 del Gemelli a Roma. Due milioni da Gucci insieme a Intesa Sanpaolo e Facebook: un milione per la Protezione Civile Italiana con la creazione di nuovi posti letto in terapia intensiva in via prioritaria, l'altro milione per Solidarity Response Fund della Fondazione delle Nazioni Unite a sostegno dell'Organizzazione Mondiale della Sanità attraverso la campagna di Matchmaking lanciata da Facebook, che a sua volta corrisponderà una cifra pari all'importo complessivo delle donazioni, nell'ambito dell'iniziativa di Matching. L'iniziativa segue le donazioni precedenti del Gruppo Kering, di cui Gucci fa parte, in Cina, Italia e Francia, e l'annuncio della produzione di oltre 1 milione di maschere e camici per il personale sanitario in risposta all'appello della regione Toscana. Da Giorgio Armani, che aveva già donato 1.250.000 euro nelle scorse settimane per gli ospedali, si aggiungono altre 750mila euro, arrivando a 2 milioni. Non solo perché Re Giorgio ha deciso di riconvertire l'intera produzione di abbigliamento dei suoi stabilimenti per produrre camici monouso, destinati alla protezione del personale sanitario impegnato negli ospedali nella lotta al Covid-19. Per quanto riguarda il futuro della moda lo stilista è drastico: "E' inevitabile, dovremo trovare soluzioni diverse per raggiungere il consumatore. E il tempo di verifiche e di identificazione di ciò che è veramente necessario e non di dare voce alla necessità di parlare di moda in termini enfatici". E ciò che è essenziale in questo momento per Giorgio Armani, l'uomo più pragmatico della moda, è aiutare gli ospedali. La prima somma di 1.250.000 euro nelle scorse settimane, era andata a favore della Protezione Civile e degli ospedali Luigi Sacco, San Raffaele, Istituto dei Tumori di Milano e dello Spallanzani di Roma. Ora ha deciso di aumentare il suo contributo anche all'ospedale di Bergamo, a quello di Piacenza e a quello della Versilia. Di fatto le regole imposte dal governo per il contenimento del contagio hanno momentaneamente paralizzato l'industria della moda. I negozi sono stati chiusi. Le aziende del settore hanno dovuto sospendere completamente le attività produttive. Ma alcune hanno convertito la produzione per aiutare gli ospedali come ha fatto Armani e come ha fatto Prada, che dal 18 marzo ha avviato su richiesta della Regione Toscana la produzione di 80.000 camici e 110.000 mascherine da destinare al personale sanitario della Regione secondo un piano che prevede consegne giornaliere che saranno ultimate entro il 6 aprile. Camici e maschere sono prodotti internamente nell'unico stabilimento del Gruppo - Prada Montone (Perugia) rimasto operativo a questo scopo e da una rete di fornitori esterni sul territorio italiano. Anche Bulgari, dopo aver fatto un'importante donazione all'ospedale Spallanzani per l'acquisto di un nuovo microscopio 3D ad alta definizione indispensabile per la ricerca, ha deciso di produrre insieme al suo storico partner di fragranze, ICR (Industrie Cosmetiche Riunite, Lodi), diverse centinaia di migliaia di flaconi di gel disinfettante per le mani da fornire in via prioritaria a tutte le strutture mediche attraverso il coordinamento del Governo Italiano. La produzione prevede 6000 pezzi al giorno fino ad arrivare ad un totale di 200.000 pezzi in circa due mesi. E l'elenco è destinato ad allungarsi.
Coronavirus: Amazon dona 3,5 milioni a Protezione Civile ed enti no profit. Lanciato anche un "pulsante per donare" sul sito e una skill Alexa per semplificare le donazioni degli utenti. La Repubblica il 27 marzo 2020. Amazon ha stanziato oggi 3,5 milioni di euro per offrire un supporto concreto nell'emergenza Covid-19. Lo annuncia il gruppo di Seattle chiarendo che la cifra include una donazione di 2,5 milioni di euro alla Protezione Civile Italiana per dare un ulteriore contributo al suo incredibile impegno nella lotta al coronavirus e una donazione di 1 milione di euro per sostenere gli sforzi delle tante organizzazioni no profit e degli enti che operano nei territori e nelle comunità in cui vivono e lavorano i dipendenti Amazon e con cui l'azienda lavora da tempo. Amazon ha lanciato inoltre un "pulsante per donare" sul sito e una skill Alexa per semplificare le donazioni di tutti i clienti che volessero dare il proprio contributo alla Protezione Civile. In questo modo i clienti potranno effettuare donazioni con Amazon Pay anche di piccola entità, attraverso pochi clic, senza effettuare acquisti, o utilizzando il comando vocale "Alexa, voglio fare una donazione per il coronavirus". "Crediamo che il nostro ruolo nel fornire un servizio ai clienti e alle comunità, in questo momento, sia cruciale. Oltre ad assicurarci che i clienti italiani possano ottenere i prodotti di cui hanno più bisogno, tutelando la sicurezza dei nostri dipendenti e partner, vogliamo offrire un ulteriore contributo alla lotta al coronavirus", afferma Mariangela Marseglia, VP e Country Manager di Amazon.it e Amazon.es. "É importante in questo momento essere uniti e al fianco di organizzazioni come la Protezione Civile e dei governi dei Paesi europei e di tutto il mondo per supportare i loro sforzi in questa emergenza. Siamo al lavoro per mettere in campo ulteriori iniziative a supporto di cittadini, comunità e piccole medie imprese italiane e siamo certi che supereremo insieme questo momento di difficoltà".
Da lettera43.it il 27 marzo 2020. Nel cuore dell’emergenza coronavirus in Italia non mancano i gesti di solidarietà e le donazioni per sostenere chi sta lavorando in prima linea in questa battaglia contro il Covid-19, ma non solo. C’è anche chi ha voluto dare sostegno a chi in questa situazione si trova lontano da tutto e da tutti, i detenuti. TIM in collaborazione con il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria – Ministero di Grazia e Giustizia ha donato 1.600 cellulari e altrettante SIM agli istituti penitenziari italiani. Un gesto per sostenere e avvicinare i carcerati ai propri familiari in questo periodo di emergenza dovuto al Coronavirus. Grazie all’iniziativa messa in campo da TIM i detenuti potranno parlare con i propri cari, che non incontrano ormai da tempo dopo lo stop alle visite in carcere, e fare con loro videochiamate. Un modo per sentirsi meno soli in seguito alle restrizioni introdotte per ragioni sanitarie legate all’emergenza Covid-19. Tutto il materiale donato da TIM è stato consegnano al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria ai Provveditorati regionali. La promessa è che in breve tempo, cellulari e SIM arriveranno negli Istituti Penitenziari del territorio di competenza. La collaborazione tra TIM e il Ministero di Grazia e Giustizia per dare sostegno ai detenuti è solo un piccolo tassello di un progetto più ampio e ricco messo in campo dalla compagnia telefonica. Si chiama Operazione Risorgimento Digitale che comprende anche un protocollo d’intesa, siglato con il Ministero, che ha il duplice obiettivo di creare competenze utili al reinserimento nella società dei detenuti e un piano di formazione rivolto non solo ai detenuti ma anche a tutti i dipendenti del Ministero. È così che la compagnia telefonica prosegue il suo impegno non solo per dare un sostegno e un aiuto ai detenuti ma anche per consentire la regolare connettività di tutto il Paese. Tra gli obiettivi di TIM anche quello di sostenere le nuove priorità di digitalizzazione emerse nelle ultime settimane in Italia. Lo svolgimento della vita quotidiana di milioni di italiani è cambiato, le imprese stanno approntando la sfida dello smart working e le scuole e le università quella della didattica online. Proprio per questo TIM si sta impegnando anche per rafforzare i servizi di pubblica utilità.
Da affaritaliani.it il 20 marzo 2020. L’amministratore delegato di Apple, Tim Cook, ha annunciato un’importante donazione, anche di materiale sanitario, all’Italia tramite la Protezione Civile. L’ha annunciato lui stesso in un Tweet diffuso tramite i suoi canali social. "Non è mai stato più importante sostenersi uno con l'altro. Stiamo effettuando un'importante donazione, incluse forniture mediche alla Protezione Civile in Italia per aiutare questi eroici primi soccorritori, il personale medico e i volontari che lavorano senza sosta per proteggere e salvare vite", ha scritto l’ad di Apple, che ha concluso il tweet con la parola “vicini” seguita dalla bandiera italiana e un cuore.
Da “ansa.it” il 24 marzo 2020. Pirelli in considerazione dell'emergenza coronavirus ha deciso di annullare il progetto per il calendario 2021 e di donare invece 100 mila euro, oltre alle altre iniziative già intraprese dal gruppo. "È già avvenuto in passato, nel 1967 e poi dal 1975 al 1983, che il Calendario Pirelli non fosse realizzato. La straordinaria emergenza Covid-19 ci spinge oggi a fare altrettanto. Ci rimetteremo al lavoro al momento giusto, insieme a coloro che oggi erano al nostro fianco nel progetto", ha dichiarato il Vice Presidente Esecutivo e Amministratore Delegato, Marco Tronchetti Provera. E il progetto "The Cal", precisa una nota, nell'ambito delle iniziative già intraprese dalla società, donerà 100 mila euro a favore della lotta e della ricerca contro il Coronavirus.
Ettore Boffano e Filippo Di Giacomo per “il Fatto quotidiano” il 23 marzo 2020. Papa Francesco predica bene ai tempi del coronavirus, passeggia nelle strade di Roma per andare a pregare in due chiese del centro, ma soprattutto per affermare quel non arrendersi alla paura e alla solitudine, e rilascia interviste (l' ultima a La Stampa di Torino, venerdì scorso) nelle quali ribadisce parole come queste: "Bisogna ricordare una volta per tutte agli uomini che l' umanità è un' unica comunità. E quanto è importante, decisiva la fraternità universale. Dobbiamo pensare che sarà un po' un dopoguerra. Non ci sarà più l'altro, ma saremo noi. Perché da questa situazione potremo uscire solo tutti insieme". Frasi che, sia pure nei formalismi di risposte inviate probabilmente via Internet e giunte dalla clausura-quarantena che ha coinvolto anche la residenza di Santa Marta, non sembrano lasciare dubbi per ciò che riguarda la loro interpretazione nello stesso tempo più profonda ma anche più pragmatica: serve solidarietà. Tra gli Stati di una stessa comunità continentale e anche del Mondo, da parte di chi più ha avuto e ha nella nostra società, tra gli stessi cittadini comuni e nella vita di ciascuno di noi. Compresa la Chiesa, a cominciare da quella italiana, coinvolta in un' emergenza che per ora ha avuto uguali solo in Cina. Ma è a questo punto che, anche se sarebbe sbagliato spingersi a dire che Bergoglio predica bene ma il suo gregge razzola male, si comincia a intravedere una certa pigrizia (chiamiamola pure così, si tratta pur sempre di un "vizio capitale") nelle gerarchie che guidano la Conferenza episcopale italiana: i vertici della nostra Chiesa. Spieghiamoci con qualche esempio e qualche numero (i dati sono del Mef, Dipartimento delle Finanze). Facendo una media ponderale di quanto l' Unione buddista italiana e la Chiesa valdese hanno versato per l' emergenza coronavirus, in rapporto a quanto hanno ricevuto dall' 8 per mille nell' anno 2019 sui redditi ripartiti nel 2015, emerge un dato del 20,33 per cento: i valdesi, infatti hanno ricevuto 43.198.823 euro e hanno donato sinora 8 milioni di euro (il 18,52 per cento), mentre i buddisti hanno donato 3 milioni di euro contro i 13.549.941 ricevuti (il 22,14 per cento). Se quella media del 22,33 fosse dunque applicata al gettito dell' 8 per mille arrivato alla Chiesa italiana nello stesso periodo (un miliardo, 131 milioni, 196.216 euro), l' ipotetica donazione alla "diletta nazione italiana" (così un tempo i pontefici chiamavano nei loro discorsi l' Italia) potrebbe raggiungere la cifra di 229 milioni, 972.190 euro. Per il momento, almeno consultando il sito della Cei, risulta un' unica donazione ufficiale, per l' emergenza coronavirus, di 10 milioni: affidati alla Caritas italiana. È vero infatti che l' 8 per mille serve alla Chiesa (teoricamente) per mantenere il clero e i religiosi e per opere di assistenza e di carità già in corso, ma non è certo un destino diverso da quello che riguarda le identiche destinazioni alla Chiesa valdese e all' Unione buddista, mentre analoga è l' origine di quelle somme: la generosità degli italiani che oggi vivono in una situazione gravissima. Non c' è da dubitare, però, che anche e soprattutto i vescovi italiani leggano le interviste del papa e quelle sue riflessioni sulla "fraternità universale". E magari si preparino a dichiarare, come ha fatto il presidente dei vescovi spagnoli, che "sono a disposizione del governo sia le opere sia le risorse" della Chiesa.
Coronavirus, un milione e mezzo di euro per l’ospedale Sacco di Milano. Pubblicato venerdì, 20 marzo 2020 su Corriere.it da Marco Brunelli. Sostenere i medici e le strutture sanitarie nella battaglia contro il virus e per uscire dall’emergenza. L’imprenditore Marco Brunelli, Esmeralda Gerli e il gruppo Finiper partecipano alla gara di solidarietà dei lombardi donando 1 milione e mezzo di euro per l’ospedale Sacco di Milano, il presidio specializzato in malattie infettive che ha sempre più bisogno di aiuti per affrontare questi giorni drammatici.E qui la raccolta fondi «Un aiuto contro il coronavirus» promossa da Corriere della Sera, Gazzetta dello Sport e La 7.
Già 300 mila euro di aiuti destinati agli ospedali: ecco come partecipare. Pubblicato giovedì, 19 marzo 2020 su Corriere.it da Alessio Ribaudo. Sfiorano i 300mila euro le donazioni che i lettori di Corriere della Sera, Gazzetta dello Sport e i telespettatori di La7 hanno inviato alla raccolta fondi organizzata dai tre media, ribattezzata «Un aiuto contro il coronavirus». La somma raccolta servirà per l’acquisto di attrezzature mediche di prima necessità. In un momento di estrema difficoltà del Paese l’informazione ampia, corretta e verificata rimane la priorità del buon giornalismo e diventa, ancor di più, un dovere civile oltre che professionale. Ora, però, c’è bisogno anche di rispondere a una richiesta di aiuti concreti per dare una risposta tangibile al commovente appello del mondo medico-sanitario che non sta chiedendo di guadagnarsi un po’ di meritato riposo ma di avere gli strumenti necessari per lavorare di più e meglio, per salvare altre vite e preservare quelle degli operatori. Sono oltre 3.500 i sanitari contagiati e almeno 14 quelli che sono stati sopraffatti dal Covid-19. Di fronte a questi numeri nessuno può girarsi dall’altra parte, ma tutti dovrebbero «rubare» e mettere sulla propria porta di casa l’indimenticabile cartello che don Milani espose su una parete della scuola di Barbiana: «I care», «Mi sta a cuore». La «macchina» di solidarietà di «Un aiuto subito», è partita nel 1997. Il suo motore è sempre stato il grande cuore degli italiani. Da allora, non si è mai fermata e ha realizzato tante iniziative di soccorso alle popolazioni colpite da disastri naturali. Ventitré anni fa, per esempio, si mobilitò per i terremotati di Umbria e Marche. Con i circa 16 miliardi di lire (circa 8,3 milioni di euro) raccolti fu possibile, tra l’altro, donare 144 libretti al portatore ad anziani e bambini bisognosi, ristrutturare la Casa Famiglia per minori di Santa Lucia di Gubbio e costruire un ospedale a Nocera Umbra. L’ultima volta, invece, è intervenuta a Venezia dopo la devastante «acqua granda» che, il 12 novembre scorso, ha inondato per 24 ore la città. I 900mila euro raccolti e consegnati al sindaco Luigi Brugnaro sono serviti per comprare 10 pompe mobili e 16 generatori. Il materiale è stato destinato all’isola di Pellestrina, un lembo di terra che divide la laguna dal mare, e permetterà ai tecnici, in caso di emergenza, di liberare case e calli dalla massa d’acqua che potrebbe arrivare dalla laguna o risalire dalle caditoie.
Pioggia di donazioni per ospedali e medici: dal Papa ai blogger, milioni di euro versati. Pubblicato giovedì, 19 marzo 2020 su Corriere.it da Antonella De Gregorio. La macchina della solidarietà gira a pieno regime per sostenere ospedali e personale sanitario. Scattata l’emergenza coronavirus, le Regioni, soprattutto quelle più colpite come la Lombardia, il Veneto, l’Emilia Romagna e il Piemonte hanno ricevuto centinaia di donazioni, da pochi euro a diversi milioni, da impiegare per potenziare i reparti di terapia intensiva degli ospedali o per costruirne di nuovi. In prima linea anche il Corriere della Sera, che insieme a La7 e Gazzetta dello Sport ha promosso una raccolta fondi destinata all’acquisto di attrezzature mediche di prima necessità. Ecco tutte le iniziative in corso. A molte è possibile aderire. Papa Francesco, tramite il Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale, ha donato 100mila euro a Caritas Italiana per un primo soccorso in questa fase di emergenza. Mentre la Cei ha accolto una richiesta di sostegno della Fondazione Banco Alimentare Onlus, stanziando mezzo milione di euro dai fondi dell’Otto per mille, che i cittadini destinano alla Chiesa cattolica, in favore delle attività di una rete che comprende 21 Banchi in tutta Italia. La campagna lanciata da Fedez e Chiara Ferragni a favore del San Raffaele di Milano ha superato l’obiettivo dei 4 milioni di euro (quasi 200 mila donazioni complessive). «Venerdì 20 sarà pronta la nuova terapia intensiva ad alta tecnologia costruita da zero in 12 giorni. Grazie a tutti voi», ha annunciato il cantante su Twitter. Luciana Littizzetto, molto seguita su Instagram, ha lanciato #RiprendiAMOfiato per mettere da parte 500mila euro da destinare all’unità di crisi della Regione Piemonte. «Conto su di voi, non vedo l’ora di terminare la raccolta», ha detto ai suoi 2,6 milioni di follower. Fiorello invece ha lanciato un appello per la donazione del sangue al Policlinico Gemelli. Le iniziative dei big hanno ispirato anche piccoli blogger. Come Chiara Mantovani, 24 anni, la cui raccolta fondi per la terapia intensiva dell’ospedale Maggiore di Lodi solo nel primo giorno ha superato su GoFoundMe quota 50mila euro. Dopo 9 giorni è arrivata a 143mila. Blogger e influencer abruzzesi, compreso l’«Abruzzese fuori sede», si sono uniti nel #TeamAbruzzo per ottenere donazioni per la terapia intensiva nella loro regione superando i 170mila euro in poco più di una settimana. La blogger e youtuber veronese Martina Rodini si è attivata per un crowndfounding in favore dell’ospedale Sacro Cuore Don Calabria di Negrar raccogliendo 17mila euro in 6 giorni. E alcuni food blogger del Catanese, si sono mossi per sostenere l’assessorato regionale alla Salute della Regione Siciliana. Il tetto della generosità è stato sfondato da Silvio Berlusconi, con una donazione record alla Regione Lombardia: dieci milioni di euro per realizzare il reparto di terapia intensiva da 400 posti alla Fiera di Milano. La famiglia Agnelli ha messo 10 milioni di euro a beneficio del Dipartimento Protezione Civile, mentre Exor e le controllate Fca, Ferrari e Cnh Industrial stanno acquistando presso fornitori esteri 150 respiratori e materiale medico-sanitario. Un milione dall’azienda farmaceutica Bayer agli ospedali della Lombardia per acquistare macchinari salvavita. E il gruppo Lavazza è intervenuto con dieci milioni di euro per progetti di sostegno a sanità, scuola e fasce deboli della Regione Piemonte. Oltre mezzo milione di euro è stato devoluto alla causa dal Gruppo Falck, «di cui duecento mila euro attraverso Falck Renewables», fa sapere il Gruppo. Alla prima donazione al Sacco di Milano del 4 marzo, Banca Mediolanum ha aggiunto ulteriori contributi, oltrepassando quota 1 milione di euro, devoluti interamente agli ospedali in prima linea in questa emergenza sanitaria, dal San Matteo di Pavia, a Policlinico e Fatebenefratelli di Milano. Il Gruppo Barilla ha fatto una donazione di oltre 2 milioni di euro a favore dell’ospedale Maggiore di Parma, della Protezione civile e della Croce Rossa di Parma. Donazioni dal gruppo Caleffi, da Campari (al Sacco di Milano). Fastweb verserà 100 mila euro ciascuno a Policlinico di Milano, Spallanzani di Roma, Policlinico di Bari. Mentre Apple farà una donazione «significativa» alla Protezione civile italiana. La Fondazione Tim dona 500mila euro e lancia una sottoscrizione volontaria tra i dipendenti, impegnandosi a completare la raccolta fondi fino alla concorrenza di altri 500mila euro, anticipando l’intera somma a San Raffaele di Milano, Consorzio per la Ricerca Sanitaria - CORIS della Regione Veneto; Spallanzani di Roma, l’Istituto Nazionale Tumori «Pascale» di Napoli. Orogel, colosso cesenate dei surgelati, dona 800mila euro all’ospedale Bufalini di Cesena e alla Caritas di Cesena. Il gruppo Mapei ha destinato 750mila euro agli ospedali milanesi San Raffaele, Policlinico e Sacco. La Fondazione Lene Thun onlus, dona 100mila euro e lanciar una raccolta fondi per medici, infermieri e personale sanitario. Gian Luca Rana, amministratore delegato di Pastificio Rana, dona 400mila euro per l’acquisto di apparecchiature per la ventilazione assistita per gli ospedali del Veneto. Dopo gli slanci di generosità di singoli campioni - da Ibrahimovic, a Insigne, Simone Zaza, Francesco Totti - e di intere squadre (Roma e Juventus), scende in campo anche l’Inter, con i suoi proprietari cinesi Suning International, che hanno donato 300mila maschere mediche e altri prodotti sanitari alla Protezione Civile italiana. La Sampdoria ha versato all’Ospedale San Martino di Genova più di 100mila euro nel conto corrente dove arrivano tutte le donazioni a favore della struttura ospedaliera che sta operando in queste settimane per curare le persone colpite dal Covid-19. L’Assemblea di Serie B all’unanimità ha deliberato l’acquisto di 20 dispositivi di ventilazione polmonare da donare ad altrettante strutture ospedaliere del Paese. Mentre l’AC Monza ha donato 50 mila euro all’Ospedale San Gerardo di Monza. Il Gruppo Trussardi ha attivato una raccolta fondi a favore di CESVI per sostenere l’acquisto di respiratori e ventilatori polmonari per l’Ospedale Papa Giovanni di Bergamo XXVIII.Gli amministratori delegati e il presidente di Prada hanno donato due postazioni complete di terapia intensiva e rianimazione a ciascuno degli ospedali milanesi Vittore Buzzi, Sacco e San Raffaele. Donatella Versace, Chief Creative Officer di Versace, e sua figlia, Allegra Versace Beck, doneranno 200mila euro al dipartimento di terapia intensiva del San Raffaele. Kering, i suoi marchi italiani e tutti quelli con rilevanti attività nel Paese (Gucci, Bottega Veneta, Saint Laurent, Balenciaga, Alexander McQueen, Brioni, Kering Eyewear e Pomellato) effettueranno una donazione pari a 2 milioni di euro. La famiglia Benetton, attraverso la holding Edizione ha donato tre milioni agli ospedali Ca’ Foncello di Treviso, Sacco di Milano, Spallanzani e Policlinico Agostino Gemelli di Roma. Da Technogym , un milione di euro ai reparti di terapia intensiva degli Ospedali della Romagna. E dal Consorzio Tutela Grana Padano, un milione diviso tra Lombardia, Veneto, Piacenza, Trentino e Piemonte, per l’acquisto di strumentazione sanitaria quale respiratori, tamponi, mascherine. Investindustrial e le sue partecipate stanno donando oltre €6.5 milioni a diversi ospedali in Europa. Un milione all’ospedale Sacco anche dal gruppo Selex. Tre milioni in arrivo dall’Unione Buddhista Italiana (Ubi): metà andrà alla Protezione Civile, il resto alle organizzazioni del Terzo Settore. La Fondazione Andrea Bocelli sostiene l’ospedale di Camerino, uno dei «Covid hospital» delle Marche, riservato a pazienti positivi al coronavirus.
Raccolta fondi per il coronavirus, ecco chi non fa «trattenute». Pubblicato lunedì, 16 marzo 2020 su Corriere.it da Fausta Chiesa. In questi giorni di emergenza da coronavirus si sono moltiplicate le raccolte fondi a favore di ospedali e strutture sanitarie. Tantissimi italiani, non soltanto aziende, ma anche privati cittadini, si sono mobilitati e si stanno attivando. Ma sappiamo come funzionano e quanti soldi andranno effettivamente ai beneficiari? Prendiamo per esempio «Go Fund Me», la più grande realtà di raccolta fondi sociale del mondo. La pagina creata appositamente, «#Insieme Contro il Coronavirus», conta oltre trenta campagne attive che complessivamente, al pomeriggio di ieri, hanno raccolto circa nove milioni. Per l’elaborazione dei pagamenti la piattaforma applica una tariffa del 2,9% dell’importo più un costo fisso di 0,25 euro a donazione. Ma non solo. Un’opzione automatica le fa percepire un ulteriore 10% della donazione, quella che la piattaforma chiama «mancia». In pratica, se non si sceglie diversamente, della donazione non arriva al destinatario il 12,9% della somma. Il contributo volontario può essere abbassato o annullato, ma quasi nessun «organizer» delle campagne lo segnala. Lo ha fatto Lara Signoriello, organizzatrice della raccolta fondi per l’Ospedale Sant’Anna di Como, che ha pubblicato un avviso: «Da ogni donazione effettuata viene trattenuta una percentuale preimpostata per offrire un contributo NON OBBLIGATORIO per la gestione della piattaforma. Questo contributo può essere ridotto fino a 0 € permettendo così di donare il 100% a chi si sta cercando di aiutare». Chi offre una piattaforma a zero commissioni è Fondazione Italia per il Dono onlus. «Per la raccolta sugli ospedali — spiega il presidente Bernardino Casadei — abbiamo azzerato tutte le commissioni: se una persona dà 100 arriva 100. È importante rendere consapevoli le persone dei costi eventuali e dare sicurezza che i soldi finiscano all’ente e che l’ente li utilizzi per le finalità stabilite. Sulla scorta delle esperienze passate, siamo convinti che il problema principale non sia tanto raccogliere risorse, ma spenderle in modo corretto e trasparente e per questa ragione pensiamo che intermediari filantropici come Fondazione Italia per il dono possano svolgere un ruolo strategico». «Questa settimana — replica Go Fund Me — abbiamo lavorato 24 ore su 24 per aiutare gli organizzatori. Ogni singola campagna è stata verificata e validata. E soprattutto garantita: o le donazioni arrivano al beneficiario indicato o i donatori sono rimborsati». Nel caso della campagna per il Sant’Anna il beneficiario è la Fondazione Comasca che poi gira i soldi alla struttura, ma non sempre le raccolte fondi indicano un beneficiario. Per indirizzare gli italiani, la startup innovativa a vocazione sociale «Italia non profit» assieme all’Associazione Italiana Fundraiser Assif e a un gruppo informale di professionisti (Fundraising task force - Covid19), ha ideato la pagina web «Donazioni Coronavirus» che aggrega le campagne di raccolta fondi autorizzate dalle strutture ospedaliere. «Abbiamo creato una lista - spiega Nicola Bedogni, presidente Assif - e non una classifica delle raccolte fondi promosse direttamente dagli ospedali o da soggetti terzi che però abbiano ricevuto un incarico ufficiale dalle strutture beneficiarie stesse. E questo a maggiore garanzia di affidabilità, fermo restando che la nostra verifica non prevede la certezza dell’utilizzo immediato delle risorse per le esigenze manifestate dalle singole campagne, poiché l’impiego effettivo dei fondi raccolti rimane sempre a discrezione del beneficiario e ciò può dipendere in larga parte anche dall’evoluzione della pandemia». «Attraverso l’iniziativa - spiega Giulia Frangione, Ceo di Italia non profit - non vogliamo esprimere giudizi di valore o di merito sulle campagne, ma aiutare i cittadini a orientarsi e informarsi sulle modalità di funzionamento di ogni piattaforma di crowdfunding o di sostegno ai singoli ospedali».
S.O. per “il Messaggero” il 12 marzo 2020. «La libertà non è uno spazio libero. Libertà è partecipazione», cantava Gaber. Niente di più vero in questi giorni di confinamento. C'è una ritrovata voglia di unità, e proprio prendendo spunto dall'inno nazionale è nato il titolo L'Italia Chiamò, diretta streaming di diciotto ore domani dalle 6 alle 24. Oltre cento artisti, conduttori di radio e tv, protagonisti del mondo della cultura, della scienza, dell'economia, dell'informazione e dell'innovazione, per un grande live streaming su litaliachiamo2020.it, il canale YouTube del MiBACT. Sarà una vera e propria staffetta di voci e volti collegati via Skype da casa, senza infrangere le norme di sicurezza.
LA LISTA. La lista è lunga, tra sketch, monologhi e canzoni: Manuel Agnelli, Alfa, Claudio Amendola, Renzo Arbore, Luca Barbarossa, Giorgio Barberio Corsetti, Andrea Bocelli, Alex Britti, Massimiliano Bruno, Brunori Sas, Calcutta, Cristiana Capotondi, Ilaria Capua, Casa Surace, Carolina Crescentini, Cristina D'Avena, Eugenio in Via di Gioia, Oscar Farinetti, Pierfrancesco Favino, Anna Foglietta, Francesco Gabbani, Paolo Genovese, Giosada, Michela Giraud, Caterina Guzzanti, Le Vibrazioni, Lo Stato Sociale, Carlo Lucarelli, Mirkoeilcane, Modena City Ramblers, Laura Morante, Motta, Negramaro, Orchestra di Piazza Vittorio, Pinguini Tattici Nucleari, Piotta, Giorgio Poi, Massimo Popolizio, Saverio Raimondo, Marina Rei, Rockin1000, Daniele Silvestri, Ema Stokholma, The André, The Jackal, The Pills, Davide Toffolo, e molti altri.
I CONTENUTI. Vari i contenuti, dalla visita agli scavi di Pompei con il direttore Massimo Osanna ai segreti del Museo Egizio con il direttore Christian Greco, dal dietro le quinte della mostra di Raffaello alle Scuderie del Quirinale con il direttore Mario De Simoni alla una passeggiata nella Sala di Raffaello e Michelangelo degli Uffizi con il direttore Eike Schmidt. Si racconteranno le storie di chi reagisce e resiste, come gli insegnanti che garantiscono l'attività didattica a migliaia di ragazzi con lezioni online e gli imprenditori e i manager che con lo smart working stanno reinventando le aziende per continuare ad essere produttivi.
LA RACCOLTA FONDI. Inoltre si promuove la raccolta fondi per sostenere medici, infermieri e gli addetti del sistema sanitario nazionale e per la creazione di nuove postazioni presso i reparti di terapia intensiva su tutto il territorio. La piattaforma è aperta ai contributi di tutta la società civile, che può aderire alla diretta.
Sofia Fraschini per “il Giornale” il 18 marzo 2020. L' impresa tricolore batte un colpo da oltre 100 milioni di euro per sostenere gli ospedali e gli enti locali nella disperata lotta al Covid-19. La potremmo chiamare semplicemente una «gara di solidarietà», ma la pioggia di donazioni che sta arrivando dalle storiche famiglie dell' industria italiana, dai Caprotti a Berlusconi passando per Tronchetti Provera, Agnelli, Doris, Barilla e Caltagirone, è più di un forte segnale: è un aiuto concreto che, raccogliendo anche l' appello avanzato sul Giornale da Remo Ruffini (Moncler, proprio Moncler ieri ha messo a disposizione 10 milioni di euro per il progetto), restituisce al territorio (in particolare quello milanese) parte di quello che ha avuto. Quello spirito che oggi fa degli imprenditori italiani dei veri e propri «mecenati moderni». Donazioni in denaro, acquisto di materiale sanitario o utile alla causa. Il filo rosso che unisce gli ospedali lombardi e nazionali al capitalismo italiano è sempre più lungo. Il presidente di Forza Italia, Silvio Berlusconi, ha effettuato una donazione da 10 milioni alla Regione Lombardia per l' acquisto di materiale sanitario di grande necessità. A distanza di poche ore si sono mossi anche altri grossi nomi del capitalismo italiano: il patron di Esselunga Giuseppe Caprotti (figlio del fondatore Bernardo) e la famiglia Caltagirone hanno annunciato donazioni da 10 milioni e da 1 milione. La famiglia Agnelli, inoltre, ha scelto la Protezione civile per un sostegno da 10 milioni. I Caltagirone hanno destinato 1 milione al Gemelli e allo Spallanzani e la Barilla 2 milioni al Maggiore di Parma. A dare il «la» al finanziamento privato erano stati, pochi giorni fa, i «Ferragnez» - acronimo di Chiara Ferragni e Fedez - che donando 100mila euro all' ospedale San Raffaele di Milano, hanno veicolato una raccolta fondi da 4 milioni di euro. Tra le tante imprese, sono scese in campo con 1 milione Selex (gdo), Caleffi, Technogym, Campari, Lavazza, Consorzio grana padano. E poi ancora Fastweb con 100mila euro (e una raccolta fondi tra i dipendenti), Azimut con 220 mila euro, Autostrada del Brennero con 900 mila euro. Tra le fondazioni, 100mila euro dalla Fondazione Silvio Tronchetti Provera che ha aderito alla raccolta fondi promossa da Pirelli a favore dell' Ospedale Sacco di Milano. E 500mila euro dalla Fondazione Vodafone. Tra le iniziative personali Andrea Recordati, ad del gruppo Recordati, e sua moglie Anya, hanno invece donato 700mila euro. Anche il mondo dell' energia si è mobilitato. Eni con un pacchetto di interventi da 30 milioni. Altri 20 milioni sono stati messi a disposizione da Snam e 600mila euro da Italgas. Le banche si sono impegnate con la sospensione dei pagamenti delle rate di rimborso dei finanziamenti a famiglie e imprese. E, portafoglio alla mano, Unicredit ha messo sul piatto 2 milioni perché la Protezione civile possa acquistare materiale utile ad affrontare l' emergenza. A distanza di qualche giorno, Intesa Sanpaolo si è detta «pronta a donare 100 milioni e a erogare finanziamenti fino a 5 miliardi alle famiglie e imprese». Inoltre, Banca Mediolanum, della famiglia Doris, ha staccato un assegno da 100 mila euro al Sacco di Milano. E Generali ha costituito un fondo da 100 milioni. Guardando al settore moda, il primo assegno è stato firmato da Giorgio Armani: 1,25 milioni. Poi sono arrivati 2 milioni da parte di François-Henri Pinault, patron di Kering, colosso del lusso cui fanno capo numerosi marchi italiani. Il gruppo Prada ha donato due postazioni complete di terapia intensiva a tre ospedali milanesi. Mentre da Sergio Rossi (Diesel) sono arrivati 100mila euro. A ruota, la famiglia Benetton ha dato 3 milioni; e 200 mila euro sono arrivati da Donatella Versace e la figlia Allegra.
(ANSA il 17 marzo 2020) - Silvio Berlusconi ha deciso di mettere a disposizione della Regione Lombardia, tramite una donazione, la somma di 10 milioni di euro, necessaria per la realizzazione del reparto di 400 posti di terapia intensiva alla fiera di Milano (o, eventualmente, per altre emergenze). Lo comunica una nota di Forza Italia.
Da Berlusconi 10 milioni per l’ospedale in Fiera Insigne, Ibra e Ferragnez: chi dona contro l’emergenza. Pubblicato martedì, 17 marzo 2020 su Corriere.it da Antonella De Gregorio. Dieci milioni di euro per realizzare il reparto di terapia intensiva da 400 posti alla Fiera di Milano: è la cifra che Silvio Berlusconi ha donato alla Regione Lombardia per intervenire nell’emergenza coronavirus. Lo rende noto Forza Italia con una nota. Il leader azzurro ha comunicato la sua decisione al governatore lombardo Attilio Fontana con una telefonata. Un gesto che ha suscitato l’apprezzamento di Guido Bertolaso, consulente di Fontana per l’emergenza: «Ringrazio Silvio Berlusconi per il suo contributo. Un gesto che rappresenta al meglio il gioco di squadra che serve all’Italia, il contributo di un uomo innamorato della sua città, della sua terra, del suo Paese». Il gesto di Berlusconi è stato sottolineato anche dai parlamentari forzisti. Per Giorgio Mulé è «la dimostrazione che ogni volta che l’Italia chiama il nostro Presidente risponde». Mentre per Licia Ronzulli «conferma l’amore di Berlusconi per l’Italia».
Coronavirus, Silvio Berlusconi dona 10 milioni alla Regione Lombardia per l'emergenza CoronaVirus. Il Corriere del Giorno il 17 Marzo 2020. “Camionisti e operatori sanitari sono eroi. Più sostegno agli eroi civili in prima linea e ricompense a chi lavora nella sanità”, dice il leader di Forza Italia. Bertolaso: “Sono i soldi che servivano, grazie presidente”. Silvio Berlusconi ha deciso di mettere a disposizione della Regione Lombardia, attraverso una donazione, la somma di 10 milioni di euro, necessaria per la realizzazione del reparto di 400 posti di terapia intensiva alla fiera di Milano (o per altre emergenze). Lo ha reso noto una nota di Forza Italia. “Non possiamo, ancora una volta e dal profondo del cuore, non rivolgere un fervido e commosso ringraziamento agli eroi civili degli ospedali”, ha detto Berlusconi comunicando con una telefonata la sua decisione al governatore lombardo Attilio Fontana. Nella mattinata l’ex presidente del Consiglio ha postato una dedica sui propri profili social a quelli che chiama “gli eroi civili“, che andrebbero ringraziati e premiati nella maniera migliore possibile: “Non posso, ancora una volta e dal profondo del cuore, non rivolgere un fervido e commosso ringraziamento agli eroi civili che dagli ospedali alla consegna della spesa sono impegnati in prima linea da Nord a Sud“. Al governo giallorosso è stato chiesto di “prevedere per loro un sostegno molto più elevato come ricompensa per il lavoro straordinario che stanno svolgendo“. L’impegno dei forzisti sarà quello di “premiare e onorare nella misura che meritano il loro quotidiano sacrificio“. La donazione di Berlusconi si aggiunge alle numerose donazioni che stanno pervenendo a Regione Lombardia. Da privati e imprese, che nella maggior parte dei casi hanno chiesto di rimanere anonimi. Anche Giuseppe Caprotti, figlio del fondatore di Esselunga, ha annunciato la costituzione di un fondo di 10 milioni a sostegno di iniziative terapeutiche in Lombardia contro il coronavirus e per un piano a favore delle categorie più deboli colpite dagli effetti dell’epidemia. L’iniziativa sarà realizzata in coordinamento con la Regione Lombardia ed il Comune di Milano. “Abbiamo avuto offerte dai cinque euro ai 10 milioni”: con queste parole il presidente della Lombardia Fontana ha ringraziato chi in queste ora ha dimostrato la propria solidarietà per affrontare l’emergenza Coronavirus. Nei suoi ringraziamenti, oltre a chi sta lavorando, ha citato la Fondazione Invernizzi, Caprotti, Silvio Berlusconi, Allianz e Sapio “con interventi diretti per la realizzazione dell’ospedale in Fiera“. Si attende in giornata il parere di Domenico Arcuri: il commissario di Governo per l’emergenza Coronavirus chiamato a esprimersi sulla fattibilità del progetto che Attilio Fontana ha affidato a Bertolaso. Il governatore della Regione Lombardia ha annunciato recentemente di aver trovato i medici mentre ci sono problemi nel reperire i ventilatori polmonari. Nel frattempo, è in corso a palazzo Lombardia, sede di Regione Lombardia una riunione tecnica tra Fontana, Bertolaso, il vice governatore Fabrizio Sala e i tecnici dello sfaff del nuovo consulente per l’emergenza sanitaria del presidente della Lombardia.
Coronavirus, la famiglia Agnelli dona 10 milioni e 150 respiratori alla Protezione civile. Exor e le sue società controllate stanno acquistando all'estero il materiale medico-sanitario e organizzando il trasporto aereo. La Repubblica il 17 marzo 2020. La famiglia Agnelli e le sue società scendono in campo per l'emergenza Coronavirus. In coordinamento con il Dipartimento della Protezione Civile italiana, intervengono a sostegno della cura dei malati predisposta dal servizio sanitario nazionale e in aiuto delle persone che si trovano o si troveranno in situazione di bisogno. In particolare, la famiglia Agnelli ha disposto un contributo di 10 milioni di euro a beneficio del Dipartimento della Protezione Civile, per far fronte all'emergenza a livello nazionale; e di La Stampa - Specchio dei Tempi, fondazione impegnata a rispondere alle necessità sociali e sanitarie di Torino e del Piemonte. Exor e le sue società controllate Fiat Chrysler Automobiles, Ferrari e CNH Industrial, alle quali si sono aggiunte anche Ermenegildo Zegna e Fondazione Pesenti, hanno individuato e stanno acquistando presso vari fornitori esteri un totale di 150 respiratori oltre a materiale medico-sanitario, approntandone l'immediato trasporto aereo in Italia. La società di noleggio a lungo termine Leasys (FCA Bank) mette a disposizione della Croce Rossa Italiana e altre associazioni di volontariato una flotta di mezzi per la distribuzione di alimenti e medicinali nelle città italiane a malati, anziani e a persone bisognose di assistenza. Inoltre, Exor, Fca, Ferrari e Cnh industrial mantengono inoltre a uno stretto contatto con il Dipartimento della Protezione Civile, per mettere a disposizione del Paese servizi gratuiti di scouting per individuare apparecchiature mediche e materiale di utilizzo sanitario sui mercati internazionali, e soprattutto relativi servizi doganali per l'importazione rapida in Italia. Queste iniziative si aggiungono alle campagne già in atto: raccolta fondi 'DistantiMaUniti' promossa dalla Juventus e tuttora in corso sulla piattaforma gofundme; iniziativa #restoascuola promossa dalla Fondazione Agnelli, insieme alla Fondazione La Stampa Specchio dei Tempi e a La Stampa, per sostenere la didattica a distanza nelle scuole, in particolare per quegli studenti che stanno incontrando maggiori difficoltà negli apprendimenti.
Da leggo.it il 16 marzo 2020. La famiglia Caltagirone e il Gruppo Caltagirone, nel rivolgere il proprio plauso all’impegno che ospedali e istituti sanitari italiani hanno messo in campo per fronteggiare l’emergenza coronavirus in atto nel Paese, intendono fornire un contributo concreto a sostegno degli sforzi del personale sanitario e delle strutture ospedaliere romane. A tal fine Immobiliare Caltagirone (Ical), società personale della famiglia al cui capitale partecipano il Cavaliere del lavoro Francesco Gaetano Caltagirone e i figli Azzurra, Alessandro e Francesco junior, ha deliberato l’erogazione di una donazione di 500 mila euro a favore del Policlinico Universitario Agostino Gemelli di Roma. A sua volta, il consiglio di amministrazione del Gruppo guidato da Francesco Gaetano Caltagirone ha deliberato, in occasione dell’approvazione del bilancio 2019, una donazione di 500 mila euro a favore dell’Istituto Nazionale Malattie Infettive Lazzaro Spallanzani di Roma. «In questo momento di difficoltà per il Paese - spiega in una nota Caltagirone, presidente del Gruppo – anche il mondo produttivo deve fare la sua parte. Per questo abbiamo ritenuto opportuno sostenere gli sforzi che il personale sanitario sta facendo in questi giorni con una donazione a favore delle due strutture romane impegnate in prima linea nel contenimento dell’emergenza coronavirus». «Questo gesto - aggiunge nella nota l’imprenditore capitolino - vuol essere anche un ringraziamento a medici, infermieri e ricercatori per quello che stanno facendo per tutti noi e non esaurirà il nostro sostegno ed il nostro impegno per la città». Come è noto, il Policlinico Gemelli, con i suoi 1558 posti letto, è il più grande ospedale d’Italia e una delle più grandi strutture private d’Europa. Quanto all’Istituto Spallanzani, tutti hanno avuto modo di conoscere la grande competenza e la dedizione con la quale in queste settimane ha fatto onore alla propria specializzazione.
Coronavirus, Donatella e Allegra Versace, donazione di 200mila euro al San Raffaele di Milano. Pubblicato sabato, 14 marzo 2020 su Corriere.it da Gian Luca Bauzano. Il mondo della moda sta facendo sistema, stilisti e aziende uniti nel sostenere con donazioni la lotta all’emergenza legata al Coronavirus. Donatella Versace, direttore creativo della griffe della Medusa, affiancata dalla figlia Allegra Versace Beck, hanno comunicato di voler donare 200.000 euro all’ospedale San Raffaele di Milano, somma devoluta a favore del dipartimento di terapia intensiva della struttura medica in supporto alla lotta contro il Coronavirus. La stilista ha dichiarato. «In tempi come questi è importante essere uniti e supportare in ogni modo possibile tutti coloro i quali si trovano ogni giorno in prima linea a combattere per salvare centinaia di vite. Questo è il motivo per il quale, Allegra ed io, abbiamo deciso di fare questa donazione personale». Ha poi aggiunto. «I nostri cuori sono rivolti a tutti coloro che sono stati colpiti da questa malattia e a tutti i dottori e allo staff medico che hanno lavorato eroicamente senza sosta in queste settimane nello sforzo di prendersi cura dei nostri cari. Questo è quello che succede quando noi, come società, abbiamo bisogno di restare uniti e prenderci cura l’uno dell’altro».
Oltre a quelle di Donatella e Allegra Versace, altre donazioni e finanziamenti sono arrivate dalle griffe del made in Italy: Dolce&Gabbana (fondi a sostegno di un progetto di ricerca sviluppato da Humanitas University in collaborazione con i virologi dell’Ospedale San Raffaele di Milano); Etro (donazione al laboratorio di virologia dell’Ospedale Sacco per la lotta al coronavirus e il lancio di una campagna virtule attraverso la T-shirt Milano never stops); Giorgio Armani (stanziamento di 1 milione e 250 mila euro per gli ospedali Sacco, Istituto dei tumori, San Raffaele, Spallanzani di Roma e a sostegno protezione civile); la famiglia Benetton attraverso Edizione Srl, la propria holding (3 milioni di euro donati per sostenere progetti e urgenze di 4 Istituti ospedalieri: Ca’ Foncello di Treviso, Luigi Sacco di Milano, Lazzaro Spallanzani e policlinico Agostino Gemelli di Roma); Bulgari (un microscopio 3D all’ospedale Lazzaro Spallanzani di Roma). C’è poi Chiara Ferragni che oltre a una campagna di sensibilizzazione sui social, dopo aver donato con Fedez 100mila euro, ha attivato una campagna raccolta fondi a sostegno dell’ospedale San Raffaele per creare nuovi posti di terapia intensiva.
Coronavirus: la donazione di Armani e quella di Chiara Ferragni e Fedez. L'emergenza continua e le grandi case di moda non stanno a guardare. Come già Bvlgari e Dolce&Gabbana, anche Armani si fa avanti con una donazione cospicua mentre Chiara Ferragni e Fedez lanciano attraverso una donazione personale la raccolta fondi di Gofundme in favore dell'ospedale San Raffaele. Ecco tutte le azioni messe in campo a favore della ricerca e del contenimento del contagio. Donatella Genta il 9 Marzo 2020 su La Repubblica. In questo momento di emergenza globale, le Maison di moda italiane e internazionali hanno deciso di sostenere in prima linea la ricerca e la lotta contro contro il coronavirus, donando sostanziosi fondi utili a finanziare la ricerca e a fornire un supporto immediato e concreto al lavoro di medici e protezione civile. Vediamo nel dettaglio tutte le donazioni: Il gruppo Armani, scende in campo donando 1 milione e 250mila euro agli ospedali Luigi Sacco, San Raffaele, Istituto dei Tumori di Milano, Spallanzani di Roma e a supporto dell'attività della protezione civile. Chiara Ferragni e Fedez, attraverso una donazione a livello personale di 100.000 euro, danno invece il via a una campagna a sostegno della raccolta fondi Gofundme destinata alla creazione di nuovi posti letti all’interno del reparto di terapia intensiva dell’Ospedale San Raffaele di Milano, parte del Gruppo San Donato, ad oggi strettamente necessari e indispensabili per affrontare l’emergenza sanitaria del coronavirus e per fornire gratuitamente a ciascun paziente la cura medica di cui ha urgentemente bisogno. L’iniziativa è realizzata con la collaborazione del prof. Alberto Zangrillo, primario di terapia intensiva cardiovascolare e generale dell’ospedale San Raffaele di Milano. Gli ammalati con insufficienza respiratoria causata dall’epidemia in corso occupano questi reparti che risultano altamente insufficienti a fronteggiare la crisi.Lo scopo della coppia Ferragnez è incentivare le persone a seguire il proprio esempio, dando un aiuto concreto allo staff dell’Ospedale San Raffaele di Milano. La vera sfida, in questo momento, oltre a cercare di contenere il virus e limitare i contagi, è cercare di studiare velocemente un vaccino. In questa direzione Bvlgari già giorni fa ha fatto un'importante donazione volta a sostenere il lavoro del reparto di Ricerca dell'Ospedale Lazzaro Spallanzani di Roma. "Onorando la sua lunga e forte relazione con la CSR e le cause umanitarie, Bvlgari ha deciso di sostenere le mani intelligenti e le menti visionarie del Centro Italiano di Eccellenze in Ricerca e Medicina. Maria Rosaria Capobianchi, Francesca Colavita e Concetta Castilletti sono le tre straordinarie donne - tra le prime in Europa - che sono riuscite a isolare la struttura del virus", aveva fatto sapere in un comunicato Jean-Christophe Babin, CEO della Maison. La donazione di Bvlgari sarà utilizzata anche per l'acquisto di un sistema microscopico di acquisizione delle immagini all'avanguardia, strumento fondamentale a supporto di questa impegnativa ricerca. Gli stilisti Domenico Dolce e Stefano Gabbana di Dolce&Gabbana: "Per noi è un dovere morale supportare la ricerca scientifica", hanno dichiarato all'atto di destinare fondi all'Humanitas University per sostenere uno studio sulle risposte del sistema immunitario al coronavirus coordinato dall'immunologo Alberto Mantovani. Anche il gruppo LVMH Group, multinazionale che raggruppa circa 76 marchi del settore moda, si è fatto avanti donando nei giorni scorsi 2 milioni di euro alla croce rossa cinese. Il gruppo Kering, che riunisce marchi come Gucci, Yves Saint Laurent, Bottega Veneta, Balenciaga, Stella McCartney e Alexander McQueen, ha donato 983 mila euro e L'Oréal altri 655 mila euro: tutte donazioni destinate all'acquisto di forniture mediche come mascherine, occhiali e indumenti protettivi. Ancora: Estée Lauder ha donato circa 29.0264 mila euro e Shiseido 127 mila euro. Il marchio di abbigliamento Manila Grace ha invece deciso di sostenere la ricerca del Dipartimento di Malattie Infettive dell’ASST FBF dell’Ospedale Sacco di Milano devolvendo 5 euro per ogni scontrino emesso nel mese di marzo. "Viva l’Amore, Viva la Vita" è la campagna che accompagna Carpisa e Yamamay nella loro iniziativa, iniziata già a fine febbraio, per raccogliere fondi a favore della ricerca per contrastare il virus. Le aziende hanno infatti devoluto gli incassi degli ultimi due weekend all’ASST Fatebenefratelli Sacco dell’ospedale Luigi Sacco di Milano, INMI Lazzaro Spallanzani di Roma e AOU Policlinico Federico II di Napoli. Anche il settore moda risente molto dell'emergenza in corso. Le Cruise, per esempio, vengono tutte annullate o posticipate. Prada ha cancellato la presentazione della collezione Cruise a Tokyo prevista per il 21 maggio, mentre Gucci ha rinviato a data da definirsi la tanto attesa sfilata a San Francisco. Giorgio Armani postpone a novembre la presentazione della collezione Cruise prevista per il 19 e 20 aprile a Dubai. Quella invece di Versace è rimandata senza una data precisa. Burberry sposta dal 23 aprile all'autunno 2020 la resort di Shanghai e Chanel annulla il Mètiers d'Art di Pechino previsto per maggio.
Donazioni Coronavirus, la raccolta di Chiara Ferragni e Fedez supera i tre milioni di euro. Pubblicato martedì, 10 marzo 2020 su Corriere.it da Paola Caruso. Superati 3 milioni di euro. La raccolta fondi di Chiara Ferragni e Fedez su Gofundme per raccogliere denaro destinato alla creazione di nuovi posti di terapia intensiva all'ospedale San Raffaele di Milano per combattere il Coronavirus sta ricevendo tantissime adesioni. Aperta ieri mattina (9 marzo) ha toccato la cifra di un milione in 5 ore. Un successo per la coppia social che attraverso Instagram non solo cerca di sensibilizzare gli italiani sull'importanza di stare a casa per non aumentare il rischio di contagio dal virus, ma si mette in campo per dare una mano concreta con una donazione consistente che i due hanno avviato mettendoci la cifra iniziale di 100 mila euro.
La somma della raccolta continua a salire in modo costante: ci sono donazioni da 5 euro come da 25 euro, senza dimenticare quelle più consistenti. In molti hanno aderito con piacere perché soltanto tutti insieme possiamo uscire dalla situazione di emergenza. L'imprenditrice e fashion blogger, sia per il raggiungimento del primo milione di euro raccolto che per il secondo e per il terzo, ha postato sul suo account Instagram un ringraziamento a tutti, scrivendo nella didascalia del secondo post: «Insieme siamo invincibili!». Ma l'iniziativa dei Ferragnez non è esente da polemiche: qualche hater ha criticato i due dicendo che si tratta di un'operazione per migliorare la loro immagine. Le critiche sono state subito contestate dai follower della coppia: potrà anche essere un modo per mettersi in luce, ma almeno Chiara e Fedez fanno qualcosa di utile e necessario per tutti. Basta questo per ringraziarli.
· Coronavirus: l’Europa ostacola e non solidarizza.
Federico Fubini per il “Corriere della Sera” il 13 marzo 2020. La frase è di una sua collega tedesca, ma l' ha detta lei. E così Christine Lagarde ha vissuto la sua Caporetto. La presidente della Banca centrale europea ha ammaccato la sua credibilità ieri alle tre. Doveva illustrare le misure che la Bce sta prendendo per sostenere i cittadini, le imprese e i governi nella guerra - economicamente tossica - a un virus subdolo. La frase che ha causato il peggior crollo di sempre nel mercato dei titoli di Stato è ormai celebre: «Non siamo qui per chiudere gli spread, ci sono altri strumenti e altri attori per gestire quelle questioni». Era l' opposto del «whatever it takes» del predecessore Mario Draghi, quell' impegno a fare «qualunque cosa» per contrastare le scommesse contro alcuni Paesi in vista della rottura dell' euro. Se ieri Lagarde ha sfilato quella pietra di volta dell' intera architettura con apparente noncuranza, è perché non erano parole sue. Era una frase di Isabel Schnabel, la tedesca nel comitato della Bce. Quando l' aveva pronunciata Schnabel pochi se n' erano accorti. Lagarde si sarà sentita libera di ripeterla, senza capire che il suo peso è diverso. L'aspetto più rivelatorio di questa «gaffe» di Lagarde non è dunque l' apparente impreparazione, ma i punti di riferimento della francese. Ieri è iniziato a trasparire che oggi sono quelle dei tedeschi, soprattutto il presidente della Bundesbank Jens Weidmann, le voci più influenti ai vertici della Bce. E non è difficile vedere come per la Germania - ma non solo - la profonda recessione inflitta dall' epidemia, con il balzo del debito pubblico che già s'intuisce, possono diventare il momento nel quale l' Italia deve chiedere un salvataggio al resto d' Europa. L'intenzione di Lagarde ieri non era avvicinare quel momento. Ma nel ripetere le parole di Schnabel, la francese ha lasciato capire quale Paese è il suo riferimento a Francoforte. Già prima che lei finisse di parlare, mentre lo spread di Italia, Grecia, Spagna, Portogallo e Francia subiva sbalzi violenti, erano partite telefonate furenti da Roma. C' è stata anche una minaccia di sfiduciare la presidente, che aveva peggiorato le condizioni finanziarie di un Paese già aggredito dall' epidemia. Alla fine, poco prima delle 17, Lagarde ha letto alla Cnbc una completa retromarcia: «Siamo impegnati a evitare qualunque frammentazione dell' area euro. Gli spread più alti dovuti al coronavirus impediscono la nostra politica monetaria». Ma le Borse e il mercato dei titoli di Stato hanno ignorato le rassicurazioni, come se il genio fosse ormai fuori dalla lampada. Per rimettercelo, la Bce dovrà mostrare presto non parole ma molto denaro in acquisto sui Paesi danneggiati: Italia, Spagna, Francia, Portogallo. Del resto non è stata la sola «gaffe» di giornata che ha lasciato vedere, ieri, la tela di fondo. Lagarde ha anche letto nella dichiarazione iniziale che l' aumento del «quantitative easing» -l' acquisto di titoli pubblici e privati di tutta l' area - sarebbe stato di cento miliardi fino a fine anno. In realtà il comunicato della stessa Bce parla di 120 miliardi: dunque interventi per 15 miliardi al mese, non dieci. Chiaramente Lagarde si era presentata in conferenza stampa con una versione vecchia dell' accordo. Aldilà del proprio pressappochismo, la presidente ha così rivelato che la Bce si era divisa fino a poco prima fra chi voleva aiutare di più e chi di meno le economie contagiate dal virus: è la frattura che attraversa oggi l' Europa.
Marzio Breda per il “Corriere della Sera” il 13 marzo 2020. «Non siamo qui per ridurre gli spread. Non è la funzione della Bce. Ci sono altri strumenti e altri attori per gestire queste questioni». Vanno ben oltre una semplice gaffe, le frasi con cui ieri la presidente della Bce, Christine Lagarde, ha pensato di scrollarsi di dosso il «caso italiano». Quella sortita ci è infatti costata il più grande tonfo di Borsa di sempre, oltre a un balzo record dello spread. Performance giudicate «devastanti» dal Quirinale. Dove un preoccupatissimo Sergio Mattarella si è sentito in dovere di far diffondere in serata una dichiarazione dura ed esplicita. «L' Italia sta attraversando una condizione difficile e la sua esperienza di contrasto alla diffusione del coronavirus sarà probabilmente utile per tutti i Paesi dell' Unione Europea. Si attende quindi, a buon diritto, quantomeno nel comune interesse, iniziative di solidarietà e non mosse che possano ostacolarne l' azione». Insomma, Lagarde ha fatto il contrario del «whatever it takes» con cui Mario Draghi nel luglio 2012 lanciò una intimazione a difesa della moneta unica contro le speculazioni finanziarie: «La Bce è pronta a fare tutto il necessario a preservare l' euro. E credetemi sarà abbastanza». Poiché stavolta il bersaglio principale degli attacchi è l'Italia, il presidente dava per scontata una generale e istantanea sollevazione del mondo politico. Com' è avvenuto. Per cui si è premurato di non dare una chiave antieuropeista alle sue parole, avvertendo che dichiarazioni di quel tipo non sono accettabili da parte delle istituzioni europee quando un Paese patisce uno stato di sofferenza come il nostro ora. Essendo in gioco l' interesse nazionale, Mattarella doveva intervenire per forza. Ma non solo per stigmatizzare i vertici della Banca centrale, quanto per imporre correttamente il tema alla riunione della Commissione europea, prevista per oggi a Bruxelles e che sarà seguita lunedì dal summit dei ministri economici di un Eurogruppo sul quale incombe l'obbligo di mettere a punto una strategia di contenimento del danno. Ecco la doppia valenza del suo messaggio, che mira a far capire che noi italiani siamo, sì, preoccupati, e però anche esigenti e non ci prestiamo ad essere relegati ai margini. Dall' Europa, pertanto, ci aspettiamo non dichiarazioni incaute, ma tutta l' attenzione che meritiamo. Se non altro perché la crisi innescata dal coronavirus riguarda tutti e tutti farebbero bene a prenderla sul serio.
Marco Antonellis per Dagospia il 13 marzo 2020. E fu così che, confermando appieno le Dagoanticipazioni sull'irritazione dell'asse Colle-Palazzo Chigi per le parole della Lagarde, nella tarda serata di ieri sia Mattarella che Conte si scatenarono con due dichiarazioni inusualmente dure per due grandissimi estimatori della Comunità europea. Il Premier alza addirittura il ditino e lo punta dritto in faccia alle istituzioni europee: "Non tollereremo atteggiamenti che interpretino i nostri interventi secondo logiche formali ed astratte, senza tenere conto dei bisogni reali dei cittadini". I problemi per "Giuseppi" (e di riflesso per il Colle) sono essenzialmente due, spiegano da Palazzo Chigi: senza il sostegno dell'Europa il piano di salvataggio dell'Italia (lotta la Coronavirus e lotta alla recessione) andrebbe a farsi benedire e con esso anche il Conte 2. Insomma, meglio mettere subito le cose in chiaro, onde evitare anche stavolta di ricevere il classico "me ne frego" di Bruxelles alle esigenze e ai bisogni dell'Italia e degli italiani (ed anche per sminare il retropensiero che in queste ore agita tutti i palazzi del potere nostrano: che le grandi lobby internazionali, soprattutto quelle tedesche e francesi, vogliono farci fare una fine alla "greca" comprandoci a prezzi di saldo quando la bufera del virus sarà passata). Ed è per questo che a stretto giro, in tarda serata, sono usciti allo scoperto sia il Capo dello Stato che il Presidente del Consiglio: in una fase così tribolata per la vita del paese tutto servirebbe meno che una bella crisi di governo. Magari provocata dall'Europa matrigna (per la gioia di Matteo Salvini e dei sovranisti di ogni latitudine).
Perché il discorso di Christine Lagarde affossa l’Italia: gli errori della BCE. Riccardo Castrichini il 13/03/2020 su Notizie.it. Il discorso della presidente BCE Lagarde fa male all'Italia: ora rialzare l'economia sarà più difficile. Mette tutti d’accordo il fatto che il discorso di Christine Lagarde sull’emergenza coronavirus abbia dato un durissimo colpo all’Italia. La presidente della Banca Centrale Europea (BCE) è riuscita con le sue parole a mettere insieme nelle polemiche le forze politiche di maggioranza e di opposizione, cosa molto difficile, ed ha addirittura spinto a intervenire prontamente il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Tutto questo perchè i termini scelti dalla Lagarde hanno dato il segnale che la BCE non sarà disponibile ad aiutare fino i fondo l’Italia, la cui economia è stata fortemente turbata nell’ultimo periodo dall’emergenza coronavirus. Meglio rivolgersi al fondo salva stati dell’Unione Europea che provare a contare sull’aiuto della banca. Parole che si traducono in ulteriore sfiducia nei confronti dell’Italia e la fiducia, come sappiamo, è un elemento cardine nell’orientare l’andamento delle Borse. Il risultato è stato devastante, con Piazza Affari che ha registrato il suo record al ribasso.
Il discorso della Lagarde indebolisce l’economia in Italia. La frase: “Non siamo qui per chiudere gli spread, ci sono altri strumenti e altri attori per questi problemi“, pronunciata dalla Lagarde durante il suo discorso, lascia intendere che la BCE si chiama fuori dalla crisi. Atteggiamento assai diverso rispetto a quello mostrato per tanti anni da Mario Draghi che, nel suo periodo alla guida della BCE, aveva lanciato lo slogan “Whatever it takes” che aveva portato alla fine delle speculazioni sullo spread e di base dato il via alla fine della crisi finanziaria del 2008. Le parole della Lagarde segnano un passo indietro, per l’Europa unita, che solo poche ore prima aveva mostrato solidarietà all’Italia con il discorso in italiano della Presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, e per tutti i Paesi che ne fanno parte in quanto, malgrado quanto si possa ancora credere in nazioni fin qui poco colpite, l’emergenza coronavirus è una questione europea e mondiale più che della semplice Italia.
Cosa’ha sbagliato la BCE. Ricordiamo che lo spread è un indicatore economico finanziario che segna la differenza di rendimento tra due titoli, siano essi azioni, obbligazioni o titoli di Stato. In quest’ultimo caso si fa riferimento spesso ai Bund che sono i titoli di stato tedeschi, in quanto economia più forte dell’eurozona. Per questo motivo più basso è il valore dello spread, meglio è per il paese. Con il termine chiudere gli spread si indica pertanto ridurre le differenze tra quanto spendono due Stati, in questo caso nella zona euro, per finanziarsi sul mercato, ovvero per il debito che serve per finanziare le misure straordinarie, in questo caso dovute al coronavirus. Ma in un Unione Europea in cui tutti hanno la stessa moneta non si dovrebbe pagare tutti lo stesso tasso d’interesse per ricevere questi finanziamenti? In teoria sì, visto che ad indebitarsi non sarebbe solo il Paese richiedente, ma tutta la zona euro. In pratica però i mercati danno un prezzo al rischio che un Paese più fragile possa fallire e dunque gli interessi per i richiedenti vengono ponderati basandosi sulla solidità dell’economia del Paese richiedente. Torniamo alla questione della fiducia di cui sopra, fiducia della quale la Lagarde ci ha privato in diretta mondiale e che per questo porterà le nostre misure straordinarie a essere molto dispendiose e i creditori chiederanno più certezze. Un colpo verrebbe da dire fatale che porta molti esponenti di spicco dell’economia e delle istituzioni europee a chiudere le dimissioni per incapacità di Christine Lagarde.
Maria Giovanna Maglie contro Gualtieri: "La Lagarde ci prende a schiaffi e lui ringrazia, ministro inutile". Libero Quotidiano il 13 marzo 2020. Quanto accaduto ieri, giovedì 12 marzo, è già storia. Le parole criminali di Christine Lagarde, nuovo presidente della Bce, il crollo drammatico di Piazza Affari, in calo di quasi il 17%, peggior seduta nella storia della piazza affaristica milanese. La Lagarde, per inciso, aveva di fatto escluso interventi pro-Italia a contenimento dello spread, nonostante il coronavirus. Roba sconcertante. Roba che ha spinto addirittura Sergio Mattarella a spendersi in un appello: l'Europa deve essere un'alleata. Roba che, ovviamente, ha spinto la Lagarde a una parziale retromarcia, ma ormai era troppo tardi. Eppure c'è anche chi plaude, alla Lagarde. Chi? Il ministro dell'Economia, Roberto Gualtieri, che in una nota ha definito "opportuna la precisazione della Lagarde, la Bce è presidio dell'Eurozona". E ancora, ha aggiunto: "Sono certo che, come ha detto la presidente Lagarde, a tal fine la Bce utilizzerà tutti gli strumenti a sua disposizione". Parole spiazzanti. E quello spiazzamento viene riassunto da Maria Giovanna Maglie, in un tweet feroce: "La Lagarde ci ha preso a schiaffoni, facendo crollare la Borsa, lui la ringrazia", premette. "Di che cosa, di grazia, gentile inutile ministro dell'Economia?", conclude la Maglie.
Chi ci ha fatto bruciare 70 miliardi. Roberto Vivaldelli su Inside Over il 13 marzo 2020. Esordio semplicemente disastroso per Christine Lagarde alla guida della Banca centrale europea. L’ex direttore generale del Fondo Monetario Internazionale, al suo primo vero test, ha fallito su tutti i fronti e ha rilasciato dichiarazioni semplicemente inadeguate e sconcertanti nel corso di una conferenza stampa a dir poco surreale. “Non siamo qui per ridurre gli spread, non è compito nostro” ha affermato. Risultato? Milano ha perso il 16,92%, Francoforte il 12,24%. Parigi e Londra rispettivamente l’12,28% e l’10,93%. Christine Lagarde nella prima intervista rilasciata dopo l’insediamento aveva ripetuto che non voleva passare alla storia per un altro “whatever it takes” come quello di Mario Draghi del 2012 con cui salvò l’euro. Passerò alla storia aver contribuito a provocare il più grande ribasso di Borsa dopo quello del ’29. L’Europa ha perso 825 miliardi in una giornata. A Milano, solo nel paniere Ftse Mib dei gruppi maggiori, sono andati persi 68 miliardi di capitalizzazione. Lo spread è volato a 262 punti dopo una puntata a 273 punti portando il rendimento dei Btp vicino al 2%. Insomma, un disastro senza precedenti. Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella è intervenuto sottolineando che “l’Italia sta attraversando una condizione difficile e la sua esperienza di contrasto alla diffusione del coronavirus sarà probabilmente utile per tutti i Paesi dell’Unione europea”. Mattarella ha poi ricordato il nostro Paese “si attende quindi, a buon diritto, quanto meno nel comune interesse, iniziative di solidarietà e non mosse che possono ostacolarne l’azione”. Un chiaro riferimento alle parole dell’ex direttore dell’Fmi.
Lagarde e la Troika in Grecia: un fallimento. Laureata in giurisprudenza, avvocato, donna d’affari, ministro dell’economia in Francia, direttore generale del Fondo monetario internazionale e ora presidente della Banca centrale europea. Non si può dire che Christine Lagarde non abbia fatto carriera. La sua nomina ai vertici dell’Eurotower, ratificata al termine di una lunga trattativa tra i capi di Stato e di governo dell’Unione europea insieme a quella di Ursula von der Leyen alla Commissione, Charles Michel al Consiglio e Joseph Borrell come Alto rappresentante della politica estera dell’Ue, è senza dubbio la più importante. E al tempo stesso la più delicata, dato il ruolo che l’Eurotower ha nel mantenimento della stabilità dei prezzi in Europa e soprattutto nel sostegno dato agli Stati membri più in difficoltà nel rifinanziamento dei propri debiti, in primis l’Italia. Un percorso, il suo, certo non privo di ombre. In primo luogo, il suo pugno di ferro nei confronti della Grecia attraverso la Troika che, per stessa ammissione del Fondo Monetario Internazionale, è stato un autentico fallimento. “La fiducia nel mercato non è stata ripristinata, il sistema bancario ha perso il 30% dei suoi depositi e l’economia ha registrato una recessione molto più profonda del previsto con una disoccupazione eccezionalmente elevata” riporta un rapporto del 2015. Ma il dato di fatto è che le misure di austerità promosse dalla Troika – e avvallate da Lagarde – hanno devastato la Grecia: come ricorda Mauro Indelicato su InsideOver il Paese fa i conti con sanità al collasso, istruzione non più garantita, tasso di suicidi aumentato del 40%, numero dei senzatetto quadruplicato dal 2008 al 2016. È lo specchio di un paese devastato, colpito, con una società che vive un momento paragonabile a quello del periodo bellico. In poche parole, un Paese in ginocchio.
“Nel Board di due società con sede nei paradisi fiscali”. Ma la Grecia non è l’unico “neo”, se così si può definire, di Christine Lagarde. Secondo quanto riportato dal quotidiano spagnolo El Pais lo scorso novembre, la presidente della Banca Centrale Europea, tra il 2003 e il 2005, è stata nel board di una società che faceva capo allo studio legale Baker & Mckenzie e che era domiciliata alle Isole Bermuda, uno dei paesi che furono poi inseriti nella lista nera dei paradisi fiscali stilata dall’Unione europea. Secondo il quotidiano spagnolo, Lagarde faceva parte anche del consiglio di amministrazione di una filiale della stessa società internazionale a Singapore, un paese protetto dal segreto bancario e classificato ottavo nella lista dei 64 paradisi fiscali dell’organizzazione Tax Justice Network. Come scrive Italia Oggi, Lagarde è stata partner fino a giugno 2005 dello studio legale internazionale Baker & McKenzie, che controllava la società Law in Context Ltd di Bermuda, una holding in cui la neopresidente della Bce figurava come direttore, come confermato a El Pais da fonti vicine alla società. Non solo: quello di Law in Context Ltd è uno dei 200 mila nomi di persone e società legati ai territori offshore emersi nel 2016 nei cosiddetti Panama Papers.
Mattarella alza la voce con l’Europa: «Dai Paesi Ue serve solidarietà, non ostacoli». Corrado Vitale giovedì 12 marzo 2020 su Il Secolo d'Italia. Mattarella alza la voce con l’Europa. «L’Italia sta attraversando una condizione difficile e la sua esperienza di contrasto alla diffusione del coronavirus sarà probabilmente utile per tutti i Paesi dell’Unione Europea. Si attende quindi, a buon diritto, quanto meno nel comune interesse, iniziative di solidarietà e non mosse che possono ostacolarne l’azione». Il presidente della Repubblica lo afferma in una nota. Sono parole di inusitata durezza da parte di un capo dello Stato. Nelle parole di Mattarella è chiaramente rintracciabile lo sconcerto per il blocco del traffico commerciale al Brennero. Una incredibile e meschina decisone venuta dall’Austria. Per la precisione dal governo regionale tirolese con l’avallo di quello di Vienna. Oggi Confindustria ha lanciato un appello drammatico al governo. L’export italiano verso il Nordeuropa rischia di essere seriamente compromesso. Gli industriali italiani paventano «danni incalcolabili». Ma non deve certo essere probabilmente estranea, all’intervento di Mattarella, la preoccupazione per la tremenda giornata vissuta dalle Borse. Una caduta generale che ha colpito in modo particolare l’Italia. La Borsa di Milano ha conosciuto la perdita inaudita del 17%. È il risultato delle inadeguate misure decise dal nuovo presidente della Bce, Christine Lagarde. Per Giorgia Meloni, come riferiamo in un altro servizio, siamo passati dal “bazooka” (di Draghi) al “boomerang” (della Lagarde). Il timore che serpeggia da oggi è che il nuovo vertice dell’Eurotower sia, di fatto, ostaggio della Germania e dei Paesi del Nord. Che sono riluttanti alle massicce iniezioni di liquidità richieste dalla crisi odierna. E di tali timori, in questi giorni drammatici, non può certo essere indifferente il Colle. L’Italia sta dimostrando coesione e compostezza. E tanti sacrifici non possono certo essere compromessi dall’egoismo dei soliti banchieri del Nordeuropa. Se è vero che persino Macron si sta innervosendo, vuol proprio dire che la situazione in Europa sta diventando insostenibile.
Coronavirus, monito di Mattarella all'Europa: "All'Italia serve solidarietà, non ostacoli". Dura nota del presidente della Repubblica al termine di una giornata drammatica per l'economia italiana. La Bce sceglie di non tagliare i tassi e la Borsa di Milano lascia sul terreno il 16,92%. Bruxelles verso la sospensione del patto di stabilità. La Repubblica il 12 marzo 2020. L'Italia sta attraversando una condizione difficile e la sua esperienza di contrasto alla diffusione del coronavirus sarà probabilmente utile per tutti i Paesi dell'Unione Europea. Si attende quindi, a buon diritto, quanto meno nel comune interesse, iniziative di solidarietà e non mosse che possono ostacolarne l'azione. E' quanto afferma una nota del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Le parole, particolarmente nette, del capo dello Stato, arrivano al termine di una giornata ad alta tensione tra Roma, Bruxelles e Francoforte. Deludendo le attese italiane, la Banca centrale europea ha deciso di non intervenire con un ribasso dei tassi. Una posizione che, nonostante le rassicurazioni della presidente Bce Christine Lagarde, ha sprofondato i mercati nella depressione, con la borsa di Milano che ha lasciato sul terreno il 16,92%, il peggior risultato della sua storia. Lo spread tra il Btp decennale italiano e il Bund tedesco ha toccato 262 punti. Un contagio economico che si è esteso alle altre borse europee e che starebbe per indurre la Ue a sospendere di fatto il patto di stabilità: la Commissione europea sarebbe pronta a utilizzare la clausola anticrisi 1466/97 sulla sorveglianza dei bilanci che di fatto sospende gli aggiustamenti di bilancio in caso di grave contrazione dell'economia. Dal canto suo la Fed, reagendo a un nuovo crollo di Wall Street, ha annunciato un'iniezione di liquidità di 1500 miliardi nei prossimi giorni.
"L'Ue discute solo di tagli, su Covid-19 non fa nulla". Intervista a Yanis Varoufakis. Angela Mauro su huffingtonpost.it il 13/03/2020. L'ex ministro greco annuncia un'operazione trasparenza, pubblicherà nastri sui vertici dell'Eurogruppo. Suggerisce all'Italia di chiedere lo stop del Fiscal compact: "Oggi l'Ue chiude un occhio, ma domani un Paese del nord vi guarderà dall'alto in basso per aver infranto le regole". Nel bel mezzo della crisi mondiale da coronavirus, Yanis Varoufakis decide di diffondere le sue registrazioni dei vertici dell’Eurogruppo del 2015, quando vi partecipava in qualità di ministro greco delle Finanze, al tempo della crisi del debito di Atene. Domani saranno pubbliche. Perché ora? ”È un dovere europeo mettergli pressione affinché cedano alla trasparenza”, ci dice al telefono da Atene, dove è parlamentare eletto con Diem25. L’Eurogruppo svolge ancora oggi “riunioni senza verbali”, ”è impossibile per un cittadino sapere la verità di quanto viene discusso a porte chiuse”. Dalle registrazioni, continua, si vedrà che l’Eurogruppo “non ha mai voluto discutere delle mie proposte”, contro i tagli alla sanità in Grecia. “Il vertice dei ministri delle Finanze, le cui decisioni determinano la capacità del nostro sistema sanitario di affrontare le pandemie, la capacità delle nostre banche di reggere alle crisi finanziarie, non discute. Ma dico: se non lo fa l’Eurogruppo, chi lo fa?”. Per l’Italia, Varoufakis ha un suggerimento: “Chiedere la sospensione immediata del Fiscal compact”.
Onorevole Varoufakis, domani diffonderà le registrazioni delle riunioni dell’Eurogruppo a cui ha preso parte nel 2015. Perché ha deciso di renderle note ora, mentre imperversa una nuova crisi economica e sociale legata alla diffusione del coronavirus?
«Nel 2015 ho annunciato che avevo registrato queste riunioni assolutamente non trasparenti, senza verbali: non esistono ed è impossibile per un cittadino sapere la verità di quanto viene discusso a porte chiuse. Allora, i media erano bombardati con i retroscena di queste riunioni dell’Eurogruppo con bugie su quanto avevo detto io o altri ministri a porte chiuse. Non esistono i verbali di quelle riunioni. E ancora oggi è così. I vertici senza verbali da poter diffondere sono il migliore alleato dell’autoritarismo o delle decisioni sbagliate. L’Eurogruppo continua ad assumere decisioni al buio. Tra l’altro la scorsa settimana è accaduto un altro disastro: l’Eurogruppo si è riunito in via straordinaria e i ministri si sono ritrovati d’accordo sul fatto che il coronavirus è così cruciale, così importante, con effetti così pesanti sull’economia tanto da non decidere alcunché! È un dovere europeo mettergli pressione affinché cedano alla trasparenza. Un modo per dire: basta, l’avete fatto per anni, continuate a prendere cattive decisioni senza trasparenza, il Governo italiano ha dovuto adottare misure di politica fiscale da solo e io penso abbia fatto bene, ma se il ministro dell’Economia italiano avesse portato queste misure all’Eurogruppo sarebbero finite in un buco nero».
Nelle conversazioni registrate ci sono circostanze che possano indicare errori commessi in passato che adesso rendono difficile una risposta europea alla crisi del coronavirus? Tagli alla sanità per esempio?
«Ci sono discussioni su ogni tipo di taglio. Se senti queste registrazioni, capisci che la Grecia stava collassando in tutti i suoi settori produttivi, economici, sociali. Ho cercato di fare delle proposte per evitare il collasso, per finanziare ospedali e scuole salvaguardando sia l’esigenza di ridurre il debito che quella di produrre crescita ed evitare il default. Non dico che la mia ricetta fosse necessariamente quella giusta, nessuno ha il monopolio della saggezza. Ma per lo meno potevano ascoltare la mia proposta. Non l’hanno fatto: mai una volta c’è stata discussione sulle mie proposte. Anzi. L’Eurogruppo mi ha intimato di non diffondere versioni scritte della mia proposta, minacciando che se l’avessi fatto in quell’esatto momento avrebbero chiuso la riunione. Ricordo che l’11 maggio 2015 riuscii per lo meno a presentare la mia proposta, ma non seguì una discussione seria. L’Eurogruppo quindi non è un posto dove si possa discutere e men che meno negoziare: il vertice dei ministri delle Finanze, le cui decisioni determinano la capacità del nostro sistema sanitario di affrontare le pandemie, la capacità delle nostre banche di reggere alle crisi finanziarie, non discute. Ma dico: se non lo fa l’Eurogruppo, chi lo fa? Chi decide in Europa sugli spazi fiscali dell’Italia se non lo fa l’Eurogruppo? Quando le decisioni vengono prese a porte chiuse, l’interesse di tutti non è garantito».
L’Europa però sta concedendo all’Italia ampi margini di flessibilità per far fronte al coronavirus. Magari non sarà sufficiente, ma intanto questa è la risposta. Come la giudica?
«L’Europa non vi sta dando flessibilità. Sta solo promettendo di chiudere un occhio sulle vostre spese per via dell’emergenza Covid-19. E questo è terribile. Primo perché una flessibilità accordata chiudendo un occhio non sarà sufficiente. E poi una misura di questo tipo creerà ulteriori tensioni tra nord e sud Europa. Al prossimo Eurogruppo, il ministro olandese, finlandese o piuttosto tedesco si sentiranno legittimati a guardare al ministro italiano dall’alto in basso come colui che ha infranto le regole, anche se loro gliel’hanno permesso. Non è questo il modo di gestire l’Europa. Faccio l’esempio di Singapore che ha risposto alla crisi del coronavirus in un modo razionale, spendendo 4.5 miliardi di dollari per sostenere l’economia. L’equivalente per l’Eurogruppo sarebbe 106 miliardi: l’Europa è lontanissima da questa cifra. Inoltre, Singapore non ha sospeso il pagamento dei mutui, che è solo un rinvio e peggiora le cose quando arriva il momento in cui devi pagare. Al contrario, la banca centrale di Singapore ha dato istruzioni alle banche di operare una ristrutturazione dei crediti e la stessa banca centrale fornirà loro la liquidità necessaria per annullare una parte degli interessi. Questa è una risposta razionale. L’Unione Europea è lontana da una soluzione del genere. L’Eurogruppo non decide e allora cosa rimane? Governi nazionali, come quello italiano o spagnolo, che cercano di forzare le regole in un modo che si rivelerà inefficiente, non funzionerà e aggraverà le tensioni tra nord e sud Europa. In altre parole, è come se l’Eurogruppo stia cercando di trarre profitto dalla crisi, lo stesso errore compiuto nel 2010, quando i ministri delle finanze europei cercavano di negare la crisi pretendendo di applicare le stesse regole inapplicabili. Stanno trattando la crisi del coronavirus, che sarà una crisi economicamente molto profonda, con lo stesso livello di incompetenza con cui hanno trattato la crisi dell’euro nel 2010».
Allora l’Italia cosa dovrebbe chiedere o fare?
«L’Italia può chiedere la sospensione immediata del Fiscal compact. Poi dovremmo tutti chiedere un vasto programma di investimenti della Bei sulla transizione verde e sulla salute, un programma di almeno 500 miliardi di euro. E dovremmo chiedere eurobond sostenuti dalla Bce. Ed è ora che il Governo italiano dica ai colleghi europei a Bruxelles: ok, ne abbiamo avuto abbastanza, se non diventate più civili nel modo in cui trattate i cittadini europei e se non sviluppate progetti solidali negli investimenti e anche sulla crisi dei profughi, in modo tale che il carico sia distribuito equamente in tutte le aree dell’Europa, non applicheremo più le vostre regole di bilancio».
Trump ha sospeso i collegamenti aerei tra gli Stati Uniti e i paesi dell’area Schengen come misura anti-coronavirus. Bruxelles ha contestato la scelta unilaterale della Casa Bianca. Lei pensa che sia necessario sospendere Schengen per contenere la pandemia?
«No, non penso dovrebbe essere sospeso, ma si dovrebbe chiedere a tutti i cittadini europei di stare a casa e non viaggiare. Non abbiamo bisogno di introdurre confini in Europa, dobbiamo solo dire alla gente di non volare più se non per ragioni ultra-necessarie».
Dunque tutti gli Stati europei dovrebbero decidere insieme di istituire una grande zona rossa nel vecchio continente?
«Sì, tutti gli Stati europei dovrebbero prendere questa decisione per tutti i cittadini europei per almeno tre settimane. Il coronavirus è un’opportunità per l’Europa per sviluppare una soluzione europea a quello che è un problema europeo».
Ma non succederà? L’Europa potrà sopravvivere a questa sfida?
«Dal 2015 in poi, non ho mai pensato che l’Europa possa sopravvivere a meno che non cambi radicalmente. E’ per questo che abbiamo creato il movimento Diem25».
E pensa che le democrazia liberali abbiano gli strumenti per reagire a questa emergenza?
«Le democrazie sono fiori fragili, molto semplici da distruggere: basta calpestarli. I nemici della democrazia sfrutteranno qualunque crisi per mettere fine alla democrazia, invocando i tempi di Mussolini oppure i metodi del governo cinese. Ma non dimentichiamo che i nostri compagni in Cina vorrebbero una democrazia liberale, non vorrebbero preoccuparsi della polizia segreta o dei campi di riabilitazione dove vengono mandati i dissidenti. Non voglio descrivere la Cina come un mostro, ma l’Europa dovrebbe aiutarla a prendere una strada democratica, non dovrebbe copiare il peggio della Cina. Ma la cosa peggiore per le democrazie liberali sono i democratici liberali che conducono lo show, come i leader che parlano nelle mie registrazioni dei meeting dell’Eurogruppo. Se le ascolti, capisci che la democrazia dell’odio nasce proprio lì, tra questi cosiddetti liberali. Salvini, Orban, Le Pen usano le crisi create o cavalcate dall’establishment liberale che viola ogni principio di trasparenza, di liberalismo, di democrazia come se stessero in realtà lavorando per l’estrema destra. E’ questo il grande paradosso».
Marco Antonellis per Dagospia il 13 marzo 2020. Non se lo aspettavano dal governo l'uscita della Lagarde, soprattutto dopo che 24 ore prima la Presidente Von der Leyen aveva solennemente affermato "Siamo tutti italiani". Dopo quelle improvvide parole ("Ridateci Mario Draghi, con lui una roba del genere non ci sarebbe mai stata" è il leit motiv da sinistra a destra) la borsa affonda fino ad arrivare a - 17. E nei palazzi della politica cresce la paura mista a rabbia. "Senza l'Europa non ce la facciamo" è la riflessione comune. Si intrecciano telefonate, molte anche a Bruxelles dove, non scordiamolo l'Italia ha nel Commissario Gentiloni e nel Presidente del Parlamento Sassoli, i più influenti rappresentanti. Per alcune ore la diplomazia continentale è al lavoro, si evitano dichiarazioni dei big per evitare di surriscaldare gli animi, i partiti di governo fanno uscire figure di secondo piano che criticano la Lagarde, mentre Salvini e la Meloni sparano a palle incatenate. Alla fine, la sera, ecco il Presidente della Repubblica, sempre con i suoi modi istituzionali, far capire che in Italia c'è irritazione, tanta irritazione, e che in un momento così drammatico non era questo trattamento che ci si aspettava dalla Bce. La Lagarde, capisce (o gli fanno capire, è meglio dire) la "gaffe" e fa uscire una sua precisazione. Subito il Ministro Gualtieri dichiara di apprezzare la retromarcia della Bce. Tutto rientra, forse. Almeno per ora.
Estratto dal libro di Alan Friedman ''My Way'' (2015) su Christine Lagarde: (…) Era sorprendente vedere l'Fmi interpretare quel ruolo, un ruolo da comprimario a sostegno di altri poteri, senza avere in realtà una propria opinione». Un ex collaboratore di Berlusconi è più diretto. «Ero in quella stanza a Cannes, e posso dire che Christine Lagarde si comportava come il bambolotto di un ventriloquo, ed era Sarkozy che muoveva i fili. Lei parlava come un pappagallo ammaestrato.» Zapatero concorda senza battere ciglio con questa colorita ricostruzione. «Sì, sì, sì» ripete con enfasi. Tutto vero. Nel ricordo dell'ex premier spagnolo però, durante quella sera cr-tica a Cannes, Lagarde si è comportata in modo non del tutto corretto, «più da braccio politico» di alcuni governi che da leader di un'organizzazione neutra e sovranazionale. «Almeno a me sembrò così» dichiara con convinzione Zapatero. Zapatero non fu l'unico a uscire da quella sala con l'impressione che, quando si parlava di Italia, Lagarde procedesse al traino di Sarkozy. Era la spalla perfetta nel pretenzioso cabaret politico del presidente francese. Lui cominciava una filippica e poi si voltava verso Lagarde. Lei sembrava intervenire seguendo l'imbeccata, sempre preparata, sempre razionale e sicura, pronta e desiderosa di insistere sull'opportunità del prestito dell'Fmí. Erano un bel duetto. Quell'insolita sintonia non avrebbe dovuto sorprendere nessuno. E fatto che da qualche mese Christine Lagarde fosse a capo del Fondo monetario non poteva cambiare la sua storia: aveva passato il decennio precedente come fedele collaboratrice e alleata di Nicolas Sarkozy. Politicamente, i due erano gemelli siamesi. Diciotto mesi più tardi; una perquisizione della polizia nell'appartamento parigino di Christine Lagarde portò alla luce una sua lettera, molto personale e molto imbarazzante, biro pubblicata sui giornali di tutto mondo. Era indirizzata a Nicolas Sarkozy, firmata da Christine Lagarde e non datata. La perquisizione della polizia era in relazione con l'inchiesta su Bernard Tapie. Adesso, la stampa mondiale andava a nozze con quella lettera, nella quale lei giurava eterna fedeltà a Sarkozy e scriveva queste parole rivelatrici: «Sono al tuo fianco per servirti... Usami per il tempo che ti conviene e conviene alla tua azione e al tuo casting. Se mi usi, ho bisogno di te come guida e come sostegno: senza guida, rischio di essere inefficace; senza sostegno, rischio di essere poco credibile». La formula di commiato faceva rabbrividire: «Con la mia immensa ammirazione, Christine L.».
Giampiero Martinotti per ''la Repubblica'' del 18 giugno 2013. Non si sa quando l'ha scritta e nemmeno se l'abbia mai spedita, ma gli appunti per una lettera a Nicolas Sarkozy buttati giù da Christine Lagarde, attuale direttrice del Fondo monetario internazionale, sono quanto meno imbarazzanti. E sarebbe davvero interessante sapere se l'ex capo dello Stato ha mai ricevuto una lettera di quel genere, se non altro per sapere se dopo aver scritto la brutta copia la Lagarde ha capito quale lecchino avesse messo insieme in poche righe. L'appunto è stato ritrovato dagli inquirenti durante una perquisizione a casa Lagarde nel quadro della vicenda Tapie. Il testo non ha niente a che fare con l'inchiesta, ma mette in luce il grado di sottomissione della Lagarde all'ex presidente, sospettato di aver spinto a fondo per favorire il finanziere nel suo contenzioso con lo Stato. L'appunto fa sorridere o piangere, a scelta:
"Caro Nicolas, molto brevemente e rispettosamente:
1) Sono al tuo fianco per servirti e per servire i tuoi progetti per la Francia.
2) Ho fatto del mio meglio e ho potuto fallire periodicamente. Te ne chiedo scusa.
3) Non ho ambizioni politiche personali e non desidero diventare un'ambiziosa servile come tanti di quelli che ti attorniano, la cui lealtà è talvolta recente e talvolta poco durevole.
4) Utilizzami per il tempo che ti conviene e che conviene alla tua azione e alla tua distribuzione dei ruoli.
5) Se mi utilizzi, ho bisogno di te come guida e come sostegno : senza guida, rischio di essere inefficace, senza sostegno rischio di essere poco credibile. Con la mia immensa ammirazione. Christine L.".
Non c'è dubbio che la lettera potrebbe aggiudicarsi immediatamente il "lecchino d'oro". L'appunto risale probabilmente a qualche anno fa, quando la Lagarde era ministro delle Finanze. E al di là dell'ammirazione per un personaggio politico, è difficile immaginare la Lagarde in un tale stato di venerazione quasi infantile. Comunque sia, il testo esiste e la rete se n'è impadronita, sbeffeggiando senza pietà la direttrice dell'Fmi con testi e immagini sarcastiche.
Alessandro Sallusti per “il Giornale” il 13 marzo 2020. «Siamo tutti italiani», aveva detto e assicurato mercoledì Ursula Von der Leyen, capo del governo europeo, in un videomessaggio gonfio di retorica. Certamente non è italiana Christine Lagarde, governatrice della Banca Centrale Europea, che ieri ha sparato ad altezza d' uomo contro (anche) l' Italia. La nostra Borsa ha perso in poche ore il 17 per cento (peggior calo di sempre) e lo spread è schizzato oltre i 260 punti, cento in più di una settimana fa. Questa francese burocrate della finanza, che da pochi mesi ha preso il posto di Mario Draghi, ha detto infatti che «non è mio compito tenere sotto controllo lo spread», quando invece i Paesi e i mercati si aspettavano un deciso e immediato intervento della Bce per sostenere generosamente gli Stati in difficoltà e le loro economie reali, a partire ovviamente dall' Italia devastata umanamente ed economicamente dall' epidemia Coronavirus. Se non è questo «fuoco amico», ditemi voi. Siamo soli, chi dovrebbe salvarci ci spara contro. Questi non hanno capito che cosa sta succedendo: nel dorato quartier generale di Bruxelles racconta allibito chi lo frequenta - la vita procede come se nulla fosse: baci, abbracci e nessun tipo di precauzione. Bisognerebbe caricare a forza la signora Lagarde e portarla a fare un giro a Milano e dintorni: una tappa per le vie deserte come neppure in guerra, un' altra nelle fabbriche ferme o a scartamento ridotto e poi un' ultima in un ospedale. Piazzarla un giorno intero senza mascherina (tanto neanche i medici ne hanno più) in una sala rianimazione superaffollata e dirle: «Lo capisce ora, madame dei miei stivali, di che cazzo stiamo parlando, razza di incapace irresponsabile?». Non so quante vittime farà alla fine il Coronavirus, ma a questo punto credo che tra le tante ci sarà, se non si dà una bella svegliata, anche l' Europa. Per fortuna qualcuno aveva pontificato: «Vedrete, l' Europa in mano a due donne, la Von der Leyen al governo e la Lagarde alla Bce, sarà tutta un' altra cosa, più sensibile, pratica e intelligente». Ma per favore. Quello che è successo ieri è la prova che le donne non sono per nulla meglio degli uomini. Anzi: ridateci Mario Draghi prima che sia troppo tardi (e il presidente Mattarella tiri fuori gli attributi, non solo a parole).
Federico Fubini per il “Corriere della Sera” il 13 marzo 2020. La frase è di una sua collega tedesca, ma l' ha detta lei. E così Christine Lagarde ha vissuto la sua Caporetto. La presidente della Banca centrale europea ha ammaccato la sua credibilità ieri alle tre. Doveva illustrare le misure che la Bce sta prendendo per sostenere i cittadini, le imprese e i governi nella guerra - economicamente tossica - a un virus subdolo. La frase che ha causato il peggior crollo di sempre nel mercato dei titoli di Stato è ormai celebre: «Non siamo qui per chiudere gli spread, ci sono altri strumenti e altri attori per gestire quelle questioni». Era l' opposto del «whatever it takes» del predecessore Mario Draghi, quell' impegno a fare «qualunque cosa» per contrastare le scommesse contro alcuni Paesi in vista della rottura dell' euro. Se ieri Lagarde ha sfilato quella pietra di volta dell' intera architettura con apparente noncuranza, è perché non erano parole sue. Era una frase di Isabel Schnabel, la tedesca nel comitato della Bce. Quando l' aveva pronunciata Schnabel pochi se n' erano accorti. Lagarde si sarà sentita libera di ripeterla, senza capire che il suo peso è diverso. L' aspetto più rivelatorio di questa «gaffe» di Lagarde non è dunque l' apparente impreparazione, ma i punti di riferimento della francese. Ieri è iniziato a trasparire che oggi sono quelle dei tedeschi, soprattutto il presidente della Bundesbank Jens Weidmann, le voci più influenti ai vertici della Bce. E non è difficile vedere come per la Germania - ma non solo - la profonda recessione inflitta dall' epidemia, con il balzo del debito pubblico che già s' intuisce, possono diventare il momento nel quale l' Italia deve chiedere un salvataggio al resto d' Europa. L' intenzione di Lagarde ieri non era avvicinare quel momento. Ma nel ripetere le parole di Schnabel, la francese ha lasciato capire quale Paese è il suo riferimento a Francoforte. Già prima che lei finisse di parlare, mentre lo spread di Italia, Grecia, Spagna, Portogallo e Francia subiva sbalzi violenti, erano partite telefonate furenti da Roma. C' è stata anche una minaccia di sfiduciare la presidente, che aveva peggiorato le condizioni finanziarie di un Paese già aggredito dall' epidemia. Alla fine, poco prima delle 17, Lagarde ha letto alla Cnbc una completa retromarcia: «Siamo impegnati a evitare qualunque frammentazione dell' area euro. Gli spread più alti dovuti al coronavirus impediscono la nostra politica monetaria». Ma le Borse e il mercato dei titoli di Stato hanno ignorato le rassicurazioni, come se il genio fosse ormai fuori dalla lampada. Per rimettercelo, la Bce dovrà mostrare presto non parole ma molto denaro in acquisto sui Paesi danneggiati: Italia, Spagna, Francia, Portogallo. Del resto non è stata la sola «gaffe» di giornata che ha lasciato vedere, ieri, la tela di fondo. Lagarde ha anche letto nella dichiarazione iniziale che l' aumento del «quantitative easing» -l' acquisto di titoli pubblici e privati di tutta l' area - sarebbe stato di cento miliardi fino a fine anno. In realtà il comunicato della stessa Bce parla di 120 miliardi: dunque interventi per 15 miliardi al mese, non dieci. Chiaramente Lagarde si era presentata in conferenza stampa con una versione vecchia dell' accordo. Aldilà del proprio pressappochismo, la presidente ha così rivelato che la Bce si era divisa fino a poco prima fra chi voleva aiutare di più e chi di meno le economie contagiate dal virus: è la frattura che attraversa oggi l' Europa.
Alessandro Barbera e Ilario Lombardo per ''la Stampa'' il 14 marzo 2020. Patto di stabilità in soffitta. Regole sugli aiuti di Stato ammorbidite. E infine il rinvio della contestatissima riforma del Fondo salva-Stati. L’ultima prova del terremoto scatenato dal corinavirus sull’Unione europea si dovrebbe avere alla riunione di lunedì prossimo dei ministri finanziari della moneta unica. L’emergenza prenderà probabilmente il sopravvento su qualunque altro punto all’ordine del giorno. La riforma del Mes, benché all’ultimo miglio, è un tema troppo divisivo e lontano per essere discusso in questi giorni. Nel giro di tre settimane, dall’inizio dell’epidemia nel lodigiano, le regole e gli equilibri che avevano governato le istituzioni europee sono saltate. Basti dire che la Commissione di Bruxelles ha già concesso all’Italia di raggiungere quest’anno il 3,3 per cento del rapporto deficit-Pil, ma sia a Bruxelles che a via XX settembre sanno bene che le cose andranno molto peggio di così: quella stima si basa su un’irraggiungibile ipotesi di crescita del Pil italiano di sei decimali. Se le cose non andranno troppo male, sui tavoli circola una ipotesi attorno al 4 per cento. Il male minore per un Paese ad alto debito che pagherà carissimo lo stop imposto dall’epidemia. Nel governo quanto sta accadendo è motivo di ottimismo, perché non era scontato immaginare la Germania del deficit zero disposta ad accettare questa rivoluzione. Il clima è cambiato non appena l’epidemia ha passato il confine delle Alpi, la spinta di Emmanuel Macron ha fatto il resto. Per Palazzo Chigi e Tesoro l’annuncio di Berlino di un piano da 550 miliardi di garanzie pubbliche è la prova che il clima è definitivamente cambiato, il lasciapassare perché ciascun partner faccia quanto necessario per evitare una crisi paragonabile (nelle dimensioni, non nelle caratteristiche) a quella del 2007-2008. A voler semplificare si potrebbe dire che l’Europa divenuta epicentro globale del coronavirus gioca la partita della sua sopravvivenza in Italia sul lato sanitario, in Germania, su quello economico. La telefonata di giovedì tra il presidente del Consiglio Giuseppe Conte e la Merkel è stato il passo formale verso il nuovo scenario. L’impegno sul fronte dell’emergenza riconosciuto dall’Organizzazione mondiale della sanità, e che ha reso l’Italia una sorta di avanguardia europea nel contenimento, ha messo in discussione la sottovalutazione degli altri Stati e scardinato le resistenze di Bruxelles. La pupilla di Frau Angela, la presidente della Commissione Ursula Von der Leyen si è precipitata a offrire rassicurazioni e sostegno, ancor di più dopo la gaffe della presidente della Banca centrale europea Christine Lagarde che ha affossato la Borsa e il mercato dei titoli Stato italiani. I contatti di Conte con Von der Leyen sono quotidiani e insieme stanno dettagliando il pacchetto di aiuti che serviranno all’Italia per risollevarsi in un quadro di recessione continentale, ben sapendo che il destino dell’Unione è in mano all’Eurogruppo. Le prudenze di Bruxelles sono state abbattute grazie anche a una rete politico-tecnica di salvataggio. Dopo l’infausto discorso di Lagarde - che aveva negato un ruolo di Francoforte per superare le fratture economiche all’interno del Continente - si sono mossi il numero uno di Bankitalia Ignazio Visco e a Francoforte il rappresentante italiano nel board della Bce Fabio Panetta. Il ruolo più decisivo - e imbarazzante per Lagarde - l’ha svolto il capo economista di Francoforte Philip Lane, già governatore della Banca d’Irlanda ma soprattutto uomo vicinissimo a Mario Draghi: per chiudere l’incidente ha dovuto sostenere l’esatto contrario di quanto detto giovedì dalla numero uno. Nel frattempo il commissario agli Affari economici Paolo Gentiloni e il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri stanno definendo priorità e metodo del piano. All’Eurogruppo saranno messi alla prova i rigoristi del Nord su un progetto - dice chi l’ha visto - senza precedenti. Conte non vuole sorprese. Avrebbe ottenuto l’impegno di personale di Macron, che sta vivendo una escalation del contagio simile alla nostra, ed è pronto a rispondere con misure eccezionali alla situazione eccezionale.
Giuliano Balestreri per it.businessinsider.com il 17 marzo 2020. Il 26 luglio 2012, l’ex presidente della Bce, Mario Draghi, pronunciò il suo discorso più celebre: “Faremo tutto il necessario per preservare l’euro. E credetemi, sarà sufficiente”. Parlava a braccio, senza mostrare preoccupazione e senza sorridere: indossava la sua “poker face”. E i mercati esplosero: in due giorni Piazza Affari recuperò quasi il 10% facendo calare lo spread di 70 punti e spingendo gli acquisti anche a Francoforte. La decisione con cui Draghi parlò ai mercati costrinse le cancellerie europee a seguire la linea: “Faremo tutto il necessario” dissero all’unisono, il giorno dopo, Parigi e Berlino. Allora l’esistenza stessa dell’euro era minacciata dalla crisi del debito sovrano. Il 12 marzo 2020, la presidente della Bce, Christine Lagarde, ha pronunciato un discorso imbarazzante sottolineando a più riprese come “lo spread” non sia un problema della Bce. Una posizione che ricalca quella della Germania, da sempre contraria alle politiche di Draghi, e che definisce il Qe2 un rischio per la democrazia tedesca. A differenza di Draghi, Lagarde non ha nascosto la propria partigianeria facendo crollare i mercati (compresa la Borsa di Francoforte): lo spread è schizzato e in tre sedute, Piazza Affari ha bruciato quasi 100 miliardi di euro. “La comunicazione è uno strumento fondamentale per chi ha un ruolo pubblico. Le ricadute, positive o negative, di una decisione comunicata male possono essere devastanti” spiega Nicola Bonaccini, docente di comunicazione pubblica presso la Presidenza del Consiglio dei ministri che poi aggiunge: “Le macro parole con cui possiamo definire l’intervento di Lagarde sono inadeguatezza e impreparazione”. Anche perché dopo l’esplosione dell’emergenza coronavirus, tutti si aspettavano il bazooka della Bce. Ma gli analisti più che a un intervento reale, guardavano alle scelte comunicative di Lagarde. “Ogni parola – spiega l’esperto – viene pesata con grande attenzione. Chi è al vertice di organizzazioni importanti come la Bce deve essere consapevole che ogni affermazione condizionerà l’opinione pubblica. Se ignori questo concetto basilare allora sei impreparato. La colpa, ovviamente, non è solo di Lagarde, ma anche di chi la circonda: è il suo staff che dovrebbe pensare al minuto successivo al suo discorso”. Bonaccini, però, non può fare a meno di sottolineare come la comunicazione di Lagarde abbia messo a nudo l’atteggiamento di Francia e Germania nei confronti dell’Italia: “Il ritornello è sempre lo stesso, ma un conto sono i politici, un conto è l’intervento della Bce che, invece, dovrebbe essere garante del sistema euro. Quando però ci si è resi conto che il problema è globale allora sono stati mitigati i toni. Di certo adesso ci rendiamo conto di che valore aggiunto fosse Draghi alla Bce: non solo per la sua caratura e le attenzioni che aveva verso il nostro Paese, ma soprattutto per la sua capacità comunicativa. Il valore dei leader è anche nel sapere prendere decisione che non appaiano mai di parte, anche quando potrebbero esserlo. Draghi ha sempre adottato in maniera impeccabile questo principio”. Per l’esperto alla presidenza del consiglio dei ministri è cruciale comunicare in modo chiaro e univoco: “Chi non riesce a farlo perde parte della propria capacità di governo. Sia politico che monetario. I cittadini, così come i mercati, devono essere informati tempestivamente e correttamente. Senza ambiguità e senza lasciare margini d’interpretazione. Per questo, di solito, aziende, ma anche istituzioni, quando preparano importanti campagne chiedono agli esperti di studiare alcuni scenari successivi per essere pronti a reagire nel migliore, ma anche nel peggiore dei casi”.
Adesso la Bce cambia idea: piano da 750 miliardi. Federico Giuliani su Inside Over il 19 marzo 2020. La Banca centrale europea fa retromarcia e annuncia un piano economico per fronteggiare l’emergenza economica provocata dal Covid-19. Si tratta di un quantitative easing da 750 miliardi di euro di titoli da acquistare, fino alla fine del 2020, in parte nel settore pubblico e in parte in quello privato. La decisione è arrivata in nottata, al termine di una riunione telefonica straordinaria del Consiglio direttivo della Bce. Nella nota diffusa dall’Eurotower si legge che “la Bce si impegna a svolgere il proprio ruolo nel settore nel sostenere tutti i cittadini dell’area euro in questo momento estremamente difficile” e che a tal fine l’organismo farà in modo che “tutti i settori dell’economia possano beneficiare di condizioni di finanziamento favorevoli che consentano loro di assorbire questo choc”. Tutto questo, ha sottolineato la Bce, vale anche per famiglie, imprese, banche e governi. Insomma, dopo il disastro fatto nei giorni scorsi, Christine Lagarde ha capito due concetti fondamentali: che in gioco c’è la credibilità dell’ Unione europea e ma soprattutto che proseguire sulla strada dell’indifferenza non avrebbe danneggiato soltanto i singoli Paesi membri, ma anche Bruxelles.
Lagarde cambia idea. Il numero uno della Bce prova quindi, tardivamente, ad accreditarsi come il salvatore dell’Europa. Lagarde ha sottolineato che “tempi straordinari richiedono un’azione straordinaria. Non ci sono limiti al nostro impegno per l’euro” e che la Bce è “determinata a sfruttare tutto il potenziale degli strumenti a disposizione nell’ambito mandato”. Il fatto è che dietro alla straordinaria decisione della Bce non ci sono né compassione né volontà effettiva di aiutare i popoli dell’Ue. C’è soltanto l’interesse nel non far crollare l’intero carrozzone europeo. La controprova è data dai tempi di reazione della stessa Banca centrale europea. Già, perché quando i Paesi in difficoltà, come ad esempio l’Italia, chiedevano e aspettavano un intervento dall’alto, nessuno ha lanciato loro un salvagente. Dopo però lo spread continuava a salire toccando vette insostenibili e le Borse proseguivano nella loro discesa verso gli abissi, allora la Bce è scesa in campo.
Il Programma di acquisti di emergenza pandemica. Da un punto di vista pratico il Consiglio direttivo ha lanciato un nuovo Programma di acquisti di emergenza pandemica (Pepp) per 750 miliardi di euro complessivi. L’obiettivo principale – spiegano dall’Eurotower – è “contrastare i gravi rischi per il meccanismo di trasmissione della politica monetaria e per le prospettive della zona euro derivanti dall’epidemia e dalla crescente diffusione del coronavirus”. Insomma, tanto per ribadire il concetto: la Bce si è mossa per interessi economici, non tanto per aiutare i Paesi. In ogni caso il nuovo quantitative easing condurrà acquisti di titoli pubblici secondo i livelli nazionali già definiti (le cosiddette capital key) ma in maniera flessibile, così da consentire eventuali variazioni nella distribuzione del flusso di acquisti nel tempo. Insomma, dopo che i 120 miliardi della scorsa settimana avevano deluso, la Bce scende in campo con grave ritardo e con un bazooka ben più pesante per rassicurare i mercati. Ma perché Lagarde ha cambiato idea all’improvviso? Semplice: il rischio più grande, per Bruxelles, è una possibile spirale dell’Italia. Il debito pubblico del nostro Paese deve fronteggiare due problemi non da poco, oltre al Covid-19: l’aumento del debito (che viaggia oltre il 150% del pil) e un calo del pil relativo al 2020.
Le Borse europee volano dopo la marcia indietro della Bce: Milano guadagna il 14%. Pubblicato venerdì, 13 marzo 2020 da Corriere.it. Le Borse europee beneficiano anche della decisione della Consob italiana e dell’autorità spagnola della Borsa che hanno vietato le vendite allo scoperto. E dopo che il capo economista della Bce, Philip Lane, ha precisato nel suo blog che la Banca centrale intende assicurare una «presenza robusta» sul mercato obbligazionario e ipotizzando un possibile taglio dei tassi, se necessario. Sullo sfondo resta il timore di una recessione globale a causa della pandemia di coronavirus. La Borsa di Milano cresce dunque: a metà giornata il Ftse Mib avanza del 14%. A Piazza Affari raffica di sospensione in eccesso di rialzo con Poste (+23%), Banco Bpm (+22%) Ubi Banca (+19%). Nel listino principale, al momento, restano agli scambi il 50% dei titoli. Bene anche il resto d’Europa: Londra guadagna ora il 5%, Parigi invece avanza del 4,57%. Francoforte è a +4%. Madrid avanza del 7%. «Il Consiglio direttivo della Bce si riserva la possibile opzione di futuri tagli dei tassi d’interesse in caso di una stretta delle condizioni finanziarie o di minacce al nostro obiettivo d’inflazione nel medio termine», ha scritto il capo economista della Bce Philip Lane in un blog sul sito della Banca Centrale. A chi si chiede «perché, a differenza di molte altre banche centrali nelle ultime settimane, la Bce non ha abbassato i suoi tassi strategici», ricorda Lane, l’Eurotower ricorda che un simile intervento «è in genere più efficace se si prevede che sia persistente» la crisi da affrontare. La convinzione è che per quanto «veloce» sia questo choc «il nostro scenario di base è che sarà in definitiva temporaneo». «Di conseguenza - aggiunge - abbiamo concluso che la risposta più appropriata è un allentamento della posizione monetaria attraverso l’acquisto di attività aggiuntive e il notevole sostegno all’offerta di credito attraverso la revisione del programma TLTRO». Ovvero, garantire più liquidità al sistema. Lane comunque lascia la porta aperta a interventi sui tassi spiegando che «il Consiglio direttivo mantiene l’opzione di futuri tagli della politica tasso, se giustificato da un inasprimento delle condizioni finanziarie o da una minaccia al nostro obiettivo di inflazione a medio termine».«Le decisioni prese» dalla Bce «sono decisioni importanti finora sottovalutate dai mercati. Saranno pienamente comprese quando saranno messe in pratica», ha dichiarato il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, in un’intervista a Bloomberg Tv. La Bce, ha detto ancora il governatore, «se necessario agirà ancora». La prima risposta alla crisi», ha comunque ricordato Visco, derivante dall’emergenza coronavirus «è un ruolo che spetta ai governi». Lo spread è in discesa dopo le parole del capo economista della Bce Philip Lane. Il differenziale di rendimento tra il Btp e il Bund cala a 243 punti base da 250, col tasso all’1,79%. A sostenere i listini sono le attese per un’azione perentoria della Fed che il 18 marzo potrebbe annunciare un maxi-taglio dei tassi di 100 punti base. Intanto ieri la Consob ha deciso di vietare per la seduta di oggi le vendite allo scoperto per 85 titoli, compresi quelli di tutte le big tedesche. Tra i singoli titoli spicca il balzo di Leonardo a +6% dopo i conti 2019 arrivati ieri sera. I migliori al momento sono le utility con Hera e Snam a oltre +7%.Le Borse asiatiche hanno registrato cali dopo panico sulla scia del tonfo di Wall Street, per i timori legati alla pandemia di coronavirus, il tonfo di Wall Street che ha registrato il peggior calo dal Black Friday del 1987, dal Black Friday del 1987. Tokyo è stata la peggiore in Asia che ha chiuso in ribasso del 6,08% a 17.431,05 punti (ai minimi in 30 anni) in una seduta contrassegnata da una forte volatilità, mentre Seul segna un ribasso del 2,51%, dopo un avvio in calo di oltre l’8%. In rosso la Cina con Shanghai (-1,23%), Shenzhen (-1%) e Hong Kong (-2,5%). Male anche Seul (-3,4%) mentre sono in rialzo Mumbai (+1,3%). Sul mercato valutario lo yen si apprezza sul dollaro a 105,40 e sull’euro a 118,20. Segnali rassicuranti per i mercati sono arrivati dal Giappone, che pensa a iniziative «senza precedenti» per contrastare l’impatto del coronavirus sull’economia, ha detto il ministro delle Finanze, Taro Aso, e da Seul dove la banca centrale, in seguito a una riunione di emergenza, ha reso noto di star valutando nuove misure per stabilizzare il mercato finanziario, mentre la banca centrale australiana ha iniettato 8,8 miliardi di dollari australiani (5,52 miliardi di dollari) nel sistema finanziario.
Il virus che ci ha fatto scoprire chi siamo. Lorenzo Vita su Inside Over il 14 marzo 2020. Silenzioso, microscopico ma estremamente violento, il coronavirus ha saputo rovesciare completamente le priorità non solo degli individui, ma anche degli Stati. È bastato un attimo, le prime avvisaglie di focolai in giro per l’Italia, poi il rischio di contagi ovunque e l’inizio dell’orrenda conta dei morti, per modificare radicalmente il nostro presente. La politica italiana, europea e mondiale si è fermata. Sospesa nel tempo. Il coronavirus, questo nemico che tutti abbiamo imparato a conoscere ma che ancora non sappiamo sconfiggere, ha livellato di colpo ogni Paese, ogni certezze, ogni discussione. Tutto finito, tutto sospeso a data da destinarsi. Il mondo è fermo, perso nell’incertezza e a caccia di una speranza. Ma nel silenzio assordante della quarantena italiana, e mentre il mondo inizia a reagire (ognuno a modo suo) alla pandemia di coronavirus, questo virus qualche certezza inizia a darla. E va da sé che il quadro è decisamente desolante, ma anche utile a capire la vacuità di tanti messaggi, slogan e sogni raccontati da un mondo di intellettuali e benpensanti forse troppo concentrati sui propri desideri da accorgersi della realtà così diversa dalle aspettative. Il coronavirus passa sul mondo come una livella. Senza alcuna possibilità di replica. L’idea di una globalizzazione imperante e anche possibile da cavalcare si è schiantata di fronte all’evidenza che è proprio il sistema globalizzato ad aver incentivato (inconsciamente) la propagazione del Covid-19. In un attimo le merci si sono fermate, il trasporto aereo e navale, simbolo di questo mondo dedito al commercio e agli spostamenti, si è paralizzato. Ma la globalizzazione non è la sola preda di questo virus. Il contagio ha colpito anche le certezze del mercato delle logiche del liberismo sfrenato, che hanno visto in un attimo cancellare ogni traccia dei propri trionfi. La quarantena ha fatto registrare la giornata peggiore della storia di Piazza Affari, Wall Street è crollata in un profondo rosso senza precedenti. Centinaia di miliardi di euro andati in fumo in solo una seduta di Borsa: facendo scomparire i guadagni mesi di titoli che pompavano a rotta di collo. La fiducia nella finanza si è spenta di fronte a qualcosa che nessuno può realmente controllare: un agente patogeno. Il panico ha spinto i mercati a reagire impazziti e gli investitori a fuggire nei cosiddetti beni di rifugio. Sembra la guerra: ma in realtà non ci sono armi. Ma la guerra esiste, anche se molti non la vedono. Ed è quella che si combatte ogni giorno in un’Europa dilaniata da questa emergenza pandemica che di sicuro ha avuto la “capacità” inconsapevole di mettere ko un carrozzone istituzionale privo di qualsiasi forza e potere. L’Unione europea non l’ha fermata Donald Trump, non l’ha fermata la Cina, non l’ha fermata nemmeno la Russia di Vladimir Putin. Il vero nemico dell’Unione europea è l’Unione europea stessa, che nell’arco di pochi giorni ha saputo dissolversi come se non fosse mai esistita. Per anni ci è stato detto che era l’Europa unita il nostro vero traguardo, che la Brexit è stato il simbolo del tradimento, che le magnifiche sorti e progressive di Bruxelles sarebbero state il nostro sol dell’avvenire, che i veri leader europeisti erano quelli che sedevano a Parigi e Berlino e loro sapevano come far marciare compatta l’Europa vero un radioso futuro. E invece sono bastati pochi giorni di allarme per cancellare qualsiasi tipo di certezza anche nei più fervidi sostenitori della costruzione europea. Nessuno ha prestato soccorso all’Italia in difficoltà. Nessuno ha risposto alla richiesta disperata di nuovi ventilatori polmonari, nessuno ha inviato medici e infermieri per dare man forte, nessuno ha pensato di ordinare ai propri “investitori” di non speculare sulla Borsa che crollava puntando gli asset strategici italiani (un pericolo ricordato anche dalla guida del Copasir, Raffaele Volpi). Confini chiusi, fabbriche sigillate, telefonate senza risposta, timide aperture sul debito mentre si pompano miliardi nei propri sistemi economici in barba a ogni obbligo imposto da Maastricht. Di fronte al pericolo l’Europa non si è solo dileguata, si è completamente rovesciata. Il sovranismo “sanitario” l’ha fatta da padrona, l’ordine è stato quello di cercare prima l’untore, poi di colpirlo, poi di blandirlo con parole di stima e infine di isolarlo e giocare anche al massacro. Sono pochi coloro che hanno espresso solidarietà all’Italia: molti di più quelli che hanno invece voltato le spalle, sperando che ciò che accadeva in Lombardia potesse solo lontanamente colpire gli altri. E nel frattempo l’altra Europa, quella euroburocratica, è andata avanti: con la riforma del Mes, con i trattati, con gli accordi per spartirsi la Libia, con lo strappare contratti vantaggiosi nel mercato agroalimentare, nel saccheggiare quote di turismo dando un’immagine pestilenziale dell’Italia. Addirittura aprendo agli aiuti di Stato, alle nazionalizzazioni (quelle per cui l’Italia è messa nel mirino) e alle scelte autarchiche in campo medico e sanitario. Fino al colpo di grazia di una Christine Lagarde che dice che lei, con lo spread, non può fare proprio niente: quasi ridendo della sorte del nostro debito. Arriverà un giorno in cui tutti i leader europei si riuniranno di nuovo intorno a un tavolo e discuteranno di altro. Forse di una politica agricola comune, forse di un nuovo fondo per “salvare” Stati in difficoltà, forse di un nuovo piano per distribuire migranti arrivati dalla Libia o dalle coste turche, o magari per un fantomatico progetto ecologista con le bacchettate furiose di una ragazza scandinava dalle bionde trecce. Arriveranno i summit, gli incontri di palazzo, le cene istituzionali e i grandi vertici in ville e residenze. Si spera anche presto, perché vorrà dire ce l’emergenza coronavirus sarà finita. Ma chiunque siederà a Palazzo Chigi dovrà guardare negli occhi i propri interlocutori e ricordarsi di questo: che per alcune settimane il mondo è stato in balia del coronavirus. E per quelle poche settimane, l’Europa è scomparsa voltando le spalle a chi ne aveva bisogno. L’Europa, come la stragrande maggioranza dei contagiati di questo virus, probabilmente sopravviverà: ma niente sarà più come prima.
L.Del. per “la Verità” il 16 marzo 2020. «L'Europa non è fatta solo da competenze esclusive. È fatta anche e soprattutto da competenze concorrenti. Queste, giusto o sbagliato che lo si ritenga, rappresentano comunque la sostanza e lo spirito vero dell' architettura europea». Giulio Tremonti, accademico, presidente di Aspen Institute Italia e più volte ministro dell' Economia, fa un'oggettiva ricostruzione, in un momento così drammatico, del meccanismo europeo.
Gli europeisti convinti continuano a battere il tasto della mancanza di poteri della Commissione Ue per intervenire sull'emergenza sanitaria. Cosa ne pensa?
«Non è vero. L'Unione ha competenza esclusiva su alcune materie, ad esempio sul commercio internazionale. Ma ha anche competenze concorrenti con quelle degli Stati su un vastissimo catalogo di altre materie, inclusa la sanità. In specie nel Trattato si parla di "grandi flagelli". Quelli che lei chiama europeisti hanno ignorato e ignorano la struttura costituzionale dell' Europa, riducendola alla dialettica tra competenze sovrane degli Stati e competenze esclusive dell'Unione. Ignorano il fatto che la struttura costituzionale europea è molto più vasta e articolata, ci sono anche le competenze intermedie, che seppure concorrenti non sono meno competenze di quelle esclusive, cambia solo la forma politica e tecnica nella quale possono ma anche devono essere esercitate. A riprova del fatto che l' Ue ha competenza in materia sanitaria, c'è che il 30 gennaio l'Oms ha dato l' allarme proprio all' Ue. Per quanto risulta, l'Ue si è attivata sul piano burocratico ma non ha cominciato a svolgere la sua necessaria e costituzionalmente prevista, funzione politica».
Ma questa è la tesi di un europeista convinto come David Sassoli, che tra l' altro si è messo in autoisolamento.
«Mi pare un caso di autoisolamento non solo sanitario ma anche costituzionale, dato che nel Trattato si assegna un ruolo anche al Parlamento europeo».
Quale azione politica, concreta, è mancata?
«Sarebbe stato necessario e sufficiente leggere il titolo XIV del Trattato europeo: monitoraggio dei fenomeni, analisi dell' azione dei singoli Stati, evitare che essi, nella loro azione, violassero i principi dell' Unione, esercitare quello che un tempo era il suo vero potere, cioè il soft power. Se anche non avesse il potere di imporre ai singoli Stati standard sanitari, come minimo aveva il dovere di omogeneizzare le informazioni, non tollerando tecniche informative anarchiche asimmetriche come quelle attuate, diverse da Paese a Paese».
Cos' è il soft power?
«È un potere politico dell' Europa che può esistere anche senza aver base nei trattati - qui c'è base nei trattati. Ad esempio alla costruzione dell' euro concorse, con una decisiva quota di soft power, il presidente della Commissione Jacques Delors. Ma, ripeto, se l'introduzione dell'euro non era ancora prevista dal Trattato, qui la mancata attività era prevista dal Trattato. Se c'è stato sovranismo sanitario non c'è stato un ruolo di coordinamento dell' Europa che pure è scritto nel Trattato ed è necessario per il bene comune. Coordinamento vuol dire indicare le cose da fare ma sanzionare e reprimere le cose da non fare».
L' Ue poteva intervenire contro Francia e Germania, che hanno bloccato l' esportazione di mascherine e strumenti di protezione nel nostro Paese e contro l' Austria che ha chiuso le frontiere?
«Quello che mi pare fuori, non solo dalla lettera, ma anche dallo spirito del Trattato, è il silenzio o l' omissione. Non conosco la casistica specifica, ma mi è abbastanza evidente che lo spirito che dovrebbe essere comune tra i popoli europei, è anche quello che si manifesta nei comportamenti concreti, soprattutto nelle "cose piccole" che sono poi quelle che i popoli capiscono più direttamente».
La Commissione, come ha annunciato la presidente Ursula von der Leyen, stanzierà 25 miliardi a sostegno dell' economia. Basteranno?
«Per quanto è noto sono 25 miliardi destinati ai 27 Stati dell' Unione e tra l' altro tratti dal bilancio dell' Unione e quindi pagati di tasca nostra, una ben strana liberalità. E tra l' altro da parte dell' Europa noto uno straordinario meccanismo di fabbricazione di fondi a mezzo fondi. Oggi a Bruxelles si parla di questo fondo, ieri si parlava di un altro fondo, un fondo "verde" cubato pari a 1.000 miliardi di euro. Se questo da 25 miliardi è fatto con i soldi nostri, quello era fatto con soldi inventati, dentro una scenografia che ha visto l' apparizione congiunta ufficiale tra la presidente della Commissione Ursula e Greta Thunberg».
Sarà concesso all' Italia di far salire il deficit fino al 3%. È un buon passo?
«Su questo ci saranno molte occasioni per discutere ma un punto dovrebbe e potrebbe essere fermo già oggi: c'è una strutturale differenza tra gli scostamenti di bilancio causati da congiunture economiche negative o da politiche devianti e gli scostamenti causati da eventi eccezionali, soprattutto connessi a fenomeni naturali. Su questo non solo i trattati europei ma anche la nostra Costituzione, sono chiarissimi. Sugli scostamenti del primo tipo la discussione è quella che si sviluppa in termini di flessibilità. Gli eventi del secondo tipo, con i connessi scostamenti, si sviluppano su un piano diverso ed escono dalla dialettica politica che è riservata a quelli del primo tipo. Su questi non c' è spazio per la discussione, sono possibili e basta. Parlare di flessibilità che ci sarebbe "concessa" dall' Europa anche su spese di questa seconda classe è svelare nel rapporto con l' Europa la sindrome del portiere di notte. È una sindrome che umilia tanto un governo nazionale quanto l' Europa stessa che invece dovrebbe avere la sua base storica e politica nella logica della solidarietà, non sulla rigidità dei parametri manipolati nell' interesse delle banche, come è stato nel caso della Grecia e contro l' Italia».
Lei aveva rilanciato l' ipotesi di eurobond, che ne è stato?
«È un' idea che risale a Delors, al 1994, poi ripresa nel 2003 dal governo italiano e poi ancora ripresa in un articolo scritto congiuntamente da Tremonti e Jean-Claude Juncker pubblicato nel 2009 sul Financial Times. A quell'altezza di tempo c' era un consenso che, seppur non manifestato, includeva anche il Nord Europa. Non era solo l'iniziativa di un ministro italiano ma anche del presidente dell' Ecofin. Poi però la crisi greca ha terminato quella fase. Credo che abbia di nuovo senso parlare di una iniziativa sugli eurobond».
Fabio Martini per “la Stampa” il 16 marzo 2020. È mezzogiorno, è domenica e a quest' ora, puntualmente ogni settimana, Romano Prodi esce dalla parrocchia di San Giovanni a Bologna al termine della messa. Stavolta no, stavolta risponde dal suo telefono di casa in via Gerusalemme: «Siamo dentro una emergenza che ti priva delle cose che ti sono più care». Ma oltre ad essere un cattolico osservante, Prodi è anche un padano che non si stanca di studiare e di pensare al futuro e in queste ore, racconta, «penso e ripenso a come potere uscire da questa grave emergenza. E credo che l' Europa e l' Italia siano chiamate a decisioni all' altezza di una crisi senza precedenti. Alla tragedia delle vite umane si unisce il dramma economico».
L'Unione europea in questi giorni si è manifestata con le parole delle due donne più influenti, parole assai diverse tra loro, ma in fin dei conti un'Europa che conferma di essere pensata soltanto per «quando c'è il bel tempo», come ha detto Lucrezia Reichlin?
«Il bel tempo mi sembra piuttosto lontano. Venendo all' oggi: della Lagarde, presidente della Bce, si era detto che non ha esperienza tecnica, ma che è una raffinata politica. Speriamo che abbia imparato un po' di tecnica! Quanto alla Commissione europea, prima di pronunciarsi, ha aspettato che l'emergenza coronavirus diventasse tragica. Certamente la presidente Von der Leyen ha fatto dichiarazioni positive, ma lo erano pure quelle sul Piano verde. Poi, per la verità, non ha potuto mettere le necessarie risorse nel Bilancio. Tutto è sempre nelle mani del Consiglio. Decidono gli Stati, ma ora la gravità della situazione impone di cambiare».
E quale potrebbe essere il segnale di una svolta vera, percepibile, epocale?
«È arrivato il momento di mettere in atto un salto di solidarietà, di lanciare una strategia europea per impedire una crisi irreversibile che toccherà anche gli altri Paesi europei. La misura da prendere è l' emissione di Eurobonds, come strumento per raggiungere obiettivi comuni. Gli Eurobonds, da una parte sarebbero il segno della solidarietà, ma consentirebbero anche l' avvio della politica economica e della fiscalità a livello europeo che ancora non esistono».
Lei pensa ad una cura d'urto, incomparabile con quelle sinora immaginate?
«Per un momento eccezionale servono risorse finanziarie eccezionali: un piano nell' ordine delle centinaia di miliardi, anche se non possiamo quantificarlo ora perché non sappiamo quanto precisamente durerà questa crisi e quale profondità avrà».
Come lei ben sa i tedeschi si sono sempre opposti: perché stavolta dovrebbero cambiare idea?
«Perché stavolta nessuno potrà dare colpe all'Italia o ad un singolo Paese. Temo che tra qualche giorno comprenderemo che la crisi determinata dal virus non è soltanto un problema italiano. Noi abbiamo più debito di altri, ma questa crisi tocca tutti. Anche i tedeschi difronte ai fatti nuovi cambiano idea: chi due giorni fa avrebbe immaginato che la Germania chiudesse le frontiere con l'Austria e la Francia?».
In questi giorni ogni Paese europeo ha pensato a se stesso mentre a Bruxelles chi doveva pensare a tutti, ha finito per balbettare: sarà il coronavirus ad accelerare la nascita di una Europa politica?
«Se non ora, quando? L'Europa politica non potrà mai decollare da una teoria, ma dai fatti! Se non capiamo che oggi l'Eurobond è legittimato politicamente, oltreché tecnicamente, quando lo capiremo? È arrivato finalmente il momento di dotarsi di uno strumento di intervento straordinario che vale per tutti: il titolo pubblico del debito pubblico europeo».
Possibile che davanti ad emergenze epocali non si riesca a prendere atto che eccezionalmente si devono assumere decisioni comuni?
«Certo, è bene che in tempi ordinari la politica sanitaria resti una competenza nazionale, ma è evidente che davanti ad un' emergenza, se tu produci mascherine e io respiratori, la cosa più logica è scambiarseli. Agire in comune è infinitamente più efficace che agire separatamente».
Il governo ha tamponato l' emergenza con misure attese e condivise dalle parti sociali, ma le prime stime su quello che ci attende, sia a livello di debito-deficit che di ricadute sociali, fanno paura: come se ne esce?
«Le risorse messe a disposizione dal governo mi auguro che siano spese subito, perché l'economia purtroppo rischia di crollare a "vite", si rischiano fallimenti per le imprese e tragedie per le famiglie. E in ogni caso non sapendo che durata avrà la crisi, non mi sento di quantificare la caduta del Pil né la misura del deficit pubblico. Ma ho un chiodo fisso: l' Italia appronti, da subito un piano per il rilancio del Paese in modo da tornare a renderci competitivi quando l' emergenza sarà finita».
Facile a dirsi. La storia nazionale è piena di libri dei sogni, di progetti faraonici.
«Ci sono alcuni grandi eventi che impongono cambiamenti ma offrono anche opportunità. La globalizzazione non è finita ma si sta manifestando in forme diverse dalle previsioni. Molte nostre imprese che nel passato sono emigrate, in parte si preparano a rientrare. In Cina, ad esempio, resteranno soprattutto le imprese interessate al mercato interno, ma altre si allontaneranno, perché i costi stanno crescendo anche lì. Nel 1982 scrissi un articolo che era titolato: "Italia-Cina 1 a 40", perché da noi il costo per ora lavorata aveva quel rapporto lì. Oggi siamo scesi a 1-2,5 e tra non molto si andrà verso il rapporto di 1 a 1"».
Non resta che attendere quelle imprese?
«Noi abbiamo, purtroppo, un costo del lavoro drammaticamente inferiore a quello di Francia e Germania. Tuttavia le imprese straniere, pur avendo convenienza a venire da noi, preferiscono andare altrove a causa dei nostri difetti politici e burocratici. Si deve riorganizzare il sistema-Paese. Il governo riunisca subito un ristretto gruppo di specialisti che prepari un pacchetto di regole e di incentivi per i nostri imprenditori e per quelli stranieri».
Coronavirus, Conte a leader Ue: A crisi straordinaria risposta è "whatever it takes". (LaPresse il 17 marzo 2020) - Nel suo intervento nel corso della videoconferenza con i leader europei, a quanto si apprende, il premier, Giuseppe Conte, ha chiarito che a una crisi straordinaria, senza precedenti, si risponde con mezzi altrettanto straordinari, mettendo in campo qualsiasi strumento di reazione, secondo la logica "whatever is takes". Nel suo intervento nel corso della videoconferenza con i leader europei, a quanto si apprende, il premier, Giuseppe Conte, ha invitato tutti a non illudersi che ci potrà essere un Paese membro che potrà rimanere indenne da questo tsunami economico-sociale e ha invitato a considerare che il ritardo nella risposta comune sarebbe letale per tutti e per questo irresponsabile. Nel suo intervento nel corso della videoconferenza con i leader europei, a quanto si apprende, il premier, Giuseppe Conte, ha chiarito che dobbiamo assicurare ai nostri cittadini le cure mediche necessarie e la protezione sociale ed economica di cui hanno bisogno. Non ci sono alternative. Nel suo intervento nel corso della videoconferenza con i leader europei, a quanto si apprende, il premier, Giuseppe Conte, tra gli strumenti possibili, ha indicato i "coronavirus bond" o anche un fondo di garanzia europeo in modo da finanziare con urgenza tutte le iniziative dei singoli governi per proteggere le proprie economie. Nel suo intervento nel corso della videoconferenza con i leader europei, a quanto si apprende, il premier, Giuseppe Conte, ha chiarito che se procederemo divisi la risposta sarà inefficace e questo ci renderà deboli ed esposti alle reazioni dei mercati, ha detto Conte.
Il primo Eurobond? L’idea di un fondo comune Ue per coprire la spesa sanitaria. Pubblicato mercoledì, 18 marzo 2020 su Corriere.it da Federico Fubini. Secondo le prime indiscrezioni filtrate nella giornata di ieri, l’idea del fondo sanitario comune si avvicinerebbe molto al primo vero progetto di un eurobond europeo. I Paesi dell’Unione o dell’area euro costituirebbero una società-veicolo che emetta obbligazioni sui mercati internazionali garantite congiuntamente e in comune da tutti i governi. In alternativa potrebbe essere il Meccanismo europeo di stabilità, che già si finanzia collocando i propri titoli presso gli investitori, a occuparsi di raccogliere risorse sui mercati finanziari. Il denaro raccolto sarebbe il primo vero embrione di un bilancio comune dell’Unione europea o dell’area euro e sarebbe finalizzato a sostenere la spesa sanitaria per il coronavirus dei Paesi più colpiti, senza gravare sui loro bilanci nazionali. In altri termini, sarebbe un vero e proprio eurobond con una funzione ad hoc nell’emergenza. La stessa Banca centrale europea potrebbe inserire i suoi titoli fra quelli di organizzazioni sovrastatali che può acquistare sul mercato nelle sue operazioni di «quantitative easing». Ciò contribuirebbe a tenere basso il costo di finanziamento per queste operazioni. Se varato in fretta, con l’accordo convinto di tutti i governi e in dimensioni sufficienti, questo eurobond per il coronavirus sarebbe una svolta istituzionale fondamentale per l’area euro. Il progetto – se credibile - potenzialmente può contribuire a far scendere i rendimenti dei titoli di Stato italiani che negli ultimi giorni si sono pericolosamente impennati e a ridurre lo spread (lo scarto di rendimento) con i loro equivalenti tedeschi. In alternativa, sempre in queste ore anche il Mes, cioè il fondo salva-Stati, sta studiando varie modalità di intervento per sostenere i governi messi più in difficoltà finanziaria dall’epidemia.
DAGOREPORT il 20 marzo 2020. L’altroieri sera, a Francoforte, drammatica riunione in videoconferenza del Consiglio direttivo della BCE. Macron e Merkel avevano pressato la Lagarde per schierare subito l’artiglieria pesante dei Corona-bond o Euro-bond, che sarebbero risolutivi perché sarebbero emessi come un’obbligazione europea, quindi garantiti dall'Eurozona tutta e non dai singoli stati. I paesi del Nord Europa, capitanati dall’Olanda, falchi forever, si sono opposti: all'Italia e ai paesi deboli hanno cantato il solito il ritornello: '’cavatevela da soli, fuori chi non ce la fa'’. Per avere l’unanimità, la Lagarde, che non ha la forza di Draghi, ha virato per un nuovo piano di acquisto di titoli da 750 miliardi di euro, pari al 6% del Pil dell’Eurozona, che si aggiungono ai 120 miliardi decisi una settimana fa. Si calcola che i paesi deboli, come l’Italia, si indebiteranno fino al 150% rispetto al Pil, e poi bisogna pagarlo. Da qui la speculazione in atto sul nostro paese. E’ intervenuto anche l’economista più influente d’Europa, Philip Lane, che si è da poco insediato come chief economist al 38esimo piano dell’Eurotower, la sede della Banca centrale europea a Francoforte dopo essersi dimesso da governatore della Banca centrale d’Irlanda, che ha ammonito il Consiglio direttivo che la tragedia che stiamo vivendo non è solo una crisi finanziaria come nel 2008, la disoccupazione dilagherà, bisogna dare soldi alla gente o l'Europa non si riprenderà. La discussione andrà avanti per i prossimi giorni, la decisione sugli Euro-bond dovrebbe essere presa nei primi giorni della prossima settimana. Francia e Germania sono d’accordo nel cercare a tutti i costi di tenere unita l’Europa. Intanto, continuano i conciliabili a livello europeo di Ursula von der Leyen decisa ad abolire il patto di stabilità.
Coronavirus, la Commissione Ue attiva la clausola che stoppa il patto di Stabilità: "Governi potranno pompare denaro". Salta il tetto al 3% del rapporto tra deficit e Pil. La presidente von der Leyen: "Facciamo una cosa mai fatta prima". La Repubblica il 20 Marzo 2020. Dopo il bazooka della Bce, e la messa a disposizione dei fondi europei, la Commissione Ue ha attivato oggi la clausola di salvaguardia del Patto di stabilità, che consentirà ai Governi di "pompare nel sistema denaro finché serve": lo ha annunciato la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, in un videomessaggio rilanciato su Twitter. Ecco un altro, estremo, tentativo di rispondere all'emergenza sanitaria, ed economica, del coronavirus. "Questi non sono tempi normali e non possiamo comportarci come se niente stesse succedendo. Il coronavirus sta causando dolore in tutta europa e il conto per le nostre economie sarà estremamente salato. Abbiamo già detto chiaramente che i paesi possono spendere quello che serve per affrontare questa emergenza. Ora stiamo compiendo un ulteriore passo, senza precedent", ha detto Paolo Gentiloni, commissario Ue all'Economia. "L'attivazione della cosiddetta 'escape clause' del patto di stabilità apre la strada a una risposta forte e coordinata all'immensa sfida economica che dobbiamo affrontare tutti insieme. Sono fiducioso che il consiglio darà il suo rapido accordo". Apre la strada, ma molti governi non dovrebbe esser l'ultimo passo. La decisione di far scattare la cosiddetta General Escape Clause era attesa, ma come ha spiegato il premier italiano, Giuseppe Conte, in una intervista al Financial Times i governi chiedono di più. La sospensione del patto di stabilità è una buona notizia. Aiuterà i paesi europei a far fronte in modo efficace alle conseguenze sanitarie ed economiche del #Covid_19, proteggendo famiglie e imprese. Continuiamo a lavorare per un'Europa unita, forte e solidale. Posto che la Banca centrale europea ha aperto un ombrello finalmente di proporzioni adeguate, come dicono i rialzi di Borsa di queste ultime sedute e il raffreddamento dello spread, molti capi di governo sanno che "la poleitica monetaria non basta, bisogna aprire le linee di credito del Mes (il Fondo salva-Stati, ndr) a tutti gli Stati membri per aiutarli a combattere le conseguenze del Covid-19 a codizione di una piena tracciabilità del mondo in cui le risorse sono spese", per dirla con le parole di Conte al quotidiano della City. Perchè il Mes sia efficace, bisognerebbe ovviamente saltare quelle clausole che legano il suo intervento alla messa sotto tutela da parte della Troika degli Stati che vi fanno ricorso. In tandem con Macron, Conte è tra i primi a spingere anche per un'altra soluzione che avrebbe portata storica, quella dei Coronabond. Titoli emessi proprio dal Mes, con la garanzia dell'intero blocco europeo alle spalle, per finanziarsi a buon prezzo sul mercato e destinare fondi a superare l'emergenza. "Il Coronavirus ha un impatto drammatico sull'economia, molti settori sono colpiti. Il lockdown è necessario ma rallenta severamente l'attività economica - ha detto von der Leyen, in attesa che i leader discutano dei passi ulteriori - La scorsa settimana ho detto che faremo tutto il possibile per sostenere l'economia e i cittadini, e oggi rispettiamo quanto detto. Gli aiuti di Stato sono i più flessibili di sempre e i vostri Governi possono dare i soldi che servono a ristoranti, negozi, imprese piccole e medie", ha detto ancora la presidente ricordando che l'attivazione della clausola è uan cosa "mai fatta prima". Derogare al Patto di Stabilità significa sospendere l'insieme di regole che governano le politiche di bilancio degli Stati membri, che risalgono al '97 e sono state via via ampliate. I cardini fondanti, quelli che risalgono al famoso trattato di Maastricht, erano un limite di deficit/Pil al 3% e un debito sotto il 60% della ricchezza nazionale. Nel tempo il Patto si è evoluto in Fiscal Compact e prevede oggi un braccio preventivo (che fissa obiettivi ad hoc per ciascun Paese), uno correttivo (che avvia le procedure in caso di deviazione rispetto agli standard fissati) Per un Paese dall'alto debito come l'Italia, il via libera a spendere è quantomai necessario ma non certo sufficiente per affrontare la crisi e soprattutto provare a immaginare una ripartenza.
Coronavirus, la Germania vuole il defult dell'Italia: "No ai coronabond, presto austerità". E si parla già di Troika. Libero Quotidiano il 25 marzo 2020. Lasciar morire l'Italia. Dopo quelle che sembravano pallide aperture, in particolare da Ursula von der Leyen (per chi le volesse credere), la doccia gelata nei giorni drammatici del coronavirus arriva direttamente dalla Germania. Si parla dei cosiddetti corona-bond, o virus-bond, un'idea buona per pompare liquidità nelle casse dei Paesi membri e per provare a farli uscire dalla violenta crisi economica incombente, anzi già iniziata. Niente da fare, secondo i tedeschi. A parlare per conto di Angela Merkel è Peter Altmaier, ministro dell'Economia, che ha definito quello sulle cedole "un dibattito vuoto", consigliando poi "cautela quando vengono presentati presunti nuovi concetti geniali, che molto spesso sono solo una riedizione di concetti vecchi già respinti". Ed è esattamente così: i coronabond ricalcano in pieno l'idea relativa agli eurobond tanto cara a Giulio Tremonti per aiutare l'Italia nei giorni della crisi economica, idea respinta con veemenza dal fronte franco-tedesco (il prezzo furono Mario Monti e tutto ciò che ne seguì). Insomma, decide sempre la Germania. E decide di schiacciare l'Italia, ponendo una sorta di pietra tombale sull'ipotetico collocamento da 1.000 miliardi di euro, che sarebbe stato gestito dalla Bce. Il tutto mentre negli Stati Uniti, giusto per intendersi, il congresso si è accordato su un piano storico da 2.000 miliardi di dollari per rilanciare la prima economia mondiale. E il tutto, ancora, mentre Berlino e la Merkel, fregandosene dei vincoli europei sul pareggio di bilancio (che noi invece dobbiamo rispettare, pena punizioni draconiane e minacce di insediamento della Troika), hanno pompato 550 miliardi per risollevare l'economia. E se ancora non fosse chiaro, sempre Altmaier ha aggiunto che "una volta che la crisi sarà finita, torneremo alle politiche di austerità". Insomma, morte sicura per l'Italia. Al coro, infine, si è aggiunta anche l'Olanda, secondo cui chi vuole deroghe, soldi e miliardi deve spalancare le porte del proprio paese proprio alla Troika. Eccola, la minaccia preventiva della Troika. Questa Europa, insomma, non esiste e ci fa male. Un'Unione europea che, su questi presupposti, non è destinata a sopravvivere al coronavirus (anche perché, in questo momento, anche la Francia è tra i paesi che chiedono di allentare i cordoni della borsa).
Giuseppe Liturri per “la Verità” il 26 marzo 2020. Viviamo difficoltà mai sperimentate dalla nostra generazione. «Siamo in guerra», si sente spesso dire. Ma rispetto a chi ha vissuto la tragedia delle guerre del secolo scorso abbiamo uno svantaggio: non conosciamo il nemico. Non solo il virus: c' è pure chi sembra volerci spingere verso la definitiva spoliazione della nostra sovranità economica. In questa assurda gara conquista un posto di assoluto rilievo, accanto a Lucrezia Reichlin, l' intervento di Lorenzo Bini Smaghi, già membro del comitato esecutivo della Bce, sul Foglio di ieri. Il banchiere sostiene che «le condizioni per realizzare gli eurobond sono difficilmente praticabili dal punto di vista politico, almeno nel breve periodo». Per renderli quindi fattibili, ci vorrebbero delle garanzie che dovrebbero essere fornite dalla nascita di un bilancio europeo dotato di una propria autonoma capacità impositiva, da un lato, e una capacità di spesa, dall' altra. Un «trasferimento di sovranità molto rilevante», da applicarsi ad alcuni settori come ad esempio la sanità. Ma la motivazione addotta lascia perplessi. Non può essere un problema di garanzie. Non è accettabile che, nei giorni in cui da tutti gli angoli del pianeta, tanti economisti (da ultimo l' ex governatore della Banca centrale svizzera, Philipp Hildebrand) invocano un cambio di ruolo della Bce, si continui anche solo a pensare che si possa affrontare l' eccezionalità di questa crisi con la stessa logica che l' ufficio fidi della banca applica all' artigiano che deve acquistare un macchinario. Da più parti si afferma che l' indipendenza della Banca centrale non sarebbe intaccata dalla scelta di finanziare con emissione di moneta il deficit dei paesi dell' Eurozona, che il rischio di inflazione è inesistente, e noi dobbiamo ancora leggere che la Bce non può acquistare titoli pubblici all' emissione per «evitare che la moneta venga usata come strumento fiscale... Rappresenterebbe di fatto un esproprio del capitale dell' istituto di emissione». Peccato che una Banca centrale sia l' unico soggetto al mondo che può operare con patrimonio netto negativo. Secondo Bini Smaghi la soluzione è il ricorso al Mes, di cui invoca l' approvazione della riforma, sostenendo che potrebbe erogare fino a 70 miliardi all' Italia; ma dimentica che proprio martedì l' Eurogruppo ha parlato di soli 35 miliardi. E se ce ne volessero di più? Facile, si aumenta il capitale; ma perché non aggiunge che l' Italia deve contribuire per il 18%? Quando parla di «linee di credito precauzionali con condizionalità leggera», prevista dal riformando Mes, omette di aggiungere che proprio con la riforma l' Italia viene spedita in automatico nell' inferno della linea a condizioni rafforzate (Eccl). Ma soprattutto deve mettersi d' accordo con i professori Francesco Giavazzi e Guido Tabellini, che propongono l' emissione congiunta a livello di Eurozona di titoli a lunghissima scadenza, preferibili ai prestiti del Mes, tra le altre cose, proprio per evitare la gravosa condizionalità ex post, obbligatoriamente prevista per il Mes. Davvero triste vedere il nostro Paese spinto, in un momento drammatico, nelle mani di un creditore senza scrupoli che pratica condizioni da incubo.
Rosaria Amato per repubblica.it. "Una tragedia di proporzioni bibliche": è in questi termini che l'ex presidente della Banca Centrale Europea Mario Draghi parla della pandemia da corovirus, in un intervento sul Financial Times. Non solo per la perdita di vite umane, ma anche per le conseguenze economiche. I governi, scrive Draghi, devono mobilitare tutte le risorse disponibili, non importa se il costo è l'aumento del debito pubblico perché l'alternativa, "una distruzione permanente della capacità produttiva e quindi fiscale, sarebbe ancora più dannosa per l'economia" e in futuro per la credibilità del governo. Agire, agire subito, senza remore per i costi del debito anche perché "visti i livelli attuali e probabilmente anche futuri dei tassi d'interesse" rimarranno bassi. "Livelli più elevati di debito pubblico diventeranno una caratteristica economica e saranno accompagnati dalla cancellazione del debito privato", ribadisce Draghi. L'ex presidente della Bce è particolarmente rimpianto in questi giorni per la risolutezza con cui seppe affrontare la crisi dell'Unione Monetaria Europea, per il suo "whatever it takes" pronunciato in occasione di un discorso il 26 luglio del 2012 alla Global Investment Conference di Londra, che diede inizio alla politica del quantitative easing, salvaguardando l'euro, affermazione risoluta ben diversa dall'atteggiamento dell'attuale presidente della Bce, Christine Lagarde. Draghi elogia le azioni intraprese finora dai governi europei, definendole "coraggiose e necessarie", e sicuramente degne di sostegno. Ma non bastano: il costo ecomomico sarà enorme, e inevitabile. "Una profonda recessione è inevitabile". L'importante è che non diventi la tomba dell'Europa: "è il compito specifico dello Stato - scrive Draghi - utilizzare le proprie risorse per proteggere i cittadini e l'economia dagli shock dei quali il settore privato non è responsabile, e che non può assorbire". E' sempre successo, e non a caso Draghi cita la Prima Guerra Mondiale. Di fronte a una guerra non resta che una mobilitazione comune. E "come europei" siamo chiamati "a darci supporto l'un l'altro per quella che è , in tutta evidenza, una causa comune". "In primo luogo bisogna evitare che le persone perdano il loro lavoro", raccomanda Draghi, altrimenti "emergeremo dalla crisi con un livello di occupazione stabilmente più basso", e le famiglie faranno fatica a ritrovare un loro equilibrio finanziario. Per questo non è sufficiente rinviare il pagamento delle tasse: bisogna immettere subito liquidità nel sistema, e le banche devono fare la loro parte, "prestando danaro a costo zero alle imprese" per aiutarle a salvare i posti di lavoro. Subito: "i costi dell'esitazione potrebbero essere irreversibili". La memoria delle sofferenze degli anni 20 "dovrebbe metterci in guardia".
Conte sbatte la porta in faccia all’Ue: «10 giorni per battere un colpo o faremo da soli». Il Dubbio il 26 marzo 2020. Il premier respinge la bozza in discussione al tavolo del Consiglio europeo sugli strumenti per fronteggiare la crisi economica legata al coronavirus: «Inaccettabile». Dieci giorni di tempo per trovare una soluzione o l’Italia farà da sola. Giuseppe Conte sbatte i pugni sul tavolo e respinge la bozza in discussione al tavolo del Consiglio europeo sugli strumenti per fronteggiare la crisi economica legata al coronavirus. Una reazione durissima contro i tempi elefantiaci dell’Unione europea, che, di fatto, ha lasciato da sola l’Italia nell’affrontare la crisi più grande dal dopoguerra. Il premier, insieme al primo ministro spagnolo, Pedro Sanchez, ha dunque lanciato il suo ultimatum all’Ue, fissando un tempo limite per trovare «una soluzione adeguata alla grave emergenza che tutti i Paesi stanno vivendo». L’Italia, ha ricordato Conte, ha le carte in regola con la finanza pubblica visto che «il 2019 l’abbiamo chiuso con un rapporto deficit/Pil di 1,6 anziché 2,2 come programmato». «Qui si tratta di reagire con strumenti finanziari innovativi e realmente adeguati a reagire a una guerra che dobbiamo combattere insieme per vincerla quanto più rapidamente possibile», questo il ragionamento sottoposto da Conte ai leader Ue, ai quali ha ribadito il dovere di dare una risposta ai cittadini, che si aspettano una reazione unitaria, forte e coesa di fronte di fronte ad un’emergenza epocale. Ed è per questo motivo che non possono risultare sufficienti, secondo Conte e Sanchez, strumenti elaborati in passato e pensati per le tensioni finanziare di singoli Paesi. Pensiero che si sintetizza nella risposta al vetriolo del premier: «Se qualcuno dovesse pensare a meccanismi di protezione personalizzati elaborati in passato allora voglio dirlo chiaro: non disturbatevi, ve lo potete tenere, perché l’Italia non ne ha bisogno. Le conseguenze del dopo Covid-19 vanno affrontate non nei prossimi mesi ma domani mattina». I lavori del Consiglio Ue si sarebbero conclusi con importanti aperture da parte del presidente della Repubblica francese Macron, ma anche di Portogallo, Grecia, Irlanda e Lussemburgo. Conte e Sanchez hanno affidato ai cinque presidenti delle istituzioni europee – la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, il presidente del Parlamento europeo, David Sassoli, il presidente dell’Eurogruppo, Mario Centeno, e la presidente della Banca centrale europea, Christine Lagarde – un tempo minimo per formulare una proposta di risposta comune. Poco prima della riunione dei 27 leader, che si sono riuniti in videoconferenza, dal documento di conclusioni era sparito il riferimento all’utilizzo del Mes. «Respingiamo una mutualizzazione generalizzata dei debiti», ha detto prima dell’inizio del vertice il cancelliere austriaco Sebastian Kurz. E anche la Germania ha ribadito con tempismo la sua posizione: «Non ritengo che gli Eurobond siano lo strumento giusto», aveva avvisato il ministro delle Finanze tedesco, Olaf Scholz. Altrettanto ferme Olanda e Finlandia. «Ma nessuno pensa a una mutualizzazione del debito pubblico. Ciascun Paese risponde per il proprio debito pubblico e continuerà a risponderne», ha provato a spiegare Conte ai colleghi Ue. Francia, Irlanda, Grecia, Portogallo e Lussemburgo hanno plaudito al messaggio di Conte, ribadendo l’appoggio già espresso nella lettera sui Coronabond che hanno firmato in nove. Ma, per ora, non è servito.
DAGOREPORT il 27 marzo 2020. Retroscena del consiglio europeo con i capi di stato e di governo collegati ieri pomeriggio in videoconferenza: Italia e Spagna sono stati traditi da Macron, che aveva appoggiato e firmato la lettera dei paesi favorevoli ai Corona-bond, obbligazioni garantite dall’Unione Europea e non dai singoli stati richiedenti. Il presidente francese ha avuto un ripensamento, un no forse dovuto a un precedente colloquio telefonico con Angela Merkel che avrebbe dovuto sfociare in una tregua con i paesi falchi, anti-Eurobond, capitanati dall’olandese Rutte. Anche la Germania, com’è noto, si è opposta. A quel punto Italia e Spagna, Conte e Sanchez, hanno tenuto una posizione dura, ferma, per poter ottenere la garanzia del Mes a tutti i paesi ma senza alcuna condizionalità, senza firmare quel famigerato memorandum che vuol dire troika alla greca e finire strangolati da tagli, tasse e recessione. Nella mattinata di ieri, prima del consiglio europeo, c’è stato l’incontro preliminare dei rappresentanti a Bruxelles, tutti diplomatici, dove la questione dei Coronabond è stata bocciata in maniera netta da tutti i paesi nordici, Germania compresa. E il motivo c’è: se la Merkel si fosse dichiarata subito favorevole all’idea di Italia e Spagna, non avrebbe potuto arrogarsi il diritto/dovere di mediare con i paesi falchi, erigersi come mistress dell’Unione Europea. Da parte sua, alla fine, anche l’azzimato e ambiziosissimo Macron aspira a un ruolo superpartes, da mediatore. Da sempre la leadership europea ha viaggiato sull’asse Francia-Germania, e ora uno dei due vuole vincere. Di qui il rinculo del marito di Brigitte a votare con Italia e Spagna, pur avendo firmato la famosa lettera all’Europa. Il discorso deve essere fatto anche a livello tecnico. Mentre Christine Lagarde, presidente della Banca centrale europea, è ritornata sui suoi passi e ha acquistato quasi totalmente titoli italiani, tant’è che lo spread Btp-Bund, è sceso a 173 punti base, nel pomeriggio di ieri Moody’s ha sparato contro l’Italia. L’agenzia di rating ha rivisto a negativo da stabile l'outlook sul sistema bancario italiano, dimenticando ovviamente che le prime due banche tedesche, Deutsche Bank e Commerzbank, sono messe malissimo. Ma Moody’s dimentica anche un’altra cosa: che se le grandi banche italiane (Intesa San Paolo) e spagnole (Banco Santander) dovessero soccombere, salterebbero la struttura finanziaria dell’Europa. In questo scenario da tregenda, si è inserito il famoso appello di Mario Draghi su ‘’Financial Times’’. Riletto con calma è un articolo molto, molto ambiguo: l’ex presidente della Bce non ha mai il coraggio di pronunciare nemmeno di sguincio la parola magica, Coronabond, limitandosi a sospirare: ‘’Spetta ora allo Stato e alle banche intervenire in maniera “forte e veloce” per evitare ora che una “profonda recessione”, che è “inevitabile”, si trasformi in una “depressione prolungata”. Tutta fuffa. Supermario si guarda bene dal dire se il debito andrà a gravare sui bilanci dei singoli stati, ed allora arriva galoppante la troika, oppure all’Unione Europea attraverso i Coronabond? (La cosa incredibile è che è stato applaudito da tutto il centrodestra, ennesima spia che di politica economica non capiscono un cazzo). Il povero Peppiniello Conte non poteva fare diversamente che sfancularli, in caso contrario l’Italia lo avrebbe preso a schiaffi. Lo stesso Mattarella lo ha spinto a non firmare la bozza degli strozzini europei. Siamo giunti ormai a questo punto: o dà soldi al popolo o si va verso l’esplosione sociale. A differenza della Francia, il Belpaese non può permettersi di sforare del 5/6 per cento, pena la bancarotta. Domani, Macron che non solo è capo del governo ma anche presidente, avrà un colloquio telefonico con il suo pari grado Mattarella. Ora tutto dipende se Conte e Sanchez manterranno una posizione rigida: cara Unione Europea, senza gli Eurobond i nostri paesi avrebbero costi altissimi, insostenibili, quindi ficcatevelo bene in testa: senza Italia e Spagna, l’Europa non esiste più. Ma adesso ci sono ancora due settimane per provare ad ammorbidire le posizioni più rigide.
Da lastampa.it il 27 marzo 2020. A quanto si apprende, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, che oggi ha partecipato al Consiglio Ue in videoconferenza, ha chiesto all'Europa di "battere un colpo e trovare una soluzione adeguata alla grave emergenza che tutti i Paesi stanno vivendo". Il premier italiano ha rifiutato la bozza di conclusioni del vertice. Secondo Radiocor il premier Conte e il capo del governo spagnolo Sanchez ritengono insufficiente e deludente la bozza di conclusioni preparata per il Consiglio europeo perché le proposte contenute non all'altezza della risposta necessaria a livello Ue. Italia e Spagna hanno chiesto che il Consiglio incarichi i 5 presidenti delle istituzioni Ue di formulare nuove proposte nel giro di dieci giorni. Si tratta dei presidenti di Commissione, Consiglio, Parlamento, Bce ed Eurogruppo. Conte ha chiarito che nessuno pensa a una condivisione del debito pubblico: ciascun Paese risponde per il proprio e continuerà a risponderne. Né ci sono motivi per diffidare dell’Italia, che ha le carte in regola con l finanza pubblica: “Il 2019 lo abbiamo chiuso con un rapporto deficit/Pil di 1.6 anziché 2.2 come programmato”. Ciò che manca, secondo il governo italiano, sono “strumenti finanziari innovativi e realmente adeguati a reagire a una guerra che dobbiamo combattere insieme per vincerla quanto più rapidamente possibile. Che diremo ai nostri cittadini se l’Europa non si dimostra capace di una reazione unitaria, forte e coesa di fronte a uno shock imprevedibile e simmetrico di questa portata epocale?”. Se è chiaro che l’Europa pensa a un uso degli strumenti che furono usati durante la crisi dei debiti sovrani, otto anni fa, Conte risponde che “Sono stati costruiti per intervenire in caso di shock asimmetrici con riguardo a tensioni finanziarie riguardanti singoli Paesi”. Quei meccanismi, quelli che portarono la trojka in Grecia, non servono. Ancora Conte: “Voglio dirlo chiaro: non disturbatevi, ve lo potete tenere, perché l’Italia non ne ha bisogno”.
(ANSA il 27 marzo 2020) - Nel corso della conference call con i leader europei il premier Giuseppe Conte, a quanto si apprende da fonti di Palazzo Chigi, ha reso noto di "non accettare draft preparato nonostante gli sherpa italiani avessero ottenuto quasi tutto, compresa l'eliminazione di qualsiasi riferimento al Mes". "Come si può pensare che siano adeguati a questo shock simmetrico strumenti elaborati in passato, costruiti per intervenire in caso di shock asimmetrici e tensioni finanziarie riguardanti singoli Paesi?". E' questo, a quanto si apprende da Palazzo Chigi, il messaggio che il premier Giuseppe Conte ha inoltrato ai leader Ue nel corso del Consiglio europeo. "Se qualcuno dovesse pensare a meccanismi di protezione personalizzati elaborati in passato allora voglio dirlo chiaro: non disturbatevi, ve lo potete tenere, perché l'Italia non ne ha bisogno", ha aggiunto. Nel corso della conference call con i leader europei, Giuseppe Conte ha chiarito che nessuno pensa a "una mutualizzazione del debito pubblico. Ciascun Paese risponde per il proprio debito pubblico e continuerà a risponderne". L'Italia - ha spiegato Conte - "ha le carte in regola con la finanza pubblica: il 2019 l'abbiamo chiuso con un rapporto deficit/Pil di 1.6 anziché 2.2 come programmato". "Le conseguenze del dopo covid-19 vanno affrontate non nei prossimi mesi ma domani mattina". E' questo, a quanto si apprende da fonti di Palazzo Chigi, un passaggio dell'intervento del premier Giuseppe Conte alla conference call con i leader europei. Dieci giorni all'Europa "per battere un colpo e trovare una soluzione adeguata alla grave emergenza che tutti i Paesi stanno vivendo", è il messaggio che, a quanto si apprende da fonti di Palazzo Chigi, il premier ha inoltrato ai leader europei. Facendo una proposta: istituire una sorta di gruppo di lavoro formato da "cinque" capi di stato o di governo europei per la formulazione di una proposta di risposta comune. Proposta che, si sottolinea, è stata formulata dal premier in accordo con il suo omologo spagnolo Pedro Sanchez. Un apprezzamento per le aperture - definite "importanti" - di Francia, Irlanda, Grecia, Portogallo e Lussemburgo al messaggio inviato dall'Italia al tavolo del Consiglio Ue è stato sottolineato - a quanto si apprende da fonti di Palazzo Chigi - dal premier Giuseppe Conte durante la video conferenza del Consiglio Ue.
DAGOREPORT il 27 marzo 2020.
Retroscena del consiglio europeo con i capi di stato e di governo collegati ieri pomeriggio in videoconferenza: Italia e Spagna sono stati traditi da Macron, che aveva appoggiato e firmato la lettera dei paesi favorevoli ai Corona-bond, obbligazioni garantite dall’Unione Europea e non dai singoli stati richiedenti. Il presidente francese ha avuto un ripensamento, un no forse dovuto a un precedente colloquio telefonico con Angela Merkel che avrebbe dovuto sfociare in una tregua con i paesi falchi, anti-Eurobond, capitanati dall’olandese Rutte. Anche la Germania, com’è noto, si è opposta. A quel punto Italia e Spagna, Conte e Sanchez, hanno tenuto una posizione dura, ferma, per poter ottenere la garanzia del Mes a tutti i paesi ma senza alcuna condizionalità, senza firmare quel famigerato memorandum che vuol dire troika alla greca e finire strangolati da tagli, tasse e recessione. Nella mattinata di ieri, prima del consiglio europeo, c’è stato l’incontro preliminare dei rappresentanti a Bruxelles, tutti diplomatici, dove la questione dei Coronabond è stata bocciata in maniera netta da tutti i paesi nordici, Germania compresa. E il motivo c’è: se la Merkel si fosse dichiarata subito favorevole all’idea di Italia e Spagna, non avrebbe potuto arrogarsi il diritto/dovere di mediare con i paesi falchi, erigersi come mistress dell’Unione Europea. Da parte sua, alla fine, anche l’azzimato e ambiziosissimo Macron aspira a un ruolo superpartes, da mediatore. Da sempre la leadership europea ha viaggiato sull’asse Francia-Germania, e ora uno dei due vuole vincere. Di qui il rinculo del marito di Brigitte a votare con Italia e Spagna, pur avendo firmato la famosa lettera all’Europa. Il discorso deve essere fatto anche a livello tecnico. Mentre Christine Lagarde, presidente della Banca centrale europea, è ritornata sui suoi passi e ha acquistato quasi totalmente titoli italiani, tant’è che lo spread Btp-Bund, è sceso a 173 punti base, nel pomeriggio di ieri Moody’s ha sparato contro l’Italia. L’agenzia di rating ha rivisto a negativo da stabile l'outlook sul sistema bancario italiano, dimenticando ovviamente che le prime due banche tedesche, Deutsche Bank e Commerzbank, sono messe malissimo. Ma Moody’s dimentica anche un’altra cosa: che se le grandi banche italiane (Intesa San Paolo) e spagnole (Banco Santander) dovessero soccombere, salterebbero la struttura finanziaria dell’Europa. In questo scenario da tregenda, si è inserito il famoso appello di Mario Draghi su ‘’Financial Times’’. Riletto con calma è un articolo molto, molto ambiguo: l’ex presidente della Bce non ha mai il coraggio di pronunciare nemmeno di sguincio la parola magica, Coronabond, limitandosi a sospirare: ‘’Spetta ora allo Stato e alle banche intervenire in maniera “forte e veloce” per evitare ora che una “profonda recessione”, che è “inevitabile”, si trasformi in una “depressione prolungata”. Tutta fuffa. Supermario si guarda bene dal dire se il debito andrà a gravare sui bilanci dei singoli stati, ed allora arriva galoppante la troika, oppure all’Unione Europea attraverso i Coronabond? (La cosa incredibile è che è stato applaudito da tutto il centrodestra, ennesima spia che di politica economica non capiscono un cazzo). Il povero Peppiniello Conte non poteva fare diversamente che sfancularli, in caso contrario l’Italia lo avrebbe preso a schiaffi. Lo stesso Mattarella lo ha spinto a non firmare la bozza degli strozzini europei. Siamo giunti ormai a questo punto: o dà soldi al popolo o si va verso l’esplosione sociale. A differenza della Francia, il Belpaese non può permettersi di sforare del 5/6 per cento, pena la bancarotta. Domani, Macron che non solo è capo del governo ma anche presidente, avrà un colloquio telefonico con il suo pari grado Mattarella. Ora tutto dipende se Conte e Sanchez manterranno una posizione rigida: cara Unione Europea, senza gli Eurobond i nostri paesi avrebbero costi altissimi, insostenibili, quindi ficcatevelo bene in testa: senza Italia e Spagna, l’Europa non esiste più. Ma adesso ci sono ancora due settimane per provare ad ammorbidire le posizioni più rigide.
Federico Fubini per il Corriere della Sera il 28 marzo 2020. Solo un attimo, dopo sei ore davanti a uno schermo in teleconferenza con gli altri 26 leader europei, Angela Merkel ha mostrato gli spigoli. È successo quando Giuseppe Conte ha reso chiaro che non avrebbe firmato le conclusioni del vertice, se avessero citato il fondo salvataggi (Mes) quale risposta alla recessione prodotta da Covid-19. Neanche se l' aiuto fosse vincolato a condizioni «leggere» legate alla pandemia, destinate a diventare stringenti in seguito. Lì la cancelliera è scattata: «Questo è lo strumento che abbiamo - ha risposto al premier italiano, nel suo inglese dallo spiccato accento tedesco -. Non capisco perché tu voglia minarlo». Conte a quel punto ha proseguito con una durezza che i suoi colleghi europei non gli conoscevano: «State guardando alla realtà di oggi con gli occhiali di dieci anni fa - ha detto il premier -. Il Mes è stato disegnato nella crisi dell' euro per Paesi che hanno commesso degli errori». In quel momento decisivo anche Emmanuel Macron, fin lì più attento di Conte e dello spagnolo Pedro Sánchez a cercare un compromesso, ha sconfessato la cancelliera. «Il Mes serve per choc asimmetrici su singoli Paesi - ha osservato il presidente francese -. Questa pandemia è uno choc simmetrico: ci riguarda tutti». Quattro persone con una conoscenza degli scambi di giovedì hanno ricostruzioni convergenti. Quello di Macron è stato un modo elegante di dire ciò che Conte e Sánchez hanno ripetuto per ore: i Paesi che soffrono per il contagio non vanno sottoposti a una vigilanza europea con condizioni da rispettare. È stato il momento più teso di un vertice senza sbocco, iniziato in modo surreale. Merkel aveva scelto di restare invisibile. Sugli schermi appariva solo una sua vecchia foto in giacca azzurra. La cancelliera in questi giorni vive rinchiusa in casa a Berlino, in quarantena per essere stata a contatto con un medico contagiato. Di fronte ai colleghi europei che le chiedono di lavorare all' idea dell' eurobond - uno strumento finanziario congiunto dell' area euro per rispondere alla crisi - Merkel ha scelto la difesa più ineffabile: scomparire. Non far sentire neanche la propria voce, dapprincipio. Così Merkel al vertice Ue di giovedì inizia a parlare in tedesco e di sé concede ai colleghi solo la voce di un interprete in traduzione simultanea. La donna più potente d' Europa era diventata un avatar che discetta di come si debba «difendere le catene del valore negli scambi internazionali» (come se il tema del vertice fosse stato quello). Merkel viene al sodo solo dopo, per dire che non può far approvare al Bundestag un eurobond. Più tardi ancora, con lo sfilacciarsi dei nervi, si lascia sfuggire persino un ammonimento ai colleghi: «Non dovremmo promettere alle persone cose che non possiamo dar loro». Il riferimento alla proposta dell' eurobond firmata da Italia, Francia, Spagna, Portogallo, Belgio, Lussemburgo, Irlanda, Slovenia e Grecia era evidente. Mark Rutte, il premier olandese, è andato anche più lontano: pretendeva nella dichiarazione un riferimento esplicito dei leader alle regole attuali del Mes, che consegnerebbero alla Troika i Paesi stremati dall' epidemia. «Non siamo pronti per un eurobond - ha affermato l' olandese - dobbiamo mantenere in serbo delle armi in caso di scenari peggiori». Sánchez si è chiesto cosa possa esserci di peggio della strage che oggi stringe l' Europa in una morsa. Lo spagnolo ha chiesto che in pochi giorni i presidenti delle istituzioni europee presentino un rapporto con proposte precise. Conte lo ha appoggiato e ha risposto indirettamente a Rutte: non è il momento di «dividere l' Europa fra cicale e formiche» e comunque - ha aggiunto il premier - l' Italia ha chiuso il 2019 con un deficit all' 1,6% del prodotto, molto più basso del previsto. Persino Christine Lagarde ha preso una posizione politica: per lei «uno strumento di debito a lungo termine delle istituzioni Ue» è l' opzione migliore (la presidente della Banca centrale europea non ha parlato esplicitamente di eurobond), mentre per lei il rimando al Mes è «subottimale». Alla fine i leader si sono separati senza accordo, dopo aver litigato sulle virgole di una dichiarazione asettica mentre la pandemia divora l' Europa. Perché decidano di agire, forse serve solo che Covid-19 distrugga i loro Paesi ancora di più.
Ue, il premier portoghese Costa: "Ripugnanti proposte del ministro delle Finanze olandese. Meschi...Un discorso “ripugnante” che può rappresentare “una minaccia per il futuro dell’Unione europea”. Il primo ministro portoghese, Antonio Costa, non ha usato mezzi termini per definire le parole del...Da ilfattoquotidiano.it il 28 marzo 2020. Un discorso “ripugnante” che può rappresentare “una minaccia per il futuro dell’Unione europea”. Il primo ministro portoghese, Antonio Costa, non ha usato mezzi termini per definire le parole del ministro delle Finanze dei Paesi Bassi, Wopke Hoekstra, che nel corso del fallimentare Consiglio europeo di giovedì, secondo quanto riporta anche El Paìs, ha chiesto che la Commissione avvii un’indagine sul perché alcuni Paesi dicano di non avere margine di bilancio per far fronte all’emergenza coronavirus nonostante il fatto che l’area dell’euro sia in crescita da sette anni, il periodo più lungo dalla nascita della moneta unica nel 1999. Hoekstra non ha fatto nomi, ma era evidente il riferimento a Italia e Spagna, finora i Paesi Ue più colpiti, nonché capofila del “gruppo dei nove” che sostengono la necessità degli eurobond. “Questo discorso è ripugnante nel contesto dell’Unione europea”, ha detto il leader socialista in conferenza stampa. “E dico ripugnante perché non eravamo preparati, nessuno era preparato ad andare ad affrontare una sfida economica come abbiamo visto nel 2008, 2009, 2010 e negli anni seguenti. Ed è un buon momento per comprendere tutti che non è stata la Spagna a creare il virus, né a importarlo. Il virus sfortunatamente ci colpisce tutti allo stesso modo. E se non ci rispettiamo tra noi, e non comprendiamo che davanti a una sfida comune dobbiamo esser capaci di una risposta comune, non si è capito niente dell’Unione europea. Se ogni Paese pensa di risolvere il problema del virus lasciandolo a un altro Paese, si sbaglia di grosso”. “Perché la Ue che difende la libertà delle persone, dei commerci, ha le frontiere aperte, e il virus non conosce frontiere. Tutti sappiamo che i primi portoghesi sono stati contagiati durante viaggi all’estero (in Italia, ndr) e non possiamo incolpare i Paesi dove si sono contagiati perché hanno più contagi… E’ di assoluta irresponsabilità questo tipo di risposta, è una meschinità ricorrente e mina completamente lo spirito dell’Unione europea. E’ una minaccia per il futuro della Ue”. “Se la Ue vuole sopravvivere”, ha concluso Costa, “è inaccettabile che un responsabile politico, di qualsiasi Paese, possa dare una risposta del genere a una pandemia come quella che stiamo vivendo”.
Ue, il premier portoghese Costa attacca ministro olandese: "Parole ripugnanti". Antonio Costa ha reagito alle ultime parole provenienti da Wopke Hoekstra, ministro delle Finanze olandese: "Il suo discorso è ripugnante nel contesto dell’Unione europea". Federico Giuliani, Sabato 28/03/2020 su Il Giornale. Nuove scintille all'interno di un'Unione europea sempre più sull'orlo di una crisi di nervi. L'ultima dimostrazione del nervosismo che aleggia tra i Paesi membri arriva dall'attacco sferrato dal primo ministro portoghese, Antonio Costa, all'indirizzo di Wopke Hoekstra, ministro delle Finanze dei Paesi Bassi. Il tema dello scontro è prettamente economico. Non c'è infatti ancora un accordo sulle misure da attuare per aiutare i vari governi a fronteggiare l'emergenza provocata dal nuovo coronavirus. Due sono gli schieramenti: da una parte i Paesi nordici, tra cui i Paesi Bassi, e la Germania; dall'altra il fronte mediterraneo, a cui si aggiunge la Francia di Emmanuel Macron. A questo proposito, Costa ha reagito alle ultime parole provenienti dal governo olandese. Il discorso del ministro Hoekstra, ha detto il primo ministro portoghese, è “ripugnante” e può rappresentare “una minaccia per il futuro dell'Unione europea”. Ma che cosa aveva detto il ministro olandese? Riavvolgiamo il nastro. Nel corso del Consiglio europeo tenutosi lo scorso giovedì, scrive El Paìs, Hoekstra aveva chiesto alla Commissione di avviare un'indagine sul motivo per il quale alcuni Paesi dicano di non avere margine di bilancio per fronteggiare l'emergenza. E questo nonostante l'area euro sia facendo registrare una crescita da sette anni. Chiaro il riferimento indiretto a Italia e Spagna, due dei Paesi che chiedono a gran voce la necessità degli eurobond.
L'attacco del premier Costa. Costa non fa sconti e carica a testa bassa: “Questo discorso è ripugnante nel contesto dell’Unione europea. E dico ripugnante perché non eravamo preparati, nessuno era preparato ad andare ad affrontare una sfida economica come abbiamo visto nel 2008, 2009, 2010 e negli anni seguenti. Ed è un buon momento per comprendere tutti che non è stata la Spagna a creare il virus, né a importarlo. Il virus sfortunatamente ci colpisce tutti allo stesso modo. E se non ci rispettiamo tra noi, e non comprendiamo che davanti a una sfida comune dobbiamo esser capaci di una risposta comune, non si è capito niente dell’Unione europea. Se ogni Paese pensa di risolvere il problema del virus lasciandolo a un altro Paese, si sbaglia di grosso”. Ma non è finita qui, perché il primo ministro Costa prosegue nella sua invettiva, riferendosi sempre a Hoekstra: “È di assoluta irresponsabilità questo tipo di risposta, è una meschinità ricorrente e mina completamente lo spirito dell’Unione europea. E’ una minaccia per il futuro della Ue. Se la Ue vuole sopravvivere è inaccettabile che un responsabile politico, di qualsiasi Paese, possa dare una risposta del genere a una pandemia come quella che stiamo vivendo”.
Federico Fubini per corriere.it il 27 marzo 2020. Se c’è una materia preziosa come il denaro, nella grande recessione di Covid-19, questa è il tempo. Ma ieri le due Europa che si fronteggiano sulla reazione da offrire hanno continuato drammaticamente – e alcuni dei protagonisti, deliberatamente - a perderne. Nessuno dei due fronti è oggi così forte da imporre la propria visione all’altro, ma entrambi lo sono abbastanza per interdirsi a vicenda. In queste condizioni qualunque risposta politica collettiva all’emergenza oggi sarà più lenta di quanto servirebbe: ma se la paralisi europea continuasse, possono guadagnare terreno solo i Paesi e i governi più forti, quelli in grado di sostenere con più risorse e più efficienza le imprese piccole e soprattutto grandi sui loro territori. Ieri sera, in teleconferenza con gli altri leader dell’Unione europea, i protagonisti sono stati Giuseppe Conte e il suo collega spagnolo Pedro Sánchez. Entrambi decisissimi, spinti dall’urgenza dei contagi e di economie che non potranno resistere a lungo alla paralisi quasi totale. Entrambi sostenuti da un presidente francese mai così disposto a distanziarsi dalla Germania quanto Emmanuel Macron lo è stato ieri. Macron è arrivato a dire che il futuro dell’Unione europea dipende da ciò che questi leader decideranno. Eppure, per ora, non sembrano in grado di decidere granché. Perché alla fine sono emerse preferenze opposte fra due gruppi sempre più radicati nelle loro trincee. Da un lato la Germania, sostenuta da Olanda, Austria, Finlandia e Paesi baltici, convinta che qualunque governo in difficoltà per l’epidemia debba seguire più o meno la strada disegnata per la crisi dieci anni fa: chiedere un prestito al fondo salvataggi Mes, magari «leggero» ma con condizioni d’ingresso e altre condizioni successive. Poco importa che la stessa presidente della Banca centrale europea Christine Lagarde (a porte chiuse) abbia definito questa via come «subottimale». Tra l’altro i crediti del Mes hanno priorità su quelli dei normali investitori, che perderebbero valore mettendo potenzialmente il Paese «salvato» sempre più in balia dello stesso meccanismo europeo. Dall’altro lato anche ieri c’erano i leader firmatari di una lettera di due giorni fa, che per la prima volta chiedono di condividere nell’area euro parte dei costi di una crisi di cui non ha colpa nessuno. I premier di Italia e Spagna hanno portato dalla loro quelli della Francia, di Belgio e Lussemburgo (che ripudiano l’ostilità dell’Olanda alle mediazioni), dell’Irlanda (che abbandona il fronte dei Paesi del Nord) e la Slovenia (che divorzia dai satelliti centrorientali della Germania). Tutti uniti, con Lagarde, nel chiedere che l’euro si dia ciò che ha una qualunque vera moneta: almeno un po’ di bilancio comune. Mai Angela Merkel era finita tanto sotto pressione. La cancelliera ha risposto nel suo stile: anziché apparire in videoconferenza come i colleghi, ha fatto proiettare una sua foto in giacca azzurra di parecchi anni fa. Un avatar dietro il quale la donna più potente d’Europa si è resa invisibile. Agli altri arrivava solo una voce mediata dalla traduzione, distante e cautissima. Merkel sta solo facendo ciò che le riesce meglio: «Merkeln», il neologismo per descrivere l’inimitabile arte di temporeggiare. Ritiene che la Germania abbia tutto il vantaggio che le dà un pacchetto da 750 miliardi – garanzie, ma anche nazionalizzazioni di grandi aziende – che altri Paesi europei non si possono permettere. Spagna o Italia meno di tutti. Alla fine si è deciso che tra due settimane i ministri finanziari dell’euro dovranno presentare «proposte», mentre Commissione e Bce lavoreranno a un piano per il dopo-crisi. Da Bruxelles si pensa già a definire progetti per la sanità o la difesa dell’occupazione con un modello di Kurzarbeit (lavoro in solidarietà) alla tedesca, magari finanziandoli in comune con eurobond ad hoc. Senza proclami, ma con scopi ben definiti. Può aprirsi così uno squarcio, perché la posta non potrebbe essere più alta: decidere se l’euro è una vera moneta o un matrimonio d’interesse per sempre precario, appeso com’è alla munificenza della sola Bce.
Coronavirus, Macron: "La Francia è al fianco dell'Italia, basta a un'Unione Europea egoista". Il presidente della Francia Emmanuel Macron. Il presidente francese intervistato da Repubblica: "In questa crisi l'Italia ci ha preceduto e noi ne abbiamo tratto lezione". La Repubblica il 28 marzo 2020. "Non voglio un'Europa egoista e divisa", dice il presidente francese, Emmanuel Macron, nella sua prima intervista rilasciata a media stranieri dallo scoppio dell'emergenza coronavirus. Macron sottolinea che "la Francia è al fianco dell'Italia". "Non supereremo questa crisi - dice - senza una solidarietà europea forte, a livello sanitario e finanziario". E ancora, aggiunge Macron, "L'Unione europea, la zona euro, si riducono a un'istituzione monetaria e a un insieme di regole che consentono a ogni Stato di agire per conto suo? O si agisce insieme per finanziare le nostre spese, i nostri bisogni in questa crisi vitale? Voglio che si faccia pienamente questa scelta di solidarietà". Al Consiglio europeo di giovedì scorso, continua Macron, "dieci Paesi dell'eurozona, rappresentanti del 60% del suo Pil, hanno esplicitamente sostenuto" l'idea di Coronabond, di "una capacità di indebitamento comune, quale che sia il suo nome, oppure di un aumento del bilancio dell'Unione europea per permettere un sostegno reale ai paesi più colpiti da questa crisi". "Alcuni Paesi, tra cui la Germania - ha continuato Macron nell'intervista a tre quotidiani italiani, tra cui Repubblica - hanno espresso le loro reticenze. Abbiamo deciso di continuare questo fondamentale dibattito, al più elevato livello politico, nelle prossime settimane. Non possiamo abbandonare questa battaglia. Preferisco un'Europa che accetti divergenze e dibattiti piuttosto che un'unità di facciata che conduce all'immobilismo. Se l'Europa può morire, è nel non agire. Come Giuseppe Conte, non voglio un'Europa del minimo comune denominatore. Il momento è storico: la Francia si batterà per un'Europa della solidarietà, della sovranità e dell'avvenire". Quanto alla crisi sanitaria e al modello di reazione dell'Italia e della Francia all'epidemia, Macron ricorda che in Francia "abbiamo preso le misure più forti e al più presto; abbiamo adottato, dinanzi a un numero di casi simile, le misure di restrizioni sociali qualche giorno prima dei nostri partner europei. Non me ne do alcun merito - aggiunge - perché la scienza ci ha illuminato e l'Italia ci ha preceduto in questa crisi che abbiamo potuto trarne le lezioni per noi stessi. Abbiamo imparato dalle esperienze dolorose del vostro Paese e dalle decisioni coraggiose prese dal vostro governo: molti Paesi europei giudicavano eccessive tali restrizioni, oggi tutti le attuano perché sono indispensabili nella nostra guerra contro il virus".
Fabio Dragoni per “la Verità” il 27 marzo 2020. «A differenza di aziende e famiglie, la spesa statale non è vincolata alle entrate. Lo Stato può spendere più di quanto incassa in tasse, dato che può essere finanziato dalla sua Banca centrale che crea la moneta necessaria. Tuttavia, entrando in un' unione monetaria, i Paesi membri smettono di avere il controllo della valuta in cui il loro debito è denominato. E possono quindi andare in default». Il quiz di oggi è: chi ha pronunciato queste parole? Vi diamo tre possibilità: a) Matteo Salvini; b) Marine Le Pen; c) un eminente professore della London school of economics. La risposta giusta è la c. Stiamo infatti parlando di uno dei massimi esperti al mondo di economia monetaria, e già consulente economico del presidente della Commissione Ue, José Barroso. L'economista belga Paul De Grauwe, che giorni fa è tornato a scrivere a proposito degli effetti economici della pandemia di coronavirus. Uno shock che ha coinvolto prima l' offerta, vale a dire le imprese. La loro chiusura forzata ha determinato quindi un crollo della domanda e cioè degli acquisti dei consumatori. Senza reddito non possono acquistare e consumare. Uno shock simmetrico, strutturale e devastante mai sperimentato prima neppure con le crisi del 2001 e del 2008 rispettivamente indotte dagli attacchi terroristici alle Torri gemelle e dal crollo del sistema finanziario. Sono quindi necessarie, secondo De Grauwe, «misure urgenti» al fine di arrestare un pericoloso e peraltro». La prima mossa devono farla i governi nazionali. Questi «devono intervenire su larghissima scala fornendo la necessaria liquidità ad imprese e famiglie a rischio». Più o meno quel che pensa un altro suo prestigioso collega, Nouriel Roubini, e soprattutto in completo accordo con quanto ieri scritto da Mario Draghi. Ovviamente l' esatto opposto di quanto fino ad oggi fatto da Giuseppi, novello e moderno portabandiera di una grottesca politica della lesina. Prima servono 3 miliardi. Poi scrive a Bruxelles che ne basteranno 7 e una tantum. Non uno di più. Quindi è costretto a salire a 25; sempre insufficienti. Ora incalzato dalle opposizioni e incapace di reagire è costretto a dire che ne serviranno altri 25. Insomma, sempre una curva indietro mentre invece sarebbe bastato dire «tutto ciò che serve e ora». Questo ovviamente getta ancor più nell' incertezza e nell' angoscia le imprese già piagate da una crisi senza precedenti. Servirà anche, secondo De Grauwe, mettere tanti soldi dentro le banche prostrate dai fallimenti a catena dei loro clienti. Tutta questa liquidità non potrà che essere creata dalle banche centrali. E qui arriva il grosso problema per i paesi dell' eurozona, che una loro esclusiva banca centrale non ce l' hanno. Dopo i primi tragici tentennamenti di Christine Lagarde, la Bce sembra però essere orientata a un supporto senza precedenti ai governi che potranno quindi finanziare i necessari deficit con la moneta fresca di stampa proveniente da Francoforte. Cosa peraltro vietata dai trattati europei, ma non vi è altra scelta; bisogna «mettere da parte i dogmi e pensare fuori dagli schemi», ribadisce ancora ieri De Grauwe, che però non smette di puntare il dito verso la traballante eurozona i cui Paesi devono darsi un reciproco sostegno. «Ma se fossi italiano», conclude De Grauwe, «e vedessi che gli altri Paesi non sono disposti ad aiutare l' Italia, metterei in dubbio l' appartenenza all' Unione. Mancano le basi minime di solidarietà». E pure del buon senso, aggiungiamo noi.
Paolo Valentino per il “Corriere della Sera” il 27 marzo 2020.
Il governo tedesco accetterà gli eurobond?
«La solidarietà nell' Unione europea è l' imperativo del momento. La possiamo raggiungere anche con i mezzi esistenti, come quelli del bilancio della Commissione, della Banca Europea degli Investimenti e del Meccanismo Europeo di Stabilità, il Mes, con le sue enormi linee di credito non utilizzate per un ammontare di 410 miliardi di euro. Quello che conta è essere solidali nell' emergenza anche sul piano finanziario, aiutando dove c' è maggiore urgenza».
Heiko Maas schiva la domanda sugli eurobond, in realtà tema ancora aperto all' interno del governo federale. Ma nell' intervista al Corriere, la prima dall' inizio dell' epidemia di Covid-19, il ministro degli Esteri tedesco manda un forte messaggio di solidarietà, «pilastro fondamentale dell' Unione europea».
Signor Ministro, la Germania dopo alcune incertezze iniziali (mi riferisco alla decisione di bloccare l' export di mascherine e materiali protettivi, poi revocata) sta dando un segnale concreto di sostegno all' Italia nella lotta al coronavirus. Quali altri aiuti avete in programma?
«Aiutarsi a vicenda in Europa dovrebbe essere una cosa scontata per noi tutti. La solidarietà, soprattutto in momenti difficili, è un pilastro fondamentale dell' Unione Europea. Già nella crisi migratoria non siamo sempre riusciti mettere in pratica questo principio, anche per quanto riguarda l' Italia. Le immagini della scorsa settimana di convogli militari che dovevano trasportare delle bare mi hanno profondamente commosso. Sono, quindi, molto lieto che possiamo aiutare concretamente. La scorsa settimana c' è stata una prima fornitura parziale di sette tonnellate di aiuti, tra cui ventilatori e dispositivi di anestesia. Altre seguiranno, stiamo chiarendo con il Governo italiano i fabbisogni esatti. Ancora più importante: martedì sono stati accolti nella Clinica universitaria di Lipsia i primi due pazienti di terapia intensiva provenienti da Bergamo. Nel frattempo cliniche tedesche hanno offerto complessivamente 63 posti. Si tratta di altrettante vite umane che tentiamo di salvare. Apprezzo molto la cooperazione con il mio collega Luigi Di Maio. Collaboriamo amichevolmente e ci sentiamo di continuo per interagire ancora più strettamente».
Di fronte al pericolo delle pandemie, non pensa sia giunto il momento di creare un coordinamento europeo sulla sanità?
«Con il coronavirus l' Europa deve affrontare una delle prove più dure dalla sua istituzione e noi dobbiamo impiegare ogni possibile strumento. Il virus non ha un impatto solo di politica sanitaria, ma anche economico, di politica sociale nonché di politica estera e di sicurezza. Pertanto al Consiglio Ue Affari Esteri di lunedì scorso ho proposto di attivare la clausola di solidarietà ai sensi dell' articolo 222 del Trattato sul Funzionamento dell' Unione Europea. Questo potrebbe costituire un tetto comune per diversi processi ora in corso per arginare il virus. L' obiettivo sarebbe che ogni Stato membro possa mettere a disposizione, in modo coordinato, personale e materiale al momento non necessario e sufficientemente disponibile».
Può farci qualche esempio?
«Un' Europa solidale deve fare in modo che all' interno dell' Ue tutti i mezzi disponibili giungano dov' è più urgente averli. Un esempio che riguarda la Germania: in tempi brevissimi abbiamo creato una banca dati nella quale le cliniche, su base volontaria, registrano le loro disponibilità attuali di posti in terapia intensiva e di ventilazione polmonare. Nel frattempo hanno aderito circa il 60-70% delle cliniche. Perché questo non dovrebbe essere possibile a livello europeo? Nel medio termine, dobbiamo anche riflettere se riportare da Paesi terzi nell' Ue la produzione di beni strategici, come dispositivi medici di protezione. Anche qui dobbiamo procedere sul piano europeo per evitare sovrapposizioni».
Alcuni parlano anche di segnale politico per l' Europa, di fronte alle azioni di aiuto avviate da Cina e Russia. Dietro gli aiuti si gioca anche una partita geo-politica?
«La solidarietà e il coordinamento internazionale sono le cose di cui abbiamo bisogno in quest' emergenza, quindi ogni aiuto fa bene. Anche l' Ue, nella fase iniziale della diffusione del coronavirus, ha fornito aiuti alla Cina e alla gente di Wuhan. Questa pandemia è una sfida mondiale. Non la supereremo con la modalità "ognuno per conto suo". Adesso il motto deve essere: "Uno per tutti, tutti per uno". Così ce la faremo. La sua domanda mi porta però a un altro punto importante che mi preoccupa molto: la diffusione di informazioni fasulle e di teorie cospirative sul coronavirus. In Germania l' Ufficio Federale per la Tutela della Costituzione sta registrando un forte aumento di tale disinformazione proveniente da Paesi terzi. Dietro c' è evidentemente l' intenzione di minare la fiducia della popolazione nella nostra gestione della crisi. Dobbiamo contrastare questi ignobili e irresponsabili tentativi. Anche qui abbiamo bisogno di una cooperazione rafforzata».
Giorgio Gandola per la Verità il 28 marzo 2020. «Rileggendo San Paolo si elaborano teorie interessanti». Per il professor Giulio Sapelli, economista, docente universitario, analista e saggista di livello internazionale, la sospensione dell' esistenza è tutt' altro che inutile. Ieri ha dato alle stampe il pamphlet più fresco e intrigante del momento: Pandemia e Resurrezione (editori Guerini e Associati e goWare, che lo pubblica online e su Amazon). Perché l' epidemia ci dice cose che noi umani non immaginavamo o solo sospettavamo. Con un imperativo: «Ora tifiamo Italia, poi bisogna cambiare tutto andando alle elezioni».
Professor Sapelli, perché l' ispiratore del suo libro è San Paolo?
«Ho riletto la Lettera ai romani. C' è quel passaggio del capitolo otto sulla speranza messa alla prova nelle situazioni più orribili. Se speriamo in quello che non vediamo, lo attendiamo con perseveranza. C' è un' attesa di cambiamento, tanto per cominciare nell' Europa».
Rottura prolungata, direbbero nell' ippica. Cosa vede dietro quei litigi?
«La necessità di un cambiamento epocale e la lentezza nel farlo fra Stati divisi. Da una parte Germania e Olanda, dall' altra l' Europa del Sud. E in mezzo la Francia. Emmanuel Macron ha aderito alla lettera dei nove sui coronabond e poi ha fatto un passo indietro. La classica mossa del cavallo della diplomazia francese quando si sente debole, cioè quasi sempre. Però ha spiazzato Angela Merkel».
Ci spieghi il duello Merkel-Macron.
«La Germania oggi ha un sistema politico fondato sui partiti in crisi. Macron al contrario i partiti li ha distrutti e governa da bonapartista. E questo ai tedeschi non va bene, perché se prende un raffreddore politico manda al governo Marine Le Pen. Mai i rapporti fra i due sono stati a un livello così basso».
E noi dove stiamo?
«Sullo sfondo, comparse. Ma dentro un Paese così grande che non può fallire e deve essere salvato, sennò crolla l' euro».
Se lo aspettava il Mario Draghi del «bisogna fare debito»?
«Quello è un gioco di specchi e c' ero caduto anch' io. Ho pensato che dietro ci fossero gli americani che hanno sempre sponsorizzato Draghi. Poi ho notato: il presidente della Bundesbank Jens Weidman tace, la Frankfurter Allgemeine tace, da Le Monde e Le Figaro niente siluri. Allora ho capito che Draghi parlava per i tedeschi. E infatti Angela Merkel ha preso tempo per cambiare politica».
Sarebbe una svolta epocale.
«Ultimamente la signora non ne ha azzeccata una, ha bisogno di riflettere. Ha voluto a tutti i costi Ursula von der Leyen a Bruxelles, senza esperienza, senza pedigrée. Mai stata una volta primo ministro, non se la fila nessuno. Poi l' altra Caporetto: la sua delfina designata Annegret Kramp-Karrenbauer è stata sconfitta in Turingia e ha dovuto ritirarsi».
Anche a Roma si sussurra che un' Europa così non ha senso.
«Lo può dire l' opposizione, non il presidente del Consiglio perché un minuto dopo dovrebbe trarre le conseguenze. Conte vuole il Mes senza condizioni, l' Europa del Nord chiede le solite lacrime e sangue. Così lui rischia di fare la fine di Alexis Tsipras. Del resto, Giovanni Agnelli diceva che le politiche di destra vanno fatte fare alla sinistra».
Nel frattempo Conte combatte l' epidemia a colpi di decreti.
«Leggi eccezionali, provvedimenti extraparlamentari.È un governo bonapartista, come quello di Macron. Solo che fra i due c' è una certa differenza, Conte potrebbe fare solo l' ultimo dei marescialli».
Passato il virus, qual è la prima riforma da chiedere all' Europa?
«Sono due. La prima è una Bce che faccia la Banca centrale stampando moneta illimitatamente. Negli Stati Uniti in tre giorni la Federal reserve ha pompato 2.000 miliardi di dollari e il governo ha potuto pensare a sostenere tutti i lavoratori, perfino gli interinali. Da noi la Bce è guidata da madame Lagarde, una signora solo ben vestita».
Noi abbiamo già perdonato la Cina per il virus, gli americani no.
«Gente di buona memoria. Il Senato ha votato un Bipartisan act per denunciare le menzogne della Cina. In Italia invece abbiamo tre quarti della classe dirigente imprenditoriale e burocratica che è filocinese. Lo fanno per interesse, ci vuole poco a fargliela smettere».
Parlava di due riforme per l' Europa. La seconda qual è?
«Una Costituzione in cui tutti si possano riconoscere. Solo così si può finirla con i patti di stabilità e le Troike. E finirla anche con le spinte nazionaliste diverse dal patriottismo. Insomma, questo è un tempo di meditazione».
Il declino della globalizzazione porterà ad avere più Stato nella società.
«L' unica globalizzazione è stata quella finanziaria. Il centro della società non è l' economia, ma la società stessa. Lo Stato dovrà assumersi più responsabilità. Ora la Bce distribuirà denaro non per un altro reddito di cittadinanza, ma per nuove imprese di Stato. E per queste servirà una nuova classe dirigente».
Bisogna ripartire da zero?
«Basta con la società civile, ci vuole una nuova società politica. E la politica è una cosa seria, comincia nei Consigli comunali, poi regionali e finisce in Parlamento. Chi ci crede deve saper scalare la ciminiera per farsi i muscoli; non è più tempo di arrivare in cima senza basi. Abbiamo un ministro degli Esteri che non sa l' italiano».
Nel libro lei teorizza che il «tutti in casa» è una strategia sbagliata.
«Bisognava sanificare le aziende, metterle in sicurezza e continuare a produrre come hanno fatto Taiwan e la Corea del Sud. La salute non comincia negli ospedali, ma nei luoghi in cui viviamo. In difesa del lavoratore ci sono procedure di business continuity. E il sindacato, invece di minacciare scioperi, dovrebbe conoscerle».
Da repubblica.it il 27 marzo 2020. "Ci saremmo aspettati una più forte assunzione di responsabilità dai leader. Ora abbiamo due settimane di tempo per lavorare, sperando che si sciolgano le riserve e vengano date risposte". Lo ha detto il Presidente del Parlamento europeo David Sassoli commentando le conclusioni del Consiglio Ue di ieri. Intervistato dalla Rtve spagnola, Sassoli ha aggiunto che "ci sono le istituzioni europee che stanno combattendo per difendere i nostri cittadini, le nostre vite e la nostra democrazia, nessuno può uscire da solo da questa emergenza. Per questo la miopia e l'egoismo di alcuni governi va contrastata. Voglio essere molto chiaro: i governi nazionali non sono l'Europa". Ieri al Consiglio Europeo, dopo che Italia e Spagna avevano bocciato la bozza iniziale, i 27 hanno raggiunto un accordo sulle misure per affrontare l'emergenza coronavirus. Il documento, che non cita il Mes, prevede che la presidente della Commissione, Ursula von der Leyen e il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, dovranno presentare proposte di lungo periodo da concordare con le altre istituzioni. Il tutto entro due settimane (e non 10 giorni, come chiedevano Italia e Spagna). Ecco il commento di Sassoli: "Abbiamo bisogno che i nostri Paesi spendano tutto quello che debbono spendere - ha continuato Sassoli - per fare questo serve uno strumento comune per garantire il debito. Deve crescere rapidamente tra i nostri governi la coscienza che l'Europa non uscirà da questa crisi come è entrata. C'è ancora una consapevolezza troppo bassa di questo. Le Istituzioni europee lo hanno capito. E' ora che lo capiscano anche i governi" ha concluso il Presidente dell'europarlamento.
Amendola: "Europa in campo o rischia". A lanciare un avvertimento all'Unione è anche il ministro degli Affari europei Vincenzo Amendola: "Ieri sono state sei ore intense, senza tatticismo o parole false o diplomatiche. L'Europa, per una crisi simmetrica che colpisce tutti i Paesi, si deve rimettere in gioco. Deve avere una politica fiscale comune. L'Europa o scende in campo adesso o rischia la sua architettura istituzionale".
Ritratto di Mario Draghi, il figlioccio dei gesuiti che dovrà salvare l’Italia. Piero Sansonetti de Il Riformista il 27 Marzo 2020. “Lib-lab”, se siete giovani, è una sigla – una parolina – che probabilmente non avete mai sentito. In Italia è arrivata dalla Gran Bretagna negli anni Ottanta. Vuol dire Liberal-Laburista. Lib-lab fu il tentativo di mettere insieme le idee liberali anglosassoni con le idee socialiste. Da noi il leader di questa tendenza, che non diventò mai partito e che ebbe scarsa fortuna, fu Claudio Martelli, il numero due di Craxi. Martelli riuscì a riunire attorno a sé un numero consistente di giovani intellettuali, in parte di origini sessantottine, e a elaborare alcune teorie, anche sofisticate, come quella – che godette di una certa celebrità – “dei meriti e dei bisogni”, che puntava a rielaborare le aspirazioni egualitarie e a combinarle con la meritocrazia. Non andò bene. Il Psi, che era il partito sul quale tutto ciò si incardinava, fu spazzato via dai giudici. E lo spazio Lib-lab fu occupato da Berlusconi, che però, francamente, di socialista aveva poco. Il “Lib-lab” era in sostanza un tentativo di ricreare il riformismo. E come sapete bene, il riformismo, in Italia, non ha mai avuto molta fortuna. Ogni volta che ha alzato la testa, ha finito con l’essere schiacciato tra le tendenze reazionarie, sempre forti e spesso autoritarie della destra, e le idee della sinistra, sempre forti e spesso autoritarie. (No, non è una ripetizione casuale: è proprio così. Destra e sinistra, in questi loro aspetti anti-riformisti e un po’ totalitari, si sono sempre assomigliate). Beh, oggi è rimasta una sola personalità nel mondo politico italiano che – credo – si definisce ancora Lib-lab. È Mario Draghi. E proprio lui, Lib-lab della prima ora, viene chiamato oggi a salvare la patria. Lo vuole la destra, che sa di non avere personalità in grado di affrontare questa crisi, e tantomeno il dopo crisi. E lo vuole la sinistra, che sa di non avere personalità in grado di affrontare questa crisi, e tantomeno il dopo crisi (neanche questa è una ripetizione casuale: è proprio così. Anche in questo, destra e sinistra si assomigliano molto). Draghi è un signore di 72 anni, molto serio, molto preparato, con idee nette, competenza e anche carisma. Forse è l’unico (diciamo sotto gli ottanta…) ad avere il carisma e la solidità necessari a guidare il Paese. Non è affatto detto che glielo affideranno. E non è affatto detto che lui accetti. È nato a Roma nel 1947, da papà veneto e mamma campana. È nato a settembre, mentre la Costituente stava decidendo gli ultimi ritocchi alla Costituzione della Repubblica. Il padre di Mario, che si chiamava Carlo, si occupava anche lui di economia ed era un allievo di Donato Menichella, che è stato il governatore della Banca d’Italia negli anni della ricostruzione, dal 1947 fino al 1960. Mario viene mandato a scuola dai gesuiti, al Massimo, che è considerata la migliore scuola di Roma. L’ho conosciuto in quegli anni, perché andavo al Massimo anch’io, anche se andavo alle medie e lui al ginnasio. Credo che stesse in classe con Luca Cordero, cioè con Montezemolo, ma forse era una classe avanti. Sto parlando dei primi anni Sessanta, quando il Massimo, che in origine era di fronte a piazza Esedra, in pieno centro, si spostò in un modernissimo complesso a più edifici all’Eur, con una grande chiesa di cemento armato, i campi di calcio, le palestre. Per me quelli furono anni molto belli. Per lui credo di no. Nel 1962, quando faceva il quinto ginnasio, perse prima il papà e poi la mamma. Non so immaginare come un ragazzino sportivo e studioso di quindici anni possa reagire psicologicamente a una frustata di questo genere. Lui reagì. Probabilmente ebbero un peso i gesuiti, perché i gesuiti, ve lo assicuro, sono quel tipo di comunità che non ti molla, ti prende, ti assorbe, ti arruola e un segno comunque te lo lascia. So che Draghi è molto cattolico, credente autentico. Io non penso che sia quel ghiacciolo cinico che a volte può sembrare. Lo ho incontrato una sola volta, da adulto. Quando era governatore della Banca d’Italia. Io dirigevo Liberazione, il giornale di Rifondazione comunista, e Rifondazione comunista era al governo, e Bertinotti era presidente della Camera. Io però mi divertivo ad attaccare spessissimo Draghi. Non so perché, un po’, forse, anche per goliardia, un po’ perché mi pareva che lui fosse proprio il simbolo della borghesia moderata e antioperaia. Un giorno mi telefonò la sua segretaria, mi disse che Draghi avrebbe voluto incontrarmi, e mi diede un appuntamento. Andai in Banca d’Italia, e mi colpì la sua schiettezza. Disse che si ricordava di me da ragazzino, ma non era vero, perché lui diceva che ero fortissimo a pallone mentre io, purtroppo, non sono mai stato fortissimo. E mi spiegò che non dovevo pensare che lui e Montezemolo fossero la stessa cosa. In effetti io attaccavo sempre lui e Montezemolo come fossero una coppia. Montezemolo – mi disse – era un uomo Fiat e di socialista non aveva nulla. Era un imprenditore, non un uomo di governo. Lui, Draghi, era un’altra cosa. Era un allievo di Caffè. Insistette molto su questo, mi raccontò del rapporto molto stretto che aveva avuto con il professor Caffè, e di quanto il pensiero di Caffè l’avesse influenzato. Io conoscevo bene Caffè, non solo perché – torno sempre agli anni Sessanta – suo fratello Alfonso, sempre al Massimo, era stato il mio professore di lettere alle medie; ma perché poi lui, Federico Caffè, celebre economista, aveva collaborato con l’Unità (oltre che con il manifesto) quando io lavoravo all’Unità come caporedattore, e cioè negli ultimi anni della sua vita conclusa clamorosamente, nella primavera del 1987, con la sua misteriosa scomparsa. Nessuno ha mai saputo che fine avesse fatto Caffè, come nessuno mai seppe dove era finito Majorana. Due suicidi studiati, pensati, sceneggiati, costruiti con sapienza e accompagnati dalla scomparsa del corpo. Caffè era un economista Lib-lab? Direi di no, direi che era spostato molto più a sinistra. Poteva essere forse definito socialista, ma era un socialista radicale, difensore accesissimo dello Stato sociale e dell’intervento dello Stato in Economia. Probabilmente nell’articolo scritto da Draghi l’altro giorno per il Financial Times c’è parecchio del professor Caffè. Sapete come sono le cose, per quasi tutti: in vecchiaia tornano le vecchie idee, i vecchi maestri. Draghi studiò con Caffè, poi andò in America, studiò con Modigliani (che era più lib, sicuramente, di Caffè) diventò professore ordinario di economia a poco più di trent’anni, ebbe incarichi prestigiosissimi in molto istituti pubblici e privati, e agli inizi degli anni Ottanta iniziò quella che può essere considerata la sua carriera politica: fu chiamato a fare il direttore generale del Tesoro dall’allora ministro Giovanni Goria, quando il premier era Craxi (anche lui lib-lab, ovviamente). È curioso ripensarci oggi. Allora Goria era considerato il meno carismatico dei leader democristiani dell’epoca. Era giovane, lo prendevano in giro perché aveva poca storia, Forattini (re dei disegnatori satirici) lo disegnava con la barba (Goria aveva la barba sessantottina, credo che sia stato il primo ministro e poi premier con la barba nera e jeans) ma senza volto. Senza naso, bocca, occhi. Bianco. Per dire: chi è questo? Con il metro di oggi, se uno paragona Goria a quelli di adesso – chessò: Di Maio o Conte, o Bonafede…- sembra di mettere un gigante a paragone con dei nanetti scialbi. Allora però il problema era che non ti paragonavano a Conte ma a Moro o a Fanfani. Comunque il volo politico di Draghi inizia lì. Mentre tanti suoi compagni di studi assumevano posizioni importanti in vari settori della macchina politica e dello Stato, per esempio Ezio Tarantelli, che era anche lui un ragazzo di Caffè e che due anni dopo, nel 1985, fu abbattuto neanche quarantenne da una raffica folle delle Brigate Rosse. Anche lui, Tarantelli, era un lib-lab. Draghi è rimasto al Tesoro per tantissimi anni. Attraversando partiti e maggioranze, dalla Dc e dal Psi, al Pd erede del Pci, a Berlusconi a Prodi. Era inamovibile. Poi approdò a Bankitalia, nel 2005, e infine fu chiamato in Europa, nel 2011, a dirigere l’economia europea. Oggi Draghi è una delle pochissime personalità europee ancora in piedi. Merkel è a fine corsa, Macron non sembra un gigante, gli inglesi e gli italiani boccheggiano, Sanchez al massimo vale Goria. Lui è il numero 1. In Italia piace davvero? Draghi è l’uomo che può ricomporre la borghesia italiana, spaccata in due, negli anni Novanta, quando Berlusconi scippò lo scettro ad Agnelli e aprì una frattura che non si è mai ricomposta. E che ha prodotto un grande indebolirsi della borghesia italiana, delle sue capacità economiche e di egemonia. Draghi è in grado di ricomporla e di riportarla alla guida, anche morale, del Paese? Probabilmente sì. E per questo non è affatto detto che sia gradito. Proprio il vecchio ceppo agnellino non vede di buonocchio questo giovane settantenne e il suo lib-labismo. E anche a Cairo non piace molto. Già, lui me l’aveva detto: “Guarda che io non sono come Luca”. Diceva Luca per dire Montezemolo.
Mario Giordano per “la Verità” il 30 marzo 2020. Caro Mario Draghi,ora che tutti (anche questo giornale) la invocano come salvatore della patria, mi permetta di ricordare una sua telefonata nel dicembre 2013. Mi aveva chiamato perché le dava fastidio che in un libro e in alcuni articoli io avessi citato la sua pensione d' oro dalla Banca d' Italia (14.843 euro lordi al mese), che percepiva pur essendo presidente Bce, io colsi l'occasione per fare due chiacchiere sulla situazione generale, come era capitato qualche volta in passato. Ricordo che lei era molto preoccupato per l'«avanzata dei populisti». Non ebbi a cuore dirle che io ero più preoccupato dell'avanzata di certi europeisti. Da quel giorno non ci sentimmo più. La sua recente intervista al Financial Times in cui ha invocato più debito è certo un passaggio epocale al pari del suo ormai mitico «whatever it takes», che ormai sta scolpito nella nostra storia come le leggi di Mosè. Un cambiamento non da poco, in effetti, per uno che, nonostante la formazione keynesiana e la successiva manica larga monetaria, è sempre stato identificato come un fan del rigore di bilancio. «Ricordo che quando ci trovavamo in interminabili riunioni a cinque (Ciampi, Monorchio, Draghi, Carli e io) in cui venivano affrontati i nodi della spesa pubblica quello che insisteva per tagliare era Mario Draghi che spesso mi sussurrava in un orecchio di spingere ancora di più contro le preoccupazioni di chi voleva difendere pensioni, scuola, sanità», ha raccontato Paolo Cirino Pomicino nel suo libro Strettamente riservato. Adesso, chissà quanti, insieme a noi, hanno cambiato idea su quei tagli. Specialmente quelli della sanità. Per carità: che lei sia un uomo capace non lo mette in dubbio nessuno. Che abbia salvato l'euro neppure, anche se io non sono così convinto che sia stato davvero un bene. Ed è altrettanto sicuro che lei guiderebbe l'Italia con mano più ferma del sor TentennaConte. Eppure a me resta un tarlo nella testa. Quel tarlo sono le parole che pronunciò un giorno l'ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga, durante una telefonata in diretta tv. Era il 2008 e già si parlava di una sua possibile ascesa a Palazzo Chigi. «Impossibile», tuonò Cossiga, ricordando pure il suo passato a Goldman Sachs. «Non può diventare capo del governo uno che è stato a Goldman Sachs», disse. E aggiunse parole durissime: «Draghi è un vile affarista, il liquidatore dell'industria pubblica italiana. Svenderebbe quel che rimane». Sono sicuro che l'ex capo dello Stato stesse esagerando, come di tanto in tanto gli capitava. Ma nel caso dovessero continuare gli appelli alla sua mistica apparizione a Palazzo Chigi, caro Draghi, potrebbe per cortesia rassicurarci che non sarebbe quello il nostro destino? Per l' Italia il rischio di essere svenduta, purtroppo, è una realtà. E, ci perdoni, ma il suo curriculum, in questo settore, non ci tranquillizza proprio per nulla.
Coronabond al vaglio della Commissione Europea: cosa sono? Sheila Khan il 27/03/2020 su Notizie.it. Coronabond: cosa sono e come funzionano gli strumenti economici in discussione al tavolo della Commissione Europea. L’emergenza coronavirus sta attraversando inesorabilmente l’Europa intera, con danni anche sull’economia dei singoli Stati. Per questo l’Unione Europea sta discutendo sulla possibilità di emettere dei Coronabond, per finanziare tutte le iniziative che i governi adotteranno per far fronte all’emergenza. L’Italia si dice d’accordo, ma non tutti gli Stati sono della stessa opinione. La presidentessa della Commissione Europea, Ursula von der Leyen ha detto che la commissione sta studiando gli strumenti a loro disposizione per per alleviare l’impatto economico del coronavirus tra cui maggiore flessibilità sulle norme del debito pubblico tra gli Stati europei e l’emissione di obbligazioni comuni per tutta la zona euro, i cosidetti Coronabond. I Coronabond sono obbligazioni europee emesse dai singoli Stati dell’Unione Europea che hanno lo scopo di coprire le spese legate all’emergenza sanitaria in corso. Il fondo monetario potrà essere usato per due tipi di spese: innanzitutto per le spese sanitarie, legate alla costruzione di ospedali da campo, acquisto di materiale medico (respiratori, guanti, camici, mascherine etc) e assunzione di medici e infermieri; in secondo luogo per rilanciare l’economica e aiutare chi sta subendo i danni delle misure restrittive riguardanti la chiusura delle attività commerciali. I Coronabond dovrebbero essere emessi dalla BEI (Banca Europea degli Investimenti) o da altri enti creditizi; non dalla Banca Centrale Europea, dunque. Giuseppe Conte si è dichiarato favorevole all’uso dei Coronabond, anche se preferisce chiamarli European Recovery Bond. Il suo appello agli altri Stati europei è mantenere l’unità, soprattutto in questo momento di crisi. Altri Stati invece non sono favorevoli a questa manovra di indebitamento comune, tra questi Olanda, Finlandia e Germania.
Il Mes e lo spettro della Troika. Andrea Indini il 27 marzo 2020 su Il Giornale.
Il premier Giuseppe Conte deve proprio tenere al Fondo salva Stati. È da mesi che ci gira attorno. È stato giusto l’estate scorsa che, tenendo all’oscuro mezzo governo (al tempo leghisti e grillini andavano ancora a braccetto), aveva dato il via libera a una riforma che, una volta approvata, renderà il Meccanismo europeo di stabilità (Mes) ancora più pericoloso per chi ne farà ricorso. A distanza di qualche mese, mentre l’Unione europea viene trascinata in una crisi economica devastante generata dalla pandemia del coronavirus, ecco Conte tornare alla carica proponendo di “liberare” i 410 miliardi di euro del Fondo salva Stati. Un intervento del genere, solitamente, dovrebbe far scattare l’intervento della Troika in quei Paesi i cui governi attingono alla liquidità del Mes. Per evitarlo il premier ha chiesto ai partner europei di mettere da parte questa clausola ma ha ricevuto un “no” secco dai soliti falchi. A guidarli, questa volta, c’è l’Olanda che non vuole sentir proprio parlare di erogare denaro senza porre condizioni. A Conte non sono rimasti troppi assi nella manica. Dopo aver raschiato il fondo con un decreto fiscale da 35 miliardi di euro, non sa dove andare a trovare le risorse per far fronte alla mega crisi in cui ci ha gettato il coronavirus. Da qui la proposta (sostenuta soprattutto Da Emmanuel Macron e Pedro Sanchez) di sbloccare il tesoretto del Fondo salva Stati senza mettersi in casa la Troika. In teoria le regole non lo permettono. La scorsa settimana la commissione Problemi economici dell’Europarlamento ha sottoscritto un accordo che svincola l’accesso al Fondo dalle cosiddette “condizionalità”. Ma la Commissione Ue avrebbe, tuttavia, fatto capire sin da subito che sarebbe più propensa a concedere “una forma leggera di condizionalità”. Lo stesso Lorenzo Bini Smaghi, intervistato da Radio 1, avrebbe spiegato che l’unica strada percorribile è un uso del Mes “a condizioni ridotte”. Cosa questo comporti lo scopriremo (forse) più avanti. La rendicontazione potrebbe, infatti, avvenire solo ex post. I timori, dunque, rimangono. D’altra parte chiunque finora ha avuto a che fare con il Fondo salva Stati ha dovuto patire le pene dell’inferno.
I quattro nemici dell’Italia. Francesco Boezi su Inside Over il 29 marzo 2020. Tempi straordinari obbligano gli Stati e le loro emanazioni sovra-istituzionali ad interventi economici straordinari. Sono tutti d’accordo con questo assunto nel palcoscenico geopolitico terrestre. Tutti tranne quattro nazioni appartenenti all’Unione europea. Le stesse nazioni che di avallare i coronabond, che servirebbero soprattutto a far sì che il debito pubblico delle singole realtà nazionali possa essere ammortizzato su base comune e condivisa, non ne vogliono sentir parlare. Il Consiglio europeo di ieri è stato rivelativo. Un’epoca pandemica presuppone la necessità di un’incidenza della solidarietà senza eguali nella storia: i leader europei, quasi tutti, lo stanno ripetendo a mo’ di mantra. Persino Emmanuel Macron, dopo anni di europeismo sconfinato, sembra essersi svegliato dal sonno ideologico. Ma non è sufficiente: Germania, Olanda, Austria e Finlandia continuano ad essere contrari alla immissione sul mercato degli eurobond. Quelli pensati ad hoc per tamponare il collasso economico che potrebbe derivare, anzi probabilmente deriverà con certezza, dalla diffusione del Covid-19. L’Italia può subire per anni le conseguenze di un atteggiamento ostruzionista senza eguali. La recessione è qualcosa di più di uno spettro previsionale. Per questo, le quattro nazioni indicate vengono definite da più fonti – una su tutte Il Mattino – alla stregua di “nemici” del nostro Paese. L’Unione europea diviene così protagonista di una spaccatura interna che per i meno ottimisti può comportare un frazionamento definitivo. Con tanti saluti all’Unione europea ed a tutti i suoi organi rappresentativi ed esecutivi. Da una parte, semplificando un po’, possiamo collocare Italia, Francia e Spagna; dall’altra, invece, sono elencabili le quattro nazioni sopracitate. Gli Stati che hanno a disposizione una banca centrale si trovano nella possibilità di utilizzare un vero e proprio “bazooka”. Si pensi al caso degli Stati Uniti di Donald Trump, ma anche a quello della Cina di Xi Jinping o a quello della Russia di Vladimir Putin. Questi “bazooka” statali sono regolati sulla base del rapporto tra il deficit ed il il Pil. Le realtà che fanno parte dell’Unione europea dovrebbero poter contare sulla Banca centrale europea, che per ora ha predisposto una serie di misure che Francia, Italia e Spagna reputano essere davvero troppo parziali. Mario Draghi, dalle colonne del Financial Times, ha spiegato il perché l’incremento della spesa pubblica a debito, ora come ora, possa essere escluso dalla lista nera dei provvedimenti nefasti. Ma il parere dell’ex vertice della Banca centrale europea non è bastato: Germania, Olanda, Austria e Finlandia non vogliono mollare un centimetro. E i coronabond, a mano a mano, stanno assumendo le fattezze di una chimera. La Germania è compatta: non solo Angela Merkel ha smesso di pronunciare la parola “Europa” all’interno dei suoi discorsi, ma tutto l’arco partitico, comprese le formazioni sovraniste e populiste, sembrano esseri appiattite sulle posizioni della Cdu-Csu. La sensazione è che Berlino preferisca operare mediante le nazionalizzazioni interne delle imprese che risulteranno essere insolventi. E il resto delle nazioni che appartengono alla Unione europea? Ognuno per sé e Dio per tutti: questo sembra essere l’atteggiamento di fondo della “locomotiva d’Europa” e delle altre realtà che boicottano i coronabond. Non saremo nel campo della “immunità di gregge” alla Boris Johnson. Però, dal punto di vista economico, sembra che le due strategie possano essere accomunate: anche l’isolazionismo tedesco comporta che a farcela, in fin dei conti, siano per lo più i più forti. La domanda che sorge spontanea è la seguente: una pandemia può essere debellata dal punto di vista economico senza l’impiego di un “bazooka” europeo? Germania, Austria, Finlandia ed Olanda, che si candidano così alla declinazione di una forma esasperata di egoismo nazionalista, pensano di sì. Tanti europeisti della prima ora, compresi coloro che sono soliti operare nel campo progressista, ritengono che una solidarietà europea non sia più procrastinabile.
Da ilfattoquotidiano.it il 28 marzo 2020. Punti di vista diversi sui giornali tedeschi che commentano il fallimento del vertice europeo di ieri a causa dello scontro tra il fronte rigorista guidato da Angela Merkel e dal premier olandese Mark Rutte e i nove leader che avevano chiesto il varo degli eurobond. Per die Zeit, vicino al centrosinistra, “l’Europa delude l’Italia”. “I capi di Stato e di governo dell’Ue non si sono accordati sui coronabond. Ma una comunità che lascia cadere in emergenza i suoi membri non merita questo nome“. “Merkel rigetta i coronabond e tuttavia parla di solidarietà“, scrive lo Spiegel nel sottotitolo. La Welt, quotidiano conservatore, sostiene invece che la cancelliera, la quale peraltro ha partecipato alla videoconferenza senza mostrarsi e facendo parlare un interprete, è stata “innervosita dall’aggressività del premier italiano”. I Verdi tedeschi dal canto loro contestano con nettezza la linea Merkel: “Con il suo grossolano no agli eurobond il governo tedesco calpesta l’idea europea“, ha detto l’europarlamentare Sven Giegold alla Dpa. “Proprio nei paesi più colpiti dal virus la gente adesso deve percepire l’Europa”, aggiunge.
Die Zeit: “Senza accordo del progetto europeo presto non resterà più molto” – Il messaggio di Ursula von der Leyen, evidentemente, “non è arrivato”, mette in evidenza il settimanale Zeit in un commento sul proprio sito. “Si può solo sperare che il prossimo vertice abbia successo. Altrimenti del progetto europeo presto non resterà più molto“, aggiunge il commento. Secondo la testata tedesca “questa crisi rivela una debolezza fondamentale dell’Europa, ma soprattutto dell’unione monetaria europea. Il contenimento della pandemia richiede misure coercitive che fanno sì che l’economia si blocchi. Per evitare un completo collasso economico, sono necessari enormi salvataggi governativi“. Dopo aver ricordato i timori rispetto agli Eurobond – “si teme che vengano convertiti in obbligazioni in euro, tali da trasformare il fondo comunitario temporaneo in permanente entrando in un’economia del debito incontrollabile” – e i limiti del Mes, che oggi risulterebbe “problematico”, l’autore conclude che “alla fine, ci può essere solo un’alternativa: la Banca centrale europea. Se non vi è alcun sostegno da parte di Bruxelles, dovrà ridurre i costi di finanziamento italiani o spagnoli in misura molto maggiore, in modo che il paese già pesantemente indebitato possa ridurre il costo del finanziamento e contrarre prestiti aggiuntivi. La banca centrale diventerebbe così un’agenzia di finanziamento statale de facto, il che incontrerà critiche soprattutto in Germania. Ma se tutte le altre opzioni sono bloccate, questo sarà l’unico modo per fornire sostegno ai paesi interessati”.
Die Welt: “Conte aggressivo, Merkel lo riteneva charmant” – Die Welt sposa invece la linea del rigore: “Non si tratta della difesa di un principio, ma di evitare ulteriori carichi ai contribuenti tedeschi, austriaci e olandesi. Solo per i tedeschi, secondo gli esperti delle finanze, attraverso gli eurobond o i coronabond si arriverebbe a costi da 20-30 miliardi. Un ragionamento che lascia freddo il premier Conte”. Merkel sarebbe quindi rimasta “confusa dall’aggressività del premier italiano: aveva sempre ritenuto l’avvocato star della Puglia particolarmente charmant“.
Bild: “Con eurobond l’Italia avrebbe meno incentivi” – “Il Coronavirus manda in pezzi l’Europa?“. Con questo interrogativo e il riferimento ai “confini chiusi, a lunghe code di camion all’interno dell’Europa”, uno “scenario horror” finora solo accostato alla Brexit, la Bild online titola un articolo dedicato alle divisioni interne all’Ue. Bild ricorda i contrasti su Mes e Coronabond, obbligazioni “che gli Stati Ue emetterebbero tutti insieme ad un tasso di interesse unico che verrebbe calcolato in base all’affidabilità creditizia di tutti i paesi. Per paesi come la Germania, che sono considerati sicuri e solvibili, questi sarebbero superiori alle obbligazioni tedesche. I paesi che sono già fortemente indebitati e più soggetti a rischi per gli investitori (Italia, per esempio) potrebbero ottenere più denaro a un minor costo, eliminando così un incentivo per loro a operare in modo più solido in futuro“. “In generale gli italiani si sono sentiti lasciati soli dalle istituzioni dell’Ue dall’inizio della crisi”, osserva la Bild, ricordando anche la “gaffe” sullo spread fatta da Christine Lagarde il 12 marzo.
Francesca Basso per corriere.it il 28 marzo 2020. La Commissione europea non sta pianificando l’emissione di bond per raccogliere miliardi da destinare all’emergenza del coronavirus. La presidente della Commissione lo ha detto «chiaramente» in un’intervista all’agenzia di stampa tedesca Dpa, che lo riferisce: «Ci sono limiti legali molto chiari, non c’è il progetto. Non stiamo lavorando a questo». Von der Leyen dice anche che «Il termine corona bond è attualmente uno slogan. Dietro ad essa c’è la questione più grande delle garanzie. E qui le riserve in Germania, ma anche in altri Paesi, sono giustificate». Il settimanale tedesco Der Spiegel ha riferito che la Commissione Ue vuole sostenere uno schema di assicurazione per la disoccupazione negli Stati membri in crisi (progetto anticipato dal commissario all’Economia Paolo Gentiloni al termine dell’Eurogruppo di martedì scorso) e per raccogliere i miliardi necessari sta valutando di collocare bond propri sui mercati finanziari. L’agenzia di stampa tedesca sottolinea che è in corso uno scontro a livello europeo sulla necessità e opportunità o meno di emettere coronabond. Ricorda che l’Italia e altri Stati membri stanno spingendo in questa direzione, mentre la Germania e altri Paesi si oppongono. «Von der Leyen non si è impegnata in prima persona nel dibattito — scrive la Dpa — e ha rimandato all’Eurogruppo, che dovrà presentare le proposte entro due settimane. Ma ha mostrato comprensione per la posizione della Germania». Von der Leyen ha anche ricordato che «L’obiettivo dell’Europa è sempre stato muoversi insieme sull’economia» e che non è colpa dell’Italia se è stata colpita dalla crisi del coronavirus: «Per questo abbiamo dato mandato al Consiglio di disegnare un piano di ricostruzione e su questo stiamo lavorando». Il ministro dell'Econimia Roberto Gualtieri ha definito le sue parole “sbagliate. Sia all'altezza della sfida. serve un piano Marshall per la ricostruzione". Conte ha puntualizzato che “la nostra proposta non è rimessa a von der Leyen ma all’Eurogruppo. Quello che mi permetto di dire è che l’Europa deve dimostrare di essere all’altezza di questa chiamata della storia. È uno shock simmetrico che riguarda tutti gli stati membri, nessuno è esente”.
Gerardo Pelosi per il Sole 24 Ore il 29 marzo 2020. La consegna nel Governo era tenere un profilo basso, senza drammatizzare troppo. Ma è un fatto che la brusca retromarcia di ieri della presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, secondo cui i coronabond sarebbero solo "uno slogan" non ha fatto certo piacere al presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, e al ministro dell' Economia, Roberto Gualtieri. Anche se in serata la presidente ha poi corretto il tiro: «in questo momento, la Presidenza non esclude alcuna opzione entro i limiti del Trattato». Come primo passo spiega una nota della Commissione Ue «stiamo lavorando a una piena flessibilità dei fondi esistenti, come i fondi strutturali. Per garantire il recupero, la Commissione proporrà modifiche alla proposta del Mff che consentiranno di affrontare le conseguenze della crisi coronavirus». Anche se «lo spazio fiscale per i nuovi strumenti è limitato». A Palazzo Chigi si comprende fin troppo bene come ci sia stato qualcuno a Berlino che ha chiesto alla responsabile dell' esecutivo comunitario di tranquillizzare l' opinione pubblica tedesca dopo che lo Spiegel aveva riferito che la Commissione stava valutando di collocare bond per sostenere misure contro la disoccupazione per gli Stati in crisi. Da contatti informali tra Bruxelles e Roma è stato presto chiarito che la presidente intendeva dire che non è la Commissione a doversi occupare del problema ma l' Eurogruppo. Una "norma di linguaggio" che lo stesso Conte ha rispettato nel corso della conferenza stampa di ieri sera: «il compito della proposta - ha spiegato il premier - non è rimesso alla presidente della Commissione. Le proposte le elaborerà l' Eurogruppo. Non abbiamo fatto una proposta alla Commissione, ma all' Eurogruppo per elaborarla. C' è un dibattito in corso». Ma c' è soprattutto, ha spiegato Conte, «un appuntamento con la storia e tutti devono essere all' altezza. E io non passerò alla storia per chi non si è battuto: mi batterò sino alla fine per una soluzione europea in un' emergenza che non riguarda alcuni Stati membri ma tutti allo stesso modo». Molto più duro il responsabile dell' Economia Gualtieri secondo il quale «le parole di Von der Leyen» sui Coronabond «sono sbagliate». Per Gualtieri quella indicata nella lettera dei nove capi di Stato europei «è la risposta più adeguata per uno shock simmetrico sull' economia e tutti devono essere all' altezza della sfida, anche la presidente della Commissione europea». Gualtieri ha ricordato che perfino Delors è sceso nuovamente in campo per ricordare le sfide che abbiamo di fronte. La presidente von der Leyen il 20 marzo in un' intervista alla radio tedesca Deutschlandfunk, aveva detto che «stiamo guardando a tutti gli strumenti e qualunque aiuto verrà utilizzato» per mitigare le conseguenze economiche dell' epidemia. «E questo vale anche per i coronabond, se aiutano e se sono correttamente strutturati». Ma ieri, in un' intervista all' agenzia di stampa tedesca Dpa, la presidente della Commissione è stata molto più cauta. «Ci sono limiti legali molto chiari - ha detto - non c' è il progetto. Non stiamo lavorando a questo. Il termine corona bond è attualmente uno slogan. Dietro ad essa c'è la questione più grande delle garanzie. E qui le riserve in Germania, ma anche in altri Paesi, sono giustificate». La von der Leyen rispondeva a quanto affermato dallo Spiegel secondo cui la Commissione Ue (come anticipato dal commissario Gentiloni) intende sostenere uno schema di assicurazione per la disoccupazione negli Stati membri in crisi collocando bond propri sul mercato finanziario. La Dpa scrive che l' Italia e altri Stati membri stanno spingendo in questa direzione, mentre la Germania e altri Paesi si oppongono. «Von der Leyen non si è impegnata in prima persona nel dibattito - osserva la Dpa - e ha rimandato all' Eurogruppo, che dovrà presentare le proposte entro due settimane. Ma ha mostrato comprensione per la posizione della Germania». Per il presidente del Parlamento europeo David Sassoli occorre uno strumento unico in Europa per far fronte all' emergenza. «Ricordiamo però che i Governi non sono l' Europa - ha detto Sassoli - con il senso di sfida dobbiamo accompagnare i nostri Governi verso politiche comuni. Ci sono Governi che resistono ma sono scelte miopi».
(ANSA il 30 marzo 2020) - I Paesi Bassi devono smettere di opporsi agli aiuti per l'Italia e altri paesi dell'Europa meridionale. Se la crisi del coronavirus non viene affrontata congiuntamente, l'Unione europea cadrà a pezzi. Lo afferma al quotidiano olandese Nout Wellink, ex presidente della De Nederlandsche Bank (Dnb) la Banca centrale olandese, stando a quanto scrive De Telegraaf. "Non saremo più un nord ricco se tutto il sud cadrà", ha detto. Secondo Wellink è un'idea sbagliata pensare che i Paesi Bassi siano finanziariamente in salute: "Nelle circostanze attuali, questa è un'idea sbagliata. È come un uomo in buona salute travolto da una valanga. Quindi non ti aiuterà più a essere in buona salute", ha sottolineato.
Da milanofinanza.it il 29 marzo 2020. La mancanza di solidarietà "mette l'Unione Europea in pericolo di vita", ha avvertito sabato l'ex presidente della Commissione Europea Jacques Delors in una dichiarazione inviata all'AFP dall'istituto da lui fondato e che porta il suo nome. "Il clima che sembra prevalere tra i capi di Stato e di governo e la mancanza di solidarietà europea stanno mettendo l'Unione europea in pericolo mortale", ha detto l'ex ministro dell'economia francese, uno dei padri dell'Unione europea, che ha presieduto la Commissione dal 1985 al 1995. Jacques Delors, ormai 94enne, è molto raramente coinvolto nella vita politica.
Dagospia il 29 marzo 2020. Tullio Solenghi arrabbiatissimo con l’Europa per il mancato accordo sugli eurobond, ribattezzati anche “coronabond”. Hanno detto di no alcuni paesi del Nord Europa e dell’Est ma anche i tedeschi. Solenghi ricorda allora che i guai che i tedeschi hanno provocato all’umanità. “I tedeschi hanno provocato la prima guerra mondiale, hanno provocato la seconda guerra mondiale, hanno sterminato gli ebrei e ancora oggi hanno questa loro arroganza spietata, quel considerarsi una razza superiore, si sentono superiori, non possono cedere al prestito nei confronti dei poveracci…”. “Se poi si considera il fatto – continua Solenghi – che il paziente zero di questo coronavirus è un tedesco allora i co…ni girano in maniera vorticosa. Appena finita la Seconda guerra mondiale la comunità internazionale se avesse ragionato con la loro arroganza e non con la pietas umana con la quale ragionò e avesse chiesto gli effettivi danni di guerra ai tedeschi oggi i tedeschi vivrebbero nelle bidonville, io ringrazio di essere italiano e non tedesco, sì saremo cialtroni o mafiosi, come dicono i tedeschi, ma io ringrazio di essere italiano, perché almeno siamo empatici”.
Stefano Disegni per il “Fatto quotidiano” il 30 marzo 2020. Caro Tullio Solenghi, Zorro gay (o meglio "Zovvo"), RAI2 , fu orgoglio. Io scrivevo, tu zovveggiavi e non si stava seri un nanosecondo. Un mio libro recitato da te è nel mio Palmares. Prima che te lo dicano altri te lo dico io che ti voglio bene: ne hai dette di stronzate. Rabbia per la spilorceria, certo. Anch' io, europeista convinto, mi chiedo a che serva l' Europa se Germania e Olanda non sborsano. Ma dire che i tedeschi sono tutti nazisti, ringhiare che ancora oggi si sentono superiori, "ariani come diceva il criminale coi baffetti " (tutti? Pure Einstein? E Brecht? E Rosa Luxembourg che ci ha lasciato la pelle? E i miei amici Rolf, Thomas, Silke così gentili?) è una misera performance, perfetta per coglioni sbavatori d' odio su tastiera. Quanto agli italiani "empatici e umani", di cui sei fiero, ti ricordo il generale Graziani (uno che gasava popoli e bombardava la Croce Rossa) e i bravi fascisti che segnalavano le case degli ebrei. Via sragionando (ma avevi bevuto?) hai esultato "Saremo pure mafiosi, come dicono i tedeschi". Tullio, che in Italia vivono e prosperano i mafiosi non lo dicono i tedeschi. Lo dicono, anzi lo dicevano, i magistrati morti ammazzati, fratello del Presidente compreso. Sul Paziente Zero tedesco responsabile della pandemia (nazista pure lui, l' ha fatto apposta) sorvolo, come detto ti voglio bene. Tullio, non c' è di peggio che generalizzare. I tedeschi nazisti, gli italiani mafiosi, gli ebrei strozzini e i genovesi tirchi (sì, pure te!). La generalizzazione è una stupida bestia, produce odio per sentito dire (magari da uno famoso come te) e chi approfondisce è nemico, anzi, peggio, un intellettuale. Sono un amico vero, di quelli che a volte ti mandano affanculo, ma continuano a volerti bene.
Massimiliano Lenzi per iltempo.it il 30 marzo 2020. La crisi italiana da coronavirus, sanitaria ed economica, vista con gli occhi di un grande giornalista tedesco che il nostro Paese lo racconta ormai da anni: Tobias Piller, il corrispondente a Roma della “Frankfurter Allgemeine Zeitung”, per i tedeschi la Faz.
Piller, il coronavirus adesso sta facendo saltare tutti i parametri e le regole europee?
“Sicuramente i parametri per il deficit dovevano essere sospesi. Adesso bisogna fare di tutto per far sopravvivere le aziende, offrendo liquidità. A chi non può lavorare, bisogna offrire pagamenti di cassa integrazione abbastanza velocemente. E gli autonomi, soprattutto il popolo della partita Iva, devono avere i mezzi per sopravvivere, magari anche con gli strumenti del reddito di cittadinanza”.
L’Italia per adesso ha fatto un programma di 25 miliardi di euro ed ha annunciato un altro pacchetto da 25 miliardi. Troppo poco?
“Non bisogna farsi ingannare dai grandi numeri che vengono riportati dalla Germania, oltre 500 miliardi di Euro. Questi riguardano delle garanzie per crediti di liquidità alle aziende, e si spera che la grande parte di questi soldi torni indietro. Questo strumento si usa anche in Italia”.
Ma oltre alle garanzie per le aziende, la Germania spende di più con una finanziaria supplementare di 150 miliardi di Euro, vero?
“La Germania viene da un leggero surplus di bilancio nel 2019, aveva programmato di nuovo un deficit zero per il 2020, e adesso ha spazio di manovra, se vuole fare il 3 per cento di deficit nell’anno di crisi. In ogni caso, bisogna tenere in mente, che proprio adesso, nella crisi, si fa bene a concentrarsi sull’essenziale. Vedo troppi politici che dicono: tanto stiamo spendendo grandi somme, vorrei ancora qualcosa lì e là, per questa e quella clientela elettorale. Cose del genere rischiano di essere degli sprechi che proprio nessuno si può permettere nei tempi della crisi”.
Che cosa pensa della cura suggerita da Mario Draghi?
“Emettere Eurobond vuol dire gestione patrimoniale insieme. Per mettere insieme una parte del patrimonio, ci vuole fiducia. Anche se, nel nostro piccolo, volessimo mettere insieme parte del patrimonio con i propri cugini. Ma aiuta in questa situazione quello che dicono tanti politici italiani? Vogliono soldi dall’Europa in modo incondizionato, ma dicono che se ne infischiano delle vecchie promesse italiane di fronte agli altri europei. Ci sono solo tre modi per aumentare la spesa in Italia: con un aumento del debito da ripagare dagli italiani, con soldi regalati dagli altri o con soldi stampati dalla Banca Centrale ed inflazione in futuro. Mi sembra più sincera la prima opzione e l’Europa, sia con il Fondo Salva Stati Mes sia con la BCE, potrà dare una mano per non far aumentare gli interessi per il debito pubblico italiano, espressi nello spread”.
La Germania sta contenendo il coronavirus e le morti sono solo delle piccole percentuali. Da cosa dipende?
“L’epidemia è esplosa in Germania qualche settimana più tardi, purtroppo anche i numeri delle vittime aumenteranno. Comunque, sembra che si siano evitate delle situazioni con persone infettate che arrivavano al Pronto Soccorso, infettando l’ospedale e la popolazione intorno. Adesso ci sono i drive-in, con i test seduti in macchina. In Germania si fanno molti tamponi. L’ultimo numero era di 160.000 tamponi per la settimana dal 9 al 15 Marzo, mentre per l’Italia il numero totale di tutti i tamponi nelle settimane fino al 15 Marzo era di 125.000. Si fanno i test a chi ha sintomi, a chi ha avuto contatti con persone infettate e al personale medico. Poi finora si riesce a seguire ancora ogni paziente, a cominciare delle cure prima che la situazione diventi disperata”.
Che consiglio darebbe al governo Conte?
“Non mi permetto di dare consigli al Primo Ministro italiano. Visti i tedeschi, troppo arroganti e viziati, che non volevano rinunciare a niente neanche con la epidemia in arrivo, vedo il Primo Ministro italiano in una luce diversa. Lui è stato bravo a portare gli italiani passo dopo passo nella situazione necessaria della chiusura dei contatti, e poteva alla fine contare sulla comprensione di quasi tutti gli italiani. Mi preoccupa un pochino il futuro: spero che dopo la crisi non avremo un’Italia con nuove partecipazioni statali ed aziende zombie come Alitalia, finanziate dai contribuenti. Sarebbe meglio spianare la strada per la famosa imprenditorialità privata degli italiani”.
Ecco chi sono i tre tedeschi che possono piegare l’Italia. Mauro Indelicato su Inside Over il 30 marzo 2020. Il coltello dalla parte del manico adesso è in mano a tre tedeschi: Werner Hoyer, Ursula von Der Leyen e Klaus Regling. Sono loro, di fatto, ad avere il potere di dettare il futuro non solo dell’eurozona ma anche dell’Italia. Il nostro Paese, alle prese con la grave crisi economica succeduta a quella sanitaria causata dall’epidemia di coronavirus, ha chiesto già da alcune settimane la possibilità di accedere ai fondi necessari per poter partire con l’opera di ricostruzione. Dagli Eurobond, o Coronabond come sono stati denominate dal presidente del consiglio Giuseppe Conte, ad un Mes più “leggero”: proposte, quelle italiane, caldeggiate dai governi della zona sud dell’Europa ma osteggiate dai Paesi del nord ed in particolare dalla Germania e dai Paesi Bassi. Adesso però la palla potrebbe essere passata, come detto ad inizio articolo, ai tre deschi sopra citati.
La proposta dei governi della zona sud dell’Europa. Né Eurobond e né Mes più flessibile, difficile che queste proposte possano passare. A dirlo non è stato un tedesco od un politico del nord Europa, bensì l’ex presidente del consiglio italiano Paolo Gentiloni: “L’emissione di bond genericamente per mutualizzare il debito non verrà mai accettata”, ha tagliato corto in un’intervista su Radio Capital l’ex capo del governo oggi commissario europeo agli Affari Economici. Una dichiarazione non molto cauta, a cui è stato attribuito un leggero aumento dello spread nel pomeriggio di lunedì. In sede europea tuttavia, dovrebbe giungere una proposta congiunta da parte del nostro governo, così come della Francia e della Spagna, oltre che di altri Paesi contrari alla linea dura euro-tedesca. In particolare, l’obiettivo di Macron, Sanchez e dello stesso Giuseppe Conte sarebbe quello di mettere sul piatto degli eurobond valevoli unicamente per l’emergenza coronavirus. Fondi quindi importanti ed ingenti, ma assolutamente vincolati alle esigenze economiche successive al superamento della terribile pandemia che sta affliggendo il nostro Paese in primis, così come la Spagna ed altre nazioni del vecchio continente. Macron in particolare, starebbe lavorando ad una proposta in grado di dare vita ad una commissione chiamata a valutare ed a vagliare l’utilizzo delle somme che verranno messe a disposizione. Secondo fonti diplomatiche di Bruxelles, la proposta articolata in ogni dettaglio dovrebbe giungere in sede europea entro il 7 aprile.
I tre tedeschi da cui dipende il destino anche dell’Italia. Il documento dovrà vedere il via libera di almeno tre istituzioni che, sia sotto il profilo politico che prettamente economico, avranno in mano le redini della situazione. A partire dalla commissione europea, presieduta da Ursula Von Der Leyen: lei, che durante i primi giorni della pandemia parlava italiano per esprimere solidarietà al nostro Paese e che nelle scorse ore ha appoggiato la linea del rigore tedesco, dovrebbe in primis valutare sul piano politico la fattibilità o meno della proposta di Francia, Spagna ed Italia. Un documento, quello sponsorizzato dai Paesi del sud Europa, che al momento avrebbe il via libera da parte di 14 governi dell’Ue. Un elemento non secondario, sempre sul piano politico, di cui la stessa Ursula Von Der Leyen dovrebbe tenere conto. C’è poi un’altra istituzione presieduta che avrà un’importante voce in capitolo: si tratta della Bei, la Banca Europea degli Investimenti, l’ente quindi che dovrà materialmente mettere sul tavolo i soldi. La Bei è presieduta da Werner Hoyer, anch’egli tedesco come il numero uno della commissione. Ed anch’egli, hanno fatto sapere dalla Germania, non così lontano dalla linea di Angela Merkel e dunque del “partito del rigore”. Infine, occorrerà valutare la posizione dei vertici del Mes, il Meccanismo Europeo di Stabilità: numero uno della governance che sovrintende al Meccanismo è un altro tedesco, Klaus Regling. In poche parole, il destino del nostro Paese in particolar modo è legato a tre personalità vicine ad Angela Merkel ed in linea con la posizione tedesca relativa all’uso incondizionato del Mes per “aiutare” i governi travolti dal Covid-19. Non proprio una bella notizia per un’Italia che, sotto un profilo economico, stenta a vedere la luce in fondo al tunnel.
Coronavirus, rivolta delle bandiere: i sindaci ammainano l'Europa. La protesta nel giorno del minuto di silenzio per le vittime del coronavirus. Dito puntato contro l'Unione Europea. Giuseppe De Lorenzo, Martedì 31/03/2020 su Il Giornale. C’è chi l’ha legata, chi spostata, chi chiusa in un cassetto "finché l'Ue non rimetterà l'Italia e gli italiani al centro dell'Europa". Metodi diversi, motivazioni quasi identiche. Decine di sindaci e amministratori locali hanno deciso di protestare contro l'immobilismo di Bruxelles nella gestione del coronavirus, ammainandone il vessillo. Addio stelle dell'Unione su sfondo blu, almeno finché Bruxelles non dimostrerà quel po' di solidarietà spesso sventolata solo a parole. È la rivolta delle bandiere. La ribellione dei sindaci. Chiamatela come volete. “Dopo il minuto di silenzio per le nostre vittime uccise da Covid-19, ho messo a mezz’asta il Tricolore e legato con due corde la bandiera europea", racconta Marco Schiesaro, sindaco di Cadoneghe in provincia di Padova. Le gomene simboleggiano due cappi, "quello politico e quello economico", che l'Ue "ha stretto attorno al collo dell’Italia". Non si sente "anti-europeista", assicura. Non è per questo che ha ammainato le dodici stelle, ma perché "i nostri nonni non hanno versato il loro sangue in guerra per veder riconsegnare l'Europa per la terza volta ai tedeschi". Come Schiesaro, anche Mario Agnelli giura di non essere mai stato un nemico di Bruxelles. Eppure sul palazzo comunale di Castiglione Fiorentino oggi sventola solo il Tricolore. "La rimetteremo al suo posto quando ci dimostreranno che facciamo parte di Unione Europea vera e propria - spiega - piuttosto che di una raffazzonata Comunità Economica Europea con partner forti che dettano la linea e partner deboli che la devono subire". Molti si chiedono a cosa serva una "unione" se nei momenti di difficoltà ognuno va per la propria strada. Vittorio D'Alessio, sindaco di Mercogliano (Avellino), la bandiera l'ha abbassata quasi una settimana fa. "Ci aspettavamo qualcosa in più da quell’Unione di cui siamo uno dei Paesi fondatori - dice - E invece la solidarietà in termini concreti la stiamo ottenendo maggiormente da Paesi che non appartengono alla Ue”. Russia e Cina in testa. Massimo Riberi, di Limone Piemonte, contesta la scelta del Consiglio Europeo di rinviare di due settimane, su richiesta di Germania e Olanda, la decisione sulle misure da adottare. Se l'emergenza è adesso, si chiede, a che serve intervenire tra dieci giorni? "Il continuo procrastinare una presa di posizione per garantire aiuti concreti non incentiva il sentimento europeista". Lo abbatte. La lista di sindaci che hanno aderito alla protesta è lunga, in larga parte di centrodestra. Tra loro c'è Alan Cecutti, di Taipana, cittadina friulana. Oppure Luca Grisanti, primo cittadino di Campagnatico, in provincia di Grosseto. Risponde al telefono poco dopo aver aver rimesso al suo posto il vessillo, pur precisando che è "pronto a rifarlo" se Bruxelles continuerà a "ricattare" il Belpaese: "Non mi sento più rappresentato da questa Unione, anzi: ci sta discriminando. Anche Conte dovrebbe ammainare la bandiera dal balcone di Palazzo Chigi. Sarebbe un gesto simbolico e giusto". Difficile pensare che l’invito venga accolto dal premier. Intanto però la contestazione si allarga. Ieri Fabio Rampelli, vicepresidente della Camera di FdI, armato di guanti e mascherina ha tolto il vessillo europeo dal suo ufficio. Lo stesso ha fatto Gianni Berrino, assessore al Turismo in Liguria. Anche Massimo Giorgetti, vice presidente del Consiglio regionale del Veneto, ha imitato i colleghi di partito: "O questa Europa cambia o noi cambiamo". Per Giorgia Meloni il gesto realizzato è "un forte messaggio a quest'Europa che abbandona l'Italia nel momento di maggiore bisogno", un sogno unitario che rischia di "dissolversi sotto il peso di una Germania che non vuole rinunciare ai privilegi con i quali ha piegato le altre nazioni in questi anni". Anche Matteo Salvini si è schierato dalla parte dei sindaci che "rispettosamente ammainano la bandiera europea con educazione e con forza". Ha voluto ricordare in particolare Antonfrancesco Vivarelli Colonna, primo cittadino di Grosseto, che quel vessillo l'ha piegato commosso durante il minuto di silenzio in memoria delle vittime del coronavirus: "Non volevo che quella bandiera fosse lì, mentre noi ricordavamo i nostri morti".
Stefano Folli per “la Repubblica” il 31 marzo 2020. Ma che crimine hanno commesso gli italiani - si domanda un editoriale del quotidiano belga Le Soir - per far sì che 10 mila morti non bastino per attrarre un sostegno senza divisioni da parte dei loro pari europei?». Domanda legittima che ripropone il tema irrisolto della solidarietà dell' Unione al Paese più provato dal virus. Poi c' è la questione del "realismo" su cui ha scritto su queste colonne Roberto Perotti a proposito di "eurobond" e risorse del "fondo salva-Stati". Realismo vuol dire capacità di dire la verità, per quanto scomoda, anziché blandire la popolazione con speranze destinate a essere deluse. Qui bisogna ammettere che il nostro dibattito pubblico è carente; per meglio dire, non è più abituato da anni - salvo poche eccezioni - a confrontarsi con i dati concreti, uscendo dalla bolla di una campagna elettorale permanente. Paolo Gentiloni, commissario europeo, si è subito attirato l' accusa di «traditore» da parte dei sovranisti da tastiera per aver detto a Radio Capital che una «generica mutualizzazione del debito non passerà mai» (ossia l' idea di mettere in comune il debito sovrano dei Paesi europei): infatti il tentativo italiano è semmai quello di legare gli strumenti finanziari di intervento a una serie di progetti specifici legati all' emergenza sanitaria e gli obiettivi da raggiungere. Tuttavia esistono i trattati e le clausole sottoscritte e dunque non sembra per ora che una soluzione condivisa sia in vista. Almeno a giudicare dall' intransigenza tedesca (e olandese). Quindi il realismo batte la solidarietà e impone di non attendersi granché dall' Unione. Del resto, quale sia la situazione lo dimostra la scelta dell' ungherese Orbán di farsi conferire i "pieni poteri". A parte le facili battute sull' amico di Orbán, Salvini, che qualche mese fa aspirava anch' egli ai pieni poteri, resta il fatto che l' uomo forte di Budapest non avrebbe preso una simile iniziativa se l' Europa non fosse oggi così debole e a rischio di disgregarsi. Si torna al cuore della questione. La politica italiana tende ancora a illudersi ed esita ad aprire un vero dibattito sul "che fare" se l' Unione alza bandiera bianca. Un intervento massiccio della Bce, dove il fronte dei Paesi favorevoli al soccorso finanziario sembra oggi in maggioranza (e Berlino in minoranza)? Un' emissione di titoli nazionali di tipo "perpetuo" a un tasso interessante per gli investitori, come propone l' ex ministro Tremonti? Il debito andrebbe alle stelle, ma accadrebbe in ogni caso. Qualunque scelta rompe i vecchi schemi e richiede coraggio e fantasia. Forse richiede anche uno Stato consapevole di sé. Sul Messaggero il presidente della Fondazione Hume, Luca Ricolfi, ha spiegato, dati alla mano, la tragicommedia delle mascherine mancanti negli ospedali e nei centri di pronto intervento negli stessi giorni in cui il governo spargeva ottimismo e lo stato d' emergenza era già stato proclamato (il primo febbraio). È una storia dettagliata e rivelatrice. È il medesimo Stato che dovrebbe gestire il dramma sociale, impedire le rivolte al Sud, reperire i circa 500 miliardi reali che servono entro la fine dell' anno per affrontare il collasso economico. Si preferisce discutere nei talk show e sui giornali di quando riaprire le fabbriche e le scuole. Ma una riapertura prematura, dettata dall' ansia, cui seguisse un aumento dei contagi e una seconda chiusura potrebbe essere fatale.
Testo pubblicato oggi sulla “Frankfurter Allgemeine Zeitung” il 31 marzo 2020. Cari amici tedeschi, con il Coronavirus la storia è tornata in Occidente. Dopo trent' anni in cui l'unica cosa rilevante è stata l'economia, oggi la sfida torna ad essere, come in passato, politica, culturale e umana. La prima sfida riguarda l' esistenza stessa dell' Unione europea. Oggi l' Unione europea non ha i mezzi per reagire alla crisi in modo unitario. E se non dimostrerà di esistere, cesserà di esistere. Per questo 9 stati europei (tra cui Italia, Francia, Spagna e Belgio) hanno proposto l' emissione di eurobond per far fronte alla crisi. Non si chiede la mutualizzazione dei debiti pubblici pregressi, ma di dotare l' Unione europea di risorse sufficienti per un grande rescue plan europeo, sanitario, economico e sociale, gestito dalle istituzioni europee. L' Olanda capeggia un gruppo di Paesi che si oppone a questa strategia e la Germania sembra volerla seguire. L' Olanda è il Paese che attraverso un regime fiscale «agevolato», sta sottraendo da anni risorse fiscali da tutti i grandi Paesi europei. A farne le spese sono i nostri sistemi di welfare e dunque i nostri cittadini più deboli. Quelli che oggi sono più colpiti dalla crisi. L' atteggiamento dell' Olanda è a tutti gli effetti un esempio di mancanza di etica e solidarietà. Solidarietà che molti Paesi europei vi hanno dimostrato dopo la guerra e fino alla riunificazione. Il debito della Germania dopo il 1945, era di 29,7 miliardi di marchi di allora. La Germania non avrebbe mai potuto pagare. Nel 1953 a Londra ventuno Paesi (tra cui Francia, Italia, Spagna e Belgio) consentirono alla Germania di dimezzare il debito e di dilazionare i pagamenti del debito restante. In questo modo, la Germania poté evitare il default. Di quella decisione dell' Italia, siamo ancora oggi convinti e orgogliosi. Lo ripetiamo: in questo caso, con gli eurobond dedicati al Coronavirus, non si cancelleranno o mutualizzeranno i debiti pregressi. Cari amici tedeschi, la memoria aiuta a prendere le decisioni giuste. Il vostro posto è con i grandi Paesi europei. Il vostro posto è con l' Europa delle Istituzioni, dei valori di libertà e solidarietà. Non al seguito di piccoli egoismi nazionali. Dimostriamo insieme che l' Europa è più forte di chi la vuole debole.
Carlo Calenda, eurodeputato,
Stefano Bonaccini, governatore dell’Emilia-Romagna,
Giovanni Toti, governatore della Liguria,
Luigi Brugnaro, sindaco di Venezia,
Marco Bucci, sindaco di Genova,
Valeria Mancinelli, sindaca di Ancona,
Virginio Merola, sindaco di Bologna,
Giuseppe Sala, sindaco di Milano,
Emilio Del Bono, sindaco di Brescia,
Sergio Giordani, sindaco di Padova,
Giorgio Gori, sindaco di Bergamo,
Francesco Italia, sindaco di Siracusa
Antonio Pollio Salimbeni per “il Messaggero” l'1 aprile 2020. Alla tv tedesca Ard, Giuseppe Conte ieri sera ha difeso la strategia degli eurobond. «Il meccanismo degli eurobond - dice il nostro premier - non significa affatto che i cittadini tedeschi debbano pagare i debiti che noi faremo per la ricostruzione. L'Italia i suoi debiti li paga da sola». Gli eurobond sono invece un modo per condividere una emergenza che riguarda tutti e non solo gli italiani. Questo il messaggio, che vuole essere tranquillizzante, rivolto da Conte all'opinione pubblica della Germania. E ancora: «L'Europa deve mostrare di essere una casa in grado di dare una risposta a una sfida epocale, io e Merkel abbiamo espresso due visioni diverse». Poi: «Lo dico ai cittadini tedeschi: non stiamo scrivendo una pagina di un manuale di economia, ma una pagina di un libro di storia». Difficile però che le richieste di Conte facciano breccia. A Bruxelles si lavora a un pacchetto con quattro misure. Primo: accesso ai prestiti del Mes a condizioni light ma con impegno a rispettare il patto di stabilità quando uscirà dal congelatore. In tutto può trattarsi di un paio di centinaia di miliardi disponibili, ma è un limite mobile. Secondo: un intervento della Banca europea degli investimenti per mobilitare fino a 250 miliardi per la «ricostruzione» dell'economia. Terzo: un regime di riassicurazione dell'occupazione per finanziare il lavoro parziale sulla scia del modello tedesco. Quarto: prestiti Ue ai governi con emissione di bond garantiti da fondi del bilancio europeo non destinati e forse anche da garanzie degli stati. Un'operazione da 80-100 miliardi. Questo il pacchetto di interventi che sembra emergere dal confronto in atto in Europa sulle misure da prendere per battere la crisi. Si tratta in larga misura dell'accelerazione di una proposta a suo tempo lanciata dall'ex ministro Padoan poi fatta propria dalla Ue. Novità di rilievo perché in qualche modo gli Stati condividerebbero i rischi della disoccupazione. Non c'è nulla di definito, ma ormai sono molto i segnali che indicano che l'Europa si sta muovendo in tali direzioni: non un unico strumento finanziario, ma diversi interventi con la garanzia degli stati e del bilancio Ue. Forse complementari. Ieri c'è stato un confronto tra il presidente del consiglio europeo Michel, la von der Leyen, la Lagarde e Centeno (Eurogruppo). Michel ha detto che «vanno usati tutti gli strumenti disponibili, è tempo di pensare fuori dagli schemi». Oggi si riuniscono gli sherpa che preparano le riunioni dell'Eurogruppo. Nei piani non pare esserci posto per i coronabond proposti sul quale si è diviso il Consiglio la scorsa settimana e le polemiche sono state incandescenti. Idea affossata ancora ieri dal ministro delle finanze tedesche Olaf Scholz che però ha detto: «Siamo pronti alla solidarietà, ma a una solidarietà ben pensata». Sul Mes la direzione l'ha indicata con un'intervista al Financial Times il direttore Klaus Regling. Il dg del fondo salva-stati dipende dagli azionisti che sono i 19 ministri del tesoro dell'Eurozona, tuttavia non parla mai a vanvera ed è nota la sua vicinanza alla cancelliera Merkel. Il suo ragionamento è questo: per definire una nuova istituzione europea in grado di emettere coronabond sarebbero necessari da uno a tre anni a patto si trovi un accordo che oggi non c'è, per cui non resta che usare «le istituzioni esistenti con gli strumenti esistenti». Innanzitutto il Mes. Il prestito rafforzato può prevedere condizioni molto diverse da quelle richieste alla Grecia. L'Eurogruppo già aveva discusso la separazione della condizionalità. Una prospettiva respinta da Italia, Spagna e altri stati. Può darsi che l'impostazione light possa essere accettata se oltre al Mes ci fosse qualcosa d'altro di dimensioni finanziarie consistenti. Sul versante Bei si lavora a un'operazione finanziaria con una normale emissione obbligazionaria che le permetta di mobilitare fino a 250 miliardi di euro. Il che consentirebbe ai nove Paesi favorevoli ai Coronabond di dire d'aver ottenuto «uno strumento di debito comune emesso da una istituzione della Ue».
Pierluigi Mennitti per startmag.it l'1 aprile 2020. Qualunque giudizio si possa aver sul messaggio ai tedeschi pubblicato sulla Frankfurter Allgemeine Zeitung per spingere il governo di Berlino a rivedere la propria posizione su meccanismi di condivisione comunitaria dei debiti, una risultato è stato raggiunto: Carlo Calenda e il gruppo di sindaci e presidenti di regione firmatari sono riusciti a ritagliare al tema uno spazio importante nel dibattito mediatico-politico tedesco dominato dalle notizie sulla pandemia. In più si è aggiunta nella serata di ieri l’intervista di Giuseppe Conte trasmessa sulla tv pubblica Ard, nella quale il presidente del consiglio italiano ha cercato di convincere i tedeschi che l’introduzione degli eurobond non porterebbe il contribuente tedesco a pagare i debiti di Roma.
Dopo la prima risposta all’appello sulla Faz arrivata ieri dal sito online della Bild, oggi tocca ai grandi quotidiani nazionali. E le posizioni non potrebbero essere più diverse. La stessa Frankfurter boccia gli eurobond proposti dai politici italiani, mentre la Süddeutsche Zeitung si mette alla testa del minoritario fronte tedesco favorevole a forme di condivisione comunitaria del debito che potrebbero prevedere – magari in seconda battuta – anche gli eurobond. L’Handelsblatt assume una posizione neutra, ma chiede ai governi europei il coraggio di dire ai propri cittadini che una moneta unica comporta anche comunione di politiche economiche, bilanci e obbligazioni nel lungo periodo, “almeno per una piccola parte del debito pubblico complessivo”. La Welt, infine, mette l’accento sui sentimenti anti-tedeschi che si stanno diffondendo in Italia.
Il piccolo passo laterale dell’Spd (ma non sugli eurobond). Proprio il quotidiano bavarese osserva come il dibattito – meglio lo scontro – sull’ipotesi degli eurobond o dei coronabond investa ora con forza il governo tedesco, che assieme a Olanda, Finlandia e Austria forma il fronte dei contrari. E nota qualche crepa nel muro di Berlino: “L’Spd ha chiarito ieri di essere quantomeno disposta a discutere di tali crediti”. Non è una svolta specifica sugli eurobond, ma un’apertura di credito a ragionare “su una raccolta di capitali comuni all’interno dell’eurozona”, come ha scritto il capogruppo dei socialdemocratici al Bundestag in una lettera ai suoi deputati. “Il vertice dell’Spd aveva precedentemente concordato su una linea unitaria per aiuti solidali nella gestione della crisi del coronavirus”, riporta la Süddeutsche, “il ministro delle Finanze Olaf Scholz e uno dei due leader del partito Norbert Walter-Borjans hanno proposto di trasformare la Banca per gli investimenti europei (Bei) secondo il modello della KfW, il Kreditanstalt für Wiederaufbau, l’istituto di credito pubblico tedesco equivalente dell’italiana Cassa depositi e prestiti, per supportare le piccole e medie imprese europee”. Il piano dei socialdemocratici tedeschi introduce in realtà poche novità rispetto alla linea sin qui tenuta dal governo (del quale la stessa Spd fa parte), giacché per Scholz e Walter-Borjans, nel quadro degli strumenti accessibili, restano in primo piano sia il fondo salva-stati Mes con i suoi crediti con le condizionalità esistenti che il fiancheggiamento delle operazioni della Banca centrale europea. Se Scholz troverà la convergenza anche dell’Unione (Cdu e Csu) potrebbe essere questa la proposta che porterà nella prossima riunione dell’Eurogruppo, in vista del successivo vertice dei capi di stato e di governo alla fine della prossima settimana. La Süddeutsche riepiloga poi la storia del confronto in sede europea fra i due fronti favorevoli e contrari agli eurobond, ricorda che da ultimo anche alcuni economisti e autorevoli centri di ricerca come l’Iw di Colonia si sono dichiarati consenzienti e sottolinea anche il tentativo di Ursula von der Leyen di arricchire con un pacchetto congiunturale il bilancio comunitario 2021-2027, che però proprio Germania e Olanda avevano di recente rigettato nella sua forma più modesta.
Süddeutsche: il veto tedesco è umiliante. Ma è in uno degli editoriali che il quotidiano di Monaco attacca frontalmente il governo tedesco (e tutti e tre i partiti che lo compongono). “Nel pieno della crisi pandemica, il grande paese nel cuore dell’Europa, dotato dell’economia più robusta della comunità, non concede ai suoi vicini quello di cui esso stesso beneficia”, scrive la Süddeutsche in un commento dal titolo “L’umiliante veto”. La Germania ha messo mano a un gigantesco piano di aiuti per la propria economia dichiarando la crisi attuale la sfida più grossa dai tempi della seconda guerra mondiale. “L’intervento nazionale deve valere anche per il contesto europeo. E invece il veto tedesco contro gli eurobond conduce alla creazione di una Europa a due classi: una che si può permettere un tale impegno, l’altra no”. Il momento attuale non richiede di distribuire subito un credito comune, conclude la Sz, ma di soppesare che tipo di solidarietà sia possibile e necessaria su un piano paritario. Una posizione che è stata nei giorni scorsi condivisa anche da un piccolo ma politicamente influente quotidiano berlinese, il Tagesspiegel, molto seguito nel circolo politico della capitale.
Frankfurter: eurobond falso strumento. Diversa è invece la posizione della Frankfurter Allgemeine Zeitung, che ieri aveva pubblicato la pagina pubblicitaria contenente il messaggio di Calenda e degli amministratori locali. “L’appello mette in evidenza come il dibattito su come affrontare la crisi economica derivata dal coronavirus sia sfuggita di mano”, è scritto in un editoriale dal titolo “Falso strumento”. Per il quotidiano di Francoforte, gli eurobond non costituiscono lo strumento più efficace. Gli italiani chiedono mezzi sufficienti per un piano di salvataggio dell’economia, della società e del sistema sanitario e assicurano di non volere una condivisione dei debiti. ma gli eurobond sono proprio quello, la condivisione dei debiti. “Avrebbe più senso costruire velocemente un fondo di aiuti specifico”, sostiene la Faz, che si riferisce alle proposte di due personalità differenti come l’ex presidente dell’Ifo Hans-Werner Sinn e l’ex ministro degli Esteri Spd Sigmar Gabriel che hanno proposto trasferimenti diretti di fondi dalla Germania all’Italia: “Sarebbero un’espressione di solidarietà molto più forte rispetto alla comunione dei debiti”. La richiesta degli eurobond ha un’altra ragione, conclude la Frankfurter: “Il timore per tassi di interesse crescenti sui titoli di stato italiani. Sì’, questo pericolo riguarda anche il resto dell’eurozona. ma non ha nulla a che fare con la solidarietà”. Una chiusa che lascia tuttavia tanti punti interrogativi aperti. In un altro articolo, la Faz illustra ai suoi lettori il contenuto dell’appello di Calenda e soci pubblicato ieri, ma curiosamente sposta il tiro tutto sull’Olanda, raccontando anche un po’ del dibattito interno olandese, la mezza autocritica del ministro delle Finanze Wopke Hoekstra e la disponibilità di uno dei partiti di governo a discutere una sorta di Piano Marshall per i paesi dell’Europa del sud.
Handelsblatt: può essere una catastrofe, i governi siano chiari con i cittadini. Ancora diversa, se si vuole più oggettiva, è la posizione espressa da Handelsblatt. In un articolo apparso nell’edizione di ieri – quindi precedente al dibattito innescato dall’appello italiano – il quotidiano economico ricorda come le strette condizioni che governano i meccanismi economici europei siano destinati ad essere allentati al tempo della crisi del coronavirus. E chiede ai governi europei uno slancio di coraggio e chiarezza nei confronti dei loro cittadini. “Coloro che condividono una valuta necessitano anche di una politica economica comune, di un bilancio comune e di obbligazioni comuni nel lungo periodo, almeno per una piccola parte del debito pubblico complessivo. Ma i governi non si arrischiano a dirlo ai propri cittadini. Con i loro silenzi rischiano di approfondire la spaccatura tra nord e sud e il conflitto di interesse fra le economie competitive e quelle finanziariamente deboli degli stati europei”. L’Handelsblatt conclude con un monito: “Alla fine l’eurozona potrebbe lacerarsi e sarebbe una catastrofe anche per tutti quegli stati che in questa crisi si sentono ancora grandi e forti”.
Welt: in Italia crescono i risentimenti contro la Germania. La Welt descrive in un lungo articolo l’umore degli italiani in questi giorni, riferendo il crescendo di sentimenti anti-tedeschi dovuti alla posizione assunta dal governo di Berlino sulla questione degli eurobond. Parla di uno “stato di emergenza emotivo”, racconta in maniera asettica il video del comico Tullio Solenghi e il tono di buona parte dell’informazione dei media, sottolinea gli attacchi degli esponenti dei partiti di opposizione di destra ma anche le preoccupazioni sulla reazione e quindi sulla tenuta dell’Europa espresse da Romano Prodi, che il quotidiano conservatore ha raggiunto telefonicamente: “La sensazione di essere stati piantati in asso non è confinata solo nei partiti di destra”, conclude la Welt.
“In Italia la mafia aspetta i soldi dell’Europa”, l’affondo durissimo dalla Germania sugli aiuti. Redazione de Il Riformista il 9 Aprile 2020. “In Italia la mafia aspetta soltanto una nuova pioggia di soldi da Bruxelles”. Lo dice senza mezzi termini il quotidiano tedesco ‘Die Welt’, confermando la sua netta contrarietà all’ipotesi di introdurre i cosiddetti Coronabond per fare fronte all’emergenza economica causata, in particolare in Spagna e Italia, dal contagio di Coronavirus. Una posizione da falchi, contro le colombe dei Paesi del Sud Europa che non vogliono invece sentir parlare di Mes come aiuto economico per risollevarsi dalla crisi. L’autorevole quotidiano tedesco, nell’articolo riportato da Agenzia Nova, non nega la necessità di aiuti agli Stati membri dell’Unione Europea, ma mette in guardia su controlli e limiti. Gli italiani infatti “devono essere controllati” dalla Commissione europea e “devono dimostrare” di spendere i soldi degli aiuti esclusivamente per l’emergenza sanitaria. ‘Die Welt’ quindi sottolinea come la solidarietà europea e tedesca debba essere generosi, ma con limiti e controlli perché le obbligazioni europee, con responsabilità congiunta del debito degli Stati membri dell’Ue, sarebbe “una gigantesca perdita di miliardi di euro per i contribuenti tedeschi”. Da qui l’appello alla cancelliera Angela Merkel a non cedere sulla proposta di Italia e Spagna, dato che le conseguenze di un allentamento delle regole di bilancio sarebbero “incontrollabili”, mentre il quotidiano tedesco spinge nell’altro senso a continuare ad applicare le misure di rigore economico anche durante la crisi economica provocato dall’emergenza Covid-19.
DI MAIO: “GOVERNO TEDESCO SI DISSOCI” – Non è mancata una presa di posizione italiana alle parole del quotidiano tedesco. Intervenendo in diretta a ‘Uno Mattina’ su Rai1, il ministro degli Esteri Luigi Di Maio ha chiesto al governo tedesco di di dissociarsi dalla “vergognosa” posizione espressa da ‘Die Welt’. “Si tratta di una “affermazione vergognosa e inaccettabile, mi auguro che Berlino prenda le distanze. L’Italia piange oggi le vittime del Coronavirus, ma ha pianto e piange ancora le vittime di mafia. Non è per fare polemica ma non accetto che in questo momento si facciano considerazioni del genere”, ha detto Di Maio.
L’INTERVISTA DI CONTE ALLA BILD – “E’ nell’interesse reciproco che l’Europa batta un colpo”, altrimenti “dobbiamo assolutamente abbandonare il sogno europeo e dire che ognuno fa per sé“. Sono state queste le parole del premier Giuseppe Conte in un’intervista al quotidiano tedesco Bild. “Vanno allentate le regole di politica fiscale” è il messaggio che l’Italia ribadisce da settimane senza però ottenere risposte concrete, sorpattutto da Germania e Olanda. “Per non perdere competitività abbiamo bisogno di Eurobond – sottolinea ancora una volta il presidente del Consiglio -. Noi competiamo con Cina e Stati Uniti: vedete le manovre che hanno messo in campo. Negli Stati Uniti parliamo di una manovra del 13% circa rispetto al Pil. Se l’Europa non agisce, le nostre industrie perderanno competitività a livello globale”.
Coronavirus, Lannutti: “Merkel? Basta subire i nipotini di Hitler”. Riccardo Castrichini il 14/04/2020 su Notizie.it. Lannutti e la frase sulla Merkel nipotina di Hitler, parole criticate da tutte le forze politiche che ora chiedono le dimissioni. “L’offerta della Merkel, Sant’Angela patrona d’Europa? Su la testa: abbiamo subito fin troppo i diktat dai nipotini di Hitler e degli Stati canaglia suoi complici!”. Non lascia molto spazio alle interpretazioni quanto scritto su Facebook dal parlamentare del M5s, Elio Lannutti, che sarebbe dunque molto contrario al modo con cui la Germania starebbe affrontando il dibattito europeo sugli aiuti economici agli stati maggiormente colpiti dal coronavirus. Le parole di Lannutti hanno provocato le critiche di tutte le forze politiche del Parlamento e spinto il Movimento 5 Stelle a prenderne le distanze in una nota ufficiale in cui si legge: “Il M5s prende nettamente le distanze dalle affermazioni offensive del senatore Lannutti. La Germania è e resta un Paese amico che con noi fa parte della grande famiglia europea. Eventuali divergenze o punti di vista diversi sono normali, nell’ambito della democratica dialettica politica europea, e non giustificano in alcun modo parole di una tale gravità”. Forse resosi conto della figuraccia, Lannutti ha poi modificato il proprio post sostituendo “i nipotini di Hitler” con “la Germania”, ma a nulla è servito.
Sandro Iacometti per “Libero quotidiano” il 16 aprile 2020. Il rigore non c' entra. Il rispetto delle regole neanche. Dietro la determinata opposizione della Germania ad un piano di aiuti comunitario che implichi la condivisione e la mutualizzazione dei debiti (leggi eurobond) non c' è un teutonico rispetto della disciplina o un' innata etica della responsabilità, ma semplicemente la convinzione che noi dei soldi non sappiamo che farcene. I quattrini non ci servono perché ne abbiamo piene le tasche. La sintesi di questo pensiero diffuso da tempo nella popolazione tedesca è andata in onda a Pasquetta, come riporta ItaliaOggi, nel tg dell' Ard, il canale pubblico più seguito in Germania, che senza troppi giri di parole titolava: «Il governo italiano rifiuta 39 miliardi dall'Europa». Ecco la verità. Altro che trappole, troike e condizioni capestro. L'unico motivo per cui abbiamo respinto la generosa offerta del Mes è che non abbiamo realmente bisogno di nulla e quindi possiamo permetterci di alzare la posta finche vogliamo a spese dei poveri cittadini tedeschi, che pur sgobbando da mattina a sera restano sempre più poveri di noi. Certo, ora c'è il Coronavirus, il nostro Paese brucerà il 9% del Pil, le imprese moriranno come mosche e la disoccupazione salirà alle stelle. Ma la musica non cambia. Anche con il reddito sotto i piedi gli italiani continuano ad accumulare denaro. Secondo l' ultimo bollettino dell' Abi i depositi bancari a marzo, primo mese di chiusura totale per il Covid-19, sono aumentati di altri 10 miliardi rispetto a febbraio e di oltre 77 (+5,1%) rispetto allo scorso anno, portando il totale alla stratosferica cifra di 1.593 miliardi. Numeri che non vanno giù ai tedeschi, costretti ad assistere allo strabordare della nostra già pingue ricchezza, in barba al debito pubblico sempre più alto e al disavanzo che attanaglia i conti dello Stato. Come si legge nell' ultimo rapporto di Bankitalia il patrimonio complessivo delle famiglie italiane alla fine del 2017 ha sfiorato i 10 mila miliardi di euro, con un rapporto sul reddito di 8,4 volte, più di francesi e inglesi, e una ricchezza procapite superiore a quella tedesca. Da quell' indagine la situazione sarebbe addirittura peggiorata. Secondo uno studio sul risparmio privato in Germania dell' istituto Diw, citato da ItaliaOggi, la ricchezza media di una famiglia, tra immobili, azioni, depositi e polizze, è di circa 60mila euro, valore molto più basso di diversi Paesi Ue, tra cui Spagna e Italia, dove la media è più del doppio. Stessa proporzione è quella che si registra sul possesso della casa in cui si vive, da noi la percentuale arriva all' 80% degli abitanti, da loro non supera il 44%. La sostanza è che, pur piazzandoci ultimi in tutte le classifiche sulla produttività, sui guadagni e sull' occupazione, continuiamo ad essere ricchi da fare schifo. E schifo facciamo soprattutto ai tedeschi, che invidiano la nostra capacità di consumo, il nostro benessere, il nostro cibo e le nostre proprietà, ai loro occhi inspiegabilmente acquisite, se non con la truffa e l' inganno. Lo stesso inganno che ora ci accusano di voler perpetrare nei confrontui dell' Unione europea, accollando ai virtuosi le nostre pendenze. alcol e donne Vi sembra esagerato? Sentite un po' cosa dice Alice Weidel, di Alternative fur Deutscheland, partito sovranista che duella con la Cdu di Angela Merkel: «Ci troveremmo all' opposto del concetto di solidarietà se, di fronte a Paesi in cui la ricchezza delle famiglie è diverse volte superiore a quella delle famiglie tedesche, ora ci si aspettasse che attraverso gli eurobond i contribuenti tedeschi si dovessero far carico di debiti aggiuntivi, anziché dei propri». Gli economisti di Berlino (appoggiati dai colleghi olandesi) si affannano a spiegare, con raffinate argomentazioni tecniche, che lo strumento degli eurobond avrebbe dannosi effetti collaterali, che sarebbe poco adatto a finanziare la lotta al Coronavirus, che provocherebbe un terremoto sui mercati obbligazionari. Nessuno, ovviamente, si permetterebbe mai di tirare in ballo l' invidia sociale per giustificare l' impuntatura della Germania. Troppo banale. E ingeneroso. Di sicuro quando l' ex presidente dell' Eurogruppo Jeroen Dijsselbloem disse ad un giornale tedesco che il Sud dell' Europa «spende tutti i soldi per alcol e donne e poi chiede aiuto» aveva tutt' altro per la testa.
Die Welt: “Se date soldi all’Italia li date alla mafia”. I 5S protestano ma Italia uguale mafia è il loro racconto. Davide Varì su Il Dubbio il 9 aprile 2020. Ma chi in questi anni ha raccontato al resto del mondo che l’economia italiana è nelle mani delle “mafie più potenti del mondo”? L’Italia stessa, naturalmente, e soprattutto i grillini. “Certo, i paesi dell’Unione Europea dovrebbero aiutarsi a vicenda nella gestione della crisi da Coronavirus. Ma senza limiti? E senza controlli? In Italia la mafia non aspetta altro che una nuova pioggia di denaro da Bruxelles”. Le parole del quotidiano tedesco “Die Welt” hanno scatenato la reazione italiana, a cominciare da Luigi Di Maio. Ma chi in questi anni ha raccontato al resto del mondo che l’economia italiana è nelle mani delle “mafie più potenti del mondo”? L’Italia stessa, naturalmente, e soprattutto i grillini. A cominciare da Nicola Morra che oggi non replica ribaltando la visione farlocca di un Paese in mano alle mafie, ma spiega che la mafia, quella italiana, ormai domina anche l’economia tedesca. Il modo più autolesionista per confermare il pregiudizio tedesco. L’allarme di “Die Welt” arriva per scoraggiare l’immissione di denaro pubblico europeo nelle casse italiane: “Signora Merkel, punti i piedi – scrive Die Welt – una delle questioni più importanti che si pongono di fronte alla pandemia – prosegue il giornale – è fino a che punto deve arrivare la solidarietà finanziaria tra i 27 stati membri?”. Certo, prosegue, “dovrebbe essere generosa”. “Ma senza alcun controllo? E senza limiti? La solidarietà è un’importante categoria europea, ma anche la sovranità nazionale e l’obbligo dei politici di rendere conto ai propri elettori sono fondamentali”. “Dovrebbe risultare evidente – prosegue il commento della Welt- che gli aiuti finanziari all’Italia – dove la Mafia è una costante a livello nazionale ed attende ora unicamente una nuova pioggia di denaro da Bruxelles – dovrebbero essere spesi unicamente nel sistema sanitario e non approdare ai sistemi sociale e fiscale del paese. E naturalmente gli italiani dovrebbero essere controllati da Bruxelles e dimostrare di investire il denaro correttamente. Anche nella crisi da Coronavirus i fondamenti essenziali dell’Unione dovrebbero continuare a valere”. Parola di tedesco. Anzi no: parola di italiano…
Saviano risponde a Die Welt: "Meno soldi arriveranno all'Italia dall'Ue, più potere avranno le mafie". Repubblica Tv il 10 aprile 2020. "Dispiace vedere che una poca conoscenza delle dinamiche mafiose possa spingere a una posizione così ingenua: credere che l'aiuto europeo per l'epidemia sia un favore alle organizzazioni criminali. La 'ndrangheta fattura circa 60 miliardi di euro l'anno, la camorra tra i 20 e i 35 miliardi. E' una massa di denaro pronta a intervenire laddove la crisi economia apre i varchi. Quindi è esattamente il contrario di quanto ha dichiarato il quotidiano tedesco Die Welt: meno soldi all'Italia, più potere alle organizzazioni criminali". Lo scrittore Roberto Saviano risponde così all'articolo del quotidiano tedesco Die Welt in cui si sostiene che in Italia "la mafia aspetta gli aiuti europei".
Alessandro Sallusti a Otto e mezzo imbarazza Giannini: "Lo scrive anche Saviano", Repubblica come Die Welt? Libero Quotidiano l'11 aprile 2020. "Lo scrive tutti giorni, Repubblica. Se lo fanno loro, applaudono. Se lo fa Die Welt, sono dei cretini". Alessandro Sallusti ad alzo zero a Otto e mezzo sul tema Italia, mafia e soldi dell'Ue che tanto ha fatto discutere in questi giorni e che tante polemiche ha scatenato contro la provocatoria posizione del giornale tedesco. In collegamento con Lilli Gruber c'è però anche Massimo Giannini, firma di spicco proprio di Repubblica, che chiamato direttamente in causa reagisce stizzito al confronto provocatorio. "Non è la stessa cosa, Alessandro, perdonami. Cerchiamo di non manipolare". E il direttore del Giornale sbotta: "Non manipolo, lo ha scritto Roberto Saviano". Come dargli torto.
Repubblica.it il 9 aprile 2020. Quando Grillo, nel 2014, a Strasburgo invitava l'Ue a non dare finanziamenti all'Italia: "Finiscono a mafia, 'ndrangheta e camorra". "Sono venuto due o tre volte qui in parlamento. E sono venuto per dire di non dare più finanziamenti all'Italia perché scompaiono in tre regioni: Calabria, Sicilia e... Quindi a mafia, 'ndrangheta e camorra". Lo affermava Beppe Grillo, fondatore del Movimento 5 Stelle, nel luglio del 2014, in occasione di un suo intervento alla riunione del gruppo Efdd di cui era capogruppo Nigel Farage e co-presidente il grillino David Borrelli. Il M5s ha poi scelto di lasciare il gruppo Efdd nel gennaio del 2017.
Coronavirus, “ci aiutaste a ripartire, siamo con voi”: la solidarietà della Bild agli italiani dopo la lettera di sindaci e governatori ai tedeschi. A due giorni dall'intervista di Conte alla tv Ard e dalla missiva alla Faz di un gruppo di amministratori locali, il quotidiano più venduto in Germania dedica interamente la sua prima pagina all'Italia. Lo fa con una scelta forte, in un momento decisivo per gli equilibri europei: l'intera copertina del giornale è scritta sia in tedesco che in italiano. Il messaggio: "Siamo come fratelli. Siete sempre nei nostri pensieri. Ce la farete. Torneremo da voi". Il fatto Quotidiano il 2 aprile 2020. “Ci avete aiutato a far ripartire l’economia, siamo con voi”. Il quotidiano tedesco Bild, il più venduto in Germania, dedica interamente la sua prima pagina all’Italia. Lo fa con una scelta forte, in un momento decisivo per gli equilibri europei: l’intera copertina del giornale è scritta sia in tedesco che in italiano e le bandiere dei due Paesi campeggiano nella parte superiore. E il messaggio, a due giorni dalla lettera inviata da alcuni governatori e sindaci alla Frankfurter Allgemeine Zeitung, è chiarissimo: i tedeschi sono accanto agli italiani nell’emergenza coronavirus. Nell’articolo bilingue, la Bild scrive “siamo come fratelli” e “ci avete aiutato a far ripartire l’economia”. Un chiaro riferimento all’accordo di Londra del 1953 con il quale 21 Paesi europei, compresa l’Italia, tagliarono il debito tedesco permettendo a Berlino Ovest di ricominciare dopo la Seconda Guerra Mondiale. È probabilmente il passaggio più significativo sotto il profilo politico della scelta della Bild, nella settimana che dovrebbe condurre a un accordo sugli aiuti Ue, con Angela Merkel che finora ha rigettato l’ipotesi degli coronabond chiesti da Giuseppe Conte insieme a Emmanuel Macron, Pedro Sanchez e altri leader degli Stati dell’Unione. “Siete sempre nei nostri pensieri. Ce la farete. Torneremo da voi e dal vostro mare”, continua la Bild elencando tipicità e icone italiane apprezzate in Germania, oltre alle bellezze naturali e architettoniche del nostro Paese. “Ciao Italia – è la chiusa dell’articolo in prima pagina – Ci rivedremo presto”. La scelta del più popolare quotidiano tedesco arriva a due giorni dalla lettera inviata alla Faz da diversi governatori e sindaci. Stefano Bonaccini, Giovanni Toti, Giorgio Gori e Beppe Sala, oltre all’europarlamentare Carlo Calenda, si sono rivolti direttamente agli “amici tedeschi”: “State con i grandi Paesi Ue, non con piccoli egoismi. Dopo la guerra vostro debito fu dimezzato per evitare default. Oggi l’Olanda senza etica e solidarietà”. E anche i Paesi Bassi, nelle ultime ore, sembrano fare marcia indietro sul fronte degli europei aprendo ad un “fondo di emergenza”. “Se l’Unione non dimostra di esistere cesserà di esistere. Berlino nel 1945 evitò il default perché il suo debito fu dimezzato da 21 Paesi tra cui l’Italia – è il messaggio apparso sul Frankfurter Allgemeine Zeitung, uno dei maggiori quotidiani della Germania – Con gli eurobond i debiti pregressi non si cancelleranno né mutualizzeranno. L’Aja rigorista con il suo regime fiscale di favore toglie risorse al nostro welfare”. Anche il premier Conte, in questi giorni, è intervenuto sui media tedeschi e olandesi. In un’intervista alla Ard ha detto: “Io e Merkel abbiamo visioni diverse. Ma in Ue scriviamo la storia, non un manuale di economia. L’Europa sia coesa o non sarà competitiva nel mondo”. Mentre al principale quotidiano dei Paesi Bassi, il De Telegraaf, ha ricordato che la recessione colpirà “chiunque” e “gli European recovery bond sono il modo migliore per rispondere, anche per i cittadini olandesi”. E ha sottolineato che “molte grandi imprese con i principali stabilimenti in Italia e i maggiori profitti nel nostro Paese poi beneficiano della legislazione fiscale olandese, molto più conveniente”.
Der Spiegel contro Angela Merkel: "No all'Italia sugli eurobond gretto e vigliacco". Libero Quotidiano l'8 aprile 2020. C'è un tedesco che ragiona. E a sorprendere ancor di più è il fatto che si tratta di Steffen Klusmann, direttore del Der Spiegel che tante volte ha sfregiato e cosparso di fango l'Italia. Il punto è che il direttore ha preso posizione in un editoriale pubblicato online, dal titolo: "Il rifiuto tedesco degli eurobond è non solidale, gretto e vigliacco". Piuttosto clamoroso. Il contesto ovviamente è quello degli aiuti negati per la gestione dell'emergenza coronavirus. Un editoriale pubblicato anche nella versione online in italiano. "Invece di dire onestamente ai tedeschi che non esistono alternative agli eurobond in una crisi come questa - prosegue Klusmann -, il governo Merkel insinua che ci sia qualcosa di marcio". Ossia "che in fin dei conti sarebbero i laboriosi contribuenti tedeschi a dover pagare, in quanto gli italiani non sarebbero mai stati capaci di gestire il denaro". Per una volta, giù il cappello davanti a quelli di Der Spiegel.
Steffen Klusmann per “Der Spiegel” il 9 aprile 2020. Gli Eurobond- affermò la cancelliera Angela Merkel otto anni fa all’apice della crisi dell’Euro- "non ci saranno finché sarò in vita". E così anche la scorsa settimana al vertice dei capi di Stato e di governo dell'UE tenutosi in videoconferenza, i paesi dell'Europa meridionale sono stati messi a tacere bruscamente, quando hanno avanzato nuovamente la richiesta degli Eurobond per proteggere le loro economie dall'impatto della pandemia. Il ministro dell'Economia Peter Altmaier l'ha definita, in modo sprezzante, un "dibattito fantasma". O il governo tedesco davvero non si rende conto di quello che sta rifiutando con tanta noncuranza, oppure si ostina a non capire, spinta dalla paura che il partito populista Alternative für Deutschland (AfD) possa strumentalizzare gli aiuti ai vicini europei per la propria propaganda. Dopo tutto è stato l’esasperante dibattito sul sostegno alla Grecia che ha portato alla fondazione dell'AfD nel 2013. Invece di dire onestamente ai tedeschi che non esistono alternative agli Eurobond in una crisi come questa, il governo Merkel insinua che ci sia qualcosa di marcio in questi bond. Ovvero, che in fin dei conti sarebbero i laboriosi contribuenti tedeschi a dover pagare, in quanto gli italiani non sarebbero mai stati capaci di gestire il denaro. Questa narrazione è stata usata talmente spesso dalla Cancelliera, che adesso ogni concessione a spagnoli e italiani potrebbe soltanto sembrare una sconfitta. Non avrebbe mai dovuto permettere che si arrivasse a questo, non fosse che per un sentimento di vicinanza e solidarietà. L’enorme violenza della pandemia ha comportato una vera e propria tragedia umana e medica in Italia e in Spagna- anche perché ultimamente ambedue gli Stati avevano attuato una forte politica di austerity, come voluto da Bruxelles- e sicuramente non perché vivessero al di là delle loro possibilità. Non esistono alternative agli Eurobond in una crisi come questa. L'Europa sta affrontando una crisi esistenziale. Apparire come il guardiano della virtù finanziaria in una situazione del genere è gretto e meschino. Forse conviene ricordare per un momento chi è stato a cofinanziare la ricostruzione della Germania nel Dopoguerra. Gli eurobond sono obbligazioni comuni emesse da tutti i paesi dell'Euro e non un’elargizione. Hanno il vantaggio di essere considerati un investimento sicuro, in quanto gli stati con una buona reputazione come la Germania risultano responsabili anche per i debitori meno solidi, come l'Italia. Questo rende i prestiti un po' più costosi per la Germania, ma notevolmente più economici per l'Italia. Berlino se lo può permettere, mentre Roma, se fosse lasciata sola, presto non sarebbe più in grado di prendere in prestito denaro sul mercato finanziario, dato che i tassi di interesse sarebbero troppo alti. Se l'Italia, la Spagna e la Francia dovessero applicare programmi di aiuto e garanzie cospicui come quelli tedeschi, per le loro economie stagnanti e per evitare il fallimento di massa delle imprese, non ci vorrebbero miliardi, bensì trilioni di Euro. E se gli europei non danno immediatamente il segnale che stanno lavorando insieme per contrastare questa crisi, sarà una vera festa per i populisti, i nemici dell'UE e gli hedge fund di Londra o New York. Come già nel caso della Grecia, punteranno sul fallimento di uno Stato europeo e questa volta vinceranno la scommessa. Gli stati come Italia o Spagna sono troppo grandi da poter essere salvati con gli strumenti esistenti come il Fondo europeo di salvataggio MES, i cui 410 miliardi di Euro non basteranno a lungo neanche alla sola Italia. Inoltre, gli aiuti del MES sono legati a condizioni, che non avrebbero senso nel caso di uno shock esogeno, come quello del Corona. L’enorme violenza della pandemia ha comportato una vera e propria tragedia umana e medica in Italia e in Spagna. I tedeschi vorrebbero piuttosto ammorbidire queste condizioni e rivolgersi alla Banca centrale europea, che potrebbe acquistare quello che nessun altro vuole. Già otto anni fa, la banca centrale era già stata usata dai politici come ultimo baluardo, perché i governi erano troppo vigliacchi per risolvere i problemi da soli. De facto però, tutte queste proposte avrebbero lo stesso effetto: una gigantesca collettivizzazione dei rischi - solo che non si chiamano Eurobond. Sarebbe quindi più onesto ed efficace accogliere l’ultima proposta francese, che oramai sembra trovare anche il consenso degli scettici degli Eurobond: i corona bond. Si tratta di titoli di Stato europei limitati nel tempo e legati a uno scopo ben preciso: far fronte alla pandemia. Darebbero un chiaro segnale ai mercati finanziari, ma anche ai cittadini europei. Sarebbe la prova che non ci abbandoniamo l'un l'altro in tempi di maggiore bisogno, e che l'Europa è più di una mera alleanza di egocentrici, più di un mercato unico ben lubrificato ma dal cuore freddo con una moneta (ancora) comune. E infine le corona bond sarebbero anche un investimento a prova di bomba che finalmente tornerebbe a fruttare interessi. Ma non per gli hedge fund.
Gianluca Mercuri per corriere.it l'1 maggio 2020. È uscito sei giorni fa, ci era sfuggito, ma è importante e ve lo proponiamo ora: un altro articolo dello Spiegel a favore dell’Italia. Dopo quello firmato dal direttore Steffen Klusmann (ne avevamo parlato nella rassegna del 9 aprile), che arrivava a definire «gretto e vigliacco» il rifiuto tedesco degli eurobond, ora è l’editorialista Thomas Fricke a intervenire con un’analisi ancora più efficace, perché addenta tutti gli stereotipi ed entra nel merito della grande questione del debito pubblico italiano, spiegando perfettamente la nostra trentennale virtuosità. Il titolo dice già molto — «La fatale distorsione tedesca dell’Italia» — ma poi non c’è una virgola da perdere. «Forse è una conseguenza di tanti film sulla mafia. Forse è semplicemente l’invidia per il fatto che l’Italia abbia un tempo migliore, un cibo migliore, più sole e più mare. Qualcosa comunque deve spiegare questo assillo nel puntare sul fatto che i tedeschi sarebbero più oculati, più seri e più affidabili. E a questo proposito mostrare l’inadeguatezza dell’Italia». Basterebbero queste poche righe per disintegrare una montagna di pregiudizi, ma Fricke fa esplodere un’altra carica: «Tutta questa spocchia tedesca non è di adesso, ma adesso è particolarmente tragica. Perché? Perché questa giaculatoria tedesca ha così poco a che fare con la realtà, più o meno come i crauti con le abitudini alimentari di Wanneeickel (una cittadina della Ruhr, ndr 1), o come la lodata puntualità tedesca ha a che fare con la velocità di costruzione del nostro delizioso aeroporto nella capitale (un clamoroso caso di ritardi e costi gonfiati, ndr 2)». Ma il giornalista è ancora più deciso quando affronta la questione sostanziale: «Il vero dramma dell’euro risiede nel cliché erroneo dell’Italia spendacciona. Questo non ha nulla a che fare con la realtà e sta per disintegrare l’Europa», scrive Fricke. Che citando l’economista Antonella Sturati dell’Università Roma Tre, spiega che «se non si calcolano i pagamenti degli interessi, dal 1992 i governi italiani hanno avuto eccedenze di bilancio anno dopo anno». Altro che attitudine allo spreco, insomma, il cancro del debito ci ha fatto smettere di spendere: «Dolce vita? Sciocchezze. Dal 2000 gli investimenti pubblici italiani sono calati del 40%, un collasso regolato per legge. Nell’istruzione si è investito quasi un decimo. Una follia. Le spese pubbliche ristagnano dal 2006. In Germania sono aumentate quasi del 20%». E questa tendenza «è diventata poi una catastrofe a partire dall’eurocrisi, quando Mario Monti sotto la pressione internazionale e in particolare tedesca ha iniziato una riforma dopo l’altra. Una volta sul mercato del lavoro. Un’altra volta sulla pensioni». E poi i tagli alla sanità dal 2010, che tanta parte hanno nella tragedia della pandemia. Segue l’affondo ben mirato su cosa può (deve?) fare la Germania: «Non è una colpa diretta della politica tedesca. Chiaro. Ma è giunto il tempo di smetterla con insegnamenti errati, e di contribuire alla riparazione del disastro, caro Herr Schäuble». Il riferimento al ventennale custode delle finanze tedesche (e del rigore europeo) serve a invocare un sano revisionismo: «Forse per salvare l’Europa innanzitutto ci sarebbe bisogno in Germania di nuovi esperti». Perché «non siamo al circo ma a una crisi che leva il fiato, per quanto è seria». Quindi «è tempo di fermare questo dramma e gli eurobond sono il simbolo di un destino comune. Destino che noi condividiamo comunque, avendo una valuta comune. Altrimenti in un paio di anni l’Unione europea non sarà più tale. E Francia e Italia avranno al potere persone come Trump e Johnson, che non hanno voglia di giocare assieme: il gioco sul quale la Germania costruisce da decenni il suo benessere». Parole di una nettezza che impressiona. A questo punto si può affermare che il più grande settimanale tedesco sta conducendo una campagna pro Italia. Ed è qualcosa di sensazionale perché è lo stesso giornale che nel tempo si è distinto per iniziative di segno opposto. Lasciamo perdere la famosa copertina del 1977 con la pistola nel piatto di spaghetti. Gli spaghetti campeggiavano — a forma di cappio — su una copertina molto più recente, 2 giugno 2018, dal titolo in italiano «Ciao amore!» e dal sottotitolo «Come l’Italia si autodistrugge e trascina l’Europa con sé». Gli articoli ci dipingevano come schnorrer, scrocconi, e prendevano di mira il migliore di noi, Mario Draghi. Per non parlare dei riferimenti a Schettino e al disastro del Giglio nel 2012: «Mano sul cuore: qualcuno si è forse meravigliato del fatto che il capitano della Costa Concordia fosse italiano?». Riflettiamoci su. Che un giornale così importante in due anni abbia ribaltato la sua linea è bello e utile. Conferma che la Germania non è un monolite ma un grande Paese che sa discutere di sé. Che la grande leader che lo guida sa modulare i passi avanti con sapienza, e nelle ultime settimane l’ha letteralmente spostato, il presunto monolite, accettando l’idea di «una mobilitazione di risorse senza precedenti da parte dell’Europa» per fronteggiare il virus, e pazienza se non si chiamerà «eurobond»: sarà comunque — e finalmente — condivisione del rischio. Ma per venirci incontro Angela Merkel ha bisogno di rassicurare i suoi elettori e i suoi contribuenti e di tenere a bada la sua destra sovranista, che si muove con le stesse logiche della nostra. Deve poter dire che non solo noi paghiamo eccome i debiti, ma siamo decisi a rivedere il nostro sistema fiscale maxievasivo e disposti a usare un po’ dei nostri oltre 4 mila miliardi di risparmi privati per la ricostruzione. Sapremo farlo?
Roberto Brunelli per agi.it il 25 aprile 2020. La Germania ha “un’immagine distorta e fatale dell’Italia”, un’immagine che finirà per “fare a pezzi l’Unione europea”. Lo scrive oggi in un lungo editoriale lo Spiegel, che lo pubblica addirittura in apertura del proprio sito. Un articolo molto duro nei confronti della classe politica tedesca: Thomas Fricke, che firma il pezzo, non esita a parlare di “tutta questa arroganza tedesca che - non solo adesso, ma soprattutto adesso – è particolarmente tragica”. E non solo perché “la solita lagna tedesca ha a che fare con la realtà della vita degli italiani quanto i crauti hanno a che vedere con le abitudini alimentari dei tedeschi”. A detta dello Spiegel, la lite sull’eventuale partecipazione dei tedeschi agli eurobond “è imbarazzante”, perché si preferisce “fantasticare sul fatto che gli italiani avrebbero dovuto risparmiare prima”, fantasie che “spiegano la mancanza di zelo da parte della Germania nel far partire al vertice Ue di questa settimana una storica azione di salvataggio”. Ed ecco l’affondo: “L’Europa rischia di sprofondare nel dramma, non perché gli italiani sono fuori strada, ma a causa di una parte predominante della percezione tedesca”. E ancora: “Forse è per colpa dei tanti film sulla mafia”, scrive il settimanale tedesco ironizzando sui rispettivi stereotipi tra i due Paesi, “forse è solo l’invidia per il fatto che l’Italia ha il clima migliore, il cibo migliore, più sole e il mare”. Secondo Fricke, “se lo Stato italiano in una crisi come questa finisce sotto pressione dal punto di vista finanziario, dipende – se proprio deve dipendere dagli italiani – dal fatto che il Paese ha una quota di vecchi debiti pubblici, ossia dai tempi passati. Solo che questo ha poco a che vedere con la realtà della vita di oggi, ma con una fase di deragliamento degli anni ’80, il che ha a sua volta a che vedere con gli interessi improvvisamente schizzati in alto”. Lo Spiegel fa anche un paragone storico sempre molto scottante per la Germania: “Se noi tedeschi non avessimo avuto all’estero amici tanto cari che nel 1953 ci abbuonarono una parte dei nostri debiti, staremmo ancora oggi con un pesante fardello in mano. E come va a finire quando le persone devono continuare a pagare debiti nati storicamente, la Germania lo ha dimostrato alla fine della Prima guerra mondiale, quando alla fine il sistema si rovesciò, come da anni rischia di succedere anche in Italia”. Inoltre, l'editoriale del settimanale ricorda che “da 30 anni lo Stato italiano spende meno per i suoi cittadini di quello che prende loro, con l’unica eccezione dell’anno della crisi finanziaria mondiale 2009. Questo vuol dire risparmi record, non sperperare”. Il giornale cita anche gli investimenti pubblici “tagliati di un terzo dal 2010 al 2015”, così come “si sono rimpicciolite le spese per l’istruzione e la pubblica amministrazione”. Insomma: “Dolce vita? Stupidaggini. Gli investimenti pubblici dal 2010 in Italia sono calati del 40%. Un vero e proprio collasso”. Questo mentre in Germania, la spesa pubblica “è cresciuta quasi del 20%”, ossia “lo Stato spende a testa un quarto di più di quello che spende in Italia. Il che in queste settimane si percepisce dolorosamente”. Una situazione che con l’attuale crisi da pandemia del coronavirus si tramuta “in un dramma incredibile”: “In Italia sono mancati i posti letto e sono morte tante persone che oggi forse potrebbero essere ancora in vita. Non è direttamente colpa dei politici tedeschi, ovvio. Ma sarebbe ben giunto il tempo di smettere con folli lezioncine, e di contribuire a far piazza pulita delle cause del disastro, caro signor Schaeuble (già ministro alle Finanze negli anni più caldi dell’eurocrisi, ndr). O di dire “scusateci” almeno una volta”. E invece “con assoluta serietà” si continua ancora a parlare della “dipendenza da credito” degli italiani, continua lo Spiegel. “Ma anche qui, un piccolo suggerimento fattuale: i debiti privati, commisurati al Pil, in quasi nessun Paese dell’Ue sono così bassi come in Italia”. Infine: “È giunta finalmente l’ora di mettere fine a questo dramma, e magari proprio con gli eurobond, quali simbolo della comunità del destino della quale comunque facciamo parte sin da quando abbiamo una moneta comune”, conclude Fricke. “Ancora i tedeschi hanno tempo di raddrizzare la curva dopo le contorte settimane scorse: altrimenti l’Unione europea nel giro di qualche anno non sarà più un’unione. In Italia come in Francia arriveranno al potere delle persone che, come adesso già fanno Donald Trump o Boris Johnson, non hanno nessuna voglia di stare al gioco: quel gioco sul quale la Germania da decenni costruisce il proprio benessere”.
Paolo Valentino per corriere.it il 2 aprile 2020. Questa mattina ci siamo svegliati con la sorpresa di una intera pagina della «Bild Zeitung» dedicata all’Italia, il «Paese più colpito dal Coronavirus». Una pagina affettuosa, sin dal titolo e dall’incipit: «Siamo con voi», «Piangiamo insieme a voi i vostri morti». Una manifestazione di empatia forte e fraterna. «Vi siamo vicini in questo momento di dolore perché siamo come fratelli». E poi un’affermazione sorprendente: «Ci avete aiutato a far ripartire la nostra economia». La parte centrale è un po’ più banale. Il solito elenco di luoghi comuni: il tiramisù, Rimini, Capri, la Toscana, Umberto Tozzi e, per quelli più raffinati, Paolo Conte. La voglia di emulazione, inseguendo la «vostra rilassatezza, bellezza, passione». La bravura nel cucinare, la pasta, il Campari, la dolce vita, manca solo il mandolino. «Per questo vi abbiamo sempre invidiato». Come se in Italia nessuno lavorasse. Mai. «Ora vi vediamo lottare, vi vediamo soffrire», prosegue la Bild ricordando che anche in Germania «la situazione è difficile». Il finale è in crescendo: «Siete sempre nei nostri pensieri. Ce la farete. Perché siete forti. La forza dell’Italia è donare l’amore agli altri». L’arrivederci conclusivo è il trionfo dello stereotipo: «Ciao Italia, ci rivedremo presto, a bere un caffè, o un bicchiere di vino rosso. In vacanza oppure in pizzeria». L’ho riletta ancora una volta. C’è qualcosa che non funziona: «Ce la farete. Perché siete forti». Cioè da soli. Nessun accenno alla solidarietà che si deve ai fratelli, cui pure la «Bild» riconosce di aver aiutato la Germania a far ripartire la sua economia. Nessun accenno alla minaccia contro la nostra casa comune, l’Europa. Nessun accenno alla necessità che siano i fratelli più ricchi a dover aiutare quelli più poveri. Possiamo dirlo? Con tutto il rispetto, è una pagina ipocrita e pelosa, una vergognosa manifestazione di egoismo, l’ennesima dimostrazione che la «Bild» e l’europeismo stanno ai poli opposti. Non ci stupiamo. Era già successo nella crisi economica, quando secondo la «Bild» i greci volevano pagarsi i loro vizi con i risparmi dei pensionati tedeschi e invece i soldi di tutta l’Europa servirono soprattutto rimborsare i crediti spericolati delle banche tedesche. Ed era già successo durante la crisi degli immigrati, quando la «Bild» accusava i Paesi del Sud di aprire le porte ai nuovi barbari. Di queste manifestazioni di affetto facciamo volentieri a meno. Per fortuna, la «Bild Zeitung» non è (tutta) la Germania, da cui in questi giorni riceviamo dimostrazioni concrete di solidarietà e di aiuto. Ma da cui presto ci aspettiamo chiarezza sulla madre di tutte le questioni: la garanzia finanziaria a tutela del mercato unico e dell’economia Europa. Il resto sono chiacchiere banali. Come dice Juergen Habermas, «se il Nord non aiutasse il Sud, perderebbe non solo sé stesso, ma anche l’Europa». Ma di questo la «Bild Zeitung» non sembra avere alcuna contezza.
Virus, gli intellettuali tedeschi e i leader anti-Merkel vogliono i coronabond. Le firme di Habermas, Schneider e von Trotta compariranno sul numero di domani del settimanale die Zeit e saranno a favore dei "fratelli e delle sorelle del Sud". Intanto a Bruxelles si lavora perché arrivino ai capi di Stato e di governo un "ventaglio" di proposte. Giovanna Pavesi, Mercoledì 01/04/2020 su Il Giornale. Alcuni delle voci più autorevoli tra gli intellettuali tedeschi contemporanei si sarebbe detto a favore dei coronabond, cioè una forma di obbligazione comune a tutto il gruppo di 27 Paesi per fornire risorse a un fondo comune di risposta alla crisi economica e finanziaria dovuta alla diffusione del coronavirus. A confermarlo, domani, saranno le loro firme, pubblicate sul settimanale Die Zeit, sul numero che uscirà in edicola. Tra i nomi, spiccano quelli del filosofo Juergen Habermas, dello scrittore Peter Schneider, dei registi Margarethe von Trotta e Volker Schloendorff, dell'ex ministro degli Esteri Joschka Fischer e dell'europarlamentare e saggista Daniel Cohn Bendit.
La motivazione degli intellettuali. Nell'appello firmato dagli intellettuali si legge che, nella "questione decisiva" della solidarietà, "i Paesi del Nord sono riluttananti nei confronti dei fratelli e delle sorelle del Sud". E ancora che il Nord "si rifiuta in modo rigido di dare il proprio assenso a un fondo garantito da tutti gli Stati dell'Unione europea attraverso il quale sarebbe possibile condividere l'immenso peso finanziario di questa crisi". Da lì, la decisione di raccogliere le firme a favore della misura.
I coronabond sul tavolo. Intanto, come spiegato ad Adnkronos da Brando Benifei, capodelegazione del Partito democratico nel Parlamento europeo, anche a Bruxelles, le forze politiche stanno lavorando perché sul tavolo dei capi di Stato e di governo dell'Ue arrivi un "ventaglio" di proposte per aiutare i Paese membri ad affrontare adeguatamente le conseguenze della crisi provocata dalla pandemia di Covid-19. Come confermato dal dem, i coronabond, cioè obbligazioni che forniscono una "rete di protezione" per le passività future e non per quelle pregresse, sono ancora uno strumento che "resta sul tavolo".
Le azioni. "Dobbiamo fare in modo che al Consiglio europeo, attraverso i passaggi che ci saranno, prima di tutto la riunione dei ministri delle Finanze, ci sia un ventaglio di proposte, che passi attraverso il lavoro delle forze politiche, della Commissione europea, in modo che non si escluda nulla", ha aggiunto Benifei. Che sostiene l'importanza di creare "un bouquet di azioni che vadano nella direzione di creare quella solidarietà e condivisione del rischio recessione e desertificazione economica e sociale". Perché, come sottolineato dal dem, il tema non riguarda un singolo Stato, ma la tenuta dell'Ue, nel momento in cui l'emergenza sanitaria sarà finita. Come sottolineato anche dall'eurodeputato Norbert Walter-Borjans e Saskia Esken, "i due vincitori del congresso dell'Spd hanno espresso una posizione favorevole ai coronabond".
La seconda banca tedesca ai suoi clienti: “Vendete i btp italiani, diventeranno spazzatura”. Redazione de Il Riformista il 2 Aprile 2020. La nota è arrivata da Commerzbank, la seconda banca della Germania, posseduta al 15% dallo Stato. Una comunicazione firmata dal responsabile di Strategia Michael Leister che ha subito scatenato delle reazioni. Gli analisti dell’istituto hanno infatti suggerito, secondo quanto riportato da Bloomberg, di vendere i Btp, i titoli di stato italiani prima che diventino, quasi “inevitabilmente”, titoli spazzatura. A causa dell’emergenza coronavirus, infatti, il rapporto debito-pil dell’Italia sfiorerà il 150% quest’anno per scendere al 145% nel 2022. “Ma questo potrebbe non bastare a prevenire un downgrade a junk”, è scritto nella nota di Michael Leister, responsabile Strategia tassi della Commerzbank. Quindi la perdita dell’investment grade nel Paese è “quasi inevitabile” in quanto le misure contro la pandemia “peggioreranno” i conti pubblici, si legge sempre nella nota della banca tedesca che ha un’esposizione di 9 miliardi e mezzo sui titoli sovrani italiani. La nota che esorta quindi a vendere i titoli che diventeranno molto probabilmente junk, “spazzatura”, ha provocato subito delle reazioni. In particolare di Stefano Buffagni, viceministro dello sviluppo economico. “In piena emergenza coronavirus, in piena pandemia mondiale, mentre l’Italia piange oltre 10.000 morti – ha scritto su Facebook Buffagno – la Germania non solo fa muro da settimane sugli aiuti all’Italia, ma ora secondo l’autorevole agenzia internazionale Bloomberg ci attacca anche direttamente invitando a vendere i Titoli di Stato italiani tramite la seconda banca di Germania, la Commerzbank, posseduta al 15% proprio dallo Stato tedesco … Questa notizia può provocare danni economici giganteschi, il governo tedesco intervenga subito per bloccare questa follia”. E poi Buffagni ha aggiunto un appello come molti se ne sono sentiti in questi giorni di emergenza. Una chiamata alla collaborazione e all’Europa unita, per fronteggiare la crisi e per salvare l’economia: “L’Europa e gli stati europei devono essere solidali. Tutti e con tutti. Nessuno si salva da solo. Non è questa l’Europa che ci meritiamo!”. Reagiscono alla nota della banca tedesca anche Emiliano Fenu ed Elio Lannutti, rispettivamente capigruppo M5S in Commissione Finanze del Senato e in Commissione d’inchiesta sulle banche. “Commerzbank, così come Deutsche Bank, dovrebbero soffermarsi maggiormente sulla valutazione dei loro bilanci, in cui sono iscritti titoli illiquidi, veri titoli spazzatura che non hanno alcun mercato – scrivono in una nota – Ma l’uscita di Commerzbank è tanto più inaccettabile se consideriamo che questa analisi potrebbe influenzare i comportamenti degli investitori che detengono i nostri titoli di Stato e se consideriamo che il primo azionista della banca, con il 15%, è proprio lo Stato tedesco. Non vorremmo si trattasse di un ricatto”.
Gianluca Zappa per startmag.it il 2 aprile 2020. La perdita dell’investment grade da parte dell’Italia è “quasi inevitabile” in quanto le misure per contrastare gli effetti del coronavirus “peggioreranno” i conti pubblici. Lo scrivono gli analisti di Commerzbank, secondo quanto riporta Bloomberg, suggerendo ai clienti di chiudere le posizioni lunghe, cioè vendere, i Btp. Per Commerzbank il rapporto debito-pil sfiorerà il 150% nel 2020 per scendere al 145% nel 2022 grazie al rimbalzo del Pil “ma questo potrebbe non bastare a prevenire un downgrade a junk”, si legge nella nota di Michael Leister, responsabile Strategia tassi della seconda banca tedesca. Dura la reazione del governo. “In piena emergenza coronavirus, in piena pandemia mondiale, mentre l’Italia piange oltre 10.000 morti, la Germania non solo fa muro da settimane sugli aiuti all’Italia, ma ora secondo l’autorevole agenzia internazionale Bloomberg ci attacca anche direttamente invitando a vendere i Titoli di Stato italiani tramite la seconda banca di Germania, la Commerzbank, posseduta al 15% proprio dallo Stato tedesco… Questa notizia può provocare danni economici giganteschi, il governo tedesco intervenga subito per bloccare questa follia”, ha scritto su Facebook il viceministro dello Sviluppo economico, Stefano Buffagni (M5S), che aggiunge: “L’Europa e gli stati europei devono essere solidali. Tutti e con tutti. Nessuno si salva da solo. Non è questa l’Europa che ci meritiamo!”. Commerzbank ha una esposizione per circa 9,5 miliardi di euro sui titoli sovrani italiani. Scrive il Sole 24 Ore oggi: “I report per i clienti, soprattutto quelli più facoltosi, sono un fatto usuale, e spesso le previsioni si spingono parecchio avanti. Ma quando c’è di mezzo la Germania, specie in un momento delicato sia sul fronte mercati (lo spread) che su quello politico (il negoziato sulle misure comuni a sostegno dei conti pubblici dei paesi Ue) le cose si complicano facilmente. Anche perché in una nota – e spesso il diavolo si annida nei dettagli – l’analista, che fa di nome Michael Leister, scrive che con l’Italia l’incubo dell’euro potrebbe diventare realtà”. Conclusione: “Fa effetto vedere scritta la parola “junk”, come se fosse un gioco di società, visto che si parla di Italia, e di una fenomeno che investe tutta l’Europa con tempistiche diverse, e che viene misurato con metodologie diverse, giusto per rimanere sulla Germania”.
La guerra della Germania all’Italia. Andrea Indini il 2 aprile 2020 su Il Giornale. Quando nel 2011, in seguito alla bolla dei mutui subprime negli Stati Uniti, esplose nel Vecchio Continente la crisi economica dei debiti sovrani, l’Italia si trovò sotto il fuoco incrociato dei partner europei (tedeschi e francesi soprattutto). Nel giro di appena un trimestre, come ricostruito dalla commissione di inchiesta sul sistema bancario e finanziario istituita alla Camera nel 2017, Deutsche Bank ridusse “massicciamente la propria esposizione al rischio Italia da circa 8 miliardi di euro a circa un miliardo di euro”. La disposizione fu data al desk di Londra affinché l’istituto tedesco traesse “beneficio” da un’operazione omicida che il Financial Times definì “una drammatica fuga degli investitori internazionali dalla terza economia dell’Eurozona”. Il risultato fu il crollo dei prezzi dei titoli di Stato italiano e la conseguente esplosione dello spread tra Btp e Bund. Anche oggi il nostro Paese è sotto attacco. E non solo dall’epidemia da coronavirus. Sin dai primi di marzo, quando ci trovammo a dover fronteggiare un’emergenza sanitaria senza precedenti, dalle cancellerie del Nord Europa non sono mancati i primi sgambetti. Dal rifiuto di inviare al Belpaese mascherine e respiratori si è presto passati all’attacco sui mercati finanziari e, ovviamente, negli uffici di Bruxelles. Il copione ricalca la crisi del 2011. Oggi come allora a orchestrare il tutto è ancora la Germania con Angela Merkel cancelliera. Non deve, quindi, stupire se, già lo scorso 18 marzo, Commerzbank ha chiuso tutte le posizioni lunghe sui titoli di Stato italiani e i suoi analisti hanno raccomandato ai propri clienti di vendere i Btp e di rafforzare le posizioni “tattiche a lungo termine” sul debito di Berlino. Per l’istituto di Francoforte, che è posseduto per il 15% dallo Stato tedesco e ha una esposizione di circa 9,5 miliardi di euro sui nostri titoli sovrani, la perdita dell’investment grade da parte dell’Italia è “quasi inevitabile” e porterà i Btp a essere classificati come “spazzatura”. Per il momento, però, la partita più dura si gioca in Europa. È lì, infatti, che si sta consumando un violento braccio di ferro tra chi, come l’Italia, chiede una maggiore flessibilità e chi, come appunto la Germania, pretende il rispetto del rigore. E, sebbene l’accesso ai soldi del Fondo salva Stati a stento potrebbe risolvere l’emergenza economica (si tratta di appena 410 miliardi di euro per una crisi che potrebbe drenare ben più energie), il dibattito svela ancora una volta l’intenzione dei tedeschi di schiacciare i propri partner. L’ultima strada che gli sherpa stanno battendo in vista dell’eurogruppo di martedì prossimo è una versione light del Mes. Per intenderci non più “condizionalità” lacrime e sangue come quelle imposte alla Grecia, ma delle garanzie più leggere. “Senza condizionalità eccessive”, propongono i francesi. “I finanziamenti non sarebbero soggetti ai ‘rigidi requisiti’ di riforme strutturali e riduzione della spesa pubblica attualmente previsti dal Mes – fanno eco i tedeschi – l’unica condizione sarebbe impiegare i prestiti per combattere la crisi del coronavirus”. L’indebitamento, però, resta. Ed è su questo che si gioca tutta la partita. Perché, prima o poi, la presidente della Commissione Ue, Christine Lagarde, reintrodurrà il patto di stabilità e a quel punto i tedeschi faranno di tutto per far scattare i vecchi vincoli che gravano sui conti pubblici in rosso come il nostro. “La politica – ha messo in guardia il presidente della Bundesbank, Jens Weidmann – non deve ritenersi scaricata dalla responsabilità”. Quest’anno, secondo il report di Michael Leister, il responsabile Strategia tassi di Commerzbank, il rapporto debito-pil in Italia arriverà a sfiorare il 150% e, nonostante il leggero rimbalzo che avverrà nei prossimi due anni, niente riuscirà a prevenire il “downgrade a junk” dei titoli di Stato da parte delle agenzie di rating. Un film già visto, dunque. Che fa apparire oltremodo fuorvianti le accuse di una certa stampa tedesca. “A Roma è tornato l’orribile tedesco”, dicono. Ma a Bruxelles non è mai andato via.
DAGONOTA l'1 aprile 2020. La rigidità di Mark Rutte nei confronti dell’Italia e degli Eurobond, soprattutto in questo momento drammatico, sta causando qualche scricchiolio in casa al premier olandese. Due dei quattro partiti che appoggiano il suo governo – come ha riportato il “Financial Times” – hanno chiesto ai Paesi Bassi di sostenere l’emissione di debito collettivo in risposta alla pandemia di Coronavirus. “L’Italia è in rovina e per quanto mi riguarda, il primo messaggio da dare sarebbe ‘ti aiuteremo’”, ha detto Gert-Jan Segers, leader dell’Unione Cristiana, mentre il liberale Rob Jetten ha avvertito che “non prendere in considerazione tutte le possibili soluzioni sarebbe la peggior forma di rigidità ideologica". Pure la banca centrale ha preso le distanze da Mark Rutte. Non sono soli, nelle ultime ore si stanno moltiplicando gli appelli dell’establishment politico e economico olandese affinché il paese riconsideri il veto sulla mutualizzazione del debito dell’Eurozona, e magari anche l’alleanza – finora inossidabile – con la Germania contro il federalismo fiscale. Federalismo dal quale però l’Aia si avvantaggia molto, come ha fatto presente pure Conte nell’intervista al De Telegraaf: “L’Olanda si avvantaggia molto del contributo delle imprese italiane”.
Intervista a De Telegraaf 01/04/2020. Maarten van Aalderen per “De Telegraaf”. Tradotta e pubblicata sulla pagina Facebook di Giuseppe Conte. Sembra che gli ultimi giorni ci sia stata quasi una guerra tra l’Olanda e l’Italia, dopo il rifiuto netto da parte dell’Olanda riguardo alla domanda di introdurre eurobonds collettivi. Il premier italiano Giuseppe Conte ritiene che non si debba assolutamente parlare di ostilità tra il suo paese e l’Olanda. In una intervista esclusiva con De Telegraaf dice che, anche oggi, ha un rapporto personale eccellente con il premier Rutte. Ma il premier italiano rimane convinto dell’importanza dell’introduzione di eurobond - Conte preferisce parlare di european recovery bonds -, per contrastare la grande crisi internazionale che è stata causata dal coronavirus.
Perché l’Italia è arrabbiata con l’Olanda?
«Non credo che sia una questione di arrabbiatura dell’Italia con l’Olanda o del popolo italiano con il popolo olandese. Molti italiani non comprendano però la resistenza da parte delle autorità olandesi ad affrontare questa crisi - che è una crisi epocale, una crisi sanitaria, economica e sociale ad un tempo – che per questo richiede una reazione forte, immediata, rigorosa ed efficace, da coordinare a livello europeo. L’Italia si è trovata in trincea con la Spagna, ma è chiaro che è una battaglia che riguarda tutti. Lo dimostra anche il numero dei contagi che crescono ovunque. Quindi l’effetto recessione si verificherà pressoché ovunque».
L’Olanda, secondo lei, ha una posizione più rigida rispetto agli altri paesi nordici?
«Non mi sento di distinguere e di entrare nei dettagli delle singole sensibilità. L’Italia non sta in questo momento chiedendo ai cittadini olandesi di pagare il debito italiano. Non chiediamo neanche un euro ai contribuenti olandesi. In un mercato comune l’Europa deve poter agire in modo solidale ed efficace, perché è impensabile che qualcuno possa giovarsi di questa crisi. La stiamo subendo tutti, quindi abbiamo tutti l’interesse a fronteggiarla in modo coerente e unitario. E questa unità deve iniziare con le misure di contenimento del contagio. Tutti le dobbiamo contemporaneamente adottare, in modo severo e rigoroso. Siccome siamo al fronte, se uno stato membro non dovesse adottare misure severe e rigorose, il nemico invisibile dilagherebbe e sarebbe gravissimo danno per tutti. E nessuno Stato membro deve rimanere esposto al rischio di un contagio di ritorno. L’Italia in questo momento sta pagando un prezzo economico molto alto, ma lo sta facendo per uscire quanto prima da questo stato di emergenza. Immaginate cosa significherebbe per l’Italia, dopo aver pagato un prezzo così alto dal punto di vista economico e sociale, subire un contagio di ritorno, perché altri stati membri non hanno adottato misure altrettanto severe e rigorose. L’Italia pagherebbe un doppio prezzo».
Molti olandesi hanno l’impressione di dover pagare sempre per il Sud. Perché sbagliano?
«L’Italia ha sempre pagato il proprio debito. Non ha mai chiesto un euro agli altri. Vorrei ricordare che l’Italia è la terza economia dell’Europa, la seconda manifattura dell’Europa, è una potenza del G7 e l’Italia sa fare i compiti a casa. Dal 2011 il nostro avanzo primario è stato positivo, superiore al 1,7% del pil di media. Vorrei anche ricordare che il 2019 si è chiuso con un rapporto deficit pil pari all’1,6%, mentre l’obiettivo programmato era il 2,2%. In Italia, da quando sono Presidente del consiglio, stiamo realizzando poderose riforme strutturali, per consentire al Paese di correre meglio e più velocemente. L’Italia non solo non chiede un euro ai contribuenti olandesi per pagare il proprio debito. Ma l’Olanda è anche tra i paesi che si avvantaggiano molto del contributo delle imprese italiane. Perché molte grandi imprese che pure hanno i principali stabilimenti in Italia e ricavano i maggiori profitti nel nostro Paese poi beneficiano della legislazione fiscale olandese, molto più conveniente. Quindi i cittadini olandesi non hanno motivi di pensare che il rapporto con l’Italia li veda svantaggiati economicamente né devono temere di dover pagare i debiti italiani».
Perché secondo lei è il MES non è uno strumento sufficiente?
«Il MES è uno strumento che è stato elaborato in tutt’altro contesto, con regole costruite per rispondere e reagire a shock asimmetrici. Ma qui si tratta di uno tsunami, che si abbatte simmetricamente sul piano economico e sociale su tutti i paesi europei. Non è quindi una crisi che origina da tensioni finanziarie di singoli paesi. Nessun paese può essere considerato responsabile di questa crisi. Per questa ragione il MES non può essere lo strumento per offrire quella reazione europea, rigorosa e coordinata, di cui abbiamo bisogno. L’Europa deve competere nello spazio globale. Deve competere con gli Stati Uniti, che hanno stanziato 2000-2300 miliardi, stiamo parlando di circa il 10% del pil, deve competere con la Cina. Se l’Europa si muove in una logica di singoli stati membri, di strumenti modesti che sono nati per ben altre e più modeste situazioni critiche, l’Europa non potrà mai competere a livello globale. Gli european recovery bond sono il modo migliore per rispondere, anche per i cittadini olandesi. Anche loro hanno bisogno di garanzie e di sentirsi protetti in una situazione del genere. Immaginate quali conseguenze potrà avere questa recessione sulle infrastrutture olandesi e quale impatto potrà avere quanto alla circolazione delle merci. In Europa abbiamo catene del valore fortemente integrate, basta che salti un anello e l’intera catena ne risente. Siamo di fronte a uno tsunami che riguarda tutti».
Il premier Rutte non vuole subito mettere miliardi, ma prima vedere come si evolve la situazione. Perché c’è fretta?
«Vedo che c’è un dibattito in corso in Olanda e non tutti i rappresentanti delle istituzioni la pensano allo stesso modo. Non perdiamo questo appuntamento con la storia. La storia ci sta chiamando. È un appuntamento che richiede da parte nostra di ricorrere a strumenti straordinari, eccezionali, finalizzati esclusivamente a uscire quanto prima da questa recessione. Anche le buone risposte, se dovessero giungere tardi, si riveleranno inutili. Dobbiamo evitare di ritrovarci a dire: ecco, finalmente abbiamo trovato la terapia, per poi scoprire che il paziente è morto».
Paolo Valentino per il “Corriere della Sera” il 2 aprile 2020. Alla Farnesina la chiamano «la legge del Fracassi». Il copyright è dell' ambasciatore Guglielmo Folchi, che la formulò agli albori della costruzione europea, quando tutto era nuovo e spesso i nostri inviati alla neonata Cee non avevano indicazioni da Roma sulla posizione da assumere. La versione pop faceva rima appunto con Fracassi e suonava così: «Nel dubbio in c ai Paesi Bassi». In quella aulica, ai giovani diplomatici in partenza per Bruxelles veniva detto: «Se non avete istruzioni, fate parlare l' olandese e poi prendete la posizione diametralmente opposta». Sembra sia ancora in vigore. Ma specularmente anche all' Aja, alla luce della durezza e del piglio con cui il primo ministro dell' Olanda, Mark Rutte, si è intestato l' opposizione ai «coronabond» e a ogni mutualizzazione del debito per combattere le conseguenze economiche del Covid-19, uno choc devastante che non sta risparmiando nessuno. Neppure l' Olanda, dove i contagi sono saliti a 14 mila e i decessi a 1.200. Rutte ha sguinzagliato anche il ministro conservatore delle Finanze, Wopke Hoekstra, che ha addirittura proposto a Bruxelles un' indagine europea sul perché alcuni Paesi dell' Unione, leggi l' Italia, non hanno usato la crisi del 2008 per risanare le proprie finanze. Propositi che il premier portoghese Antonio Costa ha bollato come «disgustosi» e «privi di senso» in questa tragedia. Eppur qualcosa si muove perfino nell' arcigno atteggiamento olandese. Non tanto perché Hoekstra, bontà sua, ha ammesso che i suoi commenti erano «poco empatici». Quanto perché una vistosa lacerazione comincia a manifestarsi all' interno stesso della coalizione quadripartita che governa l' Olanda. «L' Italia è a pezzi. Per quanto mi riguarda il primo messaggio dovrebbe essere: vi aiutiamo», dice Gert-Jan Segers, leader dell' Unione cristiana, uno dei partiti che sostengono il governo, proponendo un Piano Marshall per il Sud dell' Europa. «Questo approccio da piccoli contabili rischia di causare un disastro diplomatico», avverte Rob Jetten, capo dei liberali di D66, anch' essi nella maggioranza. Jetten spiega che l' Olanda è «diventata ricca grazie all' Ue e ora che posti di lavoro e redditi sono a rischio in tutta l' Europa a causa del coronavirus, non possiamo lasciare affondare i nostri amici: solo insieme possiamo sopravvivere». Anche l' establishment sembra molto più avanti del primo ministro. Lo stesso governatore della Banca centrale, Klaas Knot, ha espresso una critica, paludata, ai rifiuti di Rutte. «È un test per l' eurozona. Se guardiamo a cosa succede in Italia e Spagna, l' appello alla solidarietà è straordinariamente logico». Secondo Knot, la solidarietà può assumere sia la forma degli eurobond, che quella di linee di credito senza condizioni attraverso il Meccanismo europeo di stabilità. Meno diplomatico il suo predecessore, Nout Wellink: «Se l' intero Sud collassa, il ricco Nord cessa di esistere». L' opposizione è sugli scudi. «Il governo manda il segnale sbagliato e non si rende conto che questa crisi non ha precedenti», accusa il leader del Partito del Lavoro, Lodewijk Asscher. Rutte non arretra. Anche se nelle ultime ore sembra aver moderato i toni e l' arroganza. Ma sui coronabond difficilmente concederà nulla. A meno che da Berlino, dove la discussione impazza, non venga un segnale che l' Aja difficilmente potrebbe ignorare. Per il momento, la legge del Fracassi spiega ancora bene la posizione olandese.
Paolo Valentino per il “Corriere della Sera” il 2 aprile 2020. «Se il Nord non aiutasse il Sud, perderebbe non solo sé stesso ma anche l' Europa». È l' appello lanciato sulle pagine di Die Zeit da un gruppo di politici e intellettuali tedeschi, che propone la creazione di un «CoronaFonds», un fondo speciale gestito dalla Commissione e in grado di indebitarsi a lungo termine sui mercati internazionali. Da questo polmone finanziario verrebbero i trasferimenti ai Paesi che ne hanno necessità, in tal modo senza bisogno di aumentare il loro debito nazionale. «L' Europa può sopravvivere solo se gli europei si sosterranno gli uni con gli altri», recita il testo firmato fra gli altri dal filosofo Jürgen Habermas, dall' ex ministro degli Esteri Joschka Fischer, dal leader verde Daniel Cohn-Bendit, dai registi Volker Schlöndorff e Margarethe von Trotta, dallo scrittore Peter Schneider. L' appello, pubblicato oggi sul settimanale, definisce «inconcepibile» che la cancelliera Merkel e il vicecancelliere Olaf Scholz nutrano ancora riserve verso «un passo così necessario per la solidarietà europea». Occorre ora e adesso «trovare i modi per dimostrare che apparteniamo alla stessa cosa e siamo legati dalla stessa magia», recita il testo facendo riferimento alle parole dell' Inno alla Gioia di Beethoven, che è l' inno europeo. «A che serve l' Europa se al tempo del coronavirus non mostra che gli europei sono uniti e lottano per un futuro comune?». Gli autori, «amanti della cultura mediterranea», ricordano la solidarietà che si registra in tutta l' Unione, dove i Land tedeschi curano pazienti italiani e francesi e migliaia di giovani si offrono volontari per aiutare gli anziani. «C' è un clima nuovo, ma nella cosa decisiva i Paesi del Nord rimangono prudenti verso i fratelli e le sorelle del Sud: si rifiutano di offrire una garanzia collettiva, che potrebbe allentare il peso finanziario della crisi, di fronte a uno choc che colpisce tutti i Paesi membri e che per alcuni di essi è letale a causa degli alti livelli di debito precedenti». Ma «in questa crisi, tutti noi europei siamo sulla stessa barca».
Testo di Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea, pubblicato da “la Repubblica” il 2 aprile 2020. L’Italia è stata colpita dal coronavirus più di ogni altro Paese europeo. Siamo testimoni dell' inimmaginabile. Migliaia di persone sottratte all' amore dei loro cari. Medici in lacrime nelle corsie degli ospedali, col volto affondato nelle mani. Un Paese intero - e quasi un intero continente - chiuso per quarantena. Ma il Paese colpito più duramente, l'Italia, è diventato anche la più grande fonte di ispirazione per noi tutti. Migliaia di italiani - personale medico e volontari - hanno risposto alla chiamata del governo e sono accorsi ad aiutare le regioni più colpite. Le industrie della moda ora confezionano mascherine protettive, i produttori di amaro imbottigliano disinfettante per mani. La musica dai balconi ha riempito le strade deserte - scaldando i cuori di milioni di persone. Gli italiani stanno dimostrando la loro solidarietà reciproca nella quotidianità con migliaia di piccoli gesti - allo stesso tempo discreti ed eroici. E solo la solidarietà può farci riemergere da questa crisi - quella tra persone come quella tra Stati. Oggi l' Europa si sta mobilitando al fianco dell' Italia. Purtroppo non è stato sempre così. Bisogna riconoscere che nei primi giorni della crisi, di fronte al bisogno di una risposta comune europea, in troppi hanno pensato solo ai problemi di casa propria. Non si rendevano conto che possiamo sconfiggere questa pandemia solo insieme, come Unione. È stato un comportamento dannoso e che poteva essere evitato. In questi giorni la distanza tra individui è fondamentale per la nostra sicurezza: la distanza tra nazioni europee, al contrario, mette tutti in pericolo. Nel frattempo però l' Europa ha cambiato passo. Abbiamo fatto tutto il possibile per portare i Paesi europei a ragionare come una squadra e assicurare una risposta coordinata a un problema comune. E abbiamo visto più solidarietà qui in Europa che in qualsiasi altra parte del mondo. Nell' ultimo mese, la Commissione europea non ha lasciato nulla di intentato per aiutare l' Italia. Grazie alla nostra azione, 25 Paesi europei hanno unito le forze e hanno spedito milioni di mascherine in Italia e in Spagna, per la protezione di tutti e in particolare degli operatori sanitari. Abbiamo tenuto aperto il Brennero e gli altri valichi di frontiera, assicurando il flusso di merci che è la linfa della nostra economia. Abbiamo aiutato a rilocalizzare la produzione di materiale sanitario qui in Europa. Abbiamo finanziato la ricerca per un vaccino. Abbiamo sospeso alcune regole per dare al governo italiano lo spazio di manovra necessario ad agire rapidamente e con forza. Abbiamo convogliato miliardi di investimenti alla lotta contro il virus ed i suoi effetti. E continueremo a fare ancora di più. Ieri la Commissione europea ha annunciato una nuova iniziativa economica, una "cassa integrazione europea". In questo momento, milioni di italiani non hanno la possibilità di lavorare - ma non per questo possono smettere di pagare le bollette o di fare la spesa. Le aziende continuano a pagare gli stipendi anche se l' attività è ferma - dalle imprese edili agli alberghi rimasti vuoti, dalle grandi industrie agli artigiani. Migliaia di aziende forti e in salute si trovano in difficoltà a causa del coronavirus. Hanno bisogno di un sostegno per superare la crisi attuale: l' Europa sta intervenendo in loro aiuto. Esistono già strumenti a livello nazionale per aiutare i lavoratori e le aziende in tempi di crisi, ma la situazione attuale sta mettendo a dura prova le finanze dei Paesi europei. L' Europa vuole dare una mano, stanziando nuove risorse per finanziare la cassa integrazione. L' Unione stanzierà fino a cento miliardi di euro in favore dei Paesi colpiti più duramente, a partire dall' Italia, per compensare la riduzione degli stipendi di chi lavora con un orario ridotto. Questo sarà possibile grazie a prestiti garantiti da tutti gli Stati membri - dimostrando così vera solidarietà europea. Tutti i Paesi membri contribuiranno a rendere possibile questo nuovo strumento, che si chiama "Sure". Aiuterà lavoratori e impiegati, aiuterà le aziende e sarà una boccata d' aria fresca per le finanze pubbliche italiane. Questo sostegno europeo alla cassa integrazione aiuterà a salvare posti di lavoro - anche in un momento di minore attività. Quando la quarantena sarà finita, e la domanda e gli ordinativi torneranno a crescere, quelle stesse persone potranno tornare a lavorare a tempo pieno. E questo è fondamentale per far ripartire al più presto il motore dell' economia europea. Questa iniziativa fa parte di un pacchetto più ampio. Ieri abbiamo anche proposto che ogni euro ancora disponibile nel bilancio annuale dell' Unione europea venga speso per affrontare la crisi. Aiuteremo agricoltori e pescatori, che ogni giorno danno da mangiare al nostro continente. Allo stesso tempo, la Banca europea di investimenti sta aiutando le imprese europee - in particolare le piccole e medie - a trovare i finanziamenti di cui hanno bisogno in questa situazione di emergenza. Questa crisi è una prova per l' Europa. E non possiamo permetterci di fallire. Le decisioni che prendiamo oggi verranno ricordate per anni. Daranno forma all' Europa di domani. Credo che l' Europa possa riemergere più forte da questa situazione, ma dobbiamo prendere le decisioni giuste - qui ed ora. Abbiamo già intrapreso alcune azioni coraggiose. Molte altre saranno ancora necessarie. Preferiremmo tutti vivere tempi più facili. Ma oggi quello che possiamo decidere è come reagire. Ho in mente un' Europa fondata sulla solidarietà - la nostra più grande speranza e il nostro investimento in un futuro comune.
Conte a Von der Leyen: “Sento idee non degne di Europa”. Lavinia Nocelli il 03/04/2020 su Notizie.it. Giuseppe Conte risponde alla lettera di Ursula Von der Leyen: "Solo se avremo coraggio potremo farcela contro il coronavirus". Il premier Giuseppe Conte risponde alla lettera di scuse di Ursula Von der Leyen pubblicata su Repubblica martedì 1 aprile. “Solo se avremo coraggio, potremo ricordare il 2020 non come l’anno del fallimento del sogno europeo ma della sua rinascita”. La lettera di scuse di Ursula Von der Leyen pubblicata su Repubblica ha sortito il suo effetto. Nella sua efficacia ed essenzialità è servita a restituire quella vicinanza e unità che nell’Europa intera mancava nelle ultime settimane, nonostante ancora ci sia molto – tanto – da lavorare, per uscire dalla crisi attuale e quella futura, che aspetta al varco scaldandosi le mani. A Ursula, sempre dalle pagine di Repubblica, ha risposto il Premier Giuseppe Conte, che non ha mancato prontamente di ricordare le emergenze attuali: “Cara Ursula, ho apprezzato il sentimento di vicinanza e condivisione che ha ispirato le parole con cui ieri, dalle pagine di questo giornale, ti sei rivolta alla nostra comunità nazionale e, in particolare, al nostro personale sanitario, che, con grande sacrificio e responsabilità, è severamente impegnato nel fronteggiare questa emergenza. Le tue parole sono la prova che la determinazione degli italiani ha scosso le coscienze di tutti, travalicando i confini nazionali e ponendo la riflessione oggi più urgente: cosa è disposta a fare l’Europa non per l’Italia, ma per se stessa”. Conte ricorda che quanto stiamo vivendo oggi necessita una risposta straordinaria e univoca, chiedendo un salto di qualità: da unione economica a una sociale e politica. Una sfida cui risposta non si trova nei manuali d’economia, ma che necessità di essere scritta con la storia, grazie alle manovre e i sacrifici che si stanno compiendo. “Accogliamo con favore la proposta della Commissione europea di sostenere, attraverso il piano “Sure” da 100 miliardi di euro, i costi che i governi nazionali affronteranno per finanziare il reddito di quanti si trovano temporaneamente senza lavoro in questa fase difficile. È una iniziativa positiva, poiché consentirebbe di emettere obbligazioni europee per un importo massimo di 100 miliardi di euro, a fronte di garanzie statali intorno ai 25 miliardi di euro”. Iniziativa che, ricorda Conte, non basta, poiché per la sicurezza dell’occupazione del Paese e dei lavoratori, si necessita di molto di più.
La proposta di Conte. Conte parla di guerra, termine sbeffeggiato da molti dall’inizio della pandemia, ma in questo caso utile a sottolineare la gravità della situazione. “Nei giorni scorsi ho lanciato la proposta di un’European Recovery and Reinvestment Plan. Si tratta di un progetto coraggioso e ambizioso che richiede un supporto finanziario condiviso e, pertanto, ha bisogno di strumenti innovativi come gli European Recovery Bond: dei titoli di Stato europei che siano utili a finanziare gli sforzi straordinari che l’Europa dovrà mettere in campo per ricostruire il suo tessuto sociale ed economico”. Titoli che non sono da condividere con il debito che ogni Stato porta con sé, o alla quale altri Paesi dovranno far fronte: “Piuttosto, di sfruttare a pieno la vera “potenza di fuoco” della famiglia europea, di cui tutti noi siamo parte, per dare vita a un grande programma comune e condiviso di sostegno e di rilancio della nostra economia, e per assicurare un futuro degno alle famiglie, alle imprese, ai lavoratori, e a tutti i nostri figli”. Basta quindi a strumenti inadeguati, ricorda Conte, rispetto ai veri scopi da perseguire, che vanno oltre i comportamenti dei singoli Stati. Una sfida che riguarda tutti e dove tutti si trovano sulla stessa barca: remare per portare in salvo tutti i Paesi. Conclude Conte: “Le decisioni che prendiamo oggi verranno ricordate per anni. Daranno forma all’Europa di domani”, hai scritto ieri nel tuo intervento. Sono pienamente d’accordo. Il 2020 sarà una data spartiacque nella storia dell’Unione europea. Ciascun attore istituzionale sarà chiamato a rispondere, anche ai posteri, delle proprie posizioni e del proprio operato. Solo se avremo coraggio, solo se guarderemo davvero il futuro con gli occhi della solidarietà e non col filtro degli egoismi, potremo ricordare il 2020 non come l’anno del fallimento del sogno europeo ma della sua rinascita”.
Federico Fubini per il “Corriere della Sera” il 5 aprile 2020. I leader dell' area euro si erano scambiati critiche e accuse e nove giorni dopo i loro ministri finanziari restano lontani da un accordo. Nel frattempo, sul loro territorio comune Covid-19 ha ucciso almeno altre 25 mila persone. In queste ore si succedono le riunione riservate fra gli sherpa dei governi e fra i ministri stessi ma, più che una rottura, si profila il più tradizionale dei processi politici europei nel pieno di un' emergenza eccezionale: scambi di «non paper» (piani informali) redatti in un inglese improbabile, rimandi ai codici, e una partita che comunque proseguirà mentre l'epidemia divampa e l'ibernazione di milioni di imprese continua a devastare l'economia. È già certo che l'incontro dei ministri finanziari dell'area euro fra due giorni produrrà solo «proposte», delle quali nessuno ha l'appoggio di tutti i governi. Alcuni ne esigeranno certe che altri troveranno tossiche. Per la Germania lo è qualunque nozione di «eurobond», emissioni di debito solidale europeo proposte da Italia e Francia, proprio ora che la Cdu della cancelliera Angela Merkel torna a salire nei sondaggi (al 37%) e vede sgonfiarsi l'estrema destra dell' AfD (9%). Per l'Italia impraticabile resta invece l'opzione attualmente sul tavolo di un ricorso al Mes anche perché - gli altri europei lo hanno capito - la Lega e parte dei 5 Stelle hanno fatto del fondo salvataggi europeo un simbolo politicamente radioattivo. Solo parte dello sforzo sarà dunque sulla sostanza. Serve un impegno europeo di indebitamento sui mercati e spesa fra i 600 e gli 800 miliardi di euro - stima italiana, ma ben compresa da tutti - per una cintura di sicurezza che permetta di affrontare almeno i prossimi sei mesi; per ora quella soglia resta lontana. Ma l'altra parte servirà una massiccia dose dell'arte bruxellese di salvare la faccia a tutti. Non è mai stato così difficile. Martedì l'intero pacchetto rimbalzerà ancora una volta dai ministri finanziari ai capi di Stato e di governo, che si riuniranno subito dopo Pasqua. Su quella lista di idee si consuma oggi una partita nella quale la carta decisiva non è in mano dell'Italia, né della Germania. È della Francia. Parigi ha l'ago della bilancia e da un paio di giorni tiene sul tavolo un documento con quattro proposte «in parallelo» che il governo di Roma nel complesso accetta. La prima riguarda un uso del Mes molto lontano dai modelli della Troika di un decennio fa: da un pacchetto da 240 miliardi di euro, per i governi il solo obbligo sarebbe spendere quei prestiti decennali solo per investimenti legati a Covid-19, senza vere analisi di sostenibilità del debito ripetute nel tempo che possano portare il Mes a imporre sul Paese debitore un default pilotato o strette di bilancio forzate. Su questo punto però la Germania fa sapere che accetta di evitare «condizioni restrittive» a carico Paesi debitori solo «nella misura del possibile». Non a caso la bozza di compromesso oggi sul tavolo contiene un dettaglio che fa inorridire i negoziatori di Roma: una volta preso un prestito del Mes, un Paese sarebbe soggetto nel tempo a «review» («revisioni») successive che potrebbero stringere sempre di più su di esso il corsetto dei creditori. Sempre la Francia propone un cofinanziamento del sussidio di disoccupazione con trasferimenti europei diretti ai Paesi (per Berlino invece lo si farebbe tramite prestiti vigilati dal Mes); Parigi immagina poi che la Banca europea degli investimenti garantisca più di duecento miliardi di debiti delle imprese, mentre Berlino non vuole che siano più di 50: entrambe somme piccole, a fronte di crediti bancari alle imprese in area euro per circa 5.500 miliardi di euro. Ma soprattutto c'è la pietra del contendere: la Francia propone un fondo finanziato con bond europei a responsabilità congiunta fra i Paesi («joint and several») che investa per cinque o dieci anni nella ricostruzione industriale in Europa. L'Italia chiede che queste emissioni di debito si lancino a lunghissimo termine (25-30), a tassi bassissimi e entro pochi mesi. Merkel per ora non vuol sentire neanche parlare di idee del genere, mentre Roma minaccia di bloccare qualunque accordo se questo punto mancasse. Così i giorni passano. E in attesa che gli europei capiscano che non hanno alternative a un accordo, anche imperfetto, il virus prosegue il suo tremendo lavoro.
(ANSA il 16 aprile 2020) - "E' vero che molti erano assenti quando l'Italia ha avuto bisogno di aiuto all'inizio di questa pandemia. Ed è vero, l'Ue ora deve presentare una scusa sentita all'Italia, e lo fa. Ma le scuse valgono solo se si cambia comportamento. C'è voluto molto tempo perché tutti capissero che dobbiamo proteggerci a vicenda. Ma ora è il cuore pulsante dell'Ue". Così la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, nel suo intervento al Parlamento europeo. "Abbiate coraggio di difendere l'Unione europea. Perché questa nostra Unione ci porterà" oltre la crisi. "E domani sarà forte nella misura in cui" ci impegniamo per lei oggi. "Se vi occorre ispirazione, guardate ai cittadini europei, che stanno insieme, con empatia, umiltà e umanità. Rendo omaggio a tutti loro". Così la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, nel suo intervento al Parlamento europeo. Sul fronte economico "l'Ue ha fatto più in queste ultime quattro settimane, di quanto non abbia fatto nei primi quattro anni dell'ultima crisi". Ha dato una risposta collettiva, mobilitando oltre "tremila miliardi di euro. Ma sappiamo che dovrà essere fatto molto di più, perché questa è una lunga strada e il mondo di domani sarà molto diverso da quello di ieri". Così la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, nel suo intervento al Parlamento europeo. "Il bilancio pluriennale europeo sarà la guida della ripresa. Sarà diverso da quanto immaginato. Ne useremo la potenza per fare leva per investimenti massicci che servono per far ripartire la nostra economia ed il mercato interno dopo il coronavirus. Anticiperemo" fondi "con un front loading per partire subito con gli investimenti". Così la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, nel suo intervento al Parlamento europeo. La pandemia è "simmetrica, ma la ripresa non lo sarà, perché lo shock economico di alcune regioni sarà maggiore di quello di altre, perciò la coesione e la convergenza saranno ancora più importanti del passato". Così la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, nel suo intervento al Parlamento europeo.
Germania, i colossi dell'auto a Merkel: "Sostegno a Italia o non riapriamo". I colossi dell'auto in Germania chiedono al governo di Angela Merkel pieno sostegno alle aziende del nostro Paese: senza la componentistica italiana non potranno riaprire. Roberto Vivaldelli, Domenica 05/04/2020 su Il Giornale. Le nazioni europee alle prese con l'emergenza sanitaria del Covid-19 che hanno sigillato i loro confini ora fanno i conti con un altro problema fondamentale: l'interdipendenza economica che rende difficoltosa - se non impossibile - la produzione di determinati prodotti. Questo vale anche per la nazione europea più ricca e potente, la Germania, e per il suo florido mercato automobilistico sinonimo di altà qualità: teutonico nel design e italianissimo nell'anima. Come riporta Il Messaggero in edicola, i colossi dell'auto come Volskwagen, Daimler (Mercedes) e Bmw, hanno chiesto alla cancelliera Angela Merkel di lavorare ad un pacchetto di interventi europei per uscire dalla crisi. I rispettivi amministratori delegati hanno ribadito un concetto molto importante: fino a quando le fabbriche italiane e spagnole di componentistica non riapriranno sarà praticamente impossibile assemblare in modo continuativo automobili le automobili tedesche. Per via dell'interdipendenza economica fra la Germania e Paesi come l'Italia e la Spagna, i tre colossi dell'auto tedeschi hanno sottolineato che le loro catene di rifornimento (supply chain) sono ormai strutturalmente legate a fornitori esteri, in particolare italiani non solo cinesi. Dal punto di vista dell' industria dell'auto germanica, che è la spina dorsale dell' economia tedesca, osserva Il Messaggero, è dunque fondamentale che la ripresa dell' economia e le misure anti-crisi vengano coordinate a livello comunitario. Se l'Italia è lontana dal podio della produzione di autovetture complete, infatti, a livello europeo si ritrova al secondo posto nel mercato della componentistica automotive: come sottolineato da Il Giornale, si parla di circa duemila imprese, 200mila addetti e un fatturato complessivo di 52 miliardi di euro. I colossi dell'auto in Germania lo sanno perfettamente ed è per questo motivo che, secondo quanto riportato dall' agenzia Reuters e da AutonewsEurope.com, hanno sottolineato che gli interventi europei dovrebbero garantire liquidità immediata alle industrie della componentistica italiane per evitare una catena di fallimenti che peserebbe in maniera devastante anche sulla produzione tedesca. A causa della crisi provocata dalla pandemia, il gruppo automobilistico tedesco Bmw ha annunciato l'arresto della produzione presso i suoi impianti in Europa e a Rosslyn in Sudafrica, dal 22 marzo al 19 aprile prossimo. E come Bmw, anche le altre aziende automobilistiche tedesche Daimler, Volkswagen, Audi e Man hanno interrotto o limitato la produzione a causa del coronavirus. Il covid-19, nel frattempo, secondo quanto riportato dall'agenzia Ansa, ha fatto crollare il mercato dell'auto italiano. Le immatricolazioni a marzo - secondo i dati del ministero dei Trasporti - sono state 28.326 a fronte delle 194.302 dello stesso mese del 2019, pari a un calo dell'85,42%. Nel primo trimestre sono state vendute 347.193 auto, il 35,47% in meno dell'analogo periodo dell'anno scorso.
Paolo Valentino per il “Corriere della Sera” l'8 aprile 2020. Se c'è un Paese che deve capire come dopo una crisi esistenziale occorra un sostegno finanziario paneuropeo alla ricostruzione di chi l' ha subita, questo è la Germania. Gerhard Schröder pone nella prospettiva storica il debito tedesco verso gli alleati europei. Nel giorno del suo compleanno, ieri ne ha compiuti 76, l'ex cancelliere tedesco manda un messaggio di amicizia e solidarietà all' Italia, colpita dalla pandemia. Nell' intervista al nostro giornale, Schröder si pronuncia in favore del pacchetto di aiuti in discussione a Bruxelles, ma apre anche sui coronabond, o in alternativa su una obbligazione europea comune una tantum, sia pure come «necessario strumento della fase successiva».
Signor cancelliere, la crisi del coronavirus pone all' Europa una sfida drammatica. Cos' è in gioco?
«Se guardiamo alla situazione nel vostro Paese, in Spagna, in Francia, è giusto parlare di una minaccia esistenziale nel vero senso della parola. Siamo scioccati dalle immagini che vengono dall' Italia, in particolare da Bergamo. E sono felice che la Germania abbia deciso di accogliere e curare pazienti italiani e di inviare materiale sanitario. Forse è vero che avremmo dovuto decidere prima e comunicarlo meglio, ma è anche vero che ci confrontiamo tutti con una crisi straordinaria. La parola del momento è solidarietà, per tutti, anche a livello europeo e internazionale. Perché se l' Unione e i Paesi membri non vincono questa sfida, allora l' intero progetto europeo è in pericolo. Non dobbiamo permetterlo e penso anche che non succederà: l' Europa è una comunità di destini».
L' Unione europea ha già varato importanti misure per contrastare le conseguenze economiche della pandemia. Ma è chiaro che occorre di più. Finora gran parte delle risposte sono state nazionali. Con quali strumenti e in quale dimensione deve articolarsi la risposta europea?
«In primo luogo, dev'essere una risposta veloce e la stiamo dando. Per questo bisogna usare quello che già esiste: il Meccanismo europeo di stabilità senza particolari condizionalità, la Banca europea degli Investimenti e la Commissione. Il pacchetto da 540 miliardi di euro in discussione è un segnale forte. In più c'è l' azione della Banca centrale europea, che sta acquistando titoli pubblici e privati per stabilizzare i mercati finanziari. E anche questo è bene. Il nostro obiettivo primario ora dev'essere tenere in vita le imprese, mettere in sicurezza i posti di lavoro e offrire sufficiente liquidità agli Stati per metterli in condizione di agire».
Ma lei è favorevole ai cosiddetti coronabond?
«Sono convinto che come prossimo passo abbiamo bisogno anche di uno strumento di debito comune europeo. Possono essere gli eurobond, anche se non sono veloci da realizzare, oppure può essere un' obbligazione comune e una tantum».
C'è un forte dibattito in Germania proprio sul tema della mutualizzazione del debito. Perché il tema della solidarietà finanziaria con i Paesi europei, in particolare con l' Italia, è così controverso? Qual è la sua posizione?
«Ho l'impressione che l' atteggiamento della Germania sul debito stia cambiando. La situazione è anche molto diversa da quella della crisi finanziaria del 2008. Italia e Spagna vengono colpite dalla pandemia senza alcuna colpa. E le conseguenze economiche, sociali e umane sono molto più devastanti di allora. Nel frattempo, molti economisti tedeschi, gli stessi che finora avevano sempre osteggiato gli eurobond, esprimono l'opinione che siano proprio questi la direzione da prendere. Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte propone anche un fondo per la ricostruzione. Io dico: perché no? Se c'è un Paese che deve capire che dopo una crisi esistenziale è indispensabile avere un sostegno paneuropeo per la ricostruzione, questo è la Germania. Noi siamo stati aiutati molto dopo la Seconda guerra mondiale, nonostante fossimo stati proprio noi a causarla».
La Germania è il Paese che ha tratto i maggiori vantaggi dal mercato unico e dalla moneta comune. Gli ex ministri degli Esteri, Sigmar Gabriel e Joschka Fischer - il primo suo compagno di partito, il secondo suo vicecancelliere - dicono che sia giunto il momento che «la Germania usi per questa Europa parte della ricchezza ottenuta grazie all' Europa». È d' accordo?
«Penso che ci avvantaggiamo tutti dall' Europa unita, sul piano politico, culturale ed economico. Per questo dobbiamo rapidamente tornare a una normalizzazione della vita. Le frontiere interne non possono rimanere chiuse a lungo. Le persone devono potersi incontrare di nuovo. Le imprese devono tornare a produrre. È una questione che si pone non solo la Germania. Cruciale è agire insieme e possibilmente cercare soluzioni europee. Questo è il mio appello».
La pandemia del coronavirus rischia di essere la prima di una serie di crisi a cascata che investiranno il mondo intero: minaccia di default per le economie avanzate, prospettiva di una Grande depressione per quelle emergenti come Brasile, India o Indonesia, esplosione degli Stati petroliferi come Libia, Iran, Iraq, Venezuela e l' abisso di milioni di vittime in Africa. Quale di questi scenari considera più realistico e la preoccupa di più?
«Ogni singola crisi è fonte di forte preoccupazione nel mondo globalizzato. E la prima lezione di questa pandemia è che siamo di fronte a una sfida che nessuna nazione può vincere da sola. Io però sono e rimango un ottimista: forse questa crisi globale ci porterà a una riflessione. E cioè che viviamo tutti sullo stesso pianeta e possiamo avere successo soltanto insieme. Questo è vero non solo nella lotta contro il Covid-19 e altre pandemie, ma anche nella soluzione di problemi globali come i cambiamenti climatici, la fame, il sottosviluppo. Invece di confrontazione, abbiamo bisogno di più cooperazione. Se questa semplice verità venisse compresa a Washington, a Mosca, a Pechino e a Bruxelles, sarebbe un bene per tutti».
· Mes/Sure vs Coronabond.
Giulio Tremonti per il ''Corriere della Sera'' il 15 dicembre 2020. 1720, 2020: la peste e la bolla. Certo, la storia non si ripete mai per identità perfette, ma a volte ne emergono coincidenze quasi perfette, spesso fatali. Quanto segue non ha pretesa storica: solo una suggestione che viene dal passato per arrivare ad oggi. Nel 1720 la Francia — se non il cuore dell’Europa, certo già allora una sua gran parte e centrale — fu investita tanto da una devastante pestilenza, quanto da una catastrofe finanziaria. La peste bubbonica, detta nel caso «peste levantina» perché portata da una nave che veniva dal levante, esplose a Marsiglia e da qui, terribile, si estese verso nord, bloccando i commerci, fino al Regno Unito. Nel 1720, e dunque nello stesso anno, sempre in Francia crollò il cosiddetto «Sistema di Law»: una finanza per allora super moderna, basata su banconote e su azioni emesse dalla «Compagnia» cui il Re aveva concesso lo sfruttamento della super reclamizzata, ma inesistente, ricchezza della «Louisiana». Il «Sistema» crollò quando, nonostante il ricorso a sempre nuovi artifici contabili, la realtà ebbe a prevalere sull’illusione, quando la povertà (ri)prese il posto della ricchezza (inventata). Ma, se la peste levantina ebbe più o meno presto termine, non fu così per la peste finanziaria: prima la lotta per le farine e per il pane, poi nel popolo crescente rabbia, mentre proseguivano le tristi feste dei reali, infine la «Rivoluzione». Si badi, qui non si sostiene che nel 1720 l’arrivo della peste causò la catastrofe finanziaria: solo una coincidenza. Ma certo, in un mondo già allora in qualche modo pre-globale, i due fenomeni hanno comunque anticipato i tratti del mondo globale che oggi vediamo e in cui viviamo. E qui in specie: se la pandemia del 2020 avrà un prossimo termine, vinta dalla scienza e dai vaccini, non è detto che sia lo stesso per la gigantesca bolla finanziaria che già ci stava sopra e che la pandemia ha ingigantito. Ma, se è permesso, prima di proseguire facciamo un passo indietro. Torniamo al ’700, quando infine e non per caso proprio in Francia prese forma e sostanza la triade rivoluzionaria «Liberté, Égalité, Fraternité». Una triade che sarebbe poi venuta ad esprimersi nella forza delle leggi. Non per caso ma pour cause, nei loro «Quaderni di doglianza», i rivoluzionari chiedevano: «un Re, una Legge, un Ruolo di imposta». Questa la base dei «Grandi Codici» che nei successivi due secoli hanno retto la nostra civiltà e la nostra economia. È stato solo trenta anni fa che, con la globalizzazione, tutto è cambiato. Quella vecchia è stata sostituita da una triade nuova: «Globalité, Marché, Monnaie». Questa basata sull’idea che, in un mondo globale e perciò automaticamente progressivo e positivo, la regola giusta fosse quella che non dovevano esserci regole. Caduti i confini nazionali ed estesa sul mondo la «Rete», questo è stato l’habitat in cui è venuta a crearsi una finanza nuova e super moderna, basata su di una «moneta» che viene dal nulla e va verso il nulla, che cresce per tutto il mondo senza controlli e senza limiti, con debiti che si fanno ma non si pagano. Contata in trilioni (i nuovi fantastiliardi) questa finanza è già più di tre volte superiore a quanto è prodotto dall’economia. Si dice che, con tutto questo, si va verso la Mmt («Modern Monetary Theory»). Questa una teoria che per la verità non è affatto nuova, ma vecchissima: è la formula base del metafisico e catastrofico «Sistema di Law», solo con il mondo digitale al posto della «Louisiana». Ciò che si vuole qui dire è che, se già c’è il vaccino contro il coronavirus, non c’è ancora il vaccino contro questo tipo di peste. Un vaccino questo che può essere prodotto solo in un laboratorio politico. Per esperienza personale, dopo la (prevista) crisi finanziaria del 2008, ricordo tanto un’immagine quanto un’utopia. L’immagine era quella del videogame: è come esserci dentro, batti un mostro, ti rilassi, ma poi arriva un altro mostro diverso e ancora più grande. La crisi, portata dalla globalizzazione, non era (e non è) infatti finita: muta e ritorna in altre forme, se si sta fermi, se non si fa qualcosa. E poi l’utopia: la sostituzione del «Free Trade» (nessuna regola) con il «Fair Trade»: regole estese a monte sulla produzione dei beni e dei servizi, così da superare l’asimmetria tipica del mondo globale, dove sopra la regola è l’anarchia, sotto — a livello nazionale — all’opposto ci sono fin troppe regole, spesso inutili, anzi paralizzanti. Il Gls («Global Legal Standard») che incorporava l’utopia fu approvato dall’Assemblea dell’Ocse, ma fu battuto dalla finanza e in specie dall’Fsb («Financial Stability Board»): nessuna regola per l’economia, solo qualche criterio per la finanza e questo definito dalla finanza stessa. Solo un curiosum (si fa per dire): già dieci anni fa, all’articolo 4 del Gls, si prevedevano... «regole ambientali e igieniche»! Oggi, con la pandemia e con le sue tragedie sanitarie, ma soprattutto mentali e sociali, politiche e geopolitiche, è tornato il tempo della responsabilità e della legalità. Oggi, crollata la «Torre di Babele», nello spirito del nuovo mondo, quello che allora (nel 2009) era troppo presto può e deve tornare e prendere forma in una nuova «Bretton Woods». Questo il «Trattato», se non globale certo internazionale che, pensato sul finire della guerra (1943-4), regolò per decenni i cambi e le valute. Oggi nuove regole potrebbero, anzi dovrebbero essere estese alla produzione dei beni, questo il vero vaccino per evitare l’arrivo altrimenti certo di nuove crisi.
Le risorse europee sono fondamentali. Il tempo è scaduto, l’Italia ha bisogno del Mes. Annamaria Parente su Il Riformista il 14 Ottobre 2020. Le risorse decise dall’Unione Europea per alleviare gli immani danni arrecati dalla diffusione del Covid-19 sono il segno della volontà di ripresa del cammino di solidarietà e coesione sociale della nostra casa comune. I singoli Stati europei devono collettivamente cogliere le opportunità derivanti da questa terribile pandemia. Anche se il negoziato per il Recovery Fund sembra aver subito, in questi ultimi giorni, una battuta d’arresto, rimane solida la nostra fiducia nella responsabilità della classe politica europea che saprà valutare, delineare e attuare nelle prossime ore l’iter di un grande “piano di ripresa e resilienza” del nostro continente. Nel frattempo l’Italia ha, hic et nunc, necessità di accedere ai Fondi del Mes. Come sappiamo, il documento approvato dall’Eurogruppo, in data 8 maggio 2020, apre una nuova linea di credito denominata Pandemic Crisis Support, nell’ambito del vigente Meccanismo Europeo di Stabilità. Il prestito ammonterebbe al massimo al 2% del Pil il 2019 e, dunque, per l’Italia si tratterebbe di 35, 74 miliardi, per la durata di 10 anni, con un tasso di interesse vicino allo 0% (0, 35% il primo anno e 0,15% per gli anni successivi) con assenza di condizionalità, fatta salva la destinazione dei fondi per le spese “dirette e indirette di salute pubblica, cura e prevenzione legate alla crisi da Covid-19” e con disponibilità quasi immediata. Il fattore tempo è fondamentale per decidere di utilizzare queste risorse della nuova linea di credito dell’Eurogruppo perché consentirebbe al nostro Paese di acquisire subito liquidità, limitando nello stesso tempo la spesa per interessi. Occorre sempre evidenziare che l’Italia è tra quei Paesi che soffrono grandi criticità relative agli alti tassi di interesse e all’elevato debito, per cui il Mes sanitario è quanto mai indispensabile. Abbiamo immediatamente bisogno di aumentare la capacità di risposta ed efficienza del nostro sistema sanitario, soprattutto in considerazione del fatto che i contagi si stanno diffondendo in zone del Paese dove le strutture sociosanitarie risultano più carenti o non sufficientemente attrezzate. Il ministro Gualtieri ha dichiarato che l’Italia non ha bisogno di liquidità per il buon andamento recente delle aste dei titoli di Stato e che si possono acquisire risorse sui mercati finanziari. «Ma se gli ospedali dovessero andare sotto pressione – continua il Ministro dell’economia – state sicuri che se fosse strettamente necessario lo useremo». Se attendessimo però che la situazione sanitaria precipiti per correre ai ripari, ciò significherebbe avere la memoria corta rispetto alle valutazioni che si devono trarre dal disastro sanitario ed economico causato dall’inizio dell’epidemia a marzo. Il rischio di nuovi lockdown e il documento per la ripresa dell’economia sono dietro l’angolo. Con le risorse del Mes potremmo innanzitutto incrementare il sistema di tracciamento del virus, evitare le code dei cittadini ai drive-in, abbattere i tempi di attesa delle risposte ai test, soprattutto di chi ha sintomi, rafforzare il personale delle Asl e dei laboratori di microbiologia, non rischiare di rimanere a corto di reagenti e sostenere la ricerca per l’attendibilità e validazione dei test rapidi. Per i disservizi del sistema non si può più tollerare che un cittadino, come sta avvenendo, debba pagare il tampone per tornare al lavoro. L’Italia inoltre ha urgenza impellente di finanziamenti per istituire una rete nazionale integrata in Europa, di centri dedicati allo studio, alla messa a punto di soluzioni terapeutiche, diagnostiche e preventive, per combattere questa e altre eventuali minacce pandemiche, nel quadro coerente di un incremento e potenziamento delle capacità industriali del Paese. È fondamentale in questa fase assegnare risorse agli enti locali per mettere in sicurezza i trasporti verso la scuola e le sedi di lavoro, coinvolgendo se ciò lo richiedesse, anche ditte private e servizio pubblico di taxi soprattutto per lo spostamento delle persone più fragili. È vitale, inoltre, rafforzare il sistema sanitario per non trascurare pazienti affetti da altre patologie, come purtroppo sta avvenendo, a cominciare da quelli cardiopatici e oncologici, e vigilare affinché i cittadini permangano nei loro piani terapeutici. In tema di rete ospedaliera, si dovrebbe valutare l’opportunità di rivedere gli standard definiti dal DM 70/2015, al fine di ridurre il sovraccarico attuale degli ospedali e permettere ai servizi territoriali e di telemedicina di mettere efficacemente a regime la propria attività, anche in considerazione del fatto che l’Italia, come ha ulteriormente evidenziato la recente emergenza sanitaria, si colloca fra i Paesi europei che hanno il più basso numero di posti letto in rapporto alla popolazione. E infine a noi servono immediatamente risorse per la medicina territoriale con la costituzione di task force composte da professionisti diversi che, mantenendo la propria autonomia, siano in grado di lavorare in équipe, per portare cure preventive e repentine a casa, con l’ausilio dei sistemi digitali, per seguire i pazienti anche a distanza. Se il sistema Paese sarà in grado di guardare alla realtà così come essa è e a chi spetta prendere le decisioni lo fará senza preconcetti o retro pensieri, sarà imprescindibile decidere di usare la linea di credito dedicata del Mes per far fronte immediatamente all’emergenza e gettare le basi per rafforzare il sistema sanitario nella direzione della prevenzione, della prossimitá, dell’implementazione di sistemi di rete tra Aziende ospedaliere e territorio, mettendo in atto una vera e reale integrazione socio sanitaria. La salute bene assoluto, individuale e comune, da tutelare e promuovere, deve guidare, all’interno della nostra casa comune, le scelte politiche, e non meno la capacità di gestire e fruire di tutte le risorse Europee per questo obiettivo.
Il Mes è senza condizioni: nessun tranello nei Trattati. Stefano Ceccanti su Il Riformista l'11 Luglio 2020. In questi giorni viene posta da più parti una legittima domanda, che è la seguente: come è possibile che il Mes sia cambiato, consentendo di espungere le condizionalità, a parte quella di finalità di rifacimento dei sistemi sanitari, senza che siano cambiati i Trattati? È solo una decisione politica? Se sì, come si può pensare che la volontà politica possa comunque prevalere sulle norme scritte? Questa domanda, o meglio questa serie di domande, se ne trascina fatalmente un’altra: chi ci assicura, specie nel caso si tratti di una mera volontà politica, che le condizionalità all’improvviso non resuscitino? Provo a spiegare le ragioni per le quali la tesi dell’assenza di condizionalità, tranne quella sanitaria, decisa dal Consiglio dei Governatori il 15 maggio, ha un fondamento giuridico e non solo politico. La “norma-madre” del diritto europeo da cui partire è l’art. 136.3 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea: «Gli Stati membri la cui moneta è l’euro possono istituire un meccanismo di stabilità da attivare ove indispensabile per salvaguardare la stabilità della zona euro nel suo insieme. La concessione di qualsiasi assistenza finanziaria necessaria nell’ambito del meccanismo sarà soggetta a una rigorosa condizionalità». Il tono della norma, soprattutto l’aggettivo “rigorosa”, viene spesso invocato sia dai sostenitori di posizioni più rigide sia da coloro che ne sono intimoriti. Pur tuttavia, si tratta comunque di una norma generica, suscettibile di essere sviluppata diversamente, a fisarmonica, a seconda delle norme ulteriori con cui essa venga fatalmente concretizzata. È questo il caso del Trattato Internazionale Mes, dove troviamo all’articolo 3 la “norma-figlia” per noi rilevante: «L’obiettivo del Mes è quello di mobilizzare risorse finanziarie e fornire un sostegno alla stabilità, secondo condizioni rigorose commisurate allo strumento di assistenza finanziaria scelto, a beneficio dei membri del Mes che già si trovino o rischino di trovarsi in gravi problemi finanziari, se indispensabile per salvaguardare la stabilità finanziaria della zona euro nel suo complesso e quella dei suoi Stati membri». La norma-figlia riprende l’aggettivo “rigorose”, ma lo sviluppa nel senso di una proporzionalità a seconda dei vari strumenti possibili, proporzionalità che prima ribadisce con le stesse parole nell’articolo 12 e che poi concretizza in tre tipologie: assistenza finanziaria precauzionale sulla base di linee di credito condizionali o linee di credo rafforzate (art. 14) e prestiti a paesi in crisi collegati a un programma di aggiustamento macroeconomico (art. 16). Le linee di credito rafforzate vengono stabilite tramite un patto alle condizioni procedurali dell’articolo 13 comma 3: in pratica il vincolo è solo quello di raggiungere un’intesa tra il Paese che richiede e la Commissione europea su affidamento del Consiglio dei Governatori del Mes, in quanto i vincoli appaiono volutamente scritti in modo fluido (conformità alle “misure di coordinamento delle politiche economiche previste dal Tfue” e contenuto del protocollo conforme a “gravità delle debolezze da affrontare” e allo “strumento finanziario scelto”). Trattandosi di accordo bilaterale, esso non appare poi suscettibile di revisione unilaterale. Ma c’è di più, oltre a questa riflessione giuridica. Il 15 maggio, come già segnalato, il Consiglio dei Governatori del Mes ha già approvato nella sua autonomia la linea di credito anti Covid, Pandemic Crisis Support, che ha caratteristiche ben precise, ossia la sola condizione relativa alla natura sanitaria delle spese da sostenere. Qualsiasi Stato decida di fare un contratto su quella linea di credito, la sottoscrive come tale. Come per qualsiasi contratto di credito, è semplicemente inimmaginabile che il creditore si inventi poi clausole sul debitore non presenti al momento della firma del contratto stesso. Di fronte a qualsiasi tribunale, subirebbe perdite certe. Quindi non è che la politica abbia derogato ai Trattati, sono i Trattati che già consentono questa flessibilità.
Per salvarci servono 50 miliardi in 100 giorni e il Piano nazionale delle Riforme. Renato Brunetta su Il Riformista il 3 Giugno 2020. E se la smettessimo con la retorica? All’Italia servono 50 miliardi in 100 giorni, per salvare la propria economia, il proprio sistema imprenditoriale, il proprio tessuto produttivo e distributivo. Altrimenti, in autunno, una impresa su tre rischierà di chiudere definitivamente e gli effetti negativi su produzione, lavoro e reddito potrebbero essere devastanti, molto più gravi di quanto già negativamente stimato. Ma dove andare a prendere tutti questi soldi? Come fare con i tempi assolutamente stretti ma altrettanto necessari? E come fare ad allocare e spendere in maniera mirata una quantità così rilevante di fondi, che a vario titolo dovranno essere assorbiti dalla nostra economia? L’appello di industriali e mondo bancario lanciato l’altro giorno all’Esecutivo parla chiaro in modo brutale e se qualcuno se ne è risentito vuol dire che non ha capito nulla della gravità della situazione e ha la coscienza sporca. Quanto stanziato dal Governo con gli ultimi tre decreti (Cura Italia, Liquidità e Rilancio) per 80 miliardi non solo non è sufficiente per dare una risposta credibile a famiglie e imprese, ma ha la caratteristica di essere trasferito col contagocce, intermediato da una insopportabile burocrazia che fa letteralmente uscire fuori di testa famiglie e imprese. La politica di front-load da noi invocata, consistente nello spendere subito tutto il maggior deficit necessario in quest’anno sabbatico, non c’è stata, a differenza di quanto successo in altri paesi come Germania, Stati Uniti e Francia. Un anno così non va sprecato. Un anno in cui tutto è possibile, dal più deficit, quasi senza limiti, agli aiuti di Stato, alla deregolamentazione in campo bancario. Un anno così non andava però sprecato, soprattutto attraverso la concreta immediatezza di fare entrare decine di miliardi nelle tasche degli italiani colpiti dalla pandemia, senza se e senza ma. Le parole chiave dovevano essere trasparenza, effettività e tempestività. Dal Governo, invece, solo un peloso assistenzialismo (sempre in ritardo), solo fantamiliardi offerti in garanzia, ma la liquidità, quella vera, non è arrivata, stenta ad arrivare, ragion per cui, sulla base di numerose fonti statistiche di settore, degli 80 miliardi di discostamento votati dal Parlamento, solo una parte (20-25%) è stato concretamente speso. A più di cento giorni dell’inizio dello stato di emergenza. A questo riguardo, come controprova, è sufficiente controllare il calendario delle aste del Tesoro, da qui fino al prossimo agosto, per vedere che non ci sarà un incremento di funding sul mercato dei titoli di Stato. E, diciamolo apertamente, è anche impossibile riprogrammare in pochi giorni, al rialzo, un calendario di emissioni che si rivelerebbe tanto costoso e inopportuno a causa del Btp Italia di inizio maggio sulla curva dei rendimenti, considerando anche che la domanda per tutti questi extra titoli da emettere sul mercato attualmente non sembra esserci. In assenza di soluzioni nazionali, con le risorse provenienti dal Tesoro, l’unica alternativa, dunque, diventa quella di guardare all’Europa. Ma anche per questa opzione la strada non è facile. Gli unici fondi attualmente disponibili, come abbiamo sostenuto da subito (e non ci siamo sbagliati), sono quelli del Meccanismo Europeo di Stabilità per le spese sanitarie dirette e indirette (circa 37 miliardi), e quelli della Banca Europea degli Investimenti per le imprese (circa 20 miliardi). In tutto, più o meno 60 miliardi sotto forma di prestiti e garanzie a tassi estremamente convenienti che il Governo dovrebbe chiedere, nei modi e nelle forme dovuti, entro metà giugno, in maniera da averli a disposizione nell’arco di qualche settimana. Si muova il Governo, dunque, mentre gli altri paesi non hanno fatto ancora richiesta. Se dovessero farla, i fondi attualmente disponibili presso il Mes (circa 65 miliardi di euro) non sarebbero sufficienti per tutti e il Fondo dovrebbe indebitarsi sul mercato emettendo bond. Una operazione che impiegherebbe almeno tre mesi. Troppi. Inoltre, i fondi del Sure, 20 miliardi per le politiche di salvaguardia del lavoro, dovrebbero essere erogati in autunno, e quelli del Next Generation Fund a partire addirittura dal 2021, con uno scadenziario lungo e articolato che deve prima passare per le negoziazioni tra i vari paesi europei della proposta Von der Leyen, poi la ratifica da parte dei parlamenti nazionali, affatto scontata, e ancora l’analisi dei programmi presentati dai governi e, infine, l’erogazione vera e propria che andrà avanti, secondo il piano indicato dalla Commissione, fino al 2026. Tanto per essere chiari, nel 2021 gli esborsi saranno pari soltanto al 5,9% dell’intero pacchetto, vale a dire per noi pochi miliardi di euro tra grants e loans. Per avere a disposizione le risorse del Next Generation Fund, dunque, bisognerà quindi aspettare anni. E saremo già morti. Non abbiamo tempo: ci sono solo cento giorni per salvare l’Italia. Stando così le cose, cento giorni per decidere del nostro destino e futuro. Cento giorni in cui dobbiamo fare innanzitutto un esame di coscienza. Cosa vogliamo fare del nostro Paese, della nostra economia, della nostra impresa e della nostra società. Cosa vogliamo fare con l’Europa, che tipo di dialogo vogliamo avere. E, soprattutto, da parte di questo Governo non certamente votato alle ultime elezioni dal popolo sovrano, che tipo di volontà politica intende manifestare nei confronti dei fondi messi a disposizione dalla Ue e che rapporto intende avere con l’opposizione in Parlamento. Perché non è più possibile andare avanti così. Non è possibile chiedere all’opposizione di votare gli scostamenti, come avvenuto nei mesi scorsi per 80 miliardi di euro, in cambio di nulla. Nessun dialogo, nessuna convergenza su decisioni strategiche. Nessuna condivisione sul futuro. Perché, una volta incassati i voti sugli scostamenti, la maggioranza di Governo è rimasta chiusa, impenetrabile, sorda nei confronti dell’opposizione. Cento drammatici giorni perché le imprese non ce la fanno più. Se non entra subito liquidità, se non arrivano risorse a fondo perduto come risarcimenti per il lockdown, i grants e i loans europei e le risorse garantite dallo Stato entro questi fatidici cento giorni, l’autunno vedrà o la chiusura o la non riapertura di un terzo delle imprese italiane. Dicevamo all’inizio, facendo quattro conti sul retro di una busta, che servono 50 miliardi subito. Facile a dirsi, difficile a farsi. 50 miliardi veri in 100 giorni richiedono una rivoluzione copernicana, nel processo decisionale, nella burocrazia, nelle banche, nel modo di scrivere le leggi, nel rapporto fiduciario tra Governo e Paese, che vuol dire, la necessità di mettere in piedi una azione credibile ed efficace, che veda nel Parlamento il primo e fondamentale passaggio condiviso. Da subito, dunque, si discuta e si approvi il Piano Nazionale delle Riforme, che avrebbe dovuto essere allegato al Documento di Economia e Finanza di aprile, cosa mai avvenuta in virtù della deroga consentita da Bruxelles, ma che ora diventa lo strumento chiave per dialogare con l’Europa, ma anche lo strumento istituzionale di dialogo e condivisione con tutta l’opposizione, con le parti sociali, con le Regioni, con i Comuni. Ragionare assieme su come uscire dalla crisi nei prossimi tre anni significa scrivere insieme il futuro dell’Italia attraverso le riforme. E questa è la chiave di volta di questo drammatico momento. È in grado questo Governo, al di là della retorica, di discutere e approvare in Parlamento un Pnr condiviso con l’opposizione? Di farlo con piena apertura, trasparenza e onesta volontà politica? È in grado questo Governo di condividere nero su bianco alla Camera e al Senato, tutte le leggi di riforma, di cui il Paese ha bisogno, dalla giustizia alle infrastrutture, dal lavoro al fisco, alla scuola, al welfare, alla sanità? Perché da queste riforme passa la nostra salvezza. In questi cento giorni noi dovremo dialogare con l’Europa, in occasione dei due Consigli di capi di Stato e di governo di giugno e di luglio. Dovremo anticipare la Legge di Bilancio, entro l’estate, con relativi collegati (giustizia, appalti, fisco, sanità, burocrazia) e un nuovo discostamento, in termini di deficit, per contabilizzare le risorse che l’Europa ci mette a disposizione. Cento giorni per fare i conti con la nostra storia, ma anche con la nostra volontà di rinascita. Se la crisi, come dice il presidente Mattarella, esige unità, responsabilità e coesione, abbiamo la possibilità di dimostrarlo subito. Domani sarebbe troppo tardi.
Bocciata la mozione sul Mes. Ma la maggioranza si spacca. La proposta Brunetta non passa. Italia Viva non partecipa, il Pd vota contro ma insiste col premier: "I soldi ci servono". Fabrizio De Feo, Mercoledì 14/10/2020 su Il Giornale. È il giorno delle comunicazioni in Senato del presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, in vista del Consiglio europeo del 15 e 16 ottobre. Un appuntamento che nell'ottica del centrodestra appare come un déjà vu, l'ennesimo confronto tra sordi con un governo che chiede collaborazione istituzionale e poi chiude la porta a qualsiasi proposta. La linea è quella dell'astensione, il centrodestra, dopo un giro di telefonate tra i leader, sceglie una risoluzione unitaria firmata dai tre presidenti di gruppo Annamaria Bernini, Massimiliano Romeo e Luca Ciriani, presentata in serata. Un documento con il quale si chiede al governo di battersi affinché il Green Deal non sia solo europeo «per evitare che i nostri sforzi vengano vanificati da politiche spregiudicate di altre potenze mondiali; a ricercare un accordo condiviso sul Recovery Fund nel più breve tempo possibile; a garantire un coordinamento al fine di rendere disponibili i vaccini anti-Covid nel più breve tempo possibile». Il ragionamento che il centrodestra fa, più o meno esplicitamente, è questo: «Votiamo per non indebolire il governo in una trattativa importante, ma il premier ha deciso ancora una volta tutto da solo. Invece che infrastrutture e investimenti seri ha rivendicato il super bonus e gli interventi ecologici, importanti certo ma non risolutivi in un momento storico drammatico come questo». «Noi ci siamo battuti per il Recovery Fund - spiega a Rai News Antonio Tajani - Non possiamo andare contro, anche se non tutte le cose che ci dice il governo ci convincono». La Lega chiede il coinvolgimento delle Regioni e ricorda che «si tratta di risorse per il Paese, non per il governo» con la senatrice Erika Stefani. Linea di scettica attesa sposata anche da parte di Giorgia Meloni. «Noi abbiamo sempre offerto disponibilità al confronto, è la maggioranza che nei fatti non ha dimostrato disponibilità. Sul Recovery abbiamo fissato delle priorità: il tema del dissesto idrogeologico e la questione del marchio». Nell' aula del Senato Maurizio Gasparri inizia poi a introdurre il tema del Mes. La palla a quel punto passa alla Camera dove si gioca una delicata partita serale. Forza Italia torna alla carica sul Mes con una risoluzione a prima firma Renato Brunetta, sottoscritta anche da Maurizio Lupi e presentata sulla Relazione della commissione Bilancio sul Recovery Fund. Un documento con cui si invita il Governo tenendo conto dei tempi lunghi del Recovery «a valutare l'opportunità di avvalersi dell'intero pacchetto di strumenti finanziari europei messi in campo, con particolare riguardo all'utilizzo tempestivo della linea di credito del Mes per le spese sanitarie dirette e indirette, a tassi vantaggiosi e senza condizionalità macroeconomiche». Alla prova dei fatti il centrodestra e Forza Italia in particolare riesce a stanare la maggioranza, portando allo scoperto gli imbarazzi di Pd o Italia Viva, favorevoli all'adozione del fondo ma in disaccordo con i Cinquestelle. I renziani decidono di astenersi, il Pd di votare contro. È il ministro per gli Affari Europei Enzo Amendola a spiegare le motivazioni di questa acrobazia parlamentare. «Abbiamo approvato la scorsa settimana una risoluzione con l'impegno del governo che noi confermiamo ad assumere qualsiasi decisione sul Mes». La risoluzione alla fine viene bocciata e votata solamente da Forza Italia. Brunetta fa notare che il Pd, se coerente con se stesso e le proprie convinzioni, avrebbe dovuto appoggiarla. Lega e Fratelli d'Italia, invece, decretano la fine del Mes. «Continua l'imbarazzante balletto all'interno del Governo. attacca il capogruppo di FdI, Francesco Lollobrigida - Il Pd per compiacere il M5S - aggiunge - si è rifugiato nella ipocrisia votando contro la possibilità di utilizzare il Mes. Il partito di Renzi non ha partecipato al voto sapendo bene che avrebbe avuto il senso della negazione di quel che aveva sempre annunciato. Confidiamo - conclude - che questa sia la pietra tombale sul Mes».
"Se servirà lo useremo". Conte col Pd pure sul Mes: e ora i 5 Stelle? Tensioni nel governo. Libero Quotidiano il 14 ottobre 2020. "Su Mes no a posizioni ideologiche, se servirà lo useremo". Lo ha affermato il presidente del Consiglio Giuseppe Conte parlando a Capri. Di fatto il premier con questa dichiarazione apre al Pd, da sempre favorevole ai soldi del Mes, e si allontana dalle posizioni contrarie dei cinquestelle, movimento che l'ha voluto alla presidenza del consiglio, "Noi lavoriamo sui fabbisogni, sugli obiettivi, sugli investimenti: se mancano risorse ce le procuriamo. Adesso stiamo lavorando sul Documento programmatico di bilancio e la Legge di bilancio, sul Recovery Plan e sui fondi di coesione. C'è un progetto integrato con le varie risorse. Se dovessero mancare risorse, non ne faremo una questione ideologica", ha poi spiegato Conte.
Marco Bresolin per “la Stampa” il 17 aprile 2020. Il governo italiano è in prima linea nel difendere la richiesta di un nuovo fondo per la ripresa attraverso il quale emettere debito comune a livello Ue. Ma c' è un aspetto che è al momento assente dal dibattito pubblico: chi deciderà come utilizzare quei fondi? Il ministro francese Bruno Le Maire, fautore del «Recovery Fund», ieri ha spiegato in un' intervista su La Stampa che «l' idea è di lasciar decidere la Commissione e non i singoli Stati» su quegli investimenti. Un concetto analizzato anche in un documento della «School of European political economy» della Luiss e firmato da diversi economisti, tra cui Lorenzo Bini Smaghi, già membro del comitato esecutivo della Bce. «Rispetto a questa proposta - scrivono gli autori - non è affatto chiaro se il governo italiano sia consapevole che ciò configura uno spostamento delle decisioni di politica fiscale a livello europeo; e che i fondi ricavati dall'emissione di eurobond non possono essere usati per finanziare il bilancio pubblico italiano».
In sostanza, per usare un'espressione diventata comune in Italia, gli Eurobond comporterebbero una cessione di sovranità?
«Il concetto - detto in parole povere - è che Babbo Natale non esiste. E sorprende che i nostri politici non ne siano al corrente o se ne siano resi conto da poco. I fondi emessi a livello europeo, con garanzie europee, finanziano iniziative europee, cioè decise in comune a livello europeo. Non servono per finanziare il bilancio pubblico italiano. Gli eurobond servono ad esempio per un piano di investimenti comuni per sostenere la ripresa dell' economia europea dopo la crisi».
Quali sono le possibili opzioni per uno strumento europeo di debito comune?
«Esistono già strumenti comuni, come quelli emessi dalla Bei, per finanziare infrastrutture o garantire interventi decisi dalla banca in tutti i Paesi membri. Ci sono anche i finanziamenti europei per politiche europee, come i fondi strutturali. Se ne possono disegnare altri, come il fondo per la disoccupazione, ma ciò significa concordare politiche comuni a livello europeo».
In Italia si discute dell' eventuale utilizzo dei fondi del Meccanismo europeo di Stabilità (Mes): sono di più i vantaggi o i rischi?
«Aspettiamo di conoscere tutti i dettagli. Di sicuro sappiamo che il tasso d' interesse sarebbe più basso rispetto all' emissione di titoli di Stato per la stessa scadenza, con un risparmio di circa 400 milioni l'anno. Se ci saranno altre condizioni lo vedremo al momento del negoziato. Quello che sorprende è che Paesi che hanno già usato il Mes per altri scopi, come la Spagna, il Portogallo e anche la Grecia, sono a favore di questa nuova facility. Non credo che siano masochisti».
L'accesso a questa linea di credito può consentire alla Bce di avviare le Omt, ossia l'acquisto illimitato di titoli?
«Non è una condizione sufficiente. La Bce deve comunque fare le sue valutazioni. Ma sarebbe comunque un segnale importante per il mercato, che si sta convincendo del fatto che l' Italia non vorrà mai, per ragioni politiche, fare richiesta del Mes, e dunque non potrà mai trarne i benefici. Per questo lo spread italiano è molto più elevato di quello spagnolo o portoghese».
La sostenibilità del debito italiano è a rischio?
«La Bce detiene già oltre il 20% del debito pubblico italiano e ne acquisterà un altro 10% nei prossimi mesi. Questo aiuta la sostenibilità del debito. Tuttavia, non c' è dubbio che il debito rappresenti un fattore di fragilità dell' economia italiana e che si debba mettere in atto un piano di lungo periodo per assicurarne la riduzione: un programma mirato ad aumentare la crescita potenziale del Paese, a cominciare con riforme incisive, che lo rendano più attraente per le imprese e gli investitori».
Giuseppe Conte e il Mes, sospetti sull'Italiano Alessandro Rivera: "Perché non ha detto no in Europa?" Libero Quotidiano il 04 aprile 2020. Sul banco imputati di Giuseppe Conte c'è lui, Alessandro Rivera. Chi? Non è un politico, ma un "tecnico". Anzi, un burocrate, potentissimo. Si tratta del direttore generale del Tesoro, e soprattutto membro del Board of directors del Mes. Di fatto, uno dei "mandarini" europei che decideranno il futuro dell'Italia. Clausole, "rigidità", erogazione di prestiti per salvare l'economia nostra, e non solo, messa in ginocchio dal coronavirus. "Perché non si è opposto?", si chiede il premier a proposito di Rivera, presente all'Euro Working Group che ha instradato il meccanismo salva-Stati, stando a un retroscena molto velenoso di Dagospia. Conte, spinto anche dal M5s, si sta opponendo con tutte le sue forze (minime) al Mes, preferendo gli eurobond (ipotesi ormai tramontata). A metà settimana si saprà come andrà a finire, ma ormai si tratta soltanto di ottenere il minimo, vale a dire evitare uno scenario "alla greca" con tanto di troika in cambio degli aiuti economici. E sempre Dagospia ha buttato lì un altro retroscena molto piccante: "Alzati e vattene", sarebbe la consegna data al ministro dell'Economia Roberto Gualtieri nel caso dal vertice con i colleghi europei si profili un Mes-mazzata per l'Italia. Se la sceneggiata servirà, si vedrà (speriamo di no).
Giuseppe Conte e Roberto Gualtieri, retroscena di Dagospia: "Alzati e vattene". Mes, slavina politica. Libero Quotidiano il 04 aprile 2020. "Alzati e vattene". Sarebbe questo l'ordine impartito da Giuseppe Conte al ministro dell'Economia Roberto Gualtieri. Stando all'indiscrezione di Dagospia, lo showdown politico in Europa dovrebbe avvenire martedì 7 aprile, alla riunione dei ministri dell'Economia dei Paesi membri dell'Unione preliminare al vertice tra i premier. Sul tavolo le contromisure finanziarie dell'Ue all'emergenza sanitaria ed economica rappresentata dal coronavirus, che ormai sta mettendo in ginocchio, oltre all'Italia, anche Spagna e Germania e che non lascia immune più nessuna Nazione dell'Unione. Il timore di Conte, spiega Dago, è che martedì, ormai scartata l'ipotesi di eurobond in versione "corona", qualcuno ritiri fuori il buon vecchio Mes "con clausole alla greca o finto-soft". In quel caso, spiega Dagospia, Gualtieri ha la consegna di "alzarsi e andarsene". "L'irritazione (eufemismo) di Conte - sottolinea il retroscena - ha origine da alcune indiscrezioni che sostengono che nessuno Stato, neppure l'Italia, si è opposto al Mes durante le discussioni tra gli sherpa dei ministri delle Finanze all'Euro Working Group".
Da tg24.sky.it il 3 aprile 2020. Tira e molla sugli eurobond, ennesimo capitolo: e stavolta sono i fautori di "strumenti in comune" a battere un colpo con il vicepresidente della Commissione UE, Dombrovskis, che apre ai "coronabond". E si mette al fianco dell’Italia e degli altri Paesi ‘mediterranei’ in questa delicata partita, dopo che la presidente della Commissione, Von der Leyen, aveva nettamente frenato, suscitando la reazione anche di David Sassoli, n.1 dell'Europarlamento.
"Sugli Eurobond siamo in costante contatto coi Governi". "Gli eurobond? Siamo in costante contatto con i governi. Sappiamo che stanno preparando delle proposte e sul tavolo c'è già quella francese. La Commissione lo ha detto chiaramente: siamo aperti a ogni opzione, abbiamo bisogno di una risposta ambiziosa, coordinata ed efficace contro la crisi". Così il vicepresidente esecutivo della Commissione europea, Valdis Dombrovskis, in un'intervista ad una serie quotidiani europei. La questione è spinosa, la possibilità emettere debiti in comune (eurobond o coronabond, visto il motivo dell'emergenza) è al centro dello scontro tra Italia e altri partner europei.
"Lavoriamo a un piano di recupero per l'economia". "Lavoriamo al ‘Recovery plan’ per far ripartire l'economia. Un suo elemento importante sarà il bilancio. Il prossimo quadro finanziario - spiega Dombrovskis - dovrà essere ambizioso e dovrà contenere una forte componente di investimenti per sostenere la ripresa. Se lavoreremo seguendo il business as usual, passerà almeno un anno prima che questi fondi siano immessi nell'economia. Non possiamo accettarlo, abbiamo bisogno di soluzioni per mettere subito in circuito il denaro". Per l'ex premier lettone "è logico usare il Mes come prossima linea di difesa perché già capitalizzato e ha già capacità di prestito. Dobbiamo trovare un compromesso pragmatico, una soluzione su misura per questa crisi che ci permetta di attivarlo. Una qualche forma di condizionalità è legalmente necessaria, ma non stiamo parlando di una classica condizionalità macroeconomica".
"Logico usare il MES, è già pronto". Dombrovskis si sofferma anche sul piano "Sure" contro la disoccupazione, e sulle altre misure messe in campo. "Abbiamo mobilitato il 3% del Pil di denaro fresco e il 16% in garanzie. Inoltre i governi continuano ad annunciare nuove misure e ad aggiornare le stime dell'impatto del virus sull'economia", rileva. "Stiamo mettendo in campo diverse misure capaci di aiutare i Paesi con un alto costo di finanziamento, altre sono in discussione. L'Unione e i Governi - assicura - sono determinati a fare il necessario per assicurare una ripresa rapida".
Andrea Muratore per it.insideover.com il 4 aprile 2020. Klaus Regling, direttore generale del Meccanismo europeo di stabilità, è stato a lungo un’eminenza grigia nei palazzi del potere comunitario. Burocrate silente, l’economista tedesco 69enne che guida il fondo salva-Stati è, per molti punti di vista, detentore di un potere più solido di quello delle istituzioni politiche comunitarie e, come scrive l’Agi, “per quasi trent’anni, questo funzionario affabile e riservato ha vissuto di ogni fase di sviluppo del progetto dell’euro, nel ruolo di protagonista e di garante degli interessi tedeschi”. Regling parla poco ma in maniera sempre significativa: e nella giornata di ieri ha deciso di esprimersi pubblicamente con un editoriale apparso sul quotidiano Frankfuter Allgemeine Zeitung volto a perorare la causa del Mes come più efficace strumento anti recessione nella fase di massima acutezza della crisi del coronavirus. Regling, in sostanza, prende posizione per l’utilizzo della potenza di fuoco del Mes assieme alle nuove manovre della Banca europea degli investimenti (Bei) e della Commissione (indennità antidisoccupazione Sure), sostenendo che “ci sono suggerimenti per creare nuove istituzioni o nuovi strumenti, ma ci vuole tempo che al momento non abbiamo” e che “le linee di credito preventive del Mes, mai utilizzate in passato, sembrano attualmente lo strumento più appropriato”. Uno dei massimi burocrati d’Europa si esprime dunque con una forte incisività politica e, di fatto, in direzione decisamente opposta alle speranze dei governi di Italia, Francia e Spagna, che hanno chiesto alla Commissione e all’Eurogruppo l’elaborazione di strumenti nuovi, tra cui i famosi Eurobond, e un superamento del vincolo tra il ricorso al Mes e le prevedibili misure di austerità che ad esso dovrebbero seguire. Regling, anseatico di Lubecca, città ponte tra i super-falchi del rigore Germania e Olanda, parla il linguaggio dei falchi ma ha l’accortezza di non infarcirlo della pedante retorica moralista che a lungo abbiamo sentito da parte degli alti esponenti politici ed economici del Nord Europa. I suoi sono toni da burocrate, apparentemente neutri: ricorda che con 410 miliardi di euro per i prestiti agli Stati membri dell’Ue il Mes potrebbe garantire linee di credito a tassi di interesse bassi e dispone di “strumenti finanziari diversi per situazioni diverse”. Più del detto conta il non detto: e cioè che al ricorso al Mes sono legate le famose condizionalità che frenano i Paesi del Sud Europa dal consegnarsi a un incerto futuro di riforme strutturali e austerità che, peraltro, non verrebbero nemmeno governate dalla Commissione ma da quella che di fatto è un’istituzione terza. Nelle parole di Regling non c’è, dunque, alcuna presa di posizione sul reale dibattito attorno al Mes, e cioè l’incertezza se il ricorso ai suoi fondi dovrebbe essere un semplice ritorno in ogni Paese della quota data in dotazione (visione italiana) oppure subordinato a condizionalità leggere (Germania) o ferree (Olanda) e limitato a singoli Paesi che ne facciano richiesta. In questa tripartizione e nella differenza tra i vari approcci si gioca il futuro dell’Europa del rigore e dell’austerità. Regling parla da direttore del Mes ma certamente nell’editoriale della Faz parla, prima di tutto, da tedesco: il tentativo di tirare la volata a un compromesso favorevole ad Angela Merkel e, soprattutto, di distogliere il discorso dalla discussione sugli Eurobond è palese. Regling, il più influente tra i “santi in Paradiso” di Berlino, scende in campo e mantiene la palla nella metà campo dei rigoristi: ora per i Paesi mediterranei opporsi all’utilizzo del Mes sarà molto più difficile.
Da repubblica.it il 2 aprile 2020. In attesa di superare lo stallo su Mes e Coronabond, la Commissione europea lancia ufficialmente il suo primo strumento anti-crisi. Si tratta di SURE, un fondo europeo contro la disoccupazione (acronimo di Support to mitigate unemployment risks in emergency) che attraverso 25 miliardi di garanzie volontarie degli Stati permetterà di finanziare le "casse integrazioni" nazionali o schemi simili di protezione dei posti di lavoro. Inoltre sarà reso flessibile l'uso dei fondi non impegnati nella coesione sociale (fondo di sviluppo regionale, fondo sociale e fondo di coesione) per mobilitare le risorse per fronteggiare gli effetti della crisi sanitaria. Per affrontare la crisi coronavirus "servono solo le risposte più forti: dobbiamo usare ogni mezzo a nostra disposizione. Ogni euro disponibile nel bilancio dell'Ue verrà reindirizzato per affrontare la crisi, ogni norma sarà facilitata per consentire ai finanziamenti di fluire rapidamente ed efficacemente", ha detto la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, presentando il programma. "Con un nuovo strumento di solidarietà, mobiliteremo 100 miliardi per mantenere le persone nei loro posti di lavoro e sostenere le imprese - ha aggiunto - stiamo unendo le forze con gli Stati membri per salvare vite umane e proteggere i mezzi di sussistenza. Questa è solidarietà europea". "Molti chiedono un piano Marshall" per affrontare la crisi economica scatenata dal coronavirus, ha detto. "Io credo che il bilancio europeo deve essere il nostro piano Marshall che tutti insieme prepariamo". "Ad oggi l'Ue, e cioè le istituzioni europee e gli Stati membri, hanno mobilitato 2.770 miliardi di euro", ha ricordato von der Leyen. E' la più ampia risposta finanziaria ad una crisi europea mai data nella storia". Del nuovo strumento Sure aveva parlato questa mattina anche il commissario agli Affari economici Paolo Gentiloni, spiegando che il fondo "è la prima risposta comune dei Paesi europei" alla crisi, "il primo esempio concreto, un passo forse storico, e comincio a essere ottimista sul fatto che altri ne seguiranno". Il fondo Sure, ha spiegato Gentiloni, raccoglierà risorse sui mercati emettendo bond con tripla A, quindi a tassi bassissimi, che darà poi ai Paesi che ne hanno bisogno prestiti con scadenze a lungo termine. "E' il primo passaggio simbolico, forse storico, verso la messa in comune dell'impegno attuale e futuro" dei diversi Paesi dell'Unione. "Qui - ha detto l'ex premier - stiamo parlando di mettere insieme le forze economiche tra Paesi che hanno livelli di debito e di accesso ai mercati diversi per una situazione di emergenza e questi Sure bond sono il primo esempio". Quanto al Mes, Gentiloni ha ricordato che questo strumento è nato per affrontare un'altra crisi e con le sue condizionalità e programmi di rientro molto pesanti "non è adatto alla crisi attuale. Il Mes è nato in un'altra epoca storica, nella crisi precedente che aveva un'origine finanziaria. Quel tipo di strumento è completamente inadeguato alla situazione in cui ci troviamo adesso. Se queste condizionalità fossero eliminate, questo strumento che ha un patrimonio così importante potrebbe essere considerato in una luce diversa ma non fossilizziamo la discussione soltanto su questa questione", ha aggiunto a SkyTg 24.
Vittorio Macioce per “il Giornale” il 4 aprile 2020. Sure è un acronimo. Sta per Support to mitigate Unemployment Risks in Emergency. È il bagaglio di sopravvivenza con cui la Commissione europea spera di fare i primi passi nel deserto che ci troviamo davanti. Ursula von der Leyen dice che sarà la scintilla per far ripartire tutto. Paolo Gentiloni dice: bella idea. I governi del Nord Europa che non vogliono prestare soldi senza garanzie e considerano gli eurobond lo sterco del demonio ne parlano come un segno concreto della loro solidarietà. Per l' Italia, la Spagna e il Portogallo è elemosina. Di che si tratta? È una sorta di mezza cassa integrazione. Tu lavori meno ore, quelle che ti paga l'azienda, il resto del salario lo copre questo fondo straordinario europeo. Si basa su un modello tedesco e dovrebbe servire a sostenere l'occupazione. Il part time ben retribuito scongiura i licenziamenti. Un sistema che magari funziona se hai di fronte una crisi ciclica dell'economia. Il guaio è che la pandemia è qualcosa di diverso. Non è che stai imbarcando un po' d' acqua. È un naufragio. È la tempesta che sconquassa, sradica e non smette. L' impressione è che a Bruxelles fatichino a capire le conseguenze del diluvio. Non lo vedono o fanno finta. Ogni Paese di fatto sta reagendo davanti a tutto questo pensando a sé. Non si fidano gli uni degli altri. Qualche volta i dubbi vengono già dal nome. Gli acronimi spesso svelano il senso della beffa. Sure come sicuro. Sure come «ma certo». Sure come «mettici la mano sul fuoco». Sure come «stai tranquillo». Ecco che qui in Italia questo «sure» comincia ad assumere contorni un po' inquietanti. Non è che siamo scettici o malfidati per natura. È che ci ricorda da vicino lo «stai sereno». Sì, lui, quello che Renzi scrisse a Enrico Letta via twitter poco prima di fargli le scarpe. Insomma, sa di presa per i fondelli. Questa volta il Matteo di Rignano non c'entra. È una partita che non gli spetta giocare. Quello «stai sereno» alla lunga gli è tornato sulla faccia, come una nemesi, come una vendetta. Il principio però è lo stesso. I signori dell' Europa, e chi li rappresenta, stanno peccando della stessa arroganza e le conseguenze possono essere ancora più profonde rispetto al destino di Renzi. Matteo è un singolo individuo, qui si parla di come cambia la grande storia. L' Europa se non trova risposte non uscirà viva da tutto questo. E per trovarle deve sospendere il cinismo. Non si può andare avanti se non c' è fiducia. È nata su questo principio. Mi fido del mio vicino, di chi mangia, parla, si veste, sogna in maniera diversa da me, perché sotto quelle differenze superficiali c' è qualcosa che ci unisce, in cui ci riconosciamo. Mi fido perfino del mio nemico, di chi un tempo era sull' altra trincea, di chi mi ha occupato. Mi fido di chi ancora oggi sfido tutti i giorni sul mercato, di chi dice che i migranti sono sempre quelli degli altri. Mi fido anche se non dovrei fidarmi. Solo che adesso non ci possono essere più alibi. Il destino che ci si para davanti come un deserto è troppo vasto e fa troppa paura. Siamo al bivio: o si salva l' Europa o si mette in marcia la Pangermania. Ed è una storia che non ci appartiene.
Stefano Fassina su Facebook il 3 aprile 2020. È un grande bluff. E’ diventata propagantistica la comunicazione della Commissione europea. Stamattina, nel suo intervento su La Repubblica, la Presidente Von der Leyen ha illustrato la grande solidarietà europea a fondamento del Sure, il programma progettato da Bruxelles per il sostegno al reddito di lavoratrici e lavoratori degli Stati Ue più colpiti dal Coronavirus. La Presidente si è dimenticata di ricordare che le risorse eventualmente trasferite allo Stato richiedente sono un prestito, quindi debito pubblico aggiuntivo, da ripagare. Nella celebrazione, è stato anche omesso che ciascuno Stato dell’Ue deve dare garanzie irrevocabili, liquide e immediatamente esigibili alla Commissione affinché la Commissione possa emettere sul mercato i titoli necessari a raccogliere le risorse da prestare agli Stati in difficoltà. Nella narrazione, è poi saltato che la partecipazione al programma è su basi volontarie e che il programma parte soltanto quando tutti gli Stati membri mettono a disposizione della Commissione le garanzie necessarie. Inoltre, l’astuta terminologia “fino a 100 miliardi” copre la possibilità di arrivare a un ammontare di risorse disponibili decisamente inferiore, poiché dipendente dalle garanzie volontariamente messe a disposizione da ciascuno degli Stati Ue e dai limiti annui di impegno contenuti nelle norme istitutive: per avere a disposizione 100 miliardi da distribuire, sono necessarie garanzie per 25 miliardi; il massimo utilizzo complessivo annuo, per tutti gli Stati richiedenti, può essere soltanto il 10% delle risorse mobilizzabili dal Fondo. Infine, non è stato chiarito che i tempi per l’attuazione del programma, date le difficoltà finanziarie di ciascun Paese membro, la richiesta unanimità nella messa a disposizione delle garanzie e le inevitabili procedure amministrative non sarebbero certamente rapidi. In sintesi, per la fase più acuta della recessione e fino alla sua conclusione, potremo avere a disposizione, nello scenario ottimale ma altamente improbabile, qualche centinaio di milioni in prestito, sui quali risparmiare qualche milione di spesa per interessi, ma dopo aver impegnato 2 o 3 miliardi in garanzie “irrevocabili, liquide e immediatamente esigibili”. Un affarone. Grazie Ms Von der Leyen! Torno a sottolineare che, se avessimo una banca centrale ordinaria, come la Fed, la BoI o la BoJ, ciascuno Stato potrebbe ottenere, subito e senza preliminare immobilizzo di garanzie, le risorse non solo necessarie, ma anche urgenti per il sostegno ai redditi delle famiglie.
Carlo Cottarelli per La Stampa il 12 aprile 2020. Ormai la questione del sostegno finanziario dall' Europa contro la crisi da coronavirus è diventata pura guerra di comunicazione. I fatti non contano più. Contano solo gli slogan. Se ne sono dette troppe sull' accordo raggiunto dall' Eurogruppo il 9 aprile e non resisto alla tentazione di chiarire un po' di cose. A parte interventi di portata minore, l' accordo (che dovrà essere recepito il 23 aprile dal Consiglio Europeo) comprende 4 componenti.
Le prime due non sono state oggetto di controversie particolari per cui non mi dilungo.
La prima è lo «Sure», lo strumento di erogazione di prestiti a tasso agevolato proposto della Commissione Europea per finanziare le spese per i sistemi di protezione del lavoro (tipo cassa integrazione). Sarebbe pari a 100 miliardi e la Commissione si finanzierebbe emettendo titoli dietro garanzia fornita dai Paesi dell' Unione. Non si può chiamarli eurobond, per non urtare la sensibilità dei Paesi nordeuropei (che identificano il termine con la mutualizzazione del debito pubblico passato), ma cos' altro sono? All' Italia spetterebbero finanziamenti compresi probabilmente tra i 15 e i 20 miliardi, quasi un punto percentuale di Pil. Non mi sembra poco.
La seconda componente è la linea di credito di 200 miliardi che sarà messa a disposizione dalla Banca Europea degli Investimenti (Bei) per fornire garanzie e finanziare le imprese. Non si sa quanto andrà a quelle italiane. Dipende dalla validità dei progetti presentati. Anche qui le risorse vengono da titoli emessi dalla BEI con parziale garanzia dei Paesi europei. Altri eurobond quindi.
Le terza componente (il Fondo per la Ripresa) e, soprattutto, la quarta, la nuova linea di credito del Mes, sono state invece al centro di un infuocato dibattito politico. Cominciamo dal Fondo per la Ripresa.
Le intenzioni sono buone. Il Fondo sarebbe uno strumento «temporaneo, mirato e di importi commisurati ai costi straordinari della crisi». Quindi non una piccola cosa. E i finanziamenti verrebbero almeno in parte dalla emissione di titoli. Il problema è la vaghezza della proposta. Il comunicato dell'Eurogruppo non cita neppure una cifra sulla dimensione del fondo. Dice solo che «Sulla base delle indicazioni fornite dai Leader, le discussioni sugli aspetti legali e pratici di tale fondo prepareranno le basi per una decisione». Campa cavallo, verrebbe da dire. Però si è aperta la strada verso un' emissione di titoli comuni per sostenere la ripresa economica(di nuovo, non chiamiamoli «eurobond»).
Quanto ai tempi, se qualcuno pensa che servano risorse solo nell' immediato, si sbaglia di grosso. Gli effetti economici del corona virus si faranno sentire per parecchio tempo.
Passiamo al Mes, o meglio, alla nuova linea di credito erogata con risorse del Mes, il fondo salva stati. Questo si finanzia prevalentemente con l' emissione di titoli garantiti dai Paesi europei (pure questi sarebbero eurobond ma...). Si tratta di prestiti a tassi agevolati per un importo che, per l' Italia, sarebbe pari a 36 miliardi (il 2 per cento del Pil). Qui è dove nel nostro Paese il dibattito rasenta l' assurdo. Il problema è che il Mes è ormai inteso dai più come sinonimo di austerità perché, in passato, i prestiti del Mes venivano concessi in cambio di tagli al deficit pubblico. Ora, il comunicato dell' Eurogruppo dice: «Il solo vincolo per accedere alla linea di credito sarà che i membri dell' area dell' euro che richiedono il sostegno si impegnino a usare questa linea di credito per sostenere il finanziamento dei costi sanitari diretti e indiretti per cura e prevenzione dovuti alla crisi del Covid-19». Quindi la condizione non è quella di spendere meno (alias austerità) ma di spendere di più, seppure per cose legate (ma anche indirettamente) all' emergenza sanitaria. C' è puzza di fregatura, direbbe qualcuno, forse perché il Comunicato anche dice che «Le regole del trattato sul Mes saranno seguite». Probabilmente questo richiederà una valutazione della sostenibilità del nostro debito pubblico come condizione per il prestito. Ma a nessuno verrebbe mai in mente in questo momento di dire che il debito italiano non è sostenibile, quando la Bce ci sta finanziando alla grande. Il comunicato dice anche che, passata la crisi, i Paesi «rimarrebbero impegnati a rafforzare i propri fondamentali economici e finanziari, in linea con i contorni della coordinazione e la sorveglianza economica e fiscale della Ue, inclusa la flessibilità applicata dalle istituzioni Ue competenti». Insomma, un vaghissimo impegno a continuare a rispettare le regole europee sui conti pubblici, dopo la crisi. Cosa che peraltro saremmo tenuti a fare comunque.
Da un lato si grida al tradimento. Dall' altro si giura che mai e poi mai chiederemo un prestito al Mes. Insisteremo invece sugli eurobond. La realtà è che nessuno ormai si preoccupa di spiegare all' opinione pubblica perché il Mes senza condizionalità (se non quella di spendere soldi) e a tassi di interesse sovvenzionati non andrebbe bene. Né ci si preoccupa di notare che, seppure, lentamente, l' Unione Europea si sta avviando a estendere le emissioni in comune di titoli pubblici, già in uso per Bei e Mes, al finanziamento di altre iniziative (lo SURE, il Fondo per la Ripresa).
Non chiamateli eurobond perché al nordeuropa il termine fa venire l' orticaria. Ma questo sono. Non posso chiudere senza ricordare di nuovo (repetita iuvant) un altro punto fondamentale. Per quanto utili siano le nuove iniziative di finanziamento concordate dall' Euro gruppo, il principale contributo al finanziamento del deficit pubblico italiano quest' anno ci verrà dalla Bce, con acquisti dell' ordine di 240 miliardi di titoli di stato italiani. Si tratta di ordini di grandezza enormi rispetto ai numeri sopra citati. Perché non lo si vuole riconoscere?
Giuseppe Liturri per ''La Verità'' il 6 novembre 2020. Cosa c'è di meglio, di fronte ad una domanda scomoda, che fare finta di non aver capito e rispondere fischi per fiaschi? Pare questa la strategia adottata ieri, a proposito del prestito del Sure, dal commissario europeo Paolo Gentiloni nel corso della conferenza stampa di presentazione delle stime autunnali della Commissione sull'economia europea. La domanda scomoda, che è stata formulata solo sulle colonne di questo giornale lo scorso 30 ottobre, è quella relativa al contratto di finanziamento per il prestito di 27,4 miliardi erogato dalla Commissione all'Italia a fronte di spese eccezionali sostenute per cassa integrazione ed altre indennità ai lavoratori autonomi (Sure, in sigla). Tale contratto non è pubblicamente accessibile e ne è stata negato l'accesso ad un parlamentare europeo che ha chiesto di visionarlo. Esso contiene tutti gli elementi essenziali (tasso di interesse in primis) per valutare la convenienza relativa di questo strumento per le nostre finanze pubbliche e avrebbe già dovuto essere pubblicato dal ministero dell'Economia o dalla Commissione, allo stesso modo in cui sono pubblici i rendimenti delle aste dei titoli di Stato. Invece nulla. Questo è un debito di cui non è dato (ancora) conoscere i costi. Il 3 novembre la nostra richiesta di trasparenza ha trovato eco nella interrogazione a risposta scritta presentata al ministro dell'Economia ed al Ministro degli affari europei, con primo firmatario il senatore della Lega Alberto Bagnai. Nel documento si chiede di sapere «se i Ministri in indirizzo siano in grado di spiegare i motivi della non immediata pubblicità del loan agreement [] e quali azioni intendano intraprendere al fine di renderlo pubblico». La risposta di Gentiloni è degna del teatro dell'assurdo: «Non c'è nessun complotto nell'accordo europeo sui fondi Sure il cui testo non è stato pubblicato». Allora, se non c'è alcun segreto, perché non lo pubblica? Non sappiamo chi abbia suggerito al commissario la parola «complotto», che è totalmente estranea al contenuto della nostra richiesta, effettivamente finalizzata a sapere perché quel contratto non sia pubblico, senza formulare accuse di alcun tipo. Il fatto che Gentiloni, non noi, avanzi la tesi del complotto appare una voce dal sen fuggita che, a questo punto, avvalora i peggiori sospetti. Allora c'è effettivamente qualcosa in quel contratto che è meglio non far conoscere ai cittadini italiani? E la Commissione ed il Mef quanto a lungo si trincereranno dietro le eccezioni al diritto di accesso previste dal Regolamento 1049/2001, molto simili a delle forche caudine manovrabili con eccessiva discrezione? «Credo che ci sia anche una richiesta formale avanzata dal Parlamento italiano e penso che le autorità italiane siano in contatto con la Commissione per verificare le modalità di risposta sul testo dell'accordo Sure. Io - ha continuato Gentiloni - avendone firmati 17, di accordi come questo, sono abbastanza tranquillo sul fatto che non ci sono complotti o segreti. Semmai possono esserci alcuni dati sensibili sul cui trattamento bisognerò fare verifiche nel dialogo tra autorità. Ma certamente non c'è nessun documento misterioso». Il commissario inanella una collana di frasi logicamente scollegate. Delle due, l'una: o un documento è segreto o è pubblico. E se è inizialmente segreto, tale resta fino alla sua pubblicazione. Spiace ribadire l'ovvio, ma pare che Gentiloni ne abbia bisogno. Tuttavia si lascia sfuggire il tema dei dati sensibili, rivelando un nervo scoperto. Infatti un contratto di finanziamento simile è previsto anche per i prestiti del Recovery fund, all'articolo 13 del Regolamento ancora oggetto di trattativa. E in quel documento saranno contenuti il meccanismo di determinazione del tasso di interesse, la scadenza media, le rate e, soprattutto, «gli altri elementi necessari per l'attuazione del prestito». Con esplicito riferimento a riforme aggiuntive richieste. Insomma le famose condizioni che serviranno a rafforzare il vincolo esterno sul nostro Paese. In base a tutto ciò, non possono esserci dati sensibili in quel contratto, ma solo dati essenziali per capire le obbligazioni assunte dal nostro Paese. Sul fronte della sostenibilità del debito italiano, Gentiloni fa strage, in un colpo solo, delle menzogne che durante l'autunno del 2018 ci costarono diverse decine di punti di spread, che arrivò a superare di poco 300 punti. Infatti, sembrava che qualche decimale di deficit/Pil in più per finanziare quota 100 ed il reddito di cittadinanza, a prescindere dal giudizio sulle due misure, fossero sufficienti a mettere in discussione la sostenibilità del nostro debito ed i mercati furono opportunamente aizzati da dichiarazioni incendiarie dei commissari Ue. All'epoca, la crescita era di poco superiore allo zero ed il debito/Pil si attestava intorno al 135%. Oggi il Pil 2020 è previsto in calo del 10% ed il debito/Pil viaggia verso il 160% e Gentiloni crede «che non ci sia oggi alcuna preoccupazione sulla sostenibilità. C'è la necessità, nel medio periodo, di mettere il debito in un percorso di sostenibilità e credo che questa preoccupazione sia pienamente condivisa dal governo italiano». Purtroppo la ferma sicurezza di Gentiloni nasconde un percorso di aggiustamento dei conti pubblici che non promette nulla di buono per il nostro Paese. Ai suoi occhi, ed a quelli della Commissione, la sostenibilità si ottiene solo con avanzi primari crescenti, già previsti dal 2023, che porteranno solo recessione. Il meccanismo già visto all'opera tra 2012 e 2014.
· La Caporetto di Conte e Gualtieri.
Angelo Bolaffi: “Il problema non sono i tedeschi ma noi”. Umberto De Giovannangeli de il Riformista il 12 Aprile 2020. «In Europa non c’è un caso tedesco, semmai esiste un caso italiano. Oggi i veri “keynesiani” sono i tedeschi». A sostenerlo, in questa intervista a Il Riformista, è Angelo Bolaffi, filosofo della politica e germanista, dal 2007 al 2011 direttore dell’Istituto di cultura italiana a Berlino, autore di numerosi saggi tra i quali ricordiamo: Il sogno tedesco. La nuova Germania e la coerenza europea (Donzelli, 1993), Cuore tedesco. Il modello Germania, l’Italia e la crisi europea (Donzelli, 2013), Germania/Europa. Due punti di vista sulle opportunità e i rischi dell’egemonia tedesca (con Pierluigi Ciocca, Donzelli 2017) e il più recente Calendario civile europeo. I nodi storici di una costruzione difficile (Donzelli, 2019).
Professor Bolaffi, esiste in Europa un “caso tedesco”?
«No, esiste un caso italiano. Nel senso che un Paese come il nostro, che è la settima potenza industriale al mondo e la seconda in Europa, si presenta con un debito pubblico che è il doppio del Pil. A ciò si aggiunga che l’Italia è un Paese che ha sempre bisogno di profondissime riforme, un Paese che ha mancato la grande occasione di autoriformarsi, che si era presentata con la globalizzazione dell’economia dopo la caduta del Muro di Berlino. Oggi questa globalizzazione entra in crisi ed eleva al quadrato le difficoltà dell’Italia, che sono amministrative, economiche ma soprattutto politiche».
C’è chi ha rappresentato quello tra i Paesi dell’eurozona come uno scontro tra le “formiche” del Nord e le “cicale” del Sud, tra le quali l’Italia.
«Questo è un racconto che ci facciamo in funzione autoconsolatoria, visto che gli italiani sono i veri “protestanti”…
Nel senso?
«Nel senso che il risparmio italiano è il più alto di tutta l’eurozona. Quindi il problema non è “formiche” contro “cicale”, ma Stati finanziariamente solidi e Stati finanziariamente deboli. Il racconto della Germania che odia i debiti è smentito dal fatto che di fronte a questa crisi, ha messo in campo 1.000 miliardi: si tratta di un tipo di debito, come fanno gli italiani, per finanziare la spesa corrente e i debiti fatti per contrastare una crisi vera. I veri keynesiani sono i tedeschi, gli altri sono “keynesiani all’amatriciana”».
Professor Bolaffi, ma la “madre di tutte le battaglie” ai tempi del Covid-19, al di là dell’aspetto sanitario, è quella degli Eurobond?
«Quando gli storici racconteranno come i governi europei si sono divisi e scontrati sul tema Eurobond, scopriranno che una parte della classe politica italiana ha usato questo tema strumentalmente per poter dimostrare ciò che avevano deciso già all’inizio, vale a dire di non volere l’Europa. Come Lorenzo Bini Smaghi ha lucidamente raccontato, quello degli Eurobond è un falso obiettivo, perché politicamente non ottenibile, e dal punto di vista finanziario anche molto difficile da realizzare. Se l’Italia avesse voluto realmente sparigliare a livello europeo, avrebbe dovuto chiedere solidarietà senza l’inutile provocazione degli Eurobond, che mette oggettivamente in difficoltà altri governi europei che debbono anch’essi fare i conti con i populisti dei loro Paesi».
Come valuta il comportamento assunto in questa fase dalla cancelliera Merkel?
«Da un punto di vista “astrologico”, ciò di cui bisogna prendere atto è che quello che sarà forse il semestre decisivo per il futuro dell’Europa, sarà sotto il segno di due donne tedesche: la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, e la cancelliera Angela Merkel che presiederà il semestre che inizierà il 1° luglio e la cui conclusione di fatto segnerà l’uscita dalla scena politica tedesca ed europea della cancelliera Merkel. Quale sarà il testamento politico che lascerà Angela Merkel? Una Europa in rovina o una Europa che si apre definitivamente al XXI° secolo?».
Questa Europa che si dovrebbe aprire al XXI° secolo deve comunque fare i conti con il fardello dei Paesi dell’Est…
«Non è solo un fardello. È un pericolo. Oggi noi tutti siamo giustamente preoccupati dalla pandemia, dalle morti e da una minacciosa futura crisi economica. Ma la minaccia più grave al valore centrale del progetto europeista è l’attacco alla democrazia e ai valori costituzionali portati dai governi ungherese e polacco. Anche qui è chiamata in causa la Germania della cancelliera Merkel, perché Orban (il premier magiaro, ndr) fa parte del Partito popolare europeo le cui decisioni dipendono in larga misura dalla Cdu tedesca e dalla consorella bavarese. Finora la Merkel e il Ppe hanno traccheggiato, ma con le ultime decisioni, Orban ha varcato il Rubicone, portando un attacco ai valori democratici e liberali. E questo è intollerabile».
Nulla sarà più come prima, si ripete come un mantra in questo drammatico frangente. In chiave europea, cosa può significare?
«Può significare che se da questa crisi non si esce con almeno un passo in avanti verso una maggiore integrazione, che significa anche maggiore solidarietà, l’effetto di rinculo sarà terribile, si andrà verso una disintegrazione».
(Ansa il 9 aprile 2020) "Il solo requisito per accedere alla linea di credito del Mes sarà che gli Stati si impegnino a usarla per sostenere il finanziamento di spese sanitarie dirette o indirette, cura e costi della prevenzione collegata al Covid-19": è quanto si legge nelle conclusioni dell'Eurogruppo. "La linea di credito sarà disponibile fino alla fine dell'emergenza. Dopo, gli Stati restano impegnati a rafforzare i fondamentali economici, coerentemente con il quadro di sorveglianza fiscale europeo, inclusa la flessibilità".
Da corriere.it il 9 aprile 2020. «L’Eurogruppo ha trovato l’accordo. Un pacchetto di dimensioni senza precedenti per sostenere il sistema sanitario, la cassa integrazione, la liquidità alle imprese e il Fondo per un piano di rinascita. L’Europa è solidarietà». Lo twitta il commissario all’Economia Paolo Gentiloni. Qualche dettaglio sull’accordo arriva dal ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri: «Messi sul tavolo i bond europei, tolte dal tavolo le condizionalità del Mes. Consegniamo al Consiglio europeo una proposta ambiziosa. Ci batteremo per realizzarla». La riunione dell’Eurogruppo è iniziata poco dopo le 21 e 30 (con oltre quattro ore di ritardo). Secondo indiscrezioni, il ritardo sarebbe legato ai negoziati bilaterali, durante i quali le posizioni dei ministri dell’Eurogruppo si sarebbero avvicinate. In particolare, si sarebbe ammorbidita quella dell’Olanda. Parte del compromesso sul tavolo, a cui hanno lavorato il presidente dell’Eurogruppo Mario Centeno assieme a Francia, Germania, Italia e Olanda, prevedrebbe di lasciare la controversa questione del Recovery Fund, cioè la via francese agli Eurobond, ad una lettera del presidente dell’Eurogruppo ai leader Ue, che resta quindi separata dalle conclusioni ufficiali, le uniche con valore legale. Secondo quanto si apprende, non ci sarebbe quindi menzione di Eurobond nel testo finale.
Marco Bresolin per La Stampa il 9 aprile 2020. Italia, Francia, Spagna, Germania e Olanda hanno trovato un'intesa sul pacchetto economico anti-crisi. Nel corso del pomeriggio e della serata, i ministri dei cinque Paesi, coordinati dal presidente dell'Eurogruppo Mario Centeno, hanno negoziato una bozza di compromesso. Secondo quanto risulta a La Stampa da fonti diplomatiche, verso le 21 la situazione si sarebbe sbloccata. L'accordo deve ora essere sottoposto all'Eurogruppo in formato allargato (partecipano tutti i 27 ministri delle Finanze) che deve dare il via libera al pacchetto di misure che prevede l'utilizzo del Fondo salva-Stati, il piano anti-disoccupazione «Sure», il fondo di emergenza della Banca europea per gli investimenti e un accenno al piano per la ripresa, ma - da quanto risulta - senza un riferimento esplicito agli Eurobond. Dalle indiscrezioni che filtrano, l'Olanda avrebbe fatto un passo indietro, rinunciando alla richiesta di condizionalità macro-economiche rigide per l'erogazione dei prestiti del Mes. Il Fondo avrà dunque condizioni più leggere, come previsto nella proposta di compromesso già accettata nei giorni scorsi dalla Germania. L'Italia avrebbe dunque rinunciato al Mes «senza condizioni» e dato il suo via libera a una formulazione nel testo finale che non cita esplicitamente gli Eurobond, sui quali è netto il «no» della Germania, dell'Olanda e degli altri Paesi rigoristi. Su questo tema spetterà al Consiglio europeo, la prossima settimana, definire i dettagli.
Da repubblica.it il 9 aprile 2020. (...) il ministro olandese delle finanze, Wopke Hoekstra, che al tavolo si era mostrato inizialmente ostile alle proposte italiane, sulla stessa linea della Germania: "Dopo lunghe e intense conversazioni negli ultimi due giorni, L'Eurogruppo è giunto a una buona conclusione. Il Mes "può fornire assistenza finanziaria ai Paesi senza condizioni per le spese mediche" e "sarà anche disponibile per il sostegno economico, ma a condizioni. E' giusto e ragionevole".
Il documento finale. Mes light e niente Coronabond, cosa prevede l’accordo dell’Eurogruppo da 500 miliardi. Redazione de Il Riformista il 10 Aprile 2020. Un accordo con compromessi per tutte le parti in causa, come è normale che sia quando a trattare sono 27 Paesi. È quanto emerso dall’Eurogruppo conclusosi giovedì sera, con l’intesa tra i vari ministri finanziari guidati dal presidente portoghese dell’Eurogruppo Mario Centeno. LE TRE MISURE PER LA CRISI – Al termine della riunione fiume, iniziata il 7 aprile e finita dopo 16 ore il giorno successivo, per poi venire convocata una seconda volta, è stato trovato un accordo che il commissario all’Economia Paolo Gentiloni ha definito “senza precedenti”. Al suo interno ci sono tre misure: Sure, la cassa integrazione europea con disponibilità fino a 100 miliardi, un fondo speciale della Bei (Banca europea degli investimenti) da 200 miliardi di euro, e soprattutto una nuova disponibilità del Mes da 240 miliardi.
IL MES A CONDIZIONI LIGHT – La questione chiave è ovviamente l’ok al Fondo Salva Stati e la bocciatura dei Coronabond chiesti a gran voce da Italia e Spagna. Il Mes erogherà fondi incondizionatamente per le spese mediche dei Paesi, e sarà a disposizione per prestiti a sostegno all’economia “ma con condizioni”, come sottolineato dal ministro delle Finanza olandese Wopke Hoekstra. “L’unico requisito” per utilizzare i fondi delle linee di credito del Mes, si legge infatti nel documento finale, è che “questi fondi siano usati sostenere spese sanitarie e di prevenzione, dirette e indirette”. Un compromesso per tutti: per i Paesi Bassi che volevano prestiti Mes a 5/10 anni con stringenti condizioni, e per i Paesi del sud Europa che da giorni spingono per i Coronabond, per la mutualizzazione europea del debito. Nell’accordo è invece rimasto il limite dei prestiti Mes al 2% del Pil (circa 36 miliardi per l’Italia). E’ bene specificare che l’aiuto del Fondo Salva Stati andrà solo ai Paesi che lo chiederanno, e come precisato dal Ministero dell’Economia l’Italia non l’ha fatto.
LA SPERANZA RECOVERY FUND – La speranza per nuove misure di sostegno ci sono ancora. Nel documento finale emerso dalla riunione dell’Eurogruppo si fa riferimento ad un “Recovery Fund per sostenere la ripresa”. Si tratta, ancora sulla carta, di un fondo da circa 500 miliardi “temporaneo e commisurato ai costi straordinari della crisi e aiuterà a spalmarli nel tempo attraverso un finanziamento adeguato. Soggetti alla guida dei leader, le discussioni sugli aspetti pratici e legali del fondo, la sua fonte di finanziamento, e strumenti innovativi di finanziamento, coerenti con i Trattati, prepareranno il terreno per una decisione”.
Mes, i dettagli: senza condizioni solo per le spese sanitarie. Franco Bechis: "Ci pagano le mascherine, un pugno di mosche". Libero Quotidiano il 10 aprile 2020. L'Italia ha firmato quella che sembra la sua condanna a morte: Giuseppe Conte, all'Eurogruppo, ha ingoiato il Mes. No agli eurobond, insomma, sì al fondo salva-Stati e a determinate condizioni. Certo, ad ora ancora non abbiamo fatto ricorso al famigerato Mes, ma considerato quanto il coronavirus stia distruggendo il nostro Paese è semplice comprendere quanto quel giorno sia vicino. E sarà un giorno tragico. Andiamo qui a comprenderne le ragioni. Si parta da quanto twittato da Paolo Gentiloni subito dopo l'accordo: "L’Eurogruppo ha trovato l’accordo. Un pacchetto di dimensioni senza precedenti per sostenere il sistema sanitario, la cassa integrazione, la liquidità alle imprese e il Fondo per un piano di rinascita. L’Europa è solidarietà". Balle spaziali. La verità, cruda, è quell spiegata dall'altro super-falco olandese, il ministro delle finanze Wopke Hoekstra, braccio destro di Mark Rutte, da subito ostile a ogni proposta italiana. "Dopo lunghe e intense conversazioni negli ultimi due giorni, L'Eurogruppo è giunto a una buona conclusione", ha premesso Hoekstra. Il Mes "può fornire assistenza finanziaria ai Paesi senza condizioni per le spese mediche" e "sarà anche disponibile per il sostegno economico, ma a condizioni. È giusto e ragionevole". E il quadro inizia ad essere più chiaro. Mes senza condizioni solo per spese mediche, quelle che quando sarà finita l'emergenza coronavirus, di fatto, saranno un capitolo residuale. Come lo sono già oggi, a fronte del danno economico, pazzesco, in termini di Pil, produzione, disoccupazione, economia reale. Insomma, la presa per i fondelli è clamorosa. E non solo, come detto è anche pericolosa: il falco olandese spiega che il Mes sarà a disposizione anche per il sostegno economico, "ma a condizioni". Che restano quelle di sempre: perdita di sovranità, commissariamento, Troika, dunque nuove tasse. A fare il punto, su Twitter, ci pensa anche Franco Bechis. Una serie di cinguettii illuminanti. Il primo spiega che "non è vero, come ha subito chiarito il ministro olandese" che siano state tolte condizionalità al Mes. Dunque mette in chiaro come le spese mediche coperte dal Mes siano "nulla". "Ci paghiamo le mascherine e forse un po' di terapie intensive. Eravamo in grado di farlo da soli. E' la crisi economica dovuta alla serrata la sola cosa per cui ci servivano quei soldi", sottolinea Bechis. "Resta condizionale per aiutare l'economia ferita. Senza condizioni solo per le spese mediche. Un pugno di mosche", conclude il direttore del Tempo.
Stefano Fassina contro Conte e Gualtieri: "Dall'Eurogruppo una trappola, l'ok è un grave errore politico". Libero Quotidiano il 10 aprile 2020. Sull’accordo accettato dall’Italia in seno all’Eurogruppo rischia di spaccarsi definitivamente il governo Conte bis. La collaborazione con i partiti dell’opposizione è andata a farsi benedire, ma ora le crepe sono evidenti anche nella raffazzonata maggioranza giallorossa. La “calata di braghe” del premier e del ministro Gualtieri è sintetizzata da Stefano Fassina, deputato di Leu, che si schiera contro i suoi stessi compagni a causa dell’accordo con l'Ue: “Il pacchetto condiviso dall’Eurogruppo è una trappola. C’è soltanto il Mes. Il Sure, il sostegno ai disoccupati, è un grande bluff; le garanzie per le imprese sono già nella mission Fib e già pagate anche da noi; nessun impegno per il Recovery Fund, la formula usata per non citare gli eurobond. Grave errore politico l’ok dell’Italia, il governo deve venire subito in Parlamento”.
Mes, la "Caporetto" di Gualtieri: così ha fallito su tutta la linea. Il governo aveva detto "no al Mes e sì agli eurobond". Ma l'accordo siglato all'Eurogruppo prevede l'esatto opposto. Roberto Vivaldelli, Venerdì 10/04/2020 su Il Giornale. Bisognava davvero impegnarsi a fondo per arrivare a un accordo completamente al ribasso per l'Italia, uno dei Paesi fondatori dell'Unione europea schiacciato e umiliato dai Paesi del Nord e dalla piccola Olanda, paradiso fiscale nel cuore dell'Unione europea ma paladina del rigore, ma il ministro delle finanze Roberto Gualtieri è riuscito in quest'impresa rispetto alla quale Caporetto sembra quasi un successo. Non solo non ci sono né coronabond né eurobond ma come ha spiegato Lorenzo Vita su InsideOver, il Mes, che il premier Conte aveva detto di non voler accettare, è invece ben presente con la precisazione che sarà senza condizionalità solo per spese sanitarie legate direttamente o indirettamente all’emergenza coronavirus. Viene dato ampio spessore al ruolo della Bei, la Banca europea per gli investimenti, che casualmente è guidata da un tedesco. E il Sure, voluto dalla tedesca (ed ex ministro di Frau Merkel) Ursula von der Leyen, campeggia come pilastro dell’accordo.
Si spacca il fronte a sinistra. Una delle sintesi migliori della "calata di braghe" di Gualtieri è del deputato di maggioranza Stefano Fassina, che a proposito dell'accordo di ieri nota: "Il pacchetto condiviso dall’Eurogruppo è una trappola: c’è soltanto il Mes. Il ‘Sure’, il sostegno ai disoccupati, è grande bluff; le garanzie per le imprese sono già nella mission Eib (la Banca europea per gli investimenti) e già pagate anche da noi; nessun impegno per il Recovery Fund, la formula usata per non citare gli Eurobond. Grave errore politico l’ok dell’Italia. Il Governo deve venire subito in Parlamento". Ma l'accordo spacciato dal ministro fa infuriare anche una parte dei cinque stelle, come il parlamentare Pino Cabras, che sui social osserva: "La proposta di accordo che è stata negoziata all'Eurogruppo dal ministro Gualtieri è palesemente da rigettare. A qualcuno può bastare che le "condizionalità" previste dal trattato MES non siano citate nella vaga dichiarazione finale. A qualcuno può bastare che l'Olanda non sia riuscita a mettere quella parola nero su bianco. Ma queste cose possono bastare appunto a chi non va dietro le parole. La sostanza è che quell'accordo fa comunque riferimento al trattato". Il deputato leghista Claudio Borghi parla apertamente di "tradimento" in riferimento al ministro delle finanze.
Gualtieri difende l'accordo ma non cita l'articolo 16. Il ministro naturalmente tenta di di difendere l'indifendibile e proclama il successo della sua iniziativa: "L’accordo raggiunto dall’Eurogruppo sul pacchetto di proposte per l’emergenza Covid-19 da sottoporre alle decisioni del Consiglio Europeo costituisce un ottimo risultato che giunge dopo un negoziato difficile e a tratti aspro" spiega Roberto Gualtieri su Facebook. "Grazie alla solida alleanza tra l’Italia e gli altri paesi firmatari della lettera promossa dal Presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, l’agenda europea è cambiata e si è passati da un documento con un'unica proposta, il MES con condizionalità leggere, a un pacchetto di quattro proposte che include 200 miliardi della Bei per le imprese, 100 miliardi che attraverso il nuovo programma SURE contribuiranno a finanziare la cassa integrazione e la proposta italo-francese di un grande Fondo per la Ripresa alimentato dall’emissione di debito comune europeo". Peccato che il diavolo, come al solito, sia nei dettagli, cioè nel punto 16 dell'accordo siglato all'Eurogruppo: "La linea di credito sarà disponibile fino alla fine della crisi COVID-19. Successivamente, gli Stati membri dell'Eurozona si impegneranno a rafforzare i fondamentali economici e finanziari, coerentemente con il quadro di coordinamento e monitoraggio economico e fiscale dell'UE, inclusa l'eventuale flessibilità applicata dalle istituzioni UE competenti". In buona sostanza, terminata l'emergenza sanitaria, il Mes - a cui l'Italia dovrà accedere per far fronte alla crisi - può decidere che devono cambiare anche le condizionalità. E non sarà uno scherzo. Questo è ciò che prevedono i trattati, che non sono stati modificati. Altro che "niente condizionalità" o grande successo. Gualtieri ha firmato la resa. Che farà ora il premier Giuseppe Conte?
Da liberoquotidiano.it il 10 aprile 2020. Una giornata cupa, funesta, per l'Italia. Dopo il coronavirus il colpo di grazia di un'Europa inesistente, interessata soltanto a spolparci. Già, all'Eurogruppo è andato tutto come previsto: no agli Eurobond, sì al famigerato Mes. Senza passaggi parlamentari. Insomma, Giuseppe Conte si piega a Berlino e Olanda senza colpo ferire. E adesso abbiamo paura. Una paura sintetizzata da Mario Giordano su Twitter, poche parole per descrivere quello che ci aspetta: "Missione compiuta, Italia svenduta, mes e schiavi di Berlino Iddio ci creò", parafrasa il nostro inno nazionale. Infine, il conduttore di Fuori dal Coro aggiunge: "Grazie Conte, grazie Gentiloni, grazie Gualtieri", ricordando chi siano stati i tre protagonisti principali di questa sciaguratissima trattativa.
Maurizio Belpietro per “la Verità” il 10 aprile 2020. Elogio della democrazia. Il popolo è sovrano ed esercita la sovranità tramite il Parlamento. Peccato che a essere interpellato attraverso i suoi rappresentanti non sia stato il popolo italiano, ma quello olandese, il quale ieri ha detto un secco no agli eurobond, ossia a uno strumento comune a tutta l' Europa per finanziare l' emergenza economica conseguente al coronavirus. Gli olandesi non vogliono sentir parlare di titoli di Stato che li accomunino a italiani, spagnoli, francesi o portoghesi. Loro vogliono starsene nel loro cantuccio a godersi i frutti della Ue senza avere altri pensieri se non quelli di coltivare i tulipani e concedere forti sconti fiscali alle aziende che abbiano intenzione di piantare radici nei Paesi Bassi. Sì, molto pragmaticamente i sudditi di re Guglielmo se ne fregano della solidarietà, degli Stati Uniti d' Europa e pure dei vantaggi di cui, grazie allo scudo protettivo dell' Unione, hanno goduto finora. Agli olandesi, egoisticamente, importa solo degli affari loro. E per evitare che ragioni comunitarie li inducano a mandar giù il rospo dei bond garantiti dall' Europa senza avere niente in cambio, neppure un po' di penalizzazioni dei partner Ue, si sono portati avanti, votando in Parlamento e impegnando il governo a respingere qualsiasi accordo che preveda una condivisione del rischio. Con un semplice voto, sono stati mandati in pensione anni di chiacchiere sul sogno europeo, sulla straordinaria forza dell' Unione, sulla pace e il benessere garantiti da Paesi che per centinaia di anni si erano fatti la guerra, privilegiando gli interessi nazionali a quelli del continente. Sì, dopo oltre settant' anni di tregua, in Europa si torna a farsi la guerra. Ma non usando i cannoni, le bombe e tutte quelle cose lì. Le battaglie si conducono con lo spread, i tassi d' interesse, il Mes e tutte quelle altre regole con cui, grazie al trattato di Maastricht prima e agli altri accordi poi, si sono legate le mani agli Stati che oggi, in piena epidemia, si trovano più deboli, meno liberi, con la palla al piede di aver ceduto una parte della propria sovranità a Bruxelles in cambio di una presunta tranquillità. Ovviamente non ci stupiamo di quel che è accaduto, cioè del voto olandese. C' era da immaginarselo, visto che fino al giorno prima il governo dei Paesi Bassi aveva negato qualsiasi possibile mediazione su un finanziamento comune per far fronte all' emergenza. Gli interessi nazionali, ma diciamo pure gli egoismi politici, erano evidenti e a dire il vero anche immaginabili visto ciò che è accaduto negli anni recenti sul debito pubblico, sul pareggio di bilancio e sull' immigrazione. Le identità di vedute richieste da chi coltiva l' idea di una comunità di Stati non sono mai esistite se non nella fantasia e nell' illusione di qualche politico, sostenute più dall' ideologia che dalla realtà. Ciò detto, l' Olanda non è il solo Paese a voltare la testa di fronte al dramma di chi è stato duramente colpito dal coronavirus. Ieri Die Welt, giornale del gruppo tedesco Springer, ha sintetizzato in un articolo il pensiero di una parte della Germania: non bisogna dare liquidità agli italiani con i bond garantiti dall' Europa perché sennò i soldi se li prende la mafia. Certo, lo Spiegel ha definito vigliacche le posizioni di chi chiude la porta in faccia ai Paesi più duramente colpiti dall' epidemia, ma le posizioni tipo quelle di Die Welt appaiono in linea con la spocchia spesso manifestata da molti commentatori tedeschi i quali, dimenticandosi degli aiuti ricevuti in passato anche dalla stessa Italia, guardano al nostro Paese con un complesso di superiorità. Luigi Di Maio e compagni hanno protestato con Berlino, chiedendo pubbliche scuse per l' articolo oltraggioso, ma che c' è di diverso da quello a cui un tempo si lasciarono andare altre testate, tipo la P38 sugli spaghetti o l' accusa a tutti gli italiani di essere degli Schettino? L' Europa vera è questa, quella egoista e presuntuosa che guarda l' Italia con un misto di disprezzo e di superbia. Non si tratta di voler atteggiarsi a vittime, ma di guardare in faccia alla realtà. Dalla situazione in cui ci troviamo per effetto dell' epidemia di coronavirus usciremo solo con le nostre forze, senza eurobond o senza Mes, come era ampiamente prevedibile nonostante il garrulo ottimismo del nostro presidente del Consiglio. Un' Europa egoista e cinica non ci serve. Ci serve un governo autorevole e capace, che non racconti frottole in diretta tv, ma che abbia il coraggio e l' appoggio degli italiani.
Federico Punzi per atlanticoquotidiano.it il 10 aprile 2020. Il governo italiano ha mancato tutti gli obiettivi che si era prefissato e che qui, a scanso di equivoci, non abbiamo mai comunque considerato particolarmente desiderabili e certamente nemmeno realistici, perché in conflitto con la dura realtà dei trattati e le inscalfibili e arcinote posizioni della Germania e di altri Paesi del centro e nord Europa. Per altro, obiettivi che ha ritenuto di perseguire senza alcun mandato da parte del Parlamento (quello olandese, per dire, si è espresso due volte prima dell’Eurogruppo), senza nemmeno una discussione parlamentare. Il presidente Conte e il ministro Gualtieri non si sono nemmeno presentati. Lo faranno il giorno prima del Consiglio dei capi di stato e di governo che dovrà ratificare le proposte dell’Eurogruppo, ma è chiaro che il pacchetto è chiuso e solo qualche dettaglio potrà essere ridiscusso o aggiunto. E questo, l’umiliazione del nostro Parlamento, l’emergenza democratica, è forse l’aspetto più amaro della vicenda e più grave della condotta del nostro governo. Potevate risparmiarvi di trattenere il fiato fino a ieri sera in attesa delle conclusioni dell’Eurogruppo, più volte rinviate questa settimana, leggendo lunedì scorso, 5 giorni fa, l’articolo di Musso per Atlantico dal previdente titolo: “La Caporetto italiana a Bruxelles: da Conte e Gualtieri, a Draghi”, dove veniva spiegato già tutto: Il governo italiano ha condotto in Europa una trattativa e la ha persa. Cercava una garanzia sul rifinanziamento del debito pubblico. I Paesi del Nord vogliono che alla bisogna provveda il risparmio italiano, che sanno sovrabbondante. La loro vittoria è sancita dalle nuove condizioni di accesso al MES, uguali alle vecchie. Il ministro Gualtieri è di fronte a scelte drastiche e non può a lungo rinviarle. Mario Draghi ha già presentato il manifesto per il dopo-Gualtieri. E come già lunedì ci sembrava scontato, alla fine è passato il “pacco” franco-tedesco, già concordato nei punti fondamentali da Parigi e Berlino domenica scorsa (nein Mes senza condizionalità, nein Coronabond): Mes, Bei, SURE, questi i tre pilastri, a cui se ne affianca come vedremo un quarto ma ancora tutto da definire e a medio termine. Sul Mes un’unica concessione: linea di credito con l’unica condizione di sostenere “il finanziamento dei costi, diretti e indiretti, sanitari, di cura e prevenzione dovuti alla crisi del Covid-19“. “Afterwards”, dopo l’emergenza, non vere e proprie condizioni, ma un richiamo agli impegni con la Commissione sul Patto di stabilità. Dirette o indirette, comunque dovrà trattarsi di spese di “healthcare, cure and prevention” e relative al Covid-19, non di sostegno all’attività economica per i costi del periodo di lockdown, mentre nella bozza di conclusioni di martedì 7, all’inizio dell’Eurogruppo, c’era almeno il riferimento a “other economic costs” relativi alla crisi. Il testo di ieri sera è quindi addirittura peggiorativo. Per il supporto all’economia, condizionalità piena, cioè alle condizioni già previste. Riassume così il ministro olandese Hoekstra: “The ESM can provide financial help to countries without conditions for medical expenses. It will also available for economic support, but with conditions. That’s fair and reasonable.” E ci sembra di trovare riscontro nel testo ufficiale. E gli Eurobond, o Coronabond? Non ci sono, nemmeno di striscio nel testo che ha valore legale. Il contentino sarà che nella lettera ai leader Ue che accompagna le conclusioni dell’Eurogruppo il presidente Mario Centeno spiegherà che alcuni Paesi sono a favore dei Coronabond e altri contrari. Come dicevamo, c’è un quarto strumento, chiamato Recovery Fund, che però è ancora tutto da definire: servirà per sostenere la ripresa “provvedendo al finanziamento attraverso il budget Ue di programmi volti a riavviare l’economia in linea con le priorità europee e assicurando solidarietà agli stati membri più colpiti”. Più avanti si parla di “innovative financial instruments” ed è molto probabile che oggi leggerete o sentirete da molte parti che in realtà sono proprio questi i sospirati Coronabond. Come ha spiegato il ministro Hoekstra, si tratta di una formulazione “deliberatamente vaga” così che tutte le parti possano leggerci quello che vogliono e infatti il ministro Gualtieri si è affrettato ieri sera a rivendicare di aver “messo sul tavolo i bond europei”. La realtà è che quello sulla mutualizzazione del debito resta un “dibattito fantasma”. Il vero dramma è che il premier Conte e il ministro Gualtieri hanno perso tre settimane preziose, forse decisive per salvare la nostra economia, infilandosi in un lacerante negoziato per obiettivi inutili, se non dannosi (Mes), e comunque irrealistici (Coronabond), considerando le red lines storiche degli interlocutori. Una strategia basata sull’illusione che ha caratterizzato tutti i governi di centrosinistra, europeisti, e cioè che un governo percepito come “amico” a Bruxelles, Berlino e Parigi, sarebbe stato ricompensato con la fantomatica “solidarietà” europea. Una visione infantile della politica e del gioco degli interessi nazionali che ha fatto credere per lustri ai nostri eurolirici che si sarebbe potuto derogare dai trattati all’occorrenza e che, prima o poi, la Germania avrebbe fatto cadere il suo tabù sulla condivisione del debito, che invece resiste persino sotto i colpi della pandemia più grave degli ultimi cento anni. Sia chiaro che se Berlino dovesse trovarsi costretta a scegliere tra fine dell’euro e condivisione del debito, sceglierebbe la prima…Ma basta prendersela con olandesi e tedeschi. L’Olanda fa l’Olanda. La Germania, la Germania. Chi chiede Mes “light” o senza condizioni, chi Eurobond, chi acquisti illimitati della Bce, non ha letto i trattati che abbiamo firmato e non ha capito nulla dell’unione in cui siamo finiti e che fino a ieri celebrava, spacciandola per quello che non è, e non è mai stata. Sui “dibattiti fantasma” l’europeismo nostrano ci ha campato per 20 anni. Ora, capolinea. Non sembra ci siano le condizioni politiche perché il governo italiano acceda alla linea di credito del Mes, nemmeno nei termini “light” fissati per i costi sanitari dell’emergenza. Voci dal Pd e dai 5 Stelle già assicurano che non hanno intenzione di usarlo (ma allora, ancora più assurdo questo braccio di ferro sulle condizioni). Ora la nuova linea del fronte è rappresentata dagli acquisti dei titoli da parte della Bce dopo il varo del nuovo programma ad hoc per l’emergenza pandemia. Ma siamo proprio sicuri di poterci contare? Saranno illimitati e incondizionati? Anche qui dipenderà dai nostri amici a Berlino, se saranno disposti a chiudere un occhio e per quanto tempo. Sul QE e gli acquisti della Bce è sempre vigile la Corte di Karlsruhe e a Francoforte non ci sono più le spalle larghe di Draghi, ma su questo torneremo presto qui su Atlantico. Nel frattempo, ad oltre un mese dalle prime misure di contenimento, non è ancora arrivato un euro alle imprese e ai lavoratori, proprio in attesa, o meglio nell’illusione del miracolo a Bruxelles. Il decreto cd liquidità – annunciato lunedì dal premier Conte, come suo solito via proclama video, e pubblicato in GU solo ieri – dovrebbe essere ribattezzato decreto gassosità, vista la completa evaporazione dei “liquidi” tra le parole di lunedì e i testi di ieri. Il decreto è di fatto senza liquidi, essendo – incredibile ma vero – a saldo zero, mentre poco aggiunge, sulle garanzie alle piccole e medie imprese, alle misure già introdotte nel decreto “Cura Italia”. Si tratta di prestiti bancari – non di indennizzi, che molti altri governi hanno già pagato – tra l’altro nemmeno a tasso zero, come emerge da una circolare di ieri dell’Abi, ma saranno le banche a fissarlo e le imprese dovranno anche versare delle commissioni a Sace per la garanzia. Per un’analisi più dettagliata vi rimando all’intervento del professor Alberto Dell’Acqua, che ospitiamo oggi, ma la sostanza del decreto è che si chiede alle aziende di indebitarsi – pur essendo soprattutto le piccole e medie già fortemente indebitate – per coprire le perdite dovute ad una chiusura, per quanto legittima e opportuna, decisa comunque dallo Stato per motivi di salute pubblica. E a quanto pare ci eravamo sbagliati, una “potenza di fuoco” in effetti c’è nel decreto: le tasse da pagare a giugno. Ulteriore beffa, le scadenze fiscali sono rinviate di soli due mesi. Cosa che ha fatto infuriare Carlo Bonomi (Assolombarda): “Se facciamo indebitare le imprese per pagare le tasse vuol dire che non abbiamo capito nulla”. Il rischio è che il pensiero di moltissimi imprenditori sarà quello di chiudere, quando scopriranno che i “liquidi” del decreto sono i loro soldi, un anticipo (da restituire con gli interessi) di ricavi futuri e incerti. Se non possiamo permetterci ciò che altri governi stanno già facendo per sostenere l’economia, benissimo, lo so dica, vuol dire che non possiamo permetterci di restare chiusi, addirittura fino al 3 maggio, con tutte le conseguenze del caso…
#IoSonoQuattrocchi. «Adesso vi faccio vedere come muore un italiano». Gian Maria De Francesco su Il Giornale il 9 aprile 2020. Spero che la famiglia di Fabrizio Quattrocchi, ove mai leggesse questo post, comprenda che la citazione è legata all’individuazione di un esempio di coraggio e di valore che nella maggioranza degli italiani non è mai mancato. Ce lo raccontano le tante medaglie d’oro della Prima e della Seconda Guerra Mondiale, l’impegno indefesso dei nostri contingenti nelle missioni internazionali, il senso dello Stato delle nostre forze dell’ordine (Carabinieri e Polizia in primis) che, per salari irrisori, mettono a repentaglio la propria vita, non solo contro la criminalità organizzata ma anche per controllare gli imbecilli positivi al Covid-19 che pensano di poter fare una passeggiata indisturbati. Beh, è giunto il momento in cui tutti gli italiani dovrebbero dimostrare un po’ di quel coraggio: fermare il treno dell’Unione europea e scendere, senza ringraziare. Anche se l’Eurogruppo questo pomeriggio dovesse raggiungere un’intesa su una qualche forma di mutualizzazione del debito per fronteggiare l’emergenza coronavirus, il prezzo da pagare sarebbe troppo alto in termini di dignità. E la dignità non ha prezzo perché, va da sé, che un eventuale assenso dei Paesi del Nord sarebbe un’elemosina concessa a Paesi come l’Italia e la Spagna che vivono al di sopra dei propri mezzi, che hanno sprecato danaro pubblico e che, nel nostro caso, li regalerebbero alla criminalità organizzata. È la conclusione di un editoriale pubblicato oggi dal quotidiano tedesco «Die Welt». Provo a tradurre con il mio tedesco arrugginito da una ventina d’anni di disuso. «Deve essere evidente che gli aiuti finanziari all’Italia – dove la mafia è una costante nazionale e aspetta solo un’altra pioggia di soldi da Bruxelles – devono essere spesi esclusivamente nel comparto sanitario e non essere destinati al sistema fiscale e di welfare. E naturalmente gli italiani devono essere controllati da Bruxelles e provare che i soldi sono stati spesi correttamente. Anche nella pandemia devono valere i principi fondamentali dell’Unione europea». Personalmente, non voglio neanche un euro da questi miserabili e, soprattutto, non voglio che cattedratici con lauree, dottorati e master mi continuino a ripetere che con 2.400 miliardi di debito pubblico non possiamo minacciare nessuno perché la Bce ci garantisce l’acquisto dei Btp e quindi (è l’estrema sintesi) «poiché siamo con le pezze al culo non possiamo permetterci di fare la voce grossa perché l’alternativa allo statu quo è l’Argentina e la sua lunga collezione di default». Il rischio c’è, è evidente e denunciarlo prima consente a chi paventa il rischio di mettersi in buona luce ove mai a Palazzo Chigi dovesse insediarsi un altro Gauleiter. Dunque, per quella che è la mia educazione e la mia cultura, non attenderei un minuto di più e denuncerei unilateralmente il Trattato di Roma, il Trattato di Maastricht e il Trattato di Lisbona nell’attesa che il Parlamento sovrano ratifichi la fine di questa penosa commedia. Ovviamente un secondo dopo aver rivendicato la nostra dignità nei confronti di Germania, Austria, Olanda e Finlandia (solo per citare i quattro pilastri dell’asse rigorista), bisogna mettersi pancia a terra e picchiare duro: Il debito pubblico (i famosi 2.440 miliardi) va messo in sicurezza con garanzie reali sugli immobili pubblici che valgono poco meno della metà del totale. È una guerra: bisogna essere pronti a giocarsi anche il Colosseo e la Fontana di Trevi. I Btp di guerra diventerebbero l’unica opzione praticabile. Conferire l’oro alla Patria per finanziare la ricostruzione sarebbe ineludibile. Le spese andrebbero contenute. La voce immediatamente aggredibile è quella delle pensioni: ricalcolo contributivo per tutti. In guerra non ci sono diritti acquisiti. Ça va sans dire, che quota 100 andrebbe definitivamente messa in soffitta. sarebbe l’occasione giusta per pensare finalmente ai conti pensionistici individuali per tutti in modo da segregare il risparmio previdenziale su base individuale dando finalmente un senso al sistema contributivo a capitalizzazione. Stop ai bonus a pioggia. In primis gli 80 euro, in secundis il reddito di cittadinanza vincolandolo alla ricerca di un posto di lavoro (ovviamente escludendo la parte assistenziale dedicata a diversamente abili e disagiati). Se avanzasse qualcosa, andrebbe destinato prioritariamente alla riduzione della pressione fiscale. Basta ponti e weekend! Venti giorni annui di ferie per tutti (domeniche escluse) con la salvaguardia delle tre principali festività cristiane (Natale, Pasqua, Assunzione) e della Festa della Repubblica. Correlare strettamente salari e produttività secondo il principio «più lavori più guadagni» sia nel privato che, soprattutto, nel pubblico. Infrastrutture come se non ci fosse un domani. Un esempio su tutti: la Metro C di Roma si finisce e se nello scavo salta fuori l’ennesimo reperto archeologico o lo si prende e lo si ricostruisce da qualche altra parte o bisogna essere pronti a farsene una ragione. abbiamo già il patrimonio storico-artistico più grande del mondo. Burocrazia e giustizia non devono più essere fattori limitanti. Molti liberali stanno lanciando appelli per evitare una pandemia di statalismo e per chiedere una riforma costituzionale al termine dell’emergenza. Non c’è tempo. Basta assicurarci che pubblici funzionari e magistrati abbiano sufficiente amor di Patria! Lo stesso amor di Patria che hanno avuto coloro che sono caduti in guerra e che hanno medici e infermieri in questi giorni tristi. Gian Maria De Francesco
Da Il Messaggero.it il 10 aprile 2020. Giuseppe Conte ha parlato in conferenza-stampa, spiegando il prolungamento del lockdown per l'Italia fino al 3 maggio. «Proroghiamo le misure restrittive fino al 3 maggio, una decisione difficile ma necessaria di cui mi assumo tutte le responsabilità politiche. Non possiamo vanificare gli sforzi sin qui fatti. Si rischierebbe un aumento dei decessi e delle vittime. Se cediamo adesso rischio ripartire daccapo, tenere alta attenzione anche Pasqua. L'auspicio è che dopo il 3 maggio si possa ripartire con cautela e gradualità ma ripartire: dipenderà dai nostri sforzi. Dal 14 aprile aperte cartolibrerie e librerie, anche negozi per neonati e bambini, e taglio boschi», dice Conte. E ancora. «Prometto che se anche prima del 3 maggio si verificassero le condizioni, cercheremo di provvedere di conseguenza. l lavoro per la fase 2 è già partito, non possiamo aspettare che il virus sparisca dal nostro territorio. Servirà un programma articolato e organico su due pilastri: un gruppo di lavoro di esperti e il protocollo di sicurezza nei luoghi di lavoro», dice Conte. Poi. «La nostra determinazione è allentare il prima possibile le misure per tute le attività produttive per far ripartire quanto prima in piena sicurezza il motore del nostro Paese a pieno regime: non siamo ancora nella condizione di farlo, dobbiamo attendere ancora. Le aziende sanifichino luoghi lavoro da ora», dice Conte. Quindi la questione Mes. «Italia non ha firmato l'attivazione del Mes, è inadeguato. Il Mes esiste dal 2012, non è stato istituito ieri o attivato la scorsa notte come falsamente e irresponsabilmente è stato dichiarato da Matteo Salvini e Giorgia Meloni. Questo governo non lavora col favore delle tenebre: guarda in faccia gli italiani e parla con chiarezza», dice Conte. «La proposta europea la valuto nel suo complesso nel Consiglio europeo: lottiamo per gli Eurobond. La risposta comune o è ambiziosa o non è, non abbiamo alternative». Lo dice il premier Giuseppe Conte in conferenza stampa a Palazzo Chigi. «Non firmerò sino a quando non avrò un ventaglio di strumenti adeguato alla sfida che stiamo vivendo, che non riguarda l'Europa e tutti gli stati membri. Sono convinto che con la nostra tenacia e la forza della ragione riusciremo a convincere tutti. Ora ci dedicheremo al decreto per le misure economiche che vogliamo adottare prima della fine di aprile». Del contributo di solidarietà proposto dal Pd «è la prima volta che oggi ne ho sentito. Non ne abbiamo parlato al tavolo dei capi delegazione, il governo non ha fatto propria nessuna proposta del genere e non la vedo all'orizzonte». Il premier si era riunito con i capidelegazione delle forze di maggioranza. Ha fatto il punto sul nuovo Dpcm. Tra i motivi del protrarsi delle restrizioni, la paura di una ripresa del virus come successo a Hong Kong. Il vero problema, però, sembra essere la trattativa con l'Europa. Il M5S da ore sta cannoneggiando sulla possibilità che l'Italia acceda al Mes, il fondo Salva-stati, anche solo per accedere agli aiuti sanitari (36 miliardi di euro) che non avrebbero vincoli. Nelle ultime 36 ore è circolato anche un documento molto duro firmato da 11 parlamentari grillini. E, piano piano, tutti i pentastellati stanno convergendo su una posizione molto intransigente. Al contrario di quella, assai più aperturista, del Pd e, in particolare dell'asse tra il ministro dell'Economia Roberto Gualtieri con il commissario Ue agli Affari economici Paolo Gentiloni. La trattativa della scorsa notte però sembra non essere finita secondo le aspettative di Conte che nei giorni scorsi aveva dichiarato: «No Mes, sì Eurobond». Il M5S è pronto a dare battaglia su questo aspetto, anche per non lasciare mano libera ai sovranisti, come Matteo Salvini e Giorgia Meloni che iniziano a denunciare «la svendita dell'Italia ai burocrati europei». Il Mes - anche solo a coperture delle spese sanitarie - dovrebbe passare comunque dal via libera delle Camere e il M5S, prima forza del parlamento, è pronto a erigere un muro. «A costo di mettere in dubbio anche Conte». Vito Crimi, capo politico dei grillini, questa mattina è stato netto: «la nostra linea sul Mes non cambia: no a misure che i cittadini rischiano di dover pagare a caro prezzo in futuro». Non è escluso che nel pomeriggio esca anche Luigi Di Maio, ministro degli Esteri e soprattutto leader ritrovato dei grillini, sempre su questa posizione. Ecco perché la conferenza stampa tarda ad arrivare. Conte è costretto a trovare una mediazione, quella più complicata, con i suoi alleati. Nel giorno in cui dovrà annunciare anche la proroga delle misure di chiusure sul lockdown. Ma c'è anche un altro fronte caldissimo: è quello della mini-patrimoniale. II gruppo del Pd della Camera, in piena sintonia con il partito», propone un contributo di solidarietà a carico dei redditi più elevati «per il 2020 e 2021» che dovranno versare i cittadini con redditi superiori ad 80.000 euro e che inciderà sulla parte eccedente tale soglia», spiegano i dem Graziano Delrio e Fabio Melilli. «Non esiste». Il M5S boccia senza alcun tentennamento la proposta avanzata dal Pd, ovvero un contributo di solidarietà per i redditi superiori agli 80mila euro. Fonti di governo grilline spiegano all'Adnkronos che «proposte di questo tipo per noi non esistono, è il momento questo di dare ai cittadini, non di mettere le mani nelle loro tasche». Antonio Zennaro, deputato M5S e membro della commissione Finanze, è ancora più esplicito: ««Bisogna tagliare le tasse. No assoluto a nuove tasse sul reddito o patrimonali ed a ogni tipo di provvedimento che aumenta il livello di pressione fiscale tra i più alti del mondo. Italia già in crisi evitare effetti depressivi sull'economia. Serve cabina di regia economica». Stop da Vito Crimi: «Il contributo di solidarietà proposto dal Pd è «una loro iniziativa. Noi con garbo e spirito unitario abbiamo proposto ai parlamentari di tagliarsi lo stipendio, cosa che il M5s già fa senza ricevere risposta. Ora non è il momento di chiedere ulteriori sacrifici agli italiani, rimaniamo contrari a qualunque forma di patrimoniale». Anche il viceministro dello Sviluppo Stefano Buffagni è contrario: «Se i dem vogliono il prelievo, partano dal loro stipendio». Ma è il caos è anche nel Pd. Il segretario Nicola Zingaretti fa capire di essere stato colto in contropiede da Delrio e Melilli. Sapevo che c'era questa discussione nel gruppo, ma non che sarebbe stata formalizzata in questi termini e tempi. Su questa proposta anche Italia Viva, il partito di Matteo Renzi si scaglia per il «no». Per il deputato Luciano Nobili si tratta di una «follia». Perché, spiega «nel momento in cui il Paese versa non solo in uno stato di emergenza sanitaria, ma in una vera e propria emergenza liquidità chiedere soldi agli italiani è una follia». Anche il centrodestra è compatto contro la Covid-tax avanzata dal gruppo parlamentare dem. Le capogruppo di Forza Italia alla Camera e al Senato, Maria Stella Gelmini e Annamaria Bernini, bocciano senza appello l'idea del Pd: «Vanno fermati». Critiche anche da Lega e Fratelli d'Italia. Matteo Salvini attacca: «Promuovono il Mes e preparano nuove tasse: vanno fermati». Sul tavolo di Conte c'è anche da ultimo, non certo per ordine di importanza, il tema delle riaperture e della «fase due». I sindacati vorrebbero che Conte annunciasse oggi anche un calendario di sblocco delle attività industriali. Nella giornata di ieri anche la sindaca di Roma Virginia Raggi ha partecipato alla cabina di regia con il premier. «Abbiamo messo in campo idee, si parlerà comunque di riaperture graduali. Tutti abbiamo fatto uno sforzo enorme. Dobbiamo evitare di ricadere di nuovo nella fase del contagio. Nessuno pensi che dal 4 maggio si tornerà a fare la vita di prima. La prudenza deve essere il nostro faro», ha spiegato la sindaca a Radiosei.
Che cosa ha deciso l’Eurogruppo. Andrea Muratore su Inside Over il 10 aprile 2020. Un documento in 23 punti è la sintesi della giornata di negoziazione tra i ministri delle Finanze dell’Eurozona nel recente Eurogruppo che ha prodotto l’apertura ufficiale al Mes e una nuova serie di strumenti economici che ora il Consiglio Europeo dovrà definitivamente vidimare. Il documento si compone di tre parti: un’introduzione generale, un’elencazione delle misure già poste in essere e un focus sulle prossime mosse dell’Unione. Vediamo, punto per punto, cosa ha deliberato l’Eurogruppo.
Premessa. I primi tre punti del documento dell’Eurogruppo attestano la comune opinione tra i Paesi dell’Eurozona nel definire la crisi del coronavirus una “sfida senza precedenti” (punto 1) che richiede una strategia di risposta “coordinata e comprensiva” (punto 2) sul breve, medio e lungo periodo per rispondere efficacemente alle problematiche emergenti nell’Unione. Nel Punto 3, si sottolineano le misure già poste in essere dal precedente Eurogruppo del 16 marzo (come l’apertura agli aiuti di Stato) e la natura del comunicato, inteso come risposta al mandato del Consiglio Europeo di due settimane fa di studiare strumenti finanziari più avanzati.
Le mosse dell’Ue e degli Stati. I ministri delle Finanze ribadiscono che gli Stati membri si sono impegnati dall’inizio della crisi a rafforzare l’economia in difficoltà (punto 4), mettendo sul campo risorse per rafforzare le economie in crisi per un valore del 3% del Pil dell’Unione (punto 5), in un contesto che ha visto a lungo l’Italia restare sotto la media, salvo nel settore della garanzia della liquidità alle imprese, che a livello comunitario è salita dal 10 al 16% del Pil tra il 16 marzo e il 9 aprile (punto 6). I ministri, inoltre, ribadiscono il loro impegno a un nuovo set di misure di questo tipo, se necessario (punto 7).
Dal punto 8 al punto 11 sono elencati gli strumenti messi in campo dalle autorità comunitarie. La Commissione Europea ha dato via libera agli Stati sul tema dello sfruttamento dei bilanci nazionali e dei debiti pubblici dei singoli Paesi attraverso la sospensione del patto di Stabilità, garantendo ad essi un maggior margine operativo nelle settimane della risposta alla crisi (punto 8).
Al punto 9 è invece sottolineata la scelta di utilizzare il budget europeo residuo per il 2020 per la risposta alla crisi. Il Parlamento Europeo ha approvato il 1 aprile scorso la proposta del fondo Coronavirus Response Investment Initiative, che sfrutterà 37 miliardi di euro delle politiche di coesione comunitarie.
Il punto 10 ricorda il Pandemic Emergency Purchase Programme partorito dopo lunghe tribolazioni dalla Banca centrale europea di Christine Lagarde, che da marzo a fine anno metterà sul campo 750 miliardi di euro, che si aggiungeranno agli oltre 300 miliardi di acquisti già programmati entro fine anno. La misura, lo ricordiamo, è stata decisa dalla Lagarde con un’ampia inversione a U dopo le prime dichiarazioni che avevano causato un forte shock ai mercati finanziari.
L’Eurogruppo butta un occhio anche alla stabilità finanziaria (punto 11), offrendo alle istituzioni finanziarie la sponda dell’utilizzo del massimo gradiente di flessibilità nel rispetto dei requisiti di capitale fissati dalle autorità regolatorie in questa fase emergenziale.
Le nuove proposte. Al punto 12 il team guidato dal portoghese Centeno segnala la sua volontà di mettere in campo nuove proposte e nuove misure funzionali alla ripresa dall’attuale situazione di crisi.
Al punto 13 l’Eurogruppo appoggia la decisione della Commissione di imporre maggiore flessibilità nell’utilizzo dei fondi strutturali e di coesione del bilancio europeo.
Nel successivo step dell’elenco, il 14, l’Eurogruppo segnala la creazione di un fondo di emergenza da 2,7 miliardi capace di utilizzare la sua potenza di fuoco in sostegno al rafforzamento dei sistemi sanitari nazionali dell’Eurozona.
La Banca Europea degli Investimenti è oggetto dell’interesse del punto 15: la Bei sarà rinforzata con un fondo pan-europeo da 25 miliardi di euro capace di fungere da leva per un aumento dei finanziamenti del “gigante nascosto” d’Europa pari a 200 miliardi. L’Eurogruppo sprona, in questo contesto, l’istituzione basata in Lussemburgo alla massima operatività possibile, per quanto a dire il vero essa sia già in azione dalle prime fasi della crisi.
Al punto 16 si apre il famigerato capitolo del fondo salva-Stati, il Mes: esso è descritto nella sua operatività tecnica. Ad ogni Paese richiedente sarà concesso di fare richiesto per un massimo del 2% del Pil realizzato nell’anno 2019 e sotto la stretta condizionalità di limitarsi al rafforzamento dei sistemi sanitari interni e delle spese per l’emergenza. Come visto, questo dovrebbe comportare però una revisione dei Trattati difficilmente operabile nei ristretti termini di due settimane che l’Eurogruppo si impegna a rispettare per rendere operativo il Mes.
Tema del punto 17 è la proposta della cassa di integrazione europea “Sure”. Sure, che è l’acronimo di “State sUpported shoRt-timE work”, si prefigura il ruolo di ammortizzatore sociale europeo in grado di ridurre i rischi della perdita massiccia di posti di lavoro a causa della crisi da coronavirus che sta mettendo a dura prova l’Europa. La sua dotazione sarà di 100 miliardi di euro: molti dubbi aleggiano sulle contropartite che agli Stati sarà richiesto dare in garanzia e la necessità di livellare i differenziali di costo della vita per i trattamenti anti-disoccupazione nei vari Paesi europei.
L’Eurogruppo definisce l’elenco di misure già adottate e il trittico di nuove proposte come fondamentale per una ripresa coordinata (punto 18). E al tempo stesso ipotizza tre futuri strumenti.
Il Recovery Fund (punto 19) è solo ipotizzato ed è in linea con la visione del commissario francese Thierry Breton e del presidente Macron: un fondo specifico, targettizato e con una potenza di fuoco volta a dare il calcio d’inizio a una reale ripresa europea. L’Eurogruppo rimanda ai leader, e dunque alle loro discussioni interne, il compito di delineare il perimetro di tale fondo.
Sul prossimo bilancio pluriennale (punto 20) sono addossate le responsabilità di rendere concreta ed operativa la ricostruzione dell’economia europea. Proposito sicuramente ottimistico: le discussioni invernali sul bilancio 2021-2027 sono state un buco nell’acqua, e nel loro svolgimento il rigore dell’Olanda e dei suoi alleati ha fatto prevedere l’attuale trinceramento pro-austerità. Non si può azzardare alcuna previsione su come le prossime discussioni del bilancio europeo si svolgeranno se la crisi colpirà in maniera asimmetrica i diversi Paesi.
Al punto 21 l’Eurogruppo si schiera per una molto vaga e ancora non definita roadmap per valutare la resistenza del mercato unico alle politiche poste in campo dagli Stati e dall’Unione per rispondere con efficacia alla crisi.
In conclusione, nei punti 22 e 23, l’Eurogruppo ribadisce il suo invito alla solidarietà pan-europea, tema ricorrente nei suoi comunicati, e il suo impegno a sostenere il Consiglio Europeo nell’attuazione di queste riforme. La palla passa ora ai leader: le contrattazioni tra governi faranno passi avanti rispetto alle burrascose riunioni di fine marzo? Sui punti dell’Eurogruppo c’è molto da lavorare. Resta da capire cosa corrisponda a realtà e cosa sia wishful thinking.
Mes, i rischio dietro i cambiamenti di condizionalità. Inside Over il 17 aprile 2020. “Il Mes senza condizioni è realistico come un unicorno rosa”. Parlando a Il Giornale il senatore della Lega ed economista Alberto Bagnai non ha usato mezzi termini per descrivere lo scenario a cui l’Italia andrebbe incontro aprendo la strada al “fondo salva-Stati”: come più volte rilevato da esperti come Alessandro Mangia, studioso di diritto e docente all’Università Cattolica del Sacro Cuore, indipendentemente dalle dichiarazioni dell’Eurogruppo il Mes, nella sua struttura operativa, esiste solo nella forma rigorosa oggigiorno normata dal suo trattato istitutivo e vincolato al diritto comunitario dall’Articolo 136 del Tfue. Ogni dibattito sul Mes con ridotte o nulle condizionalità equivarrà a una discussione sul sesso degli angeli fino a che i decisori politici europei non avranno dichiarato se esiste il consenso politico per riformare la disciplina europea e rendere credibile una svolta che, allo stato attuale delle cose, appare improbabile. Sul diritto del Mes hanno dunque ragione i falchi del rigore guidati dall’Olanda, che a parole hanno aperto a una condizionalità ridotta sapendo bene che in punta di legge a parlare sono i trattati. E che oltre al trattato istitutivo del Mes valgono, appunto l’articolo 136 del Tfue, che non offre flessibilità sulle condizionalità (leggasi austerità) richieste per il sostegno del fondo e le conseguenti azioni della Banca centrale europea, e risoluzioni quale la 472/2013 votata dal Parlamento europeo. “È opportuno”, si legge nel regolamento comunitario in questione, “che l’intensità della sorveglianza economica e di bilancio” a un Paese che faccia richiesta di aiuto alle autorità comunitarie “sia commisurata e proporzionata alla gravità delle difficoltà finanziarie incontrate e tenga nel debito conto la natura dell’assistenza finanziaria ricevuta, che può variare da un semplice sostegno precauzionale sulla base delle condizioni di ammissibilità fino a un programma completo di aggiustamento macroeconomico subordinato a condizioni politiche rigorose“. Nero su bianco il trattamento riservato alla Grecia, che nel 2012 vide l’apertura di linee di credito precauzionali del Mes come presupposto all’intervento della Troika ,con le devastanti conseguenze che conosciamo per la tenuta economica del Paese. Ma non finisce qui. Uno Stato membro può essere soggetto a sorveglianza post-programma finché non avrà rimborsato almeno il 75 % dell’assistenza finanziaria che ha ricevuto. Inoltre, il regolamento offre all’Unione Europea la possibilità di modificare in corsa le condizionalità: “La Commissione, d’intesa con la Bce e, se del caso, con l’Fmi, esamina insieme allo Stato membro interessato le eventuali modifiche e gli aggiornamenti da apportare al programma di aggiustamento macroeconomico, al fine di tenere debitamente conto, tra l’altro, di ogni scostamento significativo tra le previsioni macroeconomiche e i dati effettivi” e il Consiglio europeo è chiamato a valutare a maggioranza qualificata l’entrata in vigore di queste modifiche. La maggioranza semplice dei Paesi Ue, in rappresentanza di almeno il 65% della popolazione, potrebbe ad esempio modificare un memorandum firmato con un Paese come l’Italia in caso, ad esempio, di un cambio di governo finalizzato a una svolta politica. Questa non è l’unica debolezza strutturale della nuova narrazione sul Mes: perché ricorrere ad esso, ad esempio, se apre a interventi senza limiti triennali della Bce mentre in realtà, sotto il nuovo programma di acquisti, compra titoli a trent’anni? Come sfuggire a un’organizzazione che ha la sede legale in Lussemburgo e in caso di crisi impone il diritto del Granducato come strumento di risoluzione delle controversie? In che maniera ritenere il finanziamento del Mes migliore di quello nazionale quando in un Paese come l’Italia ogni emissione di Btp vede la richiesta eccedere di circa il 50% la domanda? Perché non sbloccare piuttosto, lasciandola agli Stati, la dotazione data da ogni governo al fondo del Mes lasciandola libera per i programmi interni? Quello del Mes è un ginepraio intricato in cui chi si addentrasse rischierebbe di pungersi dolorosamente. Tra i Paesi dell’Unione chi si firma, in questo contesto, è perduto.
Giorgia Meloni a Porta a porta: "Perché il Mes non è così conveniente. 36 miliardi regalati? No, prestati con interessi". Libero Quotidiano il 15 aprile 2020. "Credo che la cosa non sia vantaggiosa come viene raccontata". Giorgia Meloni, ospite di Bruno Vespa a Porta a porta, svela il vero volto del Mes secondo Fratelli d'Italia: "Pare che l'Europa ci voglia regalare 36 miliardi. Non ci regala 36 miliardi ma ci dà un prestito sul q uale pagheremo degli interessi. Nel Mes abbiamo messo i soldi quindi è come se andassi in banca, dessi 15mila euro e la banca in cambio mi desse 36mila euro che devo restituire con gli interessi. Non mi sembra così vantaggioso".
Ora l'Ue ci concede 36 miliardi ma 14 sono soldi degli italiani. Stallo all'Eurogruppo su eurobond e Mes. Il meccanismo del Fondo Salva Stati potrebbe concederci 36 miliardi di euro, ma più di un terzo ce lo abbiamo messo noi. Alberto Giorgi, Mercoledì 08/04/2020 su Il Giornale. Mentre la pandemia di coronavirus continua a dilagare in Europa si continua a litigare. In questa emergenza sanitaria ed economica causa dal Covid-19 l'Unione Europea è stata colpevolmente assente e per certi versi spettatrice, paradossalmente, quasi impotente di quanto stesse accadendo, e di quanto tuttore succede. A fronte delle richieste di maggior flessibilità e di un aiuto finanziario concreto da parte dell'Italia e di altri paesi del Sud, sono arrivate le risposte dure in nome del rigore e dell'austerità sempre e comunque da parte dei falchi dell'austerity, appunto, del Nord. Ecco perché l'Eurogruppo è in stallo: i ministri delle Finanze non riescono a trovare un accordo sui eurobond – che ai fan del rigore non piacciono - sul Mes, il controverso Fondo Salva Stati. La riunione dell'Eurogruppo è durata sedici ore e si è conclusa con un nulla di fatto e con posizioni cristallizzate: tutto rimandato a domani, giovedì 9 aprile. Da un lato nove Paesi come l'Italia e la Spagna che chiedono l'emissione di titolo del debito comuni e un Mes elastico e senza condizionalità, dall'altro i rigoristi capitanata dai Paesi Bassi, che impongono un Mes senza condizioni e bocciano in toto gli eurobond, di fatto bloccando del tutto i lavori. Nel mezzo chi c'è? L'asse franco-tedesco, che cercano di mediare tra le due posizioni, per arrivare a una sintesi. Ma un Mes senza condizioni rischia di essere sostanzialmente un suicidio per il Belpaese, oltre che una sicura presa in giro. Il motivo? Degli appena 36 miliardi di aiuti che l'Ue concederebbe all'Italia, 14 sono soldi già versati degi italiani (!), visto che rientrano nei soldi che il governo di Roma, come ogni Stato membro, versa per la costituzione del fondo stesso. A sottolineare la stortura, puntando il dito contro gli alti papaveri Ue, il capodelegazione di Fratelli d'Italia al Parlamento Europeo, Carlo Fidanza: "Lo stallo dell'Eurogruppo rischia di far perdere ulteriore tempo su strumenti finanziari di scarsa portata. Ci si accapiglia su un fantomatico Mes senza condizioni quando tutti sanno che questo non potrà esistere, le condizioni ci saranno eccome e spetterà poi al governo Conte decidere se consegnarci mani e piedi per anni a Berlino e Bruxelles per 'soli' 36 miliardi, di cui 14 sono soldi degli italiani già versati". Ma non è finita qui, visto che l'esponente all'Europarlamento del partito di Giorgia Meloni affonda il colpo anche contro la bozza di eurobond che si sta discutendo: "Così come ci si straccia le vesti per un abbozzo di 'recovery bond' che nella migliore delle ipotesi altro non saranno che un fondo modello Sure, di scarsa entità ma con la richiesta di elevate garanzie e con minimo effetto leva. In questo quadro deprimente non resta che prendere atto che l'Unione Europea è incapace di una risposta comune e si deve limitare a consentire a ciascuno di spendere le proprie risorse senza venire strangolato dalla speculazione". E a tal proposito, invece, Fidanza propone un'altra soluzione, peraltro avanzata dall'ex tre volte titolare del Mef Giulio Tremonti: "L'Italia preveda subito un'emissione straordinaria di titoli di stato a lunghissima scadenza e a zero tasse e la Banca Centrale Europea si impegni a garantirli".
· Mes vs Coronabond-Eurobond. Gli Asini che chiamano cornuti i Buoi.
Non ho nulla più da chiedere a questa vita che essa avrebbe dovuto o potuto concedermi secondo i miei meriti. Ma un popolo di coglioni sarà sempre governato, amministrato, giudicato, istruito, informato, curato, cresciuto ed educato da coglioni. Ed è per questo che un popolo di coglioni avrà un Parlamento di coglioni che sfornerà “Leggi del Cazzo”, che non meritano di essere rispettate. Chi ci ha rincoglionito? I media e la discultura in mano alle religioni; alle ideologie; all’economie. Perché "like" e ossessione del politicamente corretto ci allontanano dal reale. In quest'epoca di post-verità un'idea è forte quanto più ha voce autonoma. Se la libertà significa qualcosa allora ho il diritto di dire alla gente quello che non vuole sentire.
Laura Cesaretti per “il Giornale” l'1 dicembre 2020. Il copione non è nuovo: nella maggioranza tutti dicono peste e corna di Giuseppe Conte; tutti criticano i suoi surreali piani di «governance» piramidale, forte di trecento non meglio identificati componenti del «team»; tutti protestano contro la «arroganza» con cui il premier ieri ha liquidato le ipotesi di rimpasto o l' utilizzo del Mes sanitario. Poi, però, non succede nulla e tutto va avanti come prima. Certo le tensioni ci sono eccome, tanto che ieri pomeriggio - visto il clima - Palazzo Chigi ha preferito rinviare il vertice con capidelegazione di maggioranza e ministri vari che avrebbe dovuto risolvere i fortissimi contrasti sull' organismo-monstre (ma col cuore e la cassa a Palazzo Chigi) pensato da Conte per gestire i 200 e rotti miliardi del Recovery Fund e la realizzazione dei progetti di riforma che dovrebbe finanziare. La proposta, che dovrebbe finire in un emendamento alla manovra da approvare entro fine anno, ha suscitato critiche da ogni parte: per l' accentramento di tutti i poteri a Palazzo Chigi, nella cabina di regia formata dal premier insieme ai ministri Gualtieri (Pd) e Patuanelli (M5s), entrambi considerati fedelissimi di Conte. Ma anche per la gigantesca struttura «piramidale» composta di sei manager pescati tutti nelle partecipate statali (Eni, Enel, Ferrovie etc), ognuno con una squadra di cinquanta «esperti» di provenienza misteriosa. Il blitz contiano ha fatto infuriare il Pd, che da settimane incalzava sul tema della «governance» del Recovery Plan, per evitare che il premier tenga per sé la regia. E allo scopo aveva proposto un ministro o sottosegretario ad hoc (possibilmente dem), chiamato a coordinare le operazioni e a raccordare i ministri coinvolti. Mentre la proposta Conte serve, denuncia un dirigente Pd, «a togliere ogni voce in capitolo al governo - premier escluso - e alla maggioranza». Persino un osservatore prudente come Pierluigi Castagnetti, ex leader del Ppi e buon amico di Mattarella, non si tiene: «Trecento? Sì, trecento. Non so se sia il senso del limite o del ridicolo, ma qualcosa eccede». Da Italia viva arriva un secco altolà: «Siamo in ritardo sui progetti, e ora viene fuori la cabina di regia: ne abbiamo già viste tante, ma invece bisogna far lavorare le strutture della Pubblica amministrazione. E la cabina di regia c' è già, è il Consiglio dei ministri», dice Ettore Rosato. «Se poi i ministri non vanno bene, come pare sottintendere il commissariamento immaginato da Conte, si cambino i ministri», aggiunge un esponente dem. E aggiunge perfidamente: «Se invece abbiamo bisogno di arruolare trecento tecnici, facciamo prima a prendere anche il migliore di tutti e metterlo a Palazzo Chigi». Il riferimento, assai chiaro, è a Mario Draghi. Lo stesso ministro Lorenzo Guerini, normalmente assai silenzioso, ha lasciato trapelare una notevole perplessità sulla proposta contiana, dando ragione ai rilievi di Carlo Calenda che fa notare come così si creerebbe un gigantesco conflitto di competenze con i ministri espropriati dai manager. Anche i Cinque stelle sbottano: «Continuiamo a perdere tempo, secondo il governo doveva essere già tutto pronto e invece stiamo ancora litigando su chi deve fare la spesa». Le opposizioni ovviamente si scagliano contro il «mega-carrozzone» proposto da Conte, che serve solo «a nascondere il fatto che lo stesso premier considera gran parte dei suoi ministri degli incompetenti, incapaci di gestire dossier importanti». Insomma, denunciano, il «carrozzone» servirebbe solo a piazzare un po' di scontenti dei vari partiti «evitando il rimpasto».
Michele Arnese per startmag.it il 9 dicembre 2020. E’ vero che con la riforma del Mes si introduce e si anticipa il backstop che serve alle banche tedesche? Risponde l’ex ministro dell’Economia, Giovanni Tria, al Foglio: “Può darsi, ma se vanno in crisi le banche tedesche poi saltano pure le nostre. Noi dobbiamo opporci a ciò che ci danneggia, non a ciò che avvantaggia gli altri. Altrimenti poi ci sarà chi si oppone al Recovery in base alla stessa logica: perché avvantaggia noi”. La Germania attende il sì dell’Italia alla riforma del Mes proprio per le questioni bancarie tedesche, ha rivelato ieri al quotidiano La Stampa un ministro M5s: “Berlino sarebbe la più interessata a incassare uno dei capitoli della riforma, il cosiddetto backstop, la rete di protezione pubblica per le banche, un paracadute essenziale allo stressato sistema creditizio tedesco”. La riforma conterrà anche la possibilità, anticipata al 2022, che il Fondo di Risoluzione (SFR) per le crisi bancarie possa chiedere al Mes un prestito-paracadute fino ad un massimo di 68 miliardi. Questo nel caso che il SFR stesso abbia esaurito i propri fondi (circa 55 miliardi entro fine 2023). “L’anticipo del meccanismo di "common backstop" come rafforzamento del Fondo di Risoluzione Unico bancario dell’Eurozona, sotto forma di linea di credito Mes, e l’anticipo del ‘risk assessment’, entrambi al 2022, inseriti nella tanto attesa e discussa riforma del Trattato Mes, sono senza dubbio una ottima notizia”, ha sottolineato l’economista Renato Brunetta, deputato di Forza Italia: “Lo strumento del ‘backstop’ serve proprio ad evitare ciò che era accaduto tra il 2010 ed il 2012, quando l’incapacità europea di gestire la crisi di un (piccolo) Stato sovrano, la Grecia, ha rischiato attraverso il contagio del sistema bancario, di far deragliare la seconda più importante valuta del mondo, con conseguenze facilmente immaginabili”. L’anticipo dello strumento – secondo l’ex ministro di Forza Italia che ha curato un dossier pro riforma Mes come responsabile del dipartimento di Forza Italia sulla Politica economica che sta facendo discutere gli azzurri, attestati invece sul no dopo l’indicazione di Silvio Berlusconi – “è oltremodo importante per un sistema bancario alle prese con quella che sarà una difficile uscita dalla crisi da pandemia, crisi che sta riempiendo nuovamente i bilanci delle banche dell’Eurozona di crediti inesigibili (NPLs), nel momento esatto in cui questi si stavano faticosamente riducendo”, secondo Brunetta: “Crediti NPL che, secondo le ultime stime della Bce, ammonterebbero alla cifra monstre di 1.500 miliardi di euro. Un quantitativo di sofferenze, latamente intese, che rappresenta una buona approssimazione della dimensione della crisi sofferta dalle imprese europee, che potrebbe presto portare a nuovi fallimenti sistemici negli istituti di credito. L’Italia, da questo punto di vista, è lo Stato dell’Eurozona, insieme a Grecia e Portogallo, ad avere la percentuale di Npl più elevata, quindi tra i paesi più esposti a shock negativi, e dunque tra quelli che potrebbero maggiormente guadagnare dall’implicita stabilità garantita dal meccanismo di ‘backstop’ anticipato”. L’analista Giuseppe Liturri oggi sul quotidiano La Verità ha prefigurato questo scenario: “Una crisi bancaria dovrebbe avere una magnitudo tale da richiedere, nell’ordine: bail-in, quindi sacrificio di azionisti, obbligazionisti e depositanti, fino al 8% del passivo; successivo intervento del SRF con utilizzo di tutti i suoi 55 miliardi; sostegno finale del Mes a favore del SRF con un prestito di ulteriori 68 miliardi. La probabilità che un tale Armageddon riguardi una banca francese o tedesca è molto elevata, non foss’altro per le loro dimensioni ed il loro livello di rischio di alcune voci dei loro attivi. Qualora ciò accada, quelle decine di miliardi saranno comunque spazzate via in un attimo e dovranno, come sempre, intervenire gli Stati. Altro che contributo alla stabilità finanziaria dell’Unione”. Per Liturri, “da questa riforma ci guadagna solo il Mes, perché senza accorgersene, si abroga uno strumento più utile. Per la nota legge che se una cosa non serve allora serve a qualcos’altro, questo inutile prestito paracadute sostituisce ed abroga il preesistente strumento di ricapitalizzazione diretta delle banche (fino a 60 miliardi). Quello sì concretamente azionabile e forse utile per qualche banca italiana, ma “pericoloso” per il Mes in quanto lo esponeva ad un rischio diretto verso una o più banche. Da domani, il Mes sarà nella meno rischiosa situazione di essere creditore del fondo comune di tutte le banche (SRF)”. Sostenne un anno fa Giampaolo Galli, economista, già all’ufficio studi Banca d’Italia ed ex direttore generale di Confindustria, su posizioni peraltro tutt’altro sfavorevoli al Mes: «La riforma in itinere sposta decisamente l’asse del potere economico nell’eurozona dalla Commissione europea al Mes. Non a caso, nei suoi interventi al parlamento europeo, la nuova presidente della Commissione, Ursula Von der Leyen, ha sostanzialmente evitato di parlare della governance dell’eurozona. In particolare, non ha detto nulla sulla proposta della Commissione di creare un Fondo monetario europeo e un ministro delle Finanze dell’eurozona, dotato di un bilancio capace di svolgere funzioni di stabilizzazione macroeconomica. Il silenzio di Von der Leyen si spiega con la considerazione che questo insieme di questioni era già stato affrontato e risolto dall’Eurogruppo e dall’Eurosummit del giugno scorso, nel senso di dare un ruolo secondario alla Commissione. In particolare, il Mes sta diventando quello che nelle intenzioni iniziali della Commissione avrebbe dovuto essere il Fmi». Che il Mes, grazie alla riforma, possa diventare un pari grado della Commissione Ue nella governance economica è un’ipotesi – rimarca oggi il giornalista di lungo corso esperto di cose economiche Tino Oldani su Italia Oggi – prospettata anche dall’Ufficio studi del Senato: «La modifica più rilevante per la concessione del sostegno appare quella per cui il direttore generale del Mes dovrebbe affiancare la Commissione e la Bce nella valutazione della domanda di sostegno presentata da uno Stato membro. Sulla base di tali valutazioni, spetterebbe sempre al direttore generale la redazione di una proposta da sottoporre all’approvazione del Consiglio dei governatori e la preparazione di una proposta di assistenza finanziaria, comprese le modalità e condizioni finanziarie, e la scelta degli strumenti, che dovrà poi essere adottata dal Consiglio dei governatori», si legge e pagina 16 del report a cura del servizio studi del Senato. A capo del Mes c’è Klaus Regling, tedesco, direttore generale del fondo salva Stati: “Regling è tornato sulla cresta dell’onda subito dopo la nomina di Christine Lagarde alla guida della Bce. La pandemia da Coronavirus era di là da venire, e la rimessa in pista del falco Regling aveva tutta l’aria di una rivincita tedesca per porre fine alla politica monetaria accomodante di Draghi, e di riflesso mettere in riga i paesi più indebitati, Italia in testa. Per la bisogna, infatti, Angela Merkel ed Emmanuel Macron, con l’accordo di Meseberg, concordarono alcuni cambiamenti della governance economica europea. Tra questi, la riforma del Mes (pretesa da Merkel), il varo di un budget europeo e di un ministro europeo delle Finanze (chiesti da Macron)”, ha ricordato Oldani. Se andrà in porto la riforma del Mes, Regling diventerà un pari grado della Bce: “Un interlocutore non incline ad accomodamenti con l’Italia. Il 23 marzo scorso, quando all’inizio della pandemia l’Italia si fece promotrice degli eurobond, Merkeldisse: «C’è già il Mes». E Regling aggiunse: «Italia e Spagna devono mettersi in ginocchio». Un vero kapò”, ha tagliato corto Oldani.
Cos’è successo ai Paesi europei che hanno adottato il Mes? Michele Crudelini su Inside Over il 2 maggio 2020. L’Unione europea sta per imboccare una strada precisa per tentare di superare la crisi sanitaria ed economica dovuta alla diffusione del coronavirus. L’ultimo Consiglio europeo sembra infatti aver confermato quanto era stato già stabilito dai ministri dell’economia riunitisi all’Eurogruppo di inizio aprile.
Il mistero delle condizionalità del Mes. Tramontata del tutto l’idea di emettere gli eurobond, la strada tracciata sembra ora portare al tanto discusso Mes, ovvero il Meccanismo europeo di stabilità. In merito a questo meccanismo permangono infatti molti dubbi, su tutti l’effettiva presenza di condizionalità stringenti per quei Paesi che ne faranno utilizzo. Se da una parte la narrazione prevalente tende a rassicurare l’opinione pubblica sull’assenza di condizionalità, tranne che per l’obbligo di destinazione sanitaria dei fondi del Mes, dall’altra non è ancora chiaro come e quando il Trattato potrà essere modificato per mettere nero su bianco la condizione della “non condizionalità”, attualmente assente dal testo. Gli Stati europei che intenderanno accedere al Mes potrebbero non ritenere sufficiente una semplice stretta di mano come prova dell’avvenuta modifica del trattato. Il dilemma della presenza di condizionalità non sembra poi essere stato sciolto nemmeno dallo stesso direttore del Mes, Klaus Regling, che in una recente intervista al Corriere della sera sembra contraddirsi all’interno della stessa frase. Prima affermando che: “L’Eurogruppo lo chiarisce, dicendo che il solo requisito per ottenere il prestito è nel modo in cui si spende il denaro”. Mentre una riga dopo sembra dire l’esatto contrario: “Tutti gli Stati membri dell’Unione europea restano impegnati a rafforzare i loro fondamentali in base al quadro di vigilanza europeo, inclusa la flessibilità”. Rafforzare i fondamentali nel gergo europeo significa infatti ridurre il rapporto debito Pil, implicando quindi una ristrutturazione vigilata del debito.
Grecia, una vittima del Mes. In mezzo a questi dubbi occorre quindi osservare cosa è successo a quei Pesi europei che finora hanno avuto accesso ai fondi che hanno preceduto l’attuale Mes e ad esso si rifanno per principi e natura. Partiamo dalla Grecia. Molti osservatori ultimamente si limitano a constatare la crescita del Pil ellenico come prova del successo dell’utilizzo del prestito europeo. Tuttavia prendendo in esame altri dati, emerge una situazione più complessa: il reddito pro capite rimane infatti inferiore del 30% rispetto al periodo pre crisi mentre la disoccupazione rimane al 20%. L’utilizzo del fondo con le sue condizionalità sembra poi aver avuto in Grecia ripercussioni anche sulla struttura demografica del Paese. Come riportato da Money.it: “Dal 2011 al 2018 la popolazione è calata di 380mila unità. Questo anche perché il tasso di natalità è fra i più bassi al mondo. E ciò inevitabilmente ha ripercussioni sulla situazione economica e la vivibilità della principali città greche”. Oltre alla demografia, il vecchio Mes ha cambiato anche la geografia economica greca, con l’ingresso di capitale straniero nelle principali aziende un tempo di proprietà pubblica: tra queste il porto del Pireo ora in mano cinese, gli aeroporti in mano alla Germania e il mercato immobiliare in preda alle speculazioni di miliardari russi.
Le regole sul Mes a corrente alternata. Discorso leggermente diverso deve invece essere applicato per Spagna, Portogallo e Irlanda che pur avendo usufruito del fondo salva Stati, non sembrano essere dovuti sottostare almeno inizialmente alle rigidità delle sue condizioni. Osservando infatti lo storico del rapporto deficit Pil, si può notare come dal 2008 al 2019 la media sia la seguente: 7,2% per l’Irlanda, 6,38% per la Spagna e 5,05% per il Portogallo. Il rapporto debito Pil sembra seguire lo stesso andamento. In Spagna è più che raddoppiato passando dal 35% del 2008 al 97% attuale, in Portogallo è passato dal 72% del 2008 al 122% attuale e anche in Irlanda è più che raddoppiato dal 23% del 2007 al 63% di oggi. Tuttavia, al netto degli sforamenti, alcuni dati economici sembrano descrivere una situazione non troppo positiva. In Spagna per esempio il livello dei redditi sembra essere cresciuto vertiginosamente solo per l’1% della popolazione, mentre per le fasce inferiori è crollato. Un dato confermato dall’andamento dei salari, che hanno subito tagli di oltre il 4% in spagna e dell’8% in Portogallo. Per l’Irlanda occorre dire che negli ultimi anni è stata libera di adottare un’imposizione fiscale ben al di sotto della media europea, in grado di attrarre capitale straniero, sottraendo spesso gettito fiscale ad altri stati membri. Pare quindi che il Fondo salva stati nel prestare i soldi non segua una logica rigida e precisa come sembrerebbe emergere dal testo del trattato, ma segua invece il principio dei due pesi e due misure, con trattamenti diversi riservati a seconda dello stato indebitato e della situazione contingente. Da un lato c’è la Grecia costretta a rispettare fino alla virgola le condizionalità del trattato. Dall’altra, Stati liberi di sforare il deficit e aumentare a dismisura il debito pubblico, con l’Irlanda libera anche di fare dumping fiscale. Insomma il Mes sembra incarnare tutte le contraddizioni della costruzione europea che adotta regole che valgono a seconda degli equilibri politici e degli interessi economici contingenti. E chi intende ricorrere a questo fondo in futuro deve essere consapevole dell’estrema volatilità delle regole che saranno sancite.
Coronavirus, Mes e coronabond: i nostri parlamentari sanno di cosa parlano? Le Iene News il 29 aprile 2020. In queste settimane non si parla altro che di Mes, il Meccanismo europeo di stabilità. Tutti hanno un’opinione, tutti lo hanno votato tra gli scranni di Camera e Senato, ma non tutti lo hanno capito. E allora il nostro Silvio Schembri è andato a chiedere lumi ai nostri parlamentari. Che ci hanno resto tutto più chiaro…In queste settimane il Mes è sulla bocca di tutti. Di cosa stiamo parlando? Del Meccanismo europeo di stabilità. In Parlamento da quindici giorni non si discute d’altro perché sembra da questo possa dipendere il nostro futuro: tutti hanno un’opinione, tutti lo hanno votato tra gli scranni di Camera e Senato, ma non tutti lo hanno capito. Il nostro Silvio Schembri è andato a chiedere ai nostri parlamentari di cosa si tratta. “È un fondo europeo, ma non so l’acronimo per cosa stia”, dice un parlamentare di Forza Italia. Non proprio perfetto, ma comunque meglio del collega di partito Michele Casino: “Lo sto sentendo da lei adesso”. Andiamo bene. Se la caveranno meglio dalle parti del Pd? “Si chiama Fondo salva stati, questa è la traduzione di Mef” ci dice una onorevole. Forse no, non se la cavano meglio…“Ho capito che lei vuole trovare il pelo nell’uovo”, ci risponde pepata una collega di partito. “Io so da dove vengo, io sono sarda. Vengo da una terra che si chiama Barbagia. Io la invito a studiare qual è la nostra concezione del mondo”. Si, ma che cos’è il Mes? Mistero. Per una parlamentare di Fratelli d’Italia “l’attivazione del Mes implica una nuova Troika in salsa italiana”. Sembra più preparata degli altri. Mentre per una collega del M5s “non è il momento” di parlarne: “Vuoi VUOLETE pensare che non lo sappia, va bene. Tipo Le Iene”. Beh non le sfugge propria nulla. E non è tutto, anche altri hanno diciamo “schivato” il nostro Silvio Schembri: dai rappresentati della Lega a quelli di Italia Viva, guardate il video qui sopra per vedere tutte le loro risposte. Adesso avete tutti capito cos’è il Mes, vero?
(Ansa il 9 aprile 2020) "Non ci sono gli Eurobond che voleva Conte ma c'è il Mes, una drammatica ipoteca sul futuro, sul lavoro e sul risparmio dei nostri figli. Dal 1989 ad oggi l'Italia ha versato all'Europa 140 miliardi, ora per averne a prestito 35 ci mettiamo nelle mani di un sistema di strozzinaggio legalizzato. Oltretutto, senza nessun passaggio in Parlamento. Siamo fuori dalla legge, siamo alla dittatura nel nome del virus. Presenteremo mozione di sfiducia al ministro Gualtieri. P.S. Se il governo olandese festeggia, vuol dire che è una seconda Caporetto". Lo afferma Matteo Salvini.
Mes, quando Giuseppe Conte tre giorni fa diceva: "Strumento inadeguato. Solo eurobond". Libero Quotidiano il 10 aprile 2020. Quante balle ancora dovremo berci? Quanti pasticci, quanti disastri, quanti dietrofront? Quando finirà l'infausta parabola di Giuseppe Conte premier? Domande che ci tormentano con maggiore assillo nel giorno in cui l'Italia si è piegata ai diktat di Germania e Olanda, ingoiandosi anche il Mes. All'Eurogruppo, infatti, è andato tutto come previsto: niente condivisione del debito, sì al fondo salva-Stati con clausole da definire. Dunque, sull'Italia e sul nostro futuro, si allunga l'ombra del commissariamento e della Troika. Questo è quanto il nostro governo è stato in grado di ottenere in Europa. Giorgia Meloni parla di "alto tradimento". Matteo Salvini si dice preoccupato per "il futuro dei nostri risparmi e dei nostri figli", parlando di "dittatura del virus". Ma al di là delle reazioni e dei ragionamenti, ci sono i fatti. Anzi, c'è un video che sta letteralmente spopolando online, un video il cui protagonista - suo malgrado - è Giuseppe Conte. Immagini che risalgono a tre giorni fa. Lo ribadiamo, tre giorni fa (né mesi né tantomeno anni). Bene, solo tre giorni fa, Conte in favore di telecamera, rispondendo alla domanda di un cronista al termine di una conferenza stampa, affermava: "Alla fine rispondo alla sua ultima provocazione: Mes no, eurobond sicuramente sì. Il Mes, e lo abbiamo ripetuto, è uno strumento sicuramente inadeguato. Gli eurobdond invece sono la soluzione, una risposta seria, una risposta efficace, adeguata all'emergenza che stiamo vivendo". Esattamente: Mes no, eurobond sì. Tre giorni fa. Con che coraggio si farà nuovamente vedere in conferenza stampa, il premier?
Marco Antonellis per affaritaliani.it il 12 aprile 2020. Conte avrebbe dovuto saperlo: il suo ministro dell'economia Gualtieri in passato è stato relatore del Mes in Europa ed è stato anche uno dei protagonisti del Fiscal Compact. Successivamente ha presieduto il Financial Assistance Working Group, che doveva tenere d'occhio la Grecia affinché eseguisse bene gli ordini di Francia e Germania (cioè dell'Europa). Difficile se non impossibile chiedere ora ad un uomo con un curriculum del genere di rinunciare al Mes e di mettersi di traverso al volere di sua maestà Angela Merkel e dei potenti d'Europa. Insomma, Conte è finito in "trappola" e se ne sta rendendo conto soltanto ora. Sarà impossibile per lui non firmare l'accordo in Europa anche se il prossimo 23 aprile non riuscisse ad ottenere i tanto agognati eurobond. Perché il problema che in queste ore agita i sonni di "Giuseppi" (e che lo rende fin troppo nervoso) e dei partiti che lo sostengono è proprio questo spiegano fonti di primissimo piano: "Se non riusciamo ad ottenere i bond Conte che fa? Si alza e se ne va oppure firma lo stesso?'' Perché sui bond il Premier si è esposto tantissimo, anche troppo: "A Conte sui bond europei è scappata la mano e ora se non si fanno perde tutto. Un all in incauto" si spiega all'interno della maggioranza di governo. "Inoltre c’è un aspetto che nessuno sta considerando: spingendo così sugli eurobond, praticamente ci stiamo legando mani e piedi ai francesi. Deciderà Macron la nostra morte o la nostra vita. Perché è evidente che se la Francia non ci appoggia siamo finiti, dove andiamo da soli?". Insomma, il quadretto che si va delineando per il Premier si complica ogni giorno di più. Serve un "piano b". Il problema però è che anche in questo caso Pd e 5Stelle non la pensano allo stesso modo. Per il Nazareno alla fine "inseriranno qualcosa nel testo finale che gli permetterà di dire: abbiamo preso tot miliardi di euro e per la prima volta si parla di mettere insieme il debito dei paesi europei...". Insomma, si troverà una scappatoia, si farà una sorta di "romanella" per permettere a Premier e governo di salvare la faccia anche perché in casa Pd sono convinti sin da ora che l'Europa mai e poi mai dirà di si all'Italia sui bond. I "bond non ci saranno" dicono senza mezzi termini dal Nazareno con buona pace di Giuseppe Conte. Per i pentastellati, invece, se non dovessero esserci i bond anziché firmare l'Italia dovrà lavorare ad emissioni straordinarie di Btp (300 mld riservate al retail) con la copertura della Bce: in casa 5Stelle già ci stanno lavorando. E il Quirinale? È decisamente molto preoccupato per la piega che stanno prendendo gli eventi: si teme l'isolamento economico-finanziario del paese. Dispiace molto che sia finito il clima di "unità nazionale" ma la cosa dalle parti del Colle viene presa con grande filosofia: "Per collaborare o per sposarsi bisogna sempre essere in due e le colpe non sono mai da una parte sola…". Ora però bisognerà stringere i bulloni alla maggioranza perché se le cose non dovessero andare per il verso giusto in Europa sarebbe a rischio la tenuta stessa del governo.
“Non voteremo mai il Mes”. I 5Stelle avvisano Conte. Il Dubbio il 10 aprile 2020. Ma il ministro dell’Economia Gualtieri smentisce: “Il Mes non è stato attivato, basta fake news”. “Ribadiamo che il M5s non sara’ disponibile in nessun caso a votare l’applicazione del Mes (il cosiddetto Fondo Salvastati) per il nostro Paese”. Lo dice il capo politico M5s Vito Crimi. “Noi non accettiamo il Mes – spiega Crimi a Radio Anch’io – perchè in ogni caso le condizioni ci saranno. Il testo dice di no, ma il trattato dice di si'”. M5s lo ritiene “uno strumento non idoneo e molto pericoloso”. E comunque “il Mes non è stato attivato. Chi lo dice fa male al paese”. Quindi, conclude l’esponente pentastellato, “la linea M5s non cambia”. E una risposta, seppur indiretta, arriva dal ministro dell’Economia Roberto Gualtieri, che ha spiegato: “Il Mes gia’ esiste. l’Eurogruppo ha proposto che il Mes possa offrire oltre agli strumenti che già offre anche uno strumento incondizionato col quale i Paesi che vorranno potranno fare richiesta a prestiti senza condizioni. L’Italia non ha firmato niente. “Sul Mes è stata eliminata ogni condizionalità, si è introdotto uno strumento facoltativo, una linea di liquidità fino al 2% del Pil, si potrà accedere senza condizione”.
Ue, M5s: “Noi coerenti su Mes e Eurobond, Meloni e Salvini pericolosi bugiardi”. Redazioneweb agenziadire.com il 10/04/2020. “Siamo di fronte ad una destra pericolosa che, appena terminato l’Eurogruppo, è partita all’attacco propagandando fake news: Salvini e Meloni sono degli irresponsabili. E’ nostro obbligo reagire a questi bugiardi di professione che fanno soltanto del male al Paese”. Lo dichiarano in una nota congiunta i deputati e le deputate del MoVimento 5 Stelle in Commissione Politiche Ue. “Sul fondo Salva Stati si dicono tante menzogne. E va chiarito, una volta per tutte, che l’Italia non ha attivato il Mes. E’ uno strumento che già esiste dal 2012 e per accedervi si deve attivare tramite mandato parlamentare, ma finche’ ci sara’ il Movimento 5 Stelle al governo non si corre questo rischio: il Mes apre una linea di credito per i vari Paesi e noi una linea di credito garantita dal Mes non la voteremo”, aggiungono i portavoce. “Inoltre, nell’accordo siglato all’Eurogruppo è previsto un programma di 100miliardi per affrontare la disoccupazione, un intervento di 200miliardi della Bei a tutela delle imprese e, soprattutto, un nuovo strumento voluto fortemente da Francia ed Italia: un fondo per la ripresa con finanziamenti a programmi progettati per rilanciare l’economia in linea con le priorità europee e garantire la solidarietà dell’UE con gli Stati membri più colpiti. Siamo anche fiduciosi che al Consiglio europeo riusciremo a vincere le ultime resistenze sullo strumento del Recovery Fund. Eravamo, e siamo, convinti che gli eurobond siano una soluzione da adottare”, conclude la nota.
Conte “traditore e Giuda”, le bugie di Salvini e Meloni sulla firma del MES. Redazione de Il Riformista il 10 Aprile 2020. Giuseppe Conte “traditore”, anzi “Giuda”, come lo ha definito il leghista Alberto Bagnai. Sono solo alcuni degli appellativi rivolti verso il presidente del Consiglio dopo l’Eurogruppo di giovedì sera sulle misure economiche per fare fronte all’emergenza Coronavirus, che ha dato il via libera ad un Mes light in misura pari al 2% del loro Pil, con la possibilità di usare i soldi del Fondo Salva Stati solo per finanziare i costi sanitari. Dal fronte sovranista è quindi arrivata la corsa ad accusare il premier di aver svenduto l’Italia ad Olanda, Germania e burocrati vari dell’Europa dopo la “firma del Mes”. Una bugia bella e buona, dato che Conte pur volendo non avrebbe potuto firmare un bel niente: ieri infatti all’Eurogruppo erano convocati i ministri delle Finanze europei, con la ‘palla’ che passerà nelle prossime settimane ai vari leader di governo per concludere il negoziato. Inoltre è bene specificare che l’aiuto del Fondo Salva Stati andrà solo ai Paesi che lo chiederanno, e come precisato dal Ministero dell’Economia nella notte, l’Italia non l’ha fatto. Un quadro che Giorgia Meloni non ha ben capito, stando a quanto pubblicato ieri sera sui social. “Gualtieri ha firmato attivazione Mes, niente Eurobond e Italia sotto tutela. Hanno vinto i diktat di Germania e Olanda. Non permetteremo a nessuno di banchettare sulla nostra Nazione. Fratelli d’Italia farà di tutto in Parlamento per scongiurare questo atto di alto tradimento”, ha scritto la Meloni travisando completamente quanto emerso dall’Eurogruppo. Sulla stessa linea anche il re dei sovranisti italiani, Matteo Salvini. Anche il leader della Lega parla di “Mes approvato senza nessun passaggio in Parlamento”, dimenticando che il Governo non ha firmato alcun documento per accedere al Fondo Salva Stati.
Matteo Salvini: MES APPROVATO?!? Inorridisco e chiederemo le dimissioni di un ministro dell'Economia che ha svenduto il nostro Paese. Ma Conte deve guardarsi anche dal Movimento 5 Stelle. Da ieri sera infatti anche i pentastellati, che a Palazzo Chigi lo hanno piazzato, stanno mettendo in giro la voce che l’esecutivo abbia in qualche modo firmato il Mes. Tra questi Mario Giarrusso, che su Facebook minaccia: “Se il governo ha detto sì al Mes, questa maggioranza non avrà più il mio motivo”.
Mes, Meloni e Salvini all'attacco: "Alto tradimento", "Dittatura in nome del virus". Libero Quotidiano il 10 aprile 2020. Niente eurobond, sì al Mes. Questo il risultato - drammaticamente scontato - dell'Eurogruppo concluso nella notte. Ovvero, Italia piegata ancora. Su di noi l'ombra della Troika, un cappio al collo, l'autostrada verso morte certa. Durissime le reazioni delle opposizioni, in prima fila Giorgia Meloni, che affida ai social uno dei suoi primi pensieri, tostissimi: "Il governo si è piegato a Germania e Olanda e ha detto sì al Mes. Questo è alto tradimento", sottolinea la leader di Fratelli d'Italia. La Meloni poi aggiunge: "Gualtieri ha firmato attivazione Mes, niente Eurobond e Italia sotto tutela. Hanno vinto i diktat di Germania e Olanda. Non permetteremo a nessuno di banchettare sulla nostra Nazione. Fratelli d'Italia farà di tutto in Parlamento per scongiurare questo atto di alto tradimento", conclude. Gualtieri ha firmato attivazione #Mes, niente #Eurobond e Italia sotto tutela. Hanno vinto i diktat di Germania e Olanda. Non permetteremo a nessuno di banchettare sulla nostra Nazione. @FratellidItalia farà di tutto in Parlamento per scongiurare questo atto di alto tradimento. Quindi le parole, altrettanto dure, di Matteo Salvini: "Mes approvato, dittatura nel nome del virus", tuona su Twitter. "Non ci sono gli Eurobond che voleva Conte ma c’è il Mes, una drammatica ipoteca sul futuro, sul lavoro e sul risparmio dei nostri figli", premette il leader della Lega. Il quale snocciola poi delle cifre: Dal 1989 ad oggi l’Italia ha versato all’Europa 140 miliardi, ora per averne a prestito 35 ci mettiamo nelle mani di un sistema di strozzinaggio legalizzato. Oltretutto, senza nessun passaggio in Parlamento, come più volte richiesto dalla Lega". E ancora: "Siamo fuori dalla legge, siamo alla dittatura nel nome del virus. Presenteremo mozione di sfiducia al ministro Gualtieri. P.S. Se il governo olandese festeggia, vuol dire che è una seconda Caporetto", conclude Salvini.
Salvini e Meloni diffondono “falsità e menzogne”: Conte attacca i politici delle bufale. Redazione de Il Riformista il 10 Aprile 2020. “Devo fare nomi e cognomi dei responsabili di coloro che diffondono falsità: Giorgia Meloni e Matteo Salvini. Da ieri notte vanno dicendo che l’Italia avrebbe firmato accordi segreti, ma così non è: l’Italia non ha bisogno del Mes e non ha attivato questo strumento che è inadeguato ed inadatto alla situazione”. Sono le parole del premier Giuseppe Conte nel corso della conferenza stampa tenuta in serata a Palazzo Chigi. Un duro attacco contro le “fake news” lanciate da due rappresentanti politici del Paese. Non è la prima volta che in questa emergenza coronavirus i due leader di Lega e Fratelli d’Italia si rendono protagonisti di episodi del genere. Nelle scorse settimane sia Salvini che Meloni cavalcarono un servizio del Tg3 Leonardo di ben cinque anni fa per costruire ad hoc la bufale del “virus creato in laboratorio”. Nelle scorse sia Salvini che Meloni hanno duramente attaccato il Governo salvo poi essere smentiti in serata da Conte. “Il Mes – ha chiarito il Premier – esiste dal 2012, non è stato attivato la scorsa notte come falsamente è stato dichiarato da Matteo Salvini e Giorgia Meloni. Falsità e menzogne ci fanno male, perché ci indeboliscono nella trattativa. Avevo fatto un appello alle opposizioni, ma quello che è successo stanotte rischia di indebolire non il premier Giuseppe Conte o il governo, ma l’intera Italia, perché è un negoziato difficilissimo”. Lo stesso Conte ha poi ribadito che non firmerà “nulla finché non avremo un ventaglio di strumenti adeguati ad affrontare la sfida che stiamo affrontando. Non cederò nelle trattative e sono sicuro che con la nostra tenacia convinceremo l’Europa a venirci incontro in questo momento così importante”. In mattinata Lega e Fratelli d’Italia erano partiti all’attacco del Governo dando del “traditore”, anzi del “Giuda” per restare in tema pasquale, a Giuseppe Conte. Dal fronte sovranista è arrivata la corsa ad accusare il premier di aver svenduto l’Italia ad Olanda, Germania e burocrati vari dell’Europa dopo la “firma del Mes”. Una bugia bella e buona, dato che Conte pur volendo non avrebbe potuto firmare un bel niente: ieri infatti all’Eurogruppo erano convocati i ministri delle Finanze europei, con la ‘palla’ che passerà nelle prossime settimane ai vari leader di governo per concludere il negoziato. Inoltre è bene specificare che l’aiuto del Fondo Salva Stati andrà solo ai Paesi che lo chiederanno, e come precisato dal Ministero dell’Economia nella notte, l’Italia non l’ha fatto. E così ancora una volta Salvini e Meloni, e i rispettivi partiti, sono caduti nella bufala creata da loro stessi. Sarà per il calo di visibilità che stanno avendo nel corso della pandemia di Coronavirus ma i due “populisti” nella speranza di racimolare consensi in periodo di "magra", allarmando gratuitamente gli italiani, non stanno facendo altro che danneggiare ulteriormente la propria credibilità.
Coronavirus, Meloni controbatte a Conte sul Mes: ''Una vergogna approfittare dei media per dire menzogne''. Repubblica Tv il 10 aprile 2020. "Il premier Conte indice una conferenza stampa pochi minuti prima dell'edizione più vista dei tg per accusare l'opposizione di dire menzogne, senza possibilità di replica e senza contraddittorio. Credo non si sia mai vista una cosa del genere nella storia della democrazia, e la dice lunga sulla tracotanza di questo governo. Mi aspetto che la RAI mi dia possibilità di replica alla stessa ora, con lo stesso tempo e con la stessa visibilità. Il Presidente Mattarella non ha nulla da dire su questi metodi degni di un regime totalitario?". Lo dice Giorgia Meloni, leader di Fdi, rispondendo a stretto giro a quanto affermato dal premier Giuseppe Conte durante la conferenza stampa sul nuovo decreto Covid-19.
Meloni, Mentana e Salvini contro Conte: “Bullo con la tv di Stato”. Redazione de il Riformista il 10 Aprile 2020. Non si sono lasciate attendere le repliche di Matteo Salvini e Giorgia Meloni, rispettivamente leader di Lega e Fratelli d’Italia, dopo le accuse di diffondere “falsità e menzogne” lanciate dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte nel corso della conferenza stampa di questa sera a palazzo Chigi. “Usare la tivù di Stato per dire falsità e fare un comizio contro Salvini e contro le opposizioni è roba da regime, roba da Unione Sovietica” dice Salvini. “Perché non hanno bloccato il Mes? Perché il Pd vuole la tassa patrimoniale? Perché i 5Stelle vogliono ancora bloccare la Tav? Perché Leu vuole tassare la casa e i risparmi degli italiani? Dov’è la cassa integrazione promessa? Quando arrivano davvero i soldi? Che fine ha fatto il blocco dei mutui per chi è in difficoltà? Cosa fanno per aiutare chi non ce la fa a pagare affitti, rate e bollette? Perché non aiutano davvero partite IVA e autonomi? Quando arriveranno i soldi promessi alle imprese? Sempre #colpadisalvini??? Altro che collaborazione, che delusione signor Conte”, conclude. Dure anche le parole di Giorgia Meloni: “È facile per il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte fare il bullo con la televisione di Stato, però mi chiedo anche se sia normale in una democrazia come la nostra, mi chiedo se sia normale che il presidente del Consiglio Conte convochi una conferenza stampa per fingere di dover raccontare dei nuovi provvedimenti presi dal governo e poi di fatto la utilizzi per parlare male dell’opposizione, e per accusarla di menzogne, ovviamente senza possibilità di replica e senza contradditorio. Mi aspetto di avere la possibilità attraverso la Rai di parlare allo stesso numero di cittadini, nella stessa fascia oraria, per spiegare il mio punto di vista. E mi chiedo cosa ne pensi il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Perché va bene essere vicini alla Cina ma qui siamo un po’ più vicini alla Corea del Nord”. La leader di Fratelli d’Italia aggiunge: “Presidente Conte, nel 2012 al Governo non c’ero io, c’era Monti. Non è bello usare la televisione di Stato per diffondere fake news”. Polemiche arrivano anche da Enrico Mentana, direttore del Tg di La7, che durante la diretta ha così commentato l’accaduto: “Se l’avessimo saputo, non avremmo mandato in onda quella parte della conferenza stampa”.
Ecco tutte le balle che Conte ha raccontato sul Mes in tv. Il premier ha accusato il centrodestra di aver fatto nascere il Fondo Salva Stati. Ma ha sbagliato date, nomi: tutto. Angelo Scarano, Venerdì 10/04/2020 su Il Giornale. Le parole di Giuseppe Conte in tv e l’attacco diretto alle opposizioni difficilmente verranno dimenticate. Hanno segnato un solco pesante tra la maggioranza e l’opposizione. Il premier ha di fatto usato la tv per mettere nel mirino i partiti del centrodestra per distogliere l’attenzione dalla Caporetto dell’esecutivo raccolta in Europa. I giallorossi hanno dovuto ingoiare il rospo del no ai coronabond e il sì ad un Mes calmierato che però potrebbe portare l’Italia sotto il tacco di Bruxelles. E il maldestro tentativo del premier di usare la tv per regolare i conti è scomposto e pieno di inesattezze. Per non chiamarle bugie. La più pesante di tutte arriva dopo l’annuncio del lockdown prolungato fino al 3 maggio. E nel mirino c’è proprio tutto il centrodestra: “L'Italia accetta di discutere il Mes non confezionato perché questi Paesi ce lo chiedono. Qualcuno dice è una trappola, allora chi ha confezionato questa trappola si assuma la responsabilità. Era il 2012, io non c'ero, c'era un governo di centrodestra e se non sbaglio la Meloni era ministro”. Parole pesantissime, dette, ripetiamo, in tv in diretta. Di fatto il governo del centrodestra a cui si riferisce Conte è caduto l’11 novembre del 2011. Il Mes è nato il 27 settembre del 2012. Quasi un anno dopo. A palazzo Chigi c’era Mario Monti e la Meloni non faceva certo parte di quel governo. Due inesattezze pesanti che rischiano di confondere gli italiani. E a rinfrescare la memoria al premier c’ha pensato proprio la leader di Fratelli d’Italia: “Presidente Conte, nel 2012 al Governo non c'ero io, c'era Monti. Non è bello usare la televisione di Stato per diffondere fake news”. Parole ripetute anche da Salvini e da tutto il centrodestra che di fatto chiede al premier toni più moderati e soprattutto il rispetto delle opposizioni. L’uscita del premier è stata così fuori luogo che perfino il direttore di tgLa7, Enrico Mentana, si è lasciato andare ad un commento piuttosto chiaro: “Se possiamo dire, l'avremmo francamente evitato. Se l'avessimo saputo, non avremmo mandato in onda quella parte della conferenza stampa”. Insomma questa volta il premier ha davvero abbandonato gli abiti del suo fare “anglosassone” col velo di pacatezza che lo accompagna per accusare (a colpi di fake news) le opposizioni su un pasticcio, quello in sede europea sul Mes, che ha la firma dei giallorossi e del ministro del Tesoro Gualtieri. Conte ha varcato un limite, quello del rispetto del dialogo fra maggioranza e opposizione. Una frattura profonda che difficilmente potrà rientrare nel giro di qualche giorno…
La prova che incastra Conte: ha mentito sul Mes. Il documento che lo inchioda. Il premier Conte ha provato a scaricare la colpa sul centrodestra ma i fatti lo smentiscono. Il trattato valido oggi è stato ratificato e firmato da Monti nel 2012. Federico Giuliani, Martedì 14/04/2020 su Il Giornale. “Il Mes non esiste da ieri”, ha tuonato pochi giorni fa in conferenza stampa Giuseppe Conte. Usando queste parole il premier aveva due obiettivi: legittimare il pessimo operato del governo giallorosso in sede europea e respingere le accuse della maggioranza, che lo accusavano, a ragione, di essersi fatto soggiogare da Bruxelles. Le spiegazioni dell'ormai ex Avvocato del popolo non sono apparse per nulla brillanti. Anzi: assomigliavano molto più a un elegante scarica barile che non a una ordinata narrazione dei fatti. In ogni caso, la domanda che tutti si fanno adesso è: chi ha istituito il Mes? Il quotidiano La Verità ha fatto il punto della situazione. Il Pd e il Movimento 5 Stelle hanno cercato di attribuire la paternità del Trattato che istituisce il Meccanismo europeo di stabilità ai governanti in carica all'epoca della sua approvazione, e cioè al premier Silvio Berlusconi e al ministro dell'Economia e delle Finanze Giulio Tremonti. La realtà è ben diversa e basta dare un'occhiata alle carte ufficiali.
Il ruolo di Mario Monti. La relazione che accompagna il disegno di legge per la ratifica del Mes è stata presentata in Senato il 3 aprile 2012. È stata firmata da Monti, Terzi e Moavero e parla chiarissimo: “Il Trattato che istituisce un Meccanismo europeo di stabilità è stato sottoscritto dai 17 Paesi dell'eurozona il 2 febbraio 2012, in una nuova versione che supera quella sottoscritta l'11 luglio 2011”. Ricordiamo che a partire dal novembre 2011 c'era in carica Mario Monti nelle doppie vesti di presidente del Consiglio e ministro dell'Economia. Il testo varato dall'Ecofin l'11 luglio 2011, cioè quello firmato da Tremonti, non è “stato avviato a ratifica in nessun Paese dell'eurozona” dal momento che la nuova stesura amplia “sia l' ammontare massimo di risorse disponibili, sia la tipologia delle operazioni consentite dal Fondo salvastati”. In altre parole esistono due diversi trattati sul Mes. Uno firmato da Tremonti nel 2011 ma mai entrato in vigore; uno, quello valido oggi, ratificato e firmato da Monti nel 2012. Una domanda sorge spontanea: perché il trattato è stato modificato? Riavvolgiamo il nastro e torniamo al 21 luglio 2011. Al termine del vertice euro, gli allora leader europei spinsero per apportare modifiche sostanziali al primo trattato, specificando tra l'altro di avviare “al più presto le procedure necessarie per l' attuazione di tali decisioni”. Di lì a poco – si parla di mesi – varie riunioni tenutesi a Bruxelles portarono alla stesura definitiva del trattato firmato da Mario Monti. Morale della favola: il trattato attribuito a Berlusconi e Tremonti non ha mai visto la luce. Conte ha provato a scaricare la colpa sul centrodestra ma, ancora una volta, è stato smentito dai fatti.
Tremonti: "Ecco cosa è successo davvero in Europa tra il 2011 e il 2012". L’ex ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, fa un po’ di chiarezza sulla genesi del Mes. È un meccanismo europeo nato per lanciare gli eurobond. Michele Di Lollo, Martedì 14/04/2020 su Il Giornale. Giulio Tremonti torna sulla questione Mes. E cerca di fare chiarezza sulla sua genesi. "Papa Francesco invita l’Europa alla solidarietà e a scelte innovative. Come si può essere in disaccordo? A proposito di scelte innovative, mi sono impegnato già nel 2003 e poi ancora nel 2010-2011 sugli eurobond. Fa piacere che in questi giorni anche il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, abbia parlato di questo strumento! Per mio conto mi assumo tutte le responsabilità sulle origini del fondo salva-Stati, ma una volta chiarita tutta la verità". A sottolinearlo è l’economista e presidente di Aspen Institute Italia su Mf Milano Finanza. "Nel corso della prima parte dei 2011, il nostro programma era mirato all’obiettivo finale degli eurobond. Nella prima fase ci siamo concentrati sulla costituzione del fondo europeo (che poi sarebbe stato chiamato Mes). Fase 2: lancio dei titoli di Stato europei. È in questa logica sequenziale che nel luglio 2011 si arrivò alla prima firma su questo meccanismo. In Europa dall’Eurogruppo-Ecofin al Parlamento europeo, da Junker a Gualtieri, tutti sapevano che il nostro piano partiva dal Mes, ma per arrivare agli eurobond", spiega Tremonti. "Per noi - ricorda Tremonti, più volte ministro dell’Economia - il Mes senza gli eurobond non avrebbe avuto senso. Per contro, per gli eurobond il Mes era necessario". A quell’altezza di tempo non erano note ancora le manovre, da ultimo rivelate dal professor Mario Monti. Manovre che a partire dal 5 agosto 2011, da quella che lo stesso Monti chiama la lettera Trichet-Draghi, avrebbero portato alla chiamata dello straniero venuto in Italia in novembre, naturalmente "nel nostro interesse". Di conseguenza il salva-Sati, che era ancora privo di efficacia, diventa efficace e definitivo con la firma del presidente Monti nel febbraio 2012, ma, piccolo dettaglio, dopo che è stata affossata la funzione per cui era nato: lanciare gli eurobond. Poi con la Grecia, argomenta Tremonti, il Mes ha rivelato una funzione autonoma, totalmente diversa da quella per cui era stato costituito: non come base per lanciare gli eurobond, ma strumento europeo per la riscossione-estorsione ad Atene dei crediti qui vantati dalle banche tedesche e francesi. E in questi termini che, con la complicità italiana del governo Monti e con la furia finanziaria dei "creditori" franco-tedeschi, il meccanismo europeo di stabilità si trasforma nello strumento che ha straziato la Grecia. "Non per caso, colpito da questo "stigma", da questa maledizione greca, il Mes è rimasto nell’ombra per cinque anni, per essere infine, nell’autunno scorso, riproposto in Europa di nuovo, tanto per cambiare, come salva-banche". Tutto questo orrore è ben diverso dal progetto degli eurobond. "Questa - scandisce Tremonti - è la verità sul passato. Quella degli eurobond è ancora oggi la speranza per il futuro".
La verità sul Mes. Nicola Porro, 13 aprile 2020. Le fake news sono diventate uno strumento fondamentale per fare stare zitti gli avversari politici di questo governo. Riguardo al Mes abbiamo scritto la cronistoria di come esso è nato e di come sia stato approvato nel 2012 quando al governo c’era Mario Monti eccetto Salvini&Meloni come il presidente del consiglio ha detto in conferenza stampa in prima serata. Ma siccome molti ancora dubitano. Ed è normale vista la difficoltà della questione. E inoltre nessuno, per usare una metafora, odia le banche in sè, ma evidentemente le condizioni che esse pretendono per darti un prestito, anche per l’istituzione di questo Fondo salva stati (idea buona e giusta) il punto sono i dettagli, le condizioni. E questi sono stati cambiati in modo a loro favorevole da Germania e Olanda nel 2012 e fatti digerire a Monti, il cui governo li ha approvati. Non credete alla Zuppa di Porro? Leggete la relazione tecnica presentata nel 2012, al momento dell’approvazione, fatta da Monti e dal suo ministro Moavero: si parla chiaramente di una nuova versione.
Legislatura 16ª - Disegno di legge N. 3240. Onorevoli Senatori. – Il Trattato che istituisce un Meccanismo europeo di stabilità (MES)(*) è stato sottoscritto dai 17 Paesi dell’eurozona il 2 febbraio 2012, in una nuova versione che supera quella sottoscritta l’11 luglio 2011 (che non è stata avviata a ratifica in nessun paese dell’eurozona) ampliandone sia l’ammontare massimo di risorse disponibili sia la tipologia delle operazioni consentite. Il MES sarà un’istituzione finanziaria internazionale, con sede a Lussemburgo, che sosterrà gli Stati membri dell’eurozona nel caso in cui ciò sia indispensabile per salvaguardare la stabilità finanziaria dell’eurozona nel suo complesso e quella dei suoi Stati membri. L’adesione al MES è aperta a tutti gli Stati membri dell’UE una volta che questi siano divenuti parte dell’eurozona. Il MES è destinato prima ad affiancare e poi a sostituire, tra il 2012 e il 2013, il FESF(**) (Fondo europeo per la stabilità finanziaria) e il FESM(***) (Fondo europeo di stabilizzazione finanziaria), due strumenti attivati nel 2010 per prestare assistenza finanziaria ai Paesi dell’eurozona come il Portogallo e l’Irlanda sottoposti a gravi tensioni finanziarie che hanno interessato la sostenibilità delle loro finanze pubbliche. Nelle «Linee concordate di comunicazione» a margine del Consiglio Europeo del 30 gennaio 2012, gli Stati membri dell’eurozona hanno fissato l’obiettivo dell’entrata in vigore del MES a luglio 2012 e si sono impegnati a rivalutarne l’adeguatezza in termini di dotazione finanziaria nel marzo 2012. A causa dell’indisponibilità della Germania al rafforzamento della dotazione finanziaria del MES attualmente prevista (il massimale attuale della capacità di prestito congiunta FESF/MES, richiamato all’articolo 39 del presente Trattato, è pari a 500 miliardi di euro) il «Vertice dell’Eurozona» del 2 marzo 2012 che avrebbe dovuto trattare il tema è stato annullato.
Il MES disporrà di un’ampia gamma di strumenti. Potrà concedere prestiti ai suoi membri, fornire assistenza finanziaria precauzionale, acquistare obbligazioni di Stati membri beneficiari sui mercati primari e secondari ed accordare prestiti per la ricapitalizzazione delle istituzioni finanziarie.
Le decisioni relative alla concessione di sostegno alla stabilità saranno adottate di comune accordo. Tuttavia, in situazioni in cui la mancata adozione urgente della decisione di fornire assistenza dovesse mettere a repentaglio la sostenibilità economica o finanziaria della zona euro, le decisioni potranno essere prese a maggioranza qualificata dell’85 per cento dei voti espressi.
Il trattato MES e il nuovo Trattato sulla stabilità, il coordinamento e la governance nell’Unione economica e monetaria (TSCG), denominato anche patto di bilancio, sottoscritto il 2 marzo 2012, rappresentano due pilastri fondamentali e complementari della nuova architettura dell’eurozona. Il MES rappresenta la componente solidaristica della nuova architettura, destinata ad essere attivata in situazioni di emergenza. Il TSCG rappresenta la componente di disciplina, destinata ad assicurare in ciascun Paese una gestione sostenibile delle finanze pubbliche che eviti l’accumularsi di tensioni suscettibili di incidere negativamente sulla stabilità finanziaria. In particolare, dal marzo 2013, la concessione di assistenza finanziaria a titolo del MES dipenderà dall’avvenuta ratifica da parte dello Stato richiedente del TSCG e successivamente anche dall’avvenuta trasposizione nell’ordinamento interno della regola del pareggio di bilancio di cui all’articolo 3, paragrafo 2, del TSCG.
(*) European Stability Mechanism (ESM), nella versione inglese.
(**) European Financial Stability Facility (EFSF), nella versione inglese.
(***) European Financial Stabilization Mechanism (EFSM), nella versione inglese.
Conferenza stampa, Mentana critica Conte per accuse a Salvini e Meloni. Jacopo Bongini l'11/04/2020 su Notizie.it. A pochi minuti dalla conferenza stampa di Giuseppe Conte, il direttore del TgLa7 Enrico Mentana ha criticato i toni usati dal premier nel discorso. Tra le decine di commenti sull’attacco frontale del premier Giuseppe Conte a Matteo Salvini e Giorgia Meloni nel corso della sua conferenza stampa, anche il direttore del TgLa7 Enrico Mentana ha voluto esprimere la sua opinione e lo ha fatto esponendo un punto di visto inedito rispetto a quelli osservati finora. Il celebre giornalista ha infatti duramente criticato il presidente del Consiglio, accusandolo di aver fatto un uso personalistico di una conferenza stampa trasmessa sulla televisione di Stato. Nella serata del 10 aprile, il direttore del TgLa7 ha infatti espresso in poche righe il suo punto di vista sua vicenda dell’attacco ai leader della Lega e di Fratelli d’Italia, tacciati da Conte di diffondere menzogne sul governo e sul Mes: “Se avessimo saputo che Conte avrebbe fatto un uso personale della conferenza stampa attaccando l’opposizione non avremmo mandato in onda quella parte”. Durante la conferenza stampa, Conte aveva infatti dichiarato: “L’Italia non ha firmato alcune attivazione del Mes. […] Come falsamente e irresponsabilmente è stato dichiarato da Matteo Salvini e Giorgia Meloni, lo stano ripetendo dalla scorsa notte, non è assolutamente così. Questo governo non lavora col favore delle tenebre, parla con gli italiani con chiarezza. L’Eurogruppo non ha firmato nulla ne istituito alcun obbligo”.
Mes, Salvini e Meloni si chiamano fuori: “Noi contro nel 2012”. Ma ad approvarlo nel 2011 fu il governo con la Lega e Meloni ministra. I leader dell'opposizione contro Giuseppe Conte per le parole pronunciate in conferenza stampa. Ma nel 2011 furono Silvio Berlusconi e Giulio Tremonti a dire sì alla creazione di un Fondo Salva-Stati nel Consiglio europeo e all'Eurogruppo. Il 3 agosto 2011, il Consiglio dei ministri guidato Berlusconi approvò il disegno di legge per la ratifica: il Carroccio era al governo e la leader di Fratelli d'Italia era faceva parte del governo. L'anno dopo, il giorno del voto alla Camera, Salvini era eurodeputato mentre Meloni non espresse voto contrario ma era assente. Il Fatto Quotidiano l'11 aprile 2020. Adesso Matteo Salvini e Giorgia Meloni si chiamano fuori, ricordando che in Parlamento nel 2012 non appoggiarono il provvedimento. E attaccano il presidente del Consiglio Giuseppe Conte dopo la conferenza stampa in cui ha ricordato quali furono le loro posizioni sul Mes e li ha accusati di “mentire” agli italiani. Ma quali sono state le tappe del Meccanismo europeo di stabilità? L’ok dell’Aula arrivò otto anni fa sotto il governo Monti: la Lega votò contro, Meloni era assente. Ma a preparare il Fondo Salva-Stati – basta guardare le cronache dei quotidiani dell’epoca – fu il governo Berlusconi nel 2011, con il via libera all’Eurogruppo e l’approvazione del disegno di legge per la ratifica della decisione del Consiglio europeo del 25 marzo che cambiava il Trattato sul funzionamento unico dell’Ue e dava il là alla creazione del Fondo Salva-Stati. Un governo sostenuto dalla Lega, di cui Salvini all’epoca era europarlamentare, e di cui l’attuale leader di Fratelli d’Italia faceva parte. Il Consiglio dei ministri è il numero 189 del governo Berlusconi IV e si riunisce a Palazzo Chigi il 3 agosto 2011, tre mesi prima delle dimissioni e ad appena due giorni dalla lettera congiunta del presidente uscente della Bce Jean Claude Trichet e di quello in pectore Mario Draghi con la quale indicarono all’Italia una serie di misure urgenti per superare la crisi. Tra codice antimafia, nomina di prefetti e altre deliberazioni, il Consiglio dei ministri approva, su proposta del ministro degli Esteri Franco Frattini, il disegno di legge per la ratifica e l’esecuzione della “decisione del Consiglio europeo 2011/199/Ue, che modifica l’articolo 136 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea relativamente ad un meccanismo di stabilità (ESM – European Stability Mechanism) nei Paesi la cui moneta è l’euro”, si legge nel comunicato stampa diffuso quel giorno da Palazzo Chigi. È il Mes, il fondo Salva-Stati definito poi nel febbraio 2012 che oggi i partiti di minoranza, sostenitori e parte di quel governo, non vogliono. E imputano al governo Conte di aver accettato come strumento europeo per affrontare l’emergenza sanitaria legata al coronavirus.
Il comunicato del Consiglio dei ministri del 3 agosto 2011. Lo ha ricordato anche Mario Monti in un editoriale sul Corriere della Sera: “Il Mes rappresenta l’evoluzione del Fondo europeo per la stabilità finanziaria (Fesf). Il Fesf prima e il Mes poi sono stati preparati e decisi a livello europeo nel 2010-2011 con l’Italia rappresentata da Silvio Berlusconi nel Consiglio europeo e da Giulio Tremonti nell’Ecofin ed Eurogruppo. Quel governo si reggeva sull’alleanza Pdl-Lega. Giorgia Meloni ne faceva parte come ministro per il Pdl, Matteo Salvini era europarlamentare della Lega”. L’obiettivo – continuava il governo nella nota stampa diffusa nei giorni in cui lo spread galoppava – è “far sì che tutti gli Stati dell’Eurozona possano istituire, se necessario, un meccanismo che renderà possibile affrontare situazioni di rischio per la stabilità finanziaria dell’intera area dell’euro”. La decisione del Consiglio dei ministri di dire sì alla decisione del Consiglio europeo è l’architrave della definizione del Fondo Salva-Stati che sarà poi perfezionata dal governo di Mario Monti, subentrato nel novembre 2011 al governo Berlusconi. Di quel governo era ministro della Gioventù Giorgia Meloni che ora parla di “alto tradimento”, al tavolo sedeva da poco Anna Maria Bernini alle Politiche Europee, Umberto Bossi aveva le deleghe per le Riforme, Roberto Maroni guidava l’Interno, Giulio Tremonti era il titolare dell’Economia e Maria Stella Gelmini era la ministra dell’Istruzione. Le contrattazioni andavano avanti da tempo. Basta sfogliare i quotidiani di nove anni fa. Il giorno dopo l’Eurogruppo che approvò la modifica del Trattato per creare il Salva-Stati, era il 22 marzo 2011, La Stampa titolava: “I ministri economici hanno chiuso ieri l’intesa”. Non appariva molto preoccupato Il Giornale: “Fondo salva Stati a 700 miliardi”, si leggeva a pagina 22. Mentre il Corriere della Sera precisava: “Il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, ha lasciato la riunione a Bruxelles senza rilasciare dichiarazioni nemmeno sulle conseguenze di finanza pubblica italiana di questi impegni di salvataggio”. Tre giorni dopo arrivò la decisione del Consiglio europeo presieduto dall’olandese Herman Van Rompuy. Quindi ad agosto 2011 il voto in Consiglio dei ministri. Il Mes – rifinito nel febbraio 2012 – approdò in Parlamento quando ormai c’era Mario Monti. Come andò in Aula, il 19 luglio 2012, nel giorno del via libera definitivo al trattato lo raccontano verbali e resoconti: 325 sì, 53 no e 36 astenuti. La Lega – ormai all’opposizione – disse no. Il Pdl appoggiò il provvedimento, con alcune eccezioni come quella di Guido Crosetto. Giorgia Meloni? Era assente e non partecipò al voto. “Un Paese che vuole autodistruggersi quello in cui mentre la gente muore, è psicodramma su fatti che dovrebbero essere (e sono) giuridicamente certi e noti, come le date e le responsabilità sulla decisione della nascita del Mes. Poi ci lamentiamo se fuori non ci prendono sul serio”, commenta l’ex premier Enrico Letta.
Mentana su Conte: "Non dovevamo mandare in onda l'attacco alle opposizioni". Matteo Salvini risponde al premier Giuseppe Conte dalle accuse sul Mes: "La Lega fu l'unico partito a non volerlo. Sei un bugiardo". Rosa Scognamiglio, Venerdì 10/04/2020 su Il Giornale. "Grazie al direttore Enrico Mentana, sicuramente non accusabile di salvinismo o leghismo, per la sua lezione di stile ed educazione civica al signor Conte. Ps:La Lega fu l'unica a votare no con tutti i suoi parlamentari al Mes nel 2012. #contebugiardo". Con un tweet piccatissimo, Matteo Salvini risponde per le rime al premier Giuseppe Conte che, nel corso della conferenza stampa di questa sera, ha accusato il leader della Lega e Giorgia Meloni di aver strumentalizzato il dibattito sul Mes per tirare acqua al proprio mulino.
Matteo Salvini: GRAZIE al direttore Enrico Mentana, sicuramente non accusabile di salvinismo o leghismo, per la sua LEZIONE di stile ed educazione civica al signor Conte. P.s. La Lega fu l’unica a votare NO con tutti i suoi parlamentari al MES nel 2012. #contebugiardo
"Il Mes esiste dal 2012 - ha tuonato Conte in diretta da Palazzo Chigi riferendosi all'indiscrezione trapelata questa mattina di un accordo con l'Europa per il Fondo salva-Stati - Non è stato istituito ieri o attivato la scorsa notte come falsamente e irresponsabilmente è stato dichiarato da Matteo Salvini. Questo Governo non lavora col favore delle tenebre: guarda in faccia gli italiani e parla con chiarezza". E ancora, rincarando la dose: "Queste menzogne fanno male: non rischiano di indebolire Giuseppe Conte o il governo, ma l'intera Italia. Nel 2012, c'era un governo di centrodestra, se non ricordo male, la Meloni era ministra. Se il Mes è una trappola, non è stata fatta da questo governo, è stato ratificato da un Parlamento dove io non c'ero e non c'erano altre forze politiche che dovrebbero assumersi delle responsabilità". La sortita del premier, dai toni decisamente discutibili, non è piaciuta al leader del carroccio che non ha mancato di replicare alle accuse riportando le parole del direttore del Tg La7 Enrico Mentana: "Se avessimo saputo che Conte avrebbe fatto un uso personalistico della conferenza stampa attaccando l'opposizione non avremmo mandato in onda quella parte". Anche la Meloni carica a testa bassa: "Il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, indice una conferenza stampa pochi minuti prima dell'edizione più vista dei tg, trasmessa in diretta sulla prima rete del servizio pubblico, per accusare l'opposizione di dire menzogne, senza possibilità di replica e senza contraddittorio. - scrive la leader di Fratelli d'Italia su Facebook - Credo non si sia mai vista una cosa del genere nella storia della democrazia, e la dice lunga sulla tracotanza di questo Governo. Mi aspetto che la Rai mi dia possibilità di replica alla stessa ora, con lo stesso tempo e con la stessa visibilità. Il Presidente della Repubblica Mattarella non ha nulla da dire su questi metodi degni di un regime totalitario?".
Laura Cesaretti per “il Giornale” il 14 aprile 2020. «L' Italia non è il Venezuela di Chavez, e la tv non è la buca delle lettere del governo». Ieri sera il duello Mentana-Conte (via Casalino) si è arricchito di un nuovo scambio di sciabolate. Il direttore del Tg di La7, nell' edizione delle 20 di ieri sera, ha prima diligentemente dato lettura del verbosissimo e debordante comunicato, laboriosamente concepito in quel di Palazzo Chigi tra il venerdì santo e il lunedì dell' Angelo, in cui lo si bacchettava per aver criticato il premier. E poi ha replicato per le rime alle accuse di Palazzo Chigi Secondo cui il giornalista, contestando a Conte un «uso personalistico delle reti unificate con l' attacco alle opposizioni», aveva sostenuto «la singolare opinione secondo cui il presidente del Consiglio non dovrebbe smentire fake news e calunnie nel corso di una conferenza stampa». Per Mentana il comunicato del tandem Conte-Casalino costituisce una sorta di pressione indebita del governo sull' informazione: «La libertà è una cosa seria e noi preserviamo la nostra, nel rispetto di chi segue questo telegiornale e tutti gli altri telegiornali. Spero che venga preservata ancora, nonostante comunicati molto scomposti», è l' auspicio del direttore del Tg La7. Il presidente del Consiglio «ha tutto il diritto di indirizzarsi al paese e ha gli strumenti per farlo. Ed è giusto ascoltare quando ci sono notizie, provvedimenti, svolte da chi sta guidando il paese, ed è il premier. Ma non le polemiche politiche. Per cosa? Le fake news?» E affonda: «Hugo Chavez in Venezuela può pretendere di intervenire in televisione quando, quanto e come gli pare. In democrazia però non è permesso». La vicenda Mes, oltretutto, è molto «controversa», ricorda, e le posizioni «molto dure e sguaiate» di Matteo Salvini e Giorgia Meloni (peraltro, ma questo Mentana non lo dice, posizioni identiche a quelle espresse dallo stesso partito del premier, ossia M5s, e avallate dal capo del governo) potevano essere smentite «con un post, un comunicato, un' intervista per ristabilire la verità». Ma non può «esser data la possibilità ad un capo del governo per intervenire su quello che vuole, quando vuole, perché questo non succede nella democrazia, diversa da tutti gli altri sistemi perché c' è l' opposizione, un elemento di equilibrio e pungolo. E quando sbaglia rafforza chi governa». Il giornalista ricorda poi di aver spesso criticato Salvini «su migranti, Ong, Carola Rackete, 25 aprile, censimento dei rom, sui 49 milioni, su Savoini e la Russia. Sulla citofonata di Bologna, quando non era più ministro del governo Conte». Mentre gli attuali fustigatori grillini di Salvini, incluso il presidente del Consiglio, «sono stati zitti o hanno approvato perché erano d' accordo o perché i loro beniamini erano alleati di governo». «Voglio ricordare - aggiunge perfidamente - che si è anche votato entusiasticamente per sottrarre Salvini ad un processo, anche grazie all' expertise di un omonimo dell' attuale presidente del Consiglio, anche lui Conte, anche lui premier». A «tutto c' è un limite», conclude la sfuriata contro Conte, «Anche al fatto di volere l' ultima parola. Se ci tengono la lasciamo a Palazzo Chigi, contenti loro...».
Un magistrato (sua sorella è senatore Pd) attacca Enrico Mentana. “Su Conte sbaglia”. Il Csm tace…. Antonello De Gennaro il 13 Aprile 2020 su Il Corriere del Giorno. Il gip di Pesaro Francesco Messina se la prende con il direttore del tg de La7 Enrico Mentana per aver bacchettato il premier Conte dopo la conferenza stampa di ieri. il giudice Messina è il fratello del senatore Assuntela Messina, una docente scolastica, presidente regionale del PD in Puglia. Cioè del partito principale alleato del M5S che sostiene il governo guidato dal premier Conte. “Direttore Mentana, non spetta a Lei valutare l’opportunità o meno dei contenuti di una comunicazione istituzionale. Il giornalismo serio non limita e non decide cosa un rappresentante delle Istituzioni debba o non debba dire pubblicamente. Il giornalista informa e comunica, magari anche rappresentando il proprio pensiero. Spetta, poi, al cittadino riflettere e crearsi un giudizio il più completo possibile“. Con queste parole inopportune un magistrato pugliese Francesco Messina originario di Barletta, attualmente giudice per le indagini del Tribunale di Pesaro attacca Enrico Mentana il direttore del TgLa7 per aver bacchettato il premier Conte dopo la conferenza stampa di ieri. Il giornalista ha infatti accusato il presidente del consiglio di “uso personalistico delle reti unificate” per quell’attacco personale a Salvini e alla Meloni, aggiungendo che se l’avesse saputo prima, non avrebbe mandato in onda quella parte della conferenza stampa. Affermazioni queste che secondo il giudice Messina (il quale non ha alcuna competenza territoriale sulla questione n.d.a.) non competono a un giornalista. Il giudizio sulla opportunità o meno dei contenuti “spetta al cittadino italiano – secondo Messina che lo scrive sulla sua pagina Facebook – al cui servizio qualsiasi canale televisivo di informazione o giornalista dovrebbe attenersi con assoluto scrupolo”. “Ma vi è di più” aggiunge il giudice: “Ieri il Presidente del Consiglio ha dato conto ai cittadini della posizione governativa dell’Italia in ambito internazionale, smentendo affermazioni di altri politici che, se fossero vere, influenzerebbero delicatissime trattative economiche in ambito internazionale, generando sconcerto nell’opinione pubblica. Opinione pubblica che, specie nella situazione gravissima che stiamo vivendo, dovrebbe essere rassicurata, e non indotta emotivamente a perdere fiducia o, peggio, a disprezzare le Istituzioni“. Poi il giudice Messina contesta a Mentana un suo precedente: “Del resto, mi pare (ma mi corregga se sbaglio) che Lei, in altra e diversa circostanza, ha dato conto televisivamente delle dichiarazioni video Facebook del precedente ministro dell’Interno (Salvini – ndr) il quale contestò la decisione del Gip di Agrigento sulla convalida dell’arresto nel caso “Rackete” e paventò, addirittura, riforme per l’intera magistratura in conseguenza di quella decisione a lui, evidentemente, sgradita“. Ebbene continua il Gip di Pesaro , “in quella occasione Lei non limitò in alcun modo quell’intervento politico che, è bene precisare, riguardava un provvedimento giurisdizionale, e cioè un atto proveniente da altro potere dello Stato (quella decisione del Gip, peraltro, è stata poi definitivamente confermata dalla Suprema Corte di Cassazione)“. Morale del giudice Messina : “in conclusione: il giornalismo serio non limita e non decide cosa un rappresentante delle Istituzioni debba o non debba dire pubblicamente. Il giornalista informa e comunica, magari anche rappresentando il proprio pensiero. Spetta, poi, al cittadino riflettere e crearsi un giudizio il più completo possibile“. Quella che nessuno si è accorto è che il giudice Messina è il fratello del senatore Assuntela Messina, una docente scolastica, presidente regionale del PD in Puglia. Cioè del partito principale alleato del M5S che sostiene il governo guidato dal premier Conte. Ma guarda un pò che combinazione! Possibile che nessuno abbia spiegato al giudice Messina l’esistenza dell’ articolo 21 della Costituzione ? E poi l’ ANM, l’ associazione nazionale dei magistrati parla di indipendenza della magistratura dalla politica. Salvo attaccarla quando fa più comodo. Ma gli italiani ed i giornalisti dotati di buona memoria non hanno dimenticato il marciume dietro le quinte del Csm, dell’ Anm, venuto alla luce con la nota vicenda nota a tutti come il “caso Palamara”. Anche in quel caso guarda caso i politici coinvolti (Luca Lotti e Cosimo Ferri) erano entrambi del Partito Democratico. Solo coincidenze…???
Facebook Francesco Messina 11 aprile alle ore 13:59. "Risposta all'ultimo post di Enrico Mentana (scritta sulla sua bacheca). "Direttore Mentana, non spetta a Lei valutare l'opportunità o meno dei contenuti di una comunicazione istituzionale. Tale giudizio spetta, invece, al cittadino italiano al cui SERVIZIO qualsiasi canale televisivo di informazione o giornalista dovrebbe attenersi con assoluto scrupolo. Ma vi è di più. Ieri il Presidente del Consiglio ha dato conto ai cittadini della posizione governativa dell'Italia in ambito internazionale, smentendo affermazioni di altri politici che, se fossero vere, influenzerebbero delicatissime trattative economiche in ambito internazionale, generando sconcerto nell'opinione pubblica. Opinione pubblica che, specie nella situazione gravissima che stiamo vivendo, dovrebbe essere rassicurata, e non indotta emotivamente a perdere fiducia o, peggio, a disprezzare le Istituzioni. Del resto, mi pare (ma mi corregga se sbaglio) che Lei, in altra e diversa circostanza, ha dato conto televisivamente delle dichiarazioni video Facebook del precedente ministro dell'Interno il quale contestò la decisione del GIP di Agrigento sulla convalida dell'arresto nel caso "Rackete" e paventò, addirittura, riforme per l'intera magistratura in conseguenza di quella decisione a lui, evidentemente, sgradita. In quella occasione Lei non limitò in alcun modo quell'intervento politico che, è bene precisare, riguardava un provvedimento giurisdizionale, e cioè un atto proveniente da altro potere dello Stato (quella decisione del GIP, peraltro, è stata poi definitivamente confermata dalla Suprema Corte di Cassazione). In conclusione: il giornalismo serio non limita e non decide cosa un rappresentante delle Istituzioni debba o non debba dire pubblicamente. Il giornalista informa e comunica, magari anche rappresentando il proprio pensiero. Spetta, poi, al cittadino riflettere e crearsi un giudizio il più completo possibile".
Mentana, l’editoriale nel Tg La7 sulla polemica con palazzo Chigi: “Comunicato scomposto”. E a chi lo critica ribatte: “Mai censurato nessuno”. Il Fatto Quotidiano il 14 aprile 2020. “Dirigo telegiornali da 28 anni e non ho mai censurato nessuno“. Al termine dell’edizione delle 20 di lunedì 13 aprile, il direttore del TgLa7 Enrico Mentana ha replicato alla nota di Palazzo Chigi ed è tornato sulle polemiche scatenate dall’intervento di Conte di venerdì, in particolare dagli attacchi a Salvini e Meloni. “In questa fase è giusto ascoltare le notizie di provvedimenti direttamente da chi sta guidando il Paese, ma non la polemica politica” ha spiegato Mentana, che già venerdì sera, in diretta tv, aveva criticato l’atteggiamento del premier nei confronti dell’opposizione, dicendo che “se l’avessimo saputo non avremmo mandato in onda quella parte”. A distanza di due giorni, Mentana ha ribadito la sua posizione: “Conte poteva fare un post o un comunicato per ristabilire la verità” ha ribadito. Nel pomeriggio, Palazzo Chigi aveva diffuso un comunicato, specificando di “non aver mai chiesto che la conferenza venisse trasmessa a reti unificate, e infatti è stata trasmessa solo da alcuni canali tv e solo per una parte e non interamente”. Il presidente del Consiglio, “ha risposto a tutte le domande dei giornalisti, tanto sull’emergenza coronavirus quanto sul Mes”. Nel finale, il direttore del TgLa7 rivolge un lungo monito agli “odiatori” pentastellati, accusati di aver taciuto sull’operato di Salvini nel governo Conte Uno, quando M5s e Lega erano alleati. E aggiunge una nuova stoccata a Conte: “Si è anche votato entusiasticamente per sottrarre a un processo Salvini anche da parte di quell’elettorato, grazie anche all’expertise di un omonimo dell’attuale presidente del Consiglio”. Poi chiosa: “Noi non censuriamo e non si dica questo. Qui la libertà è assoluta. Ma non c’è la libertà di dire: ‘Ora va in onda quello che voglio io’. Chiaro? La democrazia è anche quella delle testate televisive. Spero che venga preservata ancora, nonostante dei comunicati molto scomposti”.
Mentana vattene in pensione. Pubblicato su 14 Aprile su Infosannio. (Tommaso Merlo) – Mentana ha fatto una cappella giornalistica mostruosa. Ha ammesso in diretta che avrebbe non trasmesso una parte del discorso del Premier a lui non gradita se lo avesse saputo prima. Un obbrobrio. Mentana si è messo al di sopra del Presidente del Consiglio, come se spettasse a Mentana decidere quello che è politicamente appropriato o meno comunicare alla cittadinanza. Se Mentana chiedeva subito scusa, finiva tutto lì. Ed invece il suo ego non ha resistito ed ha cominciato ad agitarsi per dimostrare di aver ragione lui mentre sui social veniva ricoperto di sacrosanto letame. Una pezza peggiore del buco che dimostra che dopo anni d’interminabili maratone, Mentana sia stracotto e sarebbe ora che se ne vada in pensione e lasci spazio ai giovani. Pie illusioni in questa Italia vecchia ed elitaria in cui le caste non mollano mai l’osso. Mentana usa il suo telegiornale per difendersi e conferma anche per i più orbi l’andazzo che affligge il nostro paese, casta giornalistica in primis. Mai nessuno che ammette i propri errori, mai nessuno che chiede scusa e fa un passo indietro. In questa Italia vecchia ed elitaria, l’umiltà e l’onesta intellettuale sono considerate debolezze da perdenti invece che valori. Tutti all’attacco, tutti arroccati nel proprio fortino. Una iattura. Se l’Italia è un paese fermo ed arretrato, una delle ragioni è proprio questa. Perché è ostaggio di caste egoarche convinte di essere il meglio che il paese possa offrire. Perfette, eterne, insostituibili. Caste che in realtà sono emerse in un sistema malato e che una volta in cima non gli conviene curarlo ma sfruttarlo. Il sistema dell’informazione in Italia ormai è una triste barzelletta. I giornali se li scrivono e se li leggono da soli. Rotolidistampaigienica. Miniere di fake news svendute come retroscena e di stucchevoli predicozzi di qualche parruccone. Una crisi di credibilità epocale che richiederebbe un reset totale. Altro che arroccamenti a spese del contribuente. Poi c’è la televisione. Fa pisciare addosso dal ridere vedere gli spot che Mediaset trasmette in questi giorni sulla qualità dell’informazione. Un’azienda privata in mano ad un pregiudicato in odore di mafia che per decenni ha servito da braccio propagandistico del proprio padrone. Un’azienda che opera in palese conflitto d’interesse e quindi priva alla base di ogni credibilità giornalistica e che trasmette ogni santo giorno dei talk-show politici da far vergognare di essere italiani. Un imbarazzante circo farcito di faziosità e di volgarità. Vetrina di una destra sovranista spaventosa. Quanto alla Rai, dargli una ripulita dalla mafia partitocratica è una di quelle imprese che sembrano impossibili in Italia. Troppo marciume accumulato, troppe complicità della vecchia politica. Quanto a La7, da quando il Pd e perfino i renzioti sono al governo si è data una calmata, ma resta faziosa e da anni trasmette talk-show tutti identici, tutti schierati a boicottare il cambiamento. Una vetrina per le caste, una passerella h24 di quell’Italia vecchia ed elitaria ed egoarca che si crede indispensabile e insostituibile e continua ad imporci la propria presenza, la propria cultura ammuffita e superata. In questo quadro desolante, Mentana s’inserisce a perfezione. Dopo la sua cappella mostruosa, non sorprende che abbia contrattaccato invece di chiedere scusa. La speranza è che il polverone scatenato convinca perlomeno Mentana che alla sua veneranda età e dopo tutte quelle maratone, sia venuto il momento di andare in pensione e lasciare spazio ai giovani.
Carmelo Lopapa per “la Repubblica” il 14 aprile 2020. Il caso non è chiuso. E ancora tre giorni dopo, Palazzo Chigi è costretto a intervenire per ribadire non aver disposto alcuna «diretta a reti unificate» per la conferenza stampa del premier Giuseppe Conte di venerdì sera. Parliamo del 10 aprile, quando il capo del governo ha ufficializzato la proroga delle misure di lockdown al 3 maggio e contestualmente attaccato le opposizioni: Salvini e Meloni, chiamati per nome e cognome, rei di aver dichiarato il «falso» e aver indebolito il Paese nella difficile trattativa con l' Europa sul Mes. Da quell' attacco è scaturita la dura reazione dei due leader del centrodestra. Sfociata a sua volta - come ha conteggiato Michele Anzaldi di Italia viva - in «dodici minuti di interviste sui tg Rai» di sabato, l' indomani. Exploit televisivo che, a sua volta, si è trasformato in caso politico, che con molta probabilità sarà affrontato oggi dall' ufficio di presidenza della Vigilanza Rai. Sono le modalità di quella sorta di "risarcimento" televisivo al lungo show del premier ad aver suscitato più di un malumore nella maggioranza. Venerdì sera Giorgia Meloni invoca la "riparazione" dell' affronto con un video su Facebook. Salvini, sabato mattina, dopo aver chiamato e protestato contro la sortita di Conte con il presidente Mattarella, chiama anche il presidente Rai Marcello Foa (indicato proprio dalla Lega ai tempi del governo gialloverde). Non è il solo. Fi e Fdi si muovono sul presidente della Vigilanza Alberto Barachini (esponente forzista) e da lui parte la lettera che chiedeva a viale Mazzini di risarcire nei tg i leader dell' opposizione (richiesta che Barachini avrebbe fatto anche direttamente al telefono con l' ad Salini). Una manovra a tenaglia che mette in moto la macchina. Il risultato concreto che i due big del centrodestra portano a casa sta tutto nei 6 minuti e 25 secondi del leghista sui tre tg Rai (di cui 2 minuti e 42 secondi di collegamento in diretta al Tg1 delle 20) e nei 5 minuti e 45 secondi della presidente di Fratelli d' Italia (di cui 3 minuti in collegamento in diretta al Tg1 delle 13 di quello stesso sabato). Un intervento che del resto il presidente Rai Marcello Foa rivendica, nell' intervista di ieri all' Adnkronos: «È normale che se il premier cita criticamente in tv esponenti politici, costoro abbiano la possibilità di replicare. La Rai si sforza di garantire con equilibrio il pluralismo». La maggioranza è sul piede di guerra, soprattutto i renziani. Anzaldi chiama in causa la «disastrosa gestione dell' informazione Rai in queste settimane difficili » quale «inevitabile epilogo di oltre un anno di totale assenza di garanzie» chiamando in causa proprio il ruolo di Foa. In queste ore per altro è stata resa pubblica (dal sito Affaritaliani. it) una lettera interna con la quale il direttore di Raiuno Sefano Coletta già due settimane fa aveva tentato di porre un argine all' invasione dei politici in tv in questa fase così critica. «Auspico valutazioni ispirate a reali urgenze e necessità informative», si leggeva. E la vicenda della conferenza del premier e delle successive polemiche è una conferma del problema. «Non c' è stata alcuna conferenza a reti unificate» precisa nella sua nota Palazzo Chigi. Aggiungendo che il presidente, quel 10 aprile, non ha attaccato le opposizioni ma «smentito vere e proprie fake news». Con stoccata finale contro quei direttori (il riferimento sembra a Enrico Mentana de La7) « liberi di sostenere la singolare opinione secondo cui il presidente non dovrebbe smentire fake e calunnie». «Basta insulti», protesta la Lega. La polemica continua.
Attacchi Conte a Meloni e Salvini, Travaglio: «Non si sono mai sentite tante balle come quelle a proposito delle comunicazioni del premier». Silenzi e Falsità il 15 aprile 2020. «Se un direttore di rete o di tg vuole trasmettere La Signora in giallo o l’Ispettore Barnaby al posto della conferenza stampa di Conte, è liberissimo di farlo. Non c’è nessuna legge che imponga a nessuna tv di trasmettere quello che dice Conte». Così il direttore del Fatto Quotidiano, Marco Travaglio, intervenendo a Otto e mezzo, a proposito della polemica sugli attacchi del presidente del Consiglio Giuseppe Conte ai leader delle opposizioni, Matteo Salvini e Giorgia Meloni, sul Mes. «Non si sono mai sentite tante balle come quelle a proposito delle comunicazioni del presidente del Consiglio. In democrazia ognuno è libero di dire ciò che vuole, poi c’è il codice penale in caso a mettere un freno. I capi dell’opposizione possono dire che il presidente del Consiglio è un traditore, un venduto, un venditore o svenditore dell’Italia al Mes. Il premier è liberissimo di dirgli che non è vero, chiamandoli per nome e cognome. I giornalisti sono liberissimi di giudicare Conte, Salvini e la Meloni, dicendo che Conte ha torto o viceversa», ha continuato Travaglio. «L’unica cosa che non si può dire è che non si devono trasmettere delle parole del presidente del Consiglio perché non ti piacciono. Tu le trasmetti, se ritieni di trasmetterle, e poi le critichi. Se non le vuoi trasmettere, non le trasmetti. Questa storia per cui Conte parla a reti unificate è una totale bugia, nessuna televisione è obbligata a trasmettere i messaggi o le conferenze stampa di Conte. Ci possono essere delle reti che Conte non lo fanno nemmeno vedere», ha detto ancora il giornalista facendo riferimento, senza menzionarlo, ad Enrico Mentana, secondo il quale «non può esser data la possibilità ad un capo del governo per intervenire su quello che vuole, quando vuole, perché questo non succede nella democrazia, diversa da tutti gli altri sistemi perché c’è l’opposizione, un elemento di equilibrio e pungolo«. «A casa mia, Conte che polemizza con le opposizioni è una notizia: la si dà e la si valuta. Si giudica quello che hanno fatto, si dice tutto quello che si vuole. L’unica cosa bizzarra è una discussione se sia il caso di trasmettere parole che Conte che fanno discutere da una settimana. Si danno tutte le notizie, poi si commentano e si criticano», ha aggiunto Travaglio.
Tutto Travaglio (facebook) 13 aprile alle ore 18:33. COMUNICATO UFFICIO STAMPA CHIGI.
Alla luce del dibattito che sistematicamente si crea intorno alle conferenze stampa del Presidente del Consiglio, riteniamo doveroso fare alcune precisazioni:
1. Non c’è stata alcuna Conferenza Stampa a reti unificate. Palazzo Chigi non ha mai chiesto che la conferenza stampa venisse trasmessa a reti unificate; e infatti è stata trasmessa solo da alcuni canali tv e solo per una parte e non interamente.
2. tutti gli interventi del Presidente del Consiglio si sono sempre svolti secondo le consuete modalità e, in particolare, nella forma di conferenze stampa, salvo qualche rara eccezione.
Sin dall’inizio del primo mandato del Presidente Conte, dal giugno 2018, Palazzo Chigi trasmette il segnale audio video in Hd mettendolo a disposizione di tutti e di tutte le reti televisive, le quali liberamente decidono se e cosa mandare in onda sui propri canali. Lo stesso è avvenuto in occasione delle dichiarazioni alla stampa di sabato 21 marzo (per le quali alcuni hanno parlato, del tutto impropriamente, di ‘diretta facebook‘) e della conferenza stampa di venerdì 10 aprile (per la quale alcuni, anche qui del tutto impropriamente, hanno parlato di “discorso alla nazione a reti unificate”).
In particolare il 10 aprile il Presidente del Consiglio ha tenuto una conferenza stampa, come tante altre volte avvenuto in queste settimane. E come ogni volta ha illustrato i provvedimenti adottati, ha spiegato e chiarito i fatti più rilevanti e ha risposto a tutte le domande dei giornalisti, tanto sull’emergenza coronavirus quanto sul Mes. Nell’occasione ha smentito vere e proprie fake news che rischiavano di alimentare divisioni nel Paese e di danneggiarlo, compromettendo il “senso di comunità”, fondamentale soprattutto in questa fase di emergenza.
In conclusione, anche questa volta non c’è stata richiesta, da parte della Presidenza del Consiglio, di trasmettere un discorso alla nazione a reti unificate. La decisione di trasmettere o meno le conferenze stampa del Presidente del Consiglio spetterà - come è sempre stato - sempre e solo ai responsabili delle singole testate giornalistiche. Questi ultimi sono anche liberi di sostenere la singolare opinione secondo cui il Presidente del Consiglio non dovrebbe smentire fake news e calunnie nel corso di una conferenza stampa rivolta al Paese, nè dovrebbe parlare di un tema rilevante e di interesse generale come il Mes. Facciamo notare, infine, che Conte non avrebbe potuto evitare di affrontare il tema del Mes e chiarire le relative fakenews veicolate dell’opposizione, visto che questo tema è poi stato oggetto delle domande poste dai giornalisti. A conferma del fatto che si tratta di argomento di interesse generale.
“Criminale, bugiardo, irrilevante, traditore”: è la “leale collaborazione” delle opposizioni.... SEI MESI DI INSULTI – I DUE SOVRANISTI SI OFFENDONO, MA NON HANNO MAI SMESSO DI PROVOCARE. Tommaso Rodano (Il Fatto Quotidiano 14 aprile 2020) – Matteo Salvini è allibito e amareggiato, mentre secondo Giorgia Meloni l’Italia ha fatto la fine della Corea del Nord. Per i gemelli della destra italiana è inconcepibile che Giuseppe Conte abbia risposto alle provocazioni. Addirittura in diretta televisiva. Salvini e Meloni però sono gli stessi che hanno definito (a turno) il premier così: “Criminale”, “irrilevante”, “Marchese del Grillo”, “bugiardo”, “traditore dello Stato”, “dittatore”. Di seguito, un compendio delle sobrie invettive sovraniste, prima e durante la crisi del Coronavirus.
10 settembre 2019, Salvini: “Da Conte non comprerei neanche un cono gelato”.
18 settembre 2019, Salvini: “Da avvocato del popolo a traditore del popolo, che misera fine”.
28 novembre 2019, Salvini: “Conte ha commesso un atto gravissimo, un attentato ai danni del popolo italiano… Mi ricorda una celebre frase del Marchese del Grillo, ‘io so io e voi non siete un cazzo’”.
2 dicembre 2019, Meloni: “Lei è un presidente che ci riempie di menzogne. Ha svenduto gli interessi italiani per la poltrona”.
2 dicembre 2019, Salvini a Conte, in aula: “Cito Confucio: ‘L’uomo da poco è arrogante senza essere calmo, l’uomo superiore è calmo senza essere arrogante’. Aperta parentesi: si vergogni”.
28 dicembre, Meloni: “Questo governo prima va a casa e meglio è”.
2 gennaio 2020, Salvini: “Se pensano che Conte possa essere il candidato del centrosinistra sono proprio alla canna del gas. Conte non ha un voto, non esiste. È irrilevante: si goda il potere finché può”.
24 gennaio, Meloni: “Lunedì citofoniamo a Conte. Scusi, fa gli scatoloni?”.
27 gennaio, Salvini: “Vive male quel signore (Conte, ndr). Vive di rabbia, di odio”.
24 febbraio, Meloni: “Conte non si illuda che questa emergenza possa salvare il governo. Non si inventino scuse per tirare a campare”.
28 febbraio, Salvini (dalle piste di Madonna di Campiglio, mentre buona parte degli italiani avevano iniziato la quarantena): “Qualcuno si permette di dire i prodotti italiani no, i camionisti italiani no, gli studenti italiani no. Qui servirebbe un governo, un presidente del Consiglio con le palle, che sappia difendere gli interessi italiani”.
5 marzo, Meloni: “Giuseppe Conte è un criminale, ha responsabilità gravissime”.
29 marzo, Meloni: “Presidente Conte, servono soldi subito sul conto corrente. A che serve l’umiliazione dei buoni e delle derrate alimentari?” (Pochi minuti prima elogiava il presidente siciliano Musumeci per i buoni pasto e le derrate alimentari).
29 marzo, Meloni: “Solidarietà a tutti i sindaci, chiamati a gestire una situazione esplosiva per colpa degli annunci roboanti di Conte, che ha fatto credere agli italiani di aver ricoperto i Comuni di miliardi, ma è una bugia colossale. Un irresponsabile gioco delle tre carte fatto sulla pelle di chi è in prima linea”.
10 aprile, Salvini: “Il Mes è un sistema di strozzinaggio legalizzato. Siamo alla dittatura nel nome del virus”.
10 aprile, Meloni: “Ora Conte, Gualtieri e Di Maio dovranno affrontare il Parlamento, dove siamo già schierati per impedire questo atto di alto tradimento verso il popolo italiano”.
CI AVETE FATTO CASO? NEL SUO PIROTECNICO INTERVENTO, A PROPOSITO DEL FAMIGERATO MES, CONTE HA SPARATO SOLO CONTRO SALVINI E MELONI E NON HA MENZIONATO SILVIO BERLUSCONI. DAGOREPORT l'11 aprile 2020. Come mai nel suo pirotecnico intervento a reti unificate, a proposito del famigerato MES, Conte ha sparato solo contro Salvini e Meloni e non ha menzionato Silvio Berlusconi? Si è limitato a pronunciare “governo di centrodestra” ma non ha infilzato il Banana di Arcore. L’avvocato di Padre Pio ha sposato l’idea del suo rasputin Rocco Casalino: la conquista dei voti parlamentari di Forza Italia, gran parte manovrati dall’Eminenza Azzurrina Gianni Letta. Un progetto che dovrà andare in porto presto, molto presto, dato che a maggio Italia Viva dovrebbe togliere la fiducia al governo. Renzi considera ormai la sua permanenza nell’esecutivo del tutto inutile, si è stancato dei continui scazzi col PD.
PS - Sul Messaggero del 25 maggio 2018, Silvio Berlusconi dopo un colloquio con il premier incaricato Giuseppe Conte confidò in via confidenziale ai suoi collaboratori più stretti: “Ho avuto una buona impressione. Magari quei pazzi dei grillini fossero tutti come lui!”. Commentò il quotidiano romano: Conte non è “antropologicamente lontano dai forzisti”, per gusti (“la sua eleganza di sartoria e la rasatura perfetta”) e frequentazioni: dai contatti con il parlamentare di Forza Italia Donato Bruno (fidatissimo di Berlusconi e pugliese come lui) a quelli con tanti avvocati romani della cerchia di Gianni Letta”.
L’Ue smentisce Giorgia Meloni: fu il governo Berlusconi ad approvare il Mes. Laura Pellegrini l'11/04/2020 su Notizie.it. L'Ue smentisce Giorgia Meloni, secondo la quale sarebbe stato il governo Monti ad approvare il Mes. Dopo la conferenza stampa del premier Giuseppe Conte, le opposizioni hanno iniziato lo scaricabarile sulle responsabilità relative all’approvazione del Mes. In particolare Giorgia Meloni avrebbe replicato al premier che lei è totalmente estranea alla sua approvazione, mentre l’Ue smentisce le sue dichiarazioni. La leader di FdI, in un post pubblicato sui social, scriveva che “il Mes è stato approvato dal governo Monti“, ma questa dichiarazione non sarebbe corretta. L’Ue smentisce Giorgia Meloni, secondo la quale sarebbe stato il governo Monti ad approvare il Mes. Invece, fu il Consiglio dei Ministri del governo Berlusconi IV a dare il via libera all’istituzione del Mes: era il 3 agosto 2011. “L’Obiettivo della Decisione – specificano fonti europee – è far sì che tutti gli Stati dell’Eurozona possano istituire, se necessario, un meccanismo che renderà possibile affrontare situazioni di rischio per la stabilità finanziaria dell’intera area dell’Euro”. Di fatto, però, questa riunione arrivò poco prima del Consiglio Europeo del 25 marzo 2011, dove Berlusconi sedette al tavolo delle trattative europee per rappresentare l’Italia. All’epoca, inoltre, Giorgia Meloni era ministra per la Gioventù. Quello approvato dal governo Berlusconi fu in realtà il primo passo verso l’approvazione del Mes, che divenne definitiva nel 2012, sotto il governo Monti. Quindi è corretto affermare che fu il governo Monti a dare la necessaria approvazione al Mes, ma prima di lui è stato Berlusconi a prendere parte alle trattative per la sua istituzione.
Giorgia Meloni era al governo quando il Parlamento approvò il Mes? Jacopo Bongini l’11/04/2020 su Notizie.it. Giuseppe Conte ha accusato la Meloni di essere stata ministro quando l'Italia approvò il Mes, ma la realtà appare diversa dalle parole del premier. In queste ultime ore uno degli argomenti che più si stanno rincorrendo nella rete sono le accuse lanciate da Giuseppe Conte nei confronti di Matteo Salvini e Giorgia Meloni, rei a dire del premier di aver diffuso in questi giorni notizie false sul Mes e sulla riunione dell’Eurogruppo del 9 aprile scorso. La leader di Fratelli d’Italia è stata inoltre tacciata dal presidente del Consiglio di essere persino stata al governo quando il Mes venne istituito e conseguentemente approvato dal Parlamento. Tuttavia la realtà è diversa da com’è stata presentata. Nel corso della conferenza stampa sui prossimi provvedimento del governo in tema coronavirus, il premier Conte aveva infatti affermato a proposito del Mes: “Meloni era ministro quando il Mes è stato sottoscritto, se ne assuma la responsabilità pubblica”. Il presidente del Consiglio faceva riferimento alla votazione del 19 luglio del 2012, quando il Meccanismo Europeo di Stabilità è stato approvato dal Parlamento italiano. A quel tempo però, Giorgia Meloni non era più ministro da circa otto mesi: cioè da quando nel novembre del 2011 cadde il quarto governo di Silvio Berlusconi nel quale ella era ministro per le Politiche Giovanili, il più giovane fino a quel momento nella storia della Repubblica. A Silvio Berlusconi subentro il governo tecnico di Mario Monti, sostenuto in Parlamento anche dal Popolo della Liberta, il partito di cui all’epoca faceva parte anche Giorgia Meloni. Si può dire quindi che pur non facendo parte dell’esecutivo, la Meloni rientrasse appieno tra i parlamentari di maggioranza quando venne approvato il Mes. Tuttavia non è esatta neanche questa affermazione, dato che come dichiarato dalla stessa Meloni essa non era presente in Aula nel momento in cui il Parlamento votò l’approvazione del Mes, essendo a suo dire assentatasi volontariamente in protesta con il suo stesso partito. Da li a pochi mesi, Giorgia Meloni avrebbe infatti fondato Fratelli d’Italia e abbandonato per sempre il Popolo della Libertà: “Nel 2012 io non votai il Mes, in aperto dissenso col mio partito dell’epoca. Anche per questo rinunciai a una rielezione sicura e me ne andai per fondare Fratelli d’Italia”.
La replica della leader di Fdi. Non si è fatta attendere ovviamente la risposta di Giorgia Meloni alle accuse di Conte. La leader di Fratelli d’Italia ha infatti affidato le sue parole a un video in cui afferma: “Mi chiedo se sia normale che il presidente del Consiglio Conte convochi una conferenza stampa per fingere di raccontare dei nuovi provvedimenti presi dal governo e poi di fatto la utilizzi per parlare male dell’opposizione e per accusarla di menzogne, ovviamente senza possibilità di replica e senza contraddittorio. […] Presidente Conte, nel 2012 al governo c’era Monti, non c’ero io. Non è bello usare la televisione di Stato per diffondere fake news“.
DAGONOTA l'11 aprile 2020. - Dire che il governo Berlusconi 2008-2011 sia il ''padre'' del MES è un falso storico, anche se capiamo quanto la ricostruzione piaccia ai nemici odierni di Meloni (all'epoca ministro per la gioventù) e Salvini (all'epoca europarlamentare). Lo sa chiunque conosca la storia di quegli anni, in cui Tremonti, ministro del Tesoro, martellava chiunque avesse un orecchio sul tema degli Eurobond, che avrebbero dovuto accompagnare la nascita di un fondo europeo. Ne aveva parlato persino in una lettera del 2008 a Christine Lagarde, quando l'attuale presidente della BCE era ministro delle Finanze di Sarkozy. Era il 29 settembre, due settimane dopo il crac di Lehman Brothers, la crisi del debito sovrano europeo non era ancora arrivata ma covava sotto le macerie del sistema finanziario globalizzato, crollato insieme ai mutui subprime. Il fondo Salva-Stati nacque nel 2009 come strumento di diritto privato e incardinato in Lussemburgo (dove si trova tuttora, anche dopo i nuovi trattati), con un documento stilato da un notaio e fatto firmare ai ministri economici in uno di quei lunghi Eurogruppi notturni. In quegli anni la parola d'ordine era: serietà sopra, solidarietà sotto. Il messaggio di rigore sui conti pubblici che i paesi del Nord diffondevano (soprattutto tra i loro elettori) si doveva accompagnare a una nuova idea di Europa, pronta ad aiutare chi fosse in difficoltà finanziaria. D'altronde nei trattati europei non compare mai la parola ''crisi'', e in questi giorni si torna a criticare un'unione pensata solo per le giornate di bel tempo, pronta a sgretolarsi alla prima turbolenza. Le due idee che si fronteggiavano allora (e tuttora)? L'organismo Salva-Stati si deve finanziare autonomamente emettendo bond garantiti da tutti gli stati membri (eurobond), oppure deve essere finanziato dai singoli Stati, ognuno dei quali si sarebbe dovuto indebitare per versare la propria quota, calcolata in proporzione al pil? Quello che è successo nel ''salvataggio'' della Grecia è esemplare di come i propositi iniziali siano stati sepolti dagli egoismi nazionali: in quell'occasione la vittima da salvare non era il popolo greco, ma le banche tedesche e francesi che erano zeppe di obbligazioni elleniche (oltre 200 miliardi di euro). Tanto che all'epoca il dibattito si fece ancora più specifico: visto che il fondo salva-Stati viene usato per salvare le banche, i conferimenti non dovrebbero essere fatti in base al rischio bancario? L'Italia aveva una esposizione minima verso Atene rispetto a Francia e Germania, che avrebbero dovuto sborsare molto di più. Questa linea, ovviamente, non passò: la quota rimase legata al pil, il governo italiano fu fatto fuori con il ''dolce golpe'' di Deauville (confermato da Geithner, Zapatero e molti altri), e nel 2012 il governo di Mario Monti si occupò di ratificare quel MES tutto rigore e zero solidarietà che non era certo nei piani del governo Berlusconi.
(ANSA l'11 aprile 2020) - "Ho difficoltà a condividere la ricostruzione "storica" (?!) sull'origine del Mes fatta ieri in tv dal presidente Conte. Una storia che viene oggi sinistramente illuminata dal senatore Monti svelando (confermando) l'inquietante retroscena della "Lettera Trichet-Draghi" inviata all'Italia il 5 agosto del 2011". Lo scrive in una nota l'ex ministro dell'Economia Giulio Tremonti, che replica alle affermazioni del presidente del Consiglio sull'origine del Fondo Salva Stati e sulle posizioni in proposito in Italia dell'allora governo di centrodestra. "Ma veniamo ad oggi, anzi a ieri - prosegue Tremonti - Per quanto mi riguarda, e ne ho le prove (a partire dall'articolo di Juncker e Tremonti pubblicato il 5 dicembre 2010 sul Financial Times sotto il titolo "E-bonds would end the crisis"), l'approvazione definitiva del Mes era condizionata all'introduzione degli eurobond: no eurobond no Mes. Non è stato così: caduto il governo Berlusconi, il Mes è stato definitivamente approvato nel 2012 dal governo Monti... senza eurobond". "La stessa auto può essere usata per andare in ufficio o per fare una rapina - prosegue Tremonti - A partire dal 2012 il Mes è stato utilizzato bene in Irlanda, Portogallo, eccetera. Ed invece malissimo in Grecia, teatro delle terribili gesta della sua Troika. Da allora, per un quinquennio, il Mes si è ritirato nell'ombra come uno zombie. Nell'autunno dell'anno scorso è riapparso animato dalla idea europea di assegnargli nuove missioni, ma il passare del tempo non è stato sufficiente per dimenticare quello che ha fatto in Grecia e per ignorare quanto ancora potrebbe fare di male in altri Stati europei". "Per questo - conclude Tremonti - mi pare che molto bene abbia fatto e faccia in Parlamento l'opposizione a votare comunque contro il Mes".
Ma la Ue precisa: fu il governo Berlusconi IV ad approvare ddl col Mes. Le tappe del disegno di legge: il Consiglio dei Ministri del 3 agosto 2011, guidato dal leader di Forza Italia, fece seguito al Consiglio Europeo del 25 marzo 2011. La Repubblica l'11 aprile 2020. Fu il Consiglio dei Ministri del governo Berlusconi IV ad approvare il 3 agosto 2011 "il disegno di legge per la ratifica della decisione del Consiglio Europeo 2011/199/Ue, che modifica l'articolo 136 del Trattato sul funzionamento della Ue relativamente a un meccanismo di stabilità (Esm - European Stability Mechanism), nei Paesi in cui la moneta è l'euro. Obiettivo della Decisione è far sì che tutti gli Stati dell'Eurozona possano istituire, se necessario, un meccanismo che renderà possibile affrontare situazioni di rischio per la stabilità finanziaria dell'intera area dell'Euro". Il Consiglio dei Ministri del 3 agosto 2011 fece seguito al Consiglio Europeo del 25 marzo 2011, in cui l'allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi rappresentò l'Italia al tavolo in cui si definirono i contenuti del Mes. La Cancelliera tedesca era ovviamente Angela Merkel. Il governo Berlusconi IV ebbe Bossi ministro per le Riforme, Meloni ministra per la Gioventù, Calderoli ministro per la Semplificazione, Nitto Palma ministro per la Giustizia dal 27 luglio 2011, La Russa ministro della Difesa, Tremonti ministro per l'Economia e Gelmini ministro per l'Università.
I signori del MES. MoVimento 5 Stelle l'11 aprile 2020. Oggi pronti a puntare l’indice. Ieri fieri sostenitori, fino alla fine, di quel Mes che oggi dicono di vedere come fumo negli occhi. Ma la storia, che è una brutta bestia, sta lì a inchiodare Matteo Salvini e Giorgia Meloni. E visto che la loro propaganda continua ad alimentarsi di menzogne, è necessario smontarle. Una ad una, una volta per tutte. Operazione che, a dir la verità, non è poi così complicata. Tutta l’attività istruttoria europea precedente all’istituzione del Mes (Meccanismo europeo di stabilità, detto anche Fondo “Salva-Stati”) si è svolta tra il 2010 e il 2011. In carica c’era il Governo Berlusconi IV, sostenuto dalla Lega, dall’allora Pdl e da quella parte del Pdl che sarebbe poi diventata Fratelli d’Italia. I contenuti del Mes sono stati definitivamente adottati dal Consiglio europeo del 24-25 marzo 2011. A rappresentare l’Italia c’era il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, sostenuto da Lega e Pdl. Il disegno di legge di ratifica del Mes è stato approvato dal Consiglio dei ministri del 3 agosto 2011, presieduto da Silvio Berlusconi, a capo di un Esecutivo appoggiato da Lega e Pdl. E chi c’era, in quel momento, tra i ministri di quel Governo? Ricordiamone alcuni: Roberto Calderoli (Lega), allora ministro per la Semplificazione e oggi vicepresidente del Senato; Umberto Bossi (Lega), allora ministro per le Riforme e oggi senatore; Roberto Maroni (Lega), allora ministro dell’Interno e poi ex Governatore della Regione Lombardia; Giorgia Meloni (FdI), allora ministra per la gioventù, ex esponente del Pdl e oggi leader di Fratelli d’Italia; Ignazio La Russa (FdI), allora ministro della difesa, ex esponente del Pdl e oggi vicepresidente del Senato di Fratelli d’Italia; Raffaele Fitto (FdI), allora ministro per le Regioni, ex esponente del Pdl e oggi europarlamentare di Fratelli d’Italia. Insomma, tutti insieme appassionatamente i sovranisti dei nostri giorni hanno avallato, sostenuto e approvato il Mes. Ma non finisce qui, perché il sostegno al Mes di alcuni di questi personaggi è continuato anche durante il Governo Monti, dal quale oggi quegli stessi politici a parole prendono le distanze. Alla Camera, il 19 luglio del 2012, diversi esponenti di spicco dell’attuale formazione di Fratelli d’Italia votarono a favore dell’istituzione del Mes: tra questi Marco Marsilio (attuale governatore dell’Abruzzo) e Fabio Rampelli, attuale vicepresidente della Camera. Giorgia Meloni in quel frangente era proprio assente, a dimostrazione di quanto interesse avesse a lanciare l’allarme sul Mes. Oggi dice che non partecipò a quel voto perché era in disaccordo: di sicuro non si stracciò le vesti perché di quel suo disaccordo al tempo non se ne accorse nessuno. Tutto questo succedeva nel 2010-2011-2012, quando il MoVimento 5 Stelle non era nemmeno in Parlamento. Perché Salvini, la Meloni e tutti i loro accoliti oggi mentono in modo così spudorato? Paura di questo recente passato che stanno disperatamente provando a cancellare a colpi di menzogne? Consiglio dei Ministri n. 149 del 03/08/2011 3 Agosto 2011 La Presidenza del Consiglio dei Ministri comunica: Il Consiglio dei Ministri si è riunito oggi, alle ore 10,50 a Palazzo Chigi, sotto la presidenza del Presidente, Silvio Berlusconi. Segretario, il Sottosegretario di Stato alla Presidenza, Gianni Letta. Il Consiglio dei Ministri ha definitivamente approvato, (…) su proposta del Ministro degli affari esteri, Frattini: - due disegni di legge per la ratifica e l’esecuzione dei seguenti Atti internazionali:
1. Decisione del Consiglio europeo 2011/199/UE, che modifica l’articolo 136 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea relativamente ad un meccanismo di stabilità (ESM- European Stability Mechanism) nei Paesi la cui moneta è l’euro; obiettivo della Decisione è far sì che tutti gli Stati dell’Eurozona possano istituire, se necessario, un meccanismo che renderà possibile affrontare situazioni di rischio per la stabilità finanziaria dell’intera area dell’euro; (…)
Qual è la storia del Mes e da quanti anni se ne parla. Agi il 12 dicembre 2019. Da quanti anni se ne parla? Abbiamo ricostruito la sua vicenda e come si è arrivati al dibattito di oggi. L’11 dicembre il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha tenuto in Parlamento le comunicazioni in vista del Consiglio europeo del 12 e 13 dicembre. Nel suo intervento (qui il testo integrale), Conte ha parlato della riforma del Mes (il Meccanismo europeo di stabilità, Esm nella sua sigla inglese) – criticata dalle opposizioni, e non solo – difendendo l’operato del suo governo. Ma qual è la storia del Mes? Da quanti anni se ne parla? Abbiamo ricostruito la sua vicenda e come si è arrivati al dibattito di oggi.
La crisi del 2010. "Una nuova crisi economica, nata in casa, ha colpito l’Europa nel 2010, che già allora stava soffrendo l’agitazione finanziaria che era arrivata dagli Stati Uniti a causa della crisi dei mutui subprime del 2008-2009". Esordisce così la sezione del sito ufficiale del Mes dedicata alla sua storia. "I mercati iniziarono a dubitare di alcuni Paesi, chiedendo loro tassi di interesse più alti", spiega il sito del Mes. "Alla fine, l’impensabile iniziò ad accadere nel 2010. Alcuni Paesi iniziarono a perdere l’accesso ai mercati. Avevano bisogno di un aiuto; la Grecia fu la prima a chiederlo. Lo Stato ricevette così prestiti bilaterali dagli altri Paesi dell’Eurozona". È quasi dieci anni fa, dunque, che si poggiano le basi di una delle questioni che sta agitando il dibattito politico italiano delle ultime settimane. "I primi di maggio 2010, sull’onda dell’emergenza determinata dalla crisi del debito sovrano greco, l’Ecofin [il Consiglio europeo di Economia e finanza] delibera la creazione (...) di due strumenti temporanei di assistenza per gli Stati membri della zona euro in condizioni finanziarie critiche: il Meccanismo europeo di stabilizzazione finanziaria (Efsm) e il Fondo europeo di stabilità finanziaria (Efsf)", spiega un dossier del Senato di aprile 2012 sul disegno di legge per la ratifica del Trattato che, nello stesso anno, istituì il Mes e che analizzeremo meglio in seguito. Vediamo prima brevemente che cosa erano questi due meccanismi temporanei, per capire meglio come si è arrivati alla creazione dell’attuale Meccanismo europeo di stabilità.
Gli strumenti temporanei pre-Mes. I due "strumenti transitori di stabilizzazione finanziaria" in questione – così come li chiama il dossier del Senato – sono stati istituiti in una riunione dell’Ecofin del 9-10 maggio 2010 per "preservare la stabilità finanziaria in Europa", spiega il comunicato stampa dell’incontro avvenuto all’epoca a Bruxelles. L’operatività di entrambi era stata pensata per durare tre anni, con risorse complessive pari a un massimo di 500 miliardi di euro. L’Efsm (Meccanismo europeo di stabilizzazione finanziaria) era un fondo europeo con una capacità massima di prestito pari a 60 miliardi di euro, la cui struttura patrimoniale era garantita dal bilancio comunitario dell’Ue. Queste risorse non andavano utilizzate in modo indipendente, ma nell’ambito di un pacchetto di prestiti erogati insieme all’altro strumento transitorio, l’Efsf (Fondo europeo di stabilità finanziaria). Quest’ultimo ha invece una struttura patrimoniale garantita dagli Stati dell’Eurozona e una capacità di prestito pari a 440 miliardi di euro. Entrambi questi strumenti erano nati come temporanei e sono intervenuti per aiutare Paesi come Irlanda, Portogallo e Grecia. Sono stati sostituiti appunto dal Mes, pensato invece come strumento permanente (anche se l’Efsf continua a esistere come entità legale e condivide con il Mes sede e personale).
La nascita del Mes. Inizialmente, come ricostruisce il dossier del Senato, l’idea di creare uno strumento che sostituisse quelli temporanei per gestire la crisi economica dell’Eurozona è arrivata nel Consiglio europeo del 28-29 ottobre 2010. Come si legge nelle conclusioni pubblicate dal Consiglio al termine dell’incontro, l’intenzione era quella di introdurre un meccanismo permanente verso la metà del 2013. "Nel luglio 2011, al termine di una fase di trattativa tra gli Stati aderenti, si giunge ad un accordo", spiega il dossier del Senato. "Un accordo successivo ha riguardato l’anticipazione di un anno l’entrata in vigore del Mes, stabilendo che questi inizierà ad operare dal luglio 2012 (anziché nel 2013)". Il Trattato che ha istituito il Meccanismo europeo di stabilità (il Mes, appunto) è stato firmato il 2 febbraio 2012 dagli allora 17 Stati membri della zona euro (a cui si sono aggiunti poi Lituania e Lettonia), per poi diventare operativo l’8 ottobre 2012. Questa firma era stata però possibile dopo una riforma dei trattati fondamentali dell’Unione europea. Il Consiglio europeo del 24-25 marzo 2011, infatti, era giunto all’accordo di cambiare il Trattato sul funzionamento unico dell’Ue (il Tfue), e in particolare l’articolo 136, a cui era stato aggiunto il seguente paragrafo: "Gli Stati membri la cui moneta è l’euro possono istituire un meccanismo di stabilità da attivare ove indispensabile per salvaguardare la stabilità della zona euro nel suo insieme. La concessione di qualsiasi assistenza finanziaria necessaria nell’ambito del meccanismo sarà soggetta a una rigorosa condizionalità". Come spiega un dossier della Camera dei deputati del 29 novembre 2019, "qui sta l’originalità del Mes il quale, pur avendo la natura di organizzazione intergovernativa, trova comunque la sua base giuridica nel Tfue".
I voti sul Mes. Vediamo che cosa successe in Italia. Il disegno di legge intitolato “Ratifica ed esecuzione del Trattato che istituisce il Meccanismo europeo di stabilità (Mes)” (qui il testo integrale) è stato presentato in Senato il 3 aprile 2012, due mesi dopo la firma del Trattato. Il voto favorevole di Palazzo Madama è arrivato poi il 12 luglio 2012, mentre l’approvazione definitiva è stata data dalla Camera una settimana dopo, il 19 luglio 2012. All’epoca era in carica il governo tecnico di Mario Monti. A Montecitorio, come ha tenuto traccia Openpolis, il via libera alla ratifica è stato dato con 325 voti favorevoli, 53 contrari, 36 astenuti e 214 assenti. Tutti i 168 deputati del Partito democratico presenti votarono a favore, così come 83 parlamentari del Popolo della libertà, 30 dell’Unione di Centro e 14 di Futuro e libertà. La Lega (con Roberto Maroni segretario) fu l’unica a votare contro (51 no), insieme a due voti ribelli all’interno del Pdl (Guido Crosetto e Lino Miserotti). Il giorno della votazione, la futura leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni, all’epoca deputata del Popolo della libertà, era invece assente.
Il dibattito sulla riforma. Le spinte degli ultimi anni per riformare l’Unione europea e alcuni suoi meccanismi hanno interessato, negli ultimi anni, anche il Mes, e questo è il motivo per cui se ne parla di nuovo ora, parecchio tempo dopo la sua istituzione. Il 6 dicembre 2017 – cinque anni dopo l’istituzione del Mes – la Commissione europea ha presentato una proposta di regolamento per trasformare il Mes in un Fondo monetario europeo (Fme). L’idea, spiega il dossier della Camera, rientrava "nell’ambito di un pacchetto di misure volto a riformare l'Unione economica e monetaria", ma è stata poi accantonata. Il Consiglio europeo del 13-14 dicembre 2018 ha deciso invece di dare il mandato all’Eurogruppo (un organo informale in cui si riuniscono i ministri degli Stati membri della zona euro) per trovare un accordo di riforma del Trattato sul Mes. L’intesa è stata raggiunta circa sei mesi dopo, il 14 giugno 2019: il giorno dopo il quale il presidente dell’Eurogruppo Mario Centeno – e ministro delle Finanze del Portogallo – ha mandato una lettera al presidente del Consiglio europeo Donald Tusk, con i principali contenuti della riforma. Una settimana dopo – il 21 giugno – si è incontrato poi il Vertice euro (che riunisce i capi di Stato o di governo dei Paesi della zona euro per fornire orientamenti strategici sulla politica economica della zona euro) che ha chiesto all’Eurogruppo di proseguire i lavori per trovare a dicembre 2019 un accordo definitivo e complessivo sulla riforma del Mes. Dopo le critiche nate in Italia nelle ultime settimane (analizzate nel dettaglio in un nostro fact-checking del 21 novembre scorso), l’Eurogruppo ha deciso di rinviare questa scadenza a gennaio 2020.
Conclusione. Il Mes è nato ufficialmente nel 2012, ma già a fine ottobre 2010 si erano mossi i primi passi in sede europea per creare un meccanismo stabile di sostegno ai Paesi in crisi, che sostituisse due strumenti temporanei avviati per affrontare le difficoltà finanziarie di inizio 2010.
Mario Monti sul Mes: “Fu preparato con al governo Berlusconi e Lega”. Notizie.it il 12 aprile 2020. L'ex premier Mario Monti ha affermato che quando il Mes venne deciso nelle sedi europee in Italia era al governo il centrodestra di Lega e Berlusconi. Anche Mario Monti entra nel bel mezzo della polemica politica di questi giorni sull’origine del Mes, dopo che il presidente del Consiglio Conte ha fatto risalire all’ultimo governo di centrodestra la responsabilità politica della sua approvazione. L’ex premier dal 2011 al 2013 ha infatti sostanzialmente confermato le parole di Conte, precisando tuttavia di aver rifiutato egli stesso l’attivazione del Mes per l’Italia quando venne chiamato all’epoca alla guida dell’esecutivo. In un editoriale scritto per il Corriere della Sera, Mario Monti precisa che il Mes venne deciso quando in Italia era insediato il quarto governo Berlusconi: “Il richiamo ai fatti dovrebbe indurre a maggiore lucidità. Il Mes rappresenta l’evoluzione del Fondo europeo per la stabilità finanziaria (Fesf). Il Fesf prima e il Mes poi sono stati preparati e decisi a livello europeo nel 2010-2011 con l’Italia rappresentata da Silvio Berlusconi nel Consiglio europeo e da Giulio Tremonti nell’Ecofin ed Eurogruppo”. Tuttavia, lo stesso Monti in seguito aggiunge come egli stesso volle evitare l’attivazione del Mes per l’Italia, memore da quanto accaduto in Grecia poco tempo prima con la calata della Troika a seguito della crisi economica che investi il paese ellenico: “L’umiliante esperienza fatta dalla Grecia con la troika, creata con il Fesf, fu tra le ragioni che mi indussero ad escludere la richiesta di aiuti, che avrebbe comportato la calata della troika su Roma, e a chiedere al Parlamento di approvare una dura manovra”. Proprio in riferimento a ciò, l’ex premier auspica che Giuseppe Conte non si avvalga dello strumento del Mes, rischiando di prendersi poi la colpa per un meccanismo economico la cui approvazione va fatta risalire a chi in questi giorni lo sta attaccando: “Non sarò certo io, perciò, a raccomandare a Conte di andare sotto le forche caudine di meccanismi preparati in Europa da un governo Berlusconi-Lega, che poi passò ad altri l’onere di evitare il default dell’Italia”.
Dagospia il 22 aprile 2020.Da rtl.it il 22 aprile 2020. L’ex Ministro delle Finanze e attuale Presidente di Aspen Italia è intervenuto su RTL 102.5 in diretta durante Non Stop News, il programma condotto da Pierluigi Diaco, Fulvio Giuliani e Giusi Legrenzi. Le scelte fatte dal Governo secondo Lei vanno in una direzione giusta oppure sono vane e non daranno risultati immediati soprattutto di liquidità alle piccole medie imprese italiane?
“Penso che sia stato giusto dare i 600 euro alle famiglie, ma credo che sia stato sbagliato dare liquidità alle imprese passando dalle banche. All’estero non hanno fatto così, hanno dato direttamente liquidità a fondo perduto, passare dalle banche è una scelta lenta e per niente felice”.
Ci fa sapere il suo punto di vista su tutta questa liquidità, con le criticità che può avere e se le scelte del Governo, rispetto a quelle dell’Europa sono corrette, possono portare a risultati veloci…
“Ci sono cinque strumenti utilizzabili: il primo sono i cosiddetti SURE, la cassa integrazione europea, sono quattro soldi e comunque sono soldi che noi abbiamo dato all’Europa; poi c’e la BEI anche qui sono pochi soldi, meglio di niente, ma comunque stiamo parlando di prestiti, quindi di debito italiano; poi c’è il cosiddetto MES, quello che dovrebbe venire da noi con 30 miliardi di prestiti per la sanità, è molto complicato come meccanismo e anche qui stiamo parlando comunque di debito, non sono soldi regalati.
Poi c’è il piano dei BOND e forse quella è la cosa più importante, io spero che passino, e ci sono due tipi di EUROBOND, titoli che tu metti sul mercato, prendi i soldi e li dai agli stati per fare degli investimenti, oppure vai sul mercato a debito e poi li ripresti agli stati, quindi un debito europeo che però serve per finanziare un debito nazionale, questa è la via meno buona perché sempre stiamo parlando di debito su debito, anche se come si dice, piuttosto che niente, meglio piuttosto”.
La Banca Centrale Europea, come si dovrebbe comportare nei mesi a venire?
“La situazione attuale è questa: il petrolio è crollato e l’unità di conto della finanza è passata dal miliardo al trilione, ecco io penso che l’errore, la follia che viene dalla globalizzazione c’è di nuovo, è passato dal virus in Cina, ritorna. Noi abbiamo numeri che non sono numeri, siamo usciti dalla realtà, è tutta un’illusione. Quando è arrivata la notizia che la BCE compra junk bond, è una buona o una brutta notizia, ovviamente brutta”.
Giulio Tremonti su Facebook il 22 aprile 2020: Con una colonnina apparsa sul Corriere della sera del 21 aprile, il professor Monti torna di nuovo su quella che in precedente articolo (“Noi e l’Unione Europea: un altro passo avanti” del 11 aprile) sempre sul Corriere lui ha chiamato “lettera Trichet-Draghi” del 5 agosto 2011. Per mio conto, sempre sul Corriere (19 aprile), avevo rilevato un inquietante retroscena della lettera Trichet-Draghi, retroscena svelato dal Monti. Forse è bene essere chiari distinguendo tra scena e retroscena.
La scena: il contenuto della lettera (anticipo dal 2014 al 2013 del “pareggio di bilancio”, ecc.) era già stato reso noto al pubblico nell’agosto 2011... per la verità, ricordo di aver dato io stesso il testo di quella lettera-diktat e proprio al Corriere!
Chiarita la scena (il contenuto della lettera fu subito pubblico) passiamo al retroscena, che forse inconsciamente e/o senza accorgersene il Monti ci ha rivelato proprio con queste sue parole: l’imposizione di “condizioni draconiane imposte da Trichet e Draghi nella lettera del 5 agosto… per non perdere il sostegno della Bce ai titoli italiani… per non andare sotto le forche caudine di meccanismi preparati in Europa…”. Quel che viene fuori di inquietante, allucinante, da questo retroscena è la minaccia-ricatto fatta da due banche centrali al Governo di uno stato membro dell’Unione Europea per forzarlo ad eseguire prescritte azioni di politica economica, scritte sull’asse Francoforte-Roma. In alternativa, il default della Repubblica italiana! I principi europei prevedono l’indipendenza della Bce, ma anche le sovranità nazionali! Per avere una prova dell’arbitrarietà della lettera del 5 agosto, basta andare indietro di pochi giorni riscontrando quanto scritto da Governatore Draghi il 31 maggio nelle sue ‘Considerazioni Finali’: “La gestione del pubblico bilancio è stata prudente... le correzioni necessarie in Italia sono inferiori a quelle necessarie negli altri Paesi dell’Unione europea…”! Sostenere la legittimità di quella minaccia e di quelle imposizioni, e scambiare queste come “accettazione”, era allora - ed è ancora oggi - semplicemente inqualificabile. Per avere un’idea del clima “democratico” creato in Europa per arrivare a “salvare l’Italia” con il governo Monti, può forse essere utile leggere le memorie scritte dal presidente Zapatero nel suo libro ‘Il dilemma’! Il fatto che la verità sia stata incautamente svelata l’altro giorno dal Monti nulla toglie al carattere torbido delle gesta che nel novembre 2011 hanno infine portato alla “chiamata dello straniero”!
Mario Monti su Facebook 21 aprile alle ore 11:56: ERRARE E' UMANO, PERSEVERARE E' DIABOLICO. Mia lettera al "Corriere della Sera", 21 aprile 2020.
In una lettera pubblicata nel "Corriere della Sera" di ieri Giulio Tremonti, sullo spunto di un mio articolo sul "Corriere" dell'11 aprile, insiste su una propria ricostruzione della nascita del Mes (Meccanismo europeo di stabilità) profusa ai media nei giorni scorsi. Non è necessario rispondergli. Quella ricostruzione è già stata oggetto di attenti riscontri su fatti e documenti, effettuati da Luciano Capone sul Foglio del 13 aprile e dal sito di fact-checking "Pagella Politica" il 14 e 15 aprile, che hanno constatato la sua infondatezza. (Vedi il post del 18 aprile in questa pagina). Ma la lettera di Tremonti contiene un altro punto. A differenza di quelli sul Mes, è un punto nuovo. Come quelli, però, è falso. Ha scritto l’ex ministro: «Proprio dato l’inquietante retroscena della “lettera Trichet-Draghi”, retroscena svelato nell’articolo, non credo si possa dire che l’anticipo del pareggio di bilancio dal 2014 al 2013 (…) sia stato ‘accettato’ dal governo italiano. E’ stato imposto». Nell’articolo citato ricordavo che «la lettera Trichet-Draghi, accettata da Berlusconi, chiedeva al nostro Paese di raggiungere il pareggio strutturale del bilancio non nel 2014, traguardo fissato per tutti i Paesi dell’eurozona bensì, solo per noi, già nel 2013». Secondo Tremonti, avrei così «svelato un inquietante retroscena». Non vedo quale «retroscena» io abbia «svelato». Di quella lettera si cominciò a parlare poco dopo la data in cui venne scritta, il 5 agosto 2011. Il testo integrale venne rivelato dal "Corriere" il 29 settembre 2011. Secondo Tremonti, l’anticipo del pareggio, raccomandato da Trichet e Draghi, non è stato «accettato dal governo italiano. E’ stato imposto». Ricordo ancora la drammatica conferenza stampa tenuta dal presidente Berlusconi, dal ministro Tremonti e dal sottosegretario Letta la sera del 5 agosto 2011. Il "Corriere" dell’indomani, come tutta la stampa italiana e internazionale, riferiva della conferenza stampa e intitolava «Berlusconi e Tremonti: Pareggio di bilancio anticipato al 2013, il vincolo dell’equilibrio dei conti nella Costituzione». E’ ancora facilmente reperibile il video.
Al Parlamento Europeo Lega e Forza Italia votano contro i coronabond. Ma Pd e M5s si dividono sul Mes. Un emendamento dei Verdi chiedeva la creazione degli eurobond per condividere il debito futuro degli Stati membri. Bonelli: "I sovranisti e falsi patrioti hanno votato assieme ai nemici dell'Italia". Il M5s vota contro l'istituzione del Recovery Fund. E annuncia astensione sul voto finale su risoluzione Ue. La Lega: "Noi mai favorevoli ai coronabond, Bce unica soluzione". Monica Rubino il 17 aprile 2020 su la Repubblica. In patria attaccano il governo sul Mes. Salvo poi votare contro i coronabond al Parlamento europeo, allineandosi alle forze sovraniste. Le delegazioni della Lega e di Forza Italia all'Europarlamento, infatti, hanno votato ieri contro un emendamento presentato dal gruppo dei Verdi a una risoluzione sulla risposta dell'Ue alla pandemia del coronavirus, che chiedeva la creazione dei coronabond per condividere il debito futuro degli Stati membri. Ma all'Europarlamento è caos: Pd e M5s oggi si dividono sul voto in plenaria a favore dell'attivazione del Mes riformato. Il Pd ha votato a favore del paragrafo 23 che invita i Paesi dell'eurozona ad attivare il Mes, mentre il M5s si è espresso contro. Contrarie anche Lega e Fratelli d'Italia. Hanno votato a favore Italia Viva e Forza Italia. Il paragrafo è passato con 523 sì, 145 contrari e 17 astensioni. Il M5s ha poi annunciato astensione sul voto finale sulla risoluzione del Parlamento Ue per superare la crisi Covid-19, in quanto "presenta tante luci ma anche troppe ombre - si legge in una nota della delegazione cinquestelle - Ci saremmo aspettati un chiaro e forte riferimento ai Coronabond grazie ai quali l'Ue potrebbe finanziare la ripartenza economica una volta superata l'emergenza, ma per colpa dell'irresponsabilità di Lega e Fi l'emendamento che li inseriva nel testo è stato rigettato", precisa la nota. "Registriamo l'impegno a trovare strumenti nuovi per superare la crisi e ribadiamo la nostra contrarietà.
Il voto contrario di Lega e Forza Italia. Basta andare a leggere la lista dei voti nominali del Parlamento Europeo per trovare i nomi degli europarlamentari leghisti e azzurri che hanno votato contro. Per la Lega si contano i voti di Matteo Adinolfi, Simona Baldassarre, Alessandra Basso, Mara Bizzotto, Anna Bonfrisco, Paolo Borchia, Marco Campomenosi, Andrea Caroppo, Massimo Casanova, Susanna Ceccardi, Angelo Ciocca, Rosanna Conte, Gianantonio Da Re, Francesca Donato, Marco Dreosto, Gianna Gancia, Valentino Grant, Danilo Oscar Lancini, Elena Lizzi, Alessandro Panza, Luisa Regimenti, Antonio Maria Rinaldi, Silvia Sardone, Vincenzo Sofo, Annalisa Tardino, Isabella Tovaglieri, Lucia Vuolo, Stefania Zambelli e Marco Zanni, tutti facenti parte del gruppo Identità e democrazia (Id), fondato da Matteo Salvini e Marine Le Pen. Per Forza Italia hanno votato contro Silvio Berlusconi, che nel dibattito italiano ha anche aperto sul Mes riformato ribadendo però l'importanza dei coronabond, Salvatore De Meo, Fulvio Martusciello, Giuseppe Milazzo, Aldo Patriciello, Massimiliano Salini e il vicepreseidente del partito Antonio Tajani.
Fdi vota a favore assieme a M5s e Pd. Viceversa gli eurodeputati di Fratelli d'Italia hanno mostrato più coerenza, votando a favore dell'emendamento dei Verdi. Sergio Berlato, Carlo Fidanza, Pietro Fiocchi, Raffaele Fitto, Nicola Procaccini e Raffaele Stancanelli hanno infatti espresso un sì. Le delegazioni del Movimento 5 Stelle e del Partito democratico hanno votato a favore, mentre quella di Italia Viva si è astenuta. Il testo dell'emendamento dei Verdi prevedeva di condividere a livello Ue una quota consistente del debito che sarà emesso dagli Stati membri. "Per preservare la coesione dell'Ue e l'integrità della sua unione monetaria, una quota sostanziale del debito che sarà emesso per combattere le conseguenze della crisi del Covid-19 dovrà essere mutualizzato a livello Ue", diceva il testo. La mozione è sata bocciata con 326 voti contro, 282 a favore e 74 astenuti. Con il voto positivo di Lega e FI sarebbe invece passata.
Il M5s attacca la Lega ma vota contro il Recovery Fund. "L'ennesimo tradimento ai danni dell'Italia da parte della Lega Nord e Forza Italia è servito: in aula, al Parlamento Europeo, hanno votato contro gli Eurobond", tuona Fabio Massimo Castaldo, europarlamentare cinquestelle e vicepresidente del Parlamento europeo. Tuttavia il M5s ha votato contro il paragrafo della risoluzione sulla risposta dell'Ue alla crisi del Coronavirus che chiedeva la creazione del Recovery Fund all'interno del bilancio comunitario, ovvero il fondo comune dell'UE che dovrebbe finanziare la ripresa economica dell'Europa e quindi anche dell'Italia. Il testo del paragrafo 17 della risoluzione, che è comunque stato approvato a larga maggioranza, chiede alla Commissione "un pacchetto massiccio per la ripresa e la ricostruzione di investimenti per sostenere l'economia europea dopo la crisi, aldilà di ciò che il Mes, la Bei e la Bce stanno già facendo".
Bonelli (Verdi): "Falsi patrioti si alleano con i nemici dell'Italia". "Ieri nel parlamento europeo è andata in scena la fiera dell'assurdo che ha danneggiato e sbeffeggiato l'Italia- è il commento di Angelo Bonelli, coordinatore nazionale di Verdi - La Lega di Salvini ha votato insieme a quelle forze sovraniste e di destra che attaccano sistematicamente il nostro Paese. I campioni salviniani di patriottismo, da Rinaldi alla Donato, la parlamentare che ha fracassato le orecchie di tanti perché si è messa a fare un corteo a suon di clacson con la sua auto per protestare contro l'Europa, hanno votato sostenendo le posizioni del governo olandese e dei sovranisti, ovvero niente coronabond e niente mutualizzazione del debito causato dalla crisi da coronavirus: questi sono falsi patrioti che in Italia fingono di difendere il nostro Paese ma fuori confine si alleano con i nemici dell'Italia". "C'è un'altra incredibile e assurda votazione che dobbiamo denunciare - continua l'esponente dei Verdi- che riguarda la forza politica più importante della maggioranza di governo del nostro paese, il M5S che ha votato contro l'introduzione del "Recovery Fund". Bonelli conclude con una domanda, rivolta all'ex capo politico cinquestelle Luigi Di Maio e al premier Giuseppe Conte: "Se la posizione del M5S e del governo è quella del no anche al "Recovery Fund" proposto dalla Francia e dopo aver detto di no anche al Mes senza condizioni per finanziare la sanità, come pensate di sostenere finanziariamente la ripresa economica del nostro Paese?".
La Lega: "Noi mai favorevoli ai coronabond". La replica della Lega, però, non tarda ad arrivare. Affidata a Zanni, presidente gruppo Id, e Campomenosi, capo delegazione della Lega al Parlamento Europeo, si traduce in un attacco al M5s e al governo: "Ancora una volta, vergognosa strumentalizzazione dal M5s che, per distogliere l'attenzione dalle disastrose scelte del governo Conte in Italia e in Europa, se la prende con la Lega- dicono i due europarlamentari leghisti -. L'accusa sarebbe quella di aver votato contro l'emendamento dei Verdi al Parlamento Ue sugli eurobond: rivendichiamo che noi, a differenza del M5s e di Conte che cambiano ogni settimana idea sull'argomento, non siamo mai stati a favore dello strumento coronabond, che corrisponderebbe alla totale cessione di sovranità all'Ue". E aggiungono: "Anzi, indichiamo sin dal principio la proposta piuù semplice, ovvero un ruolo più attivo da vero prestatore di ultima istanza della Bce per comprare Btp. Una proposta che M5s e Pd non hanno mai voluto discutere. Inoltre il sottosegretario Di Stefano (che ieri ha attaccato Salvini sulle critiche al Mes, ndr) e Castaldo spieghino agli italiani perché loro, dopo che Conte è andato in Europa a chiedere Qfp più ampio e Recovery fund, ieri hanno votato contro". "I leghisti occupano tutte le tv con le loro chiacchiere. Poi in Parlamento europeo votano contro i coronabond insieme ai loro amici olandesi e ungheresi", replica secco Nicola Fratoianni di Leu.
Pd e M5s divisi sul Mes. Come accennato Il Parlamento europeo ha approvato a larga maggioranza un paragrafo della risoluzione sulla risposta Ue al Coronavirus in cui chiede di "attivare" il Mes per far fronte alla crisi economica. Le delegazioni della Lega, del Movimento 5 Stelle e di Fratelli d'Italia hanno votato contro, mentre quelle del Partito Democratico e di Italia Viva si sono espresse a favore. Nel paragrafo relativo al Mes, il Parlamento europeo "invita gli Stati membri della zona euro ad attivare i 410 miliardi di euro del Meccanismo europeo di stabilità con una linea di credito specifica", ricordando che questa crisi non è responsabilità di un determinato Stato membro e che l'obiettivo principale dovrebbe essere quello di combattere le conseguenze della pandemia. Preoccupato che la spaccatura della maggioranza possa indebolire la posizione dell'Italia nell'imminente Consiglio europeo è il segretario di Più Europa Benedetto Della Vedova: "Al Parlamento europeo la maggioranza di Conte si è spaccata sul Mes - spiega a Coffee break su La7- si è ricompattato il fronte nazional/populista: M5S, Lega e Fratelli d'Italia hanno votato contro; PD, IV e anche FI a favore. Così il governo arriva al Consiglio europeo senza una maggioranza e debolissimo''. "Pentastellati volubili, del resto è un partito fondato da un comico", commenta sarcastico l'indipendente di Iv Giacomo Portas. "Sul Mes il Pd e il Movimento5Stelle hanno votano divisi al Parlamento europeo. Davvero un bel modo per rafforzare Conte e Gualtieri nella trattativa", twitta Deborah Bergamini, deputata di Forza Italia.
La mossa di Berlusconi spiazza il centrodestra e crea un nuovo fronte. Dalla sinistra moderata plauso per l'apertura al Mes. Enrico Letta: posizione responsabile. Anna Maria Greco, Giovedì 16/04/2020 su Il Giornale. «Sul Mes la posizione mia e di Forza Italia è sempre stata questa: va bene se è senza condizioni, quindi oggi sarebbe assurdo non prendere quei soldi. Mi stupisco di chi si stupisce, soprattutto tra i nostri alleati». Silvio Berlusconi ha fatto ancora una volta una scelta europeista e ha voluto che fosse molto netta, convinto che la situazione di emergenza da coronavirus lo pretendesse, anche a costo di pestare i piedi agli amici sovranisti. Poteva tacere, dare per scontato, far parlare altri, ma per lui la coerenza conta di più dell'appartenenza ad una coalizione in cui, su questo punto, si trova isolato. Agli attacchi di Matteo Salvini e Giorgia Meloni che lo accomunano a Romano Prodi non risponde, anzi rivendica la paternità del Fondo Salva Stati ai tempi del suo ultimo governo, pur precisando che lo voleva insieme agli eurobond e che poi il governo Monti lo modificò. È la «verità storica», taglia corto. E si prepara, oggi e domani, a votare da remoto, come eurodeputato, le misure antiCovid19 di Bruxelles. Il capo di Fi segue con interesse la clamorosa spaccatura nella maggioranza, l'allontanamento del Pd e di Italia viva dal premier e dal M5S, sapendo di entrare in un gioco che può mettere in crisi il Conte 2. Lo fa dall'opposizione ma anche con la preoccupazione di chi vede l'indebolimento più che del governo dell'Italia stessa, in una difficile trattativa europea. Con Antonio Tajani, vicepresidente azzurro e del Ppe oltre che ex presidente del parlamento europeo, il Cavaliere è costantemente in contatto con i leader popolari europei e ha deciso che sulla questione non può smorzare i toni, anche per condividere la posizione di Confindustria e di tanti imprenditori di cui rappresenta da sempre un punto di riferimento. «D'altronde - spiega Tajani - quello del Mes non è un problema che riguarda l'unità del centrodestra, altre volte siamo stati su posizioni diverse, come sul copyright, quando da soli difendevamo il diritto d'autore dai colossi del web. La nostra anche stavolta è una posizione pragmatica: abbiamo messo nel Mes 14 miliardi e ora possiamo averne 36-37 in modo più vantaggioso che sul mercato, perché rinunciarvi quando sono molto utili agli italiani e l'alternativa potrebbe essere la patrimoniale? Le uniche condizioni che ci impongono sono di utilizzare non più del 2 per cento del Pil e solo per interventi di sanità. Certo, il Mes non basta, fa parte di una strategia più complessa, insieme al Sure, ai fondi di Bei e Bce, al Recovery fund. Tutti segnali che l'Europa si sta muovendo, anche se in ritardo, e che senza non si va da nessuna parte». La lettera di Berlusconi sul Giornale a favore del Mes riscuote applausi imprevisti e un po' spiazzati tra le fila di ex democristiani di sinistra e di destra. Come lo «chapeau!» dell'ex premier Enrico Letta, che scrive sui social: «Non mi sarei mai aspettato di ritwittare, e in un colpo solo, Il Giornale, Berlusconi e Forza Italia. È che il coraggio della posizione di oggi lo merita». Per Pierferdinando Casini, Salvini e Meloni sbagliano, mentre Berlusconi «sta mostrando senso di responsabilità», perché non si può «dipingere il Mes come Belzebù facendo finta di non vedere che sono state tolte le condizionalità». Apprezzano la posizione del Cav Clemente Mastella, Fabrizio Cicchitto e il segretario Udc Lorenzo Cesa: «È insensato non utilizzare una nuova linea di credito senza condizioni». Guido Bodrato concorda, guardando al Colle: «Nell'emergenza maggioranza e opposizione debbono convergere. È l'anima della democrazia e della Costituzione, come ha ribadito Mattarella». E Pierluigi Castagnetti, vicino al capo dello Stato, dedica un «pensierino» a Conte, Salvini e Meloni: «Il futuro sarà governato da leader capaci di costruire e dare senso alla solidarietà, piuttosto che da quelli che danno voce agli egoismi nell'emergenza».
Storia di come Lega e Forza Italia abbiano votato contro gli eurobond. Enzo Boldi il 17/04/2020 su Giornalettismo. A sorpresa, ma neanche troppo, è stato bocciato l'emendamento presentato dai Verdi. La Lega vota contro eurobond, insieme a Forza Italia. A favore, invece, FdI. Salvini continua a parlare di buoni del tesoro italiani che devono essere garantiti dalla BCE. Ricordiamo la primavera del 2019, quando Matteo Salvini aveva iniziato a dare i primi segni di intolleranza nei confronti del Movimento 5 Stelle sottolineando come fosse impossibile governare insieme a chi sa dire solo no. Poi la storia ha raccontato quella frattura di inizio agosto e la fine dell’esperienza condivisa. Ora, però, il Carroccio si è intestata il ruolo di guastafeste e di ‘signor no’. La Lega vota contro eurobond al Parlamento europeo, insieme a Forza Italia. A favore, invece, Fratelli d’Italia, Pd e Movimento 5 Stelle. Italia Viva si è astenuta. Il risultato è stata la bocciatura dell’emendamento presentato dai Verdi all’Europarlamento: 326 voti contrari, 282 a favore e 74 astenuti. Ma di cosa parlava il testo respinto? «Per preservare la coesione dell’Ue e l’integrità della sua unione monetaria, una quota sostanziale del debito che sarà emesso per combattere le conseguenze della crisi del Covid-19 dovrà essere mutualizzato a livello Ue». In sintesi: i famosi eurobond (o coronabond) per gestire l’emergenza sanitaria. L’esito della votazione è riportato nel documento pubblicato sul Parlamento Europeo. La Lega vota contro eurobond al Parlamento europeo, così come fatto dalla pattuglia di Forza Italia all’interno del PPE. A favore, invece, Fratelli d’Italia. Una bella discrasia che fa i conti con i proclami rilanciati già ieri dallo stesso Matteo Salvini che ha parlato di emissione di buoni del tesoro denominati «Orgoglio Italia»: «Si emettano invece Buoni del Tesoro di #OrgoglioItaliano , esentasse, a lunga scadenza e garantiti dalla BCE, per finanziare la ricostruzione. La Lega non permetterà che si usi l’emergenza Virus per svendere l’Italia ad interessi stranieri». Insomma, il sovranismo in salsa verde. L’Europa, seppur con ritardo, si sta muovendo, ma c’è chi in Italia grida ‘al lupo, al lupo’, per poi votare contro.
Lo strano fronte anti-Coronabond: dagli alleati di Berlusconi a quelli di Salvini, Pd e M5s. Ad allinearsi con il "nein" della Merkel, sono stati il Governo finlandese della socialista Sanna Marin e quello olandese del liberale Mark Rutte. Ma anche l’esecutivo austriaco, sostenuto da popolari e verdi. Redazione Bruxelles di europa.today.it il 27 marzo 2020 19:19. Alleanze politiche sballate all’indomani del vertice dei leader Ue nel quale il premier italiano, Giuseppe Conte, spalleggiato dallo spagnolo Pedro Sanchez, hanno costretto gli omologhi europei a trovare la quadra fino a notte tarda sulla road map economica di contrasto al coronavirus. Mentre i Paesi mediterranei ormai non fanno mistero di tifare per gli eurobond, o 'coronabond', ovvero per i titoli comuni che garantiscano per il debito di tutti i Paesi Ue, a frenare sono stati soprattutto i nordici frugali, innervositi dalla prospettiva di dover farsi carico delle passività altrui.
Il sostegno dei verdi al Governo di Kurz. Nel mix di Governi di ogni colore che bocciano la prospettiva ‘solidale’ degli eurobond si trovano esponenti di un po’ tutte le famiglie europee. Partendo dalla più numerosa, quella dei popolari, di cui fa parte Forza Italia, troviamo i due cancellieri: la tedesca Angela Merkel, sostenuta da una maggioranza di cristiano-democratici e socialisti, e l’austriaco Sebastian Kurz, retto a sua volta da una strana alleanza tra popolari e verdi. Verdi che potrebbero essere i futuri alleati del Movimento 5 stelle, o almeno è questa la speranza degli eurodeputati M5s. Tornando alla Germania, poi, va aggiunto che nel partito di Merkel ci sono timorti che un eventuale cedimento sugli eurobond possa portare a una perdita di consensi verso l'AfD, il partito di ultradestra alleato della Lega di Matteo Savini in Europa. E tra i più strenui difensori dell'austerity (come del resto buona parte degli alleati di Fratelli d'Italia nel gruppo europeo dei conservatori).
Il liberale Rutte e la socialista Marin. Ad allinearsi con il nein della Merkel agli eurobond, sono stati anche i Paesi Bassi e la Finlandia. L’esecutivo olandese è nelle mani di Mark Rutte, liberale e quindi parte della famiglia europea di Renew Europe, cui hanno aderito i renziani. Interessante anche il caso del Governo di Helsinki, capitanato dalla socialista 34enne Sanna Marin, vista da molti come astro nascente del progressismo europeo e alleata all'Eurocamera del Pd.
La diffidenza nordica e i bilanci in passivo. Al netto delle appartenenze politiche, hanno quindi prevalso le ragioni economiche. I Paesi del Nord Europa, assieme all’Austria, non si fidano del modo di gestire i conti pubblici dei mediterranei. Da qui il nulla di fatto su ogni idea di mettere in comune debiti e risorse tra Stati in eterna lotta col deficit e Paesi che vantano bilanci in ordine.
Salvini dice “prima gli italiani” ma poi va contro affondando i coronabond. Redazione de Il Riformista il 18 Aprile 2020. L’introduzione di Recovery Bond garantiti dal bilancio Ue, l’esortazione agli Stati membri all’uso del Mes, no ai coronabond. Sono i punti salienti della risoluzione adottata dal Parlamento europeo sull’azione coordinata dell’Ue per lottare contro la pandemia di Covid19 e le sue conseguenze. Il testo è passato con 395 sì, 171 contrari e 128 astenuti. Una volta ottenuto l’ultimo via libera da parte del Consiglio Ue, le misure potranno essere pubblicate in Gazzetta ufficiale ed entrare in vigore. Ma impazza la polemica politica. Il M5s infatti ieri ha votato all’Eurocamera diviso sulla risoluzione: 10 si sono astenuti, mentre tre – Ignazio Corrao, Piernicola Pedicini e Rosa D’Amato – hanno votato contro. L’eurodeputata pentastellata Eleonara Evi non ha invece preso parte al voto. I grillini contrari erano però ieri in buona compagnia della Lega. «Con il voto di oggi il Parlamento Europeo aiuta l’Italia, la sua economia, le imprese, il lavoro – ha scritto su Twitter il segretario del Pd Nicola Zingaretti -. La destra italiana no. Da ricordare #eurobond”». L’emendamento dei Verdi sulla condivisione del debito alla risoluzione comune di Ppe, S&D, Renew Europe e Verdi, è stato respinto ieri con 326 voti contrari, 282 sì e 74 astensioni. Favorevoli Pd, M5s e FdI, contrari la Lega e FI, mentre Italia Viva si è astenuta. «L’ennesimo tradimento ai danni dell’Italia da parte della Lega e di Forza Italia è servito: in aula, al Parlamento Ue, hanno votato contro gli eurobond», scrive in una nota l’europarlamentare M5s e vicepresidente del Parlamento Ue, Fabio Massimo Castaldo. «Lasciamo ai politicanti il gioco sugli emendamenti irrealizzabili», scrive su Twitter il vicepresidente di Forza Italia, Antonio Tajani. «Eurobond significa eurotasse, rinunciare alla sovranità fiscale, consegnare le chiavi di casa a Germania e Troika», si giustificano in una nota congiunta il presidente di Identità e democrazia (Id), Marco Zanni, e il capo delegazione della Lega al Parlamento Ue, Marco Campomenosi.
Claudio Paudice per huffingtonpost.it il 13 maggio 2020. “Lei lo sa come mi chiamava il Berlusconi? Mi chiamava Tagliarini”. Giancarlo Pagliarini, anche detto “Paglia”, leghista della prima ora ma non dell’ultima, storico dirigente del Carroccio di Umberto Bossi, ministro del Bilancio nel governo Berlusconi del 1994, la dice alla sua maniera: “Io sono a favore del Mes per lo stesso motivo per cui Salvini è contrario”. E se domani arriva la Troika? “Io vorrei fosse venuta ieri”. C’è il rischio di condizionalità, di vincoli esterni. “Bene: più condizionalità ci sono, più sono a favore”. Milanese, classe 1942, vivacità travolgente, si fa fatica a stargli dietro, a volte parla di sé in terza persona. “Guardi”, racconta all’HuffPost, “per fare certe cose non ci sarebbe nemmeno bisogno della Troika, basterebbe il Paglia. Una volta, quando ero ministro, ci fu una riunione fiume sulla finanziaria dalle 19 di sera alle 6 del mattino. Dissi: c’è questa società pubblica incaricata di studiare la fattibilità del Ponte di Messina, tagliamola, e quando progetteremo di fare il Ponte, studieremo come farlo. Un ministro si buttò letteralmente per terra, disse che grazie a quella società campavano dieci famiglie, Berlusconi lasciò tutto com’era. Fosse dipeso da me, l’avrei chiusa subito. Altro che Troika”.
Uno storico dirigente della Lega a favore del Mes. Singolare, non trova?
«Trovo incomprensibile che si possa essere contrari».
Perché?
«Se lei vede la nostra spesa per interessi passivi sul debito pubblico lo capisce subito. Noi dal 1980 al 2018 abbiamo speso in media 177 milioni al giorno in interessi. Quante cose avremmo potuto fare con tutti quei soldi?
Tante cose.
«Per questo serve il Mes. Conviene».
Ha un tasso di interesse favorevole ma presenta molti rischi.
«Appunto, un tasso dello 0,1% e per me il tasso di interesse è il metro di giudizio per tutto. Quando Salvini attaccava l’Europa e lo spread saliva, io andavo a calcolare quanto ci costava in più in termini di tasso sul debito. Lei lo sa quanto ci ha fatto risparmiare il taglio dei vitalizi voluto dai 5 Stelle?»
Quanto?
«Otto ore di interessi passivi sul debito pubblico».
Ok, ma il Mes presenta diversi rischi. Il primo: le condizionalità non ci sono oggi ma potrebbero esserci in futuro.
«Più condizionalità ci sono, più sono a favore».
Addirittura. A favore della Troika, quindi?
«Magari venisse la Troika. E magari l’avessimo avuta ai tempi di Paolo Cirino Pomicino. Non avremmo avuto un esercito di dipendenti pubblici in pensione dopo una manciata d’anni di servizio».
Adesso però certe storture non ci sono più.
«Il debito però sì».
Appunto, c’è il rischio che il Mes richieda una valutazione di sostenibilità del debito, una procedura che apre le porte alla ristrutturazione. Non è preoccupato?
«Guardi, il nostro debito è sostenibile. Se lei guarda la ricchezza degli italiani, escludendo anche le abitazioni, vedrebbe che ammonta a più di 5mila miliardi. Il debito pubblico è coperto dalla nostra ricchezza privata. Basterebbe una patrimoniale».
Poi però si rischia l’insurrezione.
«Appunto. Si metta nei panni di chi ci guarda: con una spesa per interessi così alta, rifiutiamo un prestito al tasso di favore del Mes. Da fuori ci prendono per pazzi. Perciò dobbiamo accettarlo».
Torniamo ai rischi legati al Mes. C’è lo stigma finanziario, nel caso fossimo gli unici ad attivarlo. E c’è il fatto che il Mes è un creditore privilegiato: la seniority del credito, dice la Lega, avrebbe un impatto sulla valutazione del debito preesistente.
«Quando un debito arriva a scadenza, io lo pago. Senza problemi. Non mi interessa se il mio creditore sia o meno privilegiato. Lo pago. Il fatto che Borghi dica che il prestito del Mes sia senior, mi fa dubitare sulla sua reale volontà di pagarlo».
Secondo le stime più accreditate, il risparmio sarebbe di circa 600 milioni all’anno, solo 6 miliardi in dieci anni rispetto al finanziamento ordinario del Tesoro in asta o sindacato. Non sono pochi, a fronte dei rischi?
«Sono sempre sei miliardi. Ieri Salvini dall’Annunziata ha detto che non serve il Mes perché intanto c’è la Bce che ci compra i titoli. Ma perché, non si può prendere in prestito da entrambi?!»
Perché poi, col Mes, arriverebbe la Troika a ficcare il naso nelle nostre politiche di bilancio.
«Ribadisco: magari. Se l’avessimo avuta prima, non avremmo pagato in deficit Quota 100 e Reddito di cittadinanza. Non avremmo buttato soldi per Alitalia, con gli stessi soldi ci saremmo comprati tutte le compagnie aeree europee».
Perderemmo la nostra sovranità, un rischio da scongiurare, non crede?
«In nome della nostra sovranità abbiamo costruito una montagna di debito pubblico. Per me vale l’equazione “sovranità monetaria=sacrifici al Dio del voto”. Abbiamo acconsentito alle peggiori nefandezze».
Ma adesso non lo facciamo più. L’Europa già ci controlla con regole sempre più stringenti sui nostri bilanci, da Maastricht al Fiscal Compact.
«Questo non ci ha evitato di finanziare in deficit Quota 100 e Reddito di cittadinanza».
Erano misure popolari. D’altronde veniamo anche da un ventennio di avanzi primari, di tagli alla spesa e una pressione fiscale asfissiante.
«Ma, per citare Marco Vitale, non abbiamo mai risolto le nostre piaghe bibliche: corruzione, burocrazia, rapporti di lavoro arcaici, lavoro nero, giustizia lenta, criminalità, evasione fiscale».
Problemi complessi, di difficile soluzione.
«Appunto. Se viene qualcuno e ci frusta, dovremmo ringraziarlo e pagarlo per il servizio che ci offre. Invece questi del Mes lo fanno anche gratis».
Poi facciamo la fine della Grecia.
«In Grecia se una giovane donna illibata arrivava a 40 anni senza sposarsi, aveva diritto a una pensione. Le pare normale?»
Questo non giustifica la macelleria sociale fatta in Grecia. Un’intera generazione di ragazzi fuggita all’estero. Un sistema sanitario falcidiato dai tagli.
«Noi il sistema sanitario lo abbiamo distrutto anche senza la Troika».
Non la convinco. Per lei vale tutto, purché si riduca la spesa per interessi.
«Faccia con me questo calcolo: il Decreto Rilancio che il Governo sta per approvare contro il virus vale 55 miliardi. Ecco: nel ’98, senza Euro, abbiamo speso circa 86 miliardi in interessi passivi, pari a 120 miliardi se attualizziamo la spesa con l’indice dei prezzi al consumo di ora. Nel 2018, con l’euro, abbiamo speso 66 miliardi. Se fa la differenza tra quanto pagato allora e oggi, con quei soldi avrebbe coperto le spese del Decreto Rilancio».
Sul Mes il premier Conte ha preso tempo, i 5 Stelle sembrano contrari.
«Io vorrei un Governo serio, credibile, che assicuri di non fare spesa corrente in deficit e che risolva le piaghe bibliche di questo Paese che non funziona. E che dica ai mercati: il debito lo paghiamo ma vogliamo ridurre la spesa per interessi».
Senza Conte premier.
«Con Mario Draghi.
E se Draghi non accettasse?
«Basterebbe dire: “Paglia, fai tu”».
· I furbetti del Quartierino Nordico: Paradisi fiscali, artifici contabili, debiti non pagati.
Che cos’è il “rebate”. Andrea Muratore su Inside Over il 3 luglio 2020. Per rebate (in italiano “rimborso”) si intende nel gergo politico dell’Unione Europea il processo di restituzione a un Paese membro di parte dei fondi versati al bilancio comunitario in seguito a un accordo bilaterale tra questo e Bruxelles. Il “rebate” per eccellenza è quello di cui la Gran Bretagna ha goduto dalla metà degli Anni Ottanta fino alla sua uscita dall’Unione Europea; esistono però altri accordi e, oggigiorno, il tema è tornato profondamente d’attualità in occasione delle discussioni sul Recovery Fund pensato per rispondere alla crisi del coronavirus. Il presidente del Consiglio europeo ed ex premier belga Charles Michel ha proposto di mantenere i “rebate” per vincere la resistenza dei falchi pro-austerità circa l’inserimento del fondo per la ripresa nel bilancio Ue 2021-2027.
"I want my money back": l'origine del rebate. Il “rebate” ha una madre ben identificabile in Margaret Thatcher. Nel 1984, intervenendo a una sessione di negoziazione sul bilancio europeo, la Lady di ferro si lamentò con durezza delle problematiche imposte al Regno Unito dall’aumento dei fondi alla Politica agricola comune. L’interrelazione tra l’elevato Pil britannico e la ridotta quota del settore primario nella sua economia avrebbe portato Londra a pagare una quota di fondi alla Pac eccessivamente elevata rispetto ai finanziamenti che sarebbero poi tornati nel Regno Unito. Si arrivò dunque a un accordo che vide Bruxelles concedere a Londra la possibilità di ricevere ampi rimborsi muovendosi sul fronte dei contributi Iva, di cui rappresentava una delle massime fonti nell’Unione. Sostanzialmente, Londra riceveva dall’Unione Europea due terzi della differenza tra la percentuale dei suoi contributi al gettito Iva ottenuto dalle istituzioni comunitarie e la percentuale di fondi europei spesi sul suo territorio.
Il meccanismo si estende. Su scala inferiore e meno strutturata rispetto a quello britannico, nel corso degli anni l’Unione Europea ha concordato altri rebate con Paesi dall’economia altamente avanzata ma che per ragioni contingenti, come la ridotta popolazione e la scarsa taglia della loro economia agraria non ricevevano una quota di fondi comunitari sufficientemente elevata in rapporto al loro contributo. A ispirare la richiesta di ulteriori rebate fu il fatto che, dopo la mossa della Thatcher, la Germania Ovest era riuscita a spuntare uno sconto di un terzo dei suoi versamenti addizionali da fare a causa del rimborso britannico. Bonn, maggiore contributore della comunità, era il Paese più colpito dal privilegio concesso al Regno Unito e cristallizzò così un miglioramento della sua posizione di contributore netto. Su questo si innestarono una serie di richieste di altri Paesi dell’Unione. Questi Paesi corrispondono ai membri odierni del gruppo dei frugal four, gli Stati che si battono per mantenere lo status quo sul bilancio europeo, non ampliarlo e mantenere i loro privilegi: Austria, Svezia, Danimarca e Olanda. In occasione del bilancio comunitario 2000-2006 questi quattro Paesi ottennero uno sconto di tre quarti dei loro contributi, legato principalmente all’abbatitmento dallo 0,3% allo 0,15% del loro contributo Iva.
Un privilegio anacronistico? Dopo l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea ci si chiede se il rebate abbia ancora senso, in quanto gli sconti concessi agli attuali cinque Paesi beneficiari sono conseguenza diretta o indiretta del famoso “I want my money back!” della Thatcher. Nel 2017 la commissione Juncker propose l’eliminazione del rebate dopo il perfezionamento della Brexit. Ma la discussione sul nuovo bilancio europeo dovrebbe in questo caso includere sia la contribuzione extra richiesta agli Stati non più beneficiari del rebate che le nuove quote volte a coprire il vuoto lasciato dall’uscita di Londra. Senza i rimborsi, facevamo notare in occasione delle prime discussioni sul bilancio Ue 2021-2027, “la contribuzione netta della Germania si impennerebbe dai circa 15 miliardi attuali a circa 33 miliardi nel 2027, complice il mancato ingresso di una somma di denaro che per il 2020 è quantificata in circa 3,7 miliardi di euro (su 6,4 complessivi ricevuti dai cinque Stati)”. La mossa di Michel di proporre il mantenimento del rebate rappresenterebbe dunque la concessione di un esorbitante privilegio oramai anacronistico, dopo l’uscita del Regno Unito, che livellerebbe qualsiasi possibile extra-contribuzione richiesta ai Paesi pro-rigore a un futuro Recovery Fund. Inoltre, aprire la discussione sul tema dell’eliminazione rebate inchioderebbe i falchi di fronte alla loro ipocrisia: i Paesi più solerti nel censurare i deficit di bilancio altrui e la natura “spendacciona” dei Paesi del Sud Italia sono gli stessi che da decenni lucrano sugli sconti fiscali garantiti dall’ancoraggio al rebate britannico. Dopo la cui fine ci si chiede quanto senso abbia mantenere divergenze tanto nette in un’Unione dove non tutti i Paesi sono trattati in maniera egualitaria.
Tasse, ecco come sei Paesi europei sottraggono all’Italia 6,5 miliardi di euro. Domenico Affinito e Milena Gabanelli su Il Corriere della Sera il 30/6/2020. Profit shifting, ovvero lo spostamento dei profitti per pagare meno tasse. Molti dei protagonisti di questa pratica, che passa attraverso una politica fiscale «aggressiva» con regimi di tassazione agevolati, sono in Europa. Lussemburgo, Irlanda, Olanda, Cipro, Belgio e Malta sono i sei campioni europei del paradiso fiscale. Quello che permettono tecnicamente è un’elusione fiscale, ma altro non è che un dumping fiscale contrario al principio di solidarietà tra i membri dell’Unione previsto dai trattati. Tutto dipende dalla direttiva madre-figlia, adottata per evitare che gli utili delle multinazionali potessero essere tassati due volte tra società madre e società figlia quando queste due appartengano a differenti Stati membri dell’Unione. Ma se io opero in Italia, mando gli utili in Olanda e l’Olanda non mi tassa, il gioco è fatto.
Come eludere il fisco. Sono tre i meccanismi per pagare meno tasse.
1) Il primo è quello di stabilire la sede fiscale dove la tassazione è più bassa: basta dimostrare che la società è «residente» in quel Paese e, cioè, che i meeting del Consiglio di amministrazione si svolgono là.
2) Il secondo è quello del «transfer pricing», le transazioni economiche (spesso fittizie) all’interno di un gruppo multinazionale (come prestiti, cessione di marchi o brevetti, servizi assicurativi), il tutto gestito da una controllata che ha sede in un paradiso fiscale. Lo ha fatto Fiat con Fiat Finance & Trade, controllata lussemburghese di Fca che per 15 anni ha fornito servizi finanziari ad altre società del gruppo, una sorta di banca con tanto di utili che la Corte Europea ha condannato a pagare 23,1 milioni di euro di tasse arretrate al Lussemburgo, frutto di un vantaggio fiscale indebito grazie a un accordo ad hoc con il Granducato.
3) Il terzo è quello che adottano molte aziende digitali: fatturare tutto in un Paese estero con fiscalità agevolata. Come fanno Booking, Google e Uber, le cui sedi sono in Olanda e lì fatturano anche i servizi che vendono in Italia. I vantaggi fiscali passano spesso dal tax ruling, come fanno ad esempio i sei Paesi dell’Ue. Formalmente è un modo per le multinazionali di richiedere preventivamente chiarimenti alle autorità fiscali per evitare successive controversie, ma di fatto sono accordi privati su regimi di tassazione inferiori a quelli previsti per legge. Come lo scandalo LuxLeaks che ha coinvolto il Lussemburgo che per anni ha garantito sconti fiscali sui flussi finanziari attraverso accordi segreti a 300 società di tutto il mondo (31 erano italiane).
I campioni europei dell’elusione. Olanda, Cipro, Malta, Lussemburgo, Belgio e Irlanda garantiscono diversi vantaggi alle società che vi hanno sede. Alle multinazionali è permesso definire trattamenti fiscali ad hoc attraverso i tax ruling come quelli, finiti sotto indagine da parte della Commissione Europea, di Starbucks in Olanda, Fca e Amazon in Lussemburgo e Apple in Irlanda. Sono garantiti anche forti deduzioni e detrazioni che riducono la base imponibile e le tasse. Secondo lo studio «Corporate Tax Haven Index 2019» del Tax Justice Network, le aliquote che ogni Paese dichiara in alcuni casi sono molto diverse da quelle realmente applicate. L’Italia, ad esempio, ha un’aliquota del 28% che scende, al massimo dello sconto, al 26,9%. Questo è quello che succede nella stragrande maggioranza dei Paesi dell’Ue. Ma non in Belgio (dove l’aliquota formale passa dal 30% al 3%), a Cipro (dal 13% allo 0%), in Irlanda (dal 13% allo 0%), in Lussemburgo (dal 26% allo 0,3%), a Malta (dal 35% al 5%) e in Olanda (dal 25% al 2,44%). Questi paradisi fiscali europei garantiscono alle aziende una pressione fiscale che è inferiore al 5%, ma grazie alla mole dei profitti spostati, riescono a incassare, in proporzione, più dei paesi normali. Il gettito raccolta dalla tassazione del reddito di società è, secondo Eurostat, circa il 6% del Pil in Lussemburgo, il 5,5% a Malta e Cipro e il 4% circa in Belgio e Olanda. In Italia è il 2%. Ma ancora più impressionante è il volume degli investimenti diretti esteri in entrata in questi Paesi. In Lussemburgo rappresentano il 6.000% del Pil, a Malta il 1.500%, a Cipro il 1.000%, in Olanda il 550% e in Irlanda il 200%. Poi ci sono i casi di Bulgaria e Ungheria che garantiscono già di base aliquote del 10 e 9%.
Quanto vale il profit shifting. I profitti spostati all’estero in tutto il mondo arrivano a 544 miliardi di euro: il 36,23% dei 1.500 miliardi di euro realizzati dalle multinazionali attraverso le controllate estere. Lo dice il paper scientifico «The missing profits of Nations» (I profitti perduti delle nazioni), pubblicato dal National bureau of economic research degli Stati Uniti, considerato il più autorevole centro di ricerca economica mondiale e firmato dallo studioso francese Gabriel Zucman, professore a Berkeley, insieme a Ludvig Wier e Thomas Torslov dell’università di Copenhagen. Di questi 257, il 47,24%, approdano in Lussemburgo, Irlanda, Olanda, Belgio, Cipro e Malta. La percentuale sale, poi, al 52,29% se si considerano solo le aziende che operano nei paesi aderenti all’Ocse, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico: 207 miliardi su 395,85 di utili. La percentuale sale ancora se si considerano solo i Paesi europei: «Ogni cento euro di profitti spostati fuori da un singolo paese europeo — spiegano gli economisti — ottanta finiscono nei paradisi fiscali della stessa Ue».
Il caso Olanda. L’Olanda è tra le più agguerrite sia sul fronte dell’aggressività fiscale, sia su quello del no alla solidarietà nell’emergenza Covid. Un no verso quei Paesi le cui aziende fanno arricchire gli olandesi. La Fort Knox olandese è a Prins Bernhardplein 200, quattro chilometri dal centro di Amsterdam, dove lavorano i professionisti che gestiscono la società che cura gli interessi delle aziende domiciliatarie . Qui ha sede Intertrust, che si occupa degli affari di oltre 2.812 aziende europee e mondiali: assistenza legale, contabilità, amministrazione, transazioni finanziarie, proprietà intellettuale e tesoreria. Poco lontano ci sono le sedi di colossi come eBay (con due filiali), Uber (con ben 16 società), Google, Nike, Ikea, Starbucks. Incrociando le risorse (dipendenti, uffici) che queste società possiedono in Olanda, e gli utili che qui realizzano si scopre che ogni singolo dipendente olandese genera profitti per 530 mila euro l’anno, contro la media europea di 60mila (con Italia e Germania allineate intorno ai 42mila e Francia a 33mila). Il significativo risparmio fiscale è il tema centrale: l’Aja non tassa dividendi in entrata e uscita, plusvalenze derivanti dalla cessione di partecipazioni societarie, interessi e royalties. Rimane tutto, in maniera lecita, nelle tasche dei proprietari, facilitati poi a spostare i propri capitali in altri paradisi fiscali extra Ue. Inoltre la legge olandese, in tema di controllo societario, permette di mettersi al riparo dalle scalate dando la possibilità di esercitare un controllo totale sull’azienda anche con una quota di minoranza. Ad esempio Exor, la finanziaria di casa Agnelli che è emigrata in Olanda nel 2016, possiede il 28,98% di FCA ma ha il 42,11% dei voti, così come controlla il 26,89% di Cnh (Iveco) ma ha il 41,68% dei voti e il 22,91% di Ferrari ma ha il 32,75% dei voti. E lo stesso hanno fatto i Caltagirone con Cementir e i Berlusconi con Mediaset. È un modo legale per tirarsi fuori dal mercato libero che ha fatto fiorire le società più o meno di comodo: almeno 15 mila, secondo un rapporto del ministero delle Finanze al Parlamento olandese del 2018, con un flusso di denaro, a livello di fatturato, che va dai 4.500 ai 5.000 miliardi di euro ogni anno. Di questa montagna di soldi solo 199 miliardi sono tassati. Solo dai Paesi membri dell’Ue, l’Olanda risucchia fino a 72 miliardi di euro di profitti aziendali, di cui oltre 3 dall’Italia, secondo le stime dell’economista Gabriel Zucman. Alla fine al fisco olandese vanno, secondo un rapporto del Parlamento europeo, 11,2 miliardi di euro(oltre il 40% del gettito totale sui profitti di impresa nel Paese dei tulipani) che sarebbe dovuto finire nelle casse di altri Stati. Per questo l’ong Tax Justice Network ha collocato l’Olanda al quarto posto tra i paesi del Corporate Tax Haven Index, che classifica i principali paradisi fiscali per le multinazionali, dopo le Isole Vergini Britanniche, Bermuda e Cayman.
Il danno per l’Italia. Nel 2019 l’Italia avrebbe perso, secondo Zucman, quasi 24 miliardi di dollari di profitti (il 19% dei ricavi dalla tassazione delle multinazionali), 21 dei quali sarebbero andati a paesi Ue. In Belgio sono finiti 2 miliardi, 8 a Cipro, 5 in Irlanda, 9,6 in Lussemburgo, 0,7 a Malta e 3,4 in Olanda. Altri 3 sono finiti in paradisi fiscali extraeuropei, di cui 2,2 in Svizzera. Tutto questo si traduce in 6,6 miliardi di dollari di tasse in meno: quasi il 10% di quello che ci sono costati nel 2019 gli interessi sul debito pubblico. Ma siamo in buona compagnia: i profitti societari drenati all’estero ammontano a 48,4 per la Germania e 28,2 per la Francia, per un mancato gettito fiscale che vale 14,3 per Berlino e 9,44 miliardi per Parigi.
Chi scappa da casa nostra. Buona parte dei 6,5 miliardi di euro in tasse sottratti alle casse italiane tornano in tasche italiane: diversi protagonisti di questa pratica scorretta, infatti, arrivano da casa nostra.
Ferrero: la Holding Ferrero International S.A. ha sede legale e fiscale in Lussemburgo dal 1973, mentre Fedesa, la finanziaria che la controlla, vera cassaforte della famiglia Ferrero, è a Montecarlo.
Exor: la finanziaria della famiglia Agnelli ha avuto per anni la sede fiscale in Lussemburgo e ora è in Olanda.
Fca e Cnh (Iveco): le due società che fanno capo a Exor hanno sede legale in Olanda e fiscale a Londra.
Ferrari: ha sede legale in Olanda e fiscale in Italia dove, però, dal 2018 ha un regime fiscale agevolato, grazie a un accordo con l’Agenzia delle entrate (patent box) di tassazione sui redditi d’impresa derivanti dall’utilizzo di copyright.
Perfetti Van Melle: il colosso italo-olandese delle caramelle ha sede fiscale e legale in Olanda.
STMicroelectronics: il gruppo italo-francese produce in Italia, ha gli uffici operativi e Ginevra, ma è controllato da una società che ha sede fiscale in Olanda.
Campari: ha spostato da poco la sede legale in Olanda. Quella fiscale rimane in Italia, ma la finanziaria della famiglia Garavoglia che la controlla (la Lagfin) ha sede legale e fiscale in Lussemburgo.
Luxottica: dal 2006 ha sede in Lussemburgo la Holding Delfin, cassaforte della famiglia Del Vecchio che controlla il 32% del gruppo italo-francese EssiloLuxottica.
Tenaris SA: il colosso siderurgico della famiglia Rocca ha sede legale e fiscale in Lussemburgo ed è partecipato dalla Techint, la holding di famiglia, a sua volta partecipata dalla finanziaria San Faustin (sempre dei Rocca) che ha sede legale nelle Antille Olandesi. Nel 2017 ha risolto con 43 milioni di euro un contenzioso col fisco italiano che ne chiedeva 530.
Poi ci sono le partecipate statali che hanno diverse consociate in Olanda e Lussemburgo che gestiscono i servizi finanziari dei gruppi (tesoreria, servizi generali e di supporto al business) e che usufruiscono della non tassazione su interessi e royalties. Enel ha la Enel Finance International ed Eni ha Eni Finance International SA, Banque Eni SA, Eni International BV, Eni Oil Holdings Bv ed Eni spa Netherlands.
Cosa fa e cosa dovrebbe fare l’Europa. Solo nell’ultimo ciclo istituzionale, poi, sono state finalizzate 26 proposte legislative per migliorare la lotta ai reati finanziari e alla pianificazione fiscale. Ma quelle dell’Europa sono armi spuntate perché, in materia fiscale, ogni Stato è sovrano. La soluzione più corretta sarebbe quella di una tassazione comune sul reddito consolidato dentro l’Unione Europea, la più semplice — spinta da Francia, Germania e Italia — sarebbe quella di una tassazione minima in sotto la quale non si possa andare. Ma per fare questo ci vuole l’unanimità dei voti. La Commissione ha avviato un dibattito nel gennaio 2019 per arrivare a un voto di maggioranza qualificata, almeno in alcuni settori della politica fiscale. Ma la road map, sempre che sia rispettata, si concluderà nel 2025. Fino ad allora l’unico strumento di contrasto ce l’ha la Commissione che può bollare come aiuti di Stato gli sconti fiscali, ma l’ha usato con parsimonia: ha condannato la Apple a ridare 13 miliardi di euro di imposte arretrate all’Irlanda, Starbucks 30 milioni ai Paesi Bassi, Amazon e Fiat a ridare rispettivamente 250 milioni e 21,3 al Lussemburgo. Ha aperto indagini su Ikea, McDonald’s e sulla società energetica francese Engie. Ma niente che riporti le tasse là dove sono state di fatto evase. L’Europarlamento ha istituito una commissione speciale sui reati finanziari, l’evasione e l’elusione fiscale (TAX3) la cui conclusione è stata quella, per la prima volta, di puntare il dito verso alcune Paesi membri, colpevoli di fiscalità aggressiva. In questa fase di emergenza si sarebbe potuto usare lo strumento degli aiuti pubblici che Francia, Danimarca e Polonia ad esempio hanno deciso di non elargire alle società con sedi in paradisi fiscali. Ma Bruxelles ha puntualizzato che questa distinzione è contraria ai principi della libera circolazione dei capitali a cui sono improntati i trattati europei e che i piani di salvataggio pubblico adottati a causa dell’emergenza Covid non possono escludere chi ha la sede in un altro Stato.
Germania e Olanda sono beneficiari netti degli acquisti dei titoli della Bce. Michele Crudelini il 24 giugno 2020 su Inside Over. Sono passati circa due mesi da quando era stato annunciato per la prima volta pubblicamente il piano per il Recovery Fund europeo. Era stato presentato come un trionfo, in particolare dal governo italiano, che per bocca del suo presidente del Consiglio aveva parlato apertamente di “grandi progressi, impensabili fino a poche settimane fa”. Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea, non aveva poi esitato a sottolineare come si trattasse di un piano di “trilioni, non di miliardi”.
Il Recovery Fund ridimensionato. Sono passati 60 giorni da quella data che avrebbe dovuto rappresentare il salto verso l’Europa del futuro e oggi, a fine giugno, l’Unione si trova invece di fronte agli stessi problemi di prima. L’accordo sul Recovery Fund è ancora in fase di negoziato e, intanto, i trilioni annunciati dalla Von der Leyen, sono diventati 750 miliardi di euro da dividersi tra tutti gli Stati membri. Il ridimensionamento economico del piano è stato accompagnato dalla conseguente classica zuffa per dividersi la nuova torta messa a disposizione. Occorre poi precisare che questa pandemia, lungi dall’essere stata anche un momento utile alla riflessione sul significato di solidarietà europea, ha invece confermato le peggiori tendenze individualiste dei singoli Stati. E così la suddivisione dei fondi del futuro Recovery Fund è diventata l’occasione per alcuni Paesi europei di rivendicare una presunta superiorità morale ed etica rispetto ad altri.
I Paesi frugali ostacolano il Recovery Fund e il Pepp. È il caso dei cosiddetti Paesi frugali, tra cui si annoverano Germania, Olanda, Austria, Svezia e Danimarca. Secondo la narrativa proposta dai rappresentanti politici del gruppo dei “frugali”, l’utilizzo dei fondi del Recovery Fund dovrà essere fortemente vincolato all’attuazione di determinati programmi politici e non dovrà comprendere risorse a fondo perduto. Questo perché, sempre secondo la narrativa dei “frugali”, i Paesi del sud Europa, visto il loro debito pubblico elevato, correrebbero il rischio di sprecare le risorse in assistenzialismo, clientelismo, corruzione et similia. Questa “paura” è stata poi confermata dalla nota sentenza della corte tedesca di Karlsruhe, che impone un ultimatum alla Bce per quanto riguarda il programma di acquisto di titoli di Stato. In sostanza, la sentenza afferma che se la Bce continua con il Pepp (Pandemic Emergency Purchase Programme), la Germania potrebbe ritirare la Bundesbank dal circuito europeo, aprendo a scenari del tutto imprevedibili, tra cui anche la fine dell’euro. Tra la sentenza di Karlsruhe e il Recovery Fund c’è dunque un denominatore comune: la vulgata nordica che dipinge gli Stati del sud come finanziariamente irresponsabili e dunque immeritevoli di ricevere risorse non vincolate, a fondo perduto o sotto forma di monetizzazione del loro debito.
L’assistenzialismo della Bce verso i Paesi frugali. Ad un’analisi più attenta dei numeri non possono però non sorgere seri dubbi sulla veridicità di tale narrazione. Innanzitutto occorre sottolineare come il debito privato dei Paesi frugali sia più alto di quello italiano. Quello austriaco è al 48,8% sul Pil, quello svedese all’88,5%, quello olandese al 99,8 % e quello danese al 112%. Il debito privato italiano è invece fermo al 40,5% del Pil. Sappiamo poi che nella storia delle crisi economiche il debito privato ha avuto un ruolo di primo piano rispetto al debito pubblico. Le crisi del ’29 e del 2007 sono, per esempio, crisi scaturite da alto indebitamento privato. Il secondo aspetto che non può essere lasciato da parte è relativo alla destinazione degli acquisti dei titoli di Stato da parte della Bce. Secondo la narrazione dei “frugali” sarebbe scontato vedere che tali acquisti si siano indirizzati principalmente verso i Paesi del sud Europa. E invece no. Il principale beneficiario del Pepp è stata la Germania, con ben 46 miliardi e 749 milioni di euro di titoli acquistati dalla Bce. Come riportato dal portale truenumbers “si tratta del 25,1% del totale. Ed è singolare che anche in questo caso sia stata superata la quota di partecipazione alla Bce, che è del 21,4%”. Tra i principali beneficiari del Pepp risulta esserci anche l’Olanda. La Bce ha infatti comprato più di 10 miliardi di titoli olandesi, ovvero il 5,6% di tutti gli acquisti, quando invece la quota del Paese nella Bce è del 4,8%. Anche la sobria Austria ha ricevuto maggiori attenzioni da parte della Bce rispetto a Grecia e Portogallo (4,9 miliardi contro i 4,6 e 4,1 di Portogallo e Grecia). Pare non esserci quindi riscontro fattuale rispetto alla narrativa imposta dai Paesi frugali, i cui rappresentanti politici stanno con buona probabilità portando avanti un messaggio propagandistico verso i loro elettori. “Niente soldi agli italiani” è stata d’altronde la frase pronunciata da un operaio olandese al premier, che aveva risposto con il pollice alzato. La propaganda politica nei Paesi frugali ha dunque vissuto su questo grande bluff, che vede contrapposti Stati virtuosi contro Stati irresponsabili. Il problema è che ad oggi tale narrativa è stata creduta e ritenuta valida non solo in sede europea, con conseguenze che ritroviamo ancora nelle asimmetrie del negoziato sul Recovery Fund. Tale narrativa è stata anche sposata dagli stessi Paesi del sud Europa, che hanno applicato politiche di estrema austerità per l’auto espiazione da una colpa, quella del debito, che probabilmente non esisteva.
Antonio Pollio Salimbeni per “il Messaggero” il 21 giugno 2020. È difficile dire quali saranno i punti di caduta del negoziato sulla risposta anticrisi. Però, nonostante le divergenze tra i governi su aspetti chiave del pacchetto per la ripresa, i 27 sanno che non c'è alternativa all'accordo in tempi rapidi, entro fine luglio. Ciò perché la relativa calma dei mercati è legata anche alla forza della reazione Ue: i mercati potrebbero cambiare «sentiment» se la Ue non mettesse in pratica il suo «Whatever it takes», il suo faremo-quanto-necessario per uscire dalla crisi tutti insieme, ha detto l'altro giorno ai leader la presidente Bce Lagarde. Seguita dalla presidente della Commissione von der Leyen: «Siamo all'inizio della crisi non alla fine». E da Merkel: «Non è esagerato affermare che stiamo affrontando la più grande sfida economica nella storia della Ue, dobbiamo esserne all'altezza». Commenta una fonte europea informata sull'andamento del vertice Ue: «Von der Leyen, Merkel e Lagarde hanno dato il la alla discussione esprimendo una vera capacità di leadership: è un fattore politico molto potente». Ora il pallino ce l'ha in mano l'ex premier belga Charles Michel, presidente della Ue, che finora non ha dato grande prova di sé ed è pure criticato dalla stampa nazionale. Da domani cercherà le piste per aggirare gli ostacoli, spostare l'equilibrio di vantaggi e svantaggi per ciascuno, ricomponendo i pezzi, levigando o riducendo in misura non marginale qui e là le proposte von der Leyen sul piano per la ripresa con al centro il Recovery Fund finanziato dalla più forte emissione obbligazionaria comune mai lanciata sui mercati, e sul bilancio 2021-2027. Il primo vale 750 miliardi, il secondo 1.100. Al Consiglio europeo si sono riproposti quasi perfettamente gli schieramenti stranoti. Sono 11-12 i paesi che sostengono apertamente le proposte von der Leyen tra cui Germania, Francia, Italia e Spagna. Più almeno 5 il cui consenso può essere ottenuto con qualche aggiustamento. È il caso della Polonia e della Slovacchia, parte dell'agguerrito Gruppo di Visegrad che considera il Recovery Fund uno strumento per i «ricchi del Sud finanziato dai poveri dell'Est», ma Varsavia ha usato toni diversi da quelli di Budapest e Praga essendo la più beneficiata dopo Italia e Spagna. L'Est teme di pagare un prezzo alto sui fondi di coesione. Resiste il gruppo dei «frugali»: a Olanda, Austria, Danimarca e Svezia si è aggiunta la Finlandia. Partenza dura: no a un eccesso di sovvenzioni a fondo perduto rispetto ai prestiti (500 miliardi contro 250); no all'aumento del bilancio (avevano respinto a febbraio la proposta Michel di 1.095 miliardi); stretto controllo sulla realizzazione di investimenti e riforme (sotto tiro l'Italia); criteri diversi di ripartizione degli aiuti. Quest'ultimo è un aspetto controverso: fra i parametri di riferimento c'è il tasso di disoccupazione dei 5 anni pre crisi, ma l'intera operazione è costruita per fronteggiare i danni della crisi, non le tare economiche strutturali, dicono non solo i «frugali». Venerdì von der Leyen ha respinto l'approccio dogmatico spiegando che «una disoccupazione molto alta per anni è indice di bassa resilienza, cioè di una fragilità strutturale che impedisce di assorbire gli shoc e una rapida ripresa». Dato che l'obiettivo dell'operazione Recovery Fund è, appunto, una rapida ripresa. Diversi i compromessi possibili. Che le «linee rosse» si muoveranno è ovvio, basti pensare che il premier olandese Rutte ha bellamente aggirato la domanda se intendesse o meno porre il veto sul tema sussidi/prestiti. Dal primo luglio sarà Merkel la presidente di turno della Ue e le carte per l'ultima mediazione le darà lei. Il suo peso politico in patria e in Europa è tornato ai massimi livelli. Una delle concessioni ai «frugali» è già pronta: più controlli sulle spese e conferma dello sconto al contributo nazionale al bilancio che fa gola anche a Berlino. Merkel ha aperto pure all'ipotesi di abbreviare la durata del Recovery Fund proposta al 2024: 2023 o 2022? Sull'equilibrio sussidi/prestiti c'è ampio margine di trattativa perché abilmente von der Leyen ha proposto un fondo da 750 miliardi, ben superiore ai 500 miliardi di sussidi concordato fra Francia e Germania. Secondo alcune fonti potrebbe diminuire la parte sussidi, l'altra forse no. Di quanto è presto per dirlo, circola -100 miliardi, ma secondo alcuni sarebbe decisamente troppo. L'argomento dei «limatori» è che esistono già i 540 miliardi di prestiti Mes-Bei-Commissione (per le casse integrazioni) peraltro disponibili già quest'anno. È una prospettiva che renderebbe ancora più insensato all'Italia non ricorrere ai prestiti Mes.
Michele A. Cortellazzo per treccani.it il 28 luglio 2020. In Olanda, Danimarca, Svezia e Austria si mangia poco? È quello che si potrebbe dedurre da affermazioni come quella del Presidente del Consiglio Giuseppe Conte, al quale, il 18 luglio 2020, è stata attribuita questa dichiarazione: «Ci stiamo confrontando duramente con l’Olanda ma anche con altri Paesi frugali che non condividono la necessità di una risposta così sussistente per i sussidi ma mettono in discussione in parte i prestiti. Stiamo cercando di coinvolgere tutti nella prospettiva europea». A onor del vero, il Presidente Conte ha parlato, con cautela linguistica, dei «Paesi cosiddetti frugali», così come in un tweet del 19 luglio si è riferito a «pochi Paesi, detti “frugali”». Il 18 luglio Giorgia Meloni ha pubblicato un tweet che inizia così: «Al Consiglio europeo i “nemici” dell’Italia sono i 4 “Paesi frugali” (con governi di sinistra o popolari)», mentre il 16 luglio Vincenzo Amendola, Ministro Affari Europei ha dichiarato a «affariitaliani.it»: «Il dibattito in questo caso è tra la Commissione stessa e i cosiddetti Paesi frugali» e lo stesso giorno, in un intervento a «Coffee break» su «La 7», Maurizio Lupi si è così espresso: «Questi meravigliosi paesi frugali, devo dire che alcuni di questi, Austria, Svezia, Danimarca, non hanno neanche, o hanno il PIL della sola, della Regione Lombardia».
«Mozzarella e panzerotti». Insomma, politici italiani di diversi schieramenti hanno fatto loro la denominazione paesi frugali, a volte con qualche presa di distanza. È in uso anche la sostantivizzazione dell’aggettivo: i quattro paesi sono spesso chiamati semplicemente i frugali, come fa Matteo Salvini in un tweet del 19 luglio: «Ma che ne sanno i “frugali”? Mozzarella e panzerotti pugliesi, olio buono, frutti di una terra stupenda che tutto il mondo ci invidia. Orgoglio italiano, sempre!». Torniamo alla domanda iniziale: ma i quattro paesi hanno una tradizione alimentare così terribilmente sobria e contenuta, come sembra credere anche Matteo Salvini? Chi mastica un po’ di inglese intuisce subito che non è a questo che si fa riferimento. Frugal nella maggior parte dei suoi usi è un falso amico e vale ‘parsimonioso, economo’. Ed è a questo significato che rimanda la denominazione inglese. Però la traduzione italiana impropria è funzionale per irridere i paesi che hanno messo i bastoni tra le ruote al sostegno economico europeo ai paesi maggiormente colpiti dall’infezione COVID-19. Lo hanno notato i commentatori nei giornali, tradizionali e on line, come Michele Serra, nell’articolo I quattro taccagni, su «Repubblica» del 23 maggio 2020 («“Frugali” è un geniale eufemismo, lascia intendere l’irriducibile etica di poche formiche, laboriose e risparmiatrici, che cercano di opporsi all’egemonia delle cicale scialatrici») o Luigi Sanlorenzo in «Linkiesta», il 13 luglio 2020 («Nell’Italia del populismo al potere, li chiamano “paesi frugali” dando a questa espressione una connotazione ironica e sfottente che intenderebbe renderli ridicoli e farne l’ennesimo nemico agli occhi della pubblica opinione nostrana, ulteriormente provata nello spirito e nel corpo»).
The Frugal Four. Ma la connotazione denigratoria è della politica, e della stampa, italiane, non della stampa di lingua inglese, che per prima ha qualificato come frugal gli austeri paesi che vogliono condizionare gli aiuti ai paesi in difficoltà. Anzi, la coniazione iniziale (che pare essere stata diffusa dal «Financial Times», come ricorda Federico Fubini nelle pagine economiche della versione online del «Corriere della sera») era anch’essa allusiva, ma in modo diverso: la stampa inglese ha parlato dei Frugal Four, come, negli anni Sessanta, aveva parlato dei Fab Four a proposito dei Beatles. Il modello pare essere proprio questo. C’è, però, da correggere la data di nascita dell’espressione Frugal Four, fatta giustamente risalire da Fubini a prima dell’esplosione dell’emergenza Covid in Europa e collocata nel febbraio 2020. In realtà, possiamo risalire almeno al 2018: l’espressione è presente in un titolo del «Financial Times» («”Frugal four” band together against Brussels’ plans to boost budget», 22 febbraio 2018) e la denominazione di frugal per i quattro stati parsimoniosi compare due volte nell’articolo, nei contesti «four frugal countries determined not to foot the bill» e «for the “frugal four” member states — the Netherlands, Denmark, Austria and Sweden»). La formula è stata poi ripresa, nello stesso giornale, l’11 dicembre 2019, e nei mesi successivi la denominazione di frugali si è diffusa in tutte le principali lingue europee: in francese («les États (dits) “frugaux”»), spagnolo («los países frugales»), tedesco («die “frugalen” Länder», spesso glossato e sostituito da «die sparsamen Länder», cioè ‘i paesi parsimoniosi’). Insomma, l’appellativo di frugali per Olanda, Austria, Svezia e Danimarca si presenta ormai come un vero e proprio europeismo.
Se l'essere "frugale" nasconde grettezza. L'origine di frugale - come vengono definiti gli Stati del Nord Europa più rigorosi - è il latino tardo frugalis, un derivato di frux (frutto, raccolto). Massimo Arcangeli, Domenica 21/06/2020 su Il Giornale. L'origine di frugale - come vengono definiti gli Stati del Nord Europa più rigorosi - è il latino tardo frugalis, un derivato di frux (frutto, raccolto). Nell'affiancare un altro aggettivo disceso da frux, l'indeclinabile frugi, già attestato in età classica, frugalis ne aveva assorbito gran parte dei significati principali: sobrio o moderato, parco o regolato, semplice o modesto, temperato o misurato. A tavola la frugalità è la moderazione nel mangiare, la capacità di scegliere cibi sani e naturali, la modestia - o la genuinità, la semplicità, la freschezza - del pasto consumato: un pranzo pantagruelico esprime tutta l'esagerata sontuosità di un banchetto destinato ai facili palati di famelici ghiottoni; una cena luculliana è più adatta a commensali che siano dei raffinati buongustai; un frugale rinfresco è il pasto salubre e leggero di chi spizzica, pilucca o si limita - con nonchalance, o noncuranza del piatto - allo stretto necessario. La morigeratezza è in gioco anche quando la frugalità è riferita all'abito morale di un singolo individuo o ai vari modi del suo comportamento (abitudini, costumi, atteggiamenti), oppure al Volksgeist di una nazione, al suo spirito (o al carattere, al genio, all'identità del suo popolo). Una persona frugale non oltrepassa mai la giusta misura, si tiene al riparo da eccessi e sregolatezze, si rapporta al mondo con una parsimoniosa delicatezza mista ad attenzione ed equilibrio, avvedutezza e austerità. Ammoniva però Pietro Verri, ritenendo il lusso un «bene politico», in un articolo uscito sul Caffè (Considerazioni sul lusso, 1764): «La sperienza c'insegna che le virtù sociabili, l'umanità, la dolcezza, la perfezione delle arti, lo splendore delle nazioni, la coltura degl'ingegni sono sempre andate crescendo col lusso; quindi i secoli veramente colti sono stati i secoli del maggior lusso e, per lo contrario, i secoli più frugali e parchi sono stati quei ferrei secoli, ne' quali le passioni feroci degli uomini fecero lordar la terra di sangue umano, e sparsero la diffidenza, l'assassinio e il veleno nelle società, divenute covili d'infelici selvaggi». A un passo dalla frugalità, che qui è arricchita dalla semantica dell'accortezza nello spendere, c'è - non vorrei dir l'avarizia, che pur la rasenta - un pizzico di meschina piccineria: «È un po' gretto costui, frugal si dica». Questo era un giovanissimo Manzoni, traduttor d'Orazio.
Tutte le balle sui “cattivi” di Visegrad. Francesco Giubilei, 20 giugno 2020 su Nicolaporro.it. Le riflessioni del mondo culturale conservatore, la cospicua produzione editoriale e accademica degli ultimi anni, l’attività di intellettuali, pensatori, accademici, giornalisti, per promuovere idee e valori alla base del conservatorismo, si scontra nell’Europa occidentale con difficoltà crescenti a causa di una società sempre più influenzata dalle idee post-illuministe e sessantottine e da un contesto politico che da un lato tende a demonizzare qualsivoglia idea ascrivibile al conservatorismo e talvolta dall’altro, da parte dei partiti più affini a quest’area politico-culturale, a non comprendere l’importanza di una riflessione basata non solo sull’immediatezza del dibattito politico ma su piattaforme programmatiche e valoriali a medio-lungo periodo. Sembrano averlo capito i governi dell’est Europa; Andrzej Zybertowicz, consigliere del Presidente polacco Duda, ha rilasciato un’intervista a Repubblica intitolata “Cari illuministi avete perso, ora tocca a noi” che i politici nostrani di centrodestra dovrebbero leggere e appendere nel proprio studio. Partiamo da un presupposto. È necessario superare la narrazione del blocco di Visegrad composto da paesi avversari dell’Italia e governati da partiti che osteggiano gli interessi italiani. Essendo in Ungheria e Polonia al potere governi di destra, è normale abbiano a cuore i propri interessi nazionali ma non per questo osteggiano o contrastano le aspirazioni delle altre nazioni europee. Il problema semmai è la politica estera italiana che non è in grado di costruire un serio e strutturato legame con il blocco di Visegrad in funzione alternativa allo strapotere Franco-tedesco. Prendiamo il caso del Recovery fund. Sebbene in un primo momento fossero emerse delle rimostranze da parte dei paesi del blocco di Visegrad, in realtà oggi le resistenze non provengono più dall’est Europa. L’Ungheria si è detta pronta a collaborare (a onor del vero anche in fase iniziale aveva avanzato delle riserve solo di carattere tecnico) e anche Polonia e Slovacchia hanno dato semaforo verde. Nonostante la propaganda di Conte, sono proprio i partiti europeisti olandesi, svedesi e danesi (oltre al conservatore Kurz per l’Austria) ad opporsi. Non c’è poi più grande errore di analizzare la politica e gli stati dell’Est Europa con i criteri dell’Europa occidentale. Non dimentichiamoci che fino a qualche decina di anni fa Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia, si trovavano sotto la dittatura comunista. I cittadini di queste nazioni sanno cosa significa vivere privati della libertà e conoscono in prima persona i mali dell’ideologia comunista a cui in Occidente in tanti a sinistra continuano a strizzare l’occhio. Proprio per questa ragione, gli Stati dell’est Europa sono alla ricerca di un modello alternativo di società sia a quello comunista sia a quello liberal e globalista verso cui sta sprofondando ogni giorno di più l’Europa occidentale e che ha nell’Unione europea il proprio emblema politico. Una società intrisa di materialismo, riduzionionismo, relativismo a cui opporre una visione conservatrice del mondo basata sui valori dell’identità nazionale e locale, sulla religione cristiana, sull’importanza degli aspetti spirituali della vita, sulla centralità della comunità, sulla solidarietà, sulla legalità, sulla meritocrazia piuttosto che sull’egualitarismo, tutto il contrario delle idee postilluministe. Per invertire il paradigma in atto nelle decadenti società occidentali, è necessario ripartire dalla scuola, dalle università, dal mondo della cultura per poi arrivare alla politica che deve essere in grado di recepire e concretizzare le battaglie nate dal mondo intellettuale. In molti paesi dell’est Europa ciò sta avvenendo, e in Italia? Francesco Giubilei, 20 giugno 2020
Chi è Sebastian Kurz. Andrea Walton il 20 giugno 2020 su Inside Over. Sebastian Kurz è Cancelliere federale dell’Austria dal 2017 ed è riuscito ad imporsi, nel corso degli anni, come una delle figure di spicco della politica del Vecchio Continente. La sua carriera è riuscita a bruciare tutte le tappe: nel 2014 è stato nominato ministro degli Esteri, alla tenera età di appena 27 anni, nel governo di Grande Coalizione tra il suo partito, quello Cristianodemocratico (OVP) ed i Socialdemocratici. L’astro nascente della politica austriaca assunto la carica di leader dell’OVP nel 2017 ed ha portato il movimento alla vittoria nelle consultazioni parlamentari svoltesi lo stesso anno divenendo, così il più giovane premier al mondo. La prima esperienza di governo, in coalizione con la destra radicale del Partito delle Libertà (FPOE), si è conclusa malamente nel 2019 ma l’OVP è uscito vincitore dalle elezioni anticipate ed è così tornato immediatamente al potere. Con Kurz al comando, ovviamente.
Le origini. Sebastian Kurz è nato a Vienna il 27 agosto del 1986. Figlio unico di un insegnante e di una segretaria ha manifestato, in giovane età, una grande passione per la politica che l’ha portato ad aderire, ad appena sedici anni, al Partito Cristianodemocratico austriaco. L’interesse per la gestione della cosa pubblica è riuscito a distrarlo dagli studi universitari in Legge, abbandonati precocemente. Dal 2007 Kurz ha ricoperto dapprima l’incarico di Presidente Provinciale della sezione giovanile dell’OVP di Vienna ed in seguito quella di presidente Federale della sezione giovanile del partito. Tra il 2007 ed il 2011 è stato membro della Dieta Provinciale di Vienna e del Consiglio della città mentre nel 2011 è riuscito ad entrare a far parte dell’esecutivo nazionale come Segretario di Stato per l’Integrazione. Il salto di qualità è giunto pochi anni dopo, nel 2013, quando Sebastian Kurz è stato nominato Ministro degli Esteri nell’esecutivo presieduto dal Cancelliere socialdemocratico Werner Faymann. Kurz è divenuto il più giovane uomo politico della storia austriaca a ricoprire questo ruolo e fu scelto per questa posizione da Michael Spindelegger, Vice-Cancelliere e membro dell’OVP.
Astro nascente della politica austriaca. Kurz è riuscito a potenziare le proprie credenziali in seguito alla crisi migratoria che nel 2015 ha travolto il Vecchio Continente. Il politico austriaco si è vantato di aver chiuso la cosiddetta Rotta Balcanica, utilizzata da centinaia di migliaia di migranti per raggiungere il cuore dell’Europa ed in primis l’Austria, la Germania ed in seguito la Scandinavia. Tra i suoi successi come ministro degli Esteri ci furono anche i colloqui tra Stati Uniti, Iran, Cina, Russia, Germania e Francia svoltisi a Vienna e conclusi con la firma dell’accordo sul nucleare iraniano del 2015. Nel giro di pochi anni Kurz è riuscito ad impadronirsi anche del Partito Cristianodemocratico, di cui è divenuto leader nel 2017. Kurz ha svecchiato il movimento, creando un sito ed una app per consentire una maggiore partecipazione dei sostenitori e ne ha personalizzato la leadership. Il partito si è presentato alle consultazioni del 2017 con la denominazione di “Lista Kurz-Nuovo Partito Popolare”. I punti forti del programma elettorale, in vista del voto, erano legati al contrasto dell’immigrazione clandestina, al rafforzamento dei confini esterni dell’Unione Europea, alla restrizione del diritto di asilo nel Paese. Il tutto veniva presentato con toni populistici ed il riferimento costante era comunque lui, Sebastian Kurz, nuovo faro del centrodestra austriaco. A differenza di quanto fatto da Emmanuel Macron in Francia, Kurz ha sfruttato le strutture dell’OVP a suo vantaggio senza dover fondare un nuovo movimento.
La vittoria elettorale ed il primo mandato. Le elezioni legislative del 2017 hanno premiato il movimento guidato da Sebastian Kurz, che è riuscito ad ottenere il 31,5 per cento dei consensi e 62 seggi parlamentari su 183. L’OVP è cresciuto di oltre sette punti percentuali rispetto alle consultazioni del 2013 e la buona prestazione dei radicali del Partito della Libertà portò alla formazione di un governo di coalizione tra le parti. Kurz è divenuto, a 31 anni, il più giovane leader politico del mondo. L’esperienza di coabitazione con l’FPOE si è rivelata, però, di breve durata ed è terminata bruscamente nel maggio del 2019, in seguito ad uno scandalo che ha travolto i radicali ed ha portato alle dimissioni del leader Heinz Christian Strache. Le differenze tra i due partiti si sono comunque manifestate: l’Ovp è schierato su posizioni europeiste mentre l’FPOE è più vicino alla Russia di Vladimir Putin ed è stato accusato di antisemitismo. Kurz è riuscito a garantirsi un alto tasso di supporto grazie ad una serie di campagne mediatiche mirate ed efficienti.
Il trionfo del 2019 e l'accordo con i Verdi. I primi mesi del 2019 si sono rivelati paradossali per Sebastian Kurz. Il Cancelliere, dopo aver rotto con i radicali dell’FPOE, aveva provato a restare in sella con un governo di minoranza e si era persino aggiudicato le elezioni europee del maggio 2019, dove l’Ovp aveva ottenuto il 35 per cento dei voti. Questo sviluppo non aveva però impedito ai radicali ed ai socialdemocratici di votare la sfiducia all’esecutivo Kurz e di farlo cadere il 27 maggio del 2019. Poteva essere la fine della carriera politica del Cancelliere invece si è rivelato solo un piccolo incidente di percorso. Le elezioni legislative del settembre 2019 si sono concluse con un vero e proprio trionfo per l’OVP, che è riuscito ad aggiudicarsi il 37 per cento dei voti. I radicali dell’FPOE, invece, si sono ritrovati a perdere oltre il 10 per cento dei consensi, una parte dei quali sono stati intercettati proprio da Kurz. Il partito di Kurz si è però ritrovato privo di una maggioranza parlamentare ed esclusa una possibile alleanza con i Socialdemocratici si è trovato costretto a trattare con i Verdi, nuova forza emergente del Paese con oltre il 14 per cento dei voti ottenuti alle consultazioni. I colloqui tra le parti si sono rivelati lunghi e complessi ed hanno avuto termine solamente il 2 gennaio del 2020, con un accordo che ha dato il via al primo governo nero-verde della storia austriaca. La nuova coalizione ha concordato un programma politico basato sul contrasto al cambiamento climatico, sulla promozione dell’energia rinnovabile e sul contrasto all’immigrazione clandestina, il grande cavallo di battaglia di Kurz. L’Ovp si è aggiudicato il controllo del Cancellierato, del Ministero degli Interni, degli Esteri, della Difesa e dell’Economia. L’esperimento politico è stato però messo alla prova sin da subito a causa dell’emergenza sanitaria scatenata dal coronavirus.
L'emergenza coronavirus. L’Austria, come l’intera Europa, è stata colpita dalla pandemia scatenata dalla diffusione del Covid-19. Il Paese, ad oggi, ha registrato la presenza di oltre sedicimila casi del morbo mentre seicentoquarantuno persone hanno perso la vita a causa di esso. L’esecutivo guidato da Kurz ha dapprima provveduto ad instaurare rigide misure di contenimento, a partire dal 16 marzo, come la chiusura delle attività economiche non essenziali e dei confini e poi è stato tra i primi esecutivi europei ad allentarle. A partire dal 6 aprile, infatti, l’Austria è progressivamente tornato alla normalità: hanno riaperto dapprima gli esercizi commerciali più piccoli, poi quelli più grandi, i parrucchieri, i bar ed i ristoranti. Il contenimento del coronavirus ha giovato alla popolarità di Kurz, che è balzata al 48 per cento. Il successo del giovane politico rischia però di alterare gli equilibri di governo con i Verdi, che potrebbero sentirsi marginalizzati. C’è il rischio, poi, che la crisi economica dei prossimi mesi possa paralizzare le attività dell’esecutivo ed incidere anche sulla popolarità del Cancelliere.
I contrasti con l'Italia. Il governo guidato da Kurz è entrato in conflitto più volte, nelle ultime settimane, con quello presieduto dal premier italiano da Giuseppe Conte. Tra i vari motivi del contendere ci sono essenzialmente la chiusura dei confini nazionali e l’opposizione di Vienna al Recovery Fund franco-tedesco. Kurz si è infatti eretto a leader dei cosiddetti frugal four (Austria, Svezia, Danimarca e Olanda), i Paesi del Centro-Nord Europa che non ritengono necessario elargire sovvenzioni a fondo perduto da 500 miliardi di euro ai Paesi più colpiti dal Covid-19 (tra cui c’è ovviamente l’Italia) e che invece preferirebbero erogare prestiti condizionati ad una riforma della politica economica europea. Roma ha poi trovato discriminatoria la scelta di Vienna di riaprire tutti i confini nazionali eccezion fatta per quelli con Italia e Slovenia. L’esecutivo Kurz ha affermato che la pandemia in Italia non è ancora sotto controllo ma questa scelta rischia di danneggiare l’industria turistica locale. L’ambizione di Kurz lo porterà probabilmente, nei prossimi anni, a cercare di emergere come una figura di spicco del Partito Popolare Europeo: i conservatori, dopo la fine della grande epopea della cancelliera Angela Merkel, avranno bisogno di un nuovo leader. E potrebbero trovarlo proprio nel giovane Cancelliere austriaco.
Dario Prestigiacomo per europa.today.it l'1 maggio 2020. Insieme rappresentano quasi un quarto dell'elusione fiscale mondiale. E solo grazie alle multinazionali Usa, che qui hanno fissato le loro sedi europee per via delle bassissime aliquote, sottraggono al resto dei Paesi Ue qualcosa come 22 miliardi di dollari di tasse non intascate. Parliamo di Olanda e Lussemburgo, che insieme al Regno Unito e alla Svizzera sono finite nel mirino di un nuovo report di Tax Justice Network, ong che da tempo si batte per una maggiore giustizia fiscale nel mondo. Il report si concentra sui 'movimenti' delle multinazioni statunitensi in Europa, che sono facilmente tracciabili grazie al fatto che gli Usa hanno un registro in cui vengono descritti in dettaglio dove le società di casa hanno dichiarato i loro costi e profitti. I dati si riferiscono al bienno 2016 e 2017, e mostrano chiaramente come i big statunitensi che operano in Europa siano attratti soprattutto dal Lussemburgo e dall'Olanda quando si tratta di scegliere una sede fiscale. Il motivo è chiaro: qui le imposte sulle società, a seconda degli accordi, possono arrivare ad aliquote bassissime, persino allo 0,8%, denuncia il rapporto. Niente da obiettare, se non fosse che queste società operano non solo in questi Paesi, ma fanno lauti profitti nel resto dell'Ue grazie alle regole del mercato unico. Senza pero' lasciare il segno sotto il profilo delle tasse. Secondo i calcoli del Tax Justice Network, a causa di questa situazione, ogni anno vengono "persi" 27 miliardi di dollari di mancati introiti fiscali in tutta l'Unione europea. Di questi, ben 12 miliardi sono attribuibili al Lussemburgo, 10 ai Paesi Bassi, 3 alla Svizzera e 1,5 miliardi al Regno Unito. Chi ci perde di più, segnala il rapporto, sono i Paesi europei che in questo momento sono stati più colpiti dalla pandemia del coronavirus: la Francia ha perso poco meno di 7 miliardi di dollari di imposte sulle società, l'Italia 4 miliardi e la Spagna oltre 2 miliardi. “La pandemia di coronavirus ha messo in luce i gravi costi di un sistema fiscale internazionale programmato per dare priorità all'interesse delle grandi corporation rispetto ai bisogni delle persone - dice Alex Cobham, amministratore delegato di Tax Justice Network - Per anni, il Regno Unito, la Svizzera, i Paesi Bassi e il Lussemburgo hanno alimentato una corsa al ribasso, consegnando ricchezza e potere nell'Ue alle più grandi società e portandola via agli infermieri e ai lavoratori del servizio pubblico che rischiano le loro vite oggi per proteggere le nostre", attacca. "Ora più che mai, i Paesi dell'Ue devono riprogrammare i loro sistemi fiscali per dare priorità al benessere delle persone rispetto agli interessi delle società più ricche", conclude. Secondo il Tax Justice Network, gli strumenti per garantire una maggiore equità fiscale sono la trasparenza e una tassazione delle imprese armonizzata in tutta l'Ue. A Bruxelles, per esempio, da anni si discute di obbligare le imprese a pubblicare nel dettaglio dove hanno realizzato i profitti, un po' come succede negli Usa: si chiama "rendicontazione finanziaria Paese per Paese" e consentirebbe di aumentare la pressione dell'opinione pubblica su quelle aziende che eludono il fisco. Il progetto di legge è pronto, ma gli Stati membri non hanno ancora trovato un'intesa. La stessa cosa che sta succedendo con la proposta di un "minimum corporate tax rate" a livello europeo, ossia la l'introduzione di una base imponibile comune per le imprese valida in tutta l'Ue: in questo modo, Paesi come Lussemburgo e Olanda avrebbero meno margini di manovra nell'abbassare le tasse per le grandi aziende a livelli impossibili per altri Stati. Ma anche in questo caso, la proposta è bloccata al tavolo dei negoziati. E così, il sistema dell'elusione fiscale all'interno della stessa Ue continua a non venire scalfito. A vantaggio soprattutto delle multinazionali stesse, segnala il rapporto: perché a fronte dei 22 miliardi elusi al resto degli Stati membri, l'Olanda e il Lussemburgo raccolgono rispettivamente appena 400 milioni e 2 miliardi. Una forbice di 20 miliardi. Che restano nei fortini delle grandi corporation Usa.
Ferruccio De Bortoli per il Corriere della Sera il 29 marzo 2020. Non possiamo correre il rischio di veder fallire lo Stato. E a questo proposito, sono irresponsabili e stridenti le promesse di un «anno bianco» sotto il profilo fiscale, perché la mancanza di liquidità metterebbe a rischio il pagamento di pensioni e stipendi e vanificherebbe gli sforzi sul piano dell' emergenza sanitaria. Chi può paghi. Chi non può verrà aiutato al massimo. I furbi sono i nuovi sciacalli. È una esortazione antipatica, brutale, lo sappiamo. Ma necessaria. L' interruzione del circuito dei pagamenti - che dovrebbe essere sostenuto da ampie garanzie sul piano bancario e dai prestiti a tasso zero a famiglie e aziende - crea un vortice infernale. Travolge tutti. La sospensione degli adempimenti fiscali riguarda per ora il mese di marzo (sull' attività di febbraio in gran parte ancora regolare). Tra giugno e luglio si avrà la prova della verità sulle denunce dei redditi conseguiti nel 2019. Quanti di questi contribuenti avranno la liquidità sufficiente per essere in regola? Si discute molto in questi giorni sulla possibilità che l' Unione Europea emetta strumenti finanziari per contrastare la recessione e rilanciare gli investimenti, in particolare nell' area sanitaria. La dichiarazione di ieri di Ursula von der Leyen contraria ai coronabond non lascia grandi speranze. Senza entrare negli aspetti tecnici già affrontati da numerosi articoli sul Corriere (ieri Mario Monti) e da altri autorevoli interventi (Romano Prodi sul Messaggero e Carlo Cottarelli sulla Stampa ), occorre non illudere gli italiani. Esiste pur sempre una differenza tra la beneficenza e il credito per quanto agevolato. E la prima non ce la fa nessuno. I debiti sono sempre debiti. Anche se sarebbe auspicabile che quelli contratti per la lotta alla pandemia e per il rilancio europeo fossero condivisi. Solo quelli, non gli altri. Quando però a livello politico si spiega la preferenza per gli eurobond, dicendo che non ci si può indebitare all' infinito, si trasmette al pubblico un messaggio fuorviante. I pasti gratis non esistono nemmeno nel mezzo di una pandemia. Quando si dice no al Mes (Meccanismo europeo di stabilità), perché vorrebbe dire indebitarsi, si lascia intendere che fare più deficit non lo sia. Il patto di stabilità è giustamente sospeso. L' Italia ha più margine per indebitarsi, ma a costi più alti, nonostante l' aiuto della Banca centrale europea. Nell'intervista di ieri ai giornali italiani, il presidente francese Emmanuel Macron insiste sul fatto che ci troviamo di fronte a uno choc esogeno e simmetrico. Ma che purtroppo avrà costi diversi sui vari Paesi. Noi pagheremo il prezzo più alto. Alcuni Paesi del Nord ritengono che le conseguenze della pandemia saranno più contenute. Al premier olandese Mark Rutte, il più duro oppositore di un' azione comune dell' Unione Europea contro la crisi, Giuseppe Conte potrebbe inviare un piccolo documento. Pochi fogli. The missing profits of nations , «I profitti perduti dalle nazioni». Pubblicato dal National bureau of economic research di Cambridge MA. L'Italia perde ogni anno circa 20 miliardi di euro di imponibile sui profitti realizzati da multinazionali italiane con sedi in paradisi fiscali, di cui 17 in Paesi europei. Amsterdam è la preferita.
Da corrieredellosport.it il 9 aprile 2020. “Stiamo salvando gli ottantenni obesi che fumano. È bene bilanciare gli interessi, chissà quanti danni economici comporterà il salvataggio di persone che sicuramente potrebbero morire entro due anni”. Sono bastate queste dichiarazioni del giornalista Jort Kelder per scatenare la bufera in Olanda. Il 55enne, amico intimo del primo ministro Mark Rutte, è stato subito preso di mira sui social: “Perché non vai a fare volontariato in una casa di cura così almeno ti rendi utile?” ha commentato un utente su Twitter. Kelder ha poi tentato di correggere il tiro: “Non stavo suggerendo di uccidere anziani obesi. Cerchiamo di aiutarli, ma prestiamo anche attenzione all’economia. Pensiamo sempre alla salute, ma siamo sicuri che sia prioritaria rispetto all’economia?”.
Chi è Mark Rutte. Inside Over. il 10 aprile 2020. Mark Rutte, 53enne originario de L’Aia, la città sede dei poteri maggiori dei Paesi Bassi, è divenuto negli ultimi anni protagonista della politica europea. Leader di saldo orientamento liberale, apertamente pro-mercato e fautore del rigore sui conti pubblici, guida il governo olandese dall’ottobre 2010, risultando il leader continentale più longevo dopo Angela Merkel. I suoi esecutivi hanno avuto il nocciolo duro nel suo Partito Popolare per la Libertà e la Democrazia (Vvd), decisore strategico dell’orientamento politico de L’Aia. Rutte ha mediato e tessuto alleanze durature che hanno portato l’Olanda a divenire il terzo polo di influenza dopo Germania e Francia nell’Europa post-Brexit. Dalla crisi dei debiti sovrani a quella del coronavirus la sua linea politica si è sempre incentrata sul sostegno a una rigorosa applicazione dell’austerità sui conti pubblici, nell’appoggio a una ridotta solidarietà economica e finanziaria inter-europea, per una difesa degli strumenti di controllo sull’attività degli Stati del Sud Europa. Rutte ha costruito intorno all’Olanda l’alleanza della Nuova Lega Anseatica, blocco commerciale, patto economico e strumento pressione per portare avanti una linea politica liberista nelle istituzioni di Bruxelles. Nelle ore più calde della crisi del coronavirus si nota come la maggiore centrale del rigore in Europa non sia la Germania a guida Merkel ma l’Olanda di Rutte, capace di puntare a separare i benefici dell’appartenenza all’Unione (dal dumping fiscale al libero scambio) dai doveri di solidarietà. In un gioco rischioso per tutta l’Eurozona.
L'ascesa al potere. Rutte, nato nel 1967, si è specializzato studiando storia prima di iniziare la carriera nel mondo del business in società come Calvè e Unilever, affiancando all’impegno manageriale la militanza politica nel Vvd.
Dopo una lunga ascesa manageriale, culminata nella direzione delle risorse umane di diverse sussidiarie di Unilever, Rutte fu selezionato nel 2002 per entrare a far parte in quota Vvd del governo di Jan Peter Balkenende, come Segretario di Stato (l’equivalente di ministro) per gli Affari Sociali e l’Occupazione. Dal 2004 al 2006 passò al ministero per l’Educazione, la Cultura e la Scienza, varando una grande riforma del sistema scolastico olandese in senso market-oriented. La visibilità ottenuta nel Vvd per la partecipazione a governi in cui la formazione liberale olandese era partner di minoranza del centro cristiano-democratico Cda permise a Rutte di conquistare la leadership del partito nel 2006. Da lì sarebbe iniziata la scalata al potere del giovane segretario.
Dall'estrema destra ai laburisti: tattica e strategia di Rutte. Alle elezioni legislative del 2010 il Vvd del Rutte risultò l’unica formazione a sfondare la soglia del 20% dei consensi e, con soli 80.000 voti in più della sinistra del Partito Laburista, ottenne 31 seggi contro i 30 dei principali sfidanti, posizionandosi in prima fila per la formazione del governo.
L’esecutivo si strutturò come un governo di coalizione tra Vvd e Cda, supportato all’esterno dal Partito per le Libertà (Pvv), la formazione di estrema destra ed euroscettica di Gert Wilders, arrivata terza col 15,5% delle preferenze. Wilders concesse il via libera per un esecutivo guidato da Rutte, sostenendone la linea liberista e pro-mercato, Il 14 ottobre 2010 Rutte si insediò, divenendo il primo liberale a guidare il governo dal 1918 e il secondo premier più giovane della storia olandese. Il Pvv sostenne le riforme di Rutte volte a tagliare il deficit e la spesa pubblica in cambio di leggi restrittive sull’immigrazione e sul divieto dei burqa nei luoghi pubblici e negli spazi comuni. L’esecutivo era però minato dalla spinta al protagonismo dei partiti nelle fase cruciali e collasò dopo poco più di un anno e mezzo, nell’aprile 2012, attorno al tema del futuro budget del Paese. Le elezioni anticipate videro un boom sia del Vvd che dei Laburisti, piazzatisi ora rispettivamente a 41 e 38 seggi: la forza notevole di entrambi gli schieramenti spinse i due partiti a coalizzarsi strategicamente per dare il via a un secondo governo Rutte con prospettive di legislatura. E proprio nel quinquennio 2012-2017 Rutte potè governare guidando il Paese con le logiche politiche che lo avrebbero reso celebre in Europa. La saldezza dell’esecutivo sul fronte interno, la cooptazione dei Laburisti nell’agenda economica del governo, ostile in Europa all’aumento di solidarietà legata alla discesa in campo della Bce di Mario Draghi e favorevole a un’austerità capace di non minacciare l’agenda mercantilista olandese, avvenne tramite la nomina al ministero delle Finanze di Jeroen Dijsselbloem, che da presidente dell’Eurogruppo avrebbe conosciuto una mutazione da socialdemocratico a falco del rigore.
Verso il futuro. Proprio nell’esecutivo con i laburisti l’Olanda mise in campo molti degli strumenti politici che ne hanno incrementato l’influenza europea. Dalla competizione fiscale col resto d’Europa alla costituzione della Nuova Lega Anseatica Rutte piantò i semi dell’influenza olandese sui Paesi rigoristi del Nord, che dal 2017 in avanti si sarebbe mostrata in aperta polemica con gli obiettivi della Francia di Emmanuel Macron. Nel voto di fine legislatura del 2017 il Vvd perse 5 punti percentuali e 8 seggi in Parlamento, confermandosi comunque primo partito. Col 21,29% dei voti Rutte staccò di otto punti Wilders, che aveva guidato il Pvv al secondo posto, mentre i laburisti, dopo cinque anni di connivenza e collaborazionismo con l’agenda liberista di Rutte, precipitarono dal secondo al settimo posto, perdendo ben 29 seggi e 19 punti di consenso. Per formare il suo terzo esecutivo Rutte tornò all’ovile della Cda, a cui si aggiunsero i social-democratici di D66 e la piccola Unione Cristiana, di stampo conservatore. Con questo governo di coalizione molto frammentato Rutte ha esercitato una crescente capacità di leadership interna, accelerando sull’agenda di tagli al welfare, flessibilizzazione del mercato del lavoro e riduzione del carico fiscale. Al tempo stesso, assieme al nuovo Ministro delle Finanze Wopke Hoekstra, si è pressochè completamente intestato la conduzione della politica internazionale dell’Olanda. Una politica che, come vediamo nei giorni della crisi del coronavirus, è trincerata sui principi portati avanti nell’ultimo decennio. L’Olanda, capace di crearsi rendite di posizione, mira a preservarle anche nell’ora più buia dell’Unione.
DAGONOTA il 31 marzo 2020. Leggete bene questo tweet, tradotto in automatico ma molto chiaro: ''Nella Bibbia, Giuseppe consiglia al Faraone di risparmiare durante i 7 anni ''grassi'' per far fronte ai 7 anni ''magri''. I Paesi Bassi hanno fatto un ottimo lavoro. Ora dobbiamo aprire i nostri granai per paesi che fanno festa da 7 anni: Italia, Francia, Belgio? #Eurobonds''. È di Andries Knevel, teologo olandese, scrittore e presentatore della tv e radio finanziata dalle fondazioni protestanti olandesi, ortodosse nell'approccio alla religione e alla società. Per questo la citazione biblica, ovviamente una ''crudele'' e dell'Antico Testamento, mica una parabola dei Vangeli in cui si aiuta il proprio fratello in difficoltà. Qui sarebbe troppo complicato perdersi nella storia delle religioni, e faremo un orrendo e sbrigativo riassunto: dalla fine del '500, quando il calvinismo soppianta il cattolicesimo nei Paesi Bassi (dopo guerre sanguinose), l'atteggiamento degli olandesi nei confronti dei popoli cattolici cambia per sempre, e in modo profondissimo. La stessa impostazione fu portata all'inizio del '600 negli Stati Uniti con la colonizzazione dell'attuale New York e della regione circostante, ed è alla base dello straordinario successo ''mercantile'' della Grande Mela. L'etica del lavoro, la predestinazione dell'uomo, il peccato originale che non si estingue, la frattura tra la morale ''riformata'' dei protestanti olandesi e quella della tradizione cattolica del Sud Europa (Spagna e Italia in testa) che nella confessione e nel perdono garantiscono la redenzione anche a chi in vita non si è speso per l'avanzamento della propria comunità attraverso il lavoro e una fede senza tentennamenti. Noi pensiamo di vivere in un mondo globalizzato ed ''europeizzato'' ma ogni comunità porta con sé bagagli vecchi di secoli, che spiegano moltissimo di quello che stiamo vedendo in questi giorni. Purtroppo non sarà un dibattito che dura un paio di settimane (o un paio di decenni) a spazzare via impostazioni mentali così rigide da aver causato guerre di religione, emigrazioni di massa e conflitti teologici centenari.
Roberto Galullo e Angelo Mincuzzi per ''Il Sole 24 Ore'' l'11 aprile 2020. Chissà se il capo del governo olandese Mark Rutte e il suo ministro delle Finanze Wopke Hoekstra conoscono il palazzo di vetro e cemento al numero 200 di Prins Bernhardplein, alla periferia di Amsterdam. Secondo la Camera di commercio dei Paesi Bassi, qui hanno sede 2.499 società ma se fossero imprese normali difficilmente troverebbero spazio in un comune edificio come questo. Gran parte di loro esiste solo sulla carta, eppure sono la chiave di volta per capire perché i Paesi Bassi, con il loro rigore, sono diventati i primi della classe in Europa. C' è uno studio, in realtà, che lo spiega e che svela come il prezzo di tanta severità lo stiano pagando da anni gli altri partner europei. Secondo l' ultima analisi di Tax Justice Network, una rete di esperti fiscali che ogni anno redige una classifica delle maggiori giurisdizioni segrete nel mondo, i Paesi Bassi sottraggono almeno 10 miliardi di dollari di imposte all' anno agli altri partner dell' Unione europea. Il danno per l' Italia sarebbe di oltre 1,5 miliardi di dollari di mancati introiti fiscali, la Francia ne perderebbe 2,7 e la Germania oltre 1,5 come l' Italia mentre per la Spagna la perdita sarebbe di quasi 1 miliardo di dollari. Il calcolo riguarda soltanto gli ammanchi provocati dallo spostamento di utili delle multinazionali americane verso l' Olanda (dove l' aliquota effettiva sulle società può scendere addirittura al 4,6%) e non tiene conto delle grandi corporation di altri paesi.
Conti pubblici impeccabili. Prins Bernhardplein è solo una grande piazza circolare a quattro chilometri dal centro di Amsterdam nella zona della stazione di Amstel ma potrebbe essere il simbolo di questo fenomeno che nasconde le due anime degli olandesi: tolleranti in casa propria sugli aspetti fiscali, rigoristi all' esterno. Due volti che rischiano di creare una profonda crepa nell' architrave europea, come appare chiaro in questi giorni. E dunque, per capire l' essenza dell' Olanda bisogna partire proprio da qui. L' anno scorso l' ammontare del debito pubblico olandese è sceso al 48,6% del Prodotto interno lordo e il bilancio dello Stato ha chiuso con un surplus di 14,1 miliardi di euro, pari all' 1,7% del Pil: 3,5 miliardi in più del 2018. Lo Stato incassa più di quanto spende. Negli ultimi quattro anni l' avanzo di bilancio cumulato ha raggiunto i 34 miliardi di euro, una cifra che ha superato le previsioni del governo. Il Pil olandese è poco meno della metà di quello italiano: 838 miliardi di euro contro 1.787 miliardi. Ma l' Italia sopporta il fardello di un debito pubblico pari al 134,8% del Pil e un deficit dell' 1,6% del Prodotto interno lordo che però, se si elimina la spesa per interessi, si trasforma in un avanzo dell' 1,7%. Comunque, una bella differenza. Le nude cifre non bastano però a spiegare il fenomeno-Olanda. Bisogna comprendere perché i Paesi Bassi riescono a inanellare cifre di questo tenore. Certo, l' assenza della burocrazia gioca un ruolo fondamentale, così come la certezza del diritto, la velocità dei processi, le infrastrutture moderne, un diritto societario a misura d' impresa che attira i grandi gruppi esteri (anche italiani), una società aperta e multiculturale. Messi insieme tutti questi elementi sarebbero in grado di spingere da soli l' economia di un paese. Ma per avere una risposta bisogna venire al numero 200 di Prins Bernhardplein.
Il palazzo dei record. Il palazzo che appare alla vista ospita la sede della Intertrust, un colosso multinazionale specializzato nella consulenza alle società. Vende loro assistenza legale, manageriale, di gestione, e anche servizi fiduciari. Quotata in Borsa, 3.500 dipendenti e sedi in 29 paesi, Intertrust fornisce un domicilio a migliaia di società che in Olanda non hanno dipendenti e a volte neppure una vera attività ma scelgono di venire qui per ragioni fiscali. Al piano terra dell' edificio c' è la sede di The Tribes, un business center che affitta spazi per coworking a 149 euro a persona e uffici virtuali per 119 euro al mese. Questi ultimi sono delle semplici domiciliazioni: qualcuno risponde a un numero di telefono di un' azienda che esiste in quegli uffici solo formalmente. Amsterdam è piena di edifici come questo. Uno studio commissionato dal ministero delle Finanze, lo stesso dicastero guidato dal falco Wopke Hoekstra, ha rivelato che nel 2017 esistevano 15mila società "bucalettere", la cui unica presenza sul territorio olandese era data da una cassetta postale. Nessun ufficio, nessun dipendente. Il loro numero si è mantenuto costante anche negli anni successivi. Ma il dato più interessante è un altro. Le 15mila società fantasma spostavano ricchezze per 4.500 miliardi di euro, cioè una cifra pari a quasi sei volte il Pil olandese e due volte e mezzo quello italiano. Il governo olandese lamenta che solo una piccola parte di questa enorme massa di soldi - e cioè soltanto 199 miliardi - si trasforma in base imponibile sulla quale le società pagano le loro imposte. E uno studio realizzato da Arjan Lejour, professore di Diritto tributario ed economia pubblica alla Tilburg University, ha addirittura messo in evidenza come l' Olanda subisca un danno tra uno e 2,5 miliardi di euroall' anno dall' elusione fiscale di queste società. Business miliardario E allora, perché l' esistenza di queste entità viene così allegramente tollerata? La prima risposta sta nell' enorme giro di affari che generano, insieme alle multinazionali che arrivano in Olanda spesso per lo stesso motivo: il fisco. Attorno alle 15mila "scatole vuote" e alle quasi 25mila multinazionali presenti nei Paesi Bassi ruota infatti un business miliardario. Migliaia di studi legali con 17.500 avvocati e 2.800 praticanti, 170 società fiduciarie, 786 banche, 1.238 società assicurative e 92 di riassicurazioni, 850 fusioni e acquisizioni che hanno raggiunto il valore di 80 miliardi di euro nel 2019. E poi società di consulenza e di gestione, università, cultura e viaggi. I businessmen e i turisti arrivati in Olanda lo scorso anno hanno speso complessivamente 17 miliardi di euro nel paese. Le multinazionali generano il 40% dell' occupazione in Olanda, l' 80% del commercio verso l' estero, due terzi del fatturato privato e il 40% della produzione economica totale. Soldi che rendono ricco il paese e che consentono di limitare la spesa pubblica, già di per sé efficiente e con un' amministrazione snella. Non c' è bisogno di indebitarsi, o almeno non nelle proporzioni di altri paesi.
Il paradiso delle società. Una così grande quantità di multinazionali e di società straniere ha tirato il volano ai dati sugli investimenti esteri diretti, cioè quei capitali che le compagnie straniere investono in Olanda rilevando almeno una quota del 10% in una società del paese, che in genere è una loro filiale. Nel 2019 la Banca centrale dei Paesi Bassi ha registrato un ingresso di capitali investiti per 4.554 miliardi di euro e un' uscita (gli investimenti di società domiciliate in Olanda verso altri paesi) per 5.561 miliardi. Un dato impressionante (nella tabella in alto le cifre per area geografica sono del 2018) se si pensa che in Italia i numeri ammontano rispettivamente a 373 miliardi e a 484 miliardi. La capacità olandese di attrarre e comunque di spostare investimenti diretti è pari a un valore che va da 5,4 a 6,6 volte il Pil. I dati della Banca centrale olandese rivelano però che il 54,4% degli investimenti esteri diretti dai Paesi Bassi verso l' estero (cioè 3.047 miliardi di euro) e il 60,7% di quelli dall' estero verso l' Olanda (2.767 miliardi) vengono realizzati da particolari società chiamate Spe, cioè Dutch Special Purpose Entities. Le Spe vengono anche definite Sfi, cioè Special Financial Institutions. Sono le 15mila società "bucalettere" denunciate dal ministero delle Finanze dell' Aia e alcune di loro sono registrate proprio nell' edificio al numero 200 di Prins Bernhardplein, alla periferia di Amsterdam.
Il legame con le Bermuda. Uno studio realizzato dal Cpb, l' Uffico per le analisi di politica economica del ministero degli Affari economici dei Paesi Bassi, rivela il ruolo dell' Olanda come paese di transito da e verso i paradisi fiscali, grazie alla grande quantità di accordi firmati contro la doppia imposizione fiscale. «I Paesi Bassi - scrivono gli autori del report, Arjan Lejour, Jan Mohlmann e Maarten van 't Riet - non hanno imposto finora una ritenuta d' acconto sulle royalties e questo ha fatto di loro un paese di transito molto attrattivo. Il 60% delle royalties che passa attraverso i Paesi Bassi va direttamente nel paradiso fiscale delle Bermuda». È uno studio ufficiale ad attestarlo - non bisogna dimenticarlo - e per di più realizzato da un ministero che fa parte dello stesso Governo di Rutte e di Hoekstra. Il rapporto aggiunge che «circa un quarto degli interessi pagati transitano verso paesi come Irlanda, Lussemburgo e Svizzera». Insomma, attratti dalla certezza di non pagare tasse, i capitali provenienti dai paradisi fiscali allungano il loro tragitto e vengono deviati in Olanda prima di riapprodare in altri paradisi fiscali. Lo studio ne cita alcuni, oltre alle Bermuda: Cayman, Singapore, Emirati Arabi, Porto Rico ma i beneficiari effettivi di questi capitali sono quasi sempre società statunitensi o del Regno Unito. Jan Vleggeert e Henk Vording, docenti alla Leiden Law School hanno raccontato in un report come l' Olanda sia diventata a tutti gli effetti un paradiso fiscale per le multinazionali e hanno fornito dei suggerimenti al governo dell' Aia per cambiare questa situazione. «La maggior parte delle misure che citiamo nel nostro lavoro sono state ora prese - dicono ora i due docenti al Sole 24 Ore -. Per esempio, la ritenuta alla fonte condizionale su interessi e royalties, che entrerà in vigore dal 1 ° gennaio 2021. Ci si potrebbe aspettare che queste misure porteranno a una ristrutturazione dei piani di pianificazione fiscale, nel senso che i Paesi Bassi non saranno più utilizzati, tuttavia non ci sono ancora chiari segni di questo adeguamento e solo il tempo lo mostrerà». La ritenuta d' acconto che entrerà in vigore in Olanda (per la prima volta) il prossimo anno avrà un' aliquota del 20,5%. Nel frattempo, al numero 200 di Prins Bernhardplein gli affari continueranno a scorrere come sempre.
Giuliano Balestreri per it.businessinsider.com il 31 marzo 2020. La Germania gioca in difesa, nella partita sui coronabond – obbligazioni una tantum per tamponare l’emergenza economica innescata dalla pandemia globale – sono gli olandesi a recitare la parte dell’ariete impegnato a scardinare ogni richiesta italiana. Una presa di posizione dura, ma poco lungimirante come ha sottolineato al quotidiano olandese De Telegraaf, Nout Wellink, ex presidente della Banca centrale olandese: “Non saremo più un nord ricco se tutto il sud cadrà”. D’altra parte i conti sono presto fatti: gli eurobond una tantum potrebbero costare ai contribuenti olandesi 10-15 miliardi di euro; mentre ogni anno l’erosione fiscale ai danni dell’Italia è nell’ordine dei 20 miliardi di euro. Tasse che dovrebbero essere pagate in Italia, ma che grazie alla politica fiscale aggressiva dei Paesi Bassi prendono la strada del nord. Arricchendo gli azionisti e le casse del fisco olandese. Un problema affrontato anche a livello comunitario, ma ai richiami della Ue, l’Olanda ha risposto con un’alzata di spalle. “La lotta contro la pianificazione fiscale aggressiva è essenziale per rendere i sistemi fiscali più efficienti ed equi, come riconosciuto nella raccomandazione del 2019 relativa alla zona euro” si legge nelle raccomandazioni Ue all’Olanda dello scorso anno dove si sottolinea anche che “gli effetti di ricaduta delle strategie aggressive di pianificazione fiscale tra Stati membri richiedono un’azione coordinata delle politiche nazionali a completamento della legislazione dell’UE”. Sulla carta, i Paesi Bassi hanno adottato misure per fronteggiare tali strategie, “ma l’elevato livello dei dividendi, delle royalty e degli interessi versati tramite i Paesi Bassi indica che la normativa tributaria del paese è impiegata dalle imprese impegnate nella pianificazione fiscale aggressiva”. E ancora: “La mancanza di ritenute d’imposta sui pagamenti in uscita (ossia effettuati dai residenti dell’UE verso paesi terzi) di royalty e interessi può comportare un’elusione fiscale totale se tali pagamenti non sono soggetti a imposizione nella giurisdizione del beneficiario”. Insomma, un vero paradiso fiscale. Anche perché l’annuncio di una riforma con l’introduzione di ritenute d’imposta sui pagamenti di royalty e interessi in caso di abuso o di pagamenti verso paesi a basso tasso di imposizione, è rimasto sulla carta. E persino il National bureau of economic research di Cambridge definisce i Paesi Bassi un paradiso fiscale europeo alla stregua di Irlanda, Belgio, Lussemburgo, Malta e Cipro: gli americani calcolano che circa 600 miliardi di dollari di utili (base imponibile) abbiano lasciato il Paese d’origine per volare verso Paesi “più accondiscendenti”. Dublino con 100 miliardi sarebbe la meta preferita seguita da Singapore e dall’irriducibile Olanda. Di più: circa il 35% della somma, 210 miliardi, arriverebbe direttamente dai Paesi europei. “Secondo le nostre stime – si legge del documento di Nber – lo spostamento dei profitti da un Paese all’altro da parte delle multinazionale riduce gli introiti fiscali aziendali all’interno dell’Unione europea di circa il 20%”. Come a dire che per ogni 100 euro di utile aziendale, 20 ne vengono drenati dai paradisi fiscali. Lo scenario, all’interno della Ue, è lo stesso da anni. Da un lato ci sono grandi paesi che per mantenere il loro livello di spesa pubblica hanno importanti esigenze di gettito fiscale, dall’altro c’è chi usa la leva fiscale e attirare nuovi investimenti. Con un sacrificio che spesso è inferiore ai benefici: in Italia – il Paese dove le imprese pagano le tasse più alte – il gettito fiscale delle aziende arriva al 14% del totale. Tradotto: se uno sconto sulle tasse si traduce in più investimenti e posti di lavoro, la ricaduta sul Paese è positiva con un aumento dei consumi e del Pil, ma se ciò non accade il danno è doppio. E all’interno della Ue i paesi con la tassazione più altra (Francia e Italia) sono quelli a subire le perdite più pesanti. Alla fine del 2016, tra le note del Def, il ministero dell’Economia aveva calcolato che solo all’Italia mancano almeno 31 miliardi di base imponibile. E di conseguenza 10 miliardi di gettito fiscale: soldi che, invece, sono entrati nella casse erariali dei paradisi fiscali europei.
Cinzia Meoni per Il Giornale – articolo del 4/09/2016. Con l'assemblea di ieri anche Exor, cassaforte della famiglia Agnelli, ha detto definitivamente addio all'Italia e d'ora in poi batterà bandiera olandese, mantenendo come unico legame con l'Italia la quotazione a Piazza Affari. Le sirene di Amsterdam, d'altro canto, sono irresistibili: il trasferimento in Olanda garantisce agli azionisti di azzerare la tassazione sulle plusvalenze che, invece, nel nostro Paese in Italia sarebbero tassate al 5 per cento. Un'altra provincia dell'impero degli Agnelli, dopo Fca, Cnh e Ferrari, lascia definitivamente i confini italiani in cui, per ora, rimane solo la Juventus. E l'esodo delle imprese e dei capitani d'impresa che scelgono di traslocare oltreconfine si allunga di giorno in giorno. Tutto questo proprio mentre l'alta finanza, riunita in questi a Cernobbio per il Forum Ambrosetti, venerdì applaudiva entusiasticamente il premier Matteo Renzi, proprio nel giorno in cui l'Istat confermava la crescita zero nel Paese. La destinazione è presto detta: stati con un costo del lavoro inferire al nostro, una burocrazia leggera, leggi certe e, soprattutto, un peso fiscale accettabile. Si consideri solo che in Italia la tassazione sugli utili tocca il 31,4%, rispetto al 20% richiesto in Svizzera, al 12,5% in Irlanda e al 10% della Bulgaria. Se poi a queste si aggiungono le imposte sul lavoro, nel Belpaese il peso fiscale può addirittura sfiorare il 70% rispetto al 48% della Germania, al 37% della Gran Bretagna e al 21% del Lussemburgo. Ecco quindi spiegato, in numeri, il principale motivo per cui, le imprese italiane sono in fuga. A iniziare da quelle del «cerchio magico» di Renzi. Come Algebris, ad esempio, fondo di investimento di Davide Serra, tra i fedelissimi di Renzi, che però ha sede a Londra. Non è quindi un caso che, in un sondaggio effettuato ieri tra i partecipanti ai lavori del Forum Ambrosetti, solo il 38,2% degli intervistati, ovvero neppure quattro su dieci, ha dichiarato di prevedere investimenti in Italia nel 2017. Tutti gli altri guardano oltre confine. La scelta non manca. Gli Agnelli peraltro sono solo una delle tante famiglie di imprenditori italiane che, nel corso degli anni, hanno guardato oltreconfine. I Rocca, storica famiglia di industriali bergamasca, sono stati tra i primi a valicare il confine: oggi l'indirizzo di Tenaris è nel Principato del Lussemburgo. Nel corso degli anni hanno portato quanto meno le proprie casseforti altrove tra gli altri: i Ferrero che, pur mantenendo il cuore ad Alba, hanno portato la testa in Lussemburgo con Holding Ferrero International S.a. da cui dipendono le decisioni che riguardano tutti i 22 stabilimenti e i 53 mercati in cui è presente il marchio; Leonardo Del Vecchio con la lussemburghese Delfin (qui sono custoditi il controllo di Luxottica, ma anche quote di peso in Generali, in Foncière des Régions, a cui peraltro fa capo la stessa Beni Stabili); i Cordero di Montezemolo con il fondo lussemburghese di private equity Charme che conta su un parterre di élite di soci e investe privilegiando il made in Italy; i Garrone con la lussemburghese Polcevera S.a.(a cui fa capo il 7% di Erg). Azimut finora ha solo accennato alla possibilità lo scorso aprile. Ma si sa, per il risparmio gestito l'indirizzo migliore è Dublino. D'altro canto se i cervelli fuggono all'estero, i benestanti cercano i paradisi fiscali e i pensionati prendono la rotta degli eden low cost a basso impatto fiscale, è ben comprensibile che anche gli imprenditori, che pure a parole sostengono il governo, quando c'è da decidere dei propri investimenti scelgano la strada più conveniente.
Giuliano Balestreri per it.businessinsider.com il 16 aprile 2020. Ogni volta che pagate un caffè da Starbucks in Italia state, indirettamente, mandando dei soldi a una finanziaria in Olanda. Succede la stessa cosa con le prenotazioni via Booking e con decine di multinazionale americane che lavorano in Europa: il gioco è piuttosto semplice per ogni frappuccino – o stanza d’albergo – venduto; la filiale italiane deve versare alla società olandese un royalty per l’utilizzo del marchio. Il risultato è immediato: gli utili in Italia si riducono, quelli in Olanda crescono. E ogni anno, in questo modo, i Paesi Bassi sottraggono all’Italia 1,5 miliardi di dollari di imposte, solo grazie alle multinazionali americane che sono ben felici di versare a nord delle Alpi appena 300 milioni di dollari. Già anziché pagare 5 dollari di tasse dove vengono generati gli utili, le società americane riescono a versare un dollaro nelle casse di Amsterdam. Un giochino che drena ai Paesi europei almeno 10 miliardi di dollari l’anno e ne porta 2,2 in Olanda. Un beneficio che senza l’Unione europea gli olandesi non avrebbero, eppure sono gli stessi a non muoversi di un millimetro nei confronti degli Eurobond. E se da un lato è comprensibile che gli alleati europei non si fidino dell’Italia e temano che eventuali prestiti agevolati aumentino gli sprechi di un Paese incapace anche di utilizzare i fondi strutturali (per non parlare l’assoluta mancanza di progettualità che ha contraddistinto gli ultimi anni della politica economica tricolore); dall’altro è pazzesco che a farsi paladino della giustizia sia uno Stato che figura al quarto posto tra i paradisi fiscali in tutte le classifiche del mondo. Gli esperti di Tax Justice hanno calcolato che solo considerando il trasferimento dei profitti europei delle multinazionali americane verso i Paesi Bassi, al Vecchio continente manchino almeno 10 miliardi di dollari l’anno: 1,5 solo all’Italia. Considerando che il meccanismo è molto diffuso anche tra le aziende italiane è chiaro che il danno per l’erario perpetrato dagli intransigenti olandesi è molto più ampio. Anche perché la strategia aggressiva del governo dell’Aja ha innescato una corsa al ribasso sul fronte del trattamento fiscale delle imprese all’interno della Ue: una sorta di dumping fiscale che “ha accelerato la corsa al ribasso delle aliquote sulle imposte per le società in Europa che sono diminuite di circa dieci punti negli ultimi dieci anni”. Il paradosso è che l’intera Unione europea rischia ora di collassare per l’intransigenza di uno dei Paesi che maggiormente beneficia del meccanismo comunitario giocando sulla libera circolazione dei capitali e – di conseguenza – sulla possibilità per le multinazionali di spostare gli utili dove meglio credono. “Nel caso delle società americane – si legge sullo studio di Tax Justice – a fronte di 70 miliardi di utili le tasse pagate nel paese ammontano a 3,4 miliardi. Motivo per cui i profitti in Olanda, pari all’8% del Pil del Paese, superano tutti quelli registrati all’interno della Ue. Senza questo atteggiamento, gli olandesi incasserebbero un decimo delle imposte che ottengono mentre i vicini europei raddoppierebbero o triplicherebbero gli introiti”. L’Olanda quindi è riuscita a creare un vero e proprio modello di business grazie alla competizione fiscale grazie alla lotta della Ue nei confronti dei paradisi fiscali extracomunitari. E così offrendo condizioni vantaggiose minano i sistemi fiscali degli altri Paesi membri, gli stessi a cui oggi rifiutano il via libera agli Eurobond. Un ampio trattato sulla doppia tassazione che diversi paesi che permette di ridurre in maniera sostanziale le ritenute su dividendi, interessi e royalty;
Tax ruling, ovvero la possibilità di firmare accordi segreti con il governo per definire il livello di imposizione fiscale (d’altra parte i Paesi Bassi sono lo stato membro più riservato della Ue secondo 2020 Financial Secrecy Index);
Offrono diversi incentivi fiscali e permettono di evitare le tasse statunitensi. Non è un caso dunque che il 91% delle maggiori multinazionali del mondo abbia una finanziaria nei Paesi Bassi. Tuttavia, se l’Olanda non fosse un Paese comunitario, gran parte dell’elusione fiscale sarebbe impossibile. Il gioco è piuttosto semplice: “Per ogni caffè venduto da Starbucks Italia – spiega Tax Justice -, viene effettuato un pagamento a Starbucks Paesi Bassi per l’utilizzo del marchio. Un meccanismo che riduce i profitti della filiale italiana aumentando quelli della società olandese. Il pagamento infragruppo, però, non può essere tassato in base a una direttiva del 2003”. Come a dire che senza la Ue il trasferimento di utili verso la minor aliquota sarebbe impossibile. Un meccanismo che usano tantissime multinazionale, da Startbucks a Booking e che ogni anno erode la base imponibile italiana. In termini di sanità, 1,5 miliardi di dollari sono oltre il doppio del costo di gestione di un ospedale come il San Raffaele. Insomma, se negli ultimi 15 anni l’Italia ha dovuto dimezzare i numeri di posti letto in terapia intensiva, le responsabilità sono certamente della politica, la mancanza di fondi anche colpa dell’Olanda che oggi dice no agli Eurobond
A proposito di, Garanzie, Sfiducia e Debito Pubblico. Parliamo della Germania.
La Germania non ha fiducia nell’Italia nell’onorare i suoi debiti. L’Italia è reputata indebitata, inaffidabile e senza garanzie.
La Germania è forte dei suoi artifici contabili e dell’irriconoscenza. I suoi debiti non li ha mai pagati come dopo la Prima Guerra Mondiale, o se li è visti in gran parte condonare come dopo la Seconda Guerra Mondiale. E gli sforamenti del 2003 del tetto del 3 % deficit/pil? Dimenticati?
(Reuters il 5 maggio 2020) - Le normative comunitarie prevalgono sulla Costituzione tedesca e le sentenze dell’alta Corte Ue sono vincolanti anche per la Corte Costituzionale tedesca. Lo sostiene la Commissione Ue commentando la sentenza della Corte costituzionale tedesca secondo cui la Bundesbank deve interrompere entro tre mesi l’acquisto di titoli di Stato nell’ambito del programma di stimolo a lungo termine della Bce, a meno che Francoforte non ne dimostri la necessità. La sentenza tedesca è arrivata nonostante la sentenza della Corte di giustizia europea del 2018 che giudicava il programma di acquisto di bond della Bce conforme al diritto comunitario. “Nonostante l’analisi dei dettagli della decisione della Corte costituzionale tedesca, ribadiamo oggi il primato del diritto dell’Unione europea e il fatto che le sentenze della Corte di giustizia europea sono vincolanti per tutti i tribunali nazionali”, dice la Commissione.
Giuseppe Liturri per startmag.it. Oggi è stato l’ultimo giorno di lavoro per il professor Andreas Vosskuhle e, in qualità di presidente della Corte Costituzionale tedesca, ha pensato bene di posare una bella striscia di asfalto bollente su tutta la precaria costruzione europea. No, il professor Vosskuhle non si è affatto accontentato di mettere in discussione le decisioni adottate dalla BCE a partire dal marzo 2015 e cioè gli acquisti di titoli (pubblici per la gran parte, ma anche obbligazioni di società private), ma ha scosso dalle fondamenta almeno altri due pilastri: l’indipendenza della Bce ed il rapporto con la Corte di Giustizia Europea con sede a Lussemburgo. Se questo non è un ordigno nucleare lanciato su Bruxelles e Francoforte, non sappiamo cos’altro possa mai esserlo. “Una dichiarazione di guerra”, l’ha definita il professor Clemens Fuest dell’IFO di Monaco di Baviera.
Andiamo con ordine: La Corte non è in grado di giudicare se gli acquisti partiti nel marzo 2015 costituiscono una violazione dei Trattati, soprattutto sotto il profilo della proporzionalità tra strumenti messi in campo, risultati ottenuti e, soprattutto, obiettivi che rientrano nel mandato della Bce. In parole povere, è come se la Corte tedesca mettesse in discussione non solo il diritto del cacciatore di usare il fucile, ma volesse capire anche se il bersaglio rientra tra quelli a cui gli è consentito mirare. Il cacciatore (ovvero la BCE) non ne esce benissimo. La conseguenza è l’”ordine” dato alla Bundesbank di non partecipare, dopo un periodo transitorio di 3 mesi, al programma PSPP a meno che la BCE adotti una decisione da cui emerga in modo chiaro e sostanziale questa valutazione di proporzionalità. La Corte arriva a questo risultato dicendo chiaro e tondo alla Corte di Giustizia che, pur rispettando il suo ruolo, quando il suo metodo di interpretazione non è condiviso, allora deve necessariamente intervenire.
Le conseguenze sono di diverso tipo: Il programma PSPP, la cui legalità era stata già validata dalla Corte di Giustizia nel dicembre 2018, può continuare ma la BCE sarà in seria difficoltà nel dimostrarne l’aderenza ai limiti che la stessa Corte Europea stabilì all’epoca (limite del 33% dei titoli di uno Stato e base di ripartizione degli acquisti rigida, durata limitata). Nelle ultime settimane tali acquisti hanno seriamente deviato da quelle regole. Il programma PEPP, varato a marzo per 750 miliardi, di cui si prevedeva un ampliamento con la massima flessibilità e “senza limiti”, diventa candidato ad essere seriamente impallinato in un prossimo ricorso; Si apre uno scenario di totale incertezza sui rapporti istituzionali all’interno della UE.
E l’Italia? La Corte tedesca trasmette un messaggio banale, ma chiaro: l’intervento della BCE costa, non è gratis. Se avete bisogno di assistenza finanziaria, rivolgetevi al MES. Anni di paziente lavoro di tessitura di Mario Draghi gettati nel cestino della spazzatura in 4 cartelle.
DAGONOTA il 5 maggio 2020. Che cosa abbiamo capito dalla sentenza della Corte Costituzionale tedesca sull'acquisto di titoli da parte della BCE?
1. I veri sovranisti sono a Karlsruhe e che i nostri al confronto sono dei fan di Bruxelles.
2. La (inesistente) costituzione tedesca – si chiama Legge Fondamentale – è superiore al diritto comunitario. Anzi, di più: che la Corte di Giustizia dell'Unione Europea non ha l'autorità di interpretare i trattati, visto che i giudici tedeschi possono considerare tale interpretazione ''irrazionale''.
3. La BCE deve smetterla con la politica economica e limitarsi alla politica monetaria. Chi li stabilisce questi labilissimi confini? Sempre lei, la Corte Costituzionale tedesca.
4. La monetarizzazione del debito e dunque delle crisi (attuata da sempre e anche nell'attuale emergenza da Stati Uniti, Regno Unito, Giappone ecc.) non sarà più concessa all'Eurozona, salvo mettere in atto programmi in stile Grecia per chiunque la richieda- Indiziato numero uno: l'Italia.
5. Ci vorrà davvero poco per vedere presentati ricorsi nei tribunali tedeschi contro il PEPP, l'attuale programma di acquisto titoli lanciato da Lagarde, visto che quelli contro il PSPP hanno portato ottimi risultati. Chi crede che la pandemia intenerirà gli imprenditori o i giudici tedeschi, non conosce l'ortodossia tedesca.
6. Che la BCE non è più indipendente, anzi non lo è mai stata, e le mosse di Draghi sono andate in aperta violazione del diritto tedesco. E, dice la corte, il principio di attribuzione (uno dei cardini dell'UE) è stato violato perché la Germania non ha mai attribuito alla BCE il potere di acquisti ''senza proporzionalità''. E qualsiasi competenza non attribuita all’Unione europea dai trattati resta quindi dei paesi dell’UE.
7. D'ora in poi, e così si chiude la sentenza, il governo federale e il parlamento tedesco dovranno verificare che la BCE conduca una valutazione di proporzionalità sulle sue decisioni. ''La conformità con i trattati deve essere ristabilita''. Una bella sveglia per chi sognava acquisti illimitati da parte della banca centrale, come fanno tutte le altre banche centrali tranne la nostra.
Schiaffo della Corte Costituzionale tedesca alla Ue. Dolores Utrilla su Il Riformista il 10 Maggio 2020. I giudici del Tribunale costituzionale tedesco (Bundesverfassunsgericht) il 5 maggio scorso hanno stabilito, per la prima volta nella storia, che la Corte di giustizia europea con sede in Lussemburgo ha agito al di fuori delle sue competenze, ultra vires, cioè illegalmente, nel 2018 quando ha emesso una sentenza sull’acquisto di debito pubblico. I giudici hanno deciso anche che quella sentenza non è applicabile in Germania. Si tratta di una dichiarazione di guerra. Il Diritto è uno dei principali strumenti con i quali è stato costruito il progetto comune europeo dalle sue origini, dagli anni Cinquanta. Stabilire norme comuni che, in caso di disaccordo, prevalgono sugli ordinamenti giuridici degli Stati membri è stato possibile grazie al principio della prevalenza del Diritto europeo e alla cooperazione leale tra i tribunali nazionali e la Corte di giustizia europea. Entrambi i principi sono stati fatti saltare in aria dai giudici del Tribunale costituzionale tedesco. Capiamoci. Da decenni i tribunali costituzionali di buona parte degli Stati membri hanno tentato di metter paletti al principio di prevalenza del Diritto della Ue e al conseguente potere della Corte di giustizia europea per avere l’ultima parola nei conflitti relativi alle norme europee. La Corte del Lussemburgo sa che, nel caso di scontro frontale tra norme europee e principi essenziali delle singole Costituzioni nazionali, l’intenzione di molti sarebbe quella di far cadere la norma europea e considerare come prevalente il Diritto interno e quindi la interpretazione che del Diritto interno fa il corrispondente Tribunale costituzionale nazionale. Karlsruhe, cioè la Corte costituzionale tedesca, di questa dottrina dei “controlimiti” è sempre stata la principale esponente. Ha sempre avuto un fervente attivismo nel proteggere il suo ordine costituzionale interno rispetto alle istituzioni europee. Finora però questi “controlimiti” erano stati solo branditi in modo figurato, mai applicati, e la relazione tra Corte di giustizia europea (Lussemburgo) e Tribunale costituzionale tedesco (Karlsruhe) si era mantenuta entro i limiti della cooperazione e della lealtà istituzionale. C’era finora un difficile equilibrio di potere, ma pur sempre un equilibrio, tra due entità entrambe molto potenti. Il 5 maggio quest’equilibrio è andato in frantumi. I giudici tedeschi hanno emesso una sentenza che per la prima volta dall’inizio della costruzione europea disobbedisce apertamente a una risoluzione della Corte europea definendola “obiettivamente arbitraria” e “insostenibile come metodo”. La sentenza tedesca si riferisce alla seguente questione: la Banca centrale europea può comprare debito sovrano nei mercati secondari o, se lo fa, invade l’ambito di potere riservato agli Stati membri? È successo questo. Andiamo con ordine. Prima di decidere sul caso, poiché gli unici giudici competenti a giudicare l’attività della Banca centrale europea sono i magistrati della Corte di giustizia europea di Lussemburgo, il Tribunale costituzionale tedesco ha chiesto alla Corte di Lussemburgo che giudicasse lei l’attuazione della Banca centrale europea nel programma di acquisto del debito pubblico dell’anno 2015. La corte di Lussemburgo ha risposto con una sentenza del dicembre del 2018. La sentenza Weiss. I giudici si sono astenuti dall’esprimere un giudizio di merito sulle decisioni della Bce, si sono rifiutati di esprimersi sui dettagli. Si sono limitati a giudicare gli elementi formali delle decisioni prese dalla Banca centrale europea e hanno accettato come giusti gli obiettivi perseguiti dal programma di acquisto del debito pubblico rifiutandosi di inoltrarsi nell’analisi degli effetti economici di quelle decisioni. Cosa hanno fatto i giudici costituzionali tedesca quel punto? Dopo un anno e mezzo d’attesa, hanno deciso ora che la Banca centrale europea può comprare debito nei mercati secondari soltanto se dimostra e giustifica in modo dettagliato l’esistenza di una relazione di proporzionalità tra questa misura monetaria e i suoi effetti puramente economici. La Corte tedesca conclude che tanto la Banca centrale europea quanto la Corte di giustizia europea hanno agito fuori dalle loro competenze invadendo la sovranità tedesca. La Banca centrale europea l’avrebbe fatto quando non ha giustificato a sufficienza la proporzionalità del programma di acquisto del debito pubblico e la corte di giustizia europea l’avrebbe fatto quando non ha esaminato nel modo richiesto dai tedeschi le decisioni prese in passato dalla Banca centrale europea. In conseguenza di ciò il tribunale costituzionale tedesco dichiara, per la prima volta, una sentenza della Corte europea inapplicabile in Germania e si attribuisce in maniera unilaterale la capacità di decidere sull’efficacia delle decisioni della Banca centrale europea nel territorio tedesco. Può sembrare che il problema si riduca a una disputa di tipo tecnico tra due tribunali, ma non è assolutamente così. Convertendosi per decisione propria nel primo tribunale costituzionale di un Paese europeo a dichiarare apertamente la illegittimità di una sentenza della Corte di giustizia europea e la sua inapplicabilità nel proprio territorio, il Tribunale costituzionale tedesco ha terremotato in profondità la autorità della giurisdizione europea in un contesto di crisi senza precedenti per la Ue. Ha aperto chiaramente il cammino a potenziali comportamenti apertamente dissidenti in altri Stati membri, soprattutto in quelli immersi in una crisi dello Stato di diritto. Se la Germania lo può fare, lo può fare anche Varsavia o Budapest. Ma c’è di più. Il Tribunale costituzionale tedesco ha sì messo le mani avanti facendo capire che la sua sentenza non riguarda le misure di assistenza finanziaria adottate durante la crisi attuale in chiara allusione al programma di acquisto di debito pubblico per 750.000 milioni di euro che sta molto a cuore dell’Italia e della Spagna. Ciò nonostante la postura del Tribunale costituzionale tedesco aggiunge un nuovo livello di controllo sui comportamenti della Banca centrale europea in risposta alle crisi provocate dal coronavirus nella zona euro. Inoltre la sentenza tedesca dispone che le condizioni centrali dei programmi di acquisto del debito pubblico non possono essere stabilite in modo flessibile e aperto in modo da permettere il loro adattamento all’evoluzione delle circostanze. Le decisioni prese dalla Banca centrale europea nella crisi del coronavirus sono caratterizzate dalla loro flessibilità. Quindi il grande dubbio è come reagiranno gli investitori tedeschi e lo stesso Tribunale costituzionale tedesco di fronte la più che probabile valanga di ricorsi da qui ai prossimi anni. Staremo a vedere quale sarà l’impatto economico reale di questa sentenza sulla crisi attuale nella zona euro. Quello che sì è già molto chiaro è che il Tribunale costituzionale che fino adesso aveva contribuito in maggior misura al processo di integrazione giuridica europea ha appena assestato un colpo durissimo, potenzialmente letale, allo Stato di diritto Europa. E l’ha fatto adesso, in un momento in cui Bruxelles, Lussemburgo e Francoforte hanno bisogno più che mai di poter fare “what ever it takes” al fine di garantire la continuità del progetto europeo di fronte al successo dei movimenti populisti e alle reticenze degli Stati membri del Nord a dare una risposta solidale alla crisi causate dalla pandemia.
Paolo Valentino per il “Corriere della Sera” il 6 maggio 2020.
Cosa comporta per la Germania e per la cancelliera Merkel la decisione della Corte costituzionale sulla Bce?
«Sul piano operativo non molto. La Bce ha 3 mesi di tempo per giustificare la sua azione e non mi pare sia un compito insuperabile. Ma il segnale è forte sul piano giuridico e politico, sia interno che esterno. I giudici di Karlsruhe hanno mostrato ancora una volta che nei casi di conflitto vogliono l'ultima parola. E poi l' attacco è stato portato alla Corte di giustizia europea, proprio nel momento in cui quest' ultima ha bisogno di un' autorità forte per far pressione su quei Paesi che non rispettano gli standard democratici come Ungheria e Polonia. Mi chiedo se la Corte costituzionale tedesca abbia agito con saggezza. È un paradosso, perché l' attuale presidente della Corte, Vosskuhle, ha molto a cuore l' Europa». Giovanni di Lorenzo è il direttore del settimanale Die Zeit .
Alla vigilia del vertice di Merkel con i premier dei Länder, crescono le pressioni per una riapertura delle attività economiche e della società. La situazione sta sfuggendo di mano?
«Un pochino sì. In parte è dovuto all' impazienza del mondo economico, in parte a quella dei cittadini che si sono visti limitati nei loro diritti privati e hanno paura di perdere ancora reddito. in più c'è il fattore federalismo, una specialità tedesca, che ha alcuni svantaggi perché impedisce una gestione centralizzata, ma offre anche il grande vantaggio di garantire tanti laboratori in cui sperimentare come sia possibile arginare il virus e allo stesso tempo non far crollare l' economia del Paese».
Cosa farà Angela Merkel?
«Cercherà di riprendere in mano i fili delle diverse strategie per far ripartire il Paese, sapendo che la competenza resta dei singoli Länder. Ci potrebbe anche essere la decisione di riprendere la Bundesliga a fine maggio. L'autorità della cancelliera però non deve soffrire troppo, perché ce ne sarebbe bisogno nel caso di una seconda ondata del virus. La prima fase è andata tutto sommato bene. Merkel ha parlato direttamente al popolo, che in lei ha ripreso fiducia. Ricordiamo che lo sfondo è una quota di nuovi contagi in costante discesa, oggi siamo a 670, il numero più basso da oltre un mese. Ora è a un passaggio rischioso, deve trovare la giusta mediazione tra i Länder, che in questi giorni hanno fatto a gara a chi riapre prima e di più».
Schäuble ha aperto un dibattito importante ma divisivo, dicendo che è sbagliato dare priorità alla difesa della vita umana: bisogna privilegiare la dignità della vita. È un tema a Berlino?
«Senz' altro. È venuto in un momento nel quale si delineava una spaccatura, tra chi voleva un ritorno rapido alla normalità e chi vi vedeva una minaccia alla propria salute. Oggi sul tema ospitiamo un intervento di Habermas».
Il ministro degli Interni Seehofer ha confermato che la voce su una quinta candidatura di Merkel è ricorrente.
«Che è più facile per il famoso cammello passare per la cruna dell' ago piuttosto che per la cancelliera assumersi la responsabilità di un quinto mandato. Impensabile».
Antonio Pollio Salimbeni per “il Messaggero” l'11 maggio 2020. È muro contro muro sulla sentenza della Corte costituzionale tedesca che, se dovesse ritenere non soddisfacenti i chiarimenti della Bce, svincolerebbe la Bundesbank dalla partecipazione al programma anticrisi di acquisto di titoli pubblici che ha tenuto in piedi l'Eurozona finora. Dopo qualche giorno di esitazione la presidente della Commissione Ursula von der Leyen ha pronunciato la parola magica: infrazione. Ventilando una procedura a carico della Germania se la corte federale costituzionale di Karlsruhe andasse fino alle estreme conseguenze mettendo in dubbio le basi su cui si fonda la Ue. Prima in una risposta scritta all'eurodeputato tedesco verde Sven Giegold poi con una nota ufficiale, von der Leyen è uscita allo scoperto, sulla scia della Corte di giustizia europea, che l'altro giorno aveva indicato come i giudici nazionali siano vincolati alle sue sentenze. La Commissione è garante dei trattati, dunque non poteva continuare a tacere mentre monta l'incertezza sulla libertà di manovra della Bce per stabilizzare le aspettative circa la tenuta finanziaria di diversi paesi (in primo luogo dell'Italia). «La sentenza della Corte costituzionale tedesca ha acceso i riflettori su due elementi dell'Unione: il sistema dell'euro e il funzionamento della struttura giuridica Ue dice von der Leyen -. La Commissione sostiene tre principi chiave: la politica monetaria dell'Unione è una competenza esclusiva (della Bce ndr), il primato delle norme Ue sul diritto nazionale; le sentenze della Corte Ue sono vincolanti per tutte le corti nazionali». Per cui, «l'ultima parola sul diritto Ue viene sempre detta a Lussemburgo, non altrove». Il compito della Commissione è «salvaguardare il corretto funzionamento del sistema dell'euro e di quello giuridico-legale dell'Unione. Stiamo quindi analizzando nel dettaglio la sentenza della Corte tedesca e valuteremo i prossimi passi da compiere, inclusa l'opzione dell'avvio di procedure di infrazione». Questa la conclusione: «L'Unione è una comunità di valori e di norme che deve essere salvaguardata e difesa in ogni momento. tutte le volte che ce ne sia bisogno: Questo è ciò che ci tiene uniti e per cui ci battiamo». Il caso va ben al di là della storica difesa delle prerogative nazionali da parte della Corte costituzionale tedesca, secondo cui i giudici Ue sono andati al di là dei propri poteri giudicando gli acquisti di titoli sovrani da parte della Bce proporzionati agli obiettivi di politica monetaria. In gioco ci sono la primazia del diritto Ue sul diritto nazionale, la stessa indipendenza della Bce e della Bundesbank. La quale, se entro tre mesi la Bce non dimostrerà agli occhi dei giudici tedeschi - che il programma sul debito sovrano è «proporzionato», dovrebbe ritirarsi da quelle operazioni. Una spada di Damocle su oltre 500 miliardi in titoli sovrani acquistati dal 2015 che dovrebbero essere venduti sul mercato. E pure un'ombra pesante sugli acquisti in corso, questa volta anche al di là della quota che ogni paese detiene nel capitale della Bce. C'è anche un altro aspetto politico rilevante: la sentenza tedesca è diventata una bandiera per Ungheria e Polonia da tempo sotto tiro Ue sul rispetto dello stato di diritto e sulle politiche sull'immigrazione. Paesi capifila nella battaglia contro l'eccesso di competenze Ue e della Corte di giustizia. Per il premier polacco Morawiecki per la prima volta hanno fissato «i limiti delle istituzioni Ue». Ma è evidente, ha commentato il giurista Pietro Manzini, che «se gli stati potessero applicare o disapplicare il diritto Ue a seconda dei loro interessi, in pochi mesi l'intero sistema si sfalderebbe».
Tonia Mastrobuoni per “la Repubblica” il 7 maggio 2020. Jens Weidmann è schierato da mesi accanto a Christine Lagarde. E non solo per la charm offensive avviata dalla presidente della Bce nei confronti della Bundesbank sin dall' insediamento, un po' per uscire dall' ombra di Mario Draghi, un po' per l' esigenza di reintegrare l' azionista di maggioranza - la Germania - in un consesso in cui si era sempre più isolata. Ma, a partire da marzo, è stata la grande pandemia ad annullare le consuete obiezioni dei "falchi" verso le mosse straordinarie della Bce: anche la Bundesbank è perfettamente consapevole delle apocalittiche dimensioni della crisi. Quando Lagarde ha varato un nuovo piano di emergenza da 750 miliardi di euro, togliendo via via tutti i paletti per essere sicura di poter comprare anche titoli italiani a sufficienza, i distinguo sono stati irrisori. L'ortodossia ordoliberale tedesca, però, ha deciso di vendicarsi altrove. La decisione dei giudici di Karlsruhe di considerare il "quantitative easing" «sproporzionato», dunque un' azione di politica economica e non più solo monetaria, e di giudicare una sentenza della Corte europea carta straccia, getta non solo Lagarde, ma anche la Bundesbank, il governo Merkel e il Parlamento, in un dilemma enorme. Schiere di giuristi a Francoforte e Berlino si stanno già rompendo la testa su da farsi: l' esecutivo e il Bundestag sono stati esortati esplicitamente a pronunciarsi. Anche se il punto di partenza, rispetto a un verdetto potenzialmente dirompente, è buono. Lagarde, Weidmann e Merkel sembrano remare tutti nella stessa direzione. Ma tre mesi sono tanti, e nella Cdu, nel partito di Angela Merkel, qualcuno a microfoni spenti ragiona già sul fatto che il governo dovrebbe chiedere di introdurre dei paletti all' agire della Bce, quando il governo formulerà una proposta da far votare al Parlamento. Ieri dalla Bundesbank trapelavano rassicurazioni sul fatto che non ha alcuna intenzione di farsi cacciare dal programma di acquisti di titoli di Stato, il cosiddetto Qe, avviato nel 2015 e messo nel mirino dall' Alta corte. Gli uomini di Jens Weidmann sono pronti a collaborare con la Bce, chiamata a motivare il suo Qe entro tre mesi. E in una dichiarazione resa al settimanale Zeit, Weidmann ha già chiarito che le misure straordinarie della Banca centrale europea «sono state necessarie per sostenere l' economia dell' eurozona, anche se le opinioni sono state differenti sui dettagli di quelle misure». Lagarde e Weidmann hanno dunque intenzione di lavorare fianco a fianco per fornire i necessari chiarimenti e giustificare il piano. Il nodo, non semplice da sbrogliare, è che devono convincere i togati tedeschi che la Bce non fa politica economica. Un rischio dal quale Weidmann stesso, però, aveva messo in guardia, in passato. E alle orecchie del presidente della Bundesbank non devono suonare neanche troppo infondate alcune accuse dei togati, come quella che la Bce espropria i risparmiatori. Per Weidmann sarà un frangente di dilemmi amletici, ma il presidente della Bundesbank non ha mai perso di vista la gravità della crisi ed è probabile che non lo farà neanche ora. Dalla Bce, invece, fanno capire che non dovrebbe essere troppo complicato fornire spiegazioni convincenti per il Qe. Ma i problemi sono altri. Primo, non è così facile trincerarsi dietro il fatto che c' è una sentenza della Corte di giustizia europea che fa giurisprudenza, se la Bundesbank e il Bundestag devono tenere conto dei rilievi dell' Alta corte tedesca. In secondo luogo, a Francoforte temono nuovi ricorsi tedeschi contro il maxi piano da 750 miliardi appena varato: soprattutto perché non ha quei paletti che hanno graziato il Qe dalla condanna più temuta: quella di travalicare il mandato della Bce e di ledere il divieto di monetizzare il debito. È stata sempre la Bce a far capire che è pronta a prendere anche ulteriori iniziative (aumentare il piano di acquisti) se la crisi le renderà necessarie. Senza farsi intimidire dai rilievi di Karlsruhe.
Marco Bresolin per “la Stampa” il 7 maggio 2020. «Dopo la sentenza della Corte Costituzionale tedesca penso che la Bce abbia reagito da istituzione indipendente, con una dichiarazione perfetta. Ha preso atto del verdetto, ha ricordato che la Corte di giustizia europea, che è la Corte superiore, ha approvato le politiche della Bce e ha ribadito il suo impegno a raggiungere un aumento dell' inflazione appena inferiore al 2% con la trasmissione della politica monetaria a tutti i Paesi dell'Eurozona. Un ottimo inizio di risposta». Dal 2010 al 2018, Vítor Constancio è stato vicepresidente della Banca centrale europea. Nel marzo del 2015 l' economista portoghese era al fianco di Mario Draghi quando la Bce lanciò il Pspp, il cosiddetto "Quantitative Easing" messo sotto accusa dai giudici tedeschi.
La Bce dovrebbe fornire alla Corte di Karlsruhe i chiarimenti richiesti oppure ignorarli?
«La Bce dovrebbe autorizzare la Bundesbank a inviare alla Corte tutta la vasta documentazione, pubblica e interna, compresi i verbali delle riunioni del 2015, dimostrando che tutte le possibili conseguenze del programma di acquisto sono state discusse e valutate».
Quali passi dovrebbe compiere l'Ue, invece, per sciogliere il conflitto giuridico?
«La Corte di giustizia Ue dovrebbe essere chiamata a intervenire e ribadire la supremazia del diritto Ue e della Corte stessa per quanto riguarda le questioni relative a un' istituzione europea, come la Bce. Non possono esserci due ordini giuridici in merito a questioni che gli Stati membri hanno concordato di trasferire alle istanze europee nei trattati. In caso contrario, le Corti polacche e ungheresi potrebbero affermare di non dover rispettare i principi dei diritti fondamentali dei trattati europei sanciti dalla Corte Ue. La politica monetaria europea non può essere messa sotto la tutela dei tribunali nazionali, ma solo di quella della Corte Ue».
Molti esperti ritengono che la Bce sarà in grado di giustificare la proporzionalità del Pspp, ma che il piano di acquisto di titoli lanciato recentemente da Christine Lagarde (Pepp) sia a rischio: concorda?
«La Corte costituzionale tedesca ha dichiarato che la sua decisione non riguarda i nuovi programmi di acquisto per far fronte alla crisi Covid-19. Tuttavia, si è creato il rischio che emergano nuove cause giudiziarie in Germania contro tali programmi. Un'eventuale decisione finale arriverebbe comunque a crisi già terminata. Il grande rischio è per il futuro delle politiche di Quantitave easing, perseguito ovunque nei paesi economicamente avanzati, e a mio avviso necessario per diversi anni a venire».
Per l'Italia l'accesso al Mes potrebbe essere una via per assicurare l'attivazione del piano Omt per l'acquisto illimitato di titoli da parte della Bce?
«Come ho detto, non credo che Pepp sarà cambiato ora e potrebbe anche essere necessario aumentarlo. Una linea di credito del Mes (Eccl) nelle condizioni attuali, con una scadenza di due anni, non sembra molto attraente. Tuttavia, l'Eccl con monitoraggio leggero e l'Omt fanno parte di una rete di sicurezza che può essere utile. Il Mes non dovrebbe essere demonizzato come è avvenuto in Italia da un segmento dell' opinione pubblica. L'Italia e altri Paesi potrebbero un giorno averne bisogno».
Crede che questa vicenda possa rappresentare un ostacolo a un Recovery Fund più ambizioso?
«Semmai dovrebbe essere una spinta. Indipendentemente dalla sentenza della Corte, l'Unione monetaria necessita di una forte componente di bilancio a livello europeo. Ciò dovrebbe iniziare con l' approvazione di un Recovery Fund significativo, creato con l'indebitamento della Commissione Ue per eseguire trasferimenti di bilancio verso i Paesi per due anni, come ho proposto anche prima delle decisioni del Consiglio europeo. Finora le politiche monetarie e fiscali hanno riguardato il salvataggio e l' aiuto, mantenendo solo a galla l' economia. Ma un vero stimolo è necessario perché la ripresa delle spese private sarà lenta e debole».
I Paesi con il debito pubblico sopra i 2 miliardi: Germania. Quifinanza.it il 4 gennaio 2019. Per anni il debito pubblico della Germania è aumentato di pari passo con quello italiano: nel 2012 ha toccato i 2.202 miliardi, ma è successivamente sceso attestandosi a quota 2.092 miliardi di euro nel 2017. Sebbene il debito non sembri discostarsi tanto da quello italiano, è grande la differenza tra i PIL dei due Paesi europei. Il Paese della cancelliera Angela Merkel può vantare un prodotto interno lordo di 3.424 miliardi di euro, mentre quello nostrano è bloccato a 1.867 miliardi. Per questo l'economia di Berlino risulta essere ben più solida di quella di Roma e desta meno preoccupazioni ai vertici d'Europa.
La nota politica. Sul debito pubblico l'Italia non è credibile. Marco Bertoncini su Italia Oggi n. 74 pag 4 del 28 marzo 2020. Lasciamo da parte le polemiche sul rigore nordico contrapposto al dispendio meridionale. Lasciamo da parte i richiami di Germania, Paesi Bassi e sodali ai latini (Italia, Spagna e da ultimo Francia). Lasciamo da parte decimali, asticelle già definite stupide, patti, limiti ecc. Chiediamoci invece francamente: come l'Italia si è comportata col proprio debito pubblico? La risposta è semplice: l'ha costantemente fatto crescere. Qualsiasi impegno per ridurlo, fosse pure di un paio di decimi percentuali, ogni anno è stato fatto slittare all'anno successivo. È sempre stata palese la volontà di presidenti del Consiglio e ministri delle Finanze di non curarsi del macigno. Che crescesse pure. Così, la costante richiesta rivolta a Bruxelles era avanzata sotto la paroletta risolutrice: flessibilità. Tradotto significava nuovo debito pubblico, quasi non pesasse quello già da pagare. Matteo Renzi ricorda sovente che la generazione al potere lascerà in eredità ai giovani di oggi una congerie di debiti. Verissimo: come mai però lui stesso era arrivato a contrattare con l'Ue maggiore flessibilità in cambio di una disponibilità bergogliana all'accoglienza indiscriminata dei migranti? Da lustri si discute di tagliare la spesa pubblica. Ottimo: però fra redditi di cittadinanza e quote 100 i governi, quale che ne fosse la maggioranza di sostegno, si sono costantemente impegnati per incrementare le uscite, con una disinvoltura perfino arrogante. Il problema non era tanto l'Europa, quanto elementari esigenze di bilancio, indipendentemente dalle regole continentali. Quale credito può avere un titolo del debito pubblico di una nazione che non solo spende, ma altresì sciupa, senza mai riformare lavoro, istruzione, giustizia?
Di debito pubblico coi tedeschi è proprio inutile discutere. Sergio Luciano su Italia Oggi n. 271 pag 4 del 16 novembre 2019. Fate un esperimento facile-facile, tanto che c'è da scusarsi con chi già sa tutto: andate su Google e attivate la funzionalità «traduttore». Scrivete nel campo della lingua italiana la parola «debito» e richiedete la traduzione in tedesco. Vi apparirà la parola «schuld». Poi cambiate la parola italiana con «colpa» e vedrete cosa apparirà: nuovamente «schuld». Se è vero, come scrive Dante, che «nomina sunt consequentia rerum», cioè che i nomi dipendono dal senso delle cose che indicano, è chiarissimo perché mai i tedeschi siano così fissati contro il debito pubblico. Per loro indebitarsi è proprio una colpa, non c'è niente da fare. Niente di più logico, dunque, dell'atteggiamento ipocrita di Berlino nei confronti di qualsiasi ipotesi di unione effettiva del rischio finanziario tra gli Stati dell'eurozona. La Germania, avendo come principale prerogativa virtuosa quella del minimo indebitamento, sia pubblico che privato, detesta la minima ipotesi di contaminazione con la situazione degli altri grandi Paesi europei, come soprattutto l'Italia che ha, sì, una grande ricchezza privata ma ha un enorme debito pubblico, e non riesce naturalmente a compensare l'uno con l'altra a dispetto dei tentativi di molti, a cominciare da Giulio Tremonti. Nessuna meraviglia, dunque, se l'attuale ministro delle Finanze tedesco Olaf Scholz finge di dire qualcosa di europeista sul tema dell'Unione bancaria ma lo fa solo per riaffermare ancora una volta la differenza virtuosa tra la sua Germania e gli altri. Scholz ha auspicato il completamento dell'Unione bancaria con la costituzione di uno schema comune di assicurazione sui depositi, una specie di superfondo bancario di garanzia. Ma ha anche aggiunto che, nel quadro di questa riforma, sarebbe necessario che l'entità dei titoli di Stato detenuta dalle banche di tutti i Paesi venisse fatta rientrare nel novero degli asset da coprire con accantonamenti antirischio, perché – ha detto – «i titoli sovrani non sono un investimento privo di rischio. Le banche dovrebbero pertanto prevedere un accantonamento per i rischi derivanti dal debito sovrano entro un periodo di transizione appropriato». Vecchio argomento, questo. Incontrovertibile: come dargli torto? Peccato però che, a ben vedere, sia un argomento-matrioska. Se io banca italiana vivo e opero in Italia, risento del rischio Paese in ogni caso. E dunque se il Paese va in default sono fregata a prescindere da quanti titoli di Stato abbia in pancia. Farmi accantonare soldi in più per bilanciare questo rischio basale è come pensare di poter spegnere un incendio gettando benzina sul fuoco. Pura follia. Si conferma che di debito coi tedeschi è inutile discutere.
Il vitale bazooka della Germania e la mortale gabbia dell’Italia. Giuseppe Liturri su startmag.it il 22 marzo 2020. Ecco come la Germania e l’Italia affrontano in maniera diversa il contagio economico da Coronavirus. L’analisi di Giuseppe Liturri. Dopo le voci che si rincorrevano già da alcuni giorni, questo pomeriggio la Germania ha ufficialmente messo in campo il suo bazooka. Soldi veri, non quelli “mobilitati”, per usare l’espressione del ministro Roberto Gualtieri, finalizzata ad auspicare la moltiplicazione dei pani e dei pesci. Con un voto del Bundestag atteso nei prossimi giorni, sarà eliminato il vincolo costituzionale che pone un freno all’indebitamento federale, che è stato fissato nella misura massima del 0,35% del PIL (al netto delle oscillazioni del ciclo economico). Una svolta epocale per un Paese che ha fatto del “schwarze null” un totem della propria politica economica.
Si tratta di un piano per €356 miliardi (756 miliardi, tra prestiti e garanzie) all’incirca il 10% del PIL, così articolato:
€156 miliardi di spese supplementari nel bilancio 2020;
€100 miliardi per un fondo (WSF) di stabilizzazione a favore delle imprese danneggiate dalla crisi, che prevede l’assunzione diretta di partecipazioni societarie; questo fondo sarà inoltre dotato di €400 miliardi di garanzie statali per i debiti di imprese colpite crisi;
Infine un prestito statale da €100 miliardi a favore di KFW (equivalente tedesco della Cassa Depositi e Prestiti) che potrà utilizzarli per fornire credito illimitato ad aziende in difficoltà.
L’intervento del fondo equivale ad uno intervento straordinario dello Stato nel settore privato. “Non permetteremo che ci sia una svendita degli interessi economici ed industriali tedeschi”, così ha commentato il ministro tedesco Peter Altmaier. La Costituzione tedesca consentiva di derogare al vincolo di bilancio in caso di emergenze eccezionali come una catastrofe naturale ed il Bundestag provvederà immediatamente a votare in tal senso. Il piano tedesco “fa scopa” con l’annuncio della BCE di mercoledì sera. La Germania troverà un acquirente immediato (sul mercato secondario) per il proprio debito nella BCE che avrà a disposizione una capacità di acquisto fino a dicembre pari a circa 1.060 miliardi. E non dimentichiamo che la Germania fa affidamento su una quota di ripartizione degli acquisti del 18,3% (contro l’11,8% dell’Italia). Ma c’è di più. Come subito osservato da autorevoli commentatori, con questa mossa il governo tedesco allontana dall’orizzonte della BCE delle nubi che si stavano addensando all’indomani del varo del programma straordinario di acquisti. Infatti, il maggior debito tedesco consentirà alla BCE di non superare con i suoi acquisti la fatidica soglia del 33% del totale del debito pubblico tedesco che, con gli acquisti partiti nel 2015, si stava pericolosamente avvicinando a quella soglia. Ricordiamo che essa è una linea rossa invalicabile per non far cadere la BCE sotto l’accusa di finanziamento monetario del deficit, rigidamente vietato dai Trattati. In assenza di quelle emissioni di debito, quel limite sarebbe stato raggiunto nel terzo trimestre 2020, ponendo in serie imbarazzo il consiglio direttivo della BCE, nel quale i falchi hanno subìto “obtorto collo” l’impegno della Presidente Christine Lagarde ad impegnarsi “senza limiti”. A questo punto diventa imbarazzante il confronto con quanto sta accadendo in Italia. Una manovra nell’ordine del 10% del PIL sarebbe stata per noi pari a 170 miliardi, contro i 20 (25 di stanziamento lordo) appena utilizzati con il Decreto Legge 18. La sproporzione tra i due interventi è evidente. La Germania ha debito/PIL pari all’incirca al 60% ed ha così potenza di fuoco quasi infinita ed oggi affronta la necessità della crisi da COVID-19 con adeguate risorse. Il Presidente della Bundesbank Jens Weidmann ha commentato “in passato era stato messo in discussione il tema dei conti pubblici in ordine, ora possiamo dire di aver fatto bene, ora abbiamo lo spazio per gestire la crisi. Partiamo da una posizione vantaggiosa”. Ci sarebbe molto da dire su come la Germania è giunta oggi ad avere i conti in ordine. Su come negli ultimi 20 anni ha gestito la propria politica economica, senza coordinamento con quella degli altri Paesi dell’eurozona, che con la loro domanda hanno assecondato la propensione all’export della Germania. In altre parole, mentre gli altri spendevano la Germania aveva gioco facile nel comprimere il proprio bilancio e presentarsi oggi come campione virtuoso. Peraltro al riparo dal rischio di veder rivalutata la propria moneta. Ma non è questa la sede. Qui preme rilevare solo che i Paesi dell’eurozona si presentano all’appuntamento con questa crisi epocale in posizione fortemente asimmetrica e quindi interessi contrastanti. C’è chi può affrontarla con i propri bilanci e chi no. E quindi gli strumenti da applicare devono necessariamente essere diversi. I tedeschi non hanno bisogno degli eurobond o coronavirus bond o che dir si voglia e premono, giustamente dal loro punto di vista, per far sì che chi ha bisogno di risorse eccedenti le capacità dei propri bilanci, entri in programmi di assistenza finanziaria (MES o simili) e si sottoponga alle relative condizionalità. Mentre i tedeschi sono partiti alla grande per la loro strada, come al solito in solitudine, noi ci dibattiamo ancora in un anacronistico sistema di regole che vede in piedi l’articolo 81 della Costituzione sull’equilibrio di bilancio e la Legge 243/2012 che lo attua. Basti pensare che per autorizzare quei, a questo punto modesti, maggiori 20 miliardi di indebitamento netto, si è dovuti passare da una relazione del Governo al Parlamento approvata da parte di quest’ultimo a maggioranza assoluta. Una liturgia che è durata quasi una settimana e che il nostro Paese non si può più permettere. A prescindere dal problema, non secondario, del reperimento delle risorse, è opportuno che il Parlamento si riunisca urgentemente per sbarazzarsi di quegli inutili orpelli normativi e definisca una volta per tutte che si spenderà “qualsiasi cifra dovesse rendersi necessaria”. Il Paese ha bisogno di risposte ed il Parlamento è chiamato a darle.
Debito pubblico, Austria e Germania vincono il premio amnesia. Ma per l’Italia una soluzione c’è. Renzo Rosso, Docente di Costruzioni idrauliche e marittime e Idrologia a Milano, su Il Fatto Quotidiano il 21 maggio 2019. Da tempo il debito sovrano è il convitato di pietra della vita pubblica. Nell’ultimo anno, politica e media, finanza e festival di Sanremo hanno girato attorno a un unico oggetto: i soldi. E la paura della bancarotta di Stato ha disturbato il sonno degli italiani. Come prendere per le corna il quarto debito pubblico del mondo in proporzione al prodotto interno lordo dopo Giappone, Grecia e Libano? In soldoni, il quinto al mondo, dopo Stati Uniti, Giappone, Cina e Germania. Gli Stati Uniti – nel 1960 il più grande creditore del mondo – sono oggi il più grande debitore del pianeta, con una posizione debitoria netta di 8mila miliardi di dollari. L’Eurozona segue a ruota, ma la sua posizione netta è di soli 633 miliardi in “rosso”. Il maggior creditore è la Cina: in base ai dati del Fondo Monetario Internazionale (Fmi) gli eredi di Mao Zedong vantano crediti per quasi 2mila miliardi di dollari. In base ai dati Fmi del 2016, l’Italia ha una esposizione debitoria netta (net international investment position o Niip) di circa 325 miliardi di dollari, vale a dire 300 miliardi di euro circa. Negli Stati virtuosi, il martello della campagna elettorale europea picchia sull’incudine degli stati debitori netti, assimilati a stati canaglia. E l’Italia, il cui “rosso” vale quasi la metà di tutto quello dell’Eurozona, è in prima fila. Parafrasando l’economista Paul Krugman, se il debito è la croce di uno Stato, per un altro è invece una delizia. E l’Austria ha perciò gioco facile a ribaltare sui vicini meridionali una crisi continentale che, a medio termine, potrebbe emulare lo schema dei dieci (19) piccoli indiani nel momento in cui si dovesse profilare una crisi mondiale. La gente italica tirerebbe un sospiro di sollievo se svanissero di colpo 300 miliardi del debito. E con lei l’intero mondo della finanza. All’Austria, creditore netto di circa 19 miliardi di dollari, è gioco facile ammonire i vicini con l’Esopo degli altri, invitandoci a seguire l’esempio della formichina: “Non si può! Bella cicala: se nelle ore d’estate hai cantato, d’inverno balla”. La maestrina dalla penna rossa ha una certa esperienza, poiché conobbe nel 900 numerose crisi del proprio debito sovrano –1938, 1940 e, naturalmente, 1945 – senza contare quelle ottocentesche dell’Impero austro-ungarico: 1811, 1816 e 1868. La cicala Italia, dall’Unità in poi, mai. Seguire il metodo della formica è una soluzione realistica? Serve davvero far scendere, anno dopo anno, il debito in tempo di vacche grasse per uno o due punti percentuali, mettendo poi la testa sotto la sabbia quando le vacche dimagriscono? E ritornare così alla casella di partenza, o peggio. Come scrisse l’economista Thomas Piketty su Liberation nel 2015: “Il premio per l’amnesia va alla Germania, con la Francia buona seconda. Nel 1945, questi due paesi avevano un debito pubblico superiore al 200% del Pil. Nel 1950, era sceso a meno del 30%. Che cosa era successo? Avevano improvvisamente creato eccedenze di bilancio tali da consentire loro di pagare quel debito? Certo che no: fu l’inflazione e il puro e semplice ripudio del debito che permisero a Germania e Francia di sbarazzarsene. Se avessero tentato di costruire pazientemente eccedenze dell’1% o del 2% del Pil ogni anno, ci lavorerebbero ancora adesso, e sarebbe stato più difficile per i governi del dopoguerra investire nella crescita”. Austria, Germania e Francia sono i paesi che hanno imposto a quelli del Sud Europa di restituire il loro debito pubblico fino all’ultimo euro. Un egoismo miope che minaccia la sostenibilità del sogno europeo e determina l’irrilevanza europea a fronte dello scontro tra il maggior debitore del pianeta, gli Stati Uniti, e il maggior creditore, la Cina. Napoleone (1769-1821) nacque francese perché i genovesi credettero di sanare il debito sovrano (due milioni di lire genovesi) con il Trattato di Versailles (1768) che diede la Corsica in garanzia al creditore, il Re di Francia. In assenza di condivisione europea del nostro debito, dovremmo forse interrogare la mappa dell’Italia e accettare qualche sacrificio. C’è qualche territorio che aspira a diventare la Corsica del XXI secolo? A 50 euro al metro quadrato bastano 6mila chilometri quadrati, ma si può anche tirare sul prezzo. Quanto è vasto l’Alto Adige, chiamato Tirolo del Sud dalla maggioranza dei suoi abitanti, ai quali l’Austria vorrebbe concedere il proprio passaporto assecondando le aspirazioni di buona parte dei nativi?
Ecco il trucco della Germania che spende 550 miliardi. Ma come mai la Germania può spendere tutti questi soldi? Semplice: utilizzano una trucchetto contabile, cosa che invece la nostra Cassa Depositi e Prestiti non fa. Vediamo insieme in cosa consiste. Stefano Mastrillo il 16 Marzo 2020 su lunico.eu. “Il mio nemico non ha divisa, ama le armi ma non le usa. Nella fondina tiene le carte Visa e quando uccide non chiede scusa. Il mio nemico non ha nome, non ha religione e il potere non lo logora”. Questa citazione, tratta dalla canzone di Daniele Silvestri intitolata “Il mio nemico” del 2002 è più attuale che mai. Il cantante romano, classe 1968, non solo ha colto nel segno con questa canzone che poi è diventata un grande successo ed è tutt’oggi attuale, ma ha saputo guardare oltre, anticipando tutto ciò che sarebbe accaduto negli anni avvenire. Il nemico di cui si parla in questa canzone che ormai è entrato a far parte delle nostre vite già da diversi anni è il potere economico, quello dei grandi capitali, capace di far smuovere gli spread a proprio piacimento e di tenere sottoscacco le economie europee in particolare quella italiana, specialmente quando il Governo di turno non è allineato al pensiero unico dominante ossia quello neoliberista che fa figli e figliastri da tanti anni a questa parte. Uno dei primissimi esempi che potremmo prendere in considerazione è sicuramente la gestione della crisi finanziaria del 2011 alla quale la stragrande maggioranza dei paesi europei, ad eccezione di alcuni Paesi fra cui l’Italia punita con misure di austerità che altro non hanno fatto che peggiorare la situazione di instabilità economica, ha risposto con politiche economiche anticicliche (maggior deficit in tempi di crisi per stimolare consumi e investimenti sia pubblici che privati) per arrivare all’ultimo episodio di qualche giorno fa dove Christine Lagarde, Governatore della BCE succeduta a Mario Draghi, in cui ha affermato che la BCE non si occupa di gestire gli spread sovrani facendo crollare le borse europee, scatenando il panico fra gli investitori che hanno iniziato a vendere in massa i BTP italiani. Uno scenario speculativo che abbiamo già visto, ma che il Coronavirus ormai ha messo a nudo. Il COVID 19, più noto come Coronavirus, sta mettendo a dura prova l’economia mondiale che era già in forte rallentamento a causa della crisi del commercio internazionale: le maggiori economie mondiali stavano già rallentando (in particolare Cina, Giappone e l’area Euro) mentre per l’economia americana che ha conosciuto il suo massimo periodo di espansione economica che di crescita del mercato azionario era prevista entro la fine di quest’anno una nuova recessione (vedremo l’amministrazione Trump cosa farà per smentire questa previsione). La pandemia scaturita dalla rapida espansione del Coronavirus ha dato una bella batosta all’economia cinese il cui indice manifatturiero è crollato a 35,7 punti, ben al di sotto della soglia limite di 50 punti (valori registrati al di sopra di questa soglia denotano prospettive future di espansione economica, viceversa una contrazione o peggio ancora recessione) [FONTE: National Bureau of Statistics of China, rielaborazione di Trading Economics].
Tutto questo ha contribuito a bastonare anche l’economia europea, già sofferente di suo: questo scenario ha contribuito a scatenare un effetto panico in Europa poiché gli investitori temono il cosiddetto effetto contagio a livello finanziario. La Germania, anch’essa in forte difficoltà, ha annunciato un piano di circa 550 miliardi di euro per le imprese tedesche per far fronte alle perdite subite a causa del COVID 19 mentre il nostro “Giuseppi” Conte esulta per 25 miliardi ottenuti chiedendo l’elemosina… Perché si sa… “italianen baffi neri kattiven”!
COME MAI LA GERMANIA PUO’ SPENDERE TUTTI QUESTI SOLDI? Ma come mai la Germania può spendere tutti questi soldi? Semplice: utilizzano una trucchetto contabile, cosa che invece la nostra Cassa Depositi e Prestiti non fa. Vediamo insieme in cosa consiste. La Kreditanstalt für Wiederaufbau (Kft), la Cassa Depositi e Prestiti tedesca per intenderci, è di proprietà dello Stato tedesco per l’80%, mentre il restante 20% è dei diversi Lander, e per finanziarsi emette obbligazioni a tassi di interesse che ad oggi sono negativi. Chi compra queste obbligazioni, in virtù del tasso negativo, paga alla Kft l’interesse); anche la nostra Cassa Depositi e Prestiti emette obbligazioni che pagano un interesse positivo (quindi è CDP che in questo caso paga l’interesse agli investitori, in virtù del tasso positivo). Infatti, la Kft raccoglie circa 500 miliardi di euro, a differenza dei 300 miliardi della nostra Cdp, che reinveste prestandoli a piccole e medie imprese a tassi di interesse decisamente inferiori rispetto a quelli di mercato, detenendo quote di capitali di grandi colossi come Deutsche Post e Deutsche Telekom.
IL GIOCHINO E’ SEMPLICE. Se mettiamo a confronto la banca pubblica tedesca KfW – al centro del piano straordinario da 500 miliardi appena messo in campo dalla Germania – e la nostra Cassa Depositi e Prestiti (CDP), sostenendo che la differenza principale tra le due consisteva nel fatto che i debiti della prima non erano conteggiati nel debito pubblico tedesco mentre i debiti della CDP, in virtù di un diverso regime contabile adottato dall’Italia, entravano nel computo del debito pubblico italiano. Mi ero basato su diverse fonti “autorevoli”, tra cui un articolo dell’ex vicedirettore ad personam del “Corriere della Sera” Massimo Mucchetti in cui si afferma che «le obbligazioni della KwF magicamente non entrano nel conto del debito pubblico tedesco», mentre «il debito della CDP è per tutta la parte coperta da garanzia pubblica conteggiato nel debito pubblico». A quanto pare, però, ho preso un granchio (in effetti, mai fidarsi del “Corriere della Sera”). Diverse persone, che ringrazio, mi hanno infatti fatto notare che in base alle regole della contabilità europea i debiti della CDP – con o senza garanzia pubblica – sono esclusi dal conteggio pubblico esattamente come quelli della KfW. Da questo punto di vista, dunque, non sembrerebbero esservi differenze tra le due banche. Esistono però differenze di altro tipo, che potrebbero spiegare il ruolo molto più “interventista” giocato dalla KfW in questi anni rispetto alla CDP: la KfW è, appunto, una banca pubblica che dunque può essere considerata a tutti gli effetti un “braccio” dello Stato tedesco, che infatti la utilizza per offrire crediti alle imprese e agli enti locali a tassi agevolati (non di mercato) ecc.; la CDP, invece, pur essendo per l’80% di proprietà dello Stato, a differenza della KfW – e delle altre sue controparti europee – non è un ente di diritto pubblico ma una società per azioni (S.p.A.), che dunque è tenuta ad operare a condizioni di mercato – «requisito fondamentale per il mantenimento della sua classificazione al di fuori del perimetro delle pubbliche amministrazioni (con conseguente deconsolidamento del suo debito dal debito pubblico ai sensi della contabilità europea)», secondo le parole del suo ex presidente Franco Bassanini – e a cui lo Stato, almeno formalmente, non può imporre di svolgere o di non svolgere una determinata attività. Ciò detto, pur tenendo presente che sarebbe auspicabile una trasformazione di CDP in banca pubblica quanto prima, è lecito immaginare che anche queste distinzioni formali vadano a farsi benedire in una situazione di emergenza come questa. Ci aspettiamo dunque che il governo utilizzi tutta la “potenza di fuoco” di CDP per sostenere l’economia in questo momento di crisi. Ma il bello viene proprio adesso: i 300 miliardi raccolti da Cdp vengono conteggiati nel debito pubblico italiano, mentre i capitali raccolti da Kft No. Il giochino è semplice: la Germania esclude dal suo debito pubblico le società pubbliche che si finanziano con garanzie pubbliche e che coprono almeno la metà dei costi con ricavi di mercato e non con contributi pubblici (il che significa che se le società sono insolventi, interviene lo Stato tedesco… ma come? I prestatori di ultima istanza non sono proibiti nella fantastica UE? O questa regola non vale per tutti?) mentre la nostra Cassa Depositi e Prestiti e il debito pubblico italiano se la prendono in saccoccia.
Facciamo due conti: il debito pubblico tedesco senza questo trucchetto contabile arriverebbe al 97,3% del PIL, ben al di sopra dei vincoli europei. Se l’Italia utilizzasse questo trucchetto, il suo debito scenderebbe al 116%. Certo che i crucchi ne sanno una più del diavolo eh! La nostra classe politica si è venduta per due denari alla speculazione finanziaria in nome del sogno europeo che si è tramutato in un incubo, che ha distrutto l’economia reale, quella che ha reso grande questo Paese grazie all’olio di gomito dei nostri nonni che l’ha portata a diventare la quarta economia mondiale. Distruggendo lo Stato sociale e togliendo diritti ai lavoratori e affamandoli in nome del “più Europa”: chiedere più Europa ad un Paese che sta morendo di Europa e dei suoi folli vincoli è come chiedere più droga a un tossicodipendente che sta morendo di overdose.
CORONAVIRUS CI RENDERA’ TUTTI PIU’ KEYNESIANI. Il coronavirus ha reso più keynesiani persino quelli del PD e dei Cinque Stelle che ora implorano disperatamente più flessibilità: la nave neoliberista su cui questi signori sono ormai saliti da diverso tempo sta imbarcando acqua, ma evidentemente questi signori che non hanno nulla di diverso rispetto a quelli che ballavano nelle cabine di prima classe del Titanic mentre affondava e l’acqua sommergeva quelle di prima classe, stanno iniziando a bagnarsi a piedi. Chissà a breve non cominceranno anche loro a scappare così come facevano quelli in terza classe. Questo momento potrebbe arrivare, perché la grande speculazione è appena iniziata. D’altronde la grande finanza non dorme mai. (L’UNICO)
LA VERA STORIA DELL’AIUTO ITALIANO A GERMANIA (E FRANCIA) NEL 2003. Franco Mostacci il 9 luglio 2016. Al termine della riunione informale del Consiglio europeo del 29 giugno, il premier Renzi – dopo il no di Angela Merkel a una revisione del bail-in, ha dichiarato che “le regole sono state cambiate nel 2003 per fare un favore a Francia e Germania”, che superarono il tetto del 3% deficit/Pil, “e Berlusconi, uomo generoso, glielo consentì”. Le cose, però, andarono diversamente, a partire dal fatto che allora non ci fu alcuna modifica dei Trattati. Nei primi anni del secolo, il presidente della Commissione europea era Romano Prodi e il commissario agli affari economici Pedro Solbes, secondo quanto previsto dal Patto di stabilità e crescita, aveva aperto una procedura per deficit eccessivi nei confronti di Francia e Germania. Successivamente, ritenendo inadeguate le misure di rientro intraprese dai due paesi, inviò una raccomandazione al Consiglio per l’adozione di una decisione formale. Nella riunione dell’Ecofin del 25 novembre 2003, con Tremonti presidente, fu invece approvato (con il voto contrario di Olanda, Austria, Finlandia e Spagna) un documento che sospendeva la procedura di rientro dal deficit per Francia e Germania, violando di fatto i Trattati. La decisione causò un forte attrito con la Commissione, che presentò ricorso alla Corte di Giustizia europea. Secondo quanto riportato all’epoca dal quotidiano La Repubblica, il commissario agli affari economici Solbes dichiarò: “Siamo profondamente rammaricati perché la soluzione adottata dal Consiglio non segue le regole stabilite dal Patto, mentre solo l’applicazione delle regole può garantire un uguale trattamento degli Stati membri”. Secondo Tremonti, invece, “E’ una soluzione coerente con la cornice del Trattato e del Patto e ci sembra costituisca una soluzione tecnica politica positiva e coerente con i criteri di funzionamento del Patto”. La Corte di Giustizia europea, con sentenza del 13 luglio 2004, stabilì che “le conclusioni del Consiglio del 25 novembre 2003, adottate nei confronti, rispettivamente, della Repubblica francese e della Repubblica federale di Germania sono annullate in quanto contengono una decisione di sospendere la procedura per i disavanzi eccessivi e una decisione che modifica le raccomandazioni precedentemente adottate dal Consiglio ai sensi dell’art. 104, n. 7, CE”. Perché il governo Berlusconi si prodigò tanto a favore di Francia e Germania? Anche in Italia, tra il 2001 e il 2006, il tetto del 3% fu sistematicamente sforato: 2001 -3,4%; 2002 -3,1% ; 2003 -3,4%; 2004 3,6%; 2005 -4,2%; 2006 -3,6%. Solo che, allora, circolavano ben altre cifre ufficiali, come già raccontato dal Foglietto. Per il 2001, dopo una visita notturna in via Balbo dell’allora Ragioniere generale dello Stato Monorchio, l’Istat fissò inizialmente il rapporto deficit/Pil all’1,4%; nel 2002 il 2,3%, nel 2003 il 2,4% e nel 2004 il 3% (figura 2). Quando nel 2005 si ammise che superava il 4%, la Commissione aprì la procedura di infrazione, che si concluse con il rientro del deficit all’1,5% del Pil con il governo Prodi nel 2007. Questi i fatti, che non giustificano le recenti affermazioni di Renzi.
Giampiero Gramaglia per il "Fatto quotidiano" il 31 marzo 2020. Non sono sempre stati i Paesi del Sud gli ultimi della classe dell'euro, gli "untori del contagio", come sono oggi bollate Grecia, Italia e Spagna. Ci fu un tempo, nei primi anni della moneta unica, che a non stare ai patti, anzi al Patto di Stabilità, erano proprio quelli del Nord che ora non tollerano le debolezze altrui: i tedeschi, con i francesi a tenere loro bordone. Quella è una delle pagine nere della storia dell'euro, un decennio e poco più; dal punto di vista delle istituzioni, forse la più nera. Perché per fare fronte alla crisi, oggi, si tratta di prendere decisioni; mentre, allora, si trattava solo di applicare decisioni già prese, cioè di fare rispettare la legge. E, invece, i forti dell'epoca, che sono poi gli stessi di oggi, la fecero franca con una deroga ad hoc. E' un episodio che Mario Monti ama ricordare, come premier, ma anche come professore d'economia ed ex commissario europeo. C'è spazio per rinvangare quel momento, in questi giorni che la crisi dà qualche respiro, nonostante le notizie dell'economia reale, specie quella italiana, ma anche la tedesca e la francese, continuino a non essere incoraggianti: le agenzie di rating, ridotte al ruolo di cassandre, lanciano avvertimenti cui pochi ormai badano. Tra Madrid e Bruxelles, si discute se staccare la prima fetta dell'aiuto europeo di cento miliardi di euro per le banche spagnole, mentre i mercati scommettono che la Spagna dovrà sollecitare, per salvarsi, un intervento di dimensioni maggiori. Le banche più in difficoltà sono, oltre a Bankia, NovaGalicia, CatalunyaCaixa e Banco de Valencia. Per ora, Madrid, non ha formalizzato la sua richiesta, che dovrebbe essere approvata dalla Commissione europea, dalla Banca centrale e dall'Eurogruppo. Si allungano, invece, i tempi di decisione per la Grecia (ieri S&P ha rivisto il giudizio sul debito al ribasso): gli esperti della troika resteranno ad Atene tutto settembre, per presentare a ottobre un piano che eviti al Paese il fallimento e ne consenta la permanenza nell'euro. La calma tesa di questi giorni sui mercati, con borse senza picchi e spread stabili, si contrappone, quasi, alle fibrillazioni politiche. Che evocano quelle del 2003, quando la Commissione europea, presieduta da Romano Prodi, con Monti alla concorrenza, denunciò Francia e Germania per avere sforato i limiti del deficit di bilancio imposti dal Patto di Stabilità. La procedura d'infrazione, però, non fece il suo corso, perché i ministri delle finanze la bloccarono; e l'Italia di Silvio Berlusconi e la Gran Bretagna di Tony Blair appoggiarono questa soluzione "buonista" e "pilatesca", per le serie infinite "la legge non è uguale per tutti" e "il più forte ha sempre ragione". Monti ha evocato quell'episodio nell'intervista a Der Spiegel da poco pubblicata, quella da cui sono scaturite un sacco di polemiche; e lo aveva già fatto al termine del Quadrangolare a Roma del 22 giugno (Italia, Francia, Germania e Spagna), quando rammentò, a chi oggi rimprovera le cicale d'Europa, appunto Grecia, Italia, Spagna, che furono Berlino e Parigi a violare per primi il Patto di Stabilità, senza subirne le conseguenze. In occasione del Quadrangolare, Monti aveva anche ricordato la "complicità" del governo italiano nella deroga a favore di Francia e Germania. Parigi e Berlino, pur avendo sforato per la terza volta il tetto del 3% nel rapporto tra deficit e Pil, non subirono la prevista procedura per deficit eccessivo. L'Eurogruppo, con i ministri delle Finanze degli allora 12 Paesi della zona euro, lo decise a maggioranza qualificata, al termine d'una riunione fiume burrascosa, con i voti contrari di Spagna -toh!, come cambia il mondo-, Austria, Finlandia e Olanda (Helsinki e l'Aja sono, pure oggi, vestali del rigore). La decisione venne poi ratificata dall'Ecofin, il Consiglio dei Ministri delle Finanze dei Paesi dell'Ue, che s'accontentò dell'impegno di Francia e Germania a mettere in ordine i conti entro il 2005. Su quella decisione, i Grandi d'Europa, allora divisi sulla scena internazionale, furono unanimi. Eppure, Francia e Germania erano la Vecchia Europa, schierati contro l'invasione dell'Iraq; mentre Gran Bretagna e Italia facevano da spalla agli Stati Uniti di George Bush, insieme a quella Spagna che José Maria Aznar tenne però fuori dal pastrocchio sul Patto di Stabilità. All'epoca, la palese forzatura del diritto comunitario non passò inosservata. Euronews, una tv non partigiana, titolava: "L'Europa si spacca sul Patto di Stabilità. Ed è crisi istituzionale: l'Esecutivo, da un lato, a difendere le regole e i parametri stabiliti; Eurogruppo ed Ecofin, dall'altro". Aznar minacciò ripercussioni sui lavori per la ratifica della Costituzione europea, poi abortita. "Il Consiglio - si legge nelle conclusioni dell'Ecofin - ha deciso di sospendere per ora le procedure", pronto, a riaprirle se Parigi e Berlino non avessero rispettato gli impegni assunti. Ovviamente, tutto morì lì: quella fu una sconfitta per la Commissione Prodi/Monti, ma soprattutto per l'Unione.
Indennità di guerra. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Guerra austro-prussiana: la città libera di Francoforte sul Meno dovette pagare 25 milioni di fiorini alla Prussia come contributo di guerra entro 24 ore (ultimatum del 20 luglio 1866 firmato dal generale prussiano Edwin von Manteuffel). L'indennità di guerra, o riparazione di guerra, è una compensazione monetaria destinata a coprire i danni o le perdite subite durante una guerra.
Storia. Roma impose pesanti indennità a Cartagine dopo la prima e seconda guerra punica (la cosiddetta pace cartaginese). Il 16 maggio 1795 la neonata Repubblica Batava venne riconosciuta dalla Prima repubblica francese della convenzione termidoriana con Pace dell'Aia, ma a patto di pesanti concessioni politiche, finanziarie e territoriali. Gli olandesi furono infatti costretti a cedere alla Francia le città-piazzaforti di Maastricht (Maestricht) e Venlo e le Fiandre zelandesi (Flandre zélandaise), a stabilire un'alleanza difensiva con i loro ex-nemici e a pagare loro 100 milioni di fiorini come indennità di guerra per la loro parte nella Prima Coalizione (quando erano alleati dell'Inghilterra), oltre ad impegnarsi a sovvenzionare la Repubblica francese con prestiti a basso tasso d'interesse. Il trattato di Parigi del 1815 obbligò la Francia a pagare 700 milioni di franchi-oro alla Santa Alleanza come indennizzo per mantenere alcuni eserciti alleati di occupazione, composti da 150.000 uomini alle sue frontiere per almeno cinque anni. I "trattati ineguali" firmati dalla dinastia Qing in Cina, Giappone, Corea, Siam, Persia, Impero Ottomano, Afghanistan e altri paesi nel diciannovesimo secolo comprendevano pagamenti di indennità alle potenze occidentali vittoriose.
Guerra franco-prussiana del 1870. Perduta la guerra franco-prussiana, la Francia dovette versare una grossa somma d'argento (5 miliardi di franchi in tre anni, con l'obbligo dell'esborso, nel corso del primo anno, di un 1 milione di franchi) alla Prussia come indennità di guerra e cedere i territori dell'Alsazia (tranne Belfort), la Lorena (attuale dipartimento francese della Mosella) e una parte dei Vosgi in base al trattato di Francoforte firmato il 10 maggio 1871. Truppe di occupazione prussiane permasero nell'est della Francia fino al completo pagamento dei 5 miliardi di franchi. La Francia riuscì a pagare tale importo in poco più di due anni e nel settembre 1873 i soldati tedeschi lasciarono i territori occupati del Nord. La Francia concesse inoltre alla Prussia, per il commercio e la navigazione, la clausola della nazione più favorita. La Francia rispettò tutte le disposizioni del Trattato di Francoforte fino al 1914.
Prima guerra mondiale. La Russia accettò di pagare riparazioni di guerra agli Imperi centrali dopo la sua uscita dalla guerra con il Trattato di Brest-Litovsk (che fu ripudiato dal governo bolscevico otto mesi più tardi). La Germania si impegnò a pagare 132 miliardi di marchi oro (6.600.000.000 di sterline) con il Trattato di Versailles (1919), ridotti a soli 3 dopo la conferenza di Losanna del 1932; cifra che, peraltro, il Terzo Reich non salderà mai. I debiti contratti dalla Germania negli anni '20 e '30, unitamente alle riparazioni relative al secondo conflitto mondiale, vennero in seguito ricalcolati e ridimensionati con l'accordo sui debiti esteri germanici del 27 febbraio 1953. In data 3 ottobre 2010 la Germania ha finito di rimborsare quanto stabilito nel 1953 con il pagamento dell'ultima tranche, per un importo di 69,9 milioni di euro. Non a torto, autorevoli economisti come Th. Piketty accusano la Germania di non aver onorato i debiti né dopo la prima né dopo la seconda guerra mondiale, scaricando su altri Stati i costi della ricostruzione e utilizzando surrettiziamente l'inflazione come leva per abbattere il debito pubblico. La Bulgaria pagò 2,25 miliardi di franchi oro (90 milioni di sterline) di riparazioni in base al Trattato di Neuilly.
Seconda guerra mondiale. Germania. Dopo la seconda guerra mondiale, in base alla conferenza di Potsdam tenutasi tra il 17 luglio e il 2 agosto 1945, la Germania dovette pagare agli Alleati 20 miliardi di dollari statunitensi soprattutto in macchinari e in stabilimenti di produzione. Le riparazioni all'Unione Sovietica finirono nel 1953. Inoltre, in osservanza alla politica di de-industrializzazione e pastoralizzazione della Germania, un gran numero di industrie civili vennero smantellate per essere trasportate in Francia e nel Regno Unito o semplicemente distrutte. Nel 1950, quando terminarono gli smantellamenti, erano state rimosse le apparecchiature da 706 impianti manufatturieri nell'ovest e la capacità di produzione dell'acciaio era stata ridotta di 6.700.000 tonnellate. Alla fine, in molti Paesi le vittime di guerra vennero compensate con le proprietà dei tedeschi che vennero espulsi dopo la seconda guerra mondiale. A partire anche da prima della resa della Germania e fino a due anni dopo, gli Stati Uniti perseguirono un intenso programma volto a raccogliere tutte le tecnologiche e il know-how scientifico tedesco, nonché tutti i brevetti e molti eminenti scienziati della Germania (noto come Operazione Paperclip). Lo storico John Gimbel, nel suo libro Science Technology and Reparations: Exploitation and Plunder in Postwar Germany, afferma che le "riparazioni intellettuali" (intellectual reparations) prese dagli Stati Uniti e dal Regno Unito ammontarono a circa 10 miliardi di dollari. Parte delle riparazioni tedesche furono sotto forma di lavoro forzato. Fino al 1947, circa 4.000.000 prigionieri di guerra e civili tedeschi vennero utilizzati come forzati in Unione Sovietica, Francia, Regno Unito, Belgio e nella Germania sotto controllo americano. La Germania pagò ad Israele 450 milioni di marchi tedeschi come riparazioni per l'Olocausto, e 3 miliardi di marchi al Congresso ebraico mondiale per compensare i sopravvissuti in altri Paesi. Nessuna riparazione venne pagata invece per i Rom uccisi durante l'Olocausto.
Facciamo chiarezza sui debiti di guerra della Germania. Nazareno Lecis su financecue.it il In questi giorni di profonda crisi dovuta agli effetti sanitari ed economici del covid-19 si è accesa la miccia sulla questione MES e sulla questione Eurobond. Le resistenze della Germania alla richiesta degli stati del sud di accedere a quelle risorse senza condizionalità sulle spesa ha fatto insorgere molti cittadini italiani che hanno prontamente tirato in ballo la questione dei debiti di guerra della Germania. Facciamo chiarezza.
“Alla Germania fu tagliato il debito”. La frase che ho inserito nel titolo del paragrafo è il riassunto perfetto della questione. Una lettura superficiale dei libri di storia porta i più a dire che nella conferenza di Londra del 1953 i debiti di guerra della Germania furono tagliati di circa il 50%. Ci si ferma qui e nessuno approfondisce e quando dico nessuno intendo veramente nessuno. Molti grandi quotidiani, tra cui “Il Sole 24 Ore”, la riportano esattamente in quei termini. Ma è davvero così?
Ma di cosa trattò la conferenza di Londra del 1953?
Per capire bene cosa successe durante quella conferenza bisogna anzitutto studiare cosa successe prima e quindi bisogna partire dalla sconfitta del Terzo Reich (qui inteso come il momento di fine della battaglia di Stalingrado che decretò la fine dei successi Hitleriani).
Dopo quei tristi fatti che bene o male tutti conosciamo si susseguirono più conferenze. Le più importanti furono:
la conferenza di Teheran,
la conferenza di Jalta,
la conferenza di Potsdam.
Nella conferenza di Teheran fu decisa la divisione della Germania in aree sotto l’influenza delle 3 grandi potenze vincitrici (Stati Uniti, Regno Unito e Unione Sovietica).
Nella conferenza di Jalta, tra le altre cose, fu deciso lo smaltellamento dell’esercito tedesco e il sequestro dei macchinari di guerra (cui partecipò anche la Francia a cui venne ceduta un’area).
In base alla conferenza di Potsdam tenutasi tra il 17 luglio e il 2 agosto 1945, la Germania dovette pagare agli alleati 20 miliardi di dollari statunitensi.
L’Unione Sovietica non accettò compensazioni e venne pagata sino al 1953.
I pagamenti. In osservanza alla politica di de-industrializzazione della Germania, un gran numero di industrie civili vennero smantellate per essere trasportate in Francia e nel Regno Unito o semplicemente distrutte. Nel 1950, quando terminarono gli smantellamenti, erano state rimosse le apparecchiature da 706 impianti manufatturieri nell’ovest e la capacità di produzione dell’acciaio era stata ridotta di 6.700.000 tonnellate. In molti Paesi le vittime di guerra vennero compensate con le proprietà espropriate dai tedeschi che vennero espulsi dopo la seconda guerra mondiale. Gli Stati Uniti si presero tutte le tecnologie e il know-how scientifico tedesco, nonché tutti i brevetti e molti eminenti scienziati della Germania (operazione Paperclip). Successivamente queste “acquisizioni” vennero valutate in 10 miliardi di dollari dell’epoca. Parte delle riparazioni tedesche furono sotto forma di lavoro forzato. Fino al 1947, circa 4.000.000 prigionieri di guerra e civili tedeschi vennero utilizzati come lavoratori forzati in Unione Sovietica, Francia, Regno Unito, Belgio e nella Germania sotto controllo americano.
La conferenza di Londra del 1953. Nel 1953 alla conferenza di Londra semplicemente si tennero in considerazioni questi fatti e si decise di considerarli a parziale compensazione dei debiti di guerra ed è per questo che si raggiunsero degli accordi sul taglio del debito estero (attenzione solo di questa parte perchè la parte dei debiti interni, ossia verso i propri cittadini venne svalutata con l’inflazione e parzialmente tagliata, impoverendo i suoi stessi cittadini).
Conclusione. La storia è una serie di eventi collegati tra loro. Se se ne prende solo un pezzo senza considerare ciò che è successo prima non è assolutamente possibile capire la complessità degli eventi e si rischia di cadere in facili errori.
Grexit: i governi tedeschi non hanno mai pagato i loro debiti. Paolo Ferrero, Rifondazione Comunista - vicepresidente Partito della Sinistra Europea, su ilfattoquotidiano.it il 29 giugno 2015. I governi tedeschi, quelli che si ergono a giudici implacabili contro la Grecia e che cercano di destabilizzarla per impedire il referendum popolare, sono specialisti nel non pagare i loro debiti. Lo hanno già fatto tre volte nel corso dell’ultimo secolo.
La prima volta dopo la Prima guerra mondiale, la seconda nel 1953 e la terza nel 1990 dopo la riunificazione.
Vediamo brevemente.
Nel 1923 l’iperinflazione portò alla totale perdita di valore della moneta tedesca, al default e all’interruzione del pagamento del Debito che il governo tedesco stava pagando per le riparazioni di guerra. Il piano statunitense (Daves), che impose nel 1924 una nuova moneta, previde che i tedeschi avrebbero potuto onorare i loro debiti emettendo un prestito obbligazionario da collocare sul mercato della finanza mondiale per una somma totale di 800 milioni di marchi oro. Si trattò a tutti gli effetti di un enorme prestito internazionale dato ai tedeschi per permettergli di pagare il debito. Nel 1928 avvenne però anche una ricontrattazione del debito, con la riduzione delle quote da pagare e un enorme allungamento dei tempi di restituzione a 60 anni! (Piano Young).
Nel 1933. Dopo aver vinto le elezioni, i nazisti smisero di pagare i debiti e le riparazioni dovute. Negli anni successivi cominciarono ad invadere i loro vicini, non dimenticando mai, appena arrivati, di svuotare le casseforti degli altri.
Nel 1953, dopo la Seconda guerra mondiale, la Germania ha nuovamente battuto cassa per non pagare il suo debito. Il 27 febbraio 1953, la conferenza di Londra, ha infatti deciso l’annullamento di circa i due terzi del debito tedesco (62,6%). Il debito di prima della guerra è stato ridotto da 22,6 a 7,5 miliardi di marchi e il debito del dopoguerra è stato ridotto da 16,2 a 7 miliardi di marchi. Oltre al taglio del debito la Germania ottenne anche un forte dilazionamento: oltre 30 anni di tempo per pagare la quota di debito rimanente. L’accordo è stato firmato dalla repubblica federale tedesca con 22 Paesi, tra cui la Grecia. La conferenza di Londra aveva però messo una clausola: la parte di debito relativo ai danni provocati dalla guerra veniva posticipato ad un ipotetico periodo futuro nel caso in cui si fosse verificata la riunificazione della Germania.
Nel 1990, quando vi è stata la riunificazione, la Germania non tenuto in alcun conto i suoi impegni presi nella conferenza di Londra del 1953 riguardo alle riparazioni di guerra. Il Cancelliere di allora, Helmut Kohl, si è rifiutato di applicare l’accordo di Londra del 1953 sui debiti esterni della Germania là dove veniva previsto che le le riparazioni destinate a rimborsare i disastri causati durante la seconda guerra mondiale dovevano essere versati alla riunificazione. Qualche acconto è stato versato ma si tratta di somme minime. La Germania non ha regolato i suoi conti dopo il 1990, ad eccezione delle indennità versate ai lavoratori forzati. I soldi prelevati con la forza nei paesi occupati durante la seconda guerra mondiale e i danni legati all’occupazione non sono stati rimborsati a nessuno. Tantomeno alla Grecia.
Da notare che i nazisti, al tempo dell’occupazione militare, hanno imposto alla Grecia il pagamento dei costi della loro occupazione. Insomma non solo hanno distrutto e ucciso, ma hanno letteralmente saccheggiato il Paese… Tenuto conto dell’inflazione dopo il 1945, la Germania ha un enorme debito con la Grecia che è stato calcolato in 162 miliardi di euro. Non proprio noccioline….Questi sono i governanti tedeschi, che si ergono ad autorità morale contro il popolo greco e il suo governo. Governano una nazione che è stata rimessa in piedi dal Piano Marshall dopo che aveva scatenato una guerra, distrutto il continente e fatto decine di milioni di morti. Una nazione, un governo e un popolo che non hanno mai pagato i propri debiti e che proprio grazie a questo e agli aiuti sono potuti ridiventare una potenza mondiale. E’ bene ricordarglielo mentre stanno cercando di assassinare il popolo greco per la seconda volta.
La Germania dice no ai Coronabond ma dimentica che l’Europa condonò il 50% del suo debito di guerra. «Senza quel regalo - scriveva l’ex ministro tedesco Fischer - la Germania non si sarebbe ripresa e non avremmo avuto il miracolo economico». Claudia Mura il 28 marzo 2020 su Notizie Tiscali. “Siamo in guerra contro il Covid 19”, ripetono tutti: dai cittadini in coda per la spesa ai ministri della Repubblica. La metafora bellica è talmente abusata da risultare ormai stucchevole ma, per una volta, vale la pena usarla con criterio. Perché se siamo in guerra, tutti contro un nemico comune, c’è qualcuno che non è ancora in trincea e si sfila dalla lotta lasciando i feriti sul campo.
Il no agli Euro o Coronabond. E se siamo in guerra, il conflitto è mondiale più di quanto non lo sia stato il secondo, quello perso (anche ma soprattutto) dalla Germania. Uno dei paesi che, insieme a Olanda, Austria, Finlandia e Ungheria non si sente in trincea e vuole lasciare i feriti italiani, spagnoli e francesi a se stessi. Ma sono i tedeschi della Merkel i capofila dei rigoristi che non ne vogliono sapere di Eurobond o Coronabond lasciando che il sud dell’Europa se la cavi da solo.
Il debito tedesco e l’Europa. Alloro, tornando alla Seconda Guerra Mondiale bisogna ricordare al popolo germanico che a suo tempo l’Europa, comprese Italia e Grecia – giusto per citare alcuni fra i paesi più “spreconi” agli occhi teutonici – abbuonarono la metà dei debiti ai tedeschi per consentire loro di risorgere. E siccome non è elegante ricordare agli amici, anche a quelli più feroci - i propri debiti, vale la pena usare come pro-memoria le parole del 2015 di un loro illustre connazionale. L’ex ministro degli Esteri tedesco Joschka Fischer in un suo libro di cinque anni fa (Se l'Europa fallisce) esercitò un durissimo atto di accusa contro le «politiche di euroegoismo» attuate dalla cancelliera Angela Merkel e dal suo ministro delle Finanze, Wolfgang Schaeuble. Fischer scriveva che è «sorprendente» come la Germania abbia dimenticato la storica Conferenza di Londra del 1953, quando l’Europa le cancellò buona parte dei debiti di guerra. «Senza quel regalo - scrive l’ex ministro nel suo libro - non avremmo riconquistato la credibilità e l’accesso ai mercati. La Germania non si sarebbe ripresa e non avremmo avuto il miracolo economico».
Germania in default due volte. Cosa successe alla Conferenza di Londra del 1953 è scritto sui libri di storia, ma è bello rinfrescarci tutti la memoria. Ricorda un articolo del Sole 24 ore che “la prima della classe Germania è andata in default due volte durante il Novecento (nel 1923 e, di fatto, nel secondo dopoguerra). In quella conferenza internazionale le sono stati condonati i debiti di due guerre mondiali per darle la possibilità di ripartire. Tra i Paesi che decisero allora di non esigere il conto c’era l’Italia di De Gasperi, e anche la povera e malandata Grecia, che pure subì enormi danni durante la seconda guerra mondiale da parte delle truppe tedesche alle sue infrastrutture stradali, portuali e ai suoi impianti produttivi”. E ci ricordiamo tutti come si è invece comportata la Germania con i greci non più di qualche anno fa.
Una cifra colossale. “L'ammontare del debito di guerra tedesco dopo il 1945 aveva raggiunto i 23 miliardi di dollari (di allora). Una cifra colossale che era pari al 100% del Pil tedesco. La Germania non avrebbe mai potuto pagare i debiti accumulati in due guerre. Guerre da essa stessa provocate. I sovietici pretesero e ottennero il pagamento dei danni di guerra fino all’ultimo centesimo. Mentre gli altri Paesi, europei e non, decisero di rinunciare a più di metà della somma dovuta da Berlino”.
La fiducia mal ripagata. E adesso veniamo alla Conferenza di Londra: “il 24 agosto 1953 ventuno Paesi (Belgio, Canada, Ceylon, Danimarca, Grecia, Iran, Irlanda, Italia, Liechtenstein, Lussemburgo, Norvegia, Pakistan, Regno Unito e Irlanda del Nord, Repubblica francese, Spagna, Stati Uniti d'America, Svezia, Svizzera, Unione Sudafricana e Jugoslavia), con un trattato firmato nella capitale britannica, le consentirono di dimezzare il debito del 50%, da 23 a 11,5 miliardi di dollari, dilazionato in 30 anni. In questo modo, la Germania poté evitare il default, che c’era di fatto”.
Il rifiuto tedesco. Da sottolineare che il rimanente “50% avrebbe dovuto essere rimborsato dopo l'eventuale riunificazione delle due Germanie. Ma nel 1990 l’allora cancelliere Helmut Kohl si oppose alla rinegoziazione dell’accordo che avrebbe procurato un terzo default alla Germania. Anche questa volta Italia e Grecia acconsentirono di non esigere il dovuto. Nell’ottobre 2010 la Germania ha finito di rimborsare i debiti imposti dal trattato del 1953 con il pagamento dell'ultimo debito per un importo di 69,9 milioni di euro. Senza l’accordo di Londra, la Germania avrebbe dovuto rimborsare debiti per altri 50 anni”.
Due settimane di riflessione. Allora noi italiani, sommessamente, consigliamo agli eredi di coloro che contrassero il debito, un ripasso della Storia, questa sì, comune. Perché quelle due settimane di tempo che hanno chiesto i paesi “rigoristi” per “riflettere” sulla richiesta dei Coronabond firmata da Italia, Francia, Spagna, Irlanda, Belgio, Grecia, Portogallo, Lussemburgo e Slovenia, ci fanno pensare che coincidano un po’ troppo con i tempi dell’incubazione. E ci fanno sospettare che, in realtà, stiano aspettando di vedere quanti danni il Covid 19 farà dalle loro parti prima di decidere se per loro sia più conveniente lasciarci morire da soli o provare a salvarci tutti insieme.
Ma i tedeschi non hanno pagato i debiti. L'Europa fu pietosa. La Grecia aspetta 575 miliardi dal 1945. Francesco De Palo, Domenica 29/03/2020 su Il Giornale. In occasione della Conferenza di Londra del 1953, l'Europa cancellò alla Germania buona parte del suo debito bellico, passaggio propedeutico alla riconquista dei mercati e alla costruzione del modello tedesco, poi sfociato nel miracolo economico che ha troneggiato in Europa. Lo scrisse nel 2014 l'ex ministro degli Esteri tedesco Joschka Fischer nel suo volume Scheitert Europa? (L'Europa sta fallendo?), in cui criticò aspramente le politiche di austerità ispirate dalla cancelliera Merkel e dall'allora ministro delle finanze Schaeuble. In quelle pagine, stampate mentre la Grecia e l'euro erano sul punto di affondare, il politico tedesco rinfrescò la memoria «agli euroegoisti» raccontando che il Paese teutonico è fallito due volte nel Novecento. La prima volta nel '23 e in seguito nel '45. Nella storica Conferenza londinese ci fu anche chi, come l'Italia e la Grecia, decisero di non infierire sulla Germania che aveva un debito di guerra da 23 miliardi di dollari, ovvero l'intero Pil. Per cui i Paesi cancellarono metà del debito, con il restante 50% da «spostare» di qualche decennio, in caso contrario Berlino avrebbe dovuto pagare per altri dieci lustri. Nel 1990 però, all'alba della riunificazione e del saldo di quei denari, l'allora cancelliere Helmut Kohl si oppose al pagamento del restante 50% con, ancora una volta, una pacca sulle spalle da parte di Italia e Grecia che mostrarono una certa pietas. Proprio Atene è quella che ha subito il danno maggiore. Per i danni di guerra del secondo conflitto mondiale la Germania le deve 278 miliardi di euro, compresi 10 miliardi per un prestito che fu preteso dalle forze di occupazione naziste. «Il governo tedesco deve saldare il proprio debito - è la battaglia portata avanti dall'ex eurodeputato greco Manolis Glenzos, eroe nazionale che ammainò la bandiera nazi dall'Acropoli nel '43 -. E non si colleghi la situazione attuale della Grecia con quelle giuste rivendicazioni che risalgono alla guerra». Parole pronunciate nel 2015, nel bel mezzo della crisi dell'Eurozona ad Atene, ma ancora attuali. I danni perpetrati alla Grecia dopo l'invasione di Hitler dell'aprile '41 dovrebbero tenere conto di 300mila cittadini greci morti di fame, come risulta da un rapporto della Croce Rossa Internazionale. In seguito Germania e Italia non solo pretesero cifre elevatissime per le spese militari, ma ottennero forzatamente anche quello che venne definito un prestito d'occupazione di 3,5 miliardi. Lo stesso Führer in quella circostanza ne certificò il valore legale e dispose il risarcimento. Ma durante la Conferenza di Parigi alla Grecia vennero riconosciuti solo 7,1 miliardi anziché i 14 richiesti. L'Italia restituì come doveva la propria parte, mentre la Germania no. Un rapporto del luglio 2011 vergato dall'economista francese Jacques Delpla sostenne che Berlino avrebbe dovuto alla Grecia 575 miliardi. Nel 2015 anche la Duma annunciò una commissione per calcolare i danni bellici subiti dai russi. Secondo il quotidiano Izvestia, il conto risultante dovrebbe essere presentato alla cancelliera tedesca come obbligo di riparazione. La Camera bassa del Parlamento moscovita istituì 5 anni fa un gruppo di lavoro per calcolare i danni causati dalla Germania nell'attacco all'Unione Sovietica del '41. Gli accordi di Yalta prevedevano solo alcuni beni tedeschi (mobili, vestiti, attrezzature industriali) come trofeo di guerra per la parte sovietica ma, secondo il Parlamento, questa non rappresentava una compensazione per il danno arrecato all'economia.
Accordo sui debiti esteri germanici. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. L'accordo sui debiti esteri germanici, noto anche come accordo sul debito di Londra (in tedesco rispettivamente Abkommen über deutsche Auslandsschulden e Londoner Schuldenabkommen, in inglese Agreement on German External Debts e London Debt Agreement), è stato un trattato di parziale cancellazione del debito firmato a Londra il 27 febbraio 1953 tra la Repubblica Federale di Germania da una parte e Belgio, Canada, Ceylon, Danimarca, Grecia, Iran, Irlanda, Italia, Liechtenstein, Lussemburgo, Norvegia, Pakistan, Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord, Repubblica francese, Spagna, Stati Uniti d'America, Svezia, Svizzera, Unione Sudafricana e Jugoslavia dall'altra.
Termini dell'accordo. I negoziati durarono dal 27 febbraio all'8 agosto 1953. Il trattato, ratificato il 24 agosto 1953, impegnava il governo della Repubblica federale di Germania sotto il cancelliere Konrad Adenauer a rimborsare i debiti esterni contratti dal governo tedesco tra il 1919 e il 1945 ed era accoppiato al concordato sul rimborso parziale dei debiti di guerra alle tre potenze occidentali occupanti. Furono prese in considerazione le esigenze di 70 Stati, 21 dei quali provenienti direttamente dai partecipanti ai negoziati e firmatari del contratto; i Paesi del blocco orientale non vennero coinvolti e le loro richieste furono ignorate. In fase di negoziazione, il totale ammontava a 16 miliardi di marchi di debiti degli anni 1920 inadempiuti negli anni 1930, ma che la Germania decise di rimborsare per ristabilire la sua reputazione. Questa somma di denaro venne pagata ai governi e alle banche private di Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna. Altri 16 miliardi di marchi erano rappresentati da prestiti del dopoguerra dagli Stati Uniti. Sotto la negoziazione di Hermann Josef Abs, la delegazione tedesca raggiunse un elevato livello di riduzione del debito: con l'accordo di Londra infatti l'importo da rimborsare fu ridotto del 50% a circa 15 miliardi di marchi e dilazionato in più di 30 anni, il che, rispetto alla rapida crescita dell'economia tedesca, ha avuto un minore impatto.
Conseguenze economiche e politiche. L'accordo contribuì in modo significativo alla crescita del secondo dopoguerra dell'economia tedesca e al riemergere della Germania come potenza mondiale economica e permise alla Germania di entrare in istituzioni economiche internazionali come la Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale e l'Organizzazione Mondiale del Commercio. L'accordo normava anche i debiti delle riparazioni della seconda guerra mondiale e questi furono messi in correlazione con la riunificazione tedesca (evento che nel 1953 sembrava lontano e non certo). Fu stabilito che i debiti sarebbero stati congelati fino alla riunificazione della Germania. Quando nel 1990 questo evento si verificò i suddetti debiti furono quasi del tutto cancellati, questo per permettere al nuovo stato di gestire una costosa e difficile riunificazione. Del totale rimasero operative solo delle obbligazioni per un valore di 239,4 milioni di marchi tedeschi che furono pagati a rate. Il 3 ottobre 2010 la Germania terminò di rimborsare i debiti imposti dal trattato con il pagamento dell'ultimo debito per un importo di 69,9 milioni di euro. Dopo la fine della guerra fredda, tra il 1991 e il 1998 furono firmati degli accordi bilaterali di compensazione - simili a quelli degli anni '60 con i paesi occidentali - con la Polonia, la Russia, l'Ucraina, la Bielorussia, l'Estonia, la Lettonia e la Lituania.
Alle richieste del Governo Tsipras nel 2015, la Germania rispose che considerava la questione dei risarcimenti per l'occupazione nazista nella seconda guerra mondiale politicamente e legalmente risolta, stanziando un contributo di un milione di euro per tre anni per gli scambi (culturali) dei giovani greci. Contestualmente, la Merkel negò il piano di salvataggio da 240 miliardi di euro delle banche e l'iniezione di denaro fresco da parte dell'Europa necessario alla sopravvivenza di breve termine delle finanze pubbliche locali, se non a patto di «riforme strutturali, un bilancio solido e un'amministrazione funzionante» Tsipras tranquillizzò gli investitori tedeschi, affermando che non avrebbe adottato nessuna limitazione dei diritti alla proprietà privata nell'maibot della sovranità nazionale. Ad aprile del 2019, la Grecia ha anticipato nuovamente alla stampa l'intenzione di chiedere 270 miliardi di euro alla Germania, a titolo di riparazione dei danni morali e materiali di guerra e delle opere trafugate oltreconfine.
Perché accuso la Germania su debiti, Europa e guerre. Guido Salerno Aletta su formiche.net il 19/07/2015. La Germania non ha mai pagato per i danni delle due guerre mondiali che ha scatenato: ha sempre fatto valere il peso della sua stabilità nel contesto geopolitico. Se oggi è un campione economico mondiale, lo deve tanto alla solidarietà europea per sostenere l’impegno della Riunificazione. La Germania fa le guerre e poi dimentica. La Comunità internazionale ha sempre avuto un occhio di riguardo per i debiti della Germania. Per ben tre volte, nel corso di appena un secolo, Berlino è riuscita ad ottenere straordinari vantaggi facendo valere il suo straordinario rilievo per la stabilità continentale. Tutto comincia con le Riparazioni di guerra stabilite nel Trattato di Versailles del 1919. La principale creditrice della Germania era la Francia, che avrebbe preferito tutt’altra soluzione: la sua frontiera spostata ad est, lungo il Reno. Era una proposta che faceva inorridire gli Inglesi perché riportava alla mente l’espansione napoleonica, contro cui avevano mobilitato ben sette coalizioni prima di riuscire a riportare l’Europa alla Restaurazione delle antiche dinastie con il Congresso di Vienna. Anche il Presidente americano Wilson non poteva accettare questa ipotesi, perché derogava al suo principio ispiratore, secondo cui la pace doveva fondarsi sulla costruzione di Stati nazionali: così come l’Impero Austroungarico andava dissolto, era già troppo aver concesso all’Italia il Sud Tirolo, di lingua tedesca. Fiume fu strappata con forza. Dissolto, e così punito, l’Impero Austroungarico, la penalizzazione della Germania fu quella del pagamento di consistenti Riparazioni per i danni arrecati con la Guerra. Gli Inglesi non temevano soltanto il peso continentale della Francia, ritornato straordinariamente forte, quanto la prospettiva che la Germania sfinita dalla guerra potesse subire il contagio della rivoluzione russa. Per questo occorreva aiutare la Germania a risollevarsi in fretta, anche politicamente: per Chamberlain, l’appeasement non aveva alternative. Gli Usa, pur lontani, non chiedevano di meglio per sostenere la loro economia: cresciuta vigorosamente per via delle esportazioni belliche, iniziava a soffrire per le difficoltà dei debitori europei, vincitori e vinti tutti soffrivano. Fu così che le banche americane cominciarono a finanziare con larghezza la Germania dei governi socialdemocratici, soprattutto dopo che a Wall Street si raccolsero sottoscrizioni pari a ben 10 volte la quota da collocare sul mercato americano dei titoli dello Stato tedesco, che venivano emessi per rimborsare la prima rata delle Riparazioni. Prima con il Piano Dawes del ‘24, e poi con il Piano Young del ’29, si provvide a ristrutturare il debito delle Riparazioni, che si convenne sarebbero state pagate in 59 rate annuali, di cui l’ultima con scadenza 1988.
Le cose andarono ben diversamente: la crisi finanziaria di Wall Street sconvolse il mondo. In Europa, le banche austriache e tedesche ne subirono per prime le conseguenze, essendo penalizzate dalla feroce contrazione dei prestiti a lungo termine che provenivano dagli Usa. Il pagamento delle Riparazioni fu sospeso ancora nel ‘31, in attesa di un nuovo accordo che mai intervenne: l’avvento di Hitler bloccò tutto. Fu così che delle Riparazioni per i danni derivanti dalla Prima guerra mondiale, la Germania non pagò quasi nulla.
Anche dopo la Seconda guerra mondiale, scatenata dalle Potenze dell’Asse, la Germania non ha pagato alcunchè, non avendo mai firmato un Trattato di pace. Va ricordato che invece l’Italia sottoscrisse nel 1947 il Trattato di Parigi, con cui si sottometteva a pesanti condizioni politiche e finanziarie per aver preso parte alle ostilità. Nell’ambito delle riparazioni per riparazioni per i danni arrecati dall’Italia con le operazioni belliche e l’occupazione di territori stranieri, figura ad esempio il pagamento alla Grecia di 100 milioni di dollari al controvalore in oro del 1938. Diversamente dalla Germania, l’Italia ha pagato tutto ed a tutti.
La Germania nel frattempo era stata divisa dalle truppe di occupazione: la RFT, nella parte occidentale con capitale a Bonn, era sotto il controllo tripartito di Usa, Gran Bretagna e Francia; la DDR, nella parte orientale con capitale a Pankow, era sotto il controllo esclusivo sovietico. Berlino, in territorio orientale, era divisa in due. Mentre l’URSS decise autonomamente sulle riparazioni di guerra da porre carico della Germania, che accollò integralmente alla sola DDR sottoposta al suo controllo, le Potenze occidentali avevano interesse a sostenere la stabilità della RFT: la Guerra fredda era già iniziata, così come era calata la Cortina di ferro evocata a Fulton da Churchill per isolare tutti i Paesi dell’Europa dell’Est che erano sotto l’influenza di Mosca. Fu così che gli Occidentali convocarono una Conferenza internazionale per definire il complesso delle questioni relative ai debiti esteri della Germania. Le trattative si conclusero il 27 febbraio 1953, con la firma a Londra di un Trattato che individuava innanzitutto i “Crediti esclusi dall’Accordo”. All’articolo 5 si disponeva che: “L’esame dei crediti governativi verso la Germania derivanti dalla prima guerra mondiale è differito fintanto che la questione non sia stata oggetto di un regolamento generale definitivo”; e che: “L’esame dei crediti, derivanti dalla seconda guerra mondiale, di Stati che furono in guerra contro la Germania o occupati dalla stessa nel corso di tale guerra, compresi il costo dell’occupazione germanica, è differito fino al regolamento definitivo del problema delle riparazioni”. Veniva tutto rinviato, sine die. Il Trattato riguardava solo i debiti esteri che la Germania aveva contratto tra il 1919 ed il 1939: in pratica occorreva regolare le pendenze delle banche americane ed inglesi in quei vent’anni che avevano finanziato lo Stato e le imprese tedesche. I crediti vennero ristrutturati, con un abbuono medio del 60%. Ancora una volta la Germania era riuscita a far valere il suo peso, il valore della sua stabilità nel contesto occidentale, nei confronti della Unione Sovietica. Non solo non pagava le Riparazioni della Prima guerra mondiale, non solo veniva rinviata la definizione dei danni che aveva causato con la seconda Guerra, ma otteneva un enorme sconto sui debiti esteri, pubblici e privati, che aveva contratto fra le due Guerre, fra il 1919 ed il 1939.
Fu nel 1989, con la caduta del Muro di Berlino, che si rese rendeva imminente la prospettiva della Riunificazione Tedesca, agognata per un cinquantennio. Il 12 settembre 1990 venne firmato al riguardo il Trattato per la Sistemazione Finale della Germania, sottoscritto dai governi tedeschi della RFT e della DDR e dalle Quattro Potenze occupanti. Alla Germania riunificata si restituì la sovranità nelle relazioni internazionali e nella gestione delle questioni interne. La solidarietà europea si manifestò con il Trattato di Maastrich, nel 1992: la Germania ottenne un eccezionale sostegno da parte della Unione europea: venne infatti stabilita una deroga al divieto agli aiuti di Stato, confermata ancora nel 2009 nel Trattato di Lisbona. All’articolo 107, comma 2, lettera c), si stabilisce che: «Sono compatibili con il mercato interno: -gli aiuti concessi all’economia di determinate regioni della Repubblica federale di Germania che risentono della divisione della Germania, nella misura in cui sono necessari a compensare gli svantaggi economici provocati da tale divisione. Cinque anni dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, il Consiglio, su proposta della Commissione, può approvare una decisione che abroga la presente lettera».
Siamo nel 2015, i cinque anni sono trascorsi, ma questa eccezione di cui nessun altro Paese ha mai beneficiato, non è stata ancora eliminata. È una disposizione eccezionale, in vigore da 23 anni, che ha consentito al sistema economico tedesco di trasformarsi nella locomotiva che abbiamo davanti: ha consentito di ammodernare l’intero complesso industriale senza ricorrere ai sacrifici sociali che invece oggi si impongono a tutti i Paesi dell’Unione. Anche alla Grecia, che in questi anni di sacrifici ne ha fatti davvero tanti.
La German Treuhandanstalt, l’agenzia istituita per la liquidazione del sistema produttivo della DDR, già alla fine del 1996 aveva accumulato perdite di oltre 250 miliardi di marchi (al cambio di quell’anno, erano pari a 300 mila miliardi di lire, quando l’intero debito pubblico italiano superava di poco il milione di miliardi di lire). Si crearono un milione e mezzo di posti di lavoro, cedendo le imprese a prezzi stracciati e finanziando contemporaneamente i nuovi investimenti, con un rapporto rispetto al prezzo di acquisto che in molti casi arrivava fino ad 11 volte. La mitica fabbrica delle Trabant non fu chiusa, né i suoi operai licenziati; gli impianti furono acquisiti dalla Volkswagen, completamente ristrutturati a spese del governo della Sassonia, aumentando così la capacità produttiva europea di oltre 250 mila vetture “commerciabili”: la Polo è nata così. Per non parlare, poi, dei cantieri navali Vulcan: invece di chiudere, inefficienti come erano, hanno addirittura aumentato la propria capacità produttiva: dalle 540 mila tonnellate di naviglio inservibile del 1990 si passò alle oltre 700 mila tonnellate del 1997/98, in piena competizione con gli altri costruttori europei. Il Commissario europeo alla Concorrenza, Karel Van Miert, già se ne scandalizzava allora, affermando che, se si era fatto tanto per la Germania, non riusciva neppure a immaginare che cosa si sarebbe dovuto fare per favorire l’integrazione dei Paesi orientali, se avessero richiesto di aderire all’Unione europea: non è accaduto nulla. Milioni di tedeschi dell’Est, seguendo le consuete regole europee sugli aiuti di Stato, sarebbero rimasti disoccupati chissà per quanti anni, con le fabbriche chiuse, le imprese fallite ed il sistema bancario squassato. Chissà di quanto sarebbe caduto il Pil della Germania, che invece crebbe in continuazione: furono investimenti sacrosanti per la crescita. Questa è la Storia. La Germania non ha mai pagato per i danni delle due guerre mondiali che ha scatenato: ha sempre fatto valere il peso della sua stabilità nel contesto geopolitico. Se oggi è un campione economico mondiale, lo deve tanto alla solidarietà europea per sostenere l’impegno della Riunificazione. La Germania fa le guerre e poi dimentica. Incassa la solidarietà e dimentica ancora. Non ha memoria ed ancor meno riconoscenza. Vergogna!
Francesco De Palo per il Giornale il 29 marzo 2020. In occasione della Conferenza di Londra del 1953, l' Europa cancellò alla Germania buona parte del suo debito bellico, passaggio propedeutico alla riconquista dei mercati e alla costruzione del modello tedesco, poi sfociato nel miracolo economico che ha troneggiato in Europa. Lo scrisse nel 2014 l' ex ministro degli Esteri tedesco Joschka Fischer nel suo volume Scheitert Europa? (L' Europa sta fallendo?), in cui criticò aspramente le politiche di austerità ispirate dalla cancelliera Merkel e dall' allora ministro delle finanze Schaeuble. In quelle pagine, stampate mentre la Grecia e l' euro erano sul punto di affondare, il politico tedesco rinfrescò la memoria «agli euroegoisti» raccontando che il Paese teutonico è fallito due volte nel Novecento. La prima volta nel '23 e in seguito nel '45. Nella storica Conferenza londinese ci fu anche chi, come l' Italia e la Grecia, decisero di non infierire sulla Germania che aveva un debito di guerra da 23 miliardi di dollari, ovvero l' intero Pil. Per cui i Paesi cancellarono metà del debito, con il restante 50% da «spostare» di qualche decennio, in caso contrario Berlino avrebbe dovuto pagare per altri dieci lustri. Nel 1990 però, all' alba della riunificazione e del saldo di quei denari, l' allora cancelliere Helmut Kohl si oppose al pagamento del restante 50% con, ancora una volta, una pacca sulle spalle da parte di Italia e Grecia che mostrarono una certa pietas. Proprio Atene è quella che ha subito il danno maggiore. Per i danni di guerra del secondo conflitto mondiale la Germania le deve 278 miliardi di euro, compresi 10 miliardi per un prestito che fu preteso dalle forze di occupazione naziste. «Il governo tedesco deve saldare il proprio debito - è la battaglia portata avanti dall' ex eurodeputato greco Manolis Glenzos, eroe nazionale che ammainò la bandiera nazi dall' Acropoli nel '43 -. E non si colleghi la situazione attuale della Grecia con quelle giuste rivendicazioni che risalgono alla guerra». Parole pronunciate nel 2015, nel bel mezzo della crisi dell' Eurozona ad Atene, ma ancora attuali. I danni perpetrati alla Grecia dopo l' invasione di Hitler dell' aprile '41 dovrebbero tenere conto di 300mila cittadini greci morti di fame, come risulta da un rapporto della Croce Rossa Internazionale. In seguito Germania e Italia non solo pretesero cifre elevatissime per le spese militari, ma ottennero forzatamente anche quello che venne definito un prestito d' occupazione di 3,5 miliardi. Lo stesso Führer in quella circostanza ne certificò il valore legale e dispose il risarcimento. Ma durante la Conferenza di Parigi alla Grecia vennero riconosciuti solo 7,1 miliardi anziché i 14 richiesti. L' Italia restituì come doveva la propria parte, mentre la Germania no. Un rapporto del luglio 2011 vergato dall' economista francese Jacques Delpla sostenne che Berlino avrebbe dovuto alla Grecia 575 miliardi. Nel 2015 anche la Duma annunciò una commissione per calcolare i danni bellici subiti dai russi. Secondo il quotidiano Izvestia, il conto risultante dovrebbe essere presentato alla cancelliera tedesca come obbligo di riparazione. La Camera bassa del Parlamento moscovita istituì 5 anni fa un gruppo di lavoro per calcolare i danni causati dalla Germania nell' attacco all' Unione Sovietica del '41. Gli accordi di Yalta prevedevano solo alcuni beni tedeschi (mobili, vestiti, attrezzature industriali) come trofeo di guerra per la parte sovietica ma, secondo il Parlamento, questa non rappresentava una compensazione per il danno arrecato all' economia.
Riccardo Barlaam per st.ilsole24ore.com il 28 marzo 2020. «Scheitert Europa?», «L’Europa fallisce?» si chiede l’ex ministro degli Esteri tedesco Joschka Fischer nel suo libro, appena pubblicato, in Germania che è un durissimo atto di accusa contro le «politiche di euroegoismo» attuate dalla Cancelliera Angela Merkel e dal suo ministro delle Finanze, Wolfgang Schaeuble, la politica dell’«ognuno per sé», come la definisce l’ex leader dei verdi, politico-maratoneta, voce critica dell’attuale dirigenza tedesca. Fischer scrive che è «sorprendente» che la Germania abbia dimenticato la storica Conferenza di Londra del 1953, quando l’Europa le cancellò buona parte dei debiti di guerra. «Senza quel regalo - scrive l’ex ministro tedesco nel suo libro - non avremmo riconquistato la credibilità e l’accesso ai mercati. La Germania non si sarebbe ripresa e non avremmo avuto il miracolo economico». La cura di austerità imposta dalla coppia Merkel-Schaeuble, secondo l’ex ministro tedesco, è stata «devastante» perché ha imposto ai Paesi del Sud Europa «una deflazione dei salari e dei prezzi» impossibile da superare con il peso del rigore; «alla trappola della spirale dei debiti», che condanna questi Paesi a non uscire dalla crisi con il pretesto del risanamento dei conti. Fischer, in definitiva, accusa la Germania della signora Merkel e della sua grande coalizione di «euroegoismo» e di avere la memoria troppo corta. «Se la Bce non avesse seguito le decisioni di Draghi ma le obiezioni dei tedeschi a quest’ora l’euro non esisterebbe più. Il più grande pericolo per l’Europa - conclude il politico tedesco -attualmente è la Germania». Ma cosa si decise alla Conferenza di Londra del 1953? La prima della classe Germania è andata in default due volte durante il Novecento (nel 1923 e, di fatto, nel secondo dopoguerra). In quella conferenza internazionale le sono stati condonati i debiti di due guerre mondiali per darle la possibilità di ripartire. Tra i Paesi che decisero allora di non esigere il conto c’era l’Italia di De Gasperi, padre fondatore dell’Europa, e anche la povera e malandata Grecia, che pure subì enormi danni durante la seconda guerra mondiale da parte delle truppe tedeschi alle sue infrastrutture stradali, portuali e ai suoi impianti produttivi. L'ammontare del debito di guerra tedesco dopo il 1945 aveva raggiunto i 23 miliardi di dollari (di allora). Una cifra colossale che era pari al 100% del Pil tedesco. La Germania non avrebbe mai potuto pagare i debiti accumulati in due guerre. Guerre da essa stessa provocate. I sovietici pretesero e ottennero il pagamento dei danni di guerra fino all’ultimo centesimo. Mentre gli altri Paesi, europei e non, decisero di rinunciare a più di metà della somma dovuta da Berlino. Il 24 agosto 1953 ventuno Paesi (Belgio, Canada, Ceylon, Danimarca, Grecia, Iran, Irlanda, Italia, Liechtenstein, Lussemburgo, Norvegia, Pakistan, Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord, Repubblica francese, Spagna, Stati Uniti d'America, Svezia, Svizzera, Unione Sudafricana e Jugoslavia), con un trattato firmato a Londra, le consentirono di dimezzare il debito del 50%, da 23 a 11,5 miliardi di dollari, dilazionato in 30 anni. In questo modo, la Germania poté evitare il default, che c’era di fatto. L’altro 50% avrebbe dovuto essere rimborsato dopo l'eventuale riunificazione delle due Germanie. Ma nel 1990 l’allora cancelliere Helmut Kohl si oppose alla rinegoziazione dell’accordo che avrebbe procurato un terzo default alla Germania. Anche questa volta Italia e Grecia acconsentirono di non esigere il dovuto. Nell’ottobre 2010 la Germania ha finito di rimborsare i debiti imposti dal trattato del 1953 con il pagamento dell'ultimo debito per un importo di 69,9 milioni di euro. Senza l’accordo di Londra, la Germania avrebbe dovuto rimborsare debiti per altri 50 anni. Il resto della storia è noto. E’ scritto nei sacrifici imposti dalla rigida posizione tedesca ai Paesi del Sud Europa che da anni combattono con una crisi che sembra senza fine. Fischer non ha dubbi. E punta il dito contro la sua connazionale Merkel: «Né Schmidt e né Kohl avrebbero reagito in modo così indeciso, voltandosi dall’altra parte come ha fatto la cancelliera. Avrebbero anzi approfittato della impasse causata dalla crisi per fare un altro passo avanti verso l’integrazione europea. La Merkel così distrugge l’Europa».
Angela ha la memoria corta? Andrea Massardo l'1 luglio 2020 su Inside Over. Era il 1990 quando finalmente divenne possibile per la Germania giungere nuovamente ad una sua riunificazione, a seguito del trattato successivo alla Seconda guerra mondiale che aveva segnato la divisione tra Germania Ovest (RFT) e Germania Est (RDT). Questa divisione, nel corso dei decenni, aveva portato ad una enormità di differente tra i due scenari, con la RFT lanciata nelle logiche capitaliste mondiale e la RDT rimasta legata all’Unione Sovietica ed alle logiche socialiste della “cortina di ferro”. Una divisione che, al 1990, aveva creato notevoli problemi alla Germania unita e che contribuì senz’ombra di dubbio al rallentamento della locomotiva produttiva che aveva caratterizzato Bonn nella seconda metà del secolo scorso. Tuttavia, dopo un iniziale momento necessario a garantire un riequilibrio la Germania è riuscita finalmente a ripartire, diventando la potenza europea e mondiale che tutti noi siamo abituati ormai a conoscere – e con la quale ci siamo dovuti abituare a convivere.
La Germania orientale ai giorni nostri. Nonostante le operazioni messe in campo per ridistribuire la ricchezza all’interno del Paese, ancora ai giorni nostri la ex-RDT non si può considerare allo stesso livello della controparte occidentale. I lunghi anni passati sotto il socialismo hanno impoverito le famiglie e l’economia, generando anche una forte emigrazione che non ha permesso, proprio nel momento decisivo, di godere di solide basi per la ripartenza. Al punto che, ancora negli anni ’90, la disoccupazione sfiorava il 20% della popolazione lavorativamente attiva. In questa situazione, ovviamente, ebbero gioco facile i grandi capitalisti della RFT, che poterono rilevare aziende a prezzo stracciato e garantirsi un salario inferiore per il ceto operaio. E questo elemento, forse più di tutti gli altri, ha contribuito alla situazione non ancora totalmente stabilizzata dei giorni nostri, con la popolazione che vive nei cinque Lander orientali che ancora oggi risulta al di sotto della media federale.
Berlino ha la memoria corta. Se Berlino ebbe in quell’occasione i mezzi economici per ingranare fu in buona parte merito della Comunità europea, che concentrò i suoi sforzi in favore dell’alleato, sia sotto l’aspetto dei finanziamenti sia sotto l’aspetto della convalida di trattati passati – come quello relativo alla restituzione dei debiti di guerra – divenuti ormai inattuali. Senza questi presupposti, infatti, sarebbe stata impossibile la messa in atto di un piano di ristrutturazione del debito della RDT così come il potenziamento delle linee di comunicazione e del salvataggio delle industrie delle regioni precedentemente sotto la sfera sovietica. E se ciò avvenne, fu grazie ad uno slancio di fiducia nei confronti del decennale alleato e nella speranza – tutt’altro che certa – che Berlino fosse un giorno in grado di ottemperare ai suoi impegni finanziari: cosa che di fatto avvenne. Ai giorni nostri, però, con la Germania tornata ad imporsi in Europa grazie alla sua industria di “ferro” ed il suo comparto finanziario, che fine ha fatto la memoria dei tedeschi?
Angela Merkel e la politica del rigore. Da quando alla cancelleria della Germania siede Angela Merkel, in fondo, le uniche parole sono state quelle di “rigore” ed “austerity“, soprattutto rivolte (come nel caso della Grecia e dell’Italia) a quegli alleati in difficoltà che nemmeno vent’anni prima l’aveva sostenuta. Con la differenza che, in quell’occasione, non esistevano nemmeno dei trattati europei tanto stringenti come quelli attuali, e in buona parte si poté considerare un’opera di filantropia. Ma adesso, la stessa Germania non sembra più così convinta di rendere il favore che le fu concesso negli scorsi anni, cercando sempre di ridurre al massimo la possibilità di manovre in deficit da parte dei propri alleati. La Germania, in fondo, non è sempre stata quel colosso che noi tutti conosciamo ed ha avuto modo anche lei di cadere in quei periodi di stallo e stagnazione economica che in assenza di un aiuto estero sarebbero stati difficili da superare. Tuttavia, mentre nel suo caso quasi sempre le difficoltà sono state condonate, non sempre ciò si è potuto considerare valido per quelli che hanno invece avuto bisogno dell’aiuto di Berlino, la quale si è sempre comportata in modo più restio nella concessione di crediti, a patto che essi non fossero utilizzati secondo le sue volontà. E questa, probabilmente, è una delle macchie peggiori della Germania degli ultimi 30 anni.
· "Il Recovery Fund urgente".
Si chiama Next Generation Eu, non Recovery Fund. E serve a investire sul futuro. La parola "futuro" non compare neppure una volta nei documenti predisposti dal governo per la ripartenza. E sembra che nessuno abbia capito che i fondi europei devono avviare un processo di trasformazione profonda del sistema socioeconomico. Enrico Giovannini su L'Espresso il 27 ottobre 2020. Spagna 18 - Italia 0. Francia 18 - Italia 0. Non sono risultati di partite di rugby, ma il confronto tra il numero di volte in cui la parola “futuro” (futura, future, futuri) compare nei documenti predisposti dai governi dei tre Paesi in preparazione del “Piano di ripresa e resilienza” (Pnrr). Certo, considerando che l’iniziativa su cui verranno erogati i fondi si chiama “Next generation Eu”, l’assenza di tale termine nel Piano italiano appare piuttosto sorprendente. Ma anche drammaticamente in linea con il fatto che in Italia quest’ultimo venga sistematicamente, ed erroneamente, chiamato “Recovery fund”, termine sconosciuto agli accordi europei.
L'Italia sta già facendo del suo peggio con il Recovery Fund. Tra progetti incoerenti che non rispondono alle richieste europee e nessuna trasparenza, il nostro Paese rischia seriamente di mancare l’occasione per usare bene il denaro in arrivo. Gloria Riva su La Repubblica il 14 ottobre 2020. Senza un’idea di futuro, l’Italia rischia di perdere il treno del Recovery and Resilience Facility e addio ai 209 miliardi di prestiti e stanziamenti concessi dall’Europa al nostro Paese. È l’intero iter di presentazione del piano a non rispondere alle direttive europee, che prevede innanzitutto la messa in campo di progetti a lungo termine, sufficientemente rispondenti alle criticità evidenziate dalla Commissione per ciascuna nazione. Anziché puntare su obiettivi strategici, l’Italia è partita dall’apertura dei cassetti, dove giacevano progetti incompiuti, più o meno datati, seicento in tutto, poi scremati a cento. E non è detto che questi ultimi rispondano a quell’idea di nuova Europa che la Commissione vuole sostenere.
Così gli altri Paesi europei usano il Recovery fund. Parigi sogna di diventare un hub dell’idrogeno, i paesi dell’Est provano a liberarsi del carbone e la Spagna vuole rilanciare l’industria turistica. Ecco come i nostri vicini useranno i fondi. Federica Bianchi su L'Espresso l'11 settembre 2020. La Spagna può. La Francia rilancia. La Germania paga. Ognuno a suo modo, e con un suo slogan, nelle prossime settimane i 27 membri dell’Unione europea inizieranno a portare a Bruxelles piani e idee su come investire la manna del Next Generation Eu (acronimo: Ngeu), da noi conosciuto come Recovery fund, siglato lo scorso 21 luglio. Si tratta di 433 miliardi di sussidi, 67 di garanzie e 250 di prestiti che si aggiungono agli oltre 1.100 miliardi del bilancio dell’Unione 2021-2027. È la prima volta che gli Stati europei avranno la possibilità di realizzare alcuni dei loro sogni nel cassetto, quelli che i politici citano sempre perché parlarne non costa nulla ma tutti sanno che le risorse non ci sono: da quel ponte proibitivo alla riforma del sistema fiscale, dalla realizzazione di una fibra veloce universale alla costruzione di una scuola all’altezza del futuro. Per il momento le idee sono tante ma confuse. Spesso più tessere di un patchwork che di una strategia. Eppure l’obiettivo del Ngeu non è solo quello di aiutare gli Stati, soprattutto i più colpiti dal Covid-19, a riprendersi, riportando l’orologio al 2019. È soprattutto reimpostare la struttura economica e sociale della Ue e gettare le fondamenta di una nuova società non solo digitale e verde ma anche più giusta e più competente. L’occasione per conseguire quelle vecchie riforme mai attuate e quegli investimenti necessari ma troppo grandi per bilanci normali.
Marco Bresolin per “la Stampa” il 13 Ottobre 2020. Solo una piccola parte dei fondi del programma europeo Sure arriverà entro la fine di quest' anno. E per vedere le prime risorse del Recovery Fund bisognerà attendere almeno fino a giugno del 2021, se non oltre, visto che la prima emissione di bond non dovrebbe iniziare prima di quella data. Anche se l' Europarlamento e il Consiglio Ue dovessero trovare un accordo a tempo di record nella difficile trattativa sul bilancio Ue. La Commissione sta mettendo a punto il calendario che le consentirà di raccogliere sui mercati quasi 900 miliardi di euro per finanziare le due misure straordinarie approvate per far fronte alla crisi economica. E con ogni probabilità i governi dovranno attendere la metà del prossimo anno per ricevere l' anticipo del 10% del Recovery Fund, che nel caso italiano equivale a quasi 20 miliardi di euro: 6,5 di sovvenzioni e 12,7 di prestiti. Per far partire il "Next Generation Eu" servono infatti ancora una serie di passaggi. Prima di tutto il via libera del Consiglio Ue, poi la ratifica nei 27 parlamenti nazionali. Dopodiché i governi presenteranno nel dettaglio i loro piani a Bruxelles e a quel punto inizierà la fase di valutazione dei progetti. Il passaggio richiederà tre mesi di tempo (due mesi per l' analisi della Commissione, uno per quella del Consiglio), ma prima di arrivare all' esborso del 10% servirà una tappa fondamentale: la raccolta dei fondi sui mercati. I bond che saranno emessi dalla Commissione avranno una durata media di 15 anni e, secondo gli analisti, per le obbligazioni decennali i tassi dovrebbero essere leggermente negativi (attorno al -0,2%). Il commissario al Bilancio, Johannes Hahn, ieri ha confidato a Bloomberg di essere piuttosto fiducioso che tutto andrà per il meglio, anche perché la scorsa settimana c' è stata una teleconferenza con circa 550 investitori interessati al piano. Il vero test sarà la prima emissione dei "social bond" di Sure, prevista per la fine di ottobre. Non coprirà l' ammontare totale del piano (100 miliardi), ma soltanto una piccola parte: le stime, non ufficiali, dicono che si fermerà a circa un terzo. Il resto arriverà il prossimo anno. Nel 2020 l' Italia dovrebbe dunque ottenere circa 9 miliardi di prestiti (su un totale di 27,4). L' attenzione di Roma ora è tutta sul Recovery Fund. Proprio ieri la commissione Bilancio della Camera ha dato il via libera alle linee-guida del piano che prevede di utilizzare 205 miliardi del programma Ue, mentre oggi ci sarà l' ok dell' Aula (le opposizioni si sono astenute). Secondo Bankitalia, i fondi Ue e le misure espansive previste porteranno uno 0,9% di crescita aggiuntiva nel 2021. Ma via Nazionale lancia un avvertimento sul debito, la cui riduzione «è fortemente dipendente dagli scenari di crescita» e quindi «esposto agli stessi rischi, che sono considerevoli» per via delle incertezze legate alla pandemia. Nei prossimi giorni il governo avvierà il dialogo con la Commissione europea, alla quale dovrà spedire anche la bozza della manovra (che di norma va inviata entro il 15 di ottobre, anche se il Cdm dovrebbe tenersi soltanto venerdì 16). Per martedì 20 ottobre è inoltre prevista una visita in Italia di Ursula von der Leyen, ma al momento la missione non è confermata per via della situazione sanitaria.
Recovery Fund, chi vince e chi perde nello storico accordo. L'Italia è il Paese che guadagnerà di più (81,4 miliardi di sussidi e 127,4 di prestiti) mentre tra gli sconfitti la visione verde e digitale dell'Europa. Dati, cifre e scenari. Federica Bianchi il 21 luglio 2020 su L'Espresso. All'alba del 21 luglio è stato trovato l'accordo sul Fondo di ripresa dalle conseguenze economiche del Covid e anche sul prossimo bilancio settennale dell'Unione europea. Dopo quattro giorni e quattro notti. Non è stato facile. Adesso manca l'approvazione (o le modifiche) del parlamento europeo che si riunirà in plenaria giovedì. Veniamo ai numeri. Per il Fondo che dovrà aiutare gli stati più colpiti dalla pandemia, la proposta della Commissione europea posta sul tavolo del Consiglio dei 27 valeva 750 miliardi di euro, di cui 500 di finanziamento a fondo perduto e 250 di prestiti. Risultato finale: i 750 miliardi di euro rimangono ma saranno 390 miliardi a fondo perduto (meno dell'1 per cento del bilancio annuale della Ue) e 360 di prestiti a tassi vicino allo zero. In aumento è stato aggiustato anche l'ammontare del bilancio settennale da 1.074 miliardi di euro a 1.082 miliardi. Diciamolo subito: l'Italia è il Paese che guadagnerà di più da questa storica pioggia di soldi europei, che saranno ottenuti, a partire dall'anno prossimo, grazie all'emissione per la prima volta di forme di debito europeo (comune). Dopo avere presentato i progetti in cui investire il denaro, l'Italia avrà a disposizione 81,4 miliardi di sussidi e 127,4 di prestiti. La grande perdente sarà invece la visione verde e digitale dell'Europa e l'ambizione di voler legare i fondi al rispetti dello stato di diritto da parte di Polonia e Ungheria. "Avremo una grande responsabilità: con 209 miliardi abbiamo la possibilità di far ripartire l'Italia con forza e cambiare volto al Paese. Ora dobbiamo correre". Il premier Giuseppe Conte ha espresso soddisfazione per l'accordo raggiunto nella notte sul Recovery Fund: "Abbiamo conseguito questo risultato tutelando la dignità del nostro Paese e l'autonomia delle istituzioni comunitarie". COME SARA' SUDDIVISO:
360 miliardi prestiti
312,5 miliardi sussidi ai singoli Paesi
47,5 miliardi ReactEu (fondi di risposta all'emergenza covid)
5 miliardi (dovevano essere 13,5) Horizon Europe (il maggiore programma Ue per la ricerca scientifica)
5,6 miliardi (dovevano essere 30,3) InvestEu (per gli investimenti strategici comunitari)
7,5 miliardi Sviluppo rurale
10 miliardi (dovevano essere 10) Just Transition Fund, chiave di volta della transizione ambientale
1,9 miliardi RescEu (programma di protezione civile europea)
Cancellati: i 7,7 miliardi di fondi europei per il programma per la salute, il primo tentativo di dare una riposta europea alle emergenze sanitarie (la salute è competenza esclusiva degli Stati membri).
CHI VINCE E CHI PERDE.
Vincono soprattutto i piccoli Paesi che sono riusciti ad imporre le loro pesanti condizioni sul resto d'Europa: meno sussidi, taglio delle risorse complessive e aumento dei “rebates”, cioè degli sconti sui soldi che dovranno versare al bilancio comunitario nei prossimi sette anni, a scapito di tutti gli altri che vedranno aumentare il conto. Sono riusciti nella loro feroce opposizione grazie al sistema di voto unanime e non calibrato in base a Pil e popolazione che vige su queste materie nel Consiglio europeo.
Vince l'Italia che ha ottenuto quello che voleva in cambio di una supervisione del Consiglio e della Commissione sulle modalità di investimento delle risorse sia al momento della decisione dell'esborso sia successivamente in corso d'opera. In quest'ultimo caso gli stati che temono un uso scorretto dei fondi possono azionare il “freno”, sospendo l'erogazione e portare le loro riserve al Consiglio europeo. In questa sede verranno esaminate le criticità e prese le decisioni a maggioranza qualificata e non all'unanimità (come avrebbe voluto il premier olandese Mark Rutte). La ragione dietro queste condizionalità è in parte il frutto di una generica sfiducia verso nella capacità dell'Italia di utilizzare le risorse a disposizione senza disperderle, e in parte della paura che con nuove elezioni possa nascere a Roma un governo euroscettico con idee proprie e non europee sull'utilizzo di quei soldi.
Vince la possibilità di condividere il debito e di emettere debito comune europeo, un'idea impensabile prima del Covid e possibile solo grazie all'accordo franco-tedesco (dimostratosi indispensabile) e alle capacità di statista di Angela Merkel.
Vince l'idea di Europa come collezione di Stati, dove alzare la voce porta vantaggi, più che progetto comune gestito centralmente a Bruxelles.
Perdono non solo i programmi congiunti europei, cuore della proposta della Commissione Von der Leyen, sacrificate sull'altare degli interessi e egoismi nazionali, in primis la transizione ecosostenibile, deprivata di risorse cruciali, ma anche la possibilità di un'azione comune parametrata sulla condivisione di obiettivi comuni, aldilà dei vantaggi contabili dei singoli Stati.
I piccoli stati della Lega anseatica, solo in parte sotto lo scacco dei loro sovranisti (Olanda sì, Austria no ad esempio), si sono concentrati sul conto economico anziché sui benefici enormi che ogni anno ricevono dalla partecipazione del progetto europeo, sia in termini politici che economici (senza mercato comune perderebbero la maggioranza dei loro clienti). In ogni caso però rimangono contributori netti al bilancio dell'Unione, insieme a Francia e Germania.
Perde il principio che l'Europa non è solo un mercato ma una comunità politica e sociale organizzata intorno ai principi dello stato di diritto. Per ottenere il voto di Ungheria e Polonia il Consiglio ha rinunciato a vincolare saldamento il disborso dei soldi al rispetto dei principi base della democrazia.
COSA È SUCCESSO.
La grande battaglia è stata tra i cinque Paesi che la stampa italiana definisce “frugali” e quella francofona “tirchi” (Olanda, Austria, Danimarca, Svezia e Finlandia), i paesi di Visegrad, ovvero dell'Est Europa, allergici a qualsiasi condizionalità sullo stato di diritto, e i Grandi Paesi – Germania e Francia che per prime avevano avanzato la proposta da 500 miliardi di sussidi per il recovery fund, e poi Italia e Spagna, Paesi maggiormente colpiti dal virus. I cinque del Nord, da tempo contributori netti al bilancio Ue ma anche tra i paesi che dalla Ue hanno maggiormente beneficiato, soprattutto Olanda e Austria, in termini di esportazioni, hanno dichiarato subito di non voler “regalare” soldi ai Paesi “spendaccioni” come l'Italia. E questo nonostante la Germania sostenesse per la prima volta che l'aiuto economico ai Paesi più colpiti dal virus era nell'interesse del mercato unico e quindi di tutti, in primis di coloro per cui quel mercato è insostituibile. Il grande problema dell'Unione europea resta il suo peccato originale: il voto all'unanimità sulle scelte cruciali. Nato per non indebolire la sovranità nazionale finisce per non consentire l'evoluzione del progetto europeo.
Recovery Fund, Antonio Socci a Silvio Berlusconi: "Qualcuno gli ricordi che chi remava contro l'accordo non erano i sovranisti". Libero Quotidiano il 21 luglio 2020. Al Tg5, Silvio Berlusconi ha commentato l'accordo sul Recovery Fund raggiunto a Bruxelles da Giuseppe Conte. Ha parlato di una "buona notizia", pur mettendo in guardia: attenzione, i soldi arriveranno soltanto nel secondo trimestre del 2021. Insomma, chissà cosa accadrà prima di quel giorno. E ancora, il leader di Forza Italia ha aggiunto: "Certamente questo difficile compromesso deve far riflettere sul futuro, sui pericoli per l'Europa sul condizionamento che i partiti sovranisti esercitano sulla politica di diversi Paesi Ue". Insomma, dito puntato contro i cosiddetti paesi frugali. Che, però, sono guidati da governi tutt'altro che sovranisti. Circostanza che viene fatta notare a Berlusconi, su Twitter, da Antonio Socci, il quale cinguetta: "Però qualcuno spieghi a Berlusconi che i governi che hanno remato contro questo accordo sono tutti socialisti, popolari e liberali...".
Mario Ajello per ''Il Messaggero'' il 21 luglio 2020. Nel Pd, li considerano «compagni che sbagliano». Rutte un «compagno»? No, non lui e neanche il popolare Kurz, ma il resto della squadra dei «Frugali» - 3 su 5 - è composto da socialisti e sinistresi doc. E questo è il problema, questa la delusione massima. E infatti ieri, tra Montecitorio e il Nazareno, gli esponenti del partito di Zingaretti non si davano pace: «Ma è mai possibile che proprio da sinistra vengano gli attacchi all'Italia rosso-gialla?». Della serie: «Dai nemici mi guardi Dio che dagli amici mi guardo io».
Insomma, se il cattivissimo Rutte («C'hai Rutte o c...», ironizza volgarmente ieri pomeriggio in slang un parlamentare dem napoletano) è un liberale furbo e capace di cambiare schemi e coalizioni tra destra e sinistra pur di galleggiare e resistere, con lui a pestare i piedi all'Italia sul Recovery Fund nelle trattative infinite e nei litigi notturni si sono distinti tre premier socialisti. Il primo: lo svedese Lofven, alla guida di un governo traballante e poco amato in patria, pallido erede della tradizione socialdemocratica di quel Paese ormai quasi arrivato alle battute finali.
La seconda: la danese Frederiksen, quella che l'altra notte quando, in nome del politicamente corretto, ha cominciato a dire che «l'Europa deve essere più attenta alla difesa dello Stato di diritto», è stata rimbrottata dalla Merkel: «Non posso certo essere io a prendere lezioni su questo tema, che oltretutto non c'entra nuilla con ciò di cui stiamo parlando» (di soldi).
E poi, c'è la star: Sanna Marin. Ossia la giovane guida socialista (34 anni) della Finlandia, che era diventata l'eroina della sinistra nostrana in estasi: «Ah quanto è brava, e pure caruccia, la Marin!». Peccato però che ora anche lei sia schierata dalla parte di quelli che, nel Pd e in M5S, vengono chiamati «i nemici dell'Italia». Oddio, non che la bella Sanna e gli altri social-frugali siano spietati come Rutte. Anzi si sono smarcati talvolta dagli eccessi del premier olandese.
Ma con lui condividono una sorta di idea di lotta di classe: quella dei piccoli Stati europei contro il ceto dei Paesi più grandi e più pesanti come l'Italia. In più, visto che come dice Conte «ogni nazione ha il suo Salvini», sia la Marin sia gli altri temono di venire sbranati dai sovranisti interni e sovraneggiano a loro volta. Il problema è che, nella trattativa europea, sono variamente impegnati 4 pezzi grossi dem: il ministro Amendola, Gentiloni, Sassoli, Gualtieri. Non sia mai che, per colpa dei socialisti scandinavi, il Pd non possa sbandierare in vista del voto delle Regionali di aver portato a casa un euro-tesoretto per la patria. Compagni sì, quelli del Nord, ma vatti a fidare!
DAGONEWS il 22 luglio 2020. Oggi ovviamente è il giorno della celebration per Peppino Conte, e chi non si unisce al coro viene accusato di essere un rosicone con la dentiera avvelenata. A noi i cori non piacciono molto e corriamo il rischio: il vero vincitore della trattativa sul Recovery Fund si chiama Angela Merkel. Ogni proposta e ogni mediazione passava da lei, era lei a tenere i rapporti con i "frugali" Rutte e Kurz. È lei che ha insistito con gli altri paesi che sostenevano il suo piano, presentato con Macron (e non quello originario Gentiloni-Breton, che era da 1500-1600 miliardi, più del doppio) facendo capire loro che in Olanda ci saranno le elezioni nei prossimi mesi e che piuttosto di rischiare una vittoria dell'ultra-sovranista Wilders, bisognava accontentare Rutte. E il frugoletto olandese ha portato a casa anche più dell'Italia: non solo l'aumento dei famigerati rebate, gli sconti sui contributi al bilancio dell'Unione Europea che dovevano sparire con la Brexit e che invece sono stati potenziati (a spese di Francia, Italia e Spagna), ma ha incassato anche il cosiddetto ''freno di emergenza'', ovvero la possibilità per un singolo stato membro di portare davanti al Consiglio e alla Commissione il comportamento ''irregolare'' di un altro. Si tratta di una ulteriore vittoria per la Merkel, che ha finto di accontentare Rutte controvoglia ma in realtà è ben felice di avere un potente fischietto per ammonire (o cacciare) chi dovesse fare il mattacchione con i conti pubblici o nel rapporto con Bruxelles. Su quel fischietto ci sono incisi vari nomi, primi tra tutti Salvini e Le Pen. Già, perché il Recovery Fund sarà spalmato su 10 anni, quindi ci saranno molte occasioni per minacciare di chiudere i rubinetti a chi dovesse fare la pipì fuori dal vasino europeista. Dunque è vero che Conte è andato a Bruxelles e ha fatto il duro, ma ha potuto farlo perché aveva le spalle coperte da due tipini che si chiamano Merkel e Macron. Se fosse andato da solo avrebbe preso solo schiaffi, proprio come quando presentò la prima e ultima manovra giallo-verde nell'autunno 2018 e dovette accontentarsi di quel ridicolo 2,04% di deficit. Non è che il discepolo di Guido Alpa e seguace di Padre Pio Travaglio si sia trasformato per magia, nel giro di un anno e mezzo, nel re dei negoziatori. È che al tavolo della trattativa aveva accanto due manganellatori che alla fine avrebbero ottenuto quello che volevano (pena la fine dell'Europa unita). È stata Angelona a buttare fuori dalla sala riunioni i ''frugali'' e a far scattare quella foto con Giuseppi, von der Leyen, Macron e Sanchez, per far capire ai riottosi paesi del Nord che in quella stanza c'erano i due terzi della popolazione e del pil europei e che quel negoziato sarebbe arrivato a una svolta in un modo o nell'altro. La vittoria è di Merkel e dell'Unione Europea. L'Italia si può considerare trionfatrice per un paio di giorni o nelle veline di Casalino, ma la verità è che appena tornato a Roma il premier si è trovato Gualtieri ad aspettarlo, ed è stato messo davanti al problema principale del governo: i fondi. Essì, perché se Conte ha riferito a Mattarella l'intenzione di rinviare la decisione sul Mes a ottobre, dopo le regionali, per evitare l'implosione dei 5 Stelle, la cassa pubblica ha già raschiato il fondo del barile. L'unica cosa che potrebbe cambiare sull'ex fondo Salva-Stati è se la Spagna, che si trova decine di nuovi focolai e potrebbe trovarsi costretta a chiedere i fondi. Il ministro del Tesoro sta preparando l'extra-deficit da 20 miliardi da sottoporre al Parlamento, ma perché credete che il governo sia andato allo scontro con i commercialisti – in sciopero contro le tasse, una cosa mai vista – pur di confermare la scadenza fiscale del 20 luglio? Perché non c'è più il becco di un quattrino. Il duo Conte-Gualtieri ha preferito fare la figura barbina di un rinvio di 20 miseri giorni delle scadenze fiscali, e ha spremuto le partite Iva pretendendo l'anticipo su un 2020 che finora è stato un bagno di sangue, il tutto per non dover ammettere, nel pieno delle trattative sul Recovery, che l'Italia non poteva permettersi di rinunciare a quegli F24. Se non sarà prorogato lo stato di emergenza, mancando i presupposti legali, non saranno prorogati neanche il blocco dei licenziamenti e la cassa integrazione, e la bomba sociale – che la ministra Lamorgese ogni giorno agita davanti agli occhietti del governo – è lì pronta a esplodere. Senza Mes e in attesa dei soldi del Recovery che arriveranno nel 2021, che può fare il governo? Gualtieri ha davanti tre strade:
- Chiedere un anticipo dal bilancio dell'UE;
- puntare su rapide nuove tasse europee che non puniscano i cittadini ma le ricche multinazionali (americane), vedi la web tax;
- emettere subito altri titoli di Stato.
Ursula von der Leyen è favorevole ai bond ''perpetui'' (pagano gli interessi ma il capitale non viene mai restituito), perché non andrebbero ad accrescere il debito pubblico. Ma i soliti frugali si oppongono: se non possono usare la leva del debito eccessivo, non hanno più armi da usare contro Italia e soci. Probabilmente il ministro del Tesoro dovrà ricorrere a un mix di queste tre opzioni. Ma il punto centrale è che la questione dei fondi non è affatto risolta. La domanda principale è chi li gestirà? Zingaretti vorrebbe affidarli ai singoli ministeri (in particolare lo Sviluppo Economico di Patuanelli, la Pubblica Istruzione di Azzolina, la Salute di Speranza, l'innovazione di Pisano), sotto il coordinamento del dalemone Gualtieri. Conte naturalmente li vuole gestire personalmente. In mezzo c'è Di Maio che vorrebbe che fossere affidati al sottosegretario alla presidenza del Consiglio Fraccaro o, come lo chiamano tra i 5 Stelle, Fraccazzo da Velletri, un tipino che gioca su due tavoli: Giggino e Peppino.
Alessandro Barbera per “la Stampa” il 22 luglio 2020. Se giudicassimo l'accordo firmato a Bruxelles dall'andamento dello spread fra Btp italiani e Bund tedeschi, non ci sarebbe motivo di esultare. Ieri la forchetta di rendimento fra titoli italiani e tedeschi si è lievemente allargata. Centosessanta punti base sono nulla rispetto a quanto è costato in passato il debito italiano, eppure è abbastanza per mantenere la palma di Paese più rischioso dell'area euro, persino più della Grecia. Perché? Gli analisti di Borsa sono soliti andare al dunque. E preso atto di tutto ciò che di storico effettivamente c'è - l'Europa si dota di un debito comune - si sono letti le condizioni alle quali saranno vincolati i 750 miliardi del Recovery Fund. Fra autorizzazioni, verifiche e monitoraggi ottenere i fondi non sarà mai una passeggiata, né sotto forma di prestiti, né tanto meno se a fondo perduto. Nel mirino potrebbero finire le pensioni anticipate di Quota 100. Il documento di sessantasette pagine apparso all'alba di ieri sul sito della Commissione rappresenta per tabulas i quattro giorni di scontri fra il blocco rigorista e il resto d'Europa. A pagina sei, punto diciannove, il più decisivo dei vincoli: «I piani per la ripresa e la resilienza sono valutati dalla Commissione entro due mesi dalla presentazione». Nella valutazione «il punteggio più alto» è per la «coerenza con le raccomandazioni specifiche per Paese». Si terrà conto «del rafforzamento del potenziale di crescita, e della creazione di posti di lavoro». Fin qui nulla di troppo complicato: si intuisce che i criteri saranno lasciati al buon senso dei leader. Ma di quanti, visto che in Europa se ne contano ventisette? Qui il passaggio più insidioso: «La valutazione dei piani deve essere approvata dal Consiglio a maggioranza qualificata su proposta della Commissione, mediante un atto di esecuzione che il Consiglio si adopera per adottare entro quattro settimane dalla proposta». Ipotizziamo che l'Italia chieda dieci miliardi a fondo perduto, ma nel frattempo il deficit a giudizio di olandesi e austriaci resti troppo alto: se facessero proseliti, il governo potrebbe vedersi rifiutato il finanziamento. In ogni caso occorrerà spiegare con precisione che cosa si intende fare con quei soldi: «In merito al soddisfacente conseguimento degli obiettivi intermedi e finali la Commissione chiede il parere del comitato economico e finanziario». Il comitato è formato dagli sherpa dei ministri finanziari. Ipotizziamo allora che nessuno abbia obiezioni sul contributo all'Italia, ma ci siano dubbi sull'uso che ne farà. La Commissione chiede spiegazioni, e le spiegazioni non appaiono convincenti. Rinvia la questione al Consiglio, il quale «non approva pagamenti fino a quando non avrà discusso la questione in maniera esaustiva». Il testo parla di un tempo «di norma» non superiore ai tre mesi. Non precisa invece il significato di «maggioranza qualificata». Di certo non basterà il veto di un singolo Paese. Poi ci sono le condizioni sui singoli capitoli. Quelli relativi al finanziamento delle politiche ambientali, ad esempio, che «ogni anno» dovranno essere conformi agli obiettivi climatici dell'Unione. O - ancor più delicato per noi - la voce «efficienza della pubblica amministrazione». Al punto 128 sono indicati gli importi massimi erogabili di qui al 2027, circa 73 miliardi di euro. Qui le condizioni sono espresse in maniera generica, ma abbastanza da imporre il massimo della serietà: «Si terrà conto degli adeguamenti previsti delle retribuzioni, dell'avanzamento di carriera, dei costi relativi alle pensioni e di altre ipotesi pertinenti». Sembra scritto apposta per l'Italia, dove l'introduzione di cosiddetta Quota 100 ha permesso di mandare a riposo migliaia e migliaia di dipendenti pubblici a 62 anni. L'accordo sottolinea la necessità di «condurre un'analisi periodica del personale che garantisca l'ottimizzazione del personale» e «la sostenibilità del regime pensionistico». Chi a Roma ha orecchie per intendere, intenda.
Gianluca Zappa per startmag.it il 22 luglio 2020. “Possiamo essere dispiaciuti che i rebate siano stati mantenuti, ma sarebbe stata una battaglia diversa, che avrebbe richiesto un cambio di filosofia”. Lo ha detto il presidente francese Emmanuel Macron al termine del Consiglio europeo. “La realtà della discussione degli ultimi giorni è che Germania, Francia, Italia e altri hanno concordato di finanziare una dinamica di trasferimenti in altri Paesi per convincerli”, ha aggiunto Macron. “La Germania ha accettato di non aumentare i rebate come gli altri”, ha precisato. Uno degli esiti dell’accordo europeo sul Recovery Fund rappresenta un’autentica vittoria per i cosiddetti Paesi Frugali – ma forse è bene chiamarli Avari – infatti sono stati accontentati i Frugali con succulenti rebate, i rimborsi sui versamenti al bilancio europeo introdotti per la prima volta su richiesta del Regno Unito ai tempi di Margaret Thatcher, che con la Brexit molti leader Ue avrebbero voluto cancellare. In alcuni casi sono stati raddoppiati. Alla Danimarca – secondo il riepilogo Ansa – sono andati 322 milioni annui di rimborsi (rispetto ai 222 milioni della proposta di sabato); all’Olanda 1,921 miliardi (da 1,576 miliardi) ; all’Austria 565 milioni (da 287), e alla Svezia 1,069 miliardi (da 823 milioni). Ma qual è stato l’esito complessivo del Consiglio europeo? La dotazione complessiva del piano per sostenere i Paesi più colpiti dal passaggio del Covid-19 è rimasto fissato a 750 miliardi. E dopo varie oscillazioni (da 500 a 450, a 400) l’asticella della quota di sussidi si è fermata – secondo la ricostruzione dell’Ansa – a 390 miliardi di euro, con la Resilience e Recovery Facility, il cuore del Fondo per il rilancio economico, allocato direttamente ai Paesi secondo una precisa chiave di ripartizione, a 312,5 miliardi. La sforbiciata ha ridotto invece i trasferimenti spacchettati tra i programmi, 77,5 miliardi (rispetto ai 190 mld pensati dalla Commissione). In particolare, è stata azzerata la dotazione di Eu4Healt, il nuovo programma europeo per la sanità. A farne pesantemente le spese, anche il Just Transition Fund e il Fondo agricolo per lo sviluppo rurale. Il bilancio europeo 2021-2027 è rimasto a 1.074 miliardi di impegni. Anche la Germania a sorpresa si inserisce nella lista: ecco la “mandrakata” di Merkel da 3 miliardi che sbuca dall’ultima pagina del documento approvato.
Dall'articolo di Federico Fubini per il ''Corriere della Sera'' il 23 luglio 2020. Mark Rutte, il premier dell’Aia, all’uscita dal vertice ha scritto un semplice tweet: «Un buon risultato che salvaguarda gli interessi olandesi e renderà l’Europa più forte e più resiliente». In poche ore ha incassato quasi duemila commenti dagli elettori (si vota alle politiche fra otto mesi), quasi tutti così: «Vergognati, sei un grande bastardo, un ladro. Per anni abbiamo tagliato su tutto, lavoriamo dieci anni più di italiani e francesi. Regalagli il tuo cane». Oppure: «Marcisci, sporco bugiardo. Impoverisci l’Olanda per corrompere l’Europa del Sud». O ancora: «Pensi davvero che Francia e Italia, dopo essersene infischiate del Patto di stabilità, faranno le riforme?».
La cicala e la formica. Giulia Carcasi il 26 luglio 2020 su Il Quotidiano del Sud.
Trenta gradi all’ombra. Sbracata sotto la tettoia de ‘na foglia, ‘na cicala cantava a voce alta. Quer canto, monotono e continuo, infastidiva ‘na formica che s’affannava a fa provviste pe’ l’inverno e, barcollando, trasportava sulla schina ‘na briciola grossa quanto ‘na collina.
«Pe’ cortesia. Puoi sta un minuto zitta?» chiese alla cicala.
Ma quella de canta’ nun smise affatto: «Si nun canto mo che è estate, quanno lo faccio?».
«C’ho mal de testa» la pregò la formica. «Solo un minuto, damme tregua. Smettila co’ ‘sto fri fri».
«Fri fri?!?» sbottò a ride’ la cicala, sfottendo la formica «Come sei antica! Sei rimasta alla preistoria. ‘Na volta noi cicale facevamo fri fri, ma ormai semo internazionali, parlamo inglese come lingua madre, l’avemo imparato dai turisti al camping» e sottolineando la differenza de pronuncia disse «Io non dico mica “fri fri”, ma “free free”, che vor di’ “libera, libera”…».
«A me me pare uguale…» commentò la formica tra sé e sé.
«Ma che ne voi capi’ te che nun fai manco ‘n verso…» l’offese la cicala «Raccatta le molliche, va’, ch’é mejo…».
Fino a quer punto s’era spinta l’ingratitudine! Da che mondo è mondo, le cicale, a furia de canta n’intera estate, se ritrovano d’inverno a mani vote e, si nun morono de fame, è proprio grazie alle fatiche costanti e silenziose delle formiche, che generosamente condividono er cibo della loro dispensa. Ner tempo nun solo la riconoscenza era scomparsa, ma le frivolette ce battevano pure de cassa e l’aiuto pareva dovuto.
Mentre la formica s’allontanava risentita, la cicala sapeva d’esse stata indelicata, ma nun voleva abbassa’ le antenne e, anziché chiede scusa, rincarò la dose: «Cara mia, lo sai perché te la piji a male? Perché te piacerebbe esse’ come me. La tua se chiama invidia. Te nun lo sai cos’è la vita. Sai solo sgobba tutto er giorno. Nun c’hai da fa altro. D’altronde la natura mica t’ha dato le qualità ch’ha dato a me. Canta’ nun sai canta, le ali nun ce l’hai…».
«Vedi de falla finita» l’avvertì la formica. «E st’inverno nun veni’ a frignare alla mia porta. Anzi, pardon, a freegnare. I tempi so’ cambiati, nun te ne sei accorta? Quest’anno nun se trovano più tante molliche a terra. Esse generosi è diventato un mestieraccio e, a forza d’offese, pure su un cuore morbido se fa er callo.»
La cicala capì d’avella detta grossa: «Ascolta. Poggia ‘nattimo sta briciola». La formica se tolse quer carico dalle spalle e se fermò a sentilla. «Io nun so vive come te,» le spiegò la cicala «ma nun te crede che so felice de canta tutto er giorno. Certe vorte ce s’annoia pure. Tu ce sai sta ar buio, io devo anna’ sempre a sbatte’ contro la luce. È tarmente breve la vita nostra che, si me fermo a pensa’, m’assale l’angoscia…»
Allora anche la formica se rabbuiò. «E a me chi m’assicura che nun me capita un colpo secco de ‘na scarpa in testa o ‘na spruzzata d’insetticida? E che me so’ goduta? La vita è pe’ tutti n’incognita.»
C’hai ragione pure te» ammise la cicala. «Si tu me dai ‘na mano a porta’ sta mollica, si famo mezzo e mezzo de fatica come famo mezzo e mezzo de raccolto, tu forse nun t’annoieresti tanto, c’avresti meno angoscia, e io c’avrei er tempo d’assaporà la vita. È vero, nun so canta’ e nun c’ho l’ali, ma nun sai quanto me piacerebbe sta ‘na settimana in ferie a nun fa niente, a riposa’ la schina, a fa ‘na camminata a vanvera, a fa du’ chiacchiere co quarche amica» disse la formica. «Pe’ ‘na settima vorrei falla pure io la cicala».
A buon intenditor poche parole. E pe’ la prima volta ne la storia, ‘na cicala e ‘na formica se caricarono, una da un lato e una dall’altro, ‘na briciola.
La lepre e la tartaruga. Giulia Carcasi il 2 agosto 2020 su Il Quotidiano del Sud.
Te puoi sforza’ quanto te pare, ma certe doti o ce l’hai o nun ce l’hai: nun se imparano.
La lepre c’era nata veloce e s’era meritata er titolo de scheggia der bosco. A vedella pareva ‘n conijo un po’ più grosso, ma mentre quello c’aveva l’espressione domestica de chi s’acquatta dentro a ‘n nascondiglio, la lepre nell’occhi selvatici c’aveva ‘n guizzo. Faceva certi salti che pure i grilli je facevano i complimenti.
Un giorno nacque ‘na tartaruga col complesso de superiorità: a tutte quelle della sua specie spettava ‘na vita lunga e lenta, ma a lei nun je bastava. “Mamma, papà, guardate come so’ svelta!” se metteva ar centro dell’attenzioni, muovendo a più non posso le sue zampe a rallentatore. Era più rapida la terra a gira’ attorno al sole.
“Ammappa!” fingevano de stupisse i genitori pe’ falla contenta, “se continui de ‘sto passo a te la lepre te fa ‘n baffo”.
Dall’apprezzamenti familiari era passata a pretende’ pure quelli dell’altri animali. E un po’ pe’ compassione un po’ perché ai matti je se dà ragione, “Come sei brava!” je ripetevano in coro “Sei ‘n siluro!”. A forza de bucie era diventata così viziata da nun accetta’ più critiche: si quarcuno s’azzardava a faje nota’ che in un giorno faceva a stento mezzo metro e nun se po’ certo definì un record, la tartaruga dava in escandescenze. “Nun t’avvelenà, nun ne vale la pena” la consolavano allora i genitori credendo de fa’ er suo bene “Pe’ un meschino che te dice ‘na cattiveria, nun puoi mette’ in dubbio un talento che tutti te riconoscono…”.
La presunzione si spinse ar punto che la tartaruga un giorno se presentò alla lepre. “Te sfido a chi arriva prima a quell’albero. Scommetti che te batto?”
“È ‘no scherzo?” je rispose quella.
“Nun te crede” l’avvertì la tartaruga “Parto piano, ma so’ un diesel”. E in uno stato di esaltazione aggiunse “Si nun te la senti, lo capisco… C’hai paura de fa ‘na figuraccia e rovinatte la piazza?”
A ‘na simile provocazione la lepre pensò che era troppo: “Paura io de te?!?” e accettò la gara.
Stabilirono un orario, un punto de partenza e un punto d’arrivo.
Al “Via!” la tartaruga scattò subito, ma, pur affannandosi, pareva ferma.
Incontrastata la lepre avanzava, ma sentiva che stava svendendo quer talento che j’aveva dato la natura: se corre pe’ scappa’ da li cani o dalle schioppettate dei cacciatori, se corre pe’ senti’ sul muso la libertà der vento, la carezza dei fili der prato, ma corre pe’ ‘na sfida nun ha senso. Se la vita è ‘na sfida, è solo co’ se stessi e no coll’altri, figurarsi co ‘na tartaruga. Vincere sarebbe stata ‘na sconfitta. Così, arrivata a ‘n passo dar traguardo, se fermò e, senza tajiarlo, se mise lì ad aspettare per ore e ore.
La tartaruga, quanno finalmente la raggiunse, esclamò “T’ho ripreso!” e pe’ l’emozione nun stava più ner carapace. Ma se sgonfiò ben presto, vedendo che la lepre, scansandosi, la faceva passare avanti e je diceva “Prego!”.
La corazzata tajò comunque er traguardo, ma fu ‘na misera conquista, che nun la rese soddisfatta.
A chi je chiede come quer giorno annarono le cose, la tartaruga, vantandosi, racconta ‘na menzogna: “Er segreto è la costanza! Chi va piano va sano e va lontano”. Alle lepre je scappa da ride ogni vorta che la voce arriva alle sue lunghe orecchie. Si je chiedessero de rifa’ la sfida, farebbe vince la tartaruga n’artra vorta, che tanto sempre e comunque ‘na tartaruga resta.
L’olandese cattivo Rutte, il nemico che ci siamo costruiti specchio dei nostri peccati. Guido Barlozzetti su Il Riformista il 23 Luglio 2020. L’ultimo nemico che ci siamo costruiti è l’Olandese Cattivo. Il premier dei Paesi Bassi Mark Rutte, rustego brontolon dei conti, ragioniere inflessibile verso quell’appendice meridionale dell’Europa, così incline a spendere e spandere e non preoccuparsi mai di coprire le spese. Nel racconto di questi quattro giorni di trattative notturne-diurne, con stanze ufficiali in cui fare proclami e, come capita, mezzanini nascosti in cui annusarsi, vedersi e magari trovare un verso che aggiri muri che sembrano insuperabili, lui è diventato l’Olandese Cattivo, pronto a mettersi in mezzo alla strada della rinascita di un Paese prostrato dai mesi di clausura del Covid, dopo essersi disciplinatamente recluso e dunque in attesa del meritato premio o comunque del giusto riconoscimento da parte dell’Unione Europea. Che quelli di Bruxelles battano un colpo, che dimostrino che non siamo un’accozzaglia di paesi l’un contro l’altro armati, ma una squadra solidale che non lascia a piedi nessuno e soccorre nel momento massimo del bisogno! Che l’Europa sia finalmente Europa e non ceda alle logiche di parte, agli interessi miei che non sono i tuoi, al pallottoliere disumano e cinico che non ascolta il grido di dolore e guarda solo al risultato di cassa, meglio se sia la propria! E invece che succede? Succede che nella Storia della Solidarietà e dell’Amore reciproco, salta fuori un ostacolo minaccioso e ostinato, il Cattivo, d’altronde nelle storie che si rispettano deve esserci almeno qualcuno che non sia d’accordo e venga a scompigliare il quadretto che doveva essere armonico e idilliaco. E il Cattivo, un po’ come il Lupo che attende al passo l’ignaro Cappuccetto Rosso, assume il volto di questo primo ministro di un paese che da sempre, nel nostro immaginario, associamo ai mulini a vento, alle dighe che formichine industriose hanno tirato su contro la potenza del mare, a un Carosello anni sessanta con protagonista una bionda fanciulla, gira, gira l’olandesina, e nei casi meno sereni al Flying Dutchman alla ricerca sul vascello fantasma dell’anima che lo salverà. Rutte è diventato l’Antagonista, lui in prima fila a rappresentare una pattuglia arcigna e determinata a cui è stato dato un nome gentile, da etica protestante contrapposta a quella cattolica, come le formiche – appunto – alle cicale, “i paesi frugali”, che non fanno mai il passo più lungo della gamba, sanno quello che sta nel portafoglio e non vengono mai attraversati dall’idea malsana di allargarsi oltre i propri limiti. L’Olanda e con lei l’Austria, la Finlandia, la Danimarca e la Svezia. Tutti paesi, a parte l’Austria con la quale qualche contenzioso aspro l’abbiamo avuto, dalla Prima Guerra Mondiale al Sud Tirolo diventato Alto Adige, che hanno sempre evocato paesaggi invernali da cartolina, bellezze generose, in attesa di sciogliere il loro freddo nel sole del Mediterraneo, per non dire della Sirenetta di Andersen e di Pippi Calzelunghe. E così il Rutte Cattivo non ha smesso di mettere paletti, di rendere impervio ogni passo in avanti che si provava a fare, di inventarsi controlli, barriere, tribunali che in ogni momento sorvegliassero l’andamento delle cose, con l’incarico di dispensare bacchettate e richiamare all’ordine la Penisola riottosa ad assumere gli auspicati comportamenti virtuosi. Fino a quel Superfreno di emergenza, da tirare in extremis quando non c’è un’altra possibilità e bisogna bloccare il treno andato fuori dai binari. Così ce lo hanno dipinto, giornali e telegiornali, al punto da attirargli le maledizioni della Penisola tutta, isole comprese. Con qualche dimenticanza, però, il che non vuol dire di dover giustificare in ogni caso quello che è sembrato un accanimento alimentato da un pregiudizio che il Paese non si merita. In realtà, dovremmo sempre ricordarci che il nostro punto di vista non è necessariamente il punto di vista e che ci aiuterebbe ricordare le nostre differenze per capire le altrui e non demonizzarle, pregiudizialmente. È ovvio che dobbiamo avere una nostra rotta, e vorrei vedere, specie in questa traversata così importante per il futuro. Così come sappiamo quanto l’Europa non sia affatto un sogno realizzato, ma un’operazione diveniente in cui la sommatoria non fa un tutto e la moneta unica non produce il miracolo di un’unità capace di imporsi con autorevole e equilibrata trasversalità alle diversità nazionali. Non si tratta di difendere Rutte il Cattivo, si tratta semplicemente di capire come sia al tempo stesso il risultato di una ricostruzione narrativa e il precipitato di una situazione politico-culturale complessa. In cui ci stanno un deficit esponenziale, decenni di una politica che non si è mai posta fino in fondo il problema di un’adeguazione dello Stato alla modernità e al Dopo nel quale stiamo, di riforme che fossero veramente riforme, di corporazioni renitenti ad arretrare come gli interessi, gli affarucci, le congreghe, gli stati di mezzo, le galassie ormai multinazionali del crimine… e sullo sfondo gli stati e i depositi di una storia antica che il Sacro Romano Impero s’illuse di tenere insieme e che invece deflagrò nella diaspora dei regni nazionali e delle guerre di religione, perché Lutero non è il Papa di Roma, e la penisola fu a lungo un mosaico di corti bellicose, fucine di cultura eccelsa, ma rinchiuse nel loro perimetro e l’unità risorgimentale ancora oggi mostra crepe, sfasature, differenziali, massime tra il Nord e il Sud, tra l’inerzia resistente e il dinamismo che vorrebbe liberarsi ma alla fine dà sempre l’impressione di non farcela. E poi cerchiamo di uscire da questo narcisismo nazionale, che alla fine rischia di essere piagnone, e accettare la dialettica e il confronto. Uscire dallo specchio e guardare se stessi e vedersi in quello che non è solo un panorama ma un campo fatto di differenze, legittime quanto le nostre e in ogni caso non solo antagonistiche ma uno specchio finalmente rovesciato in cui capire chi veramente siamo.
Macron e Merkel decidono il Recovery Fund: "Prestito di 500 miliardi a fondo perduto". Per Conte solo un sms. Libero Quotidiano il 18 maggio 2020. Intesa tra Angela Merkel ed Emmanuel Macron sul Recovery Fund, e il resto d'Europa, Giuseppe Conte in testa, si adeguono mostrandosi pure entusiasti. Quello che dovrebbe essere un accordo comunitario si è trasformato, come prevedibile, in un asse a due tra Francia e Germania. Il piano di rilancio targaro M&M sarà un fondo da 500 miliardi di euro per aiutare i paesi maggiormente colpiti dalla pandemia di Covid-19, decisamente meno di quanto previsto fino a pochi giorni fa. I fondi, ha spiegato Macron in conferenza stampa congiunta ma a distanza con la cancelliera tedesca "hanno vocazione a essere rimborsati". "Non saranno rimborsati dai beneficiari ma da tutti i membri dell'Unione" ha aggiunto il presidente francese. "L'Europa deve sostenersi vicendevolmente, è per questo che si tratta di avere una ripresa economica rapida e per questo che vogliamo mettere in piedi dei fondi temporanei da 500 miliardi di euro - ha aggiunto la Merkel -. L'Ue dovrà fornire dei fondi sul suo bilancio, non dei prestiti, bensì dei fondi sul suo bilancio, per i settori e le regioni più colpite". Dal governo italiano (e da quello spagnolo) arrivano subito reazioni positive. Non solo, da Palazzo Chigi fanno filtrare la notizia di contatti via sms tra il premier Conte, la Merkel e Macron, facendo intendere che la proposta sia stata in tandem con il nostro governo. Forse non a caso, in serata il premier l'ha definita il "frutto di un lavoro congiunto". In cambio del prestito a fondo perduto, però, l'Italia ha dovuto accettare una decurtazione sostanziosa dei possibili aiuti in arrivo.
Giuseppe Liturri per startmag.it il 19 maggio 2020. Il Recovery Fund sarà come farsi intermediare dalla Commissione per prendere del denaro in prestito (circa 60 miliardi potrebbe essere il nostro contributo, in base al Pil, alla restituzione del debito) per poter, nella migliore delle ipotesi, spenderlo attraverso i canali del budget Ue nei prossimi 3 anni. Con annesse rilevanti condizioni in termini di destinazione della spesa e politiche economiche del Paese. Nel giorno in cui il Financial Times aveva sparato a palle incatenate su Ursula Von Der Leyen e sulla sua capacità di guidare la sua neo insediata Commissione, in particolare sulla (in)capacità di proporre un Recovery fund (FD) degno di questo nome, Emmanuel Macron e Angela Merkel hanno battuto un colpo per toglierla, almeno momentaneamente, dallo stallo in cui è impantanata. Stavolta niente Deauville, niente Meseberg. È bastata una videoconferenza e 5 paginette di comunicato stampa per riuscire ad iniettare un po’ di entusiasmo nelle vene di chi, come Federico Fubini sul Corriere della Sera, vagava sgomento per l’assoluta incapacità della Ue di concepire soluzioni all’altezza della gravità della crisi che stiamo attraversando a causa del COVID 19. Premesso che si parla di un’intesa politica che dovrà reggere all’esame in sede di Consiglio Europeo, sotto la regia del presidente Charles Michael, che già a febbraio ha però dovuto registrare il nulla di fatto per la definizione del prossimo bilancio pluriennale. Ed i primi commenti giunti dal premier austriaco Sebastien Kurz non sembrano lasciar presagire nulla di buono per il lavoro del Presidente Michel.
Ma vediamo per sommi capi di cosa si tratta: Le risorse distribuite agli Stati membri attraverso il quadro finanziario pluriennale 2021-2027 (QFP), saranno aumentate con un apposito fondo di 500 miliardi, non finanziato da risorse proprie (contributi degli Stati) ma con obbligazioni a lungo termine emesse dalla Ue. Le garanzie saranno prestate dagli Stati membri in proporzione al Pil. Da notare che il bilancio UE prevede ogni anno una distribuzione di risorse pari a circa 160 miliardi. Quindi verrebbe praticamente raddoppiato il bilancio dei prossimi 3 anni. Le somme saranno spese a favore degli Stati più colpiti dalla pandemia. Non è dato sapere secondo quale base di ripartizione. Il tutto avverrà sempre nell’ambito del programma di bilancio Ue ed in linea con le priorità europee, in particolare privilegiando gli investimenti verso la tutela dell’ambiente e la digitalizzazione. Le risorse saranno spese focalizzandosi sulle sfide poste dalla pandemia e saranno quindi complementari alle decisioni di spesa delle risorse proprie. Avranno una entità ed una scadenza ben definita e, soprattutto, saranno collegate ad un piano di rimborso vincolante il cui orizzonte temporale supera quello del QFP. La base di partenza per i negoziati sarà lo stato di avanzamento dei lavori raggiunto a febbraio, e l’obiettivo è quello di rendere il fondo disponibile al più presto possibile. Il RF aggiuntivo sarà complementare agli sforzi già intrapresi a livello nazionale ed al pacchetto di misure già concordato a livello di Eurogruppo (Mes, Bei e Sure) e sarà inoltre fondato su un chiaro impegno degli Stati membri a seguire un’agenda di riforme ambiziosa e sane politiche economiche. Migliorare il sistema impositivo della Ue resta una priorità. In particolare introdurre un’aliquota effettiva minima, un’equa tassazione dell’economia digitale ed istituire una base imponibile comune per le tasse societarie. Cosa c’è di buono per noi nel Recovery Fund? Si tratta di contributi a fondo perduto, come ha subito sottolineato il Presidente Giuseppe Conte, o di prestiti? Premesso che si tratta comunque di una somma ben inferiore ai 1.000/1.500 miliardi di cui aveva parlato nelle settimane scorse il Commissario Paolo Gentiloni, si potrebbe affermare che formalmente sono contributi a fondo perduto, in quanto inquadrati nelle risorse distribuite dal bilancio Ue. Ma resta un aspetto meramente formale, ammesso che continui ad essere formulato in questi termini. La sostanza invece è quella della stretta correlazione con un piano di rimborsi. E quindi, a prescindere dalle definizioni, se ci sono dei rimborsi allora è un prestito. O peggio, potrebbero pure aggiungersi entrate proprie della Ue e cioè maggiori tasse a carico anche dei contribuenti italiani. In un modo o nell’altro, sono risorse che dovremo restituire alla UE. Ci conviene il Recovery Fund? Lo sapremo definitivamente quando saranno chiarite e messe sul tavolo definitivamente le seguenti cifre:
Quanto ci mettiamo a garanzia per emettere quei bond, quanto e come dovremo rimborsare quelle somme raccolte sui mercati dalla Commissione emettendo obbligazioni?
Quanto riceveremo in sussidi?
Quali condizioni ci saranno per spendere quelle somme?
Anche i bond emessi dell’EFSF a suo tempo per finanziare la Grecia al collasso non furono stati contabilizzati nel debito pubblico. Non appare quindi questo un grande pregio della soluzione odierna. Non bisogna dimenticare i termini della nostra partecipazione al bilancio Ue: siamo i terzi contribuenti ed i quinti beneficiari. Nel 2018, il contributo netto al bilancio Ue è stato di circa 6 miliardi (differenza tra 16 miliardi di contributi erogati e 10 miliardi di contributi ricevuti). Ora, pur con tutta la più buona volontà (ammesso che ci sia davvero) dei partner europei di voler riversare i contributi sui Paesi e sui settori maggiormente colpiti, è immaginabile che questa ripartizione possa subire degli stravolgimenti a nostro favore? Al punto da farci diventare beneficiari netti per una somma che abbia un qualche rilevanza a livello macroeconomico? In altre parole, qualcuno ritiene che, alla fine della fiera, l’Italia possa essere beneficiaria netta di una somma pari ad almeno 2/3 % del Pil (50 miliardi almeno)? Ammesso e non concesso che ciò avvenga, pensiamo sia una buona idea quella di mettere il nostro Paese definitivamente sotto un’”ambiziosa agenda di riforme” e “sane politiche economiche”, confiscando quel minimo di agibilità della politica economica che ci è rimasta, dati i vincoli del Semestre Europeo e del Patto di Stabilità e Crescita? La migliore risposta l’ha data il professor Henrik Henderlein, direttore dell’istituto Delors di Berlino, non certo un pericoloso covo di antieuropeisti. Pur sottolineando gli aspetti positivi, Henderlein annovera tra gli aspetti negativi proprio la modesta solidarietà finanziaria e fa l’esempio dell’Italia, per la quale il saldo tra contributo ricevuto e debito da rimborsare non si conosce ancora. Conclude che la simbolicità dell’operazione è sicuramente maggiore del concreto contributo che potremmo riceverne. In conclusione, il Recovery Fund sarà come farsi intermediare dalla Commissione per prendere del denaro in prestito (circa 60 miliardi potrebbe essere il nostro contributo, in base al Pil, alla restituzione del debito) per poter, nella migliore delle ipotesi in ugual misura, spenderlo attraverso i canali del budget Ue nei prossimi 3 anni. Con annesse rilevanti condizioni in termini di destinazione della spesa e politiche economiche del Paese. La scena delle 40.000 lire di Totò e Peppino torna prepotentemente alla memoria.
Recovery Fund, Parlamento Europeo e M5S dicono sì: Lega si astiene. Cecilia Lidya Casadei il 15/05/2020 su Notizie.it. Nonostante l'astensione dal voto di Lega e Fratelli d'Italia, Parlamento Europeo e M5S dicono sì al Recovery Fund. Il Parlamento Europeo ha votato a favore del Recovery Fund, approvando una risoluzione per la quale questo dovrà essere elemento fondamentale di un pacchetto che dia un impulso d’investimento da 2 miliardi di euro, anche privato. Il pacchetto dovrà essere finanziato attraverso l’emissione di obbligazioni a lungo termine, le risorse erogate tramite prestiti e sovvenzioni agli Stati, pagamenti diretti per investimenti e capitale proprio. Il Recovery Fund, insomma, fa grandi passi avanti. Questa risoluzione è stata presentata da Ppe, Pse, Verdi, Renew europe (liberali+macroniani), Ecr (il gruppo di cui fa parte Fratelli d’Italia). Con 505 voti favorevoli, 119 contrari e 69 astensioni, è riuscita a passare. I rappresentanti parlamentari del Movimento 5 Stelle si sono detti a favore, mentre ad astenersi sono stati i membri di Lega e Fratelli d’Italia. Forza Italia ha invece optato per il sì, tranne una sola eccezione. Il 27 maggio 2020, la presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen presenterà agli eurodeputati la proposta del piano per la ricostruzione dell’economia, assieme al Recovery Fund. Lo ha comunicato il Presidente del Parlamento Europeo David Sassoli, aggiungendo che durante tale occasione s’illustrerà inoltre il nuovo progetto di bilancio 2021-2027. “La risoluzione votata sul Recovery Fund è un messaggio potente alle istituzioni ed ai governi, chiede a consiglio e commissione un piano di ripresa rapida e risorse immediate”, dichiara Sassoli in merito alla votazione tenutasi.
"Recovery Fund urgente", ok Ue alla richiesta di Conte. Merkel: "Tutti d'accordo sullo strumento, il disaccordo è su come finanziarlo". I leader dell'Ue hanno incaricato la Commissione europea di presentare la sua proposta sul Recovery Fund legato al bilancio Ue entro il 6 maggio. La Repubblica il 23 aprile 2020. I leader dell'Ue hanno incaricato la Commissione europea di presentare la sua proposta sul Recovery Fund legato al bilancio Ue entro il 6 maggio. E' quanto emerge al termine del Vertice Ue ma restano distanti le posizioni dei leader europei. Angela Merkel ha espresso disaccordo su come finanziare il Recovery Fund, "se con sussidi o prestiti", ha detto, ma una cosa è chiara, e cioè che il fondo sarà collegata al prossimo bilancio europeo per i prossimi sette anni. "Questo - ha sottolineato la cancelliera tedesca significa per la Germania che noi dobbiamo essere disponibili a contributi di bilancio più alti di quanto avevamo messo in conto nell'ultima trattativa. La cancelliera ha sottolineato che questo "è giusto". Mes, Sure e Bei operativi da giugno e ora ok al principio del Recovery Fund 'urgente', come aveva chiesto l'Italia, anche se con tutti i dettagli ancora da definire a cui lavorerà la Commissione nelle prossime settimane. "L'Italia - commenta il premier Giuseppe Conte - è in prima fila a chiedere il Recovery Fund. Uno strumento del genere era impensabile fino a adesso e renderà la risposta europea più solida e coordinata. Grandi progressi - aggiunge Conte - impensabili fino a poche settimane fa, all'esito del Consiglio Europeo appena terminato: i 27 Paesi riconoscono la necessità di introdurre uno strumento innovativo, da varare urgentemente, per assicurare una ripresa europea che non lasci indietro nessuno". Dopo che l'esecutivo di Ursula von der Leyen avrà messo sul tavolo il suo piano (che secondo un documento interno dovrebbe essere composto da diversi strumenti finanziari per generare 2.000 miliardi di euro di investimenti, prestiti e spese) saranno discusse le caratteristiche, le finalità, il finanziamento e le dimensioni del Fondo. E su gran parte di questi punti le posizioni dei governi restano distanti. Per Conte la dotazione del fondo dovrebbe essere di 1.500 miliardi e fornire agli stati non solo prestiti ma anche finanziamenti a fondo perduto. Il presidente francese, Emmanuel Macron, saluta come un passo avanti la richiesta di un risposta rapida e forte, ma aggiunge che "ci sono disaccordi che restano sui meccanismi. Servono trasferimenti di risorse verso i Paesi Ue più colpiti da questa crisi, non dei prestiti", aggiunge il presidente francese. Sul punto la posizione francese si salda con quella italiana e spagnola: il fronte sud chiede che il Fondo finanzi non dei prestiti agli Stati ma dei trasferimenti a fondo perduto. Ma il blocco nord (Olanda, Germania, Austria e Svezia) rimane contrario. Ursula von der Leyen assicura che si cercherà un "equilibrio". Così come resta vaga la dimensione finanziaria del Recovery Fund anche se la stessa presidente della Commissione promette che si parla di "migliaia di miliardi e non di miliardi". Ma anche la cifra è ancora da negoziare. Inoltre non sono ancora sul tavolo i tempi e la durata. Un Eurogruppo sarà convocato entro le prossime due settimane e i ministri delle Finanze cercheranno di avvicinare le posizioni. "Ci sono sensibilità diverse ma sono ottimista", dice il presidente del consiglio europeo, Charles Michel che rassicura Conte che ha parlato della crisi in atto come di una vera "emergenza politica". "Dimostreremo ai cittadini italiani che l'Europa c'è", ha detto Michel. Palla dunque di nuovo all'Eurogruppo prima, alla Commissione poi e infine ad un nuovo vertice dei leader che, se si trovasse un'intesa che oggi appare lontana, potrebbe essere convocato prima della data del consiglio ordinario di fine giugno. Il vertice di oggi infine, ha dato il via libera. Come previsto, alle prime tre gambe del pacchetto Ue di risposta alla pandemia: sì dunque alla linea di prestiti del Mes agli Stati che ne faranno richiesta (240 miliardi), al fondo SURE contro la disoccupazione (100 miliardi) e ai prestiti alle imprese garantiti dalla Bei (200 miliardi) Tutti questi strumenti saranno operativi dal primo giugno.
Da Dagospia il 23 aprile 2020.
Twitter Luciano Capone:
Questo ha capito la viceministro Castelli della proposta spagnola: "Debito senza scadenza e a tasso zero". E chi presta i soldi? Non è in grado di leggere. Se oltre al capitale non bisogna pagare neppure gli interessi, si è chiesta a cosa servirebbe il fondo proposto da Sánchez? 4:43 PM - Apr 21, 2020
"I debiti dei paesi non sono da restituire dal punto di vista accademico". "È scritto nello speech della Spagna". "È un modo per coinvolgere i cittadini italiani". "Si aprono modelli economici diversi". Laura perpetua Castelli spiega così il perpetual debt proposto dalla Spagna. 6:17 PM - Apr 21, 2020
Questo è il fronte dei mercati, ma che succede in Europa? Se di Corona-bond non si parla neanche più, ora restano in campo le due proposte: il Recovery Fund di Gentiloni-Breton, e la nuova trovata spagnola (sussurrata da Angela Merkel all'orecchio di Sanchez), ovvero il debito perpetuo. Di che si tratta? In soldoni, un'obbligazione senza scadenza che garantisce interessi e cedole ma non la restituzione del capitale. Ovviamente si può vendere a terzi, che continueranno a incassare gli interessi. E in genere l'emittente inserisce una clausola per cui a determinate condizioni può rimborsare il capitale e chiudere la faccenda. C'è un bond perpetuo olandese che da 367 anni ancora paga interessi, incassati nel 2015 dall'Università di Yale. A differenza di quello che dice l'impresentabile viceministra all'Economia Castelli, il tasso c'è, e deve pure essere alto rispetto – ad esempio – ai bond trentennali che potrebbero essere emessi dal Recovery Fund. Per questo la Francia preferisce raccogliere i famosi 1.500 miliardi con obbligazioni a lunga scadenza, invece che con i più costosi bond perpetui. Il problema è che al momento si parla di soli 540 miliardi di aiuti, una cifra decisamente troppo bassa per spalmarla su 27 paesi. Ma ora l'opposizione dei paesi del Nord, dopo aver silurato i Coronabond, si è spostata sull'entità dell'intervento.
Sandro Brusco per ilfoglio.it il 23 aprile 2020. È ormai qualche tempo che nel Parlamento italiano sono comparsi vari personaggi che hanno, diciamo così, sottratto gravitas ai titoli di onorevole e senatore. Questa tendenza, già in atto da ormai alcuni decenni e comune a tutti i partiti, ha subito una notevole impennata nelle ultime due legislature, con l’ingresso di quel variopinto caravanserraglio costituito dai gruppi parlamentari del Movimento 5 stelle. Ma anche in quei gruppi talune personalità sono riuscite a spiccare, fornendo con le parole e con le azioni materiale tale da lasciar perplesso chiunque. Tra queste, l’onorevole Laura Castelli è, per chi si occupa di economia, particolarmente degna di menzione. L’occasione per questo articolo è la proposta, fatta sul suo account Facebook, di emettere titoli di debito pubblico senza scadenza e senza interessi, chiamati “perpetui”. Usando le parole dell’onorevole (che, ricordiamo, è sottosegretaria al ministero dell’Economia e delle Finanze) i “perpetui” sarebbero “titoli di debito emessi senza scadenza e a tasso zero”. I titoli senza scadenza (o “irredimibili”) non sono certo una novità nel panorama finanziario. Vennero usati, per esempio, nel Regno Unito a partire da metà Settecento. Ne fece uso anche il Regno d’Italia subito dopo la sua costituzione. Oggi non sono praticamente più usati, anche se titoli a lunghi scadenza (per esempio 30 anni), che hanno proprietà simili, vengono emessi praticamente da tutti gli stati. Il “debito eterno” è stato estinto solitamente mediante riacquisto dei titoli da parte dello Stato emittente e conseguente cancellazione. I titoli irredimibili restano però popolari nei corsi introduttori di finanza e di matematica finanziaria (tranne, apparentemente, in quelli frequentati dall’onorevole Castelli) perché il loro prezzo si può determinare con una formula particolarmente semplice. Sfidando la sorte, scriverò la formula anche se questo è un articolo di quotidiano. Se il titolo paga un coupon di C ogni anno e il tasso d’interesse a lungo termine è r, allora il prezzo di un titolo irredimibile è C/r. Per esempio, se un titolo paga 1000 euro l’anno e il tasso di interesse è il 5% (ossia r=0,05) allora il titolo vale 20.000 euro. Ora, i lettori più attenti hanno sicuramente notato che nella proposta dell’onorevole Castelli i titoli irredimibili sarebbero “a tasso zero”, ossia nella formula precedente C=0. Una semplice applicazione della formula appena esposta ci dice che il prezzo di tali titoli sarebbe esattamente zero. Una conclusione, peraltro, a cui credo giungerebbero agevolmente anche molte persone totalmente digiune di matematica finanziaria. Provate semplicemente ad andare in giro a chiedere quale prezzo si è disposti a pagare per un titolo che non paga nemmeno un centesimo, né ora né mai. L’unico modo per sfuggire al paradosso è nel caso in cui i titoli potessero essere direttamente usati nelle transazioni al posto della moneta. In tal caso un titolo emesso per 100 euro nominali varrebbe, appunto, 100 euro. Ma questo ovviamente non è più un titolo di debito, sarebbe moneta. Saremmo quindi nella casistica dei vari strumenti come i “minibot” o i “certificati di credito fiscale” che i vari genietti finanziari de noantri hanno cercato di introdurre, strumenti succedanei alle belle botte inflazionistiche dei tempi andati. Ma forse stiamo dando troppo credito alla sottosegretaria. I lettori con più memoria ricorderanno un altro episodio in cui l’onorevole Castelli dimostrò una comprensione abbastanza tenue delle relazioni finanziarie. Fu durante un dibattito televisivo con l’onorevole Pier Carlo Padoan in cui, con un memorabile “questo lo dice lei”, si apprestò a negare alcuna relazione tra i tassi dei mutui ipotecari e la generale struttura dei tassi d’interesse dell’economia. Ad avviso dell’onorevole Castelli, e di nessuna persona con un minimo di conoscenza di economia e finanza, i tassi ipotecari vengono determinati in modo completamente indipendente dagli altri tassi, in particolare i tassi sui titoli sul debito pubblico. Non è mai apparsa alcuna discussione teorica che giustificasse tale posizione, né ovviamente esiste evidenza empirica. Per quel che ci è dato capire la “teoria” della sottosegretaria sembrava essere stata ispirata unicamente da un calcolo propagandistico. In sua opinione, l’elettorato a cui il suo partito si rivolge non è in grado di capire i danni di un aumento dei tassi sul debito pubblico (che il suo governo stava causando con azioni dissennate), mentre può reagire negativamente a un aumento delle quote di mutuo. Da cui l’urgenza di rassicurare detto elettorato sull’indipendenza dei tassi ipotecari e dei tassi sul debito pubblico. Ovviamente si tratta di un’attitudine che non sembra valutare molto positivamente l’intelligenza dell’elettorato di riferimento, ma qui usciamo dal campo dell’economia e della finanza ed entriamo nel campo della comunicazione politica, in cui brillano diversi personaggi del partito dell’onorevole Castelli.
Dal vertice Ue via libera al Recovery Fund, ma resta il nodo dei finanziamenti. Redazione de Il Riformista il 23 Aprile 2020. “Abbiamo accettato tutti e 27 per reagire alla crisi, di introdurre uno strumento innovativo: il Recovery fund. Un fondo per la ricostruzione con titoli comuni europei che andrà a finanziare tutti i paesi più colpiti, tra i quali l’Italia”. Un messaggio flash da parte del presidente del Consiglio Giuseppe Conte al termine del vertice europeo per discutere la strategie economica per rispondere alla crisi. “È passato il principio che è uno strumento urgente e necessario. La nostra iniziativa è stata molto importante perché uno strumento del genere era impensabile fino a poco tempo fa”, ha aggiunto il capo del governo. I capi di Stato e di governo hanno dato il loro avallo al pacchetto di misure proposto dall’Eurogruppo – piano Bei, Sure e Mes – e di renderle operative per il primo giugno. Inoltre c’è stato un accordo comune a lavorare su un fondo per la ricostruzione, con l’emissione di titoli di Stato comuni. Il premier italiano, durante la riunione, ha chiesto una modifica alle conclusioni della riunione sul Recovery fund, chiedendo di inquadrare il piano per la ripresa dell’Eurozona come uno strumento necessario e urgente. “L’ammontare del Recovery Fund – auspica il premier Conte – dovrebbe essere pari a 1.500 miliardi e dovrebbe garantire trasferimenti a fondo perduto ai Paesi membri. I trasferimenti a fondo perduto sono essenziali per preservare i mercati nazionali, parità di condizioni, e per assicurare una risposta simmetrica a uno shock simmetrico”. Tuttavia, tra i leader europei non c’è accordo sulle modalità di finanziamento del fondo. Angela Merkel ha spiegato che si tratterà di “sussidi o prestiti“, ma, sarà sicuramente collegato al bilancio europeo per i prossimi sette anni. “Questo significa per la Germania – ha chiarito – che noi dobbiamo essere disponibili a contributi di bilancio più’ alti di quanto avevamo messo in conto nell’ultima trattativa”. “C’è solo uno strumento che può portare questa ripresa, ed è il budget Ue legato al Recovery fund, gli investimenti devono essere anticipati e deve esserci un giusto equilibrio tra sovvenzioni e prestiti“, è stato il commento del presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen. Più netto il premier olandese Mark Rutte: A mio avviso per gli aiuti a fondo perduto lo strumento giusto è il bilancio pluriennale dell’Ue, mentre guardo al Recovery fund come ad un sistema basato sui prestiti”. “La Commissione – ha scritto su Facebook il presidente italiano . lavorerà in questi giorni per presentare già il prossimo 6 maggio una proposta sul Recovery Fund che dovrà essere di ampiezza adeguata e dovrà consentire soprattutto ai Paesi più colpiti di proteggere il proprio tessuto socio-economico”. “Il Consiglio Europeo riconosce che il Recovery Fund è "necessario e urgente" e deve avere risorse significative. Un successo per l’Italia e i Paesi che hanno spinto per questa soluzione”. Lo scrive su twitter il ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri.
Marco Bresolin per “la Stampa” il 21 maggio 2020. I commissari e i funzionari Ue sono tenuti ad agire nell' esclusivo interesse europeo. Il che vuol dire che non dovrebbero rappresentare gli interessi del loro Paese. Ma ovviamente anche i più ligi alla causa europeista si muovono con un occhio di riguardo per la loro bandiera. Paolo Gentiloni lavora di sponda con il governo italiano, Thierry Breton con quello francese, e via dicendo. In quest' ottica è dunque bene sapere che le due persone-chiave che lavorano al dossier Bilancio 2021-2027 e Recovery Fund con la tedesca Ursula von der Leyen si chiamano Johannes Hahn e Gert Jan Koopman. Il primo è il commissario al Bilancio, il secondo è il direttore generale della Dg Bilancio. Uno è austriaco, l' altro olandese. Vale a dire i due Paesi in prima linea nel contrastare la proposta di Angela Merkel ed Emmanuel Macron, che prevede di far emettere alla Commissione 500 miliardi di euro di obbligazioni e di distribuirli ai Paesi più colpiti dalla crisi attraverso sovvenzioni a fondo perduto. Si conosce ancora poco della proposta che verrà presentata mercoledì prossimo, ma come ha già precisato Valdis Dombrovskis «non sarà un copia-incolla» di quella franco-tedesca. Il piano che verrà partorito dalla Commissione terrà certamente conto delle richieste dei cosiddetti «quattro frugali» (Austria, Paesi Bassi, Danimarca e Svezia), che tra oggi e domani dovrebbero presentare una loro contro-proposta. Il premier olandese Mark Rutte ne ha anticipato i contorni: i fondi per la ripresa dovranno essere limitati, distribuiti attraverso prestiti (non sovvenzioni) e strettamente vincolati a un piano di riforme. Le posizioni dei governi Ue sono emerse molto chiaramente nel corso dell' Ecofin di martedì, dove il ministro tedesco Olaf Scholz ha presentato il piano di Parigi e Berlino. L'iniziativa è stata accolta con favore da Italia, Spagna, Grecia, Lussemburgo, Slovacchia, Portogallo, Irlanda, Belgio e Slovenia. Ma il ministro danese ha subito replicato dicendosi contrario al debito comune e alle sovvenzioni. Quello austriaco ha aggiunto che nemmeno Vienna sosterrà i prestiti non rimborsabili, mentre l' olandese ha precisato che le risorse dovranno essere «limitate». La svedese ha posto l' accento sull' esigenza di imporre riforme strutturali ai beneficiari. Il quartetto, pur rappresentando un' area economica e demografica limitata, è estremamente determinato e ha il coltello dalla parte del manico. Perché i quattro sono tutti contributori netti del bilancio Ue: versano più di quanto ricevono. E dunque non intendono «pagare di più». A febbraio erano stati loro a bloccare l' intesa sul bilancio 2021-2027, irremovibili sulla loro richiesta di non andare oltre l' 1% del Pil Ue (la proposta di compromesso prevedeva l' 1,07%). Le divergenze tra i Paesi non hanno ancora permesso di trovare un accordo nemmeno sul nuovo fondo di emergenza della Banca europea per gli investimenti (Bei). Il presidente Werner Hoyer ha avvertito che il volume totale delle risorse destinate alle imprese rischia di essere inferiore ai 200 miliardi inizialmente previsti.
Recovery fund, il premier olandese Rutte: prestiti all’Italia? Solo in cambio di riforme di «vasta portata». Pubblicato mercoledì, 20 maggio 2020 da Corriere.it. «Se si richiede un aiuto, è necessario attuare riforme di vasta portata in modo da poter essere autosufficienti la prossima volta». È netto il premier olandese Mark Rutte sulla modalità del Recovery Fund da stanziare ai Paesi in difficoltà. La proposta dei Paesi del Nord Europa sosterrà inoltre che tutti gli aiuti dovranno assumere la forma di prestiti e non di sovvenzioni. L’Olanda è sempre stata un Paese recalcitrante. Quando nel 1950 il ministro degli Esteri francese Robert Schuman annunciò il piano della Ceca, la Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio antesignana dell’Ue, il governo olandese non ne sapeva nulla. L’Aja non era stata informata. E fu forte la tentazione istintiva dei Paesi Bassi di rigettare quella costruzione sovranazionale, potenziale embrione di un’unione politica. Ma prevalsero il pragmatismo e la paura di trovarsi tagliati fuori da un progetto che vedeva in cabina di comando anche il loro primo partner commerciale, la Germania. Così, l’Olanda fu suo malgrado tra i Paesi fondatori dell’Europa, ma decisa a lavorare per diluire il progetto dall’interno, cosa che ha regolarmente fatto prima all’ombra della Gran Bretagna e ora prendendo in mano la guida della cosiddetta Lega Anseatica. “L’Olanda è filo-europea fin quando è nei suoi interessi”, disse candidamente Mark Rutte incontrando Giorgio Napolitano poco dopo l’elezione a premier. Rutte oggi è l’ultima spiaggia del no alla mutualizzazione del debito. E il piano Merkel-Macron, con i suoi 500 milioni di contributi a fondo perduto garantiti dall’Unione, materializza tutti i suoi incubi. Ma la pressione della Germania, con cui l’Olanda è in rapporto di simbiosi economica, potrebbe rivelarsi insostenibile anche per l’algido leader olandese.
Perché Austria, Olanda, Svezia, Danimarca sono contro il Recovery Fund (e l’Italia). Riusciranno i «quattro dell’Ave Maria» a mandare in aria l’Europa? Fino a che punto Austria, Danimarca, Olanda e Svezia, spingeranno la loro opposizione al piano da 500 miliardi di euro lanciato da Emmanuel Macron e Angela Merkel? E dove affondano le radici storiche e culturali di tanta preconcetta ostilità a ogni vera solidarietà finanziaria tra i Paesi dell’Unione? Paolo Valentino 20 maggio 2020 su Corriere.it.
Danimarca. Che la Danimarca sia membro dell’Unione europea sin dal 1973, entrò insieme a Regno Unito e Irlanda, può trarre in inganno. Perché Copenhagen in realtà non ha mai abbandonato la tentazione del grande largo, mantenendo una notevole influenza politica nell’area Nord Atlantica. Non a caso, fra tutti i Paesi membri la Danimarca è quello che ha negoziato forse il maggior numero di opt outs, che le consentono di non partecipare a molte delle iniziative comuni. La premier socialdemocratica Mette Frederiksen, che sul piano delle politiche economiche ha imposto una svolta a sinistra, sulla scena europea prosegue nel solco del consenso nazionale che frena su ogni cessione di sovranità e su ogni nuovo trasferimento al Sud. La sua opposizione al piano Merkel-Macron rischia di essere molto più difficile da superare, se non altro perché la Danimarca non fa parte dell’eurozona e quindi è meno sensibile all’influenza economica e politica della Germania. Insieme all’Olanda, è probabilmente l’ostacolo più difficile di fronte al presidente francese e alla cancelliera.
L’opposizione dell’Austria. Vienna è arrivata in Europa nel 1995, dopo la fine della Guerra Fredda, che aveva attraversato in una posizione di neutralità imposta, limes tra i due campi, sempre pronta a far da terreno di negoziato ed eventuale ponte tra i due mondi. Una tradizione mai dimenticata, che dopo il forte impegno europeo dei cancellieri socialdemocratici, Sebastian Kurz ha parzialmente ripreso, opponendosi a ulteriori trasferimenti di sovranità e cercando sponde verso Est. Il giovane cancelliere conservatore si è subito intestato l’opposizione alla proposta di Merkel e Macron, previa consultazione con i premier di Copenhagen, l’Aja e Stoccolma. “La nostra posizione non è cambiata”, ha annunciato, riferendosi alla richiesta che il Fondo per la ripresa eroghi solo prestiti da restituire e non contributi a fondo perduto come suggerito da Berlino e Parigi. Ma la sua capacità di resistere alle pressioni di Berlino non è infinita: ha più bisogno lui della Germania che viceversa.
Svezia. L’eccezionalismo della Svezia è scritto nei cromosomi dei suoi 10 milioni di abitanti. Neutrale e orgogliosa di esserlo per l’intero XX secolo, Stoccolma è entrata nell’Unione europea nel 1995 ma l’adesione alla Nato rimane tabù, nonostante si sia avvicinata agli USA da quando la Russia di Putin è tornata a farsi aggressiva. La Svezia ha sempre coltivato l’immagine della propria diversità scandinava, sia sul piano economico (capitalismo misto, welfare e benessere diffuso) che culturale (democrazia aperta, coscienza ambientale, accoglienza). Da ultimo, anche nella crisi del Coronavirus la scelta di scommettere sull’immunità di gregge con coerenza e determinazione ha fatto della Svezia una nota a parte nel pentagramma europeo. In un editoriale pubblicato nei giorni scorsi, il premier Stefan Loefven, leader del partito socialdemocratico, ha scritto che l’Europa in futuro dovrà cooperare di più ed essere più solidale, rafforzare il suo ruolo e “diventare una voce per la democrazia e l’eguaglianza”. È un segnale incoraggiante. Ma per ora la Svezia sembra seguire la linea indicata da Kurz. Potrebbe cambiare
Conte e grillini all’angolo, Fase 2 del governo a trazione europea e dem. Claudia Fusani de Il Riformista il 24 Aprile 2020. Se quello di ieri era il Consiglio europeo in cui si faceva o si disfaceva l’Europa, si può dire che l’Europa come comunità politica economica e solidale ha “vinto”, seppur in zona Cesarini. Ha messo in cantiere aiuti per oltre tremila miliardi di euro compreso il Recovery fund anche se i dettagli saranno messi a fuoco nelle prossime settimane. Ha ricacciato indietro le spinte nazionaliste e antieuropeiste dei paesi del nord. Semplificando, e vedendo la storia da palazzo Chigi, questo passaggio assume almeno tre significati importati: la vittoria del ministro economico Gualtieri e dell’asse Gentiloni-Sassoli sul premier Conte e sulle resistenze grilline, motivo per cui del Mes non si parla più ed è rimasto un problema per Di Battista, Lega e Fratelli d’Italia; la fine, nei fatti, della golden share 5 Stelle nel governo e della sudditanza del Pd; l’avvio di una fase nuova del Conte 2, quella famosa “svolta” e “prova di coraggio” richiesta dal gruppo Pd al Senato. Il premier deve adeguarsi al nuovo corso. Altrimenti il Pd, più corretto dire una parte del Pd, ha fatto capire di essere disposto a cambiare cavallo. Cioè squadra e premier. Italia viva, che in fondo è nata a settembre proprio per tenere alto e vivo lo spirito riformista del centrosinistra contro le sirene grilline, può passare all’incasso. La cartina di tornasole del nuovo corso la si avrà nelle prossime ore quando il governo dovrà decidere come definire il Decreto Aprile (il terzo della serie Cura Italia) e come spendere i 55 miliardi messi a disposizione indebitando il Paese fino al 155% nel rapporto debito/pil. «Si tratta della più imponente manovra realizzata in questo paese e in questo contesto è chiaro che non possiamo sbagliare un colpo» dice un parlamentare di Italia Viva. La scommessa è vedere se la classe dirigente che guida il Paese sarà in grado di gestire questo decisivo passaggio. Il Cura Italia 1, la prima manovra da 25 miliardi nell’era del Covid-19, è stato licenziato ieri dalla Camera con un voto di fiducia. Stamani il voto finale e una serie di ordini del giorno da tenere sotto controllo. Non è stata una bella pagina quella della fiducia al Cura Italia 1. Le opposizioni sono rimaste alla fine fuori da ogni contributo nonostante gli appelli e i tentativi proseguiti fino a mercoledì sera di accogliere qualche emendamento di Fi, Fdi e Lega. Il vicepresidente della Camera Rampelli (Fdi) ha accusato il governo «mentre la maggioranza si è mostrata molto più disponibile». Un distinguo insidioso che la dice lunga sui rapporti dentro la maggioranza. Plastic e sugar tax, alla fine, sono saltate. Lo aveva chiesto Italia viva. Ma anche Lega, Fdi e Fi. Nella notte tra mercoledì e giovedì il governo ha scritto il nuovo Def (pil -8%; deficit al 10,4%; rapporto debito/pil al 155%; scostamento dal bilancio tra i 50 e i 55 miliardi). Tra ieri sera e stamani ci sarà il Cdm, in costante rinvio da mercoledì sera, ennesimo indizio della difficoltà del dossier. La prossima settimana il governo dovrà decidere come investire quei soldi. E questa volta il premier non potrà più ignorare le richieste delle opposizioni. La scommessa si giocherà sul crinale dell’assistenzialismo da una parte e del creare lavoro e fare impresa dall’altra senza dimenticare gli ultimi. È qui che Conte dovrà dimostrare di aver capito il nuovo corso del suo governo. «Si può e si deve fare di più e meglio rispetto a quanto fatto finora» gli hanno detto Pd e Iv. Alcuni passaggi stretti sono già sul tavolo. La ministra Catalfo (Lavoro, M5s) vorrebbe distribuire al paese il reddito di emergenza, un fondo di tre miliardi da affidare all’Inps per la redistribuzione. Un nuovo reddito di cittadinanza. Le è stato spiegato che non potrà essere così. I soldi a disposizione saranno meno (un miliardo) e saranno affidati ai comuni e non all’Inps. Il ministro Patuanelli vorrebbe distribuire a pioggia, a fondo perduto, 15 miliardi alle aziende in crisi. Un’altra forma di assistenzialismo che Pd e Iv hanno già spiegato non voler perseguire perché «i soldi vanno assegnati secondo criteri precisi e di merito». I 5 Stelle fanno resistenze anche sul cantiere Italia, il modello Genova che andrebbe esteso a tutta Italia per almeno sei mesi. Vanno aperti i cantieri, va aggiustata l’Italia, dalle strade alle scuole, e va fatto subito per ricreare la domanda interna.
Crisi Covid-19 e solidarietà europea: sei cose da sapere sul Recovery Fund. Federica Bianchi il 24/4/2020 su L'espresso. La parola d'ordine per il risollevamento delle sorti europee, comprese quelle italiane, è «recovery fund», o fondo per la ricostruzione. Il grande compromesso trovato tra Paesi del Nord e Paesi del Sud su come aiutare i più deboli e più colpiti dal Covid-19 a superare l'emergenza economica è tutto in queste poche parole. Sebbene da alcuni sia stato esaltato come una grande vittoria e da altri come una grande sconfitta, la realtà è che il fondo annunciato giovedì 23 aprile dal Consiglio europeo, ovvero dalla riunione dei 27 capi di governo, è per il momento più un passo nella buona direzione che la svolta vera e propria. Quella, se ci sarà, avverrà nella prossima riunione del Consiglio europeo di giugno, dopo che la presidente della Commissione europea, Ursula Von der Leyen avrà presentato la sua idea (elaborata con gli input degli stati membri) la prossima settimana su come il fondo dovrà funzionare e su come sarà finanziato. Cerchiamo di chiarire qualche dubbio.
1) Cosa c'entra il fondo per la ricostruzione con gli Eurobonds? Gli Eurobonds, ovvero le obbligazioni europee emesse da tutti gli stati membri pro quota a vantaggio solo dei membri in difficoltà non sono per il momento sul tavolo perché non tutti gli stati vogliono essere direttamente responsabili dei soldi necessari a pochi. Il fondo di ricostruzione invece sarà in capo alla Commissione europea, e sebbene dovrà anch'esso essere finanziato con obbligazioni comuni, di queste non saranno responsabili i singoli stati membri direttamente ma la Commissione europea e il suo bilancio, dunque gli stati membri avranno solo una responsabilità indiretta sul debito comune.
2) Dotazione del fondo. Ursula Von der Leyen ha proposto di inserire il fondo all'interno del bilancio Ue. Per farlo ha chiesto di aumentare la dotazione del bilancio Ue dall'1 per cento del Pil al 2 per cento o poco meno, ovvero circa duemila miliardi. L'incremento si otterrebbe emettendo obbligazioni per 320 miliardi di euro con tripla AAA (il massimo dell'affidabilità sui mercati) che sarebbero garantite dalle contribuzioni dei Paesi membri. Ma come garanzia questi Paesi non dovrebbero versare l'aumento in più ma soltanto impegnarsi a garantire anche con quella differenza le obbligazioni emesse: si tratta tecnicamente della headroom, il delta tra impegni e pagamenti.
3) Perché la soluzione, se confermata, è importante? Perché a novembre quando gli Stati stavano negoziando il bilancio settennale 2021-2027 stavano litigando sugli zero-virgola, mentre adesso, preso atto della gravità della situazione, sono pronti a impegnarsi in modo molto più consistente. Si tratta di un passo avanti verso un'Unione più forte e solidale.
4) Modalità di trasferimento delle risorse: elargizioni o obbligazioni? Per mettere d'accordo le esigenze dei diversi Stati, con il ricavato delle obbligazioni messe sul mercato, la Commissione sta pensando di offrire agli Stati in difficoltà una combinazione di prestiti a tasso basso o nullo e di elargizioni gratuite. Ma la questione è ancora molto vaga e dovrà essere attentamente negoziata nelle prossime settimane.
5) Servono strumenti giuridici nuovi per creare il Fondo? La risposta è no, ed è anche la ragione per cui ci si sta orientando verso questa soluzione. È relativamente celere ed è già prevista dai trattatati esistenti. Si tratta dell'articolo 122 del Trattato di Funzionamento dell'Unione, già utilizzato durante la Grande crisi e poi anche per il fondo SURE, ovvero per il fondo per l'emergenza sociale della disoccupazione che è stato recentemente approvato. Per il SURE gli Stati hanno deciso di versare insieme 25 miliardi come base per emettere sul mercato 100 miliardi di obbligazioni.
6) Quali sono i problemi? Innanzitutto la tempistica. Potrebbero comunque volerci alcuni mesi per creare quello spazio tra impegni e pagamenti necessari a raccogliere tanti soldi sul mercato visto che il nuovo bilancio parte solo dal 2021. E il tempo non ce l'abbiamo. Per questo si sta lavorando a uno strumento ponte che colleghi l'attuale bilancio in scadenza con il successivo e permetta di emettere 500 miliardi di obbligazioni subito, magari garantite anche dalla Bei.
Dritto e Rovescio, Giorgia Meloni contro il Mes: "Ci prestano soldi nostri, pago interessi e ringrazio pure?" Libero Quotidiano il 24 aprile 2020. Dopo il Consiglio europeo Giuseppe Conte esulta, al pari della sinistra, per l'accordo raggiunto a Bruxelles. E mai esultanza fu così fuori luogo: c'è il Mes, ben definito, mentre del cosiddetto Recovery Fund ancora si è capito poco. I dettagli? Rimandati. Staremo a vedere, ma le speranze - considerato cosa abbiamo "ottenuto" fino ad ora dalla Ue per gli aiuti per il post-coronavirus - sono piuttosto flebili. Ma Giorgia Meloni è ancor più tranchant, drastica, pessimista. E ospite in collegamento a Dritto e Rovescio di Paolo Del Debbio, su Rete 4 nella puntata di giovedì 23 aprile, mette in guardia dai pericoli del Mes. E, soprattutto, la leader di Fratelli d'Italia spiega quale sia la trappola che la sinistra e Conte non vogliono raccontare. Insomma, al di là del Recovery Fund, il sospetto è che quel cappio attorno al collo, l'Italia lo abbia già. E ben stretto. "Il Mes non ha condizionalità per le spese santiarie?", premette con amaro sarcasmo la Meloni. "Ci dicono: vogliono darci 36 miliardi di euro e che facciamo, non li prendiamo? In pratica te la raccontano come se questi soldi ce li stessero regalando. Allora vale la pena di chiarirlo agli italiani: nel fondo salva-Stati l'Italia ha messo 15 miliardi di euro. Quello che l'Euroopa ci propone è di prendere in prestito 36 miliardi di euro che noi dovremmo restituire per intero con gli interessi. In pratica mi prestano i soldi miei, ci devo pagare sopra gli interessi e gli devo pure dire grazie. Scusatemi, io non riesco a capire l'affare", picchia durissimo. E ancora, la Meloni aggiunge: "Il direttore del fondo salva-Stati ha detto pochi giorni fa in una famosa intervista che le condizionalità cosidette light, quindi questo famoso senza condizioni, durano un anno. Sa che significa, Del Debbio? Significa una trappola per topi: c'è il formaggio, 36 miliardi. Tu sei il topo, entri nella gabbia per questi miliardi che secondo la sinistra ti stanno regalando, e ti scatta la tagliola. Tra un anno ti entra la Troika dentro casa", profetizza la leader di Fdi. E i precedenti sono drammatici: "In Grecia quando è entrata la Troika è aumentata anche la mortalità infantile. E ha dovuto dare via tutti i suoi gioielli di famiglia, le sue infrastrutture strategiche, che curiosamente oggi per buona parte sono di proprietà di aziende tedesche. Conte non avrebbe mai dovuto firmare un presunto accordo nel quale c'è il Mes ma senza eurobond, eppure pare che sia quello che ha fatto stasera", conclude la Meloni.
Giulio Tremonti a Stasera Italia: "I 36 miliardi del Mes sono un prestito da ridare in 5 anni, una cifra allucinante". Libero Quotidiano il 03 maggio 2020. Investire i 36 miliardi del Mes nella sanità in 2 anni è semplicemente impossibile. Giulio Tremonti, ex ministro dell'Economia dei governi Berlusconi, sintetizza così la questione a Stasera Italia, delineando i contorni di una vera e propria truffa politica e mediatica. "Trentasei miliardi da spendere in investimenti per la sanità in due anni è una cifra che chiunque abbia un'esperienza di governo considera allucinante", avverte Tremonti. Quello che molti non considerano è come usare e come conteggiare quei soldi: "Un conto è realizzare un ospedale, un costo fisso, ma come li consideriamo i soldi spesi per nuove assunzioni? Secondo punto: quei 36 miliardi vanno restituiti nei successivi 5 anni, quindi non sono a fondo perduto ma sono un prestito. Ora, che un governo come il nostro per quanto serio e credibile riesca a investire quei miliardi e e poi a restituirli io trovo che non stia né in cielo né in terra".
Matteo Salvini sul Consiglio europeo: "Approvato il Mes", il fallimento di Conte e la dipendenza da Berlino e Bruxelles. Libero Quotidiano il 23 aprile 2020. “Sconfitta, fallimento, disfatta. Oltretutto avendo impedito al Parlamento di votare, violando la legge”. Matteo Salvini usa ben altre parole rispetto a Giuseppe Conte, che in toni trionfalistici ha annunciato la fregatura proveniente dal Consiglio europeo: i Paesi membri potranno immediatamente ricevere aiuto con gli strumenti messi sul tavolo già due settimane fa, a partire dal Mes, mentre proseguirà la discussione sul Recovery fund che vede il premier schierato in prima linea. Per il leader leghista l’approvazione del Meccanismo europeo di stabilità - al quale l’Italia non ricorrerà, almeno fino a quando Conte ci terrà a rimanere a Palazzo Chigi - è una “drammatica ipoteca sul futuro dell’Italia e dei nostri figli. Di tutto il resto, come del Recovery fund, si parlerà solo più avanti, ma già si delinea una dipendenza perenne da Berlino e Bruxelles”. Inoltre Salvini ritiene che le promesse di Conte di non usare il Mes rischiano di rivelarsi “fake news” se non dovesse essere istituto il fondo richiesto. “Ladri di futuro, di democrazia e di libertà”, è l’accusa pesante dell’ex ministro, che mantiene alta la guardia: “Noi ci siamo e non ci arrendiamo”.
Il recovery fund è servito: i soldi arriveranno nel ’21 ma l’Italia ha fretta…Paolo Delgado su Il Dubbio il 27 maggio 2020. Il fondo complessivo sarà di 750 mld, 250 in più di quanti previsti dal piano franco-tedesco. L’aggiunta sarà costituita da un prestito mentre il grosso sarà “a fondo perduto”: una serie di interventi europei (tassa sul carbone, web tax, plastic tax come base) dovrebbe evitare la restituzione parziale sotto forma di aumento dei contributi al bilancio europeo nei prossimi anni. Il resto sarà invece debito a tutti gli effetti: peserà cioè sul debito pubblico.All’Italia andranno i contributi più cospicui: 172,7 mld tra cui 81,807 in forma di sussidio e 90,930 come prestito. Il Recovery Fund è servito. Anzi no: è servita la proposta della Commissione che ora dovrà affrontare il solo vero scoglio, quello del Consiglio europeo che si riunirà il 18 giugno. Lo scontro con i Paesi ostili al Recovery avverrà in quella sede. La proposta tenuta segretissima sino all’ultimo da Ursula von der Leyen e poi ufficializzata ieri ha comunque un peso notevole, essendo il punto a cui partono sia le istituzioni europee che i principali Stati, Germania e Francia, con la maggioranza dei Paesi Ue a sostenerli.In Italia già sparano i mortaretti, in buona parte a ragione veduta, anche se la rosa non è sprovvista di spine. Il fondo complessivo sarà di 750 mld, 250 in più di quanti previsti dal piano franco-tedesco. L’aggiunta sarà costituita da un prestito mentre il grosso sarà “a fondo perduto”: una serie di interventi europei (tassa sul carbone, web tax, plastic tax come base) dovrebbe evitare la restituzione parziale sotto forma di aumento dei contributi al bilancio europeo nei prossimi anni. Il resto sarà invece debito a tutti gli effetti: peserà cioè sul debito pubblico.All’Italia andranno i contributi più cospicui: 172,7 mld tra cui 81,807 in forma di sussidio e 90,930 come prestito. I fondi saranno divisi in tre diversi programmi di sostegno. Il più cospicuo e determinante sarà il Recovery and Resilience Facility e dovrebbe essere sottoposto a una doppia condizionalità. La prima è l’obbligo di indirizzare gli investimenti verso i fronti strategici indicati dall’Unione, Green Economy e Digitalizzazione, oltre che verso i settori più colpiti dalla crisi, primo fra tutti il Turismo. La seconda è l’attuazione delle Riforme indicate dalla Commissione. Messa così, dunque se non subirà modifiche nel corso dell’iter e se i dettagli non contraddiranno come spesso capita i “titoli”, per l’Italia non andrebbe male. Le riforme richieste, oltre a un intervento più che mai necessario sulla Sanità, riguarderebbero Giustizia, Istruzione e Pubblica amministrazione. L’importante qui è quel che, almeno per ora, non c’è: la riduzione a tappe più o meno forzate del debito pubblico.”Si tratta di una svolta senza precedenti” esulta il commissario italiano all’Economia e l’entusiasmo non è ingiustificato. Anche se la presidente von der Leyen si è affrettata a sottolineare che “non c’è mutualizzazione del debito” l’affermazione è vera più nella forma che nella sostanza. Questo modello di Recovery Fund è quanto meno un passo in quella direzione. Il prestito, inoltre, prevede condizioni ottimali: basso tasso d’interesse e restituzione a lungo termine, tra il 2028 e il 2058.I problemi, per l’Italia, sono altrove. Non è chiaro quanta parte del fondo sarà disponibile nei prossimi mesi, ma si tratterà certamente di briciole: intorno ai 10 mld. E’ in discussione la possibilità di un prestito-ponte per suppplire al problema di quei Paesi che, come l’Italia, di quei sussidi hanno bisogno subito e non possono aspettare il 2021. Ma in queste condizioni, inevitabilmente, tornerà all’odg il tema del prestito Mes, nonostante sia stato bocciato anche negli ultimi giorni da Conte. Lo stesso M5S, ora, si mostra più possibilista. “Certo le condizioni sono molto diverse da quelle del vecchio Mes”, ammette il ministro D’Incà ma il tema resta incandescente.Poi c’è il problema per molti versi principali. L’Italia, oggi, non è in grado di investire decine di mld nei settori indicati dalla Commissione. Se non lo ha fatto sinora, con capitali europei certo inferiori ma pur sempre cospicui, è proprio perché non può farlo. Le sette riforme annunciate ieri dal premier Conte nel suo “Recovery all’italiana” vanno proprio in quella direzione ma sono solo annunci: battere quella strada superando i mille ostacoli della macchina amministrativa italiana in panne è altro paio di maniche.Infine il debito. Certo, la soluzione trovata è molto distante da quella capestro alla quale mirano i Paesi che oggi si chiamano frugali e ieri erano più propriamente definiti “falchi rigoristi” ma pur sempre di debito pubblico si tratta e di un debito già arrivato alle stelle. Senza una netta ripresa economica, ostacolata dalle difficoltà di cui sopra, il rischio, segnalato a tutte lettere dalla Bce due giorni fa, che nei prossimi mesi emergano rischi per la sostenibilità del debito pubblico dei Paesi più fragili è innegabile e incombente. La Bce non cita nessun Paese. A tutti sanno che il riferimento è diretto essenzialmente a un solo Stato: l’Italia.
Giuseppe Aloisi per ilgiornale.it il 29 maggio 2020. L'Olanda continua ad opporsi a quello che ad Amsterdam viene ritenuto "assistenzialismo" favorevole ai paesi dell'Europa del Sud: anche il settimanale Elsevier Weekblad ci ha tenuto a ribadire la linea dei Paesi Bassi, che insieme ad Austria, Finlandia e Danimarca si sono dichiarati contrari al Recovery Fund dell'Unione europea. L'ultima copertina della rivista è esplicita. Più che il virgolettato, può essere evidenziata l'immagine scelta: olandesi, o comunque cittadini del Nord Europa, che lavorano, con il contrasto di altri cittadini europei che invece vengono immortalati in situazioni vacanziere. Come se l'edonismo fosse una caratteristica centrale di alcuni popoli? Forse c'è anche un po' di preconcetto nell'analisi presentata dal media. I contenuti all'interno della rivista chiariscono meglio il punto di vista. Ma di sicuro, in quanto destinatari del Recovery Fund, la critica olandese interessa anche noi italiani, che saremmo dunque vacanzieri "grazie" al lavoro altrui. La Commissione europea presieduta da Ursula Von der Leyen ha annunciato due giorni fa il piano per la ripartenza dopo la pandemia inflitta dal Sars-Cov2. La speranza, ovviamente, è che non ci siano altre ondate. Ma bisogna stare attenti. Il rischio sanitario zero, però, non esiste. E allora le istituzioni continentali si stanno concentrando sull'evitare che l'economia di alcune nazioni collassi. Il Recovery Fund serve anche a questo. Si tratta, in totale, di 750 miliardi, che verranno distribuite ai Paesi membri dell'Ue più colpiti, mediante meccanismi di prestito o di trasferimento. Si sta ancora lavorando ai dettagli, ma la decisione è stata presa. All'Italia, com'è noto, dovrebbero spettarne 172 di miliardi. Ad Elsevier Weekblad, come riportato da Europa Today, la pensano così: poiché le popolazioni del Sud Europa non sarebbero affatto povere ed anzi avrebbero "abbastanza denaro" o "accesso al denaro", il Recovery Fund sarebbe "perverso". Questo è uno dei tratti centrali delle argomentazioni espresse dal settimanale dei Paesi Bassi. L'analisi giornalistica prosegue per mezzo di un bilanciamento dei debiti nazionali: il punto sollevato riguarda la presunta mancanza di sproporzioni tra il debito pubblico-privato degli olandesi e la situazione debitoria del Belpaese e della Francia. Anche l'Olanda, insomma, vivrebbe le sue difficoltà. Tra coloro che hanno criticato la scelta editoriale di Elsevier Weekblad, c'è Giorgia Meloni, che ha definito la copertina "ripugnante". "Gli italiani e i cittadini dell'Europa mediterranea sono raffigurati come parassiti nullafacenti che bevono, stanno in vacanza e passano il loro tempo sui social mentre i cittadini del Nord Europa mandano avanti tutta la baracca, lavorano duramente e senza fermarsi mai", ha notato su Facebook il leader di Fratelli d'Italia, che ha poi proseguito: "Non accettiamo lezioni da questi signori e dall'Olanda, che ha creato un paradiso fiscale in Europa e drena risorse a tutti gli altri Stati membri. Fratelli d'Italia chiede al ministro Di Maio di convocare oggi stesso l'ambasciatore olandese a Roma e pretendere le scuse immediate". L'esponente del centrodestra ha dunque domandato al ministro degli Esteri di prendere una posizione ufficiale sulla vicenda. Sempre la Meloni ha poi chiesto "la condanna di tutte le forze politiche italiane, a partire da quelle che blaterano di europeismo e in Europa sono alleate del premier Rutte".
L'ira di Meloni contro il settimanale olandese: "Italiani come parassiti, Olanda si scusi". Pubblicato sabato, 30 maggio 2020 ‐ La Repubblica.it Il magazine di destra Elsevier Weekblad esce con una copertina offensiva nei confronti dei cittadini dell'Europa del Sud raffigurati a godersi il sole in ozio mentre gli olandesi lavorano. Una coppia di europei del Sud raffigurati secondo i più tradizionali stereotipi - un uomo baffuto dai neri capelli, una donna dalle forme mediterranee - oziano godendosi il sole. Mentre due olandesi - rigorosamente biondi - lavorano duro: una donna manager che va di corsa, un operaio che avvita una ruota gigante con una enorme chiave inglese. E' la copertina del settimanale olandese Elsevier Weekblad, che offende i nostri connazionali. E che, nonostante il giornale sia orientato a destra, ha mandato su tutte le furie la presidente di Fratelli d'Italia Giorgia Meloni. "Ripugnante copertina dell'Elsevier Weekblad, il principale settimanale olandese - scrive la leader sovranista su Facebook allegando la foto del magazine -. Gli italiani e i cittadini dell'Europa mediterranea sono raffigurati come parassiti nullafacenti che bevono, stanno in vacanza e passano il loro tempo sui social mentre i cittadini del Nord Europa mandano avanti tutta la baracca, lavorano duramente e senza fermarsi mai. Non accettiamo lezioni da questi signori e dall'Olanda, che ha creato un paradiso fiscale in Europa e drena risorse a tutti gli altri Stati membri". Meloni quindi chiede al ministero degli Esteri Luigi Di Maio di pretendere scuse formali dall'Olanda: "Fratelli d'Italia chiede al ministro Di Maio di convocare oggi stesso l'ambasciatore olandese a Roma e pretendere le scuse immediate. E aspettiamo la condanna di tutte le forze politiche italiane, a partire da quelle che blaterano di europeismo e in Europa sono alleate del premier Rutte". La copertina di Elsevier Weekblad ha suscitato le critiche anche del M5s: "Diffonde odio e pregiudizi contro i Paesi del Sud - scrive l'europarlamentare cinqestelle Ignazio Corrao - L'immagine del nordico lavoratore e il meridionale vacanziero è un cliché pessimo e denota anche una scarsa conoscenza delle nostre abitudini visto che nel Sud Europa non beviamo vino e caffè al sole mentre giochiamo a backgammon. Quella copertina piuttosto sembra la caricatura di un olandese buontempone in vacanza in Spagna, Italia, Grecia o Portogallo. Il piano della Commissione europea sul Recovery Fund, anche se non perfetto, rappresenta un deciso passo avanti nella direzione di un'Europa più solidale e giusta. L'Olanda, piuttosto, non ha nessun titolo per dare lezioni visto che non rinuncia al giochino del paradiso fiscale che frega risorse a tutti gli altri e che si approfitta del mercato unico e delle rotte commerciali europee a propria convenienza".
· Il Piano Marshall.
Mauro Campus per ''Domenica - Il Sole 24 Ore'' il 12 aprile 2020. A qualunque latitudine, quando si verificano situazioni di emergenza, è abituale ricorrere a questo luogo comune del lessico politico: «Qui ci vorrebbe un piano Marshall». Era dunque immaginabile il ricorso alla mitologia dello European Recovery Program (Erp) anche nell' attuale situazione. Tale previsione, in sé banale, ha però superato ogni aspettativa, poiché ovunque la formula del piano americano è invocata con un' insistenza svincolata dal significato storico che ebbe quell' operazione. Anche se il generale George Marshall non ne fu né l' ispiratore né l' estensore, il piano prese il nome di quel segretario di Stato dell' amministrazione Truman, che fu anche l' organizzatore della vittoria alleata senza però aver mai calcato il campo di battaglia. Con un breve discorso molto citato - anche se pochissimo letto - pronunciato all' Università di Harvard il 5 giugno 1947 Marshall ne fu piuttosto il latore. Quel testo che riannodava la tela dell' idealismo wilsoniano e compendiava in poche righe anni di trasformazione del sistema politico statunitense è divenuto sinonimo di «intervento risolutivo e benefico per i momenti di crisi drammatica». Come chiarì la legge che lo rese effettivo - l' Economic Cooperation Act del 1948 - non si trattava di un piano generosamente elargito dal vincitore ai Paesi in macerie dopo il conflitto della Seconda guerra mondiale. Esso si triangolava su tre assi connessi e destinati ad avere un significato costituente per il sistema internazionale. Il primo era la riorganizzazione dell' Occidente e il ritorno della dimensione "atlantica" dell' interdipendenza, naufragata con la Prima guerra mondiale, cioè con il collasso della prima globalizzazione. Il secondo era il far funzionare attraverso la ricostruzione delle correnti di scambio il motore del Grand Design rooseveltiano, ossia il ventaglio di organizzazioni pensate a guerra in corso da Roosevelt (dall' Onu all' Fmi, dal Gatt alla Banca Mondiale), le quali avrebbero dato corpo all' idea di "governo del mondo" che costituiva lo sfondo di un sistema internazionale multilaterale. Il terzo era la creazione geografica di un campo economico omogeneo in funzione antisovietica: un blocco politicamente stabile proteso a combattere quella che si andava definendo come la Guerra fredda e che segnò i successivi 40 anni di vita internazionale. Le ricadute dell' attuazione del Piano furono legate all' alba della cosiddetta Pax Americana, cioè la creazione di rapporti di forza che descrivevano anche attraverso il dollar standard il dominio egemonico degli Stati Uniti su un Occidente i cui confini dilatati avrebbero coinciso con l' affermazione delle strutture del capitalismo democratico. Per essere precisi, il Piano costituì la premessa di quella trasformazione. Con la regia di Washington i Paesi dell' Europa occidentale - senza distinzione fra vinti e vincitori - si sedettero al tavolo dell' Organizzazione per la cooperazione economica europea (Oece, l' antenato dell' Ocse), nata allora per riprogrammare il sistema produttivo continentale e renderlo funzionale all' ottimizzazione dei beni e dei fondi messi a disposizione dagli Stati Uniti. Si formò lì il processo d' integrazione europea, che da allora prese una strada autonoma ma seguitò (e seguita) a riconoscersi attorno alle istanze economiche delle origini. Il Piano fu molte cose, ma il suo valore materiale derivava sostanzialmente da due fattori. Anzitutto il suo importo - circa 13,2 miliardi di dollari, pari all' 1,1% del Pil americano e al 2,7 dei 16 Paesi riceventi - era finanziato con i soldi dei cittadini statunitensi, i quali furono spinti ad accettarlo sulla base di una campagna martellante nella quale si sottolineava il nesso tra la sicurezza economica della Repubblica americana e quello dell' Europa occidentale. Secondariamente esso non era composto solo da prestiti agevolati (alla cui riscossione gli Stati Uniti poi rinunciarono), ma da beni e materie prime che i 16 Paesi incamerarono gratuitamente e poterono trasfondere nel sistema produttivo attraverso aste o assegnazioni strategiche. Il ricavato delle vendite di quei beni costituì un fondo vincolato al lancio di politiche di produttività e quindi, di fatto, all' adozione di uno straordinario aggiornamento tecnologico rispetto alla grammatica industriale europea. Questo meccanismo inseriva una doppia condizionalità per i Paesi che attuarono il Piano. La prima era protesa allo sviluppo e alla modernizzazione del sistema produttivo, la seconda, squisitamente politica, prevedeva l' allineamento dei Paesi Erp all' American way of life in termini di consumo e accesso ai beni e di adesione a modelli liberal-democratici costituzionali. Fu l' implicita condizionalità politica a rappresentare l' oggetto principale del dissenso attorno al Piano. Esso fu, infatti, accolto in modo controverso non solo dalla sinistra ma da eterogenee parti della popolazione europea. Anzitutto perché esso si proponeva di vincolare e dividere. Sebbene formalmente offerto ai Paesi della costellazione sovietica, esiste un' ampia evidenza documentaria che tale offerta fosse poco meno che un ballon d' essai: neanche volendo, il socialismo reale si sarebbe potuto curvare ai precetti dell' americanizzazione sottintesi al Piano. È del pari eloquente che le critiche accese, dal 1947 in poi, contro un patto accusato di essere l' espressione più aggressiva del capitalismo statunitense siano state poi ribaltate in severe diagnosi rispetto al modo in cui gli aiuti furono utilizzati. Ciò, da un lato, spiega però perché il Piano sia il passaggio preliminare per comprendere la storia del conflitto bipolare, e dall' altro perché ogni paragone col presente sia impraticabile. A suo tempo, nemmeno i più accaniti cold warriors sostennero che il Piano fosse il frutto di una volontà filantropica degli Stati Uniti, ed esiste un generale consenso verso la tesi secondo cui esso servisse ai destinatari quanto ai promotori. Le ipotesi di un piano per fronteggiare la crisi da coronavirus che ricalchi le aspirazioni globali dell' Erp, per come negli ultimi giorni sono state richiamate prima dal presidente del Consiglio europeo Charles Michel e poi dalla presidentessa della Commissione Ursula von der Leyen, descrivono un' ambizione priva di legami con la realtà. Il bilancio dell' Unione (circa l' 1% del reddito nazionale lordo) - perché sarebbe l' Unione a essere chiamata a organizzare il "nuovo Piano Marshall" - è insufficiente per affrontare un programma simile a quello del 1948-1952, e una contrazione dei bilanci nazionali a favore del bilancio dell' Unione pare in questa fase una prospettiva lunare. Sarebbero dunque necessarie misure (e visioni) straordinarie. Vi è inoltre un crinale ancora più invalicabile della limitatezza delle risorse e della relativa contabilità ordinaria che appassiona alcuni strabici politici del Nord Europa, e riguarda l' assunzione di responsabilità politica che un Piano simile comporterebbe. Per essere davvero onesti, nessuno oggi nell' Unione è intenzionato a guidare la drammatica transizione che si aprirà a breve e sarebbe questo ciò di cui si sente il bisogno. Non dell' evocazione imbambolata di feticci storici.
· Storia del crollo del 1929.
Storia del crollo del 1929, la più grave crisi economica di sempre. Paolo Guzzanti de Il Riformista il 16 Aprile 2020. «Ma cos’è questa crisi? Parapapappappà…» si canticchiava nell’Italia del fascismo trionfante dei primi anni Trenta. Miracolosamente, l’Italia l’aveva sfangata. O quasi. La crisi. Per la moda, c’era “la donna crisi”, molto ombretto sotto occhi tristi e seduttivi, ma poco più. E il presidente americano Franklin Delano Roosevelt, l’autore del “New Deal” (che non è il “Piano Marshall” come si dice oggi sbagliando) chiedeva – pensate un po’ – consigli ed aiuto ad un Mussolini che, prima di imbarcarsi nelle guerre d’Etiopia e di Spagna, era ancora guardato come il “darling” dei liberal occidentali, uno che in fondo aveva inventato il socialismo di Stato, con un fritto misto di sindacati e corporazioni ispirato a Sorel, ma con tutti i bambini al mare nelle colonie e welfare per tutti che funzionava magnificamente come ammortizzatore sociale. Il duce aveva persino scritto una prefazione ad un libro di Roosevelt in cui notava, con finta distrazione, che Roosevelt era un suo discepolo fascista. Non finì così fra quei due, come sappiamo. Ma avvenne. La crisi del ’29 scoppiò una mattina all’apertura della borsa di Wall Street dove da troppo tempo tutti investivano spensieratamente e senza veri capitali, gettando sul mercato soldi finti come quelli di Monopoli perché le banche – anch’esse avide e spensierate – lo permettevano, sicché l’America aveva vissuto nella fiabesca illusione di un capitalismo senza rischi in cui si guadagnava comunque, senza fare niente, come se fosse stato un gratta-e-vinci in cui si vince sempre. Coloro che non avevano soldi, avevano investivano a credito mettendo giù soltanto una manciata di soldi: erano chiamati investimenti marginali: «Metta pure sul mio conto, passo domattina a versare i profitti». Ma quella giornata si chiuse con una catastrofe: tutti i broker e gli operatori di borsa, di colpo, si affollarono soltanto per vendere tanto senza comprare. I prezzi delle azioni, giù in picchiata. Allora le banche dissero: hey, un momento, adesso rivogliamo indietro tutti i soldi che vi abbiamo prestato per gli acquisti marginali. E gli investitori dissero: sorry, ma non mi è rimasto nemmeno un dollaro in tasca. Allora i risparmiatori si precipitarono tutti nelle banche per riavere indietro i loro risparmi, e si sentirono dire sorry, in cassaforte non c’è più un dime, o penny. E le banche chiusero, bruciando all’istante solo a New York ottanta milioni di dollari. Molti si suicidarono dalle finestre dei grattacieli. Una prima ondata di aziende, chiuse. Buttati fuori di casa secondo le norme dell’eviction – lo sfratto con la polizia – i nuovi poveri in giacca e cravatta riempirono le strade. Alcuni benefattori fra cui il gangster Al Capone aprirono una mensa per un ceto medio che si era rifugiato nei furgoni, nei depositi, sotto le frasche in campagna, niente luce, gas, riscaldamento, medicine, vestiti, nulla. Ladri e rapinatori si dettero alla pazza gioia e i cittadini più duri, grazie al secondo emendamento che autorizza il possesso e l’uso delle armi personali, formarono ronde come quella che Rembrandt aveva dipinto nella sua Amsterdam ma avevano un’aria molto più sinistra, ammazzando qualsiasi sospetto, specialmente i neri. Un esercito di rapinatori, fra cui Bonnie and Clyde, rapinavano banche e furgoni postali, si moriva di fame e così nel giro di pochi mesi l’America dei roaring Twenties, del Charleston e del Grande Gatsby tornò all’età delle pietra. Ma accadde il fatto nuovo: due mesi dopo l’avvento di Adolf Hitler al governo della Germania, ci furono le elezioni e il 4 marzo del 1933 si insediò uno dei più importanti e discussi presidenti degli Stati Uniti: Franklin Delano Roosevelt, cugino di secondo grado del presidente repubblicano Theodore Roosevelt, quello con i baffoni che diceva: «Tu parla piano ma impugna un nodoso bastone». Era sbarcato a cavallo a Cuba durante la guerra con la Spagna a sciabola sguainata, combinando solo disastri. Il suo giovane parente era stato per un po’ sotto le sue ali, ma poi si era convinto ad abbandonare i repubblicani per passare ai democratici. Fu eletto dall’America poverissima promettendo la liberazione dalla fame, proponendo ai suoi fellow Americans, a big deal: The New Deal e cioè il nuovo patto, accordo, promessa, piano. E mantenne la promessa, anche scopiazzando l’Iri italiano appena varato su progetto dell’economista Alberto Beneduce che ne fu il primo presidente e che inaugurava la formula dell’intervento dello Stato anche a fondo perduto: denaro – se occorre – in cambio di niente. Era una grande idea, ma non aveva niente a che fare col capitalismo, infatti era un’idea di dirigismo statale socialista, seppur fascista. Intanto però, la disgrazia della depressione, nata in America esattamente come in America era nata nel 1918 l’influenza “Spagnola”, per un effetto-domino si era sparsa specialmente in Europa, dove aveva messo in ginocchio la Repubblica di Weimar tedesca, che si era lentamente risollevata dopo la traumatica pace di Versailles, diventando una socialdemocrazia discretamente benestante. La crisi di Wall Street arrivata a Berlino provocò una crisi di miseria e fame senza precedenti: era quello il tempo in cui i tedeschi andavano a fare la spesa con milioni di marchi per una pagnotta. La crisi massacrò il mondo occidentale e si fece sentire, sia pure di rimbalzo, sulla fragile economia sovietica. Ma, come dicevamo all’inizio, l’inedito socialismo autoritario nazionalista inaugurato da un Mussolini saldamente in sella (aveva fatto includere nello Statuto il “Gran Consiglio del Fascismo” come organo costituzionale, lo stesso che gli voterà la sfiducia del 25 luglio del 1943, permettendo al re di farlo arrestare) e al top del gradimento popolare, cosa su cui erano d’accordo non soltanto Renzo De Felice ma anche Giorgio Amendola per conto del Pci: le opposizioni ridotte al silenzio mentre gli intellettuali parlavano d’altro, come Alberto Moravia con i suoi Indifferenti, descrizione di una borghesia arresa. Fu così che a causa della depressione iniziata nel ’29, Mussolini si pavoneggiava dicendo che il presidente americano (cui dichiarerà guerra come un imbecille, dopo averlo disgustato con l’aggressione alla Francia già vinta dai tedeschi) era un fascista, anzi un suo discepolo cui scriveva lettere in inglese mentre registrava messaggi filmati in pessimo inglese tuttavia fluente, di imperituro amore fra Italia fascista e America nella depressione. La ricetta italiana, convenne Roosevelt, funzionava perché era di sinistra: basta col capitalismo del profitto, spendiamo in lavori pubblici, facciamo dighe anche inutili, gallerie, edifici. Roosevelt adotto persino, pur di spargere dollari e mantenere in vita i disoccupati, pittori astrattisti di strada che non vendevano una tela come Jackson Pollock o Mark Rothko e li mise a stipendio rendendoli visibili a Michel Duchamp che li portava a Peggy Guggenheim e poi al successo mondiale. Fu la risposta sociale per battere la povertà e la criminalità. Affidò l’oscuro Fbi al micidiale Edgar Hoover per far fuori a colpi di mitra tutti i gangster o sbatterli in galera per evasione fiscale Al Capone e chiuse l’odiosa pagina del proibizionismo che avrebbe dovuto rendere gli State “dry”, asciutti dall’alcool e che invece li rese dipendenti dal crimine organizzato. Il proibizionismo tuttavia era sta una pagina gloriosa del femminismo americano essendo nato per impulso delle mogli dei minatori di origine irlandese che il sabato sera spendevano la paga ubriacandosi e andando a puttane per portare in casa povertà e violenza. Le donne avevo organizzato raid per incendiare i pub, avevano pagato poliziotti e avvocati per farsi difendere e poi molti politici avevano fiutato un elettorato femminile ma era finita male. Uno dei più sfrontati contrabbandieri di whisky fu Joseph P. Kennedy, padre del futuro presidente JFK ucciso nel 1963 e di Bob ucciso nel 1968, nel biennio 1938-40 quando fu ambasciatore americano a Londra dove sperava di scongiurare l’intervento americano senza fare mistero dei suoi sentimenti pro-Hitler e una buona dose di antisemitismo. Anche lui fu scelto dal presidente Roosevelt come uno dei saggi cui affidare la riscrittura delle regole della Borsa americana crollata in un solo giorno, dopo averlo enormemente arricchito fondando la fortuna economica della famiglia irlandese. Il 1929, inteso come l’anno del crollo finanziario e delle banche, è l’anno da cui si fa partire la grande depressione che con la cura di Roosevelt portò gradualmente l’America quasi fuori dalla crisi, che seguito a produrre danni nel resto del mondo. Dalla depressione, gli Stati Uniti uscirono come fornitori di armi alla Gran Bretagna di Winston Churchill, con la legge “Depositi e Prestiti” con cui di fatto Londra accettava di farsi smontare l’impero dagli americani a guerra finita, come poi avvenne. Ma gli Stati Uniti e lo stesso Roosevelt – che abbondava di tonanti minacce contro la Germania – non avevano alcuna intenzione di farsi coinvolgere nel conflitto, che era estremamente impopolare proprio fra gli strati più poveri degli Stati Uniti, formati da irlandesi, tedeschi e afroamericani. Ma lo sforzo per riconvertire le catene di montaggio inventate da Henry Ford (“Tutti gli americani hanno diritto a guidare una Ford e a sceglierne il colore, purché sia il nero”) in nastri per carri armati, aerei e bombe, pagò in termini di occupazione con un boom senza precedenti. E, quanto a boom, quando i soldati tornarono a casa nel 1945-46 si ebbe la colossale nascita di baby che formarono la generazione dei babyboomer, la generazione che non hai mai conosciuto depressioni economiche ma cui non fu risparmiata una lunga e disgraziata guerra come quella del Vietnam, ma questa è un’altra storia.
· Il Corona Virus ha ucciso la Globalizzazione del Mercatismo e ha rivalutato la Spesa Pubblica dell’odiato Keynes.
La Cina ha vinto, l’occidente si è suicidato per paura di ammalarsi. Giuliano Cazzola de Il Riformista il 29 Marzo 2020. Proviamo ad immaginare una storia di fantapolitica (che non abbia alcun riferimento con la realtà). Ecco la trama. Lo scenario internazionale è destabilizzato; la lotta per l’egemonia vede in campo il vincitore della Guerra fredda, gli Usa, e un nuovo protagonista, la Cina, che da "fabbrica del mondo" si è rapidamente trasformata in una grande potenza finanziaria, economica e tecnologica che estende la sua area di influenza sull’Asia, l’Africa, sulla stessa Europa (la c.d. Nuova Via della Seta è il filo rosso di questo disegno egemonico basato su di un ampio programma di infrastrutture e di reti di comunicazione in grado di interconnettere anche fisicamente la parte più importante della società globalizzata). All’improvviso, in Cina scoppia un’epidemia di un virus, appartenente al ceppo conosciuto dei ‘’corona’’ ma sconosciuto; il contagio si diffonde rapidamente – perché non incontra anticorpi – passando da un Continente all’altro con una velocità favorita dalla mobilità delle persone e delle merci in un sistema mondiale interconnesso. Per farla breve, i leader cinesi capiscono la gravità della situazione (una terza guerra mondiale?) e si rendono conto che a vincere la nuova sfida sarà il Paese che riesce ad uscirne prima, anche a costo di misure draconiane e sacrifici dolorosi. Ma i dignitari del PCC conoscono anche le debolezze dei loro competitori e si convincono che saranno quegli stessi a condannarsi a un tragico destino. Il motivo è semplice: le popolazioni dei paesi ricchi e sviluppati e dotati di articolati sistemi di welfare non sono più capaci di soffrire. L’Occidente si paralizza così da solo. Si disarma, si suicida per paura di ammalarsi. Il suo punto debole è l’opinione pubblica, sobillata da un’informazione che risponde solo a se stessa e all’indice degli ascolti. La democrazia si conferma il peggiore dei sistemi politici eccezion fatta per tutti gli altri. Ma le democrazie vincono le guerre quando sono guidate da grandi leader, in grado di convincere i propri concittadini ad intraprendere percorsi difficili e ad accettare sfide tremende. Ed è solo quando interviene il transfert tra il popolo e il leader, gli uomini liberi diventano più forti e determinati dei sudditi dei tiranni. Nel 1938 Neville Chamberlain fu accolto da trionfatore al suo arrivo da Monaco nel 1938. Due anni dopo Winston Churchill, mentre piovevano le bombe su Londra, persuase gli inglesi a combattere con il suo ‘’ we shall never surrender’’. E, nel primo discorso da premier ai Comuni, promise ai sudditi di Sua Maestà:’’ blood, toil, tears and sweat’’. Boris Johnson, nel suo piccolo, ha cercato di ricordare agli inglesi che quando si va in guerra si muore, ma è stato costretto a cambiare linea in fretta e furia. E chi muore in guerra? Intere generazioni di giovani. Adesso tocca ai più anziani. Ma questa logica non viene accettata dall’opinione pubblica che preferisce privarsi del futuro pur di salvaguardare un incerto presente. Così – nella nostra storia – la Cina s’impadronisce di un mondo impaurito, impoverito, paralizzato, che ha dissipato tutte le risorse per sopravvivere, che ha rinunciato volontariamente alle sue libertà pur di tutelare la propria esistenza. E presto si accorgerà di aver perduto su ambedue i fronti. La vittoria della Cina è dipesa da una visione filosofica della vita, che non appartiene al mondo occidentale. Ed è proprio questa inadeguatezza etica che ha messo in evidenza la sua fragilità. Il coronavirus non è la sola e la più grave epidemia che il mondo sviluppato ha affrontato nella sua storia. La differenza non sta nel virus, ma in noi. La nostra è una sconfitta etica.
Populista, ricco, "pro-Brexit". Eccolo, Joseph Chamberlain. Una nuova biografia riattualizza la figura dell'uomo che dominò la politica inglese tra '800 e '900. Francesco Perfetti, Lunedì 30/03/2020 su Il Giornale. Nell'Inghilterra tardovittoriana e in quella edoardiana la figura di Joseph Chamberlain (1836-1914) fu molto popolare ma anche controversa. Quest'uomo che Winston Churchill avrebbe definito «il personaggio più vivace, brillante, ribelle della vita politica inglese» della quale per almeno un trentennio avrebbe fatto «il buono e cattivo tempo» legò il proprio nome a comportamenti e problemi politici che sembrano ora tornati di attualità: dal particolare rapporto di tipo «populistico» che ebbe coi suoi sostenitori al disinvolto trasformismo che lo spinse a passare da un partito all'altro e a fondarne di nuovi, dalla «questione irlandese» fino a quel sentimento isolazionista che, in qualche misura, oggi si ripropone attraverso la Brexit. Nell'Inghilterra del suo tempo, che era allora anche la patria dello snobismo, Chamberlain faceva la sua figura. Malgrado non praticasse sport, mantenne sempre un aspetto giovanile. Bernard von Bülow, che lo incontrò all'epoca della guerra anglo-boera quando aveva già superato la sessantina, ebbe l'impressione che dimostrasse dieci anni di meno e lo descrisse con poche ma efficaci parole: «Di statura media, testa allungata, volto liscio, interamente raso, fronte bella e superba, naso arguto, occhi freddi». Non aveva ascendenze aristocratiche perché il padre era un piccolo calzaturiero londinese, ma della buona società entrò subito a far parte e vi si trovò assai bene. Quando ritiratosi per dedicarsi alla politica, ancor giovane, dall'attività imprenditoriale di produzione di viti che lo aveva reso ricco fece il suo ingresso ai Comuni, l'anziano leader conservatore Benjamin Disraeli disse che portava il monocolo «come un gentleman». Era una sorta di cooptazione fra le file della più ristretta aristocrazia inglese. All'aspetto esteriore «Joe» così fu presto chiamato dagli amici ma anche dagli avversari e dalla stampa satirica teneva moltissimo. Era, quasi, un novello Lord Brummell. Si rivolgeva ai migliori sarti di Londra che gli confezionavano giacche da giorno dal taglio impeccabile ed eleganti frac per la sera. L'alto cappello a cilindro e l'immancabile orchidea al bavero, così come il monocolo cerchiato d'oro, completavano l'abbigliamento di un uomo che amava la vita mondana e le serate culturali. Per quanto fosse, oltre che ambizioso pure politicamente abile e astuto, Chamberlain non riuscì mai a mettere piede a Downing Street come primo ministro a differenza del figlio Neville che lo fu nella seconda metà degli anni Trenta caldeggiando la politica di appeasement ma ricoprì importanti cariche ministeriali in due Gabinetti in momenti delicati ed ebbe un riconosciuto peso politico a livello nazionale. Della sua disinvoltura nel cambiar partito o nel fondarne di nuovi, von Bülow ha lasciato scritto: «Non c'era forse questione politica nella quale egli non avesse abbruciato ciò che prima aveva adorato, e adorato ciò che prima aveva bruciato» aggiungendo, inoltre, che «difendeva ciascuno di questi cambiamenti, fra l'applauso della maggioranza dei suoi compatrioti, con l'argomento che non egli, ma le circostanze avevano mutato». A questo discusso ma senza dubbio importante protagonista della politica inglese ai tempi del massimo fulgore dell'imperialismo britannico è dedicato il bel volume di Giovanni Aldobrandini Il buono e il cattivo tempo. Joseph Chamberlain e il progetto riformista e imperialista nell'Inghilterra tardovittoriana (Le Monnier, pagg. VI-346, euro 24): un saggio approfondito ed equilibrato che unisce al taglio biografico un apprezzabile approccio politologico e di storia del pensiero politico. Vero e proprio self made man Chamberlain creò, utilizzando tecnologie sofisticate e metodi di razionalizzazione del lavoro sul modello americano, la più grande e moderna fabbrica inglese di viti che giunse a impiegare 2500 operai e ad esportare in ben quindici paesi. Alla vita politica, «Joe» si dedicò presto, all'inizio degli anni Settanta, dapprima come sindaco di Birmingham poi come membro della Camera dei Comuni eletto per i liberali. Questi, per la verità, erano il punto di convergenza di gruppi anche culturalmente eterogenei che andavano dai progressisti radicali, fra i quali Chamberlain, ai sostenitori di Gladstone, dai cosiddetti new liberals, che puntavano a stemperare il tradizionale individualismo liberale in una prospettiva più comunitaria, fino ai liberal-imperialisti fautori di una politica di national efficiency per il Regno Unito e i territori imperiali. Entrato nel 1880 a far parte del governo guidato da Gladstone come ministro del Commercio, Chamberlain si trovò a dover affrontare, fra le altre, la spinosa questione irlandese sostenendo un progetto che prevedeva per l'Irlanda un piano di decentramento, ma non una vera indipendenza né la creazione di un parlamento autonomo. E collegata a questa annosa questione, destinata a ritornare ciclicamente di attualità, fu la scissione dei liberali e la nascita del Partito liberale unionista della quale Chamberlain fu protagonista. Egli, pur non contrario a concessioni di tipo amministrativo e a riforme agrarie, era convinto che permettere all'Irlanda la creazione di un parlamento autonomo avrebbe significato intaccare la compattezza dell'impero britannico. Dell'impero e della stessa ideologia imperialista, Chamberlain fu sempre convinto sostenitore. Riteneva che gli inglesi avessero il dovere morale di esportare la civiltà e diffondere nelle colonie il codice di comportamento del gentleman. Era il concetto espresso dallo scrittore Rudyard Kipling con la celebre battuta sul «fardello dell'uomo bianco» o dal viceré dell'India Lord George Curzon con l'affermazione che l'impero britannico era «il più grande strumento per realizzare il bene» che il mondo avesse mai visto. Alla base di questa visione imperialistica c'era una sorta di «paternalismo umanitario» che avrebbe fatto dichiarare a Chamberlain nel 1903 che «Il manifesto destino dell'Inghilterra è quello di essere una grande potenza colonizzatrice e civilizzatrice». La collaborazione degli unionisti coi conservatori Chamberlain divenne ministro delle Colonie nel governo Salisbury è da collegarsi, pur accanto a motivazioni contingenti, a questa visione dell'imperialismo. Non solo racconto biografico ma anche affresco politico di un'epoca della storia inglese, il volume di Aldobrandini tratta a fondo tanti temi, dalla guerra anglo-boera alla politica di riavvicinamento alla Germania fino ai progetti di introduzione di quelle «tariffe imperiali» (cioè dazi doganali) destinate a trasformare l'impero in una unione protezionistica. Che è, a ben guardare, uno dei possibili esiti di una Brexit che finisce per porsi come tentativo di recupero piaccia o non piaccia poco importa di un'antica e tradizionale vocazione «insulare» e imperialistica della storia inglese.
"Globalizzazione finita. È come Sarajevo 1914". L'ex ministro dell'Economia Tremonti: "Lo sparo del 1914 pose fine alla Belle Époque, la pandemia a 30 anni di mercatismo". Andrea Indini, Lunedì 30/03/2020 su Il Giornale.
"Questa pandemia è il tipico incidente della Storia. Un precedente, per capirci, è stata Sarajevo: un luogo remoto, un fatto inaspettato, improvviso e in sé drammatico ma non percepito subito come tale, ma poco dopo la Grande Guerra e la fine della Belle Époque e con questa la caduta della vecchia Europa. La Storia non si ripete per identità perfette, ma gli 'incidenti' sempre ricorrono". Si può dire che nel suo libro Le tre profezie, Giulio Tremonti aveva previsto tutto. O quasi.
Il coronavirus, l'emergenza sanitaria e la crisi economica che ha generato hanno messo a nudo l'intero sistema. A sgretolarsi è il mondo come lo conoscevamo fino a ieri. È finita l'era della globalizzazione e dei mercati drogati dalla finanza?
"La nuova Sarajevo: un luogo remoto, all'interno della Cina, la scintilla 'malefica' sprigionata dall'incontro tra due civiltà, una rurale con dentro usi e costumi millenari e una iper moderna. Se guardi Google Maps, la mappa luminosa del mondo, la costa appare illuminatissima, mentre l'interno è una sconfinata superficie senza luce, rurale ma con dentro almeno mezzo miliardo di persone. Dalla mappa capisci che il virus non è venuto fuori da un laboratorio scientifico ma certamente da un laboratorio sociale, dall'incrocio forzato tra passato e futuro. Da qui il virus segue la via della Seta, passa da un luogo simbolico, l'Iran, arriva in Europa e da qui in Occidente. Un tempo le pandemie, come la peste, camminavano lente, con i topi e le pulci. Questa, più moderna, ha avuto una diffusione istantanea. Come Sarajevo ha posto fine alla Belle Époque, così questa pone fine al dorato trentennio della globalizzazione e al prodotto 'illuminato' di quella che è stata l'ultima ideologia del Novecento, il mercatismo: l'idea che il divino mercato è tutto e fa tutto. Come il vecchio mondo era liberté, égalité, fraternité, così il mondo successivo, un mondo che ora ci si svela effimero, è stato globalité, marché, monnaie. Usando un linguaggio da pandemia, nei Promessi sposi, don Ferrante si chiedeva 'La peste è sostanza o accidente?' e diceva 'Non è sostanza, non è accidente'. C'è qualcuno che considera la pandemia come una 'tragedia biblica'. Credo che questo sia un errore. La confusione tra gli effetti e le cause, tra l'epifenomeno e il fenomeno. Come è già stato nella Storia, anche questa pandemia sarà battuta dalla scienza: la Storia dell'umanità è cambiata con la scoperta della penicillina. La tragedia non è tanto nella pandemia in sé e nei suoi effetti sanitari quanto nel fatto che svela i limiti della globalizzazione. Una volta usciti dal lockdown ne troviamo le macerie."
A quel punto sarà necessaria una riconfigurazione dell'equilibrio tra Stato ed economia?
"Nell'ideologia del mercatismo, il mercato era tutto e lo Stato niente. Il divino mercato era la macchina e la matrice progressiva e positiva di ogni bene. Per contro lo Stato era un fattore ostacolo. Questa ideologia era una distorsione rispetto alla tradizione liberale classica. Qualcosa di simile a quello che nell'altro campo è stato, nella sua assoluta radicalità, il bolscevismo sul socialismo. Il mondo liberale comincia nel Settecento e trova la sua bibbia in 'La ricchezza delle nazioni'. Un titolo che indica come ricchezza e nazioni non possano esistere indipendentemente, il mercato ma anche lo Stato. Il mondo liberale occidentale era come un antico orologio meccanico fatto di pesi e contrappesi. L'orologio ha battuto il suo tempo per due secoli poi qualcosa ha cominciato a alterarne il ritmo: nel 1989 la caduta del muro di Berlino; nel 1994, a Marrakech, la firma del Wto, che non è un accordo commerciale come dice il nome trade ma è politico; nel 1996 la seconda presidenza Clinton introduce gli strumenti finanziari necessari per la globalizzazione (per muovere i soldi servono i 'liquidi'); nel 2001 l'ingresso dell'Asia con la Cina nel Wto; nel 2008 la prima crisi seguita nel 2020 da questa."
Lei è sempre stato critico rispetto a questo processo...
"La cosa giusta andava fatta nei tempi giusti. E invece è stato tutto concentrato finché è esploso. La verità è che questo processo storico si è sviluppato fuori dalla dimensione tipica della Storia che è quella della longue durée. Per un fenomeno storico come questo solo trent'anni sono stati un tempo minimo."
Questa crisi ha spinto Donald Trump e Xi Jinping a riprendere a parlarsi. Intravede la possibilità di un riequilibrio tra le due super potenze?
"Nel 2009 fui invitato a Pechino per una lezione sulla globalizzazione alla scuola centrale del Partito comunista cinese. Fatta la lezione, fui invitato al palazzo del partito in piazza Tienanmen per un colloquio con il presidente della scuola. Scoprì in quel momento che era il vice presidente del Repubblica, attualmente il presidente. Da ministro feci la tipica domanda dei ministri del Tesoro: 'Perché non comprate i titoli italiani?'. Nella risposta la sintesi di tutta la nostra conversazione: 'Vorremmo diventare un po' ricchi prima di diventare troppo vecchi'."
Cosa c'era alla base di questa affermazione?
"Per come la interpreto io, la Cina deve affrontare il dramma di una demografia avversa. Credo che sia questo a generare la spinta dalla manifattura tradizionale all'intelligenza artificiale. Il processo era ed è in corso. Allora la posizione della Cina era un po' più low profile della Cina di oggi. Oggi le vie della Seta sono una proiezione geopolitica di forza e di potenza. E lo stesso si può dire del 5G. Per reazione gli americani hanno preso il 5G come nel 1957 hanno preso lo Sputnik: il rischio della vittoria degli altri. Per quanto spero si arriverà ad un punto di equilibrio. Comunque il disordine creato dalla pandemia sta rallentando l'ascesa della Cina e sta rendendo più probabile questo equilibrio. Da questa partita l'Europa, senza l'Inghilterra, è completamente fuori perché è rimasta fuori dai mari. Ci sono due modi per stare al tavolo: seduti come commensali o scritti come pietanza sul menu..."
Travolta dall'emergenza coronavirus, l'Unione europea si è infatti fatta trovare (ancora una volta) del tutto impreparata...
"Una delle conseguenze di questa crisi è l'emergere all'evidenza dei limiti di tutte le nostre 'classi dirigenti', delle nostre e di quelle europee. Nell'ottobre del 2008, come ministro dell'Economia e delle Finanze italiano, ho scritto alla presidenza di turno europea, al ministro Lagarde, una lettera. In quella lettera, scritta mentre la crisi stava esplodendo, c'erano un punto generale sul bisogno di regole per l'economia e un punto particolare europeo sull'esigenza di un Fondo salva Stati per gestire la crisi. Punto primo: in sede G20 il governo italiano proponeva di stendere, insieme all'Ocse, un trattato multilaterale denominato "Global legal standard" (Gls). Il senso era: si deve passare dal free trade al fair trade. Non basta che a valle il prezzo di un prodotto sia giusto (free trade), è necessario che a monte ne sia giusta anche la produzione, rispettosa di tante altre regole (fair trade). Ad esempio, all'articolo 4, si era scritto regole ambientali ed igieniche. Le dice niente? Il trattato fu votato dall'Ocse ma questa filosofia politica fu battuta dal "Financial stability board" (Fsb), ispirato dalla finanza come dice il nome stesso. La logica era questa: non servono nuove regole, se non qualcosa per la finanza. La vittoria del Fsb sul Gls ha drogato, con la finanza, la globalizzazione sfrenata per altri dieci anni. Oggi ne raccogliamo i frutti avvelenati."
Passiamo al secondo punto di quella lettera.
"Il governo italiano faceva notare che nei trattati europei non c'era la parola crisi. Trattati che erano stati tutti scritti in termini progressivi e positivi dove il bene era la regola e il male era l'eccezione non prevista. Si iniziò, quindi, sulla base della nostra proposta, la discussione sulla crisi e sulla necessità di introdurre un fondo anti crisi. Alla fine, una notte, fu invitato in Eurogruppo un notaio per incorporare con strumenti di diritto privato il primo fondo europeo. La logica della discussione, in quelle lunghe notti, era sopra serietà, pur se non austera, nel fare i bilanci nazionali, sotto solidarietà per chi andava in crisi e, in mezzo, il fondo europeo come piattaforma da cui lanciare gli eurobond. Sugli eurobond ricordo l'articolo scritto sul Financial Times da me e Juncker."
Poi tutto si è rotto quando è esplosa la crisi della Grecia...
"Al tempo io ero presidente dei ministri dell'Economia del Ppe. Quando Juncker chiese di usare il Fondo salva Stati per salvare le banche, risposi 'Potrebbe, ma a patto che la contribuzione nazionale al fondo non sia basata sul Pil, come giusto nella funzione salva Stati, ma sul rischio come giusto nella funzione salva banche. Sulla Grecia le banche tedesche e francesi erano a rischio per 200 miliardi di euro, l'Italia solo per 20. L'ipotesi del passaggio nel calcolo dal pil al rischio innescò la crisi. Qualche giorno dopo esplosero gli spread e fu spedita la lettera Bce-Bankitalia del 5 agosto. Obiettivo di queste manovre non era solo prendere i nostri soldi per salvare le loro banche ma anche mascherare gli altrui vizi di sistema e, passando dal calcolo sul Pil al calcolo sul rischio, evitar di far venir fuori la vera causa della crisi, una crisi bancario-sistemica che era più nel Nord che nel Sud dell'Europa. Allora, a guardarli, quei 200 miliardi sembravano una cifra enorme. Adesso fanno ridere."
Cosa è successo nel frattempo?
"In questi anni il fondo, che nel frattempo è diventato Mes, è stato tenuto nel parcheggio. Ora vorrebbero tirarlo fuori e fargli passare qualche confine, ad esempio il Brennero... Questo strumento è costruito come evoluzione della Troika ed è dotato di capitale minimo. Pertanto un Paese dovrebbe versare capitale per ricevere indietro capitale appena un po' addizionato. Questo rende il Mes una partita di raggiro politico ed economico. Eppure tutti sembrano convergere sul Fondo salva Stati. Qualcuno, per sopravvivere, dice l'opposto di quello che per trent'anni ha detto per vivere. Tanti, troppi, che appena ieri erano austeristi, adesso sono diventati debitisti. Comunque, alla base c'è sempre la follia della liquidità: prima la globalizzazione è stata spinta con i liquidi e la finanza, adesso la salvezza dovrebbe venire dai liquidi nella forma dei debiti. In questo momento drammatico la liquidità è fondamentale, ma prima o poi arriverà un tempo nel quale bisognerà fare i conti con la realtà. Per lo meno i falsari di Totò, con il torchio, la carta e l'inchiostro, avevano ancora qualche rapporto con il Pil. In prospettiva, superata questa fase drammatica, bisognerà tornare a fare i conti con il Pil per evitare l'esplosione finale di una Chernobyl finanziaria."
È possibile che in questa crisi si stia "nascondendo" anche quella delle banche tedesche e francesi?
"È più o meno così. L'impressione è quella di assistere alla seconda visione dello stesso film. Com'è che, dopo l'infelice frase sugli spread, di colpo la presidente della Bce convoca la riunione nella quale lancia un nuovo programma di acquisto titoli? Si dice che sia stata raggiunta da una telefonata da Parigi data dalla crisi potenziale del rischio che stava schiantando una banca francese."
Che mondo ci attende dopo la pandemia?
"Quello che c'è stato finora è stato global order. Ora il rischio è l'evoluzione in un global disorder e il passaggio dalla pace mercantile a segmentazioni crescenti del mercato (ancora più dazi, di nuovo svalutazioni ecc...). Passando poi dallo scenario generale al particolare interno alle nostre società, la prospettiva a cui si dovrebbe poter guardare non è solo quella delle macerie della globalizzazione ma quella della ricostruzione. Un mondo che dovrebbe tornare ad essere quello che è stato possibile ancora negli anni Ottanta e Novanta, diverso da quello che si è rivelato prima illusorio e poi impossibile con gli ultimi anni, gli anni della estrema globalizzazione. Dopo l'ideologia del divino mercato, il ritorno dello Stato. Nello Stato e per lo Stato serve la politica. Una politica fatta con modiche quantità di tecnica - brrr - e con nulle quantità di comica. Nell'antica Roma era fatto divieto agli attori e ai comici di fare politica. Dall'altra parte ci deve essere un mercato che faccia il mercato, non paralizzato da una infinita quantità di regole. Nel 2010-2011, compreso che il nodo di Gordio fatto da infinite leggi non poteva essere sciolto ma solo tagliato, fu portata in parlamento questa riforma: 'Tutto è libero tranne ciò che è vietato dalla legge penale'. Non solo. Tra Stato e mercato servono i valori morali e sociali, non solo i liquidi ma anche i solidi, non solo i desideri ma anche le virtù, non solo i consumi ma anche il risparmio quando questo sarà di nuovo possibile. E ancora: le famiglie, le tradizioni e le comunità del territorio. Patria è la terra dove riposano le ossa dei padri. Nel 2005 ho scritto l'articolo sul 5X1000 per il volontariato e per la ricerca. Non sono più in parlamento, se ci fossi la prima cosa che farei sarebbe passare da quel 5 a un 10X1000."
Lettera di Giulio Tremonti al ''Corriere della Sera'' il 31 marzo 2020. Caro direttore, dall’Italia, la mia patria, ho ricevuto molto. Anche per questo sento oggi il dovere di sdebitarmi. Qui lo faccio sulla base di quanto ho imparato in tanti anni. Scrivo quanto segue nella speranza che sia possibile evitare all’Italia una gravissima crisi, prima finanziaria, poi economica, infine sociale e politica. A tratti nella nostra storia, da Quintino Sella («è a rischio la appena raggiunta nostra unità nazionale»), a Francesco Saverio Nitti («duro è dipendere dall’oro alieno»), ci si presenta il dramma del debito pubblico. Oggi di nuovo, e ancora con drammatica insistenza, la storia sta bussando alla nostra porta. Se è vero che nel tempo presente e futuro i debiti pubblici devono salire in tutto il mondo e senza limiti (Draghi), è però anche vero che, a fronte di questo processo incrementale, limiti possono pur sempre esserci e drammatici per l’Italia. L’Italia, un Paese che ha già un enorme e crescente debito pubblico, che ha un prodotto interno lordo non solo stagnante ma da qui in avanti drammaticamente calante. Non si tratta di limiti imposti dalle regole contabili europee, queste ormai sospese, ma di limiti imposti dal mercato finanziario internazionale, su cui sarà necessario percorrere un sentiero sempre più stretto, più buio, più pericoloso, disseminato da aste-trappola, dallo spettro del default, da Troike e altri orrori. Questi già apparsi in Grecia, in Italia e altrove. All’opposto, considerando che abbiamo uno dei più grandi giacimenti di risparmio del mondo per una grande parte direttamente o indirettamente investito in titoli nel nostro debito pubblico, si può e con ragione pensare che sia possibile salvarci da soli, ragionando come segue:
a) è da escludere in radice l’introduzione di una imposta patrimoniale che, per effetto del suo prelievo, dirottando verso lo Stato capitali attualmente depositati o investiti in banche e assicurazioni, le farebbe fallire, così creando un disastro ancora peggiore di quello che si vorrebbe evitare;
b) nel tempo presente e in questo momento il tempo è strategico: oggi non si può immaginare una via di fuga, con il passaggio dall’Euro alla Lira (o ad altra moneta). Prima di questo passaggio, per come va l’Europa ormai un passaggio che non si può più escludere in assoluto, si dovrebbe comunque rispondere a questa semplice domanda: dato il carattere fiduciario della moneta, chi la accetta? Chi firma le nuove banconote, così simbolizzando con la sua firma la sottostante unità nazionale?
c) l’Italia è un Paese che certo importa debito (più o meno il 30% del nostro debito pubblico è infatti in mani estere), ma è anche un Paese che ha esportato ed esporta, e su vasta scala, capitali. Questo hanno fatto e fanno, investendo sull’estero, le nostre famiglie, i nostri fondi, etc.
Ciò premesso è necessario che qualcuno vada in Parlamento o sui media, e qui presenti e con un certo grado di necessaria fiduciaria autorevolezza, un piano strutturato come segue:
a) in alternativa rispetto all’imposta patrimoniale, rispetto alla Troika, rispetto alle perdite in linea capitale che ovunque e comunque sarebbero generate da una crisi così determinata, si lancia un «piano di difesa e ricostruzione nazionale». Un piano che nel suo senso civile e politico non sarebbe poi troppo diverso da quello lanciato nel 1948 con grande successo, sottoscritto dal Guardasigilli Togliatti che lo accompagnò con questa frase: «Il prestito darà lavoro agli operai. Gli operai ricostruiranno l’Italia». La realtà è oggi certo molto diversa da allora, ma lo spirito può e deve essere lo stesso. Un piano basato sull’emissione di titoli pubblici a lunghissima scadenza, con rendimenti moderati, ma sicuri e fissi, garantito dal sottostante patrimonio della Repubblica (per cui si può e si deve introdurre un regime speciale, anche urbanistico), titoli assistiti, come in un tempo che è stato felice, da questa formula: «esenti da ogni imposta presente e futura». Questa è l’idea di base. Se viene accettata, accettata in generale e a partire dagli italiani, tempi, tassi e tecniche del prestito certamente possono essere discussi in dettaglio, variati, implementati coinvolgendo le nostre banche, i nostri fondi. Per inciso, può e deve essere applicata in Italia la tecnica, ortodossa per definizione, che applicata in Germania per l’emissione dei titoli pubblici in questo modo superando il cosiddetto «divorzio Tesoro-Banca d’Italia», introdotto nel 1981 e ormai superato dalla storia. Così canalizzato sull’interno e messo in sicurezza il nostro risparmio, bloccata o ridotta la fuga dei capitali verso l’estero, favorito all’opposto il loro rimpatrio, non è certo da escludere — anzi è da introdurre — un regime di speciale favore per i titoli italiani sottoscritti dall’estero;
b) se funziona, questo piano può essere la base non solo per evitare il peggio, ma anche per andare verso il meglio, per entrare nell’epoca nuova, incerta, ma non necessariamente negativa che ci si apre. Perché questo sia serve uno Stato che fa seriamente lo Stato; serve un settore privato che funzioni una volta che gli è garantito il massimo possibile grado di libertà: tutto è libero tranne ciò che è vietato dalla legge penale e non come oggi dove tutto è vietato per principio salve alcune graziose concessioni. È in questi termini che si può infine canalizzare la raccolta di capitali fatti con il debito pubblico verso i necessari nuovi investimenti pubblici;
c) tutto quanto sopra è certo discutibile e perfezionabile, è solo un tentativo. È in ogni caso e comunque essenziale che tutti insieme e ora più che mai si abbia una proiezione patriottica, comunitaria e sociale, il sentimento di essere parte di una stessa patria perché, ancora una volta nella nostra storia è arrivato il momento dell’«unum necessarium».
Siamo in guerra, per uscire dalla crisi bisogna riscoprire l’odiato Keynes. Fausto Bertinotti de Il Riformista il 28 Marzo 2020. Nei tempi della guerra fredda, e di molto altro ancora, Giovannino Guareschi irrideva i suoi comunisti immaginari con il celebre “Contrordine compagni”, a cui prontamente quelli dovevano aderire. Nei tempi del coronavirus stiamo assistendo a un clamoroso contrordine impartito ai governanti che altrettanto prontamente aderiscono. Ma chi impartisce l’ordine? Niente di personale. Lo fa una entità tanto impersonale quanto concreta che sta sopra persino ai proclamati, o silenziosamente messi in atto, stati di necessità. L’unica entità che lo può fare un tempo si chiamava semplicemente: il sistema. Ancora una volta bisogna riconoscere allo stesso sistema capitalistico generatore di crisi una grande capacità di reazione alla stessa, una grande capacità di mobilità, di dinamicità. Oggi quest’ultimo capitalismo conosciuto, il capitalismo finanziario globale, lo sta manifestando rispetto alla crisi generata da un potente e improvviso fattore esogeno: il coronavirus. Ovviamente non è la pandemia ad indurlo alla drastica correzione di rotta, bensì le sue pesanti e ancora non del tutto prevedibili conseguenze sull’economia mondiale e su quelle delle sue diverse aree politiche. La tenaglia che, prodotta dall’emergenza sanitaria, sta stringendosi sull’economia è stritolante. Da un lato, c’è la crisi della domanda causata dalla caduta generalizzata dei consumi, dall’altro lato c’è la strisciante crisi dell’offerta per un rallentamento fino al fermo di molte attività produttive, da noi guadagnato da un risorto protagonismo dei lavoratori che la lotta per la difesa della loro salute ha fatto uscire dall’invisibilità a cui erano condannati. Basti pensare che il nostro Paese è la seconda potenza manifatturiera d’Europa e contemporaneamente ha vissuto un’importante terziarizzazione con al centro il peso crescente del turismo per rendersi conto di quale sarà la forza distruttiva di quella tenaglia. La tenaglia, del resto, è del tutto europea e diffusamente mondiale. Anche la crescita del Pil e dell’occupazione negli Usa, che erano il ferro di lancia di Trump, si spezzano improvvisamente e duramente. Un tempo si diceva che quando gli Usa hanno il raffreddore, l’Europa prende la polmonite. Non credo sia più così. Il welfare europeo, pure così malridotto dalle politiche di austerity, può ora fare la differenza. Le previsioni sono impressionanti. Lo scenario che Goldman Sachs prevede per gli Usa è un calo del 24 per cento del Pil da aprile a giugno e solo in un pugno di giorni ci sarebbero 2 milioni di disoccupati in più. Secondo il suo segretario al Tesoro, il tasso di disoccupazione balzerebbe negli Usa dall’attuale 3,5% al 20%. Dunque, c’era poco da aspettare, ma la reazione non si è fatta attendere ed è stata drastica. La più immediata delle misure americane è lo stanziamento di assegni del tesoro per la maggioranza della popolazione di 2400 dollari a coppia più 500 per ogni figlio a carico. Qualcosa, come si vede, si muove. Ora la manovra che gli Usa si apprestano a varare è di duemila miliardi di spesa pubblica, quasi il 10 per cento del Pil americano. Dunque, parecchio più di qualcosa. In Europa l’ortodossia delle sue politiche economiche è messa di fatto radicalmente in discussione; saltano vincoli che si davano come invalicabili, si manifestano svolte improvvise, altrimenti inimmaginabili, in capi di governo e di istituzioni economiche decisive. Macron nel suo discorso alla nazione dice che il paese è in guerra e in guerra si dà un solo nemico, e annuncia il ritiro delle sue riforme presentate in parlamento, a partire – dice proprio così: a partire – da quella sulle pensioni. Quella che aveva socialmente incendiato la Francia, dai gilet jaunes alla serie di scioperi generali, ora d’improvviso non c’è più. Quasi incredibile. Christine Lagarde prima prova a tener botta alla testa della Bce dicendo che non è nei suoi compiti presidiare gli spread, poi cambia rotta e mette a disposizione 750 miliardi per comperare titoli di stato sui mercati finanziari, ma anche titoli privati e perfino cambiali di aziende in difficoltà. Contemporaneamente annuncia che la Banca centrale si dispone a acquistare sui mercati secondari in termini potenzialmente illimitati. Il quantitative easing viene tarato sulle risposte da dare alla gravità della crisi. Parallelamente si fa sentire la Commissione europea guidata dalla Von der Leyen. Chi l’aveva vista prima? Per un quarto di secolo la Commissione è stata il gendarme dell’Europa di Maastricht, quella reale fondata su un dogma così indiscutibile da affossare interi paesi e da risultare del tutto impermeabile anche al drammatico aggravarsi della crisi sociale in Europa e al generarsi di grandi differenze tra le condizioni di diversi paesi, in particolare tra quelli dell’area tedesca e i paesi mediterranei; differenze tanto profonde tanto da destabilizzare la stessa costruzione europea. La Von der Leyen annuncia l’adozione della escape clause che disattiva il patto di stabilità. L’Europa reale si è allontanata dai suoi popoli per molte ragioni: ragioni politiche, culturali, ragioni di mancata condivisione di istanze fondamentali di uguaglianza e di solidarietà. Ma il suo presidio, la sua torre, è stata l’affermazione del dogma contro le ragioni sociali ed ecologiche, l’affermazione dell’assoluta centralità del debito.
Oltre alla drammatica vicenda greca, tutti i paesi ne sono stati vittime. Ricordiamo bene ad ogni legge di bilancio la surreale discussione, il surreale dibattito politico su qualche punto di decimale del livello di debito accettabile da cui sembrava dover dipendere l’intero rapporto tra il Paese e l’Europa. Deficit e debito sono state le forche caudine che hanno permesso le sciagurate politiche di austerity, comprese quelle dei tagli alla sanità e alla scuola che oggi paghiamo così duramente. Nel dibattito accademico, nel dibattito sulle politiche economiche non si contavano più le voci critiche anche di tanti Nobel dell’economia, e ancora di più nello sviluppo della crisi. Niente di niente. Il dogma resisteva puntellato dalle pratiche dei governi dei paesi europei e della sua Commissione. Sembrava, il dogma, suscettibile solo di qualche timida correzione per evitare il peggio. Ora, d’un colpo, l’intera costruzione viene giù. Il sistema – non il conflitto sociale, non i suoi critici – il sistema deve cambiare rotta subito e profondamente. La recessione che si annuncia può essere devastante non solo per i popoli, cosa per il sistema al fine non rilevante, ma per la stessa accumulazione capitalistica. Allora si cambia. Il deficit spending, che era stato sepolto con il keynesismo da una damnatio memoriae prodotta da tutti i vari liberismi – neo e ordo e altro ancora- viene ripescato almeno in alcuni suoi elementi di peso. Non so se si può parlare di un keynesismo di guerra. Certo che quel che ieri era negato oggi viene affermato come una necessità urgente e vitale. La spesa pubblica viene chiamata alle armi, secondo il lessico adottato dai governanti impegnati a cambiare la loro divisa, e con essa viene riscoperto l’ancora più dannato intervento pubblico nell’economia. Vuoi vedere che tra un po’ arriviamo alla programmazione? Ricordate le discussioni sul reddito di cittadinanza e sul suo costo? Ora è da dentro il sistema che viene proposto di ricorrere all’helicopter money, cioè si propone disinvoltamente di dotare di una somma di denaro tutti i cittadini. Le compatibilità se non vengono abrogate, vengono almeno sospese. Tutto bene allora? Non proprio, non basta infatti staccarsi dal passato e avviare la possibilità di fare debito. Bisogna poter immettere nel mercato e nelle strutture produttive risorse reali, ci vuole un piano di investimenti pubblici e deve essere un piano di investimenti a dimensione europea. Qui si incontra il primo banco di prova della profondità della rottura di questi giorni oppure della sua superficialità. Si parla del Mes, il fondo salva-Stati, ma è un cavallo ruffiano. La partita infatti si gioca sulla messa in campo o no degli eurobond, sulla scelta cioè di mettere in comune da parte dei paesi dell’eurozona una componente significativa dei loro bilanci, realizzando un bilancio comune per la rinascita. Gli eurobond sono una via senza alternativa per un intervento di sistema sulla crisi indotta dal coronavirus. Qui c’è un primo bivio, la verifica qui si fa stringente, è un vero e proprio aut-aut. Ma anche nella dimensione più strategica, quella che riguarda il futuro e il modello di società verso cui vogliamo andare, l’interrogativo è del tutto aperto pure dentro l’attuale crisi. Quel che è cominciato con la rottura del dogma della parità di bilancio e del suo armamentario (fiscal compact etc.) può essere l’avvio di un ripensamento oppure può essere l’approdo a una sorta di gattopardismo economico: cambiare qualcosa perché tutto resti come prima. Quelle di oggi sono scelte importanti da non sottovalutare, ma esse possono, e allo stato è la cosa più probabile, essere ricondotte dentro un’ipotesi di ristrutturazione di questo stesso assetto dell’economia; possono essere cioè delle scelte capaci di tenere lontano ancora ogni ipotesi di cambiamento reale che investa, come dovrebbe, l’intero modello sociale, i rapporti sociali, il rapporto tra l’uomo e la natura, la vita della persona e l’organizzazione della comunità. Il virus, oltre a essere un dramma umano e sociale, funziona come una lente di ingrandimento dei problemi drammaticamente irrisolti della nostra società. La risposta dovrebbe condurre a questo ordine di questioni, cioè alla ricerca di un’alternativa di società. Ma dove sono le forze per provarci?
· Un Presidente umano.
Mattarella: «Evitiamo il contagio del virus, accettiamo il contagio della solidarietà». Il Dubbio l'11 aprile 2020. Gli auguri del Capo dello Stato: «Sarà una Pasqua di solitudine anche per me, ma non possiamo fermarci adesso». Di seguito il messaggio di auguri del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella per la Pasqua: "Ci apprestiamo a vivere, domani, il giorno di Pasqua. È la ricorrenza di maggior significato per la Cristianità e una festa tradizionale importante per tutti. Quest’anno la vivremo in condizioni molto diverse dal consueto. Penseremo ai numerosi nostri concittadini morti per l’epidemia. Tante storie spezzate, affetti strappati, spesso all’improvviso. Per i loro familiari e per le comunità di cui erano parte il vuoto che essi hanno lasciato renderà questa giornata particolarmente triste. Questo giorno sarà vissuto diversamente anche dai tanti malati e dai molti medici e infermieri cui si affidano; e che si adoperano per la loro guarigione con generosità, mettendo a rischio se stessi. Sarà diverso per tutti. In molte lettere che ho ricevuto vengono narrate le storie di forzata solitudine che tanti stanno vivendo anche in questi giorni abitualmente di festa condivisa. Comprendo bene il senso di privazione che questo produce. So che molti italiani trascorreranno il giorno di Pasqua in solitudine. Sarà così anche per me. Ma in questi giorni intravediamo, tuttavia, anche la concreta possibilità di superare questa emergenza. I sacrifici che stiamo facendo da oltre un mese stanno producendo i risultati sperati e non possiamo fermarci proprio adesso. Vorrei dire: evitiamo il contagio del virus e accettiamo piuttosto il contagio della solidarietà tra di noi. Non appena possibile, sulla base di valutazioni scientifiche e secondo le indicazioni che verranno stabilite, si potrà avviare una graduale, progressiva ripresa, con l’obiettivo finale di una ritrovata normalità. Fino a quel momento è indispensabile mantenere con rigore il rispetto delle misure di comportamento: stiamo per vincere la lotta contro il virus o, quanto meno, quella per ridurne al massimo la pericolosità. In attesa di farmaci specifici e di un vaccino che lo sconfigga del tutto. Coltiviamo speranza e fiducia. Nella condivisione che tutti avvertiamo, in questo periodo, per la nostra sorte comune, desidero esprimere a tutti voi la mia più grande vicinanza. Con l’augurio di una Pasqua serena.
DAGONOTA il 27 marzo 2020. Chiaramente la Rai ha bucato il discorso del Capo dello Stato. In diretta su La7, mentre RaiUno mandava in "L'Eredità" in replica...
(ANSA il 27 marzo 2020) - "Per un errore di trasmissione l'ufficio stampa del Quirinale ha inviato ai media un file sbagliato contenente alcuni fuori onda del Presidente Mattarella. Ce ne scusiamo con gli operatori dei media e i telespettatori".
Il video “sbagliato” di Mattarella ci restituisce un Presidente umano. Davide Nunziante de Il Riformista il 27 Marzo 2020. E’ diventato immediatamente virale il video del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella in cui sbaglia l’attacco e chiede di riprendere dall’inizio. Il video, degno di Blob, ad una visione attenta ci rende ancor più vicini all’inquilino del Quirinale. In tutti i messaggi, infatti, che provengono dal Colle il presidente sembra freddo e severo, un automa davanti la telecamera. Vederlo così, naturale, sbagliare come facciamo tutti ogni giorno, ce lo restituisce umano, come siamo tutti noi. Quella battuta sul barbiere e il ciuffo ribelle, poi, ci avvicina ancor di più se possibile al nostro Presidente che sta combattendo insieme a noi questa terribile “guerra”. Il video ci ha strappato un sorriso ma forse è stato molto più efficace di tantissimi messaggi perfetti. Non resta altro che mostrarvelo e far vedere un Mattarella “inedito“. Il presidente poi si blocca nuovamente e “se la prende” con Giovanni (Grasso ndr.) “colpevole” di muoversi alle spalle della telecamera e distrarre il presidente durante il discorso.
Luca Bottura per la Repubblica il 28 marzo 2020. Senza nulla togliere a Sua Santità, la cui immagine in piazza San Pietro ha un che di stoico, plastico, miracoloso, roba che nemmeno in 200 film di Sorrentino, il discorso alla nazione di Sergio Mattarella mi ha rasserenato un po' di più. Non solo per quel che ha detto all' Europa, col tono di chi può permetterselo dacché ha sempre scelto un profilo sobrio, corretto, intangibile, ma anche e forse soprattutto per il fuorionda uscito per errore sulla piattaforma del Quirinale: una piccola papera, lo stop, l' invito a sistemarsi i capelli e il Presidente che sorride: "Eh Giovanni, non vado dal barbiere neanche io". "Giovanni" è Giovanni Grasso, il portavoce del Colle, il signore che sembra Cavour e normalmente sta alle spalle dei politici consultati da Mattarella resistendo alla tentazione di bacchettarli da tergo. Nel loro scambio, nei modi urbanissimi del nostro Garante, nell' intimità professionale e composta tra chi lavora per il Paese e chi cerca di comunicarlo nel modo migliore, brilla un sottotesto: ne usciremo. E lo faremo accompagnati da quest' uomo forte e mite e dalla sua educazione. Che, forse non per caso, fa rima con Costituzione.
Sebastiano Messina per Repubblica.it il 27 marzo 2020. Se avesse voluto farci capire in un modo più efficace come lui sta vivendo questi giorni di quaresima quarantenata, Sergio Mattarella difficilmente avrebbe trovato nulla di meglio di quello che è successo per sbaglio, quando il Quirinale - per un errore tecnico mai capitato nella storia della Repubblica - ha messo in rete il suo messaggio al Paese senza ripulirlo dai "fuori onda", dalle prove e dagli inciampi. Vedere il Presidente fermarsi a metà discorso ("Oh Signore, non riesco a leggere"), sentirlo mentre quasi si scusa con l'operatore ("Mi dispiace, mai successo"), richiamare bonariamente il suo amico e portavoce ("Giovanni per piacere però scegli una posizione, perché se ti muovi io ti seguo e mi distraggo") ci ha ricordato che a molti di noi in questi giorni capita di peggio, quando dobbiamo registrare solo un videomessaggio su Whatsapp. Ma è stato nel momento in cui Mattarella ha risposto all'invito ad aggiustarsi i capelli candidi, sospirando "Eh Giovanni, non vado dal barbiere neanch'io...", che lo abbiamo sentito davvero uno di noi. Un Presidente che avverte sulle sue spalle tutto il peso di guidare un Paese attraverso la tempesta, ma che non può - come tutti noi - neanche uscire di casa per andare a farsi tagliare i capelli.
Francesco Merlo per la Repubblica il 29 marzo 2020. Mattarella spettinato ci ha ricordato che, nelle tragedie, tutto diventa più vero. Rudolph Giuliani, dopo l' 11 settembre, rinunciò al riportino nei capelli e il Washington Post salutò il suo ritorno all' autenticità (politica). Conte non sta indossando la pochette che lo impegnava in una lunga operazione quotidiana. Forse anche lui si sta liberando di belletti e demagogia a favore di un' autenticità che era rimasta ben nascosta .
Alessandra Paolini per la Repubblica il 29 marzo 2020. Un siparietto. Un siparietto a due voci, ma con in campo solo il presidente della Repubblica, che si giustifica per le ripetizioni e soprattutto per un ciuffo ribelle: «Eh Giovanni! Nemmeno io vado dal barbiere». Un fuori onda a latere del secondo messaggio di Sergio Mattarella agli italiani che in altri tempi avrebbe fatto aggrottare molti sopraccigli, anche se ha comprensibilmente inorgoglito Franco Alfonso, il figaro palermitano che da vent' anni gli taglia i capelli: «E purtroppo l' ultima volta che ha potuto fare un salto a Palermo è stato a fine febbraio». Con la sua confessione in tempi di coronavirus, Mattarella ha però lasciato scoprire alla gente un presidente inedito, informale, persino autoironico. E fatto improvvisamente del suo portavoce Giovanni Grasso, 57 anni, un protagonista assoluto dei social. Al punto che in molti hanno pensato l' avesse fatto apposta: «Macché - smentisce lui - è stato un errore banale». Grasso è cresciuto a Roma e la sua scuola fu il San Leone Magno, uno dei grandi istituti cattolici della capitale, di cui vent' anni prima - pura coincidenza - furono allievi i fratelli Mattarella: il diciottenne Giovanni era in classe, quando seppe che Piersanti Mattarella, presidente della Regione Sicilia, era stato assassinato da Cosa Nostra. Cattolico praticante, Grasso comincia a "La Discussione", poi passa all' Agi e infine approda ad "Avvenire". Ed è lì, da cronista politico, che conosce l' attuale capo dello Stato: «Lo intervistai e diventammo amici, ovviamente tenendo conto della differenza di status e di età. Ma a lui faceva piacere confrontarsi con i giovani. Gli chiesi, nel 1993, di essere mio testimone di nozze. Prima dell' avventura al Quirinale, ci eravamo sentiti e visti spesso, per scrivere la biografia di Piersanti ». Molti italiani si sono abituati a vedere Grasso alle spalle dei leader chiamati e richiamati per le consultazioni al Quirinale. Fino a questi giorni drammatici: «Al Quirinale - racconta - le precauzioni sono ovviamente molto rigide. Con il Presidente si comunica prevalentemente per telefono e per mail. Per registrare il video chi è entrato nel suo studio - due operatori militari e io - ha dovuto indossare più volte mascherina e guanti. Dopo la registrazione il video è stato tagliato e montato. Poi al momento di inviarlo, ne è stato inviato un altro, quello senza tagli. Ero agitatissimo, ma da subito la reazione della gente e dei media è stata di grande simpatia. Ho scritto un tweet di scuse che ha raccolto 27 mila like e quasi 5000 retweet. Qualcuno ha scritto: Ma che scuse e scuse! È meglio di Netflix ». Qualcuno si è lamentato per l' uso del "gobbo". Grasso confida: «In realtà Mattarella lo impiega essenzialmente come canovaccio per tenere conto dei tempi televisivi. Un po' legge, un po' va a braccio». Come ha preso l' incidente? «Sportivamente, ha riso», racconta sollevato il portavoce. «E stamattina era quasi incredulo, vedendo tutti quei like».
Parla Giovanni, il protagonista del fuori onda di Mattarella: “Vi racconto la reazione del presidente”. Redazione de Il Riformista il 29 Marzo 2020. Il portavoce del Presidente della Repubblica, Giovanni Grasso,legge il comunicato della convocazione al Quirinale del Prof. Giuseppe Conte. Nessuna strategia comunicativa ma un errore umano. A spiegare il retroscena del fuori onda del Quirinale trasmesso per errore è proprio “Giovanni“, quel Giovanni Grasso, consigliere per la comunicazione del presidente della Repubblica, a cui si rivolge il Presidente Mattarella durante il video diventato virale. Un imprevisto dovuto proprio all’emergenza sanitaria, cui cui anche al Quirinale si fanno i conti. “Premetto che abbiamo registrato in condizioni di emergenza – spiega in un’intervista ad Avvenire – con personale ridotto all’osso. E in una condizione emotiva particolare da parte di tutti. Dopo, per un errore materiale è stato inviato ai media non quello lavorato e tagliato, ma quello grezzo, con i fuori onda. Un errore banale, di quelli che capitano a tutti quando si traffica con gli allegati della posta elettronica”. L’errore però non sembra aver avuto conseguenze tra lo staff comunicativo del Capo dello Stato. Il presidente, racconta Grasso, ci ha riso e uno sbaglio si concede a tutti: “Sbagliare è umano. Non mi interessa trovare chi è stato, ma capire perché è successo, in modo che non accada più”. Eppure sui social il video è diventato virale, generando un moto d’affetto spontaneo nei confronti del Capo della Repubblica. “All’inizio ha sorpreso anche me – spiega il giornalista – Poi ci ho riflettuto: in questo periodo così difficile, forse i cittadini hanno un particolare bisogno di autenticità, di dare ai leader politici e istituzionali una dimensione in più, quella dell’umanità. «Mattarella uno di noi», è stato lo slogan più gettonato. E che, forse, spiega tutto”. E, come uno di noi, il Presidente affronta la quarantena. “Nessuna uscita dal Palazzo – racconta Grasso – molto lavoro, ma al telefono e al computer, incontri di lavoro ridotti al minimo indispensabile e con tutte le debite precauzioni”. Anche per i familiari il Quirinale è off limits: “Li sente, ma non li può incontrare. Figli e nipoti restano a casa. Le regole valgono per tutti”.
Da corriere.it il 27 marzo 2020. Il capo dello Stato, Sergio Mattarella, ha rivolto un messaggio agli italiani, di fronte all’epidemia di coronavirus (che, al 27 marzo, ha contagiato oltre 86 mila persone in Italia, uccidendone 9.134) e dopo l’esito deludente del vertice europeo di giovedì. «Stiamo vivendo», ha detto, «una pagina triste della nostra storia. Abbiamo visto immagini che sarà impossibile dimenticare». Poi, commentando l’esito deludente del vertice europeo dei capi di Stato e di governo di giovedì, ha rivolto un appello all’Unione europea: «L’Europa», ha detto, «capisca la gravità della minaccia, o sarà tardi». Mattarella ha anche sottolineato quanto «la Banca Centrale e la Commissione europea, nei giorni scorsi», abbiano «assunto importanti e positive decisioni finanziarie ed economiche, sostenute dal Parlamento Europeo. Non lo ha ancora fatto il Consiglio dei capi dei governi nazionali. Ci si attende che questo avvenga concretamente nei prossimi giorni». «Mentre provvediamo ad applicare, con tempestività ed efficacia, gli strumenti contro le difficoltà economiche», ha aggiunto, «dobbiamo iniziare a pensare al dopo emergenza: alle iniziative e alle modalità per rilanciare, gradualmente, la nostra vita sociale e la nostra economia. Nella ricostruzione il nostro popolo ha sempre saputo esprimere il meglio di sé». «Ho auspicato - e continuo a farlo - che le risposte» all’emergenza del coronavirus «possano essere il frutto di un impegno comune, fra tutti: soggetti politici, di maggioranza e di opposizione, soggetti sociali, governi dei territori. Unità e coesione sociale sono indispensabili in questa condizione» ha detto il presidente della Repubblica..
Questo, sotto, il testo integrale del suo messaggio. «Mi permetto nuovamente, care concittadine e cari concittadini, di rivolgermi a voi, nel corso di questa difficile emergenza, per condividere alcune riflessioni. Ne avverto il dovere. La prima si traduce in un pensiero rivolto alle persone che hanno perso la vita a causa di questa epidemia; e ai loro familiari. Il dolore del distacco è stato ingigantito dalla sofferenza di non poter essere loro vicini e dalla tristezza dell’impossibilità di celebrare, come dovuto, il commiato dalle comunità di cui erano parte. Comunità che sono duramente impoverite dalla loro scomparsa. Stiamo vivendo una pagina triste della nostra storia. Abbiamo visto immagini che sarà impossibile dimenticare. Alcuni territori – e in particolare la generazione più anziana - stanno pagando un prezzo altissimo. Ho parlato, in questi giorni, con tanti amministratori e ho rappresentato loro la vicinanza e la solidarietà di tutti gli italiani. Desidero anche esprimere rinnovata riconoscenza nei confronti di chi, per tutti noi, sta fronteggiando la malattia con instancabile abnegazione: i medici, gli infermieri, l’intero personale sanitario, cui occorre, in ogni modo, assicurare tutto il materiale necessario. Numerosi sono rimasti vittime del loro impegno generoso. Insieme a loro ringrazio i farmacisti, gli agenti delle Forze dell’ordine, nazionali e locali, coloro che mantengono in funzione le linee alimentari, i servizi e le attività essenziali, coloro che trasportano i prodotti necessari, le Forze Armate. A tutti loro va la riconoscenza della Repubblica, così come va agli scienziati, ai ricercatori che lavorano per trovare terapie e vaccini contro il virus, ai tanti volontari impegnati per alleviare le difficoltà delle persone più fragili, alla Protezione Civile che lavora senza soste e al Commissario nominato dal Governo, alle imprese che hanno riconvertito la loro produzione in beni necessari per l’emergenza, agli insegnanti che mantengono il dialogo con i loro studenti, a coloro che stanno assistendo i nostri connazionali all’estero. A quanti, in ogni modo e in ogni ruolo, sono impegnati su questo fronte giorno per giorno. La risposta così pronta e numerosa di medici disponibili a recarsi negli ospedali più sotto pressione, dopo la richiesta della Protezione Civile, è un ennesimo segno della generosa solidarietà che sta attraversando l’Italia. Vorrei inoltre ringraziare tutti voi. I sacrifici di comportamento che le misure indicate dal Governo richiedono a tutti sono accettati con grande senso civico, dimostrato in amplissima misura dalla cittadinanza. Da alcuni giorni vi sono segnali di un rallentamento nella crescita di nuovi contagi rispetto alle settimane precedenti: non è un dato che possa rallegrarci, si tratta pur sempre di tanti nuovi malati e soprattutto perché accompagnato da tanti nuovi morti. Anche quest’oggi vi è un numero dolorosamente elevato di nuovi morti. Però quel fenomeno fa pensare che le misure di comportamento adottate stanno producendo effetti positivi e, quindi, rafforza la necessità di continuare a osservarle scrupolosamente finché sarà necessario. Il senso di responsabilità dei cittadini è la risorsa più importante su cui può contare uno stato democratico in momenti come quello che stiamo vivendo. La risposta collettiva che il popolo italiano sta dando all’emergenza è oggetto di ammirazione anche all’estero, come ho potuto constatare nei tanti colloqui telefonici con Capi di Stato stranieri. Anche di questo avverto il dovere di rendervi conto: molti Capi di Stato, d’Europa e non soltanto, hanno espresso la loro vicinanza all’Italia. Da diversi dei loro Stati sono giunti sostegni concreti. Tutti mi hanno detto che i loro Paesi hanno preso decisioni seguendo le scelte fatte in Italia in questa emergenza. Nell’Unione Europea la Banca Centrale e la Commissione, nei giorni scorsi, hanno assunto importanti e positive decisioni finanziarie ed economiche, sostenute dal Parlamento Europeo. Non lo ha ancora fatto il Consiglio dei capi dei governi nazionali. Ci si attende che questo avvenga concretamente nei prossimi giorni. Sono indispensabili ulteriori iniziative comuni, superando vecchi schemi ormai fuori dalla realtà delle drammatiche condizioni in cui si trova il nostro Continente. Mi auguro che tutti comprendano appieno, prima che sia troppo tardi, la gravità della minaccia per l’Europa. La solidarietà non è soltanto richiesta dai valori dell’Unione ma è anche nel comune interesse. Nel nostro Paese, come ho ricordato, sono state prese misure rigorose ma indispensabili, con norme di legge - sia all’inizio che dopo la fase di necessario continuo aggiornamento – norme, quindi, sottoposte all’approvazione del Parlamento. Sono stati approntati - e sono in corso di esame parlamentare - provvedimenti di sostegno per i tanti settori della vita sociale ed economica colpiti. Altri ne sono preannunciati. Conosco - e comprendo bene – la profonda preoccupazione che molte persone provano per l’incertezza sul futuro del proprio lavoro. Dobbiamo compiere ogni sforzo per non lasciare indietro nessuno. Ho auspicato – e continuo a farlo – che queste risposte possano essere il frutto di un impegno comune, fra tutti: soggetti politici, di maggioranza e di opposizione, soggetti sociali, governi dei territori. Unità e coesione sociale sono indispensabili in questa condizione. Un’ultima considerazione: mentre provvediamo ad applicare, con tempestività ed efficacia, gli strumenti contro le difficoltà economiche, dobbiamo iniziare a pensare al dopo emergenza: alle iniziative e alle modalità per rilanciare, gradualmente, la nostra vita sociale e la nostra economia. Nella ricostruzione il nostro popolo ha sempre saputo esprimere il meglio di sé. Le prospettive del futuro sono - ancora una volta - alla nostra portata. Abbiamo altre volte superato periodi difficili e drammatici. Vi riusciremo certamente – insieme - anche questa volta».
Mattarella da solo all’Altare della Patria per la Liberazione: «Oggi come ieri, troveremo la forza per ripartire». Il Dubbio il 25 aprile 2020. Il messaggio del capo dello Stato: «La nostra peculiarità nel saper superare le avversità deve accompagnarci anche oggi». «Nella primavera del 1945 l’Europa vide la sconfitta del nazifascismo e dei suoi seguaci. L’idea di potenza, di superiorità di razza, di sopraffazione di un popolo contro l’altro, all’origine della seconda guerra mondiale, lasciò il posto a quella di cooperazione nella libertà e nella pace e, in coerenza con quella scelta, pochi anni dopo è nata la Comunità Europea». Inizia così il messaggio del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, in occasione del 25 Aprile. Il capo dello Stato stamattina è arrivato in piazza Venezia in mascherina per depositare una corona di fiori all’Altare della Patria. Mattarella era solo, senza alcun seguito. La scorta, ridotta al minimo, lo ha atteso ai piedi della scalinata. Non c’erano le autorità, civili e militari, né il cerimoniale: Si è quasi un omaggio in forma quasi privata. In cima alla scalinata ha trovato i corazzieri, anche loro con la protezione per il volto, che hanno portato una corona al sacello del milite ignoto, mentre un trombettiere dei carabinieri ha suonato il silenzio
«Oggi celebriamo il settantacinquesimo anniversario della Liberazione, data fondatrice della nostra esperienza democratica di cui la Repubblica è presidio con la sua Costituzione. La pandemia del virus che ha colpito i popoli del mondo ci costringe a celebrare questa giornata nelle nostre case», è il messaggio del Presidente. «Ai familiari di ciascuna delle vittime vanno i sentimenti di partecipazione al lutto da parte della nostra comunità nazionale, così come va espressa riconoscenza a tutti coloro che si trovano in prima linea per combattere il virus e a quanti permettono il funzionamento di filiere produttive e di servizi essenziali. Manifestano uno spirito che onora la Repubblica e rafforza la solidarietà della nostra convivenza, nel segno della continuità dei valori che hanno reso straordinario il nostro Paese. In questo giorno richiamiamo con determinazione questi valori. Fare memoria della Resistenza, della lotta di Liberazione, di quelle pagine decisive della nostra storia, dei coraggiosi che vi ebbero parte, resistendo all’oppressione, rischiando per la libertà di tutti, significa ribadire i valori di libertà, giustizia e coesione sociale, che ne furono alla base, sentendoci uniti intorno al Tricolore. Nasceva allora una nuova Italia e il nostro popolo, a partire da una condizione di grande sofferenza, unito intorno a valori morali e civili di portata universale, ha saputo costruire il proprio futuro. Con tenacia, con spirito di sacrificio e senso di appartenenza alla comunità nazionale, l’Italia ha superato ostacoli che sembravano insormontabili. Le energie positive che seppero sprigionarsi in quel momento portarono alla rinascita. Il popolo italiano riprese in mano il proprio destino». «La ricostruzione cambiò il volto del nostro Paese e lo rese moderno, più giusto, conquistando rispetto e considerazione nel contesto internazionale, dotandosi di antidoti contro il rigenerarsi di quei germi di odio e follia che avevano nutrito la scellerata avventura nazifascista. Nella nostra democrazia la dialettica e il contrasto delle opinioni non hanno mai, nei decenni, incrinato l’esigenza di unità del popolo italiano, divenuta essa stessa prerogativa della nostra identità. E dunque avvertiamo la consapevolezza di un comune destino come una riserva etica, di straordinario valore civile e istituzionale. L’abbiamo vista manifestarsi, nel sentirsi responsabili verso la propria comunità, ogni volta che eventi dolorosi hanno messo alla prova la capacità e la volontà di ripresa dei nostri territori. Cari concittadini, la nostra peculiarità nel saper superare le avversità deve accompagnarci anche oggi, nella dura prova di una malattia che ha spezzato tante vite. Per dedicarci al recupero di una piena sicurezza per la salute e a una azione di rilancio e di rinnovata capacità di progettazione economica e sociale. A questa impresa siamo chiamati tutti, istituzioni e cittadini, forze politiche, forze sociali ed economiche, professionisti, intellettuali, operatori di ogni settore. Insieme possiamo farcela e lo stiamo dimostrando. Viva l’Italia! Viva la Liberazione! Viva la Repubblica!»
· Le misure di sostegno.
Coronavirus, approvato il decreto da 25 miliardi. Tre e mezzo per la sanità e dieci per il lavoro. Il capitolo del lavoro prevede cassa integrazione, congedi parentali e voucher baby-sitter da 600 euro. Gualtieri garantisce la copertura "di tutti i lavoratori autonomi, stagionali e di altre forme con un assegno di 600 euro" per marzo: tre miliardi per gli autonomi. Bonus da 100 euro per i dipendenti che non lavorano smart. In arrivo ad aprile un secondo decreto "con fondi Ue". Raffaele Ricciardi il 16 Marzo 2020 su La Repubblica. Dopo una riunione di poco più di due ore, e nel mezzo di una ennesima giornata di crisi per i mercati finanziari, il Consiglio dei ministri ha approvato il decreto "Cura Italia" che contiene le misure economiche per rispondere all'emergenza sanitaria del coronavirus. Il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, ha parlato in conferenza dopo il Cdm esprimendo innanzitutto vicinanza agli italiani "che stanno facendo enormi sacrifici per il bene comune". "Le misure di sostegno e spinta sono concreta dimostrazione della presenza dello Stato" nell'emergenza coronavirus, ha rivendicato Conte: "Possiamo parlare di 'modello italiano' non solo sanitario, ma anche come strategia economica di risposta alla crisi. Mettiamo in campo 25 miliardi di denaro fresco e attiviamo flussi per 350 miliardi: è una manovra economica poderosa", ha detto il presidente del Consiglio. Come già spiegato dal sottosegretario all'Economia Misiani, Conte ha anticipato che in futuro ci saranno nuove misure ("un piano di ingenti investimenti, semplificazione, riduzione delle tasse") per rilanciare il Paese: arriverà un decreto ad aprile, che - nell'auspicio del governo - dovrebbe contare anche sulle risorse che l'Europa si prepara a stanziare. A prendere la parola, alternandosi al microfono con Conte per il "rispetto delle distanze", è stato quindi il ministro dell'Economia, Roberto Gualtieri, che ha chiarito come il governo abbia usato subito tutte le risorse aggiuntive messe a disposizione per contrastare il COVID-19.
Il primo ambito di intervento: 3,5 miliardi per l'emergenza sanitaria. Stando alle indicazioni date in conferenza stampa dai ministri, sono confermati i principali provvedimenti che si prospettavano alla vigilia. Gualtieri ha indicato cinque assi di intervento e ha messo al primo posto il "finanziamento aggiuntivo molto significativo per il Sistema sanitario nazionale e la Protezione civile, che vale quasi 3,5 miliardi". Nella nota che ha seguito il Cdm, il governo dettaglia meglio gli interventi sanitari, a cominciare dall'assunzione di 20 mila persone con relative coperture. Il Fondo emergenze nazionali sale di 1,65 miliardi, vengono stanziati 150 milioni per gli straordinari del personale sanitario e altri 340 milioni per l'aumento dei posti letto in terapia intensiva. Ci sono 50 milioni per finanziamenti agevolati o contributi alle imprese che producono mascherine e affini (gestiti da Invitalia) e - tra le altre cose - la possibilità di requisire beni mobili o alberghi per fronteggiare l'emergenza con una dotazione di 150 milioni.
Lavoro, cassa in deroga anche per le aziende con un dipendente. Il secondo capitolo, "che vale più di 10 miliardi", riguarda il sostegno all'occupazione, la difesa del lavoro e del reddito "affinché nessuno perda il posto di lavoro a causa del coronavirus". La ministra del Lavoro, Nunzia Catalfo, ha dettagliato che sono previste risorse per 1,3 miliardi per il Fondo di integrazione salariale e 3,3 miliardi per la cassa integrazione in deroga che andrà a coprire anche le aziende "con un solo dipendente". Il governo ha poi precisato che la cig dura al massimo 9 settimane. Gualtieri ha confermato la copertura "di tutti i lavoratori autonomi, stagionali e di altre forme con un assegno di 600 euro per il mese di marzo". Si tratta di un indennizzo "per una platea di quasi 5 milioni di persone", ha dettagliato la nota di Palazzo Chigi. Per gli autonomi e i liberi professionisti, ha aggiunto Catalfo, "questo primo decreto stanzia circa 3 miliardi a tutela del periodo di inattività". In aggiunta è confermato il Fondo per il reddito di ultima istanza che copre tutti gli esclusi dall'indennizzo di 600 euro, "compresi i professionisti iscritti agli ordini": 300 milioni di dotazione. E' anche prevista la sospensione dei contributi previdenziali, per queste categorie. nuovo Gualtieri ha indicato un ulteriore "taglio al cuneo fiscale" per i lavoratori dipendenti: si parla di un premio da 100 euro per coloro che sono sul posto di lavoro a marzo, fino a 40 mila euro di reddito. Sempre nel capitolo del lavoro è prevista l'estensione del congedo parentale a 15 giorni (con retribuzione al 50%) e un voucher baby-sitter da 600 euro (1,6 miliardi stanziati con un bonus ulteriore "speciale" per il personale sanitario e le Forze dell'ordine: in questo caso vale mille euro) per chi ha bisogno di curare i figli fino a 12 anni. Per quel che riguarda i permessi della legge 104, per il periodo marzo-aprile saranno estesi di 12 giorni (500 milioni stanziati). Confermato rispetto alle attese l'ulteriore intervento sui licenziamenti, che verranno congelati: misura che riguarda le procedure dal 23 febbraio in avanti, da quando cioè è scoppiata l'emergenza sanitaria. Per i lavoratori in quarantena, si conferma il computo del periodo di astensione dal lavoro come malattia.
Liquidità a imprese e famiglie. Mutui, scattano le garanzie pubbliche. Il terzo capitolo citato da Gualtieri riguarda il sistema del credito e l'agevolazione dell'erogazione di liquidità: arriva l'attesa sospensione delle rate di mutui e dei prestiti, con garanzie pubbliche (capitolo da 5 miliardi, secondo le anticipazioni). Il titolare delle Finanze ha indicato l'intervento statale "sia con il potenziamento del Fondo di garanzia, sia con il meccanismo del Fondo Gasparrini per la sospensione delle rate dei mutui dei lavoratori autonomi, o di chi ha perso il lavoro, sia con una garanzia pubblica che può consentire al sistema bancario di sospendere le rate dei prestiti o di estendere i finanziamenti".
Fisco: slittano obblighi e versamenti. In campo fiscale, si conferma il rinvio degli obblighi fiscali e la sospensione dei versamenti delle ritenute, dei contributi previdenziali assistenziali e dei premi per l'assicurazione obbligatoria: il ministro dell'Economia ha parlato di un differimento al 31 maggio "per le imprese che fatturano fino a 2 milioni" e anche oltre questo limite per le categorie colpite direttamente dalla crisi (turismo, trasporti, ristorazione, cinema e teatri, sport, istruzione, fiere ed eventi). Anche il versamento Iva di marzo è differito. Nelle presentazioni del testo circolate in giornata si parlava della possibilità di versare poi tutto in unica soluzione o mediante cinque rate mensili. Tra le more, un bonus da 100 euro esentasse per i lavoratori dipendenti - a valere sul mese di marzo - con reddito annuo inferiore a 40 mila euro, che svolgano la propria prestazione sul luogo di lavoro (non in smart working). Arriva poi un credito d'imposta al 60% dell'affitto di marzo per botteghe e negozi e la deducibilità estesa per le donazioni effettuate dalle imprese per l'emergenza, mentre quelle delle persone fisiche godono di detraibilità fino a 30 mila euro. Infine, nel quinto capitolo Gualtieri anticipa misure per le categorie colpite direttamente dalla crisi: tra i settori economici citati, il trasporto merci. Sempre a livello di documenti anticipatori il Cdm, è circolato un provvedimento che prevede un credito d'imposta pari al 60% dell'affitto del mese di marzo per botteghe e negozi. Tra le altre misure, 85 milioni alle scuole per le dotazioni tecnologiche a supporto delle lezioni a distanza.
Anche Alitalia nel testo. In arrivo un secondo decreto ad aprile "con fondi Ue". Dalle agevolazioni sui mutui alla cassa integrazione in deroga, erano molti gli interventi che erano già stati anticipati nei giorni di attesa del Consiglio dei Ministri. Non sono mancate, nelle ultime ore, tensioni sul provvedimento con le diverse anime della maggioranza che hanno cercato di alimentare le risorse a favore di autonomi o partite Iva. Anche il nuovo salvataggio di Alitalia (valore: 600 milioni), incluso nel testo come confermato da Catalfo in conferenza stampa, sarebbe stato oggetto - secondo le ricostruzioni filtrate alle agenzie - di forte scontro. Provvedimento che per altro genera la critica dell'Associazione del trasporto pubblico locale che, per voce del presidente Andrea Gibelli, chiede misure ad hoc altrettanto efficaci. Il decreto dà concretezza allo stanziamento di 25 miliardi che il governo aveva deciso nei giorni scorsi, ottenendo dal Parlamento il via libera ad ampliare il deficit previsto per il 2020. Inizialmente si ipotizzava di utilizzare in due riprese quelle risorse, poi - come ha spiegato Gualtieri - il governo ha optato per mettere sul piatto tutto e subito, con l'estendersi della crisi e dei suoi contraccolpi economici, dei quali è ancora impossibile avere un quadro completo. Dal resoconto dopo il Cdm, è emersa altresì la volontà di scrivere un secondo provvedimento, ad aprile, con nuove misure: "Contiamo con il lavoro europeo e con la riprogrammazione di fondi Ue di sostenere il decreto di aprile cui stiamo già lavorando - l'annuncio di Gualtieri - Siamo fiduciosi di poter rafforzare ulteriormente gli interventi di sostegno all'economia e al lavoro straordinario che tutti gli italiani stanno svolgendo in questo momento".
Dai voucher ai bonus: ecco tutte le misure per le famiglie (e come ottenerle). Pubblicato martedì, 17 marzo 2020 su Corriere.it da Fiorenza Sarzanini. Cartelle esattoriali, bonus per chi ha i figli, documenti d’identità scaduti, biglietti di cinema e musei, contributi previdenziali: ecco le regole per poter ottenere agevolazioni e contributi previsti dal decreto del governo. Fino al 31 maggio è stato deciso il blocco totale della riscossione ovvero niente cartelle e pignoramenti fino al 31 maggio 2020. E dunque chi doveva effettuare il versamento entro il 31 marzo può farlo slittare di due mesi. Stessa agevolazione per chi non ha pagato la rata della Rottamazione ter che scadeva il 29 febbraio scorso: potrà versarla alla fine di maggio. Chi deve pagare «entrate tributarie e non tributarie» può farlo dopo il 31 maggio 2020. I versamenti dovranno «essere in unica soluzione entro il mese successivo al termine del periodo di sospensione». Il congedo di 15 giorni si può prendere se l’altro genitore non ha ottenuto strumenti di sostegno al reddito. Il dipendente privato e il lavoratore autonomo con figli minori può scegliere «il bonus per l’acquisto di servizi di baby-sitting per 600 euro». Si presenta la domanda all’Inps e poi l’erogazione avviene sul «libretto famiglia». Per i dipendenti pubblici «l’erogazione dell’indennità, nonché l’indicazione delle modalità di fruizione del congedo sono a cura dell’amministrazione pubblica con la quale intercorre il rapporto di lavoro». I lavoratori della sanità «devono presentare domanda tramite i canali telematici dell’Inps indicando la prestazione di cui intende usufruire, il numero di giorni di indennità, l’importo del bonus che si intende utilizzare e che non può superare i 1.000 euro». I versamenti «dei contributi previdenziali e assistenziali e dei premi per l’assicurazione obbligatoria dovuti dai datori di lavoro domestico» sono stati sospesi. Fino al 31 maggio 2020» dovrà poi «effettuarli entro il 10 giugno 2020, senza applicazione di sanzioni e interessi». Chi ha «i documenti di riconoscimento e di identità scaduti può comunque utilizzarli fino al 31 agosto 2020». Non saranno invece validi per andare all’estero perché in quel caso vale «la data di scadenza indicata nel documento» e dunque si dovrà utilizzare il passaporto. Chi ha comprato biglietti «per spettacoli, musei, cinema e teatri e non ne ha usufruito vista la chiusura decisa dal governo deve presentare «entro trenta giorni dalla data di entrata in vigore del presente decreto (dunque oggi o domani ndr) istanza di rimborso al venditore, allegando il relativo titolo di acquisto. Il venditore, entro trenta giorni dalla presentazione della istanza di cui al primo periodo, provvede all’emissione di un voucher di pari importo al titolo di acquisto, da utilizzare entro un anno dall’emissione». La stessa procedura è già stata applicata ai biglietti di viaggio e ai pacchetti turistici per i quali il decreto del 2 marzo scorso ha già previsto che gli organizzatori possono offrire ai clienti «un altro pacchetto, il rimborso entro 14 giorni, un voucher da utilizzare entro un anno» dall’annullamento del viaggio. I postini «consegneranno raccomandate e pacchi dopo aver accertato la presenza del destinatario o di persona abilitata al ritiro, senza raccoglierne la firma con successiva immissione dell’invio nella cassetta della corrispondenza dell’abitazione, dell’ufficio o dell’azienda».
Decreto Cura Italia: scadenze rinviate per patenti e revisioni auto. Bozza circolata sui maggiori quotidiani, in Gazzetta Ufficiale stasera. Lorenzo V. E. Bellini il 16 marzo 2020 su motorionline.com. Questa sera un nuovo decreto sarà pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale, diventando così ufficialmente valido a partire dalla giornata di domani. Ribattezzato “Decreto Cura Italia”, si tratta di un sostegno all’economia da circa 25 miliardi di euro, con finanziamenti per un valore complessivo di 350 miliardi di euro. All’interno di questo nuovo decreto vi sono delle novità anche per quanto riguarda gli automobilisti.
Rinviata la scadenza delle revisioni auto. È stata tecnicamente rinviata la scadenza delle revisioni per tutte quelle auto che avrebbero dovuto sottoporsi al regolare controllo entro il prossimo 31 luglio 2020. Più specificatamente, è stata concessa l’autorizzazione a circolare a tutte queste auto fino al prossimo 31 ottobre, data entro la quale si dovrà comunque procedere alla revisione. Ciò significa, però, che tutte le revisioni in scadenza a partire dal 1 agosto prossimo venturo non potranno usufruire di questa proroga. Il rinvio vale anche per quelle auto che devono essere sottoposte a verifica a seguito di una modifica delle caratteristiche tecniche.
Spostate anche le scadenze delle patenti. Anche la scadenza delle patenti, dopo l’allungamento dei permessi provvisori e dei fogli rosa, sarà prorogata. Nel nuovo Decreto Cura Italia è previsto che tutte le patenti con data di scadenza posteriore al giorno di entrata in vigore del decreto, ovvero presumibilmente domani 17 marzo, saranno automaticamente prorogate al 31 agosto. Entrambi questi provvedimenti sono stati concepiti per fare in modo che non si formino assembramenti presso i centri autorizzati alle revisioni e le motorizzazioni civili anche nei giorni immediatamente successivi alla fine delle misure restrittive organizzate per fermare l’epidemia di Coronavirus. Tutte queste norme puntano a consentire un’adeguata misura di spazio interpersonale, minimizzando così la possibilità di contagio.
Chiusure e aperture. Nel frattempo alcune strutture del nostro settore hanno iniziato a riaprire i battenti. Il Gruppo Piaggio, ad esempio, ha ufficialmente riaperto tutti i suoi stabilimenti italiani a Pontedera, Mandello del Lario, di Noale e Scorzè. Prima di farlo, però, il Gruppo ha igienizzato profondamente tutte le strutture e ha organizzato il lavoro in modo da far rispettare ai dipendenti i dettami e le distanze di sicurezza indicate dal Governo. Si fermano di domenica invece i supermercati della Coop, che hanno deciso che per due settimane terranno abbassate le serrande nella sola giornata di domenica (saranno quindi aperti nel resto della settimana come da decreto).
Famiglie, lavoratori e sistema sanitario: ecco il decreto "Cura Italia". 127 articoli che confermano l'impianto anticipato nei giorni scorsi, raggruppati in 5 maxi-settori: aiuti alle famiglie, ai lavoratori, potenziamento al sistema sanitario e sostegno alla liquidità attraverso il sistema bancario. Alessandro Ferro, Mercoledì 18/03/2020 su Il Giornale. Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha firmato il decreto "Cura Italia" per far fronte all'emergenza Coronavirus. In vigore e pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale, il decreto contiene misure per 25 miliardi di euro per il 2020. Il testo contiene 127 articoli con gli interventi straordinari previsti dal governo: intanto, le mascherine verranno fornite in "via prioritaria ai medici ed agli operatori sanitari e sociosanitari. Oltre a queste, misure per gli ammortizzatori sociali, divieto di licenziamento, premio per chi lavora in sede, cibo agli indigenti (previsti 50 milioni di euro), congedi speciali per i genitori, mascherine per gli operatori sanitari in prima linea, rimborsi per gli eventi cancellati, domiciliari ai detenuti con pena inferiore ai 18 mesi. Tra le misure contenute nel decreto "Cura Italia" è prevista anche una norma per semplificare la sperimentazione clinica di farmaci e dispositivi medici.
Rinviato il referendum. È stato rinviato il referendum costituzionale per il taglio dei parlamentari. Potrà svolgersi entro la seconda metà di settembre. Nessuna novità per quanto riguarda le elezioni regionali e comunali.
Credito d’imposta per affitti di botteghe e negozi. Per gli esercenti di negozi e botteghe è riconosciuto un credito d’imposta nella misura del 60% dell’ammontare del canone di affitto, relativo al mese di marzo.
L'Inail potrà assumere 200 medici specialisti e 100 infermieri. Il decreto prevede che l’Inail possa assumere "un contingente di 200 medici specialisti e di 100 infermieri" conferendo "incarichi di lavoro autonomo, anche di collaborazione coordinata e continuativa, di durata non superiore a sei mesi, eventualmente prorogabili in ragione del perdurare dello stato di emergenza, e comunque non oltre il 31 dicembre 2020".
Indennità di 600 euro per gli stagionali del turismo. L'Inps erogherà 600 euro ai lavoratori dipendenti stagionali del settore turismo e degli stabilimenti termali "che hanno cessato involontariamente il rapporto di lavoro nel periodo compreso tra il primo gennaio 2019" e la data di entrata in vigore del decreto, "non titolari di pensione e non titolari di rapporto di lavoro dipendente" previa domanda e nel limite di spesa complessivo di 103,8 milioni di euro per l’anno 2020.
Stop ai licenziamenti per 2 mesi. Stop ai licenziamenti: per 60 giorni il decreto vieta al datore di lavoro, indipendentemente dal numero dei dipendenti, di recedere dal contratto per "giustificato motivo oggettivo" e sospende le procedure pendenti avviate dopo il 23 febbraio 2020.
Crediti d’imposta per sanificare gli ambienti di lavoro. Per incentivare la sanificazione degli ambienti di lavoro, per chi esercita attività d’impresa, arte o professione è riconosciuto, per il periodo d’imposta 2020, un credito d’imposta nella misura del 50% delle spese di sanificazione degli ambienti e degli strumenti di lavoro fino a un massimo di 20 mila euro. Il credito d’imposta è riconosciuto fino all’esaurimento dell’importo massimo di 50 milioni di euro per il 2020.
Stop ai versamenti per tutti i settori più colpiti. Oltre al trasporto merci, all’elenco dei settori più colpiti (turistico-alberghiero, termale, trasporti passeggeri, ristorazione e bar, cinema e teatri, sport, istruzione, parchi divertimento, eventi, sale giochi e centri scommesse, trasporto merci) si aggiungono le federazioni sportive nazionali, gli enti di promozione sportiva, le organizzazioni non lucrative di utilità sociale, di volontariato e le associazioni di promozione sociale. Per queste imprese alla ripresa della riscossione, i versamenti sospesi dovranno essere effettuati, senza sanzioni e interessi, in un’unica soluzione o con un massimo di 5 rate mensili a partire da maggio 2020.
Premio di 100 euro per i lavoratori in sede. Bonus da 100 euro per i lavoratori dipendenti, pubblici e privati, con reddito complessivo non superiore a 40 mila euro, che, durante il periodo di emergenza sanitaria Covid-19, continuino a prestare servizio nella sede di lavoro nel mese di marzo 2020. Il premio è attribuito, in via automatica, dal datore di lavoro, che lo eroga se possibile con la retribuzione relativa al mese di aprile, e comunque entro i termini previsti per le operazioni di conguaglio di fine anno.
Smart working nella Pubblica amministrazione. Lo smart working diventa modalità ordinaria di lavoro nelle pubbliche amministrazioni e può essere applicata a ogni rapporto di lavoro subordinato. I lavoratori del settore privato affetti da gravi e comprovate patologie hanno priorità nell’accoglimento delle domande di lavoro agile. I datori di lavoro sono tenuti ad autorizzare la modalità di lavoro agile ai lavoratori dipendenti che abbiano nel proprio nucleo familiare una persona con disabilità ospitata in un centri riabilittivi chiusi dal provvedimento.
Mattarella firma il "Cura Italia", in vigore il decreto: ecco tutte le misure. Redazione de Il Riformista il 18 Marzo 2020. Il decreto legge "Cura Italia" per contrastare l’emergenza Coronavirus è in vigore: ieri sera è stato bollinato dalla Ragioneria generale dello Stato e, subito dopo la firma del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale. Il maxi decreto che abbraccia un ampio spettro di provvedimenti: bonus per i lavoratori autonomi, stagionali e partite Iva, ma anche per chi a marzo va in ufficio nonostante l’emergenza Coronavirus. Stop a mutui e tasse, credito di imposta per gli affitti dei commercianti e per la sanificazione degli uffici. E ancora congedi fino a 15 giorni per mamma e papà e bonus babysitter. Ecco le principali novità del testo approvato dal Consiglio dei ministri.
FONDI PER LA SANITA‘ – Dei 25 miliardi stanziati, 3,5 vanno al potenziamento della sanità e della protezione civile per far fronte all’emergenza.
BONUS P.IVA E AUTONOMI – Ai professionisti titolari di partita Iva attiva alla data del 23 febbraio 2020 e ai lavoratori titolari di rapporti di collaborazione coordinata e continuativa viene riconosciuto un bonus di 600 euro. La stessa cifrava ai lavoratori autonomi iscritti alle Gestioni CDCM, Artigiani, Commercianti; agli stagionali del settore turismo e degli stabilimenti termali; agli operai agricoli a tempo determinato; ai lavoratori dello spettacolo.
LAVORO – Tra gli interventi per lavoratori e famiglie – 10 miliardi in tutto – ammortizzatori sociali come il Fondo di integrazione salariale (+1,3 mld) e la cassa in deroga, con uno stanziamento di 3,3 miliardi di euro.
LICENZIAMENTI – Sospese le procedure in corso avviate dopo il 23 febbraio e stop ai licenziamenti per sessanta giorni.
BONUS "RESTO IN UFFICIO" – Ai lavoratori dipendenti che continueranno a lavorare nelle loro sedi di lavoro verrà riconosciuto un bonus di 100 euro per il mese di marzo, sotto forma di riduzione del cuneo fiscale.
CONGEDI PER MAMMA E PAPA’ – Quindici giorni di congedo – anche frazionati – per i figli di età non superiore ai 12 anni, ai genitori lavoratori dipendenti, con un’indennità pari al 50% della retribuzione.
BONUS BABY SITTER – In alternativa al congedo parentale arriva il bonus baby sitter da 600 euro, con 1,2 miliardi di stanziamento. Per i lavoratori dipendenti del settore sanitario, pubblico e privato accreditato, medici, infermieri, tecnici di laboratorio biomedico, tecnici di radiologia medica e degli operatori sociosanitari, nonché dipendenti dalla Polizia di Stato, il bonus sale a mille euro.
PERMESSI 104 – Ampliata la possibilità di usufruire del permesso della legge 104 che passerà da 3 a 12 giorni cumulativi utilizzabili tra marzo e aprile con uno stanziamento di 500 milioni di euro. I genitori con figli disabili hanno la priorità nella richiesta dello smart working.
QUARANTENA – Il periodo di quarantena – con sorveglianza attiva, o in isolamento fiduciario – è equiparato alla mutua.
ALITALIA – Via libera alla newco interamente controllata dal Ministero dell’economia e delle Finanze, o da una società a prevalente partecipazione pubblica anche indiretta, per Alitalia. E’ istituito un fondo con una dotazione di 600 milioni di euro per l’anno 2020.
STOP PROCESSI – Le udienze dei procedimenti civili e penali pendenti presso tutti gli uffici giudiziari sono rinviate d’ufficio a data successiva al 15 aprile, e viene sospeso il decorso dei termini per il compimento di qualsiasi atto dei procedimenti civili e penali.
MUTUI – Stop a rate di prestiti e mutui con garanzie pubbliche che possono consentire al sistema bancario di sospendere rate ed estendere finanziamenti.
STOP TRIBUTI – Stop ai versamenti per tributi e contributi. C’è una sospensione della rata dovuta oggi, che viene differita al 31 maggio, per tutti, fino al tetto di fatturato di 2 miliardi.
CONTRIBUTI COLF -Slittano a giugno, senza aggravi, i contributi per colf e badanti previsti fino al 31 Maggio.
SCUOLE – Arrivano 85 milioni per dotarsi di piattaforme e di strumenti digitali uper l’apprendimento a distanza. Oltre 40 milioni consentiranno di dotarsi di materiali per la pulizia straordinaria dei locali, e di dispositivi di protezione e igiene personali, per personale e studenti.
NEGOZI – Credito di imposta al 60% dell’affitto di marzo per aiutare i negozianti.
SANIFICAZIONE UFFICI – Credito di imposta al 50% delle spese di sanificazione degli ambienti e degli strumenti di lavoro, fino ad un massimo di 20mila euro.
AGROALIMENTARE – Uno stanziamento di 100 milioni di euro per favorire l’accesso al credito delle imprese agricole e della pesca. Aumento dal 50% al 70% degli anticipi dei contributi PAC a favore degli agricoltori, valore complessivo oltre un miliardo di euro.
SPETTACOLO E CINEMA – Nasce il fondo emergenze spettacolo dal vivo, cinema e audiovisivo, 130 milioni di euro per il 2020 per il sostegno degli operatori, autori, artisti, interpreti ed esecutori colpiti dalle misure adottate per l’emergenza.
VOUCHER MUSEI – I rimborsi con voucher già previsti per viaggi e pacchetti turistici annullati a seguito dell’emergenza Covid-19 vengono estesi anche ai biglietti per spettacoli, cinema, teatri, musei e altri luoghi della cultura, nonché ad alberghi e altre strutture ricettive. Realizzazione di una campagna straordinaria di promozione dell’Italia nel mondo anche con finalità turistiche e culturali.
Coronavirus, il decreto lascia 1 milione e mezzo di lavoratori autonomi col fiato sospeso. La mini manovra economica varata dal governo per aiutare il mondo produttivo italiano non dà nessuna certezza sull'assegnazione dei 600 euro per giornalisti, avvocati, architetti, farmacisti geometri e tutti gli altri precari iscritti alle Casse professionali e non all'Inps. Sara Dellabella il 17 marzo 2020 su L'Espresso. Circa un milione e mezzo di lavoratori non ha trovato risposta nel decreto Cura Italia, la mini manovra economica varata dal governo per aiutare il mondo produttivo italiano a rimanere in piedi fino alla fine dell'emergenza sanitaria in atto. L'ultimo decreto che si compone di 121 articoli, si è occupato di dare una boccata di ossigeno in un momento in cui il settore produttivo italiano, il sistema sanitario e i lavoratori è strozzato dall'emergenza. Il grave momento che sta affrontando il Paese ha bisogno di nuove risorse, tanto che questo decreto da 25 miliardi di euro, è stato paragonato ad una manovra economica, nella quale non manca neppure un capitolo dedicato ad Alitalia. Nella distrazione dell'emergenza, l'ex compagnia di bandiera diventa in poche righe di un articolo inserito nel Cura Italia una società pubblica. Si legge infatti che verrà costituita una società interamente controllata dal Ministero dell'Economia e delle Finanze “ovvero controllata da una società a prevalente partecipazione pubblica anche indiretta” che si occuperà del salvataggio della ex compagnia di bandiera. Ma l'attenzione è principalmente rivolta ai lavoratori, soprattutto a quella miriade di sigle, acronimi, e diciture che dietro la parvenza dell'autonomia, nascondono un sottobosco di precariato. Ma anche tra precari ci sono differenze. Tra i 121 articoli, due sono rivolti al mondo dei precari e degli autonomi. Da giorni circolava l'ipotesi di un contributo di 600 euro per tutti gli autonomi, partite iva e collaboratori (cococo), ma ieri il decreto ha specificato che andranno solamente agli iscritti alla gestione separata dell'Inps (circa 5 milioni) e alla stessa misura dovrebbero avere accesso anche i 500 mila collaboratori sportivi tradizionalmente esclusi dal sistema degli ammortizzatori sociali ordinari e straordinari. 600 euro che sono meno dell'importo del reddito di cittadinanza e che da più parti è stato definito “un'elemosina”. Intanto però giornalisti, avvocati, architetti, farmacisti e tutti gli iscritti alle 20 casse professionali rimangono con il fiato sospeso. Per loro, all'articolo 43, spunta una norma “salvagente” dal titolo “Istituzione del Fondo per il reddito di ultima istanza a favore dei lavoratori danneggiati dal virus COVID-19”. Quindi per i professionisti stando alla lettera della norma bisognerà attendere ancora 30 giorni, quando verrà emanato un decreto ministeriale che definirà i criteri di priorità e le modalità di attribuzione dell’indennità. Il fondo può contare su 300 milioni e le modalità di accesso saranno concordate con le circa 20 casse professionali a cui sono iscritti circa un milione e mezzo di professionisti, spesso precari. Dal ministero del Lavoro assicurano che i tempi saranno più brevi e ci saranno novità già nei prossimi giorni che riguarderanno anche i riders, visto che il dialogo con i rappresentanti delle casse professionali è già partito. Quindi, non resta che attendere.
Cura Italia: le reazioni di imprenditori, professionisti, associazioni. Nicola Sellitti de Il Riformista il 18 Marzo 2020.
Costanzo Iaccarino – Federalberghi Campania: Non sono soddisfatto del contenuto del Cura Italia partorito due giorni fa dal Governo. Per esempio, sarebbe stato preferibile se fosse stata prolungata la Naspi, riportandola alla stessa durata della vecchia indennità di disoccupazione. in questo modo, l’Esecutivo avrebbe potuto garantire una maggiore tranquillità a tutti i lavoratori stagionali del comparto turistico che in questa annata vive davvero un momento drammatico come dimostrano diversi gli studi internazionali, in base ai quali le imprese attive nel settore sono destinate a perdere circa il 70% del proprio fatturato. E non sappiamo ancora quanto l’emergenza legata al Coronavirus durerà in Campania e nel resto d’Italia. Nel complesso anche altre misure mi hanno destato più di una perplessità, quindi mi auguro una rapida revisione del decreto.
Vincenzo Schiavo – Consefercenti Campania: Il credito d’imposta del 60% su botteghe e negozi? Non porta a nulla. Anzi, il 60% di credito d’imposta per il fitto di un’attività commerciale dovrebbe spettare al titolare o al proprietario dell’immobile, proposta che ho già trasmesso al Governo. Così l’esercente avrebbe maggiore liquidità per sostenere la propria famiglia oppure i dipendenti dell’impresa. Inoltre, abbiamo chiesto lo stop a mutui, leasing, finanziamenti per tutti gli imprenditori. Gli impegni già assunti devono essere posticipati di almeno sei mesi, solo in questo modo eviteremmo tanti fallimenti. E devono cambiare anche i parametri di accesso al finanziamento bancario per le piccole e medie imprese che ottengono liquidità solo se non sono in sofferenza con gli istituti di credito oppure se non hanno personale in cassa integrazione.
Mauro Pantano – Federazione Imprese e Professionisti: Questo decreto non tiene conto del momento drammatico che stanno vivendo le imprese italiane e soprattutto campane. Nell’ultimo periodo sono state inaugurate 600 attività nella regione, ma il conto di quelle che hanno dovuto chiudere per cause di forza maggiore arriva a 30mila. L’indotto è praticamente fermo, in sostanza questi soldi non finiranno mai più nelle casse degli imprenditori. E quindi spostare gli adempimenti a fine maggio a cosa serve, se tra marzo e aprile non si è incassato nulla? Per procurare liquidità la soluzione è bloccare ritenute d’acconto e contributi Iva almeno per un anno e sbloccare i Durc (documenti unici di regolarità contributiva). Così incasserebbero denaro anche le imprese in sofferenze con le banche: una situazione diffusa già prima di quest’ultima crisi.
Vincenzo Moretta – Ordine dei commercialisti di Napoli: Purtroppo il contributo di 500 euro una tantum previsto per professionisti, co.co.co. e lavoratori dello spettacolo è destinato solo a chi ricade nel regime Inps, iscritto alla gestione separata Inps. Per i professionisti iscritti alle casse di previdenza privatizzate, come avviene per giornalisti, architetti, geometri e altre categorie, non è previsto nulla. Perciò il provvedimento è discriminatorio. Anche i 300 milioni di euro destinati ai Ministeri che a loro volta dovrebbero destinarli alle casse private, è solo un palliativo. Magari una somma minore di 500 euro, ma indirizzata a una platea più ampia, sarebbe stata la soluzione più adeguata. La verità è che la coperta in Italia è corta: non abbiamo finora stanziato le somme necessarie per fronteggiare l’emergenza, perciò serve l’intervento dell’Europa.
Rosario Rago – Confagricoltura Campania: Il decreto del Governo ha un impatto minimale. Positiva la proroga dei termini per la disoccupazione, ma non c’è la svolta per un comparto assai in difficoltà: l’ortofrutta è in ginocchio, tra problemi legati al trasporto delle merci e i vari decreti che hanno imposto sanificazioni e adeguamenti normativi. Il calo della produzione in Campania ammonta a circa il 50%: la gente va poco al supermercato, addirittura si stanno verificando più casi di merce ordinata, caricata sui mezzi per il trasporto sino all’ordine revocato dai commercianti al dettaglio o dai grossisti. Poi, sugli adempimenti fiscali prorogati ancora non si se poi si dovrà pagare o meno. Le aziende campane e italiane devono fare i conti con l’emergenza di oggi e le necessità di domani, Il che rende necessario anche l’intervento dell’Unione europea.
Sergio Roncelli – Coni Campania: La sospensione del pagamento dei canoni per le associazioni sportive dilettantistiche è un provvedimento-tampone. Tra tre mesi le società si troveranno nella stessa situazione attuale, se non peggiore, perché in questo periodo palestre, piscine, centri di allenamento sono chiusi e prima ancora della chiusura si erano già svuotati. E il decreto non è neppure chiaro: chi ci dice che da giugno in poi non saranno richiesti i pagamenti per i mesi precedenti? Sarebbe stato meglio sospendere il versamento dei canoni almeno sino al termine dell’estate perché con lo sport, anche se l’emergenza dovesse arrestarsi in tempi brevi, si ripartirà il prossimo settembre. Sarebbe stato opportuno concedere settimane di respiro alle oltre mille società sportive sul territorio campano, La ripresa sarà lenta.
Professionisti: «Ignorati dal Cura Italia, no a lotteria del click day per i 600 euro». Pubblicato giovedì, 19 marzo 2020 su Corriere.it da Isidoro Trovato. Il punto è che, lamentano gli ordini, che il governo considerano ancora i professionisti come una sorta di «casta di privilegiati», ignorando o trascurando il fatto che si tratta di circa due milioni di lavoratori che hanno un reddito medio di 15 mila euro l’anno. La stessa Adepp associazione delle casse di previdenza private, ha fatto pervenire il proprio disappunto ricordando che le casse private e i loro rendimenti sono tassate dallo stesso Stato che oggi pare fare un passo indietro. «Pur confidando nelle dichiarazioni del Ministro Gualtieri che ha annunciato interventi ulteriori con successivi decreti per estendere le misure a sostegno di imprese e professionisti — precisa massimo Miani, presidente dei commercialisti italiani — è tuttavia evidente che la grave crisi che sta colpendo gran parte dei titolari di partita Iva, dovuta alle chiusure forzate delle loro attività o alla drastica riduzione del fatturato, avrebbe imposto sin da ora decisioni più coraggiose e di più ampio respiro, anche sotto il profilo temporale». Un messaggio di protesta che per la prima volta vede voci congiunte di commercialisti e consulenti del lavoro così come di tante altre categorie. Altrettanto decisa è l’opposizione al click day ancora soltanto ventilata da qualche ministro. Un no deciso alla «lotteria click day» per assegnare il bonus di 600 euro a lavoratori autonomi e stagionali, partite Iva e professionisti arriva dai circa 5 milioni di italiani che costituiscono questa parte del mondo del lavoro autonomo. Forse si è ancora in tempo per apporre qualche rimedio e trovare risorse per non lasciare indietro nessuno.
«Nel Dl Cura Italia solo briciole per noi avvocati». Errico Novi il 19 Marzo 2020 su Il Dubbio. L’allarme del Cnf: «Bene gli sforzi per tutelare la salute anche nei tribunali, ma nel maxidecreto manca qualsiasi sostegno economico per la professione forense». Nella costruzione del decreto Cura Italia si può dire che gli avvocati avevano assunto un ruolo da coprotagonisti. Rispetto agli interventi sulla procedura, s’intende. E la presidente facente funzioni del Cnf, Maria Masi, non esita a ricordarlo: «Sono stati apportati interventi sulla giustizia atti a chiarire dubbi interpretativi, e a colmare lacune, anche per effetto delle sollecitazioni e delle espresse richieste dell’avvocatura», nota il vertice della massima istituzione forense a proposito del maxi provvedimento, in vigore da ieri. Ma proprio Masi, nella sua nota, mette in risalto uno squilibrio che si fa tanto più inspiegabile proprio alla luce di quel contributo normativo: è «grave», dice la presidente del Cnf, «la mancanza di altrettanta cura e sensibilità per la tutela dei professionisti e in particolare per gli avvocati, a cui non è diretta, se non in maniera esigua, derivativa e residuale, alcuna forma di sostegno economico». A professionisti e avvocati, fa notare Masi, non viene assicurata alcuna «tutela» in una situazione «destinata a durare ben oltre l’emergenza sanitaria, le cui ripercussioni negative sulla professione e, di conseguenza, sul reddito degli avvocati, sono destinate a durare a lungo». Un’amnesia di fronte alla quale «il Consiglio nazionale forense avrà cura, raccolte le istanze dell’avvocatura, di formalizzare una proposta emendativa finalizzata a intervenire nei settori che ancora necessitano di correttivi e all’individuazione di forme dirette di sostegno e di tutela compatibili con la professione di avvocato e in linea con i principi a cui si ispira».
Il Cnf: bene sforzo per salute, scelte problematiche su penale. Si tratta di verificare se anche sul piano dei sostegni economici il governo si mostrerà pronto a recepire le sollecitazioni della professione forense. Lo aveva fatto innanzitutto il guardasigilli Alfonso Bonafede rispetto alle misure previste per la sospensione dell’attività giudiziaria, e dei termini, fino al 15 aprile. Sempre la presidente del Cnf rileva, «dall’analisi del maxi decreto Cura Italia», la «condivisibile preoccupazione del governo di ampliare, in questa fase di emergenza per la diffusione del Covid-19, la tutela della salute dei cittadini, anche e soprattutto, nell’ambito del lavoro dipendente e in parte in quello autonomo. In quest’ottica», ricorda in particolare Masi a proposito delle correzioni suggerite, nel Dl, proprio dagli avvocati, si è realizzata «l’estensione delle esigenze di tutela ai settori civile, amministrativo e tributario declinandone le specificità».
Mentre «per il settore penale, destano perplessità la sospensione dei termini di custodia cautelare e delle altre forme coercitive e interdittive, oltre agli ulteriori oneri a carico dei difensori per la notifica delle impugnazioni». Anche rispetto alle misure messe in campo per ridurre, nei limiti del possibile, l’attività giudiziaria e le occasioni di contagio, ci si trova dunque, secondo il Consiglio nazionale forense, di fronte a un «apprezzabile ma evidentemente non adeguatamente sufficiente sforzo di contemperare gli interessi e di riequilibrare diritti altrettanto degni di tutela».
L’Aiga: «Il Dl? Se avanzano soldi li diamo ai professionisti…». Il punto è l’equilibrio che manca appunto, fra l’attenzione alle richieste avanzate da istituzioni e rappresentanze forensi per la tutela della salute, da una parte, e dall’altra l’evidente superficialità, se non il totale oblio, rispetto alla condizione economica degli avvocati. E oltre al Cnf è anche l’Aiga a sollevare in modo impietoso i limiti del decreto Cura Italia: «Se avanza qualcosa, la diamo ai liberi professionisti», è la sintesi che, secondo l’Associazione giovani avvocati, si rischia di dover evocare per le scelte del maxi decreto. Che «non contiene di fatto alcuna concreta misura in favore dei liberi professionisti, e in particolare dell’avvocatura». Del «reddito di ultima istanza», ricorda l’Aiga, sarà attribuita «ai liberi professionisti iscritti alle casse private» soltanto «una quota eventuale e residuale del fondo istituito, che non potrà essere superiore a qualche decina di euro». E in attesa delle correzioni che a questo punto l’avvocatura potrebbe sollecitare con la proposta anticipata dal Cnf, i giovani avvocati chiedono l’intervento urgente di Cassa forense. Ad esempio, così come ipotizzato anche dall’Ocf, «la cessione, pro-soluto, dei crediti che gli avvocati hanno nei confronti dello Stato per le prestazioni rese in regime di patrocinio a spese dello Stato e già liquidate». Si punta anche all’ingegnosa ipotesi di «strumenti straordinari di credito» agevolati «anche a sconto dei crediti che i colleghi vantino nei confronti dei rispettivi clienti».
L’Unaa: complicazioni in alcuni passaggi del Cura Italia. Quasi a enfatizzare la paradossale impalpabilità del trattamento riservato alle professioni, e agli avvocati, si rivela preziosissimo e chiarificatore il contributo di analisi offerto dalla professione forense sui contenuti del decreto Cura Italia in materia di giustizia. Basti pensare che poche ore dopo la pubblicazione in Gazzetta ufficiale del provvedimento, avvenuta verso le 3 di notte di ieri, è una nota dell’Unione nazionale avvocati amministrativisti a proporre dettagli del testo finora sottovalutati nella loro portata. Uno fra tutti: «I presidenti di sezione del Consiglio di Stato e i presidenti dei Tar possono assumere misure per rispondere alle indicazioni igienico-sanitarie, ivi compresa la possibilità di rinviare tutte le udienze di merito a dopo il 30 giugno prossimo». Ipotesi anticipata anche dal massimo vertice di Palazzo spada Filippo Patroni Griffi in un’intervista di pochi giorni fa a questo giornale. Ma che fa un certo effetto una volta inserita in un testo di legge: dà l’idea di come l’emergenza coronaviurus rischi di costringere la giustizia, certo non solo quella amministrativa, a una semiparalisi prolungata assai oltre il 15 aprile, quando cesserà la “sospensione feriale straordinaria”. L’Unaa si sofferma anche su altri aspetti: «È importante che non vi siano termini da dover rispettare fino al 15 aprile, che avrebbero imposto agli avvocati un’attività lavorativa potenzialmente pericolosa nell’emergenza sanitaria di questi giorni», si legge nel comunicato degli amministrativisti. Che però segnalano anche più di una «complicazione», come l’aver introdotto «una normativa derogatoria valevole solo per le udienze tra il 6 e il 15 aprile». Si tratta di un «giudizio complessivamente positivo», che non tace d’altra parte il rammarico per il mancato ricorso alla «discussione da remoto anche nel periodo fino al 30 giugno».
L’Unione tributaristi: «Udienze telematiche subito o è paralisi». Se Unaa «confida» che la soluzione per ora del tutto esclusa venga concretata «nel periodo immediatamente successivo», l’Unione nazionale degli avvocati tributaristi la sollecita come una delle ultime possibilità per arginare «una pressocché totale paralisi a tempo indeterminato dell’amministrazione della giustizia». Servono «interventi urgenti» per assicurare la «tutela dei diritti e degli interessi legittimi», a cominciare appunto dalla «attuazione» di«quella parte della disciplina del processo tributario telematico che consente alle parti processuali di chiedere che la discussione in pubblica udienza innanzi alle commissioni tributarie avvenga a distanza per via telematica». Secondo l’Uncat, «soprattutto nell’attuale situazione non sono ammissibili tentennamenti» e si deve perciò procedere «in tempi strettissimi agli adempimenti amministrativi», necessari perché la «giurisdizione tributaria» sia esercitata in via telematica.Si tratta di ritardi colti dall’avvocatura come segno della «difficoltà di operare nel pieno di una emergenza sanitaria epocale», per citare ancora l’Aiga. Ma non per questo la professione forense pare disposta a tollerarne la persistenza, una volta che li si è esposti con tale chiarezza.
FATECI CAPIRE: L’OBIETTIVO È CHE NESSUNO FACCIA DOMANDA? Da repubblica.it il 21 marzo 2020. Per richiedere il congedo parentale allargato a 15 giorni per l’emergenza coronavirus, i lavoratori dovranno accedere ai canali telematici dell’Inps già previsti per le richieste di maternità e congedo "normale". Per il voucher baby-sitter da 600 euro, invece, dovranno dotarsi di libretto di famiglia. L’Inps ha diffuso le prime indicazioni concrete su come richiedere e utilizzare le misure contenute nel decreto Cura Italia, che prevede interventi a sostegno dei lavoratori, con figli piccoli cui badare, che fronteggiano l’emergenza coronavirus. Restano ancora alcuni aspetti informatici da mandare a regime, ma l’Istituto ha comunque voluto dare le prime informazioni.
Il congedo parentale da 15 giorni: come funziona. Si tratta, ricorda l’Istituto, di un congedo straordinario da 15 giorni massimi che si può sfuttare per il periodo che va dal 5 marzo al 3 aprile. E' un congedo alternativo tra i due genitori (che quindi si possono suddividere il pacchetto ci giorni, ma non lo possono utilizzare insieme). Non è possibile richiedere il congedo se l’altro genitore è disoccupato/non lavoratore o con strumenti di sostegno al reddito o se in alternativa è stato richiesto il bonus per i servizi di baby-sitting. Il permesso è cumulabile con quello della legge 104.
Dipendenti del settore privato: a chi spetta e come fare domanda. Si fa riferimento ai genitori con figli entro i 12 anni di età. A loro andrà riconosciuta una indennità pari al 50% dello stipendio ed è assicurata la contribuzione figurativa: non perderanno nulla per il calco della pensione. Diverso il caso dei genitori di figli tra 12 e 16 anni: costoro possono astenersi dal lavoro per 15 giorni, ma non si vedranno accreditato nessuno stipendio e non avranno versamenti di contributi. Sono poi contemplati i genitori di figli con handicap in situazione di gravità senza limiti di età, purché iscritti a scuole di ogni ordine grado o ospitati in centri diurni a carattere assistenziale: anche in questo caso l'indennità è al 50% e ci sono i contributi figurativi. Il congedo straordinario si estende a coloro che hanno già sfruttato i congedi parentali previsti dalla normativa e gli indennizzi a seconda dell’età del figlio per il quale richiedono il congedo COVID-19. Nel caso dei dipendenti del settore privato, i genitori che al 5 marzo avevano già in corso una richiesta di congedo parentale "ordinario" non dovranno fare nulla e si vedranno convertiti i giorni nel nuovo congedo per il coronavirus. Lo stesso accade per i genitori di figli con handicap gravi, che al 5 marzo già fruivano di periodi di prolungamento del congedo parentale. non devono presentare domanda. Chi invece non era in congedo, può già presentare domanda al proprio datore di lavoro ed all’Inps, utilizzando la procedura di domanda di congedo parentale già in uso. Dettaglia a tal proposito la pagina dedicata ai congedi del sito Inps che "le lavoratrici e i lavoratori possono presentare la domanda di congedo parentale online all'Inps attraverso il servizio dedicato o in alternativa al Contact center al numero 803 164 (gratuito da rete fissa) oppure 06 164 164 da rete mobile o ancora attraverso gli enti di patronato e intermediari dell'Istituto, attraverso i servizi telematici offerti dagli stessi". Per chi avesse figli tra 12 e 16 anni, la domanda non va presentata all'Istituto ma solo al proprio datore di lavoro. Infine i genitori di figli con handicap gravi sopra i 12 anni "dovranno presentare apposita domanda e nel caso in cui la fruizione fosse precedente alla data della domanda medesima, potranno farlo anche con data retroattiva, decorrente al massimo dal 5 marzo 2020, utilizzando la procedura telematica di congedo parentale, che sarà disponibile entro la fine del corrente mese di marzo, al termine degli adeguamenti in corso di ultimazione".
Iscritti alla gestione separata Inps. In questo caso il Cura Italia prevede che il conteggio dell'indennità sia il 50% di 1/365esimo del reddito individuato come base di calcolo dell’indennità di maternità. Anche in questo caso, per i figli con handicap gravi non è previsto un limite di età a patto che siano iscritti a scuole o centri diurni di assistenza. Non ci sono minimi contributivi per accedere. Per quanto riguarda le domande, i genitori con figli minori di 3 anni possono fare domanda all’Inps utilizzando la procedura di domanda di congedo parentale già in uso. Per quelli tra 3 e 12 anni, si potrà fare domanda retroattiva se, al massimo a partire dal 5 marzo, "utilizzando le procedure telematiche per la richiesta di congedo parentale, che sarà disponibile entro la fine del corrente mese di marzo". Stesso disorso per i genitori con figli sopra i 12 anni e portatori di handicap grave. A differenza dei dipendenti del privato, i periodi di congedo parentale “ordinario” eventualmente già richiesti, anche se fruiti durante il periodo di sospensione dei servizi educativi per l’infanzia e delle attività didattiche nelle scuole, non potranno essere convertiti nel congedo COVID-19.
Lavoratori autonomi iscritti a gestioni Inps. Coinvolti sono i genitori con figli anche maggiori di 1 anno e fino a 12 anni di età o figli con handicap gravi senza limiti di età. In entrambi i casi l'indennità è al 50 per cento della retribuzione convenzionale giornaliera stabilita annualmente dalla legge, a seconda della tipologia di lavoro autonomo svolto. Non è previsto il requisito della regolarità contributiva. Per la domanda, gli autonomi con figli minori di 1 anno possono utilizzare la procedura Inps ordinaria. Quelli con figli di età tra 1 anno e fino ai 12 anni potranno presentare domanda all’Inps e se la fruizione è precedente alla domanda medesima, sarà possibile farlo anche con effetto retroattivo, decorrente al massimo dal 5 marzo, utilizzando le procedure telematiche per la richiesta di congedo parentale, "entro la fine del corrente mese di marzo, a seguito degli adeguamenti informatici in corso". I genitori con figli con handicap dovranno "comunque presentare apposita domanda e, se la fruizione è precedente alla domanda medesima, potranno farlo anche con data retroattiva, decorrente al massimo dal 5 marzo 2020, utilizzando la procedura telematica di congedo parentale, che sarà disponibile entro la fine del corrente mese di marzo". Non è prevista anche in questo caso la conversione automatica di congedi precedentemente richiesti.
Dipendenti pubblici: rivorlgersi alla propria Pa. L'Inps in questo caso non è l'interlocutore giusto: "Le modalità di fruizione del presente congedo per i lavoratori dipendenti del settore pubblico e le relative indennità sono a cura dell’Amministrazione pubblica con la quale intercorre il rapporto di lavoro". Per la domanda, dunque, non dovranno rivolgersi all'Istituto ma alla propria Amministrazione pubblica "secondo le indicazioni dalla stessa fornite".
Dodici giorni extra per la 104: frazionabili in ore. Nel caso dei lavoratori che accudiscono figli o parenti con disabilità, in aggiunta ai 3 giorni al mese già previsti dalla legge 104 il Cura Italia offre ulteriori 12 giorni complessivi per i mesi di marzo e aprile. "Tali giorni, anche frazionabili in ore, possono essere fruiti consecutivamente nello stesso mese". Per i lavoratori del settore privato che hanno una autorizzazione dei permessi valida per marzo e aprile non saranno necessarie nuove domande: "Può già fruire delle ulteriori giornate e i datori di lavoro devono considerare validi i provvedimenti di autorizzazione già emessi". Se invece il lavoratore non ha una autorizzazione in corso di validità, la domanda andrà presentata con le modalità ordinarie e sarà automaticamente abilitata a garantire i 12 giorni extra. Infine, "I lavoratori dipendenti per i quali è previsto il pagamento diretto dell’indennità da parte dell’INPS (lavoratori agricoli e lavoratori dello spettacolo a tempo determinato), devono presentare una nuova domanda secondo le consuete modalità solo nel caso in cui non sia già stata presentata una istanza relativa ai mesi per cui è previsto l’incremento delle giornate fruibili". Come nel caso del congedo, anche per i permessi della legge 104 i lavoratori del pubblico si devono rivolgere alla propria amministrazione e non all'Inps.
Voucher baby-sitting: chi ne ha diritto e come sfruttarlo. Vista la chiusura delle scuole, in alternativa al congedo il Cura Italia i genitori di figli under 12 al 5 marzo (o in caso di adozione e affido) e i genitori di figli con handicap gravi senza limiti di età possono sfruttare un voucher per baby sitter da 600 euro (1000 per il personale sanitario, della sicurezza o del soccorso pubblico). Per sfruttare il voucher è necessario avere il libretto di famiglia. Si attiva sul sito Inps, nella sezione dedicata alle prestazioni occasionali. Sulla stessa piattaforma devono registrarsi anche i baby sitter che devono esercitare “l’appropriazione delle somme nell’ambito di tale procedura". Il buono vale 600 euro per famiglia per i dipendenti del settore privato, gli iscritti alla Gestione separata, i lavoratori autonomi iscritti all'Inps o non iscritti, purché arrivi comunicazione dalle rispettive casse previdenziali. Nel settore pubblico, riguarda: Medici; Infermieri; Tecnici di laboratorio biomedico; Tecnici di radiologia medica; Operatori sociosanitari e si estende al personale del comparto sicurezza, difesa e soccorso pubblico, impiegato per le esigenze connesse all’emergenza coronavirus. In questi casi si può arrivare ad un massimo di 1.000 euro per nucleo familiare.
Voucher baby-sitting, mancano ancora i moduli per fare domanda. Il bonus spetta per ogni figlio sotto i 12 anni, fermo restandi i limiti di 600 e 1000 euro per nucleo familiare. L'Inps non ha ancora definito l'iter per la domanda: bisognerà avvalersi "della modulistica ufficiale che a breve sarà messa a disposizione dall’INPS e della cui disponibilità sarà data tempestiva comunicazione con apposito messaggio dell’Istituto. La domanda, disponibile entro la prima settimana di aprile a seguito dell’implementazione informatica in corso, potrà essere presentata con le seguenti consuete modalità:
WEB - inps.it - sezione "Servizi online" > "Servizi per il cittadino" > autenticazione con il PIN dispositivo (oppure SPID, CIE, CSN) > “Domanda di prestazioni a sostegno del reddito” > “Bonus servizi di baby-sitting”;
CONTACT CENTER INTEGRATO - numero verde 803.164 (gratuito da rete fissa) o numero 06 164.164 (da rete mobile con tariffazione a carico dell'utenza chiamante);
PATRONATI - attraverso i servizi offerti gratuitamente dagli stessi.
Chiudono anche gli studi professionali, ma c’è la clausola “tranne che per le attività urgenti”. Giulia Merlo su Il Dubbio il 22 marzo 2020. Cosa significa per gli avvocati: uffici chiusi al pubblico e personale di segreteria a casa. Per ora in Lombardia e Piemonte, ma si aspetta conferma a livello nazionale con la pubblicazione del decreto di Conte. La Lombardia e il Piemonte chiudono anche gli studi professionali, compresi dunque gli studi legali, fino al 15 aprile. La previsione impone la “chiusura delle attività degli studi professionali salvo quelle relative ai servizi indifferibili e urgenti o sottoposti a termini di scadenza”. Cosa significhi, però, è difficile comprenderlo nella pratica. Gli avvocati potranno andare, da soli e dunque senza imporre la presenza anche eventuali dipendenti, nei propri studi a lavorare? Oppure, l’autocertificazione di spostamenti per ragioni di lavoro non varrà più per loro? Probabilmente, la lettura più plausibile è quella di disporre la completa chiusura al pubblico negli orari di ufficio degli studi legali e dunque la messa in ferie del personale di segreteria. Gli studi, però, potranno aprire per il lavoro dei singoli professionisti che devono svolgere atti urgenti. Una lettura più restrittiva ancora della lettera potrebbe addirittura essere che l’avvocato non possa più recarsi nel suo studio, anche da solo, per svolgere in loco gli atti – sia urgenti che non – per evitare troppi spostamenti, ma possa solo svolgere lì quelli urgenti e tutto il resto delle attività debbano essere svolte presso il proprio domicilio. Alcuni avvocati più tecnologici si sono dotati di supporti elettronici che permettono il lavoro da remoto, ma la maggior parte ha bisogno di recarsi in ufficio per avere a disposizione le pratiche e gli strumenti di lavoro, soprattutto ora che sta iniziando a mettersi in moto il sistema delle udienze in videoconferenza, che sono comunque da considerarsi servizi urgenti e indifferibili. La valvola di sfogo è prevista con la deroga alla chiusura per le attività “relative a servizi indifferibili e urgenti o sottoposti a termini di scadenza”. Però il punto rimane sempre lo stesso: ogni professionista, anche in questa fase di drammatica crisi, ha sulla propria scrivania questo tipo di atti da compiere, anche se non saranno certo la totalità del suo lavoro. La logica a guidare la scelta dei singoli avvocati ad recarsi nei propri studi dovrebbe essere il comune buon senso, dunque, come per altro già sta accadendo.Inoltre, resta da chiarire se il provvedimento riguardi davvero solo le due regioni del nord o la stessa previsione sia contenuta anche nel dpcm anticipato ieri notte dal premier Giuseppe Conte, di cui però non è ancora uscito il testo con l’elenco ufficiale delle attività chiuse.
GLI AVVOCATI. OCF ha scritto una lettera al ministro Bonafede per chiedere di non chiudere gli studi legali. «L’esclusione degli avvocati dalle categorie autorizzate a lavorare ancora potrebbe causare danni irreparabili», ha scritto il coordinatore Giovanni Malinconico. «Se la notizia risultasse confermata, gli Avvocati italiani e i loro collaboratori, non potendo ricevere alcuno e non potendo accedere ai propri studi (e quindi ai documenti e ai propri strumenti professionali) si troverebbero nella impossibilità di assicurare alle persone, alle organizzazioni e alle imprese la propria assistenza in quegli stessi affari che, pochi giorni or sono, il D.L. n. 18/2020 ha individuato tra le attività essenziali e indifferibili (e per la cui trattazione in modalità sicura è in corso una frenetica attività da parte di Codesto stesso Dicastero)», osserva ancora il coordinatore dell’Ocf. «Ma più ancora», prosegue la lettera a Bonafede, «da tale (ipotetica) esclusione, deriverebbe un gravissimo pregiudizio ai diritti dei cittadini e delle organizzazioni sociali e produttive del nostro Paese, conseguenza che aggiungerebbe, ai gravissimi danni che l’epidemia sta causando, un inammissibile arretramento della nostra civiltà giuridica».
I COMMERCIALISTI. n merito alla chiusura degli studi professionali, il Consiglio nazionale dei dottori commercialisti e contabili ha sottolineato in un comunicato stampa del 20 marzo 2020 che si renderebbe davvero difficile, se non a volte anche impossibile, svolgere a pieno il lavoro di Commercialisti. Pertanto, se gli studi professionali dovessero essere chiusi andrebbero contestualmente sospesi tutti gli adempimenti fiscali e amministrativi.
DL CURA ITALIA. Niente indennità di 600 euro agli agenti di commercio. il ministero dell’Economia chiarisce che avranno accesso al Fondo per il reddito di ultima istanza e assicura che avranno riconosciuta la stessa cifra. Giorgio Pogliotti il 27 marzo 2020 su Il Sole 24 ore. Gli agenti di commercio sono esclusi dalla platea dei beneficiari dell'indennità di 600 euro destinata dall’articolo 28 del decreto legge “Cura Italia” a autonomi, liberi professionisti , stagionali, operai agricoli e lavoratori dello spettacolo. Rientrano, invece, con tutti gli altri soggetti iscritti alle casse, tra i percettori del Fondo per il reddito di ultima istanza, istituito dall’articolo 44 del Dl, per sostenere lavoratori dipendenti e autonomi.
Dal Fondo di ultima istanza un bonus di 600 euro. Il chiarimento arriva dal ministero dell’Economia, che sul sito ha pubblicato le prime Faq sull’applicazione del Dl, ponendo il quesito se hanno diritto all’indennità gli agenti di commercio che, oltre all’iscrizione all’Ago (assicurazione generale obbligatoria) hanno l’obbligo di essere iscritti ad altra forma di previdenza obbligatoria come l’Enasarco. L’esclusione è dovuta al fatto che l’indennità di 600 euro, spiega il Mef, «riguarda solo coloro che non siano iscritti alle altre forme previdenziali obbligatorie». I 230mila agenti e rappresentanti di commercio rientrano,dunque, tra i percettori del Fondo di ultima istanza che, spiega il Mef , «prevede l’assegnazione di 600 euro a testa», le platee dei destinatari «verranno decise a giorni con un provvedimento di prossima emissione». Considerando che il Fondo è finanziato con 300 milioni. in molti si domandano se con una simile “dote” riuscirà effettivamente a coprire tutti gli esclusi dalle altre forme di sostegno al reddito.
Chiarimento chiesto dalle organizzazioni di categoria. Erano state Fnaarc Confcommercio, Filcams Cgil, Fisascat Cisl, UILTuCS Uil, Ugl, Usarci a sollecitare un chiarimento con una lettera inviata al premier Giuseppe Conte e al ministro del Lavoro Nunzia Catalfo, evidenziando da subito dubbi nell'interpretazione letterale del decreto legge “Cura Italia” che «potrebbe portare ad escludere la categoria dal beneficio dell’indennità di 600 euro». Le stesse organizzazioni di categoria avevano poi evidenziato di aver ottenuto un «importante riscontro», perchè in «una dichiarazione video il sottosegretario al Mef Cecilia Guerra ha confermato che gli agenti iscritti sia all’Ago sia all’Enasarco potranno accedere all'indennizzo dei 600 euro». Le sigle di categoria avevano commentato: «l’intervento del sottosegretario Guerra rimuove ogni dubbio d’interpretazione e contribuisce a restituire un po’ di fiducia a una categoria già fortemente penalizzata dalle misure di contenimento della diffusione del Covid-19».
Bonus 600 euro, non previsto per gli iscritti alle Casse Previdenziali di categoria? Tra i grandi esclusi del Bonus 600 euro del Cura Italia vi sono i professionisti iscritti agli ordini. Ad essi spettano aiuti di altro tipo. vediamo di cosa si tratta. Pietro Pisello, pubblicato il 25 Marzo 2020 su investireoggi.it. Con il Decreto Cura Italia, il decreto del presidente del consiglio dei ministri del 16 marzo 2020, fra le tante misure, è stato previsto anche un Bonus da 600 euro per commercianti, artigiani e gli altri lavoratori autonomi, per i danni subiti dagli inevitabili riflessi economici dovuti all’emergenza Coronavirus. Fra i grandi esclusi del bonus 600 euro, a Gli aiuti per i professionisti iscritti agli Ordini da Governo e Casse di previdenza.
Almeno fino a ora, rientrano i soggetti iscritti a casse di previdenza di categoria (avvocati commercialisti geometri). Per fortuna, per essi si stanno muovendo meccanismi di welfare differenti. Vediamo meglio di cosa si tratta. Coronavirus, le azioni mirate delle Casse professionali. Come ha evidenziato ilsole24ore.it, per arginare, quantomeno sul piano economico, i riflessi di questa emergenza, le casse previdenziali dei professionisti non stanno a guardare, e, anzi, starebbero per mettere in campo differenti meccanismi di welfare rivolti ai propri iscritti.
Sostanzialmente, per essi sono previsti tre tipi di aiuti:
Sospensione di versamenti e adempimenti;
Copertura sanitaria per gli iscritti e le loro famiglie;
Gestione dei problemi contingenti tra cui la scarsa liquidità.
Ad ogni modo, saranno le stesse casse di provenienza a comunicare ai propri iscritti i dettagli delle misure intraprese.
Le misure del Dl 18/2020 messe in campo per i professionisti e gli aiuti di welfare proposti dalle Casse di previdenza di categoria. Federica Micardi il 24 marzo 2020 su Il Sole 24 ore. La guida al decreto coronavirus (Dl18/2020) in edicola mercoledì 25 marzo propone una bussola per orientarsi tra gli interventi messi in campo, per ora, dal Governo. Tra gli approfondimenti, accanto a fisco, riscossione, ritenute, giustizia tributaria, lavoro, Cig e previdenza ci sono anche le misure messe in campo per i professionisti sia dal Governo che dalle Casse di previdenza di categoria. Il Dl cura Italia per ora non include i professionisti iscritti agli Ordini tra coloro che sono destinatari dei 600 euro previsti per le partite Iva , i lavoratori autonomi e i collaboratori (la partita però è ancora aperta). Potranno invece accedere alle misure di sostegno finanziario contemplate dall'articolo 56, alle agevolazioni per l'accesso al credito contenute nell'articolo 49 e al fondo di 300 milioni per il reddito di ultima istanza insieme a dipendenti e partite Iva. In attesa di uno scenario più chiaro le Casse di previdenza dei professionisti stanno elaborando strategie per gestire l'emergenza attraverso politiche di welfare. Sono sostanzialmente tre le direttrici su cui si stanno orientando: azioni immediate come la sospensione di versamenti e adempimenti per non gravare sugli iscritti , aiuti in caso di contagio o quarantena, gestione dei problemi contingenti tra cui la scarsa liquidità. Vediamo nel dettaglio cosa hanno deliberato, fino ad oggi, le diverse Casse (le schede riportano le decisioni assunte fino al 25 marzo e saranno periodicamente aggiornate) .
CF - Cassa forense
Proroghe. Sospensione di versamenti e adempimenti fino al 30 settembre 2020.
Copertura sanitaria. Per gli iscritti e le loro famiglie sono stati previsti due servizi: la possibilità di attivare a titolo gratuito la Card Vis-Valore in Sanità, valida un anno, che consente di accedere a strutture sanitarie a costi calmierati. Possibile inoltre avere consulti telefonici o video nel caso in cui si evidenzino sintomi da coronavirus. Accanto alle misure straordinarie c'è una serie di tutele che l'ente fornisce e che può essere attivata.
CIPAG - Cassa geometri
Proroghe. Sospesi tutti i versamenti in scadenza fino a maggio e automatica proroga in relazione all'eventuale perdurare dello stato di emergenza sanitaria.
Copertura sanitaria. Per iscritti e pensionati in attività c'è un'assistenza sanitaria integrativa attraverso UniSalute. Indennità tra mille e 10mila euro per assistenza sanitaria. Indennità in caso di contagio da Covid-19 o di quarantena; possibili consulti specialistici a distanza per qualsiasi patologia.
Altri interventi. Supporto per l’accesso al microcredito.
Cassa notariato - Notai (aggiornamento del 25 marzo)
Proroghe. Sospensione fino al 26 maggio 2020 dei termini relativi al versamento dei contributi previdenziali . La sospensione riguarda soltanto ed esclusivamente i contributi previdenziali dovuti alla Cassa.
Copertura sanitaria. La polizza sanitaria della Compagnia Reale Mutua Assicurazione, sottoscritta dalla Cassa a favore di tutti i notai, prevede una indennità sostitutiva per i ricoveri a carico del Ssn, indennità che è stata estesa, gratuitamente, fino alla scadenza contrattuale del 31/12/2022, anche ai ricoveri per Covid-19 nonché alla quarantena domiciliare nei casi di positività.
Altri interventi. Definita una convenzione con Ubi Banca per la concessione ai notai di un finanziamento chirografo a tassi agevolati (finanziamento chirografo -18 mesi- regolato al tasso euribor 3m + 1,10%.).
CNPADC - Commercialisti
Proroghe. Contributi e adempimenti sospesi sino al 31 ottobre 2020, anche quelli rateizzati. Sospeso anche il versamento dei minimi previsti per il 2020.
Copertura sanitaria. Polizza sanitaria gratuita che copre i grandi eventi morbosi e le spese sanitarie legate all'infezione da Covid-19; la polizza prevede anche indennizzi in caso di ricovero o quarantena.
Altri interventi. La Cassa intende aiutare gli studi in crisi di liquidità, e sta definendo le modalità per farlo. Previsti interventi assistenziali per i professionisti in comprovato stato di bisogno anche per effetto dell'epidemia da Covid-19. Per gli iscritti più giovani, è stato prorogato al 30 aprile il bando per l'acquisto di hardware e software ad uso ufficio, di particolare utilità per lavorare in smart working.
CNPR - Ragionieri
Proroghe. Sono state lasciate le scadenze naturali, ma gli iscritti avranno la facoltà di pagare fino al 30 aprile 2020 senza di sanzioni e interessi. Nessun problema per chi ha in corso una rateazione, la rata non pagata slitta in automatico in coda al piano di ammortamento
Copertura sanitaria. Prevista una copertura per i grandi eventi morbosi (con insufficienza cardiaca e respiratoria). Previsti anche sussidi a favore degli iscritti che a seguito del virus abbiano sostenuto spese documentate che incidono sul bilancio familiare.
ENPACL - Consulenti del lavoro
Proroghe. Versamenti posticipati e da effettuare tra settembre e dicembre. (per chi è in ex zona rossa a dicembre). Sospese fino a settembre le rateazioni in corso.
Copertura sanitaria. Per gli under 75 dal 1° aprile c'è una copertura assicurativa in caso di decesso. In caso di quarantena o isolamento disposta dall'autorità riconosciuta una provvista di 3mila euro e in caso di ricovero di 10mila euro.
Altri interventi. Accesso al credito con finanziamenti fino al 20% del volume d'affari (max 50mila euro), a tasso agevolato.
ENPAB - Biologi
Proroghe. Sospese le rateizzazioni fino al 30 giugno (per chi risiede nella prima zona rossa sospensione dei contributi fino al 31 dicembre).
Riguardo ai minimi, il Cda intende procedere alla sospensione dell'acconto con scadenza ad aprile e giugno.
Copertura sanitaria. Previsto un piano di tutela sanitaria per gli iscritti tramite Emapi e anche una copertura per eventi morbosi e calamità naturali.
L’ente il 23 marzo ha deciso equipara alla malattia il periodo trascorso in quarantena con sorveglianza attiva o in permanenza domiciliare fiduciaria con sorveglianza, in questo modo riconosce un’indennità economica che si può sommare anche ad altra copertura assicurativa, ad esempio Emapi, che interverrebbe per il periodo di ricovero.
Altri interventi. L’ente offre assistenza fiscale gratuita a tutti gli iscritti in regime forfettario, senza più il limite di reddito dei 30mila euro. Le domande vanno presentate entro il 30 aprile.
ENASARCO - Agenti e rappresentanti di commercio
Tutela sanitaria. Il contagio da Covid-19 è ricompreso nei casi di ospedalizzazione previsti dalla copertura sanitaria integrativa fatta dall'ente per gli iscritti.
Altri interventi. L'ente ha portato a 8,4 milioni di euro lo stanziamento economico in favore degli agenti in difficoltà, le risorse sono state recuperate dagli stanziamenti inizialmente previsti per asili nido. L’ente intende aumentare il budget di altri 2 milioni e sta definendo i criteri per accedere a un sostegno economico straordinario per gli iscritti.
ENPAM - Medici e odontoiatri
Proroghe. Versamenti contributivi posticipati al 30 settembre; slittamento a settembre anche per il versamento rateizzato.
Copertura sanitaria. Medici di famiglia, guardia medica e dell'emergenza territoriale coperti da una polizza che interviene anche in caso di contagio da Covid-19. Per chi svolge solo la libera professione un contributo di 82,78 euro al giorno in caso di quarantena imposta dall’autorità. Introdotta una tutela simile anche per i convenzionati in attesa dell’approvazione ministeriali.
ENPAP - Psicologi
Proroghe. Sospesi dal 23 febbraio al 30 aprile 2020 gli adempimenti e i versamenti contributivi in scadenza nel periodo,il recupero crediti e le rateazioni in atto.
Copertura sanitaria. Il bando per erogare l'indennità di malattia sarà mensile, per velocizzare l’erogazione; prevista una diaria per gli iscritti che si ammalano o che sono messi in quarantena dall’autorità sanitaria. Attivata una nuova copertura che garantisce un contributo significativo agli eredi in caso di decesso dell'iscritto a causa del Covid-19.
ENPAV - Veterinari
Proroghe. Sospensione del pagamento di tutti i contributi in scadenza: rateazioni, dilazioni, minimi, eccedenze e così via dal 21 febbraio al 31 maggio incluso. Possibile su richiesta sospendere i pagamenti delle rate dei prestiti.
Copertura sanitaria. Accanto alla polizza assicurativa l’ente ha previsto erogazioni una tantum straordinarie per il Covid-19: mille euro in caso di quarantena o isolamento disposto dall'autorità; in caso di ricovero dai 2mila ai 4mila euro a seconda della gravità.
EPAP – Pluricategoriale (attuari, chimici e fisici, geologi, dottori agronomi e dottori forestali)
Proroghe. Sospesi per agronomi, forestali, attuari, chimici, fisici e geologi i termini relativi agli adempimenti e ai versamenti dei contributi previdenziali in scadenza nel periodo dal 23 febbraio al 30 giugno 2020. Gli adempimenti e i pagamenti dei contributi previdenziali e assistenziali sospesi sono effettuati dal 1° luglio mediante rateizzazione in cinque rate mensili di pari importo.
Copertura sanitaria. L’ente ha sottoscritto la polizza Emapi.
EPPI – Periti industriali (aggiornamento del 24 marzo)
Proroghe. Sospesi adempimenti e versamenti contributivi fino al 15 novembre 2020, con la possibilità di pagare i contributi a partire dal 16 novembre in 12 rate mensili di pari importo senza maggiorazione; sospensione degli addebiti per le rateizzazioni in corso sino al mese di novembre; sospensione sino al 15 novembre 2020 delle nuove azioni di riscossione coattiva con eccezione delle azioni di recupero già avviate mediante azioni giudiziali; sospesi dal 23 febbraio e fino al 15 novembre i termini di decadenza per le domande di prestazioni previdenziali e assistenziali; previsto il rilascio del Durc per l'anno 2020 senza considerare gli importi dovuti a titolo di primo acconto 2019.
Copertura sanitaria. Previsto un contributo economico per i giorni di ricovero in terapia intensiva e non, e per i giorni di quarantena con sorveglianza attiva o in permanenza domiciliare fiduciaria con sorveglianza attiva;
rimborso delle spese funerarie, in caso di decesso a causa del Covid-19 del professionista o di un membro della sua famigli (coniuge e figli a carico).
Altri interventi. Sono allo studio un provvedimento specificatamente dedicato per il sostegno al reddito.
INARCASSA - Ingegneri e architetti
Proroghe. 1° e 2° rata dei contributi pagabili entro il 31 dicembre; i versamenti rateali riprenderanno dal 31 agosto.
Copertura sanitaria. In caso di ricovero per Covid-19: indennità giornaliera di 30 euro per massimo 30 giorni. Previsto per l’iscritto e per la sua famiglia un sussidio di 5mila euro in caso di decesso; 3mila euro per ricovero; 1.500 euro per positività senza ricovero.
Altri interventi. Il budget per il welfare, ora di 42 milioni, aumenterà di 100 milioni presi dall'avanzo di bilancio 2020.
Decreto Cura Italia ignora le badanti, svista o razzismo? Iuri Maria Prado de Il Riformista il 22 Marzo 2020. Tante famiglie stanno rinunciando e rinunceranno all’opera dei cosiddetti collaboratori domestici. Stanno rinunciandovi già ora per timore del contagio; e ancora in prospettiva ci rinunceranno perché non avranno più abbastanza soldi per remunerare quel servizio. Si tratta di centinaia di migliaia di lavoratori (quasi un milione), per parlare solo dei “regolari”, allocati soprattutto al Nord e cioè nelle regioni più colpite dall’epidemia. Gli italiani spendono (spendevano) quasi sette miliardi all’anno per retribuirli e pagargli i contributi. E una cosa soprattutto accomuna questi lavoratori: sono in gran maggioranza stranieri (80%). Quel che succederà ora si sa benissimo: un po’ saranno licenziati punto e basta; altri saranno messi in nero e rimpolperanno la quota dei tanti che già lavorano senza contratto. Ebbene, che cosa fa il decreto “Cura Italia” per questa gente? Nulla. Nessun sostegno. Nessun aiuto. Evidentemente perché non basta eliminare Salvini dal governo per revocare l’efficienza del solito slogan, magari inespresso ma ben condiviso nel prosieguo progressista: e cioè “prima gli italiani”. Non so se si tratti del fatto grezzo che questi lavoratori non votano, e dunque non ripagheranno nelle urne questa mancata attenzione nei loro confronti. Credo che si tratti piuttosto di un riflesso anche più odioso: e cioè che in maggioranza sono asiatici o dell’Est Europa, dunque non propriamente negri, ma tanto basta a metterli in coda nelle politiche di tutela e anzi a non garantirgliene nessuna. Ed è il medesimo riflesso che illumina un altro campo di segregazione: quello dei carcerati, che il virus possono prenderselo senza tante storie perché il diritto alla salute va bensì protetto, ma a condizione che a reclamarlo siano gli italiani “per bene”. Il razzismo italiano non è solo quello appariscente negli strilli del comiziante xenofobo, che dopotutto è abbastanza semplice denunciare. Il razzismo italiano è anche nella pretesa che gli stranieri, quando pure si accetta che ci invadano, “stiano al loro posto” e cioè nei ranghi più bassi della società, incurvi a tirar su pomodori o a pulire il culo di un Paese vegliardo non importa: basta che rimangano in questa riserva di servaggio che abbiamo creato, e va bene così. Si tratta di una delle poche classi veramente produttive di questo Paese, e molti di questi stranieri farebbero molto meglio di tanti italiani in qualsiasi azienda e nella stessa amministrazione pubblica: e mentre l’Italia unita e solidale si salva nella retorica delle decretazioni straordinarie e canta sui balconi, questi altri si fottano pure.
«Hanno dimenticato il Terzo settore, ma non si riparte senza il sociale». Pubblicato martedì, 24 marzo 2020 su Corriere.it da Elisabetta Soglio. Scandisce bene le parole: «In questa crisi il Terzo settore avrebbe potuto e dovuto avere un ruolo di rilievo, invece non è stato minimamente coinvolto. Ed è stato un grave erro-re». Stefano Zamagni, economista e teorico dell’economia civile, primo presidente dell’agenzia del Volontariato e riferimento di tutti questi mondi, dalla sua Bologna analizza la situazione. «Durante l’emergenza fino a qui non si è voluto fare uso del principio di sussidiarietà da tutti acclamato come necessario. Se c’era un’occasione in cui il coinvolgimento degli Enti di Terzo settore era doveroso era proprio questo perché è in questi momenti che i corpi della società civile esprimono la loro massima potenzia di fuoco, come mi piace definirla».
Come, ad esempio?
«Penso, e ne ho già parlato, a realtà come Ant o come Vidas che seguono malati terminali, hanno una grandissima esperienza e personale altamente qualificato. Ant ha 500 tra medici e infermieri e loro stessi mi hanno detto che se li avessero chiamati si sarebbero messi a disposizione. Penso a tutta la rete di Ail, l’associazione per le leucemie e a tutto il volontariato ospedaliero. Fatte salve le misure di sicurezza, ma quanto sostegno avrebbero potuto dare a medici e infermieri già massacrati da turni e emergenza?».
Come si spiega questa «emarginazione» di tutto il comparto del Terzo settore?
«La sensazione è che sia stato considerato ruota di scorta perché in fondo continua a es-sere visto e vissuto in posizione subordinata».
Che messaggi raccoglie da enti, cooperative e imprese sociali?
«Anzitutto il rammarico per questa mancata chiamata in causa. E poi c’è una grande preoccupazione per il futuro. Pensi al problema delle donazioni: la stragrande maggioranza di queste realtà si regge sul fundraising, completamente fermo, e sulle donazioni che in questo momento si rivolgono ovviamente agli ospedali e alla Protezione civile. Come faranno con tutti i progetti già avviati e con il lavoro a sostegno di bambini, Neet, anziani, disabili, disoccupati, cooperazione internazionale?».
Proposte?
«Spiace dire che anche in questo caso il Governo ha perso un’occasione. Nel decreto da 25 miliardi a sostegno di imprese e famiglie e partite Iva, tutte iniziative sacrosante, andava inserito anche il Terzo settore. Mi auguro che si faccia con il prossimo decreto perché questi non sono figli di un Dio minore e il Paese sta correndo un enorme rischio».
Quale?
«Rischiamo di trovarci con un’Italia più povera dal punto di vista sociale e civile. E sarebbe davvero ironia della storia. Invece va affrontato fin da ora il tema di come si riparte: l’Italia è stata chiusa, ed è stato giusto farlo. Ma chiudere è più semplice che riaprire: allora chiediamoci da ora come si può garantire un tessuto sociale e come il Terzo settore può far fruttare in una fase così decisiva le proprie competenze, le reti, l’esperienza accumulata. In questo senso anche chi fa informazione, e quindi il Corriere con Buone Notizie, può avere un ruolo cruciale».
Professore, lei in questi giorni ha contatti con volontari e operatori sociali?
«Di continuo. Molti sono delusi per il mancato coinvolgimento, tutti sono preoccupati per il futuro ma c’è una grande tensione al futuro, una grande energia che mi auguro non vada dispersa».
Ricorda altri momenti di crisi come questo?
«Dal Dopoguerra il nostro Paese non ha mai attraversato una crisi così grave. Questa emergenza ha messo a nudo il fatto che le persone non soffrono solo per le malattie ma anche per la solitudine e l’incertezza. E per questo non si può chiedere l’intervento di ospedali e sanitari, che già stanno facendo miracoli. Per rispondere a questo enorme e diffuso senso di abbandono e di solitudine esistenziale sarà basilare attivare il Terzo settore che già ora si sta dando da fare sfruttando le potenzialità delle tecnologie e l’esperienza delle associazioni. Solo così supereremo insieme questa crisi socio-relazionale e potremo ripartire con un rinnovato tessuto sociale».
Coronavirus, il dramma dei lavoratori stagionali aeroportuali: “Non siamo nessuno per il Governo”. Redazione de Il Riformista il 25 Marzo 2020. Tra i vari drammi nel mondo del lavoro nel corso dell’emergenza coronavirus c’è quello dei lavoratori stagionali aeroportuali che si ritrovano, di colpo, senza occupazione e senza alcuna offerta di sostegno da parte del governo. “Da decenni – spiegano in una nota gli stagionali dell’aeroporto internazionale di Napoli – lavoriamo per gli aeroporti di Italia per circa 6-7 mesi l’anno ed abbiamo fatto di questa modalità di lavoro la nostra vita, nonostante la sua precarietà. La diffusione del coronavirus ci ha messi di fronte all’impossibilità di lavorare per un periodo indefinito e dal momento che la nostra azienda ha previsto una cassa integrazione di 12 mesi per i propri dipendenti a tempo indeterminato, quali speranze abbiamo noi, lavoratori stagionali, di tornare a breve ad una vita lavorativa regolare?”. “La nostra crisi – sottolineano – non finirà quando il picco del coronavirus sarà passato, le conseguenze saranno per noi sul lungo periodo e possiamo comprendere che l’attuale urgenza aziendale sia quella di occuparsi ora dei propri dipendenti a tempo indeterminato, ma non possiamo accettare che anche lo stato, in questo momento di sconforto, ci lasci soli”. “I lavoratori con contratto stagionale legato al turismo – precisano – non operano soltanto negli alberghi e nei ristoranti ma anche nei trasporti, nei servizi e nel commercio. Crediamo sia opportuno, pertanto, che anzitutto l’INPS permetta a tutti i sopracitati di poter accedere al bonus di 600 euro previsto dal decreto “Cura Italia” senza distinzione di codice ATECO, per poter poi valutare la creazione di una forma assistenziale e di sostegno come il prolungamento della Naspi”. “Noi precari del trasporto aereo – concludono – siamo tra le prime vittime di questa profonda crisi e non possiamo accettare che ci siano precari sostenuti e precari dimenticati. Deve esserci una soluzione anche per noi, poiché come i rappresentanti del governo ci assicuravano pochi giorni fa, “nessuno perderà il lavoro a causa del coronavirus”.
Coronavirus: “Noi, camionisti senza cibo e bagni: pronti allo sciopero!” Le Iene News il 25 marzo 2020. Durante l’emergenza coronavirus stanno garantendo il trasporto dei beni di prima necessità a tutta l’Italia ma, per il contenimento dei contagi, si trovano chiusa la gran parte di bar e aree di servizio. “Per noi vuol dire non poter mangiare, fare una sosta per un caffè, lavarci, andare in bagno”, ci racconta Michele Perrotti, che lancia per lunedì una protesta di tutti i camionisti. “Ogni mattina portiamo a tutti latte, pane e companatico, non stiamo facendo mancare niente agli italiani in negozi e supermercati, e nemmeno i trasporti che servono per la luce e il riscaldamento delle case. In cambio veniamo trattati come bestie, costretti pure a fare i bisogni per strada coperti dai nostri camion”. Michele Perrotti, proprietario di un’azienda di autotrasporto a Lucera (Foggia), riassume in questo video e quando Iene.it lo sente al telefono tutta la rabbia di un settore. Abbiamo già raccolto lo sfogo di Matteo, un collega (clicca qui per il video e l’intervista): continuiamo a seguire le difficoltà estreme e quotidiane di tantissimi camionisti che ogni giorno ci garantiscono, trasportandoli per l’Italia, i beni di primissima necessità durante l’emergenza coronavirus. E che con la chiusura di bar e aree di servizio per le misure di contenimento dei contagi, raccontano, non riescono più a lavorare e a vivere in maniera decente. “Ci ritroviamo senza poter mangiare, lavarci, persino andare in bagno decentemente. In autostrada devono riaprire le aree di servizio, ne troviamo a disposizione appena il 30% e quasi mai dove e quando per noi è essenziale fare una sosta per un caffè, per mangiare, per andare in bagno. Non possiamo andare avanti così, e siamo pronti a dire basta. Anche noi non possiamo rischiare la pelle così”. “Non parliamo poi delle statali: sulla costa adriatica non c’è un posto aperto da Milano a Bari”, prosegue Peronaci. “Solo sigarette: mica le mangiamo le sigarette! Al massimo si trova un caffè, ed è già difficilissimo: da asporto naturalmente, lo dobbiamo consumare fuori, magari di notte al freddo”. C’è rabbia e delusione nelle sue parole. Delusione per quello che in tanto si aspettavano dal governo e anche dalle associazioni di categoria che li avrebbero “abbandonati”: “Andremo avanti da soli, con il tam tam partendo dai social. Siamo pronti a fermare l’Italia davvero. Ho già lanciato la mia protesta, sono conosciuto, mi seguiranno in tanti: lunedì scioperiamo, non consegneremo più nulla. Nessuna protesta in strada, nessun blocco, semplicemente non usciremo più dalle nostre aree di sosta. Solo così ci ascolteranno e rispetteranno, capendo quanto il nostro lavoro è fondamentale. Basta trattarci come bestie!”.
Andrea Bassi per “il Messaggero” il 26 marzo 2020. «Benché gli alberghi non siano stati ricompresi nell'ultimo dpcm del governo tra le attività da fermare, il 95% delle strutture sono al momento chiuse». Bernabò Bocca, presidente di Federalberghi, non nasconde la sua preoccupazione per il settore che rappresenta. Uno di quelli maggiormente colpiti dalla crisi generata dall'epidemia di coronavirus.
Gli alberghi insomma si sono completamente fermati?
«Come detto le strutture sono chiuse. E lo sono per l'impossibilità fisica dei clienti di raggiungerle. Gli italiani non si possono muovere. Un albergo è una macchina che costa, perché ha dipendenti, ha utenze. Moltissimi imprenditori hanno scelto la strada della chiusura volontaria. Restano aperti gli alberghi che ospitano personale sanitario o parenti di contagiati. Federalberghi sta anche facendo accordi con le Regioni per mettere a disposizione migliaia di camere per i contagiati lievi, quelli che non hanno bisogno di assistenza medica e possono svolgere la quarantena nelle strutture».
Non c'è stato bisogno insomma, delle requisizioni paventate dal governo?
«Non c'è bisogno di nessuna requisizione. Noi le camere le abbiamo sempre messe a disposizione. Lo abbiamo fatto ai tempi del terremoto e con gli immigrati. Gli albergatori italiani non si sono mai tirati indietro».
Le risposte del governo alla crisi del settore le giudicate soddisfacenti?
«Ad oggi abbiamo un solo decreto, il cosiddetto Cura Italia, che per le nostre imprese non prevede nulla».
Nulla?
«Nulla. Avrebbe però dovuto mettere in sicurezza i lavoratori delle imprese colpite».
Perché usa il condizionale. La Cassa integrazione semplificata copre anche il settore alberghiero?
«Guardi, noi siamo perfettamente d'accordo sulla filosofia alla base del decreto, ossia che il primo atto da compiere era quello di mettere in sicurezza i dipendenti. Peccato che questo decreto sia oggi completamente inattuabile».
In che senso inattuabile?
«Glielo spiego. Un'impresa chiusa, come sono chiusi gli alberghi, è un'impresa che non ha cassa, non ha disponibilità liquide».
Dunque?
«Dunque è un'impresa che non può avere uscite, non può fare pagamenti. Giustamente il decreto del governo prevede che la Cassa integrazione in deroga e il Fis, il fondo integrativo salariale, siano pagati direttamente dall'Inps».
Qual è allora il problema?
«Il portale dell'Inps abituato a ricevere mille richieste, oggi ne sta ricevendo decine di migliaia. Quindi per diversi giorni è stato impossibile entrare nel sito dell'Istituto. Solo ieri si è sbloccato. E noi sappiamo già che l'Inps per lavorare queste decine di migliaia di pratiche che stanno arrivando, e quindi procedere ai pagamenti, necessiterà di mesi».
I dipendenti rischiano di rimanere senza aiuti per questo tempo?
«Esatto. Stiamo parlando di persone che guadagnano mille euro al mese e che con quei mille euro fanno la spesa. In questo periodo che cosa faranno. Anzi, le dico di più. Il problema ci sarà già tra pochi giorni. Molti alberghi hanno chiuso all'inizio di marzo, e tra qualche giorno sarà tempo di paga. Le aziende oggi non hanno i soldi per poter anticipare la Cassa integrazione. Rischiamo di lasciare decine di migliaia di persone senza risorse».
Il decreto prevede tuttavia delle misure di sostegno alla liquidità delle aziende. Sono misure delle quali beneficiate oppure no?
«Per quanto riguarda il nostro settore nel decreto Cura Italia c'è un solo paragrafo e riguarda i voucher. Cioè la possibilità per l'albergo di non rimborsare i soldi già ricevuti dal cliente, ma bensì di fare un buono da utilizzare in seguito. Noi oggi ci stiamo molto preoccupando sia della Cassa integrazione, perché siamo un settore labour intensive, e in secondo luogo non riusciamo a capire come mai in questo decreto per gli esercizi commerciali C1, cioè i negozi, ci sono delle agevolazioni fiscali che però non sono state allargate alla categoria D2, quella degli alberghi. Il negozio quando riapre inizierà a riavere i clienti, per un albergo ci vorranno mesi prima che ritornino i turisti ».
Sono molti gli alberghi che non hanno la proprietà delle mura?
«In Italia sono il 40% delle strutture. Per noi sarebbe un segnale molto importante di attenzione da parte del governo se il credito d'imposta del 60 per cento sui canoni fosse allargato anche agli alberghi».
Ci sono altre misure che potrebbero essere utili al settore?
«Noi abbiamo presentato una serie di proposte che speriamo possano essere accolte. A partire da un credito di imposta per gli italiani che decideranno di fare le vacanze in Italia. Questo perché oggi l'unico mercato sul quale possiamo puntare per l'estate è il mercato nazionale».
Si parla della possibilità che nel prossimo decreto del governo, quello che arriverà ad aprile, ci siano anche degli indennizzi per le attività più colpite?
«Noi abbiamo chiesto che ci sia un ristoro per la perdita di fatturato degli alberghi. Non basta spostare in avanti le scadenze tributarie o contributive. Al 30 maggio il settore sarà probabilmente nelle stesse condizioni di oggi. E a giugno dovremo anche pagare le tasse sui risultati di bilancio del 2019 che sono stati dei buoni risultati».
Era un altro mondo
«Totalmente un altro mondo».
Da enpam.it il 27 marzo 2020. L’Enpam verserà – con propri fondi – un’indennità di mille euro a tutti i medici e odontoiatri che svolgono libera professione e che hanno avuto un calo del reddito importante a causa del Covid-19. “E’ un segnale di presenza concreto dell’ente previdenziale nei confronti di tutti coloro non hanno un reddito garantito e che danno tanto al rapporto medico paziente, troppi anche la vita – ha detto il presidente della Fondazione Enpam Alberto Oliveti -. Tutti i colleghi possono contare sull’Enpam come primo aiuto, sapendo che promuoveremo ulteriori iniziative per garantire un supporto in questo periodo drammatico. Allo stesso tempo aspettiamo anche gli interventi, per i quali ci siamo battuti moltissimo, da parte del governo”. La misura andrà a chi esercita unicamente come libero professionista ma anche a chi fa libera professione in parallelo ad attività in convenzione o come dipendente (es: chi fa intramoenia). L’aiuto potrà essere richiesto da tutti gli iscritti non pensionati, senza limiti di reddito.
CHI PUÒ FARE DOMANDA. Potrà fare domanda chi avrà subito, dopo il 21 febbraio 2020, una riduzione del fatturato di oltre un terzo rispetto all’ultimo trimestre dello scorso anno. L’indennità andrà a tutti i liberi professionisti in regola con i contributi previdenziali e per i quali nel 2019 risultino contributi versati su redditi prodotti l’anno precedente.
Per gli iscritti che hanno cominciato l’attività nel 2019 l’Enpam valuterà sussidi assistenziali secondo un canale differente (assistenza di Quota A).
IMPORTO. Quanti hanno versato l’aliquota intera del 17,50% riceveranno l’importo intero di 1.000 euro mentre chi versa l’aliquota dimezzata riceverà il 50%. Il sussidio sarà riconosciuto in proporzione anche a chi versa il contributo ridotto del 2 per cento. A differenza dei 600 euro esentasse che il decreto legge Cura Italia ha stabilito per gli autonomi iscritti alla gestione separata Inps, quest’indennità non verrà finanziata con risorse statali ma con fondi della categoria. L’Enpam ha verificato che la spesa non modificherà gli equilibri di sostenibilità dell’ente.
DURATA. L’indennità di mille euro verrà erogata per la durata dell’emergenza, con un massimo di tre mesi.
TRATTAMENTO FISCALE. L’Enpam ha chiesto che questo beneficio sia esentasse, come esentasse sono i 600 euro dello Stato.
DA QUANDO. La decisione è stata deliberata dal Consiglio di amministrazione dell’Enpam il 26 marzo 2020 ma l’indennità sarà pagabile solo dopo il via libera dei ministeri vigilanti. In ogni caso la Fondazione comincerà a raccogliere le richieste nei prossimi giorni.
MODULI. La procedura per richiedere la prestazione sarà disponibile nell’area riservata del sito enpam.it dalla prossima settimana. Ad ogni modo l’ordine cronologico di presentazione delle domande non sarà rilevante, poiché l’Enpam intende versare l’indennità a tutti gli iscritti che ne hanno i requisiti. Chi non è iscritto all’area riservata del sito Enpam può intanto avviare la registrazione, utilizzando se possibile la metà password ricevuta con l’ultimo modello D.
Cig, bonus e sussidi: ecco chi può averli e come chiederli all'Inps. Il decreto Cura Italia, oltre a blindare il Paese per difenderlo dalla pandemia di coronavirus, ha previsto alcune misure a sostegno di aziende, a lavoratori e famiglia: ecco le circolari dell'Inps su cassa integrazione, bonus 600 euro, congedo parentale e bonus baby sitter. Fabio Franchini, Mercoledì 01/04/2020 su Il Giornale. Cassa integrazione, bonus 600 euro Inps, bonus baby sitter e congedo parentale straordinario. Sono queste le ultime quattro novità, nonché misure a sostegno delle aziende e delle famiglie italiane, previste dal decreto Cura Italia, che oltre a blindare il Paese per difenderlo dalla pandemia di coronavirus, cerca di aiutare l’economia (anche quella domestica) e il mercato del lavoro. Insomma, Cig, bonus e sussidi: chi rientra nei requisiti, può fare richiesta per ottenerli. A tal proposito, onde evitare errori o fraintendimenti, il nostro consiglio è quello di recarsi sul sito istituzionale dell’Inps e reperire le circolari 44/2020, 45/2020, 47/2020 e 49/2020, con le quali l’Istituto nazionale della revidenza sociale fornisce agli utenti il quadro dei requisiti necessari e delle modalità di accesso alle misure di sostegno contenute nel Decreto Legge n. 18 del 17 marzo 2020 (il Cura Italia, appunto). Procediamo con ordine e vediamo come fare.
BONUS 600 EURO INPS. Si tratta di un servizio previsto dall'Inps con la circolare numero 49 del 2020 e che istituisce un'indennità di 600 euro per tutti i lavoratori autonomi come le partite Iva. Peraltro proprio oggi, mercoledì 1 aprile, è il primo giorno possibile per inoltrare le richieste all'ente, ma l'accesso dal portale sta dando più di qualche problema, già a partire dalla tarda serata di ieri, allo scoccare della mezzanotte di martedì 31 marzo. Sito in tilt a parte, si può fare domande accedendo al sito Inps con le proprie credenziali - Spid o Pin - oppure contattando il Contact center (803 164 da rete fissa oppure al numero 06 164164 da rete mobile), o i patronati, ma solo se si rientra in una di queste tipologie: i lavoratori autonomi (commercianti, artigiani e coltivatori diretti), i liberi professionisti non iscritti a casse di previdenza obbligatoria, i collaboratori coordinati e continuativi, i lavoratori stagionali e quelli dello spettacolo.
CASSA INTEGRAZIONE. La circolare numero 47 del 2020 dell’Inps regole l'accesso per le aziende al trattamento ordinario di Cassa integrazione guadagni (Cigo), all'assegno ordinario e alla Cassa integrazione in deroga, il tutto con causale "COVID 19 nazionale". Per la concessione della Cigo e dell’assegno ordinario non sarà necessario dimostrare la non imputabilità e la temporaneità dell'evento né comunicare la data di ripresa della normale attività, così come non è richiesta alcuna relazione tecnica e non è necessario compilare la scheda causale. La Cigo e l'assegno ordinario potranno avere durata massima di 9 settimane per periodi che vanno dal 23 febbraio al 31 agosto 2020. I lavoratori per i quali si chiede l’erogazione del servizio devono essere già dipendenti dell'azienda alla data del 23 febbraio 2020. Per quanto concerne i datori di lavoro del settore privato che non possono accedere agli strumenti ordinari di cassa integrazione, è previsto che le regioni e le province autonome possano riconoscere trattamenti di Cassa integrazione salariale in deroga, per il periodo di sospensione del rapporto di lavoro e per la durata massima di nove settimane. Per le aziende plurilocalizzate che non possono accedere agli strumenti ordinari di cassa integrazione e che hanno unità produttive ubicate in cinque o più Regioni, la domanda di cassa integrazione in deroga deve essere autorizzata dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali.
CONGEDO PARENTALE STRAORDINARIO. Del congedo parentale straordinario vi avevamo già dato notizia con il nostro speciale #Antivirus. Si tratta di un’opportunità data ai genitori-lavoratori di ottenere 15 giorni di congedo anche al 50% dello stipendio, per badare ai figli con meno di 12 anni. Ma vi sono anche altre casistiche, e altri paletti, per usufruire del servizio messo a disposizione dall’Inps con la circolare 45/2020. Il congedo parentale straordinario è concesso anche agli affidatari e ai genitori di figli disabili di qualsiasi età, è fruibile in modo unico o spezzettato ed è fruibile sia da dipendenti pubblici sia privati e autonomi (cambierà, però, in questo caso, la modalità della domanda). Ricordiamo come il congedo non possa venire richiesto se una famiglia ha uno dei due genitori disoccupati, se uno dei due prende la disoccupazione o il reddito di cittadinanza, e se è già stata avanzata richiesta per il bonus baby sitter. Coronavirus, ecco come ottenere il congedo parentale straordinario.
BONUS BABY SITTER. Dicevamo appunto del bonus baby sitter. Bene, l’agevolazione previsto dal decreto Cura Italia è stata recepita dall’Inps con la circolare 44/2020. Si tratta, in soldoni, di un voucher da 600 a vantaggio delle famiglie, che possono così utilizzarlo per richiedere il servizio di baby sitting. E da oggi, così come l'indennità di 600 euro per gli autonomi, è possibile richiederlo all'Inps. Il buono è destinato solo alle famiglie per l'assistenza e la sorveglianza dei figli di età non superiore ai 12 anni e, come scritto dall’Inps stesso, "viene riconosciuto, per un importo fino a 1.000 euro, anche ai lavoratori dipendenti del settore sanitario, pubblico e privato accreditato, appartenenti alla categoria dei medici, degli infermieri, dei tecnici di laboratorio biomedico, dei tecnici di radiologia medica e degli operatori sociosanitari, nonché al personale del comparto sicurezza, difesa e soccorso pubblico impiegato per le esigenze connesse all'emergenza sanitaria causa pandemia di coronavirus". Le domande vengono prese in considerazione in ordine cronologico e fino all'esaurimento dei fondi complessivamente stanziati e destinati alla misura agevolativa. Le domande per ottenere il voucher, potranno essere presentate tramite: applicazione web online disponibile su portale istituzionale Inps (questo il percorso da seguire sul sit: Prestazioni e servizi > Tutti i servizi > Domande per Prestazioni a sostegno del reddito > Bonus servizi di baby sitting); contact center integrato (al numero verde 803.164 gratuito da rete fissa, o al numero 06 164.164 da rete mobile con tariffazione a carico dell'utenza chiamante); patronati e attraverso i servizi offerti gratuitamente dagli stessi.
Da lettera43.it il 27 marzo 2020. Perché stamattina la prima riunione della cabina di regia fra governo e opposizioni sui provvedimenti economici per affrontare l’emergenza coronavirus si è svolta nella sede del ministero per i Rapporti con il parlamento e non a Palazzo Chigi? Perché ha visto coinvolti, con i capigruppo e i responsabili economici dei partiti di opposizione, solo il ministro per i rapporti con il Parlamento, Federico D’Incà, i viceministri dell’Economia Laura Castelli e Antonio Misiani con le sottosegretarie Cecilia Guerra e Simona Malpezzi? Certo, c’era in video collegamento il ministro Roberto Gualtieri, ma insomma, ci si aspettava qualcosa di più. Il fatto è che negli ultimi giorni il livello di scontro tra presidenza del Consiglio e ministero dell’Economia è stato altissimo, tanto che è dovuto intervenire il Quirinale, seppure in modo discreto e informale attraverso il segretario generale Ugo Zampetti. I momenti più alti della querelle sono stati due. Il primo sui 600 euro da dare ai lavoratori autonomi, norma ricompresa nel primo decreto economico: per Gualtieri, spalleggiato dalla burocrazia del Tesoro, erano troppi (ai fini degli effetti sul bilancio, ovviamente), per Conte erano pochi. «Chiedi al Ragioniere generale, se non ci credi che così andiamo a put…», ha sbottato il ministro a un certo punto, rivolto al premier. Secondo momento, ancora più grave: la possibile rottura con l’Europa. Per Gualtieri, una vita passata a Bruxelles, la minaccia è come una bestemmia in Chiesa. Ma Conte manco gli parla più. Dunque, ora ciascuno va per la sua strada. Ma così non può andare avanti. Chi vince? Dopo giorni di resistenza, alla fine il Tesoro finirà per capitolare. Ma questo non significa la vittoria di Conte. Che viene accusato da tutti, 5 stelle in testa ma anche da molti esponenti di punta del Pd, di aver sbagliato le scelte degli uomini, usando quello che nella Roma dei palazzi viene definito il “metodo Alpa” (dal nome dell’avvocato con cui Conte prima lavorava), e cioè scelgo sempre l’amico fidato. In questo senso, prima di tutto gli si imputa di aver optato per Domenico Arcuri anziché per Guido Bertolaso, da tutti – per primo il numero uno della Protezione Civile Angelo Borrelli – ritenuto più idoneo a fare il commissario all’emergenza. La seconda scelta che gli viene contestata è Gennaro Vecchione al Dis, da tutti ritenuto poco idoneo al ruolo e oggi oltretutto in aperto contrasto con il Copasir, presieduto dal leghista Raffaele Volpi. Tanto che nella sua ultima riunione, mercoledì 25 marzo a palazzo San Macuto, il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica ha dovuto polemicamente sollecitare il governo a trovare soluzioni per evitare che soggetti esteri possano approfittarsi del coronavirus per mettere le mani sulle realtà industriali e finanziarie italiane o per metterle in difficoltà ed ereditare così le loro quote di mercato, dopo aver inutilmente chiesto ai Servizi di fare qualcosa. Così che Conte è stato costretto a rispondere in parlamento promettendo per proteggere i più preziosi asset strategici si userà il «prossimo provvedimento normativo che stiamo predisponendo per aprile».
Coronavirus, conferenza stampa di Conte: “Subito fondi ai comuni”. Debora Faravelli il 28/03/2020 su Notizie.it. Conte ha annunciato in una conferenza stampa che i comuni avranno a disposizione del denaro per aiutare le famiglie in difficoltà durante l'emergenza coronavirus. É terminata la conferenza stampa di Giuseppe Conte: all’ordine del giorno nuove misure a favore dei sindaci che potranno usufruire subito di 4 miliardi e 700 milioni per aiutare le famiglie in difficoltà. Conferenza stampa di Giuseppe Conte:
“Come prima cosa permettetemi di rivolgere un commosso pensiero per i familiari delle vittime. C’è un altro dato che nello stesso tempo ci incoraggia: oggi segnaliamo il numero più alto di guariti. Ci confronteremo con gli scienziati e confidiamo che ci portino nuove notizie. Noi ci manteniamo sempre vigili e attenti per adeguare le nostre valutazioni sulla base delle loro raccomandazioni. Oggi vogliamo anche dare un segno concreto della presenza dello stato: siamo consapevoli che ora in tanti soffrono, non tutti eravamo abituati a stare in casa e limitare gli spostamenti. Ma ci sono anche sofferenze materiali e qui, con i ministri, abbiamo lavorato intensamente per varare subito un provvedimento di grande impatto coinvolgendo i sindaci, le nostre prime sentinelle per quanto riguarda le comunità locali e affidandoci a loro. Ho appena firmato un DPCM che dispone che la somma di 4 miliardi e 300 mila verrà messa sul Fondo di Solidarietà Comunale. Con una ordinanza della Protezione Civile aggiungiamo 400 milioni che destiniamo ai comuni con il vincolo di utilizzarle per le persone che non hanno i soldi per fare la spesa. Da qui nasceranno buoni spesa ed erogazioni di generi alimentari. Deve nascere una catena di solidarietà: abbiamo anche previsto misure rafforzate per favorire le donazioni. Faccio un appello alla grande distribuzione affinché possa aggiungere un 5-10% di sconto a chi acquista con questi buoni spesa. Stiamo lavorando intensamente anche per dimezzare o meglio azzerare i tempi della burocrazia in modo che chi aspetta la cassa integrazione e i vari bonus li possa ricevere il prima possibile. Vi chiedo di comprendere questo sforzo. Purtroppo la macchina statale comprende procedimenti lunghi ma noi stiamo facendo di tutto per azzerarli“.
Ha poi lasciato la parola al ministro Gualtieri che ha spiegato come i sindaci potranno utilizzare i soldi sia per l’erogazione di buoni spesa che per la distribuzione diretta di prodotti alimentari e di prima necessità. “La misura sarà operativa già da domani mattina (29 marzo). Ringrazio il Presidente dell’Anci per questo sforzo straordinario“.
Presente in videocollegamento, Antonio Decaro ha chiarito che il provvedimento ha zero burocrazia e che le risorse verranno distribuite in base alla popolazione e al loro indice di povertà.
Proroga delle misure restrittive oltre il 3 aprile. In chiusura il Premier ha anche specificato che le attività didattiche, come anticipato dal ministro Azzolina, continueranno ad essere sospese anche oltre il 3 aprile 2020. Per quanto riguarda quelle produttive, “è una misura che allo stato non sappiamo ancora. All’inizio della settimana inizieremo a lavorarci e riteniamo che comunque questa sia una misura conveniente. Confidiamo che da questa sospensione ne possa derivare una fuoriuscita quanto più rapida possibile“.
Richiesta del bonus di 600 euro dal 1 aprile. Sul 1 aprile sul sito dell’Inps sarà possibile fare la domanda e avere erogati i 600 euro per coloro che ne hanno diritto. “Vogliamo rafforzare questa misura e allargarla a tutti i cittadini che ne hanno bisogno“, ha chiarito Gualtieri.
Cos’è il REM, il Reddito di emergenza per 10 milioni di italiani destinato anche ai lavoratori in nero. Redazione de Il Riformista il 29 Marzo 2020. “Erogare un aiuto a chi ne ha bisogno, perché non ha altre fonti di reddito ed è ancora fuori dai 600 euro, in modo ancora più rapido, efficace, universale, adeguato”. È così che il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri ha di fatto annunciato nella conferenza di ieri a Palazzo Chigi la prossima introduzione del REM, il Reddito di emergenza, una misura economica che dovrebbe riguardare anche precari e irregolari. Non sarà un nuovo reddito di cittadinanza rivisto o corretto, ma una misura eccezionale per tempi eccezionali.
Una platea che potrebbe aggirarsi attorno ai 10 milioni di italiani, col governo che dovrebbe stanziare 6 miliardi per aumentare i 600 euro alle partite Iva ed estenderli ai lavoratori ‘sommersi’, a colf e badanti, ai lavoratori stagionali come bagnini, operatori del turismo e della ristorazione, alle guide turistiche, a chi ha finito il sussidio di disoccupazione e tutti coloro che lavorano con contratti brevissimi, dalla durata massima di qualche mese. Proprio l’inserimento dei lavoratori assunti in nero è quella più controversa, dato che di fatto non contribuiscono al pagamento delle tasse e all’ecosistema fiscale. Ma l’urgenza di una misura simile è dovuta al rischio, soprattutto nel Mezzogiorno, di rivolte sociali dovute “alla fame”, come denunciato dal ministro Giuseppe Provenzano e anche da Papa Francesco, con i primi casi di assalti ai supermercati già avvenuti nei giorni scorsi a Palermo. GLI AIUTI A COMUNI E FAMIGLIE – “Ho firmato un Dpcm che stanzia 4,3 miliardi da girare al Fondo di solidarietà per i Comuni. E’ un anticipo del 66%. Destiniamo dunque altri 400 milioni ai comuni, per le persone che non hanno soldi per fare la spesa”. Sono queste invece le misure annunciate ieri in conferenza stampa dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Si tratta nel caso dei 4,3 miliardi di un anticipo rispetto alla scadenza prevista a maggio, mentre i 400 milioni destinati alla Protezione civile sono vincolati agli aiuti ai cittadini in difficoltà tramite buoni spesa e derrate da distribuire anche grazie al volontariato e alle associazioni del terzo settore.
Dai prestiti garantiti alle tasse sospese, cosa c’è nel decreto liquidità da 400 miliardi. Redazione de Il Riformista il 7 Aprile 2020. Anche l’Italia spara con il suo bazooka. Quattrocento miliardi, una “potenza di fuoco”, come la definisce il premier, Giuseppe Conte, nell’ormai consueta conferenza stampa all’ora di cena, al termine di un Cdm durato quasi tutto il giorno. Liquidità immediata con 30 miliardi appostati a sostegno di garanzie statali appunto per 400 miliardi di euro destinati alle imprese, “piccole, medie e grandi”. Di questi 400 miliardi, la metà è destinata al mercato interno e l’altra metà all’export. In tutto, tenuto conto dei provvedimenti adottati a marzo, il Cura Italia si attesta a quota 750 miliardi. E’ più che una boccata d’aria per la nostra economia che guardia con ansia a quando il Governo allenterà la morsa delle misure di sicurezza e, gradatamente, si potrà ripartire. Un tema, quello della ripartenza, che il presidente del Consiglio sfiora appena al termine del suo intervento: dopo il 13 aprile verrà fatta un’analisi della situazione con gli scienziati, “azzardare una data” adesso non avrebbe senso.
SACE E CDP – Non è stato facile raggiungere l’intesa all’interno della maggioranza, la divergenza di vedute tra Italia Viva e il Movimento 5 Stelle si è fatta sentire, due i temi di discussione: la soglia garantita dallo Stato per i prestiti che impartito di Matteo Renzi voleva al 100 percento per tutti; il ruolo di Sace, controllata di Cassa Depositi e Prestiti, che il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri puntava a portare dentro il Tesoro. “Sace è e resterà nel perimetro di Cdp”, assicura Conte, ma con il coordinamento del Mef. Di Maio, intanto, battezza l’accordo tra via XX Settembre e Maeci grazie al quale lo Stato assicurerà 50 miliardi di garanzie date da Sace agli esportatori, liberando 50 miliardi per nuove garanzie. Dal 2021, poi, a queste garanzie si aggiungeranno altri 200 miliardi per nuovi investimenti per il lavoro e la ripartenza del Paese sui mercati nazionali ed internazionali.
FONDO DI GARANZIA – Il ministro Gualtieri spiega poi che i prestiti saranno garantiti al 90 percento dallo Stato, “senza limiti di fatturato, per imprese di tutti i tipi. Potranno arrivare al 25% del fatturato delle imprese o al doppio del costo del personale con un sistema di erogazione molto semplice e diretto al sistema bancario, attraverso Sace, con condizionalità limitate tra cui quella di non poter erogare dividendi”. I prestiti andranno restituiti entro sei anni. Il ministro del Mise, Stefano Patuanelli, sottolinea invece un altro passaggio e cioè che “il nostro sistema produttivo è anche fatto di tante piccole partite iva, artigiani, autonomi, professionisti. Per questo mondo abbiamo rafforzato uno strumento che conoscono già, il fondo centrale di garanzia, che portiamo con la possibilità di un prestito fino a 5 milioni di euro al 90% garantito dallo Stato. Per i più piccoli, fino a 25mila euro di prestito ,la garanzia dello Stato sarà al 100% con una procedura priva di vincoli e valutazioni andamentali da parte delle banche. Quando si difende il proprio Paese non si fanno calcoli. Io sono convinto, lo dico con tutta la prudenza che mi contraddistingue, che la storia è con noi. E vedremo alla fine quale piega prenderà.
IVA E GOLDEN POWER – Fanno parte del decreto anche una serie di misure, come lo stop delle ritenute e dei contributi assistenziali e previdenziali e i premi di assicurazione obbligatoria sul lavoro dipendente e dei versamenti dell’Iva a favore degli esercenti attività di imprese, arti e professioni anche per aprile e maggio che da solo vale quasi dieci miliardi di euro. A tutto questo si unisce pure il rinvio di alcuni adempimenti fiscali e l’atteso ampliamento del golden power. “Controlleremo scalate eventualmente ostili non solo nei settori tradizionali ma anche ai settori finanziario, energia, trasporti, acqua, sicurezza alimentare, cybersicurezza, intelligenza artificiale, salute agricoltura”, la spiegazione finita da Conte.
Le “mancette” del Governo Conte bis: ecco il decreto rilancio…..Il Corriere del Giorno il 14 Maggio 2020. Dopo quasi un mese e mezzo di attesa, arriva il testo definitivo con delle novità sulle tasse, imprese e bonus per autonomi. Doveva essere varato ad aprile, poi ai primi di maggio, ed invece è arrivato a metà di maggio il via libera del governo. Milioni di italiani nel frattempo aspettavano da tempo l’accredito per la cassa in deroga ma senza alcun riscontro. Il premier Conte in conferenza stampa da Palazzo Chigi ha annunciato nuove misure che riguardano soprattutto la cassa integrazione. Il dl Rilancio che si attendeva ormai da mesi è stato finalmente approvato in Consiglio dei Ministri. Ecco il testo completo del provvedimento del Decreto Rilancio approvato dal Consiglio dei Ministri:
Bonus autonomi da 800 a 1.000 euro. Confermati i bonus da 800 euro per le partite Iva e i collaboratori. Per gli autonomi si sale fino a 1.000 euro per chi dimostra di avere avuto perdite di fatturato fino al 33%. Esteso il bonus fino a 600 euro per colf e badanti. Semaforo verde al reddito di emergenza per chi non ha altri sostegni e ha un reddito basso con Isee fino a 15 mila euro: il bonus dovrebbe essere per due mesi e va dai 400 euro per i singoli agli 800 per nucleo familiare.
Un miliardo per il reddito di emergenza. Ammonta ad un miliardo lo stanziamento previsto per il reddito di emergenza. In particolare è autorizzato un limite di spesa di 954,6 milioni per il 2020 da iscrivere su apposito capitolo dello stato di previsione del ministero del Lavoro denominato «Fondo per il Reddito di emergenza», oltre a 5 milioni per gli oneri per la stipula della convezione con l’Inps. L’importo del Rem sarà tra i 400 e gli 800 euro mensili per un bimestre. Le domande andranno presentate entro giugno. Le norme prevedono limiti di reddito e di patrimonio ed escludono i detenuti.
Aiuti a fondo perduto: fino a 50 mila euro alle aziende in difficoltà. Un aiuto a fondo perduto, da un minimo di 1.000 euro fino a un massimo di 50 mila euro, pagato con un bonifico da parte dell’Agenzia delle Entrate. La misura sarà riservata alle aziende che nel 2019 avevano un fatturato fino a 5 milioni di euro. L’intervento scatterà in caso di perdite di fatturato tra aprile 2019 (di piena attività) e aprile 2020 (totale lockdown). Il sostegno arriverà (con un bonifico) a chi ha avuto perdite per almeno 1/3 del fatturato. Tre gli scaglioni: 25% della differenza se si fattura fino a 100 mila euro; scende al 20% fra 100 e 400 mila euro; ed al 15% fino a 5 milioni di euro. Eccovi un esempio pratico: nel 2019 il fatturato della vostra impresa/società/ditta è stato di 350 mila euro, nel mese di aprile 2019 avete incassato 32 mila euro, mentre nell’aprile del 2020, causa coronavirus, è sceso a 5 mila. La differenza di fatturato perso è quindi pari a 27 mila euro, valore a cui viene applicato il 20% (in quanto il vostro fatturato 2019 è stato inferiore a 400 mila euro), in questo caso, quindi, potrete ottenere 5.400 euro a fondo perduto.
Bollette con sconto per le Pmi. Le pmi beneficeranno per tre mesi di bollette più leggere per le utenze non domestiche dal primo maggio a luglio 2020, e di un credito di imposta del 60% sui canoni di affitto e del congelamento degli oneri fissi sulle bollette. Lo stanziamento è di 600 milioni di euro. L’obiettivo della norma è quello di «alleviare il peso delle quote fisse delle bollette elettriche in capo alle piccole attività produttive e commerciali, gravemente colpite su tutto il territorio nazionale dall’emergenza epidemiologica da Covid-19″. Mediante la norma, che riguarda un periodo di tre mesi a partire da maggio 2020 ed ha carattere transitorio e urgente, «si permette la tempestiva applicazione della misura semplificandone l’iter procedimentale e provvedendo a dare copertura mediante il ricorso al bilancio dello Stato».
Affitti commerciali, sgravio al 60%, cedibile a banche. Credito d’imposta del 60% dell’affitto mensile per negozi e esercizi industriali e alberghi. Lo sgravio è riservato ai contratti su immobili a uso non abitativo destinati allo svolgimento dell’attività industriale, commerciale, artigianale, agricola, di interesse turistico o all’esercizio abituale e professionale dell’attività di lavoro autonomo. Il credito spetta a chi ha ricavi o compensi non superiori a 5 milioni. Nel caso di contratti di servizi a prestazioni complesse o di affitto d’azienda, comprensivi di almeno un immobile a uso non abitativo destinato allo svolgimento dell’attività, il credito d’imposta scende al 30%. Per gli alberghi è indipendente dal volume di affari. Condizione necessaria per fruirne, nei mesi di marzo, aprile e maggio, è che il fatturato sia diminuito di almeno il 50% nel mese di riferimento su anno. Il credito può essere ceduto al locatore o al concedente o a istituti di credito; è disposta la non cumulabilità con il credito d’imposta previsto dal decreto Cura Italia.
La nuova cassa integrazione. Il governo accentra sull’Inps l’erogazione degli assegni: “Sulla Cig confidiamo di recuperare il tempo perduto”, ha dichiarato il premier. L’ INPS si occuperà di erogare entro 15 giorni dalla richiesta con un anticipo del 40% gli assegni della cassa integrazione . Altro punto che affronta il dl Rilancio (si tratta di un impiego di circa 55 miliardi) riguarda il bonus per gli autonomi, il famoso assegno da 600 euro che in tanti, troppi, non hanno ancora visto. Il presidente del Consiglio ha spiegato che “per i lavoratori le misure sono cospicue: 25,6 miliardi. Ci sono le risorse per rafforzare Cassa integrazione e bonus autonomi“. “Sono ammortizzatori sociali, ma economici perché servono alle imprese per preservare l’efficienza produttiva“, ha aggiunto. Interventi anche sul fronte del rilancio dell’edilizia. Si tratta di uno dei settori più messi a dura prova dall’emergenza Covid.
Ecobonus ed edilizia. Nel decreto legge Rilancio trova spazio l’Ecobonus per le ristrutturazioni. Di fatto con il nuovo decreto per ogni 100 euro spesi per la riqualificazione energetica ci sarà uno ‘scontò fiscale di 110 euro. Questa in sostanza la norma contenuta nel provvedimento, che introduce un superbonus del 110%, anche per la realizzazione di interventi di riqualificazione energetica e antisismici sugli immobili. Il recupero avverrà in 5 quote annuali di importo uguale da portare in detrazione al momento di compilare la dichiarazione dei redditi. Ci sarà però la possibilità di cedere l’intero credito alla ditta che ha eseguito i lavori. La ditta potrà recuperarlo a sua volta, utilizzando la somma in compensazione per il pagamento dei tributi a proprio carico.
Via la Tosap. Novità previste anche nel commercio e sulle tasse. Come ha affermato il premier verrà cancellata la Tosap per i ristoranti e i bar, un piccolo aiuto. I ristoratori e i baristi infatti hanno dovuto affrontare due mesi di chiusura dovendo quindi sostenere di sasca propria le spese di locazione. Una categoria che avrebbe avuto bisogno di interventi e di aiuti ben più corposi da parte del Governo, che non si sono visti. Sempre nel decreto Rilancio vengono confermati i concorsi per la scuola e per i ricercatori. Secondo le stime comunicate dal premier e dal ministro del Tesoro, Roberto Gualtieri, di fatto sono previsti concorsi per 70mila insegnanti e per circa 4mila ricercatori. Altri 3,25 miliardi verranno destinati alla Sanità. Novità importante per il settore privato. Il decreto infatti andrà a rinnovare per altri 30 giorni il congedo parentale. Ma le misure arrivano in ritardo ed a singhiozzo, ed il sapore di questo decreto è a dir poco amaro .
Via l’lrap (ma è una tantum) e rinvio delle scadenze con il fisco a settembre. Il Governo con un’ imperdonabile ritardo ha finalmente deciso di dare una mano alle imprese intervenendo sull’Irap. E’ stato lo stesso premier Conte a spiegare che quello varato ieri sera è un intervento non strutturale ma solo temporaneo: “Fare oggi uno sconto fiscale per le imprese sotto 250milioni di fatturato significa fare una forma indiretta di erogazione di liquidità, lasciare nelle casse delle somme di denaro. Non abbiamo definito una riforma del sistema fiscale. E’ un intervento una tantum. In prospettiva l’obiettivo è affrontare una riforma ma non lo possiamo fare in queste condizioni. Ma prima bisogna affrontare l’emergenza e avviare la ripresa”. Per tutte le imprese con ricavi fino a 250 milioni di euro è stato stabilito di cancellare il versamento dell’Irap fissato per il prossimo 16 giugno. L’abbuono dell’imposta consente così di eliminare il saldo acconto. Una misura che vale quasi 4 miliardi e rispetto alla versione iniziale non prevede più come condizione la perdita di almeno il 33% di fatturato nel 2020, rispetto al 2019. Per dare ossigeno alle imprese viene inoltre posticipato al prossimo 16 settembre per le ritenute fiscali e contributive e dei versamenti Iva che potranno a quella data essere pagati in un’unica rata oppure in quattro rate mensili senza sanzioni e interessi.
Tregua fiscale: invio degli atti slitta al 2021. Tregua fiscale accordata fino al prossimo primo settembre. Vengono infatti rinviate a quella data le notifiche di ben 22 milioni di cartelle esattoriali. Slitta invece al prossimo anno l’invio degli atti di accertamento, che sono circa 8 milioni e mezzo. In tutto, quindi, più di 30 milioni di pratiche di contenzioso fiscale che vengono sospese, in attesa che passi la bufera.
Stop ai pignoramenti. Il decreto sospende i pignoramenti su stipendi e pensioni e prevede lo slittamento a settembre della ripresa dei versamenti sospesi per i mesi di marzo, aprile e maggio in cui siamo stati bloccati dalla pandemia. Sale il limite delle compensazioni dei crediti fiscali fino ad un milione. In arrivo anche misure di sostegno per le startup innovative per convogliare capitale di rischio.
Congedi parentali pagati al 50%. Bonus baby sitter raddoppia a 1.200 euro. Previsto un contributo fino a 1.200 euro per la babysitter, che raddoppia rispetto ai 600 euro stanziati dal precedente Decreto Cura Italia. Il “bonus baby sitter” sarà spendibile anche per centri estivi e servizi per l’infanzia. Previsto anche un fondo da 150 milioni di euro da assegnare ai Comuni per potenziare i centri estivi, anche in collaborazione con istituti privati, per bambini dai 3 ai 14 anni. Per il sostegno dei genitori che lavorano viene confermato inoltre il congedo parentale pagato al 50% per chi ha figli fino a 12 anni per un periodo continuativo o frazionato non superiore ai 30 giorni. Si potrà richiedere fino al 31 luglio 2020 con i periodi coperti da contribuzione figurativi. Fino alla fine dell’ emergenza Covid19 sarà possibile per i dipendenti di aziende private con figli fino a 14 anni per chiedere lo smart working a condizione che nel nucleo familiare non vi sia altro genitore beneficiario di strumenti di sostegno al reddito in caso di sospensione o cessazione dell’attività lavorativa o che non vi sia genitore non lavoratore, hanno diritto a svolgere la prestazione di lavoro in modalità agile anche in assenza degli accordi individuali, fermo restando il rispetto degli obblighi informativi previsti dagli articoli da 18 a 23 della legge 22 maggio 2017, n. 81, e a condizione che tale modalità sia compatibile con le caratteristiche della prestazione. La prestazione lavorativa in lavoro agile può essere svolta anche attraverso l’utilizzo di strumenti informatici (esempio: computers, tablet, smartphone) nella disponibilità del dipendente qualora non siano forniti dal datore di lavoro.
Bonus vacanze e cancellazione Imu per gli alberghi. Valgono circa 2,5 miliardi le risorse a disposizione dei settori collegati al turismo e alla cultura. Per dare sostegno alle imprese alberghiere è stato previsto di cancellare il versamento della rata Imu del prossimo 16 giugno, a condizione tuttavia che i possessori degli alberghi siano anche i gestori. La norma vale anche per gli stabilimenti balneari, marittimi, lacuali e lacustri. Previsto inoltre un incentivo sotto forma di «bonus vacanze» destinato alle famiglie, con Isee fino a 50 mila euro, che decidono di soggiornare in una struttura ricettiva in Italia. Il decreto «riconosce, a favore dei nuclei familiari con un reddito Isee non superiore a 40 mila euro, un credito, relativo al periodo d’imposta 2020, per i pagamenti legati alla fruizione dei servizi offerti in ambito nazionale dalle imprese turistico ricettive dagli agriturismi e dai bed & breakfast». Previsto un bonus per 500 euro per ogni nucleo familiare.
Bonus bici e monopattini da 500 euro. E’ previsto un buono mobilità per i residenti nei Comuni con popolazione superiore a 50 mila abitanti per incentivare forme di mobilità sostenibile alternative al trasporto pubblico. Il governo ha stanziato 120 milioni di euro per il 2020 ed il bonus sarà pari al 60 per cento della spesa sostenuta e comunque non superiore a 500 euro. Potrà essere utilizzato per l’acquisto di bici, anche a pedalata assistita, ma anche segway, hoverboard, monopattini e monowheel ovvero per l’utilizzo dei servizi di mobilità condivisa a uso individuale esclusi quelli mediante autovetture, dalla data di entrata in vigore del decreto e fino al 31 dicembre 2020. La necessità è quella di ridurre sui mezzi pubblici la presenza delle persone . Diventano più sostanziosi gli incentivi all’acquisto di bici ed e-bike, estesi anche ai monopattini elettrici. Il «bonus mobilità» è riservato a tutti i cittadini maggiorenni residenti nei capoluoghi di Regione, nelle Città metropolitane, nei capoluoghi di Provincia e nei Comuni con popolazione superiore a 50.000 abitanti. Ai semafori le biciclette, e-bike e monopattini elettrici potranno fermarsi davanti agli altri veicoli. Inoltre, i Comuni avranno la possibilità di ricavare delle corsie riservate per bici e monopattini ricavandole dalle carreggiate esistenti.
Bonus mobilità e rimborso abbonamenti bus-metro-treni. Ci sono 125 milioni di euro poi destinati alla mobilità sostenibile . Si studia anche il rimborso dell’abbonamento ai mezzi pubblici per i mesi non utilizzati durante i mesi del lockdown: quindi treni, bus, metrò, ma anche vaporetti.
Rottamazione: incentivo per auto euro 3 e motocicli. Riattivati gli incentivi alla rottamazione: chi vuole rottamare dal 1° gennaio al 31 dicembre 2021 la propria auto dalla classe Euro 3 in giù o il motociclo omologato fino alla classe Euro 2 ed Euro 3 a due tempi, fino a esaurimento del fondo, potrà godere di un «buono mobilità» (cumulabile con quello per l’acquisto delle bici) pari a 1.500 euro per ogni autovettura e 500 euro per ogni motociclo rottamati. Il buono sarà spendibile, anche dai famigliari conviventi, nei successivi tre anni per abbonamenti al trasporto pubblico locale e regionale, per quello di biciclette anche a pedalata assistita, e di veicoli per la mobilità personale a propulsione prevalentemente elettrica. Il buono per la rottamazione è però riservato ai soli residenti nei comuni con più alta concentrazione di smog, quelli cioè che sforano abitualmente i limiti di concentrazione nell’aria di polveri sottili e biossido di azoto.
Tempistiche lunghe. In definitiva il governo, con queste misure, ha messo praticamente una pezza su una crisi che ha già messo a rischio la tenuta dell’intero sistema economico. Il premier sulle tempistiche piuttosto discutibili afferma: “Abbiamo impiegato un pò di tempo ma assicuro che è stato non un minuto di più di quello strettamente necessario per un testo tanto articolato”. Dimenticando che diversi imprenditori nell’attesa di un testo “tanto articolato” hanno dovuto chiudere le loro attività e c’è anche chi è arrivato a sacrificare la propria vita con il suicidio.
· …e le prese per il Culo.
"La quarantena non è malattia". Ecco cosa stabilisce l'Inps. Il lavoratore avrà diritto alla copertura Inps solo in casi come una malattia conclamata. In altre situazioni, decise dalle autorità amministrative, addio tutela. Michele Di Lollo, Domenica 11/10/2020 su Il Giornale. "La quarantena non è malattia", a parlare è l’Inps. Una stretta che segna un limite rispetto a quanto stabilito dal decreto Cura Italia (varato dal governo nei mesi di lockdown) che invece equiparava proprio la quarantena alla malattia. I cittadini sono avvisati. In caso di isolamento domiciliare, dunque, è bene ricordare questa norma. Già, perché in caso di nuovi lockdown per emergenza Covid che impediscano alle persone di svolgere la propria attività, l’isolamento domiciliare non sarà automaticamente equiparato allo status di malattia. L’Inps è chiaro quando spiega che "in tutti i casi di ordinanze o provvedimenti di autorità amministrative che di fatto impediscano alle persone di svolgere la propria attività lavorativa non si procederà con il riconoscimento della tutela della quarantena con la malattia". Un esempio lampante potrebbe essere quello di un lavoratore che viene a contatto con soggetti positivi al coronavirus. In questo caso è l’autorità sanitaria a decidere tramite un provvedimento la quarantena del soggetto che, dunque, si vede riconosciuta regolarmente la tutela della malattia durante quarantena. Quando invece è un comune o una regione a decretare la quarantena, non si ha diritto al trattamento. Quindi se è un’autorità sanitaria a prevederlo si ha diritto alla copertura, altrimenti no. Per quanto riguarda i lavoratori fragili, scrive il Corriere della Sera, la quarantena non configura un’incapacità temporanea al lavoro. Non è dunque possibile ricorrere alla tutela previdenziale nei casi in cui il lavoratore sia bloccato in casa. Sono i casi in cui il soggetto continui a svolgere, sulla base degli accordi con il proprio datore di lavoro, l’attività lavorativa presso il proprio domicilio, nei modi alternativi alla presenza in ufficio già previsti. Il cosiddetto smart working. In caso di malattia conclamata, con il lavoratore temporaneamente incapace al lavoro, spiega ancora l’Inps, viene assicurato invece "il diritto ad accedere alla corrispondente prestazione previdenziale". Può accadere che il lavoratore si trovi fuori dai confini italiani. Trovarsi in quarantena all’estero non può essere un problema previdenziale dell’Inps. L’Istituto infatti ha precisato che una quarantena fuori dall’Italia e per richiesta del Paese di destinazione esclude l’accesso alla tutela per malattia. Infine, un altro caso su cui l’Inps si esprime chiaramente. Il lavoratore che è in cassa integrazione non può chiedere la tutela della malattia anche se dovesse essere ricoverato in ospedale. L’Inps spiega questo ricordando che c’è una prevalenza del trattamento di integrazione salariale sull’indennità di malattia. Ecco, nel particolare, le situazioni in cui il lavoratore non è coperto dall’Istituto di previdenza. Non c’è Covid che tenga. Quando la persona occupata è in quarantena può accedere alla copertura della malattia solo in determinati casi (quelli stabiliti da medici o Asl per esempio). Per tutti gli altri lo Stato fa spallucce.
Agli ambulanti di Milano niente soldi ma una tassa nuova. Michelangelo Bonessa il 9 maggio 2020 su Il Quotidiano del Sud. La prima Covidtax d’Italia la vara il Comune di Milano. Un provvedimento che ha ottenuto la delusa e rabbiosa reazione di tutti gli ambulanti che lavorano sul territorio del capoluogo lombardo. E pure con toni non proprio eleganti: o paghi o perdi il diritto di lavorare, questa la sintesi messa nero su bianco dall’Amministrazione della locomotiva economica italiana ora ferma in stazione causa Covid-19. Perché in questi giorni anche Milano, come prima altri municipi lombardi, ha recepito la direttiva regionale che permette di riavviare gli appuntamenti con i mercati di strada seppur con alcune limitazioni: da giovedì sono permesse le bancarelle di alimentari, ma distanziate di due metri e mezzo. Deve esserci inoltre un Covid Manager che controlli i protocolli di sicurezza e il numero di accessi. Misure di sicurezza con un costo che altre Amministrazioni locali italiane si sono accollate per aiutare il settore a ripartire in questa fase due dell’emergenza. La giunta di Giuseppe Sala ha invece colto l’occasione per creare la prima Covidtax d’Italia, come è stata ribattezzata dai commercianti, e pure con un tono perentorio che ha lasciato doppiamente basiti gli ambulanti fermi da due mesi con le bollette che si accumulano. «L’assessore Cristina Tajani ci ha detto che o accettavamo o non si riapriva, quindi abbiamo dovuto dire di sì – spiega Andrea Painini, presidente di Confesercenti Milano – tra l’altro si parla dei costi relativi alla sicurezza che devono accollarsi gli ambulanti perché ufficialmente il Comune non ha personale, ma a quanto mi riferiscono gli associati alle prime aperture i vigili erano presenti». E i toni dell’ordinanza pubblicata dall’Amministrazione di Giuseppe Sala non sono meno perentori di quelli usati di persona da Cristina Tajani, assessore milanese alle Attività produttive: «L’Amministrazione Comunale tramite apposito disciplinare del mercato disporrà l’obbligo per ciascuna Impresa del mercato di contribuire proporzionalmente, pena la sospensione del posteggio, al pagamento delle spese inevitabili effettivamente sostenute dal soggetto affidatario per l’erogazione di tali servizi, purché dallo stesso debitamente rendicontate; l’Amministrazione Comunale dovrà in ogni caso assicurare il controllo sui livelli del servizio erogato e sulla ripartizione delle relative spese». Quindi, come detto: o paghi o non lavori. Non proprio i toni che si aspettavano dalla Pubblica Amministrazione che dovrebbe essere al servizio dei cittadini. A svolgere la funzione di riscossore deve essere Confcommercio perché il Comune grazie a una legge regionale del 2010 può scaricare alcuni oneri organizzativi sulle associazioni di settore. Ma l’ordine arriva da Palazzo Marino, da dove Tajani ha affermato che la parte del Comune sarebbe quella di pagare transenne e bagni chimici. «Ci hanno detto che per loro è già molto, ma ci aspettavamo un atteggiamento diciamo più magnanimo» ha commentato Painini. Invece no, una Covidtax che ha deluso pesantemente gli ambulanti e non perché la somma sia particolarmente ingente, le prime fatture sono di 15 euro: è la portata simbolica del gesto. Tra l’altro se la città che si vantava di essere più a misura d’impresa delle altre chiede una tassa per i costi da coronavirus, non è un gran segnale nemmeno per gli altri italiani. E si chiedono gabelle scaricando responsabilità: «Una figura come il Covid Manager dovrebbe avere delle grosse responsabilità, ragion per cui la scelta deve essere dell’Amministrazione” hanno scritto in comunicato le associazioni di commercianti come ANA, EUROIMPRESE e CSA. Un testo in cui si invita il Comune di Milano a tornare sui propri passi, dando un segnale sia alle imprese che ai normali cittadini. Per ora la fase sperimentale, i mercati aperti saranno 26 su 94 a settimana fino al 18 maggio, permette di apportare correzioni in corsa. Oppure lasciare a Milano il primato della prima tassa imposta a causa del Covid-19.
Dario Di Vico per il “Corriere della Sera” il 21 aprile 2020. Mentre si mettono a punto (a fatica) calendari e modalità della già mitica Fase 2, come si dipanano i rapporti tra imprese e banche? La domanda è cruciale in un momento in cui le piccole aziende di servizi e manifattura hanno dovuto chiudere le serrande e hanno disperato bisogno di liquidità. Con l' apposito decreto il governo ha fatto alcune scelte: avrebbe forse potuto rateizzare in automatico parte dei carichi fiscali/contributivi ma ha preferito coinvolgere il sistema bancario che dovrebbe erogare soldi ai Piccoli pressochè in automatico fino alla soglia dei 25 mila euro (con garanzia statale). Almeno così si diceva, purtroppo la realtà è diversa: gli automatismi e le semplificazioni vanno in soffitta e la burocrazia bancaria ha la meglio. Lo dimostra lo scambio di mail di cui siamo venuti in possesso relativo alla richiesta di un finanziamento di 15 mila euro da parte di una Srl.
La beffa del dl Liquidità: 25mila euro a chi fattura 4 volte tanto. In base all'art.13 lettera "m" del decreto è impossibile chiedere prestiti che superino il 25% dei propri ricavi: 25mila euro andranno solo a chi fattura quattro volte tanto. Federico Giuliani, Venerdì 10/04/2020 su Il Giornale. Da bozza a testo ufficiale. Il dl Liquidità è stato bollinato e pubblicato, dunque, da ora in avanti, quelle che erano indiscrezioni sul suo contenuto diventano certezze a tutti gli effetti. E la certezza numero uno è che la "potenza di fuoco" dell'ultimo dl partorito da Conte & Co si è ridotta a un misero fumo. Come sottolinea il quotidiano La Verità, adesso i nodi sono venuti al pettine. Intanto il provvedimento è a saldo zero. Ciò significa che il governo metterà sul tavolo "zero euro", come ha scritto su Twitter anche Massimo Garavaglia. “Che effetto sul Pil può avere un decreto che investe zero euro?” si è domandato perplesso il viceministro all'Economia. Scendendo nel dettaglio, scopriamo che la garanzia al 100% senza valutazione del merito di credito vale soltanto per i prestiti più piccoli. In poche parole, non bisogna superare la soglia dei 25mila euro. Attenzione però, perché in base all'art.13 lettera "m" del provvedimento, è impossibile chiedere più del 25% dei propri ricavi.
Piccoli commercianti stretti all'angolo. Calcolatrice alla mano, nel caso in cui i ricavi dovessero ammontare a 20mila euro sarà vietato avanzare una richiesta superiore ai 5mila euro; con un ricavo di 40mila il massimo è 10mila. Con buona pace dei piccoli e piccolissimi commercianti, la somma di 25mila euro può essere richiesta in prestito soltanto da chi può contare su ricavi superiori ai 100mila euro. E non è tutto, perché per le cifre superiori lo scenario è ancora più beffardo. Oltre la soglia dei 25mila euro, e fino a un massimo di 800mila, resta la garanzia del prestito al 100% (90% lo Stato e 10% Confidi) ma si aggiunge una valutazione bancaria della solvibilità. Discorso ancora diverso per le medie e grandi imprese. È stato confermato il ruolo di Sace con garanzie fino al 90% e fino a 5 milioni; anche qui la valutazione verrà tuttavia fatta sulla base di una valutazione del merito di credito. Le banche, insomma, potranno stoppare le posizioni in sofferenza. Dulcis in fundo c'è spazio per l'ultima beffa. Riguardo ai requisiti di accesso all'indennità di 600 euro stabilità dal Cura Italia, il dl Liquidità ha attuato alcune modifiche da prendere in considerazione. Le Casse di previdenza private hanno congelato il tutto in attesa che gli iscritti autocertifichino la loro iscrizione in via esclusiva e dimostrino di non essere titolari di redditi da lavoro dipendente.
Valentina Conte per “la Repubblica” l'8 aprile 2020. Fatto l' elenco, trovata la deroga. Prima ancora che l' Italia riapra, c' è chi non ha di fatto mai chiuso. Quasi 71 mila aziende in questi giorni hanno inviato ai Prefetti la comunicazione per poter produrre. Il 67% nelle quattro regioni del Nord più industrializzate, ma anche più colpite dall' epidemia: Lombardia, Veneto, Emilia Romagna, Piemonte. Funziona così. Basta una semplice autocertificazione in cui gli imprenditori dichiarano di svolgere attività funzionali alle filiere essenziali - come sanità, trasporto, logistica, agroalimentare - identificate dagli ormai famosi codici Ateco, allegati al dpcm Chiudi Italia del 22 marzo e resi più stringenti, dopo una dura battaglia tra sindacati e Confindustria, nel decreto del Mise datato 25 marzo. Vale il silenzio- assenso. Se il Prefetto nulla dice nel frattempo, l' attività prosegue. Per i sindacati - non sempre coinvolti nei tavoli in prefettura nelle migliaia di domande si nascondono molti "furbetti dell' Ateco": aziende che dicono di essere nelle filiere essenziali e non lo sono o che hanno chiesto di straforo alle Camere di Commercio di cambiare codice dopo i decreti. La Uil ne ha contate 71 mila di comunicazioni. La Cgil 65 mila. Ma, dice la vicesegretaria Gianna Fracassi, «saremo ormai a 75 mila, crescono a vista d' occhio e questo rende impossibile sia ai Prefetti che ai sindacati verificare il nesso di funzionalità con le attività essenziali». Ecco che anche il dato Istat - il 34% delle attività produttive, compreso però il sommerso, è fermo - potrebbe essere sovrastimato. «Anche in un momento così grave non c' è attenzione alla vita delle persone», osserva Pierpaolo Bombardieri, segretario generale aggiunto della Uil. «Se la comunità scientifica chiede di limitare al massimo gli spostamenti, al punto che si multa anche chi sta non lontano da casa, le produzioni vanno ridotte e in ogni caso messe in sicurezza in base al protocollo del 14 marzo: non sta avvenendo». Alcuni casi sono eclatanti. Francesco Bertoli, Cgil di Brescia, racconta che nella sua città, duramente colpita dal Covid-19, il 70% delle attività dovrebbe essere fermo: «Così non pare e sono già arrivate 4.860 comunicazioni al Prefetto, appena 860 quelle analizzate: impossibile capire chi bara e chi no, anche perché il decreto con i codici Ateco è scritto male e lascia molte scappatoie». C' è ad esempio un' azienda che fabbrica passeggini, non essenziale, che chiede di continuare a produrre perché vende su Amazon. E Amazon è essenziale perché è nella logistica. «Ci siamo opposti: se fanno tutti così allora nessuno deve chiudere», dice Bertoli. Diverso il caso della Beretta che fa parte del settore difesa, autorizzata a produrre: ha una commessa di fucili dagli Usa e, seppur con la forza lavoro ridotta, continua ad operare. Stessa situazione in Veneto. «Oramai saremo oltre le 15 mila deroghe », racconta Cristian Ferrari (Cgil). «Qui Confindustria non capisce che anticipare i tempi non fa ripartire il Pil, ma il virus. Nessuno tifa per il blocco produttivo. Anzi, i lavoratori sono i più colpiti: in Cig ora, senza posto domani. Ma emergenza sanitaria ed economica sono facce della stessa medaglia. Per chi stiamo producendo se c' è la glaciazione dei consumi ovunque?». In Piemonte, specie a Cuneo, le domande di deroga corrono. «Ma i Prefetti sono oberati e poco attrezzati a discernere filiere e produzioni», dice Massimo Pozzi (Cgil). «Ci affideremo a loro anche per la riapertura? ». Luigi Giobbe, Cgil Emilia Romagna, riferisce di un «flusso continuo di deroghe, saremo a 20 mila: ma il 50% dovrebbe essere chiuso». Rimane il caos.
Pietro Senaldi per “Libero quotidiano” l'8 aprile 2020. Due settimane fa l' Unione Europea aveva rimandato all' Eurogruppo fissato per ieri qualsiasi decisione in merito al piano di salvataggio del Continente dalle devastanti conseguenze economiche della pandemia. I ministri si sono ritrovati in videoconferenza e le posizioni degli Stati sono rimaste distanti migliaia di chilometri, proprio come la lontananza fisica dei partecipanti. Anche l' Europa è un teatrino della politica dal finale prevedibile. Si perde tempo in chiacchiere fino all'ultimo momento buono, poi si trova la soluzione più di compromesso, che consente a tutti di cantare vittoria e cambia poco o nulla. Alla fine andrà così: l' Italia, come vuole il Pd, borbotterà ma firmerà il Mes, il nuovo Meccanismo di Stabilità che le consentirà di prendere a prestito 36 miliardi a condizioni non capestro ma che comunque si riveleranno una supposta. Se l' epidemia proseguirà a lungo, sterminerà aziende e produrrà decine di milioni di disoccupati, forse arriveranno pure i famosi eurobond. Ma sarà Bruxelles, o Francoforte, a decidere come potremo usare i soldi delle obbligazioni Ue che dovranno finanziare la ripresa. Il che, visto come la nostra classe politica è solita scialacquare i denari delle tasse, forse è il minore dei mali. Il Covid-19 è una malattia globale. Si avventa su tutti ma fa male, fino a poter rivelarsi letale, soprattutto a chi è logoro e in cattiva salute. Quindi rischia di ammazzare anche l' Unione Europea, vecchia, egoista, disarmonica e sclerotizzata. La reazione della Ue è un monito a chi va cianciando sui giornali e in tv che la pandemia migliorerà l' umanità. Balle, la povertà rende più cattivi e soli. Da Paese più colpito, ci siamo presentati subito a Bruxelles con la mano rivolta verso l' alto, in attesa di carità. Le signore Merkel, Lagarde, von der Leyen e il loro fido scudiero Dombrowskis, ci hanno sputato dentro. Poi, quando hanno capito che la bufera avrebbe toccato anche le loro terre, si sono fatti più dialoganti. L' elemosina ci sarà, ma non sarà un regalo, perché ciascuno in patria ha i propri sovranisti, e se l' Europa fosse generosa con l' Italia, per tutto il Continente si leverebbero proteste: «Prima gli olandesi», «Prima i francesi», «Prima i tedeschi», «Prima i lettoni». Perché non è che la Ue non esiste, c' è ma fa schifo, è una squadra in cui ciascuno cerca di prevalere sull' altro, anche giocando scorrettamente. Però, a essere sinceri, i nostri partner non hanno tutti i torti. Peggio di loro, ci siamo noi. È vero che, nel 2008, Germania e Francia hanno salvato biecamente le loro banche, piene di spazzatura per speculazioni sbagliate, con i soldi di tutti, anche i nostri. Come è vero che costava meno graziare la Grecia piuttosto che affossarla, facendole perfino aumentare la mortalità infantile. Ma è anche vero che, in vent' anni di euro, abbiamo risparmiato mille miliardi di interessi sul debito pubblico. Se avessimo impiegato in modo assennato quei soldi, avremmo dimezzato il debito; invece lo abbiamo aumentato del 30-40%. Quel che è più grave, è che nessuno può sa dire che cosa abbiamo fatto di questa montagna di denaro. Siamo l' unico Paese Ue che in vent' anni non ha migliorato la qualità di vita dei propri cittadini. Abbiamo alzato le tasse e abbassato i servizi, massacrato sanità e ricerca senza spendere un soldo per migliorare le infrastrutture, e neppure per conservarle, visto che crollano i ponti delle autostrade. Abbiamo solo distribuito prebende. Siamo i più vecchi d' Europa ma abbiamo abbassato l' età della pensione. Distribuiamo redditi di cittadinanza a chi lavora in nero e bonus preelettorali a chi è garantito. Parliamo di riforme da secoli, siamo tutti d' accordo che va snellita la burocrazia, velocizzata la giustizia, resa competitiva la scuola, ma non si fa nulla per non scontentare statali, magistrati e professori. Ci battiamo il petto e ci impegniamo a cambiare ma poi ci basta avere la pancia piena per due minuti e torniamo a fare quel che ci pare. Naturale che, quando ci presentiamo in Europa, ci guardino come furfanti nella migliore delle ipotesi e come idioti nella peggiore. Sulle riforme ci siamo fatti bagnare il naso pure da Portogallo e Spagna. Lo Stato è tecnicamente fallito però ci vantiamo dei nostri 4.200 miliardi di risparmi privati. Se qualcuno ci chiede di usare un po' dei nostri quattrini per uscire dai guai in cui ci siamo messi da soli, gridiamo al ladro. Ma la Germania, spiace dirlo, i soldi per uscire dai guai non li chiede in giro, e neppure ai suoi cittadini. La storia rischia di finire male: l' Europa ci presterà soldi e lo Stato toserà i contribuenti onesti per onorare il debito, tagliando le gambe all' economia reale. Intanto, chi si è ingrassato in questi trent' anni inciuciando con la politica, continuerà a farci la morale e arricchirsi facendo affari con il Palazzo.
Coronavirus, lo Stato specula pure sulle mascherine: Iva, aliquota massima al 22%. Libero Quotidiano il 07 aprile 2020. Agli italiani è ben nota la resistenza dello Stato a toccare l'Iva, quando si tratta di abbassarla. Il più comico degli esempi è quello degli assorbenti igienici femminili, la cui imposta sul valore aggiunto, sciaguratamente al 22%, è stata al centro di una lunga querelle: alla fine ci è stato spacciato che nella legge di bilancio era stato stabilito che dal primo gennaio sarebbe stata abbassata al 5%, salvo poi precisare che la norma avrebbe riguardato solo gli assorbenti compostabili o lavabili. L'emergenza virus non ha ammorbidito le sanguisughe, per cui la questione è cominciata daccapo con le mascherine, imparentate con gli assorbenti per non essere sostituibili con altro, essere usa e getta e quindi di larghissimo uso, e necessarie per la salute. Ragion per cui le mascherine, alle 20 di ieri sera, non risultavano ancora beni di prima necessità, come invece il canone tv, tassato al 4%, e nemmeno di "seconda" necessità, come i tartufi (freschi o refrigerati) la cui Iva è al 5%, né così importanti da godere dell'aliquota ridotta al 10% come lo sono le carrube, gli spettacoli teatrali, i francobolli da collezione e la cera d'api. Le mascherine invece (come anche i ventilatori polmonari) sono equiparate al mascara, al calcio balilla e alle motociclette Harley-Davidson. non detraibili Ieri mattina in qualche grande farmacia di Milano vicino al centro era possibile trovarne qualcuna (di mascherina), c'era addirittura una scelta fra quelle chirurgiche, le Ffp2 e le Ffp3. Sullo scontrino è scritta chiaramente l'Iva al 22% e, detraibili sul 730, spiega il farmacista, sono unicamente le meno protettive, quelle chirurgiche, le altre no. Eppure la Commissione europea già quattro giorni fa aveva approvato le richieste degli Stati membri e del Regno Unito di revocare temporaneamente (per sei mesi) i dazi doganali e l'Iva sull'importazione di ventilatori, mascherine, test e altri dispositivi medici da Paesi terzi, cioè tutti, almeno fino a che le mascherine lombarde, liberate da un sospiratissimo ok dell'Iss, non saranno disponibili al pubblico (secondo Regione Lombardia intorno a metà settimana). Che cosa succede? Sembra che il braccino corto sull'Iva abbia colpito ancora: infatti già da tempo il ministro della Salute Roberto Speranza, confortato dal viceministro dell'Economia Antonio Misiani il 3 aprile, ha annunciato lo "studio" di una misura dal valore di circa 400 milioni per introdurre l'Iva al 5%. Ma finora tutto quel che si è visto è una miseria nella bozza del decreto imprese sul tavolo del Consiglio dei ministri, dove compare un credito di imposta per le imprese che acquistano mascherine e strumenti di lavoro come guanti, visiere e occhiali protettivi, tute di protezione e calzari, ma anche per gli acquisti di barriere e pannelli da installare a protezione dei dipendenti, detergenti mani e disinfettanti. E anche qui la miseria è ancora più misera di quel che sembra: il bonus infatti sarebbe del 50% fino all'importo massimo di 20mila euro sulle spese sostenute fino al 31 dicembre 2020. Ovvero: intanto le aziende dovranno pagare (e chi ne ha bisogno per più di 20mila euro si attacca) e poi forse l'anno prossimo verrà restituito qualcosa. Inoltre, questa misura è a favore delle aziende, ma niente è previsto per i privati cittadini, che continueranno a pagare il massimo possibile senza poter neppure detrarre qualcosa. Alcune fonti parlamentari hanno ammesso il braccino della Commissione Bilancio - cui è affidato lo "studio" - perché ridurre l'Iva sarebbe un intervento che costa soldi al gettito, e per questo ci sarebbero titubanze sull'opportunità ed eventualmente il modo di inserirlo nel decreto di aprile. dispositivi medici? Altro giallo sta nel fatto che, a forza di tirarli per i capelli, i membri del governo interpellati hanno nominato le mascherine, ma nulla è stato affermato riguardo i ventilatori: Pier Paolo Baretta, sottosegretario all'Economia, ha confermato ieri che «il governo sta lavorando sulla riduzione dell'Iva sulle mascherine», ma né lui, né Speranza e Misiani hanno mai accennato ai ventilatori. A rilevare il qui pro quo legislativo sulle aliquote agevolate è un articolo pubblicato su Eutekne, quotidiano dei commercialisti, dove viene notato che i ventilatori potrebbero essere configurati, secondo quanto dice il DLgs 46/97, come «dispositivi medici», cioè strumenti «destinato a essere impiegato sull'uomo ai fini di diagnosi, prevenzione, controllo, terapia attenuazione di una malattia»; salvo poi definire «dispositivi medici» con aliquota al 10% solo medicinali e sostanze farmaceutiche. In effetti se l'Iva rimanesse al 22% il gettito ne godrebbe di sicuro, se è vero che l'uso delle mascherine «potrebbe diventare una necessità quotidiana almeno nei prossimi mesi», come ha dichiarato il Presidente dell'Istituto Superiore di Sanità, Silvio Brusaferro, e l'Iss «sta valutando il modo in cui dovranno essere utilizzate le mascherine nella fase 2 del contenimento». Con il risultato di aver pagato per una vita la Sanità e appena ci serve dover pagare di nuovo, come se comprassimo un'auto di lusso, per il lusso di salvarci la vita.
Maurizio Belpietro per “la Verità” l'8 aprile 2020. Sapete perché non credo alle promesse di aiuti miliardari che il governo ha fatto alle imprese? Perché conosco i miei polli e so che tra il dire e il fare di Palazzo Chigi non c' è di mezzo il mare, ma addirittura un oceano. Il decreto che dovrebbe inondare di liquidità le aziende, cercando di risollevare un' economia messa al tappeto dal coronavirus, rischia di essere una gigantesca presa per i fondelli, come lo è stata la promessa che Giuseppe Conte ha fatto alle partite Iva e a chi è rimasto senza lavoro. Anche all' inizio di marzo, varando il decreto Cura Italia, il presidente del Consiglio assicurò che nessuno sarebbe stato licenziato e tutti avrebbero incassato un assegno di 600 euro. Peccato che dall' annuncio all' erogazione del sussidio sia passato un mese e molti non abbiano ancora visto un euro. Stessa musica con le tasse: a parole il governo disse che sarebbero state sospese, ma in realtà il rinvio ha riguardato solo le piccole aziende, con meno di due milioni di fatturato, mentre tutte le altre hanno avuto «l' agevolazione» di un rinvio di ben quattro giorni. Insomma, quello che viene declamato con tanto di avverbi e aggettivi in conferenza stampa, quasi mai corrisponde alla realtà. Ieri per esempio ho raccolto lo sfogo di un banchiere che, dopo aver ascoltato il premier, è montato su tutte le furie. «Come si fa a dire, come ha detto Conte, che la liquidità garantita dal sistema bancario sarà immediata? Il capo del governo sa benissimo che così non è e non si tratta di ritardi o ostacoli frapposti dal sistema creditizio». Eh già Giuseppi, pur di apparire, ha fatto i conti senza l' oste, annunciando prestiti a gogò, ben sapendo che le banche devono sottostare alle regole europee. In pratica, senza il via libera del commissario alla concorrenza, Margrethe Vestager, cioè di quella simpatica signora che ha bloccato il salvataggio di banche tipo Popolare di Vicenza ed Etruria, il rubinetto da cui dovrebbero sgorgare miliardi rimarrà a secco. La vicepresidente della commissione Ue potrebbe infatti eccepire che il denaro erogato altro non è che un aiuto di Stato in quanto garantito dal governo e dunque bloccare tutto. Probabilmente non accadrà, perché anche a Bruxelles si rendono conto che con l' epidemia le cose sono cambiate. Ma prima che la Vestager dia luce verde, dalle banche non uscirà un euro. Fin qui siamo all' aspetto tecnico-legislativo, che ovviamente non è secondario, ma poi tra i motivi che mi inducono a dubitare della bontà dei prestiti sbandierati da Conte ci sono anche ragioni procedurali e di sostanza. Nonostante il presidente del Consiglio per farsi bello abbia caricato i toni, parlando di intervento poderoso, gli aiuti promessi non sono altro che fidi, cioè aperture di conto, sì, insomma, finanziamenti che avranno un tasso e una scadenza. È molto probabile che gli interessi da pagare siano bassi, perché questo chiederà il governo alle banche, ma comunque un tasso ci sarà e anche un lasso di tempo per rimborsare il denaro ricevuto. In pratica, per far fronte all' emergenza, le aziende non sono aiutate con un contributo a fondo perduto, ma sono spinte a indebitarsi. Il che può essere una soluzione se il mercato si riprende, se cioè la situazione ritorna alla normalità, ma se così non fosse o se la fase di chiusura durasse più a lungo del previsto le imprese si ritroverebbero con un calo del fatturato e un aumento del debito: non proprio la migliore condizione per risalire la china. C' è poi chi ha osservato che l' aiuto statale sarà una colossale partita di giro, perché quei soldi le società li useranno per pagare tasse e contributi. Il che farebbe contento il fisco, ma di certo non l' imprenditore, il quale sarebbe a posto con l' agenzia delle entrate, meno con tutto il resto. Infine bisogna tener conto di un aspetto procedurale che non è proprio secondario. Il capo del governo ha parlato di liquidità immediata a disposizione di chi ne ha bisogno. Ma, Vestager a parte, il prestito dovrà essere autorizzato, vale a dire che la banca dovrà istruire una pratica, verificare la solvibilità e la solidità dell' azienda. E tutto ciò mentre il 60 per cento del personale bancario è a casa e le agenzie lavorano part time, ricevendo le persone su appuntamento. «La realtà», spiega il banchiere infuriato, «è che oggi siamo tempestati di richieste, perché gli imprenditori hanno sentito lunedì sera la conferenza stampa di Conte. Ma noi non siamo ancora in grado di soddisfare le domande. Con la comunicazione a Palazzo Chigi si sono fatti belli, ma la realtà è un po' più brutta». Sì, insomma, conoscendo i miei polli, finirà come con i 600 euro per tutti e le tasse sospese.
I dubbi delle imprese sui tempi lunghi e burocrazia per ottenere i prestiti garantiti dallo Stato. Il Corriere del Giorno l'8 Aprile 2020. Le piccole e medie imprese fanno osservare anche che “nel decreto approvato dal governo c’è troppa burocrazia, i prestiti dovrebbero essere in parte a fondo perduto, perché collegati al mantenimento occupazionale, con la restituzione a 10-15 anni anziché sei”. Un’esigenza che si basa anche nella circostanza fondata che i prestiti andranno a sopperire i mancati ricavi conseguenti al blocco governativo delle attività produttive. Il bazooka che vale 400 miliardi esaltato del premier Giuseppe Conte, al momento è un bazooka ad acqua che convince solo a metà la platea degli imprenditori. Mentre il decreto liquidità per sostenere il sistema produttivo cercando di accelerare l’erogazione dei prestiti delle banche alle imprese, al momento sembra non offrire le garanzie sui millantati rapidi tempi di erogazione del credito. In concreto si profilano in salita i tempi necessari per le richieste creditizie sopra i 25 mila euro per i quali è prevista infatti la valutazione da parte delle banche dei bilanci delle aziende che, legittima e doverosa, conseguenzialmente rallenterà la corsa alla liquidità garantita parzialmente dallo Stato. Non a caso i commercialisti sollevano molti dubbi anche sui termini per la restituzione dei prestiti. Nel frattempo l’Abi l’associazione delle banche italiane insieme alla Sace, società pubblica controllata da Invitalia, con il proprio “ombrello” finanziario di 200 miliardi hanno avviato un gruppo di lavoro per rendere al più presto operative le nuove disposizioni, occupandosi di assicurare le necessarie garanzie sui prestiti alle imprese medio grandi . Resta il fatto che le imprese che avranno necessità di richiedere linee di credito bancario per a importi superiori a 25 mila euro dovranno affrontare in banca i consueti esami di sostenibilità economico-finanziaria per fronteggiare il prestito, per il quale concretamente lo Stato è semplicemente fidejussore. E considerati i lunghi tempi che normalmente sono necessari per queste analisi esami, è da valutare attendibile il rischio che il prestito arrivi quando di fatto per l’azienda richiedente potrebbe essere troppo tardi. Un problema che rende necessario che le procedure interne agli istituti, relativamente alle richieste legate al decreto Liquidità, vengano in qualche modo evase velocemente attraverso canali privilegiati. Le piccole e medie imprese fanno osservare anche che “nel decreto approvato dal governo c’è troppa burocrazia, i prestiti dovrebbero essere in parte a fondo perduto, perché collegati al mantenimento occupazionale, con la restituzione a 10-15 anni anziché sei“. Un’esigenza che si basa anche nella circostanza fondata che i prestiti andranno a sopperire i mancati ricavi conseguenti al blocco governativo delle attività produttive: ne consegue che una restituzione in tempi così brevi rischia di diventare insostenibile per molte piccole e medie aziende. Motivo per cui è molto probabile e prevedibile che il decreto venga emendato in sede di conversione in legge. In relazione alle procedure di assegnazione per i prestiti fino a 25 mila euro non è prevista alcuna istruttoria: basta una dichiarazione alla banca per ottenerlo. Per quelli compresi tra 25 e 800 mila euro, garantiti dallo Stato e controgarantiti dai Confidi regionali, sarà necessaria una valutazione di merito del credito. Per quelli che superano la soglia degli 800 mila euro la garanzia statale si riduce al 90% e scende sempre di più via via che l’ammontare del prestito cresce. Da evidenziare che, onde evitare che del prestito si avvalgono società che si trovavano già in perdita prima del blocco provocato dal virus, vi potranno ricorrere solo le attività che al 31 dicembre dello scorso anno non avevano procedure di concordato in corso o che comunque si autofinanziavano. Quindi alla luce delle restrizioni cautelari inserite dal Governo, è molto probabile che il flusso di liquidità annunciato da dal premier, atteso dalle imprese, non arriverò tanto velocemente dai forzieri bancari. Ne sono molto convinti i tributaristi, secondo i quali “allarmano le tempistiche con cui le imprese riusciranno a entrare in possesso dei prestiti” che inoltre contestano che le imposte di aprile e maggio per quanto rinviate a fine giugno, vanno infatti saldate entro novanta giorni da oggi. “I 400 miliardi messi in campo sono sicuramente una cifra molto importante, uno sforzo sul fronte della liquidità che non può che essere apprezzato. Ora bisognerà però vedere se e quando le risorse arriveranno davvero alle aziende. Purtroppo da questo punto di vista l’esperienza fatta con l’erogazione dei fondi stanziati con il decreto Cura Italia non è stata positiva!” sostiene Massimo Miani presidente del Consiglio nazionale dei commercialisti che aggiunge “Anche i termini per la restituzione non ci convincono: due anni per il preammortamento e sei anni per la restituzione ci appaiono insufficienti”. Nel frattempo il Governo e le opposizioni parlamentari del centrodestra divergono sempre di più sul decreto Cura Italia di marzo, che per passare in Parlamento ha indotto il Governo ancora una volta, l’ennesima, a porre la fiducia. Giorgia Meloni attacca sostenendo che “è stata smascherata la farsa”. ricordando che Fratelli d’Italia aveva presentato un pacchetto di emendamenti che andavano dalla sospensione del decreto Dignità, fino a un bonus da 1.000 euro alle famiglie con disabili a carico, passando per la restituzione delle rette scolastiche per nidi e scuole dell’infanzia. Ma il Governo le ha disattese, ignorando le condivisibili proposte in favore delle fasce più deboli del Paese. E sul premier Conte aleggia sempre di più l’ombra di un Governo “tecnico” a guida Mario Draghi che traghetti il Paese lontano possibile dal rischio di default, grazie alle proprie capacità finanziarie ed all’autorevolezza di cui gode l’ex governatore della BCE, la Banca Centrale Europea, il quale a differenza di Conte non ha certamente bisogno della “consulenza” di uno come Rocco Casalino proveniente dal “Grande Fratello” o di farsi intervistare da Barbara D’ Urso e Mara Venier !
NON E' SALVA-IMPRESE MA SALVA-BANCHE. Importante solo l'intervento sotto i 25mila euro. Per il resto, siamo riusciti a fare un provvedimento che aiuta più gli istituti di credito che le aziende che devono essere finanziate. Più burocrati ci devono mettere la bocca e meno soldi arrivano. Roberto Napoletano il 6 aprile 2020 su Il Quotidiano del Sud. Le garanzie dello Stato alle banche sono già oggi all’80%. Passano al 90 e al 100% in modo contorto e con troppi soggetti coinvolti senza buttare giù il muro delle sofferenze pregresse. Purtroppo non funzionerà. Perché la valutazione di merito della banca è sospesa solo sotto i 25 mila euro di prestito. Sopra, tornerà a fare la banca. Avrà solo una massa in più di garanzie da gestire che potrà utilizzare per coprirsi sul rischio legato a esposizioni pregresse e, quindi, per migliorare il proprio rating aziendale. Siamo arrivati al punto di fare un provvedimento che aiuta le banche invece delle imprese. I mercati lo hanno capito e i titoli bancari ne hanno beneficiato anche se questo idillio – temo – durerà poco perché oggi sono in gioco gli Stati e l’Italia con questo provvedimento è meno forte degli Stati francese e tedesco. Siamo in tempi di economia di guerra e noi continuiamo a sfornare decreti che sparano a palle incatenate. Non è vero che non servono a niente, ma sul campo di battaglia non bastano. Dobbiamo misurarci con ben altre potenze di fuoco. Soprattutto, non riusciamo a fare sparare i nostri cannoni. Come si possa perdere in un momento come questo ore preziose per decidere se la Sace deve rimanere sotto il cappello di Cdp o direttamente del Tesoro senza neppure capire come sia finita francamente è amaramente sorprendente. Vorremmo essere chiari: più giri si devono fare più burocrati ci devono mettere bocca, più soggetti economici sono chiamati a dire la loro, meno soldi arrivano a chi devono arrivare. Con questo provvedimento possono tirare un sospiro di sollievo – e di questo ne diamo volentieri atto – il mondo dell’artigianato e del piccolo commercio che avranno una iniezione di liquidità certa a stretto giro. Il resto è nelle mani del Signore perché le tutele penali che chiedevano le banche non ci sono e la garanzia dello Stato per chi ha esposizioni in Npl o in Forborne che riguardano almeno le imprese di metà Paese non ci sono. Non discutiamo le buone intenzioni e l’entità delle garanzie messe in gioco ma emergono la tortuosità dei meccanismi scelti e l’assenza del coraggio necessario per farsi carico di un passaggio epocale per l’economia di un Paese che vive di mercato globale e deve fare i conti con la sua momentanea sparizione. Un Paese che prova oggi sulla sua pelle le ricadute di scelte aberranti in termini di frammentazione del potere decisionale tra Stato e Regioni. Siamo ancora in piena emergenza sanitaria e lo spettacolo inverecondo dello scontro istituzionale tra macchina centrale e macchina regionale è sotto gli occhi di tutti. Apprezziamo lo sforzo che il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, compie ogni giorno per tenere la rotta ferma in casa e in Europa ma il massimo dell’attenzione in Italia e fuori deve riguardare i meccanismi decisionali e gli uomini capaci di farli funzionare. Purtroppo, non ci siamo ancora.
I 400 miliardi alle imprese? Sono fantamiliardi! Renato Brunetta de Il Riformista l'8 Aprile 2020. Facciamo alcune prime considerazioni a caldo, senza aver letto il testo del “decreto liquidità” nella sua versione definitiva, in assenza della Relazione Tecnica sulla quale sembra che la Ragioneria Generale dello Stato sia ancora al lavoro; ma solo sulla base delle prime anticipazioni uscite sulla stampa, e dei primi colloqui con il ministro Gualtieri in sede di cabina di regia.
Prima domanda: quando sarà effettivo il decreto? Domani, la prossima settimana, fine mese? Bisogna, infatti, attendere ancora il suo confezionamento definitivo, la firma del Colle e la pubblicazione in Gazzetta. Tempi che non sembrano tanto brevi, anche se i tempi, in questa difficilissima crisi, appaiano decisivi. Il fatto, poi, che il decreto entri in vigore e sia effettivo in una, due o tre settimane, o il prossimo mese, non è elemento indifferente perché gli altri Paesi europei, nostri competitor, hanno già messo nei conti correnti delle imprese o delle partite Iva la liquidità consentita dalla sospensione della normativa comunitaria sugli aiuti di Stato (temporary framework). Sarebbe il caso che il Governo facesse chiarezza su questo punto, indicando in maniera puntuale e operativa il percorso che tutti gli aventi diritto dovrebbero seguire con relativi adempimenti e tempistiche obbligatorie di risposta.
Seconda questione. Il ministro Gualtieri e il premier Conte hanno parlato di 400 miliardi complessivi messi sul piatto, suddivisi in una parte per le Pmi, tramite il fondo di garanzia, già presente nel decreto Cura Italia, e in un’altra rilevante componente per le medie e grandi imprese. Come è stato quantificato l’intero ammontare degli interventi? Con quale modello analitico? Con quale previsione di costo, a breve, medio e lungo termine? Con quale impatto sul Pil? Perché al momento non è dato sapere quanto costino i provvedimenti decisi ma non ancora effettivi, in termine di indebitamento netto o saldo netto da finanziare. C’è molta incertezza su questo punto, che non è solo definitorio per addetti ai lavori, dal momento che far rientrare o meno una spesa nell’indebitamento netto significa discostarsi dal deficit programmato (i regolamenti contabili europei considerano, infatti, il “deficit” sul quale vengono calcolati i rapporti di finanza pubblica proprio l’indebitamento netto), e quindi dover chiedere un’altra autorizzazione parlamentare, particolarmente impegnativa (maggioranza assoluta dei componenti). L’obiettivo del Governo pare sia quello di ridurre al minimo l’impatto del provvedimento in termini di indebitamento netto. Ma è questo l’atteggiamento giusto? Il minimalismo del Governo è quello che si aspettano i mercati e gli italiani? È quello che si aspetta il mondo delle imprese attualmente in sofferenza? Non era meglio definire sulla base di un modello previsivo chiaro prima l’entità del discostamento e dunque qualificare e quantificare il provvedimento in termini di liquidità, così come aveva suggerito l’opposizione, 100 miliardi di scostamento subito? Ecco perché non è possibile ad oggi definire “poderoso” un decreto che afferma di garantire 400 miliardi di liquidità stanziando, come pare, solo 3-4 miliardi e continuare a rinviare le scadenze fiscali di due mesi in due mesi. Ridicolo. Sarebbe stato più corretto e utile, nonché necessario, procedere in maniera totalmente diversa: di quanta liquidità ha bisogno l’economia italiana nel suo complesso per poter ripartire e, sulla base di questa, quantificazione verificare le risorse necessarie e le condizioni contabili, nonché ragionare per avere al più presto l’autorizzazione del Parlamento, secondo quanto previsto dall’art. 81 della Costituzione e dalle regole europee.
E ancora, cambiando quadrante, è in grado il sistema bancario di far fronte in tempi brevi a milioni di richieste di credito, alcune con istruttoria, altre certamente senza, ma tutte provenienti da soggetti di piccole o piccolissime dimensione, come partite Iva, commercianti, e piccole imprese, o ci dobbiamo aspettare una nuova “sindrome Inps”, ovvero un caos di sistema che rallenta e blocca tutto, tanto le nuove quanto le vecchie istruttorie? Perché, lo ribadiamo, i tempi e l’efficienza sono elementi fondamentali. Andiamo avanti. Il Governo ha sincronizzato questa poderosa erogazione di liquidità attraverso il sistema bancario in ragione delle dichiarate fasi uno, due e tre della crisi? Delle tre fasi ha parlato il premier Conte, ma nessuno ha ancora ben capito i reali contenuti e confini delle stesse, ovvero quando finisce il lockdown, quando si riapre parzialmente e totalmente con le attività economiche e sociali, quando e se ci sarà piena mobilità per le persone e piena agibilità per il commercio e le altre attività sociali. Quello che è certo però, in ogni caso, che l’ondata di liquidità che dovrebbe essere immessa nel sistema ha bisogno di essere sincronizzata e funzionare con ciascuna delle tre fasi. Certamente, per non far chiudere definitivamente le imprese che hanno tirato giù la saracinesca; per permettere alle imprese di riaprire; per far sì che ci sia una correttezza di comportamenti nei confronti dei fornitori, dei clienti e degli obblighi fiscali. Se non si conoscono, anche a grandi linee, le caratteristiche e la tempistica delle tre fasi, appare assai difficile sincronizzare la distribuzione della liquidità in maniera efficiente. Un ultimo dubbio. Se la moratoria fiscale per il mondo delle imprese e del lavoro autonomo procede anch’essa alla giornata, con continui rinvii di mese in mese, non c’è il rischio che la liquidità venga utilizzata tutta o in parte per pagare le tasse e i contributi? In questo caso, ci troveremmo di fronte a un paradosso masochistico. Ad una partita di giro. Si metterebbe in moto un poderoso meccanismo, potenzialmente virtuoso, in definitiva però usato solo per pagare le tasse allo Stato che però è anche il garante ultimo di quella liquidità. Follia. Non era meglio avviare un ragionamento globale e complessivo da parte del Governo in termini di programmazione? Le fasi, la liquidità, gli ammortizzatori, i provvedimenti di emergenza, con le relative quantificazioni, il nuovo Documento di Economia e Finanza per avere un quadro esatto della situazione macroeconomica, magari pensando di anticipare la Legge di Bilancio a giugno 2020, per chiudere al più presto la fase di emergenza di quest’anno e mettere in sicurezza il prossimo? Anche qui il Governo, nonostante le reiterate richieste pervenute, preferisce navigare a vista. Il che vuol dire finire per trasformare la crisi da simmetrica (che colpisce tutti) ad asimmetrica. Perché se noi siamo più inefficienti, in ritardo, vittime della nostra burocrazia e della nostra incapacità di Governo, il costo della crisi finiamo per pagarlo noi, più degli altri. Il tutto senza sapere ancora come andrà a finire la partita in Europa che, a parte la liquidità garantita dalla Bce con il suo bazooka illimitato del Quantitative Easing, è ancora in gravissimo ritardo con tutti gli altri strumenti, finendo così per premiare (volutamente o non) i più forti e penalizzare, secondo i dettami dell’etica protestante, i meno efficienti e i peccatori.
In altre parole, stiamo finendo nella trappola delle nostre inefficienze, contraddizioni e irresponsabilità, e non possiamo neanche dare la colpa agli altri. Detta una volta per tutte: gli altri Paesi hanno già iniziato a trasferire risorse a famiglie e imprese, mentre da noi non si sa ancora quando i primi euro entreranno nelle tasche degli italiani. Sta finendo la paura ma ci sta distruggendo.
Michele Di Branco per “il Messaggero” il 25 marzo 2020. «Non c'è alcuna intenzione di colpire i contribuenti, si tratta di un rinvio tecnico». Fonti dell'Agenzia delle Entrate negano che il fisco, in una fase così delicata, voglia accanirsi con gli italiani alle prese con problemi tributari. Ma è un fatto che un passaggio del decreto Cura Italia faccia discutere e produca un certo malumore. In poche parole, il provvedimento, a fronte di una sospensione di soli due mesi di tutte le attività di riscossione dell'Agenzia, concede agli uomini del fisco una estensione di due anni (da 5 a 7) dell'attività di caccia agli evasori fiscali. Detta in breve, vengono prorogati di due anni i termini di accertamento e prescrizione (in deroga all'articolo 3 comma 3 dello Statuto del Contribuente, quindi con effetto retroattivo) applicando di netto l'articolo 12 del Decreto 159/2015 che dispone «misure per la semplificazione e razionalizzazione delle norme in materia di riscossione». In particolare, secondo quell'articolo «i termini di prescrizione e decadenza relativi all'attività degli uffici degli enti impositori, degli enti previdenziali e assistenziali e degli agenti della riscossione aventi sede nei territori dei Comuni colpiti dagli eventi eccezionali per i quali è stata disposta la sospensione degli adempimenti e dei versamenti tributari, che scadono entro il 31 dicembre dell'anno o degli anni durante i quali si verifica la sospensione, sono prorogati, in deroga alle disposizioni, fino al 31 dicembre del secondo anno successivo alla fine del periodo di sospensione». Un lungo giro di parole per dire che, ad esempio, il fisco ha tempo fino al 2022, per effettuare controlli, accertamento, riscossione e contenzioso nei confronti di un contribuente che, alla fine del 2020, poteva considerarsi in salvo rispetto a controlli per imposte relative all'anno 2015. Di fatto la prescrizione relativa agli accertamenti, che normalmente è quinquennale, potrà come detto arrivare fino a sette anni. Insomma, mentre disponeva la sospensione dei versamenti su tutto il territorio nazionale, almeno per alcune categorie produttive, il governo ha ritenuto di far scattare praticamente in automatico una norma relativa alle situazioni di calamità naturale, come i terremoti, che però si verificano in porzioni limitate di territorio. Stavolta invece siamo in presenza di un evento di portata più vasta che - soprattutto - determinerà una recessione probabilmente senza precedenti non solo in Italia ma in tutta Europa e probabilmente in buona parte del mondo. L'intervento legislativo ha comunque suscitato forti perplessità in quasi tutte le forze politiche ed è ora possibile che sia modificato in sede di conversione parlamentare del decreto oppure con il secondo provvedimento atteso per il prossimo mese di aprile. In quell'occasione saranno con tutta probabilità ulteriormente prolungati i termini per il versamento delle imposte (ora si arriva a fine maggio) visto che difficilmente tra un paio di mesi l'emergenza potrà dirsi terminata. «È una norma indecente» attacca senza mezzi termini Enrico Zanetti. Secondo l'ex viceministro dell'Economia, «il provvedimento espone il governo a critiche giuste senza alcun beneficio dal punto di vista del miglioramento dell'attività di riscossione. È assurdo prosegue Zanetti che si colga a pretesto un momento così difficile per operare un giro di vite insensato nei confronti dei contribuenti. Si tratta di una ulteriore prova del fatto che chi ha in mano la penna e legifera non si rende assolutamente conto delle difficoltà che attraversa il Paese».
Antonio Castro per “Libero quotidiano” il 5 aprile 2020. Neppure il Coronavirus spunta le unghie alla macchina fiscale. Anzi. Viene ribadita l' estensione di ben due anni dei termini di prescrizione. Insomma il fisco potrà indagare non solo nel periodo tra il 2015 e il 2020, ma almeno fino al dicembre 2022. In una circolare esplicativa pubblicata solo venerdì l' Agenzia delle Entrate chiarisce l' allungamento dei termini. E così mentre mezza Italia fa i conti con il blocco generalizzato delle attività economiche, mentre oltre 10 milioni di lavoratori rischiano di alzarsi dopo Pasqua e doversi reinventare vita, lavoro e capacità di produrre un qualsiasi reddito per il sostentamento, l' Agenzia guarda già oltre. Al futuro. Proprio.
Oltre 700 giorni in più. I cervelloni del fisco - incuranti dello Statuto dei contribuenti che reste lettera morta puntualmente da disattendere - già si sono spremuti per evitare che qualche pesciolino (contribuente), possa sfuggire o farla franca per decadenza dei termini. Senza neppure immaginare una soglia minima o massima. L' opportunità di non soprassedere, del resto, aveva già fatto capolino nel famoso Dl cura Italia (articolo 67, comma 4) con riferimento proprio «ai termini di prescrizione e decadenza relativi all' attività degli uffici degli enti impositori, si applica, anche in deroga allo Statuto del contribuente, l' articolo 12 del decreto legislativo 24 settembre 2015, n. 159. E semmai vi fossero sorti dei dubbi la circolare delle Entrate chiarisce una estensione «della proroga a qualunque termine imposto agli uffici impositori». Secondo la circolare delle Entrate «sono differiti al 31 dicembre 2022 anche gli atti del registro che scadono in qualsiasi giorno fino al 31 dicembre 2020, dell' imposta sulle successioni e gli atti di irrogazione sanzioni da emettere entro un anno dal deposito delle memorie difensive da parte del contribuente». In particolare - spiegano gli esperti di Eutekne, sito specializzato in materia fiscale e tributaria per i commercialisti italiani - la sospensione prevista per gli Uffici «includeva anche le attività del contenzioso, con la conseguenza che queste attività risultavano sospese sino al 31 maggio». Dinanzi a una interpretazione estensiva della norma in favore dell' Agenzia, si contrappone la rigidità nei confronti del contribuente. Come dire: figli e figliastri. Dove i figliastri, come dubitarne, sono i contribuenti che devono giustificarsi. In questo caso, infatti, tutto ciò non espressamente disciplinato dalla norma non è sospeso (pagamento ed adesioni). "Esortati" i rimborsi A volerla cercare c' è anche una buona notizia per i contribuenti che hanno (avrebbero) diritto ad un eventuale rimborso. Infatti la circolare delle Entrate ha esortato gli uffici «anche in questo periodo emergenziale l' attività istruttoria dei procedimenti relativi ai rimborsi, compresa la richiesta della documentazione». C' è solo da augurarsi che se il contribuente non fosse in grado di rispondere entro breve - per evidente difficoltà negli spostamenti - non si pregiudichi il suo diritto. Sarebbe veramente un paradosso. Dover subire gli accertamenti per due anni in più ma non poter godere di qualche mese di proroga per giustificare per quale motivo si abbia diritto ad un rimborso.
Coronavirus, già pronta la botta del Fisco: schiaffo nella buca delle lettere. Dall'1 giugno verranno notificati senza firma del destinatario avvisi di accertamento e cartelle. Che cosa si rischia. Ignazio Stagno, Sabato 04/04/2020 su Il Giornale. A inizio estate arriverà un’amara sorpresa nella buca delle lettere. Nonostante il Paese si trovi sotto la pressione dell’emergenza Coronavirus, il Fisco pensa già a cosa fare quando si tornerà alla normalità. Infatti tra le pieghe del Cura Italia emerge un aspetto non da poco. Dall’1 giugno e per tutto il mese, tutte le cartelle del Fisco, gli avvisi di accertamento e tutti i documenti che riguardano contestazioni fiscali saranno recapitate nella buca delle lettere dei contribuenti senza l’accertamento della presenza del destinatario. Insomma di fatto non verrà raccolta alcuna firma per gli atti tributari notificati al singolo cittadino, verranno depositati nella buca come fossero una cartolina spedita da una località di vacanza. Il tutto serve a mantenere le distanze tra l’operatore che consegna la posta e il contribuente per garantire la sicurezza sul fronte del contagio. Un principio valido e corretto ma che potrebbe lasciare spazio a un rischio piuttosto concreto. Come sottolinea Italia Oggi, questo tipo di notifica di accertamento o ad esempio la cartella fiscale devono essere consegnate personalmente al destinatario oppure a qualcuno che lo rappresenti. Tutte regole previste in modo chiaro nello Statuto del contribuente che all’articolo 6 spiega in modo chiaro queste circostanza: “L’amministrazione finanziaria deve assicurare l’effettiva conoscenza da parte del contribuente degli atti a lui destinati”. Insomma di fatto questa procedura potrebbe lasciare ignari diversi contribuenti che si ritroverebbero nella buca delle lettere, a loro insaputa ( ad esempio nel caso in cui si trovassero in un’abitazione diversa da quella di residenza) di accertamenti fiscali e di cartelle a loro carico. Inoltre questa modalità potrebbe anche alterare quelle certezze fondamentali su data di notifica e su decadenza o prescrizione di imposte o accertamenti. Insomma il Fisco non rinuncia alla sua morsa che potrebbe schiacciare i cittadini già tra qualche mese. Cittadini già provati da una crisi senza precedenti e con le tasche vuote. Infine, in questo contesto, va anche ricordato un aspetto non secondario. Le Entrate hanno esteso a due anni la scadenza per la consegna degli atti di notifica in scadenza. Lo stop al Fisco dunque è per il momento solo uno “spot” del governo. In realtà, superata la prima fase di emergenza, le Entrate torneranno a battere cassa chiedono anche gli arretrati. Si dice che nulla sarà come prima dopo il Coronavirus. Il Fisco a quanto pare non subirà alcun mutamento…
Il governo versa 50 milioni per sostenere le imprese in Tunisia e la Toscana 80 mila euro per un consultorio transgender. Redazione Trento La Voce del Trentino 27 Marzo 2020.
L’Italia è decisamente la nazione del non senso. In piena emergenza economica derivante dalle restrizioni dovuto al coronavirus, mentre sembra che non ci siano risorse per nessun intervento finanziario forte e già si parla di un futuro con possibili problemi di pagamento delle pensioni, il governo giallorosso delibera un intervento di 50 milioni di euro versati dalla Cassa Depositi e Prestiti alla Banca Centrale Tunisina a sostegno delle imprese tunisine che devono affrontare l’impatto economico dovuto al coronavirus. Ad anticiparlo, era stata l’agenzia britannica Reuters la scorsa settimana. Una rivelazione passata sottotraccia, con la gran parte dei media italiani che l’hanno del tutto ignorata. L’ufficialità e la conferma della gentile donazione è arrivata da parte dell’ambasciata italiana a Tunisi il 25 marzo 2020, dove, si legge, si è rallegrata direttamente sulla propria pagina Facebook. In contemporanea la Regione Toscana stanzia 80 mila euro per finanziare un consultorio transgender, per capirci l’amministrazione targata PD, con quella cifra poteva acquistare quasi 40 mila mascherine da distribuire nelle strutture sanitarie toscane. Il governo invece di pensare alle aziende tunisine in crisi, non avrebbe fatto meglio a investire su quelle italiane in difficoltà? Stiamo o meglio stanno, scherzando col fuoco perché quando la gente comincerà a restare senza soldi e tra un paio di mesi la situazione potrebbe essere drammatica, si potrebbero innescare meccanismi difficili da controllare. Vengono infatti segnalati in alcune città del sud gruppi di persone che si sono presentate ai supermercati e dopo aver riempito le borse di alimenti non hanno pagato. Invece delle dirette Facebook, delle decisioni unilaterali e della riduzione dell’attività parlamentare ad uno sterile confronto, il governo avrebbe fatto meglio a non preoccuparsi della Tunisia, ma dell’Italia: quell’Italia che dovrebbe difendere a amministrare.
· Morire di Fame o di Virus?
Coronavirus e povertà: il nostro viaggio nelle periferie abbandonate di Roma. Le Iene News News il 05 novembre 2020. Quanto colpisce la pandemia nelle periferie di Roma? Giulio Golia ci racconta il dramma quotidiano da Tor Bella Monaca al “serpentone di Corviale” fino a “Le Torri”. Un viaggio tra tanta disperazione, voglia di riscatto e dignità. Negli ultimi giorni abbiamo visto le piazze italiane riempirsi di tante persone protestare contro le restrizioni del governo per contrastare la pandemia. Gli atti vandalici di pochi hanno oscurato la protesta civile di molti. Tra loro c’erano negozianti, ristoratori, baristi, autonomi perché il disagio è reale. Secondo un rapporto di Banca d’Italia sono più di 4 milioni gli italiani assistiti da una forma di sussidio tra reddito di cittadinanza e di emergenza. E la pandemia ha aumentato ancora di più le disuguaglianze. Giulio Golia incontra chi vive nelle cosiddette Borgate della Capitale, i quartieri della periferia di Roma. In un viaggio tra tanta umanità, voglia di riscatto e autoironia, abbiamo trovato anche tanta disperazione. Abbiamo incontrato chi vive a Tor Bella Monaca o al “serpentone di Corviale”, il grattacielo orizzontale più lungo del mondo, quasi un chilometro di cemento armato per 9 piani di edilizia popolare e oltre 4.500 persone. Qui la nuova quotidianità della pandemia ha portato nuovi problemi. Come la connessione Internet per seguire le lezioni a distanza, che per alcune famiglie è un sacrificio difficile da potersi permettere. C’è chi è in quarantena da 15 giorni, chi in questa situazione non può lavorare e se non lavora non ha nulla da mangiare. Spostandosi a Tor Bella Monaca il pensiero rimane lo stesso. In pochi minuti Giulio Golia viene raggiunto da decine di persone disoccupate o in cassa integrazione. “Ci dicono che c’è chi sta peggio di me. E chi sta peggio di me si è ammazzato”, dice una donna che vive del pacco Caritas. “Ci hanno abbandonato, siamo in ginocchio”. Arriviamo a “Le torri”, una realtà molto variegata dove si mescolano legalità e occupazioni abusive. C’è anche chi non riusciva a pagare la bolletta e in tempi di Covid si è ritrovato senz’acqua.
La fila per il banco dei pegni. Gli italiani ora si tolgono l'oro. In piena pandemia da Covid-19 non sono passate inosservate le code davanti al banco dei pegni. A Napoli attese di almeno un'ora per accedere allo sportello. Agata Marianna Giannino, Domenica 26/04/2020 su Il Giornale. Non c’è molta voglia di parlare tra chi aspetta il suo turno. Da quando in Italia è iniziato il lockdown, anche per entrare nel banco dei pegni bisogna attendere a lungo all’esterno. Sono passate le 11 quando, a Napoli, le persone in coda sono una decina, una decina delle 41 che si presenteranno fino all’orario di chiusura. Sono ferme davanti all’ingresso o assiepate sotto i porticati di via San Giacomo, strada del centro cittadino che collega piazza Municipio e via Toledo. C’è chi se ne sta in disparte, chi prova a distrarsi con una chiacchiera, rigorosamente a un metro di distanza, chi fa di tutto per schivare anche gli sguardi. Si entra uno alla volta. E l’attesa fuori, porta alla luce file che, oggi, forniscono una rappresentazione della crisi economica generata dall’emergenza coronavirus. Chi si rivolge allo sportello del Monte Pegni del Banco di Napoli ha bisogno di liquidità immediata, e usa l’oro a disposizione per ottenere quei contanti che serviranno per andare avanti. “Le file sono più lunghe da quando è scoppiata questa pandemia”, sostiene un uomo in fila. Una delle guardie giurate che controllano l’ingresso della sede della banca in via Toledo spiega che la ressa è determinata dal contingentamento degli ingressi e dalla riduzione del personale impiegato negli uffici, misure imposte per evitare assembramenti: “Non è cambiato nulla – afferma – Le persone che adesso si vedono all’esterno sono le stesse di prima”. Ognuno, all’arrivo, segna il suo cognome su un foglio bianco. Claverino è il 36esimo dell’elenco. Dovrà aspettare un’ora prima di raggiungere lo sportello. Non è la sua prima volta al banco dei pegni. Nella vita fa il rappresentante di vernici. Non lavora dall’inizio del lockdown e ha due figli da mantenere, di 13 e 11 anni. Carmela è disoccupata. È la prima volta che entra nell’agenzia di via San Giacomo. “Se non ci sono gli aiuti – dice - quando hai dei bambini a casa e delle spese, o fai degli errori o devi risolvere diversamente”. E, per non fare errori, impegna l’oro che possiede. Quello che importa a chi si rivolge allo sportello pegni sembra essere più l’immediatezza del prestito che il valore dell’oro. “All’ingresso ti fanno compilare un modulo e ti danno subito i soldi”, spiega una delle donne in attesa. “L’aspetto positivo – poi sottolinea - è che il prestito lo devi restituire dopo 6 mesi, non in rate mensili, e che alla fine il costo da sostenere è molto più basso rispetto a quello che ti chiedono su un finanziamento”. Alla scadenza si può decidere di riscattare l’oro o di rinnovare il prestito, a Napoli si usa dire “rinfrescare”. Se, invece, non si è in grado di onorare gli impegni contrattuali, si perde ciò che è stato impegnato. Nei giorni scorsi Intesa Sanpaolo ha comunicato la proroga al primo giugno della scadenza dei prestiti su pegno che era prevista tra il 9 marzo e il 30 aprile. “Superando quindi il termine del 30 aprile 2020 stabilito dal decreto legge n. 23 del 8/4/2020”, ha evidenziato il gruppo bancario. “Durante la proroga – è stato chiarito in un comunicato - saranno applicate le stesse condizioni economiche previste dal contratto. Il cliente avrà comunque la possibilità di procedere in ogni momento al riscatto delle polizze prorogate o al rinnovo del relativo prestito nei termini previsti contrattualmente”. Nessuna risposta ufficiale, invece, su un presunto aumento delle richieste dei prestiti su pegno presso lo sportello di via San Giacomo.
Dagonews il 4 aprile 2020. A proposito di The Economist: pochi giorni fa Diego Piacentini è entrato nel cda di The Economist. È amico di Matteo Renzi che lo nominò capo del digitale italiano. Chi, e non ha tutti i torti, vuole riaprire le attività? Renzi. Si, il mondo è piccolo...
Gianluca Mercuri per corriere.it il 4 aprile 2020. Quanto siamo disposti a spendere e a perdere nella lotta al virus? Quanti soldi, quanti posti di lavoro, quante aziende, quanto futuro, quante prospettive per le prossime generazioni, per i bambini che stiamo tenendo chiusi in casa? Quanto saremo capaci di mettere sempre la vita umana — la vita di qualunque essere umano, di qualunque età e di qualunque condizione fisica — prima di ogni considerazione che oggi ci appare cinica, ma prima o poi può sembrarci invece realistica? Toccava all’Economist porre in modo aperto queste domande disturbanti, che spesso affiorano nelle conversazioni private, nelle video chiamate, nelle chat con amici e colleghi ma che nessuno, finora, aveva avuto il coraggio di esplicitare. Toccava all’Economist perché nessun giornale al mondo esprime meglio la sintesi necessaria tra interessi e doveri, tra principi e realtà. E il loro continuo scambiarsi di ruolo, perché a un certo punto riconoscere la realtà diventa un principio sacro. «We’re not going to put a dollar figure on human life». Il giornale inglese parte da questa frase, dalle parole con cui il governatore di New York Andrew Cuomo ha commosso i suoi concittadini e il mondo. Intendeva dire che una vita umana non ha prezzo, che per salvare vite non si bada a spese, che i conti si faranno dopo, che ogni persona che si ammassa negli ospedali va curata a qualsiasi costo. Parole di un leader coraggioso, ma nel commentarle il giornale si carica dello scomodo compito del passo successivo: fino a quando il trade-off è sostenibile, fino a quando potremo permetterci di dire che una vita umana non ha prezzo? Domande terribili, chiaro. Ma non sempre ciniche. In questa fase, per esempio, fissare «il prezzo di una vita» ne salva tante, almeno in America. All’inizio, il presidente Trump diceva che la cura sarebbe stata peggiore del male, per i danni economici che avrebbe comportato. Poi i modelli hanno dimostrato che la diffusione incontrastata del virus avrebbe ucciso un milione di persone in più. Per evitare quella strage, è bastato decidere di chiudere tutto e spendere l’equivalente di 60 mila dollari a famiglia. «L’America può dire oggi che il costo della chiusura è di gran lunga superato dalle vite salvate». Per poterlo dire ha dovuto dare un prezzo a quel milione di vite. E la scelta non è stata difficile. Ma sarà sempre così, si chiede — e ci chiede — uno dei più autorevoli giornali del mondo? L’America è un Paese ricco, ma «se in India il lockdown non riesce a fermare la diffusione del contagio la sua scelta, tragicamente, andrà in un’altra direzione». E tutti, presto, potremmo trovarci di fronte a dilemmi analoghi. Per cavarcela, qualche principio può orientarci. Per esempio, essere consapevoli che ogni scelta ha costi sociali ed economici, e se quella americana finora è stata relativamente facile, non tutte lo saranno. Secondo, aiutare chi le paga di più, le scelte che stiamo facendo: i lavoratori che hanno perso il posto, i bambini che non hanno più un pasto a scuola per loro vitale. E i giovani, «su cui cadrà gran parte del peso della malattia, sia oggi sia in futuro, con tutto il debito che i loro Paesi accumuleranno». Terzo, adattarsi. Il bilancio costi-benefici cambia col passare del tempo, e il tempo guadagnato con la chiusura deve servire a prepararci a un ritorno del virus, ad attrezzarci. Infine, dobbiamo essere pronti anche a questa conclusione: «Forse non troveremo presto vaccini e cure. Con l’estate, le economie avranno subito crolli a doppia cifra. Mesi di reclusione casalinga avranno minato coesione sociale e salute mentale». Alla fine, «il costo del distanziamento potrebbe superare i benefici». E questo «ancora nessuno è pronto ad ammetterlo».
Non si muore solo di Covid-19, ecco i malati più a rischio. Giuliano Cazzola de Il Riformista il 25 Marzo 2020. Chi scrive aveva salutato come una pagina gloriosa della storia d’Italia, il protocollo sottoscritto dalle parti sociali il 14 marzo scorso, nel tentativo di salvaguardare la salute dei lavoratori senza fermare del tutto la produzione. I leader sindacali non hanno retto e hanno fatto pressioni su Conte per ottenere (come poi è avvenuto) ulteriori, confuse restrizioni. Il bello è che sono arrivati al punto, tragicomico, di minacciare uno sciopero generale. Sarà la prima volta che si sciopera …. in pigiama, da casa. Poi, diciamoci la verità: oggi gli scienziati vengono ascoltati (sia pure nella Babele delle opinioni) e riveriti. Ma è possibile che questi nuovi guru paludati non vadano al di là dei consigli (lavati le mani, non uscire, ecc.) che generazioni di nonne hanno impartito a generazioni di nipoti? Si parla di ‘’sconfiggere’’ il maligno rinchiudendoci tra le mura di casa. Come se il virus non trovando più nessuno da contagiare, togliesse il disturbo. Il Covid-19 ormai è entrato come tanti altri virus, prima di lui, nella nostra quotidianità; il problema da risolvere – come ha spiegato Ilaria Capua – è quello di imparare a convivere con questo nuovo virus come conviviamo con i tanti suoi predecessori, certo rafforzando, nel tempo, i nostri strumenti di difesa (vaccinazioni e terapie). La serrata totale, poi, si rivelerà impossibile, perché la garanzia dei beni essenziali richiede tante interconnessioni intersettoriali che non si possono individuare a tavolino, con il rischio di rallentare e mettere in difficoltà le forniture. Se si spezzano queste filiere trasversali vedremo le persone che non si fermano più distanziati davanti ai supermarket, ma che li saccheggiano. E chi erogherà i cosiddetti servizi essenziali se gli apparati pubblici chiudono? L’aspetto più inquietante della crisi – e in questo caso è grave la responsabilità della comunicazione – è lo smarrimento di ogni ragionevole relazione con la malattia. Qui sta la vera pandemia della psicosi. Senza togliere nulla alla drammaticità della pandemia “venuta dal freddo”, ai suoi effetti sul Servizio Sanitario Nazionale, all’eroismo degli operatori nonostante le grandi condizioni di difficoltà e di rischio personale, al compianto per le vittime e le loro famiglie, sarebbe più onesta una comunicazione dei media (quella istituzionale dell’Iss e della Protezione civile è corretta: basterebbe solo diffonderla) capace di trasmettere all’opinione pubblica il senso delle proporzioni e della misura. Non si muore soltanto di Coronavirus. In Italia, in totale, vi sono stati 647mila decessi nel 2017, 636mila nel 2018, 647mila nel 2019 (di cui 302mila al Nord così ripartiti: Nord Ovest, 179mila, Nord Est, 124mila). Secondo l’Istituto Superiore della Sanità (si veda il Portale dove viene pubblicato il relativo monitoraggio), dall’inizio della sorveglianza (fissata al 14 ottobre 2019), fino alla settima settimana del 2020, sono stati stimati circa 5.632.000 casi di sindrome simil-influenzale in tutto il Paese. Al termine della stagione influenzale 2018-2019, i casi erano stati 8.104.000, tra il 2017 e il 2018, 8.677.000 e tra il 2016 e il 2017, 5.441.000. I morti per l’influenza cosiddetta stagionale sono, mediamente, in Italia, 8mila all’anno. L’82% dei casi gravi e il 97% dei decessi presentano almeno una patologia cronica preesistente. Non si deve dimenticare poi che la principale causa di morte in assoluto sono le malattie del sistema cardiocircolatorio: 638 persone ogni giorno. C’è poi il problema del concorso di patologie. L’Iss ha provveduto a pubblicare una casistica – vedi la tabella in alto – da cui risulta che molti decessi riguardano persone sofferenti di altre gravi patologie pre-esistenti. Negli ultimi giorni è scoppiata anche la “polemica sulle preposizioni”. Si muore “per” o “con” il coronavirus? È corretto indicare (ecco il “con”) se il contagio che ha determinato il decesso sia associato o meno ad altre patologie? Quelli (anche l’Iss) che usano il “con” vengono considerati dei “truffaldini”. Si muore di Covid-19 e basta. Eppure secondo le regole di classificazione dei decessi utilizzati per compilare – secondo standard internazionali – i rapporti dell’Osservatorio sulla salute degli italiani si deve tener conto sia della mortalità e delle sue cause per fasce di età, sia del concorso di più patologie (sepsi-correlate). Nel rapporto sul 2018 (in tempi immuni dal contagio), l’argomento veniva affrontato così: «È proprio in tale fascia di età (over 75, ndr) che si concentra la maggior parte dei decessi sepsi-correlati (circa il 75% del totale); ciò a conferma che si tratta di un fenomeno associato all’invecchiamento della popolazione spiegabile con una maggiore presenza di multicronicità nei soggetti che determina un conseguente scadimento delle condizioni fisiche. È inoltre utile notare come il tasso di mortalità sepsi-correlato, calcolato su tutti i decessi che menzionano la sepsi, sia 7 volte più elevato rispetto al tasso calcolato sui decessi che presentano la sepsi unicamente come causa iniziale».
Monica Serra per “la Stampa” il 23 marzo 2020. La scritta fuori è uguale a quella degli altri supermercati: «Rispettate la distanza di sicurezza». Una piccola lavagna, davanti al muro coperto dal marmo grigio. Dentro, gli scaffali presi d' assalto sono tutti in ordine, puliti. I soliti prezzi qui non ci sono: il costo della pasta, dei pelati, dei tovaglioli è calcolato in punti. «Ogni mese ne assegniamo un certo numero a ogni famiglia in difficoltà, a seconda del numero delle persone», spiega Stefano Doria, il responsabile dell' emporio solidale di Garbagnate, uno degli otto aperti nelle periferie milanesi dalla Caritas Ambrosiana. Dal 24 febbraio le richieste di aiuto sono cresciute del 30 per cento: 4,6 quintali di generi alimentari distribuiti ogni giorno.
Le storie. «Da quando si è diffuso l' allarme le signore hanno smesso di chiamarmi per le pulizie di casa. È un disastro: per me non esistono ferie, malattia, smart working. Se non lavoro, non prendo un euro». Elena, colf di 48 anni, è in fila davanti alla cassa. «Mi auguro che presto s' intravveda la luce in fondo al tunnel. Non posso permettermi di stare a casa senza il lavoro». Ma alla Caritas si è rivolto anche Giorgio, brianzolo di 51 anni: «Da fine febbraio è tutto fermo, la banca mi ha chiuso i rubinetti e sono rimasto con 100 euro in tasca per fare la spesa fino ad aprile». Fa l' autista di un noleggio con conducente, ma la sua auto, «che per fortuna ho finito di pagare», è parcheggiata dall' inizio dell' emergenza coronavirus. E tutte le prenotazioni sono state annullate: «Le uniche rimaste sono per il 18 maggio: due transfert all' aeroporto di Linate. Non ho più i genitori e non ho una moglie a cui chiedere aiuto. Non so che cosa fare».
Il dramma sociale. Fino a qualche giorno fa ad avere bisogno erano soprattutto senzatetto e immigrati. Ma ora è tutto cambiato. «La quarantena collettiva sta avendo un impatto molto pesante sulle persone più fragili», spiega il direttore di Caritas, Luciano Gualzetti. «Con la chiusura delle scuole, ad esempio, i bambini hanno smesso di usufruire della mensa, per cui chi veniva a fare la spesa da noi, ha dovuto riempire il carrello di più oppure è tornato qui più spesso». Se è vero che con l' emergenza chi già era povero è in grandissime difficoltà, le misure prese dal governo stanno mettendo in ginocchio anche lavoratori della classe media, che vedono i loro incassi azzerati per chissà quanto tempo. «La mia azienda non ha ancora saldato lo stipendio di febbraio, ma bollette, affitto, retta del nido per mia figlia si pagano puntualmente. Quando ricominceremo a lavorare non si sa». Laura, 35 anni, fa l' estetista in un salone di Lecce: «Non sono mai riuscita a mettere soldi da parte: con quello che prendo arrivo a malapena alla fine del mese e i miei genitori non possono aiutarmi». Paolo, 54 anni, è invece un tecnico del suono milanese. Gli ultimi lavori per la settimana della moda, poi stop per mesi: «La mia compagna fa la scenografa. È ferma anche lei e abbiamo una bambina di 12 anni. Eventi, concerti e fiere non riprenderanno prima dell' estate». I piccoli imprenditori Claudio e Roberta, marito e moglie di 56 e 54 anni, sono titolari di una libreria di quartiere a Verona. Il settore era già in crisi, ma tra presentazioni con gli autori e piccoli festival per gli studenti si riusciva a galleggiare: «Da tre settimane gli incassi sono a zero. I nostri dipendenti ora sono in ferie, dopo andranno in cassa integrazione. Sarà dura ricominciare». Secondo Confcommercio e Confesercenti, infatti, almeno 60 mila italiani potrebbero perdere il lavoro se l' emergenza dovesse protrarsi oltre maggio o giugno. E la situazione è particolarmente grave nel turismo: «Le attività ricettive - dice la presidente di Confesercenti, Patrizia De Luisi - sono state travolte da un diluvio di disdette, e la stagione primaverile, che vale il 30 per cento del fatturato annuo, è seriamente compromessa». Elisa, 54 anni, gestisce una trentina di appartamenti di lusso a Milano: tra dipendenti e partite Iva, sono impiegate 8 persone cui si aggiunge un manutentore «che abbiamo già dovuto lasciare a casa» e la ditta di pulizie ferma da settimane. «In due giorni, dal 25 febbraio, abbiamo avuto un crollo del 98 per cento del fatturato. I miei dipendenti sono giovani, tra i 30 e i 35 anni, hanno tutti una famiglia e tanti progetti. Io sto provando a reggere anche per loro ma non so per quanto tempo ancora».
Tre milioni senza lavoro, altri tre pronti a smettere. Chi è rimasto a casa con la crisi. Pubblicato domenica, 15 marzo 2020 su Corriere.it da Isidoro Trovato. L’Osservatorio Fondazione Consulenti del lavoro: 3 milioni non lavorano, altri 3 pronti a smettere. Sono circa 3 milioni (il 13,2% del totale degli occupati) i lavoratori che si sono ritrovati da un giorno all’altro a casa per via dei provvedimenti «straordinari» adottatati dal governo nell’ultima settimana per far fronte all’emergenza sanitaria da COVID-19. Il virus, come prevedibile, sta tracciando anche una mappa del lavoro. Circa un milione di questi sono lavoratori autonomi, mentre 1,9 milioni dipendenti (per lo più addetti alle vendite). E mentre sono ancora tante le persone al lavoro in questi giorni per garantire servizi essenziali, 3,6 milioni (16% del totale) sono occupati in settori «a rischio chiusura». È quanto emerge dall’analisi statistica della Fondazione Studi Consulenti del Lavoro «Gli occupati in Italia ai tempi del Coronavirus» che fotografa 23 milioni di lavoratori (5 milioni 306 mila autonomi e 17 milioni 146 mila dipendenti) che devono fare i conti con un’Italia “bloccata” da misure e provvedimenti di portata straordinaria.
Quelli per obbligo. Dalla promozione dello smart working alla chiusura delle scuole, dal crollo della domanda di beni e servizi al blocco su tutto il territorio nazionale, fino al prossimo 25 marzo, delle attività commerciali non di prima necessità (bar e ristoranti, centri commerciali, centri estetici, negozi di abbigliamento). L’emergenza sanitaria ha stravolto, in pochi giorni, l’intera geografia occupazionale del Paese definendo, di conseguenza, nuove e inedite condizioni di lavoro. A fronte di chi resta a casa “per decreto”, ci sono 7,9 milioni di lavoratori (35,2% degli occupati) che, malgrado l’emergenza, non possono fermarsi, in quanto impegnati ad erogare beni e servizi essenziali per la collettività. Tra questi: medici e infermieri (1 milioni 320 mila occupati nell’assistenza sanitaria), ma anche forze dell’ordine e dipendenti delle P.A. (1 milione 243 mila), insegnanti e docenti universitari che da casa garantiscono continuità formativa (1 milione 587 mila), servizi pubblici essenziali (erogazione energia, gas, acqua, pulizia e raccolta rifiuti) e tante altre attività private: il commercio, il credito, l’informazione, liberi professionisti.
Quelli che stanno per smettere. Inoltre, 3,6 milioni (16% del totale) sono occupati in settori «a rischio chiusura» per un crollo della domanda o uno stallo dei servizi senza precedenti, come turismo (372 mila occupati in servizi di alloggio e agenzie), intermediazione immobiliare (149 mila), costruzioni (1,3 milioni) e alcune attività professionali, soprattutto di tipo tecnico. Di questi, 1,3 milioni sono lavoratori autonomi che giorno dopo giorno devono decidere se chiudere o proseguire l’attività destreggiandosi tra congedi, ferie e permessi, e 2,3 milioni dipendenti in questi settori, che oltre alla paura del contagio hanno quella di perdere il lavoro.
Gli ammortizzatori sociali. L’incertezza governa anche gli 8 milioni (35,6%) di occupati in settori per lo più manifatturieri e di servizio alle imprese, dove l’impatto dell’emergenza Coronavirus è stato meno devastante, ma comunque forte. La gestione del dipendenti sta diventando un fattore sempre più critico in questo momento per le aziende, che si trovano a fronteggiare nuove e straordinarie responsabilità di tutela della salute e sicurezza in un contesto di progressivo stallo economico e di incertezza sui provvedimenti che saranno adottati a supporto dell’emergenza. Il Report della Fondazione Studi dei Consulenti del Lavoro sottolinea l’urgenza dell’approvazione di strumenti normativi utili a sostenere economicamente aziende , professionisti e lavoratori per evitare che all’emergenza sanitaria segua un’emergenza economica che sfoci in un’emergenza sociale.
Diodato Pirone per ''Il Messaggero'' il 14 marzo 2020. Le fabbriche che non possono adeguarsi subito al metro di distanza fra le persone imposto dal coronavirus chiuderanno per qualche giorno, le altre no. Ma in alcune situazioni, come ad esempio alla Fincantieri (9.000 addetti diretti e 50.000 nell' indotto), per decisione unilaterale dell' azienda si faranno subito due settimane di ferie che, per la prima volta in Italia da parte di una grande azienda, saranno recuperate ad agosto. Queste le due principali novità emerse dalla lunga giornata di ieri sul fronte delle regole per il lavoro al tempo del Coronavirus. Una giornata scandita da una serie di videoconferenze, l' ultima delle quali iniziata alle 21. Al momento si sta lavorando per limare un testo d' accordo che dovrebbe sigillare la tregua dopo le tensioni emerse nelle scorse ore. IL KIT Ai lavoratori degli stabilimenti di tutta Italia sarà fornito nel più breve tempo possibile un kit per la sicurezza: dalla mascherine ai guanti, tutto gratuitamente. È questo uno dei passaggi chiave del video incontro, in mattinata, tra il premier Giuseppe Conte, i ministri Gualtieri, Catalfo, Patuanelli, D' Incà, il sottosegretario Fraccaro e i vertici di Cgil, Cisl e Uil nonché di Confindustria, Confapi e Confartigianato. Una riunione svoltasi «in un clima molto costruttivo» dove è emersa la «collaborazione delle parti sociali per una soluzione condivisa», spiega una nota di Palazzo Chigi a metà giornata. E l' accordo prenderà forma nella redazione di un protocollo di sicurezza ad hoc per i lavoratori negli stabilimenti di ogni tipo. Stabilimenti sui quali Conte non cambia strategia: l' attività produttiva delle filiere italiane non può essere interrotta in un contesto economico già difficilissimo. Nessuna nuova misura restrittiva sulle fabbriche, insomma, ma l' assicurazione che «noi tutti abbiamo il vincolo morale e giuridico di garantire loro condizioni di massima sicurezza», spiega il capo del governo alle parti sociali esaltando il ruolo di chi - dai medici ai vigili del fuoco - in piena emergenza continua a recarsi nel proprio posto di lavoro: «In questo momento sono le colonne portanti su cui si regge l' intero Paese». I protocolli di sicurezza, è la richiesta del governo agli industriali, devono essere rigidissimi. E chi non è pronto potrà stoppare la propria attività per avere il tempo di adeguarsi. Nel frattempo, le aziende potranno approfittarne per «sanificare» le aree e «sarà consentito l' uso degli ammortizzatori sociali». Tutto il necessario, insomma, perché gli stabilimenti restino aperti. Anche perché il governo deve già fronteggiare chi, da Fincantieri alla Ducati, ha deciso in autonomia già di sospendere tutte le attività. «Dobbiamo dare sicurezza a chi lavora «distinguendo l' essenziale (ad esempio sanità, filiera alimentare, servizi pubblici) da ciò che é rinviabile», spiega Maurizio Landini della Cgil mentre Annamaria Furlan (Cisl) e Carmelo Barbagallo (Uil) confermano che il tema della sicurezza è stato condiviso da tutti nel corso della riunione. Il decreto del governo sull' emergenza Coronavirus non ordina il blocco delle fabbriche, ma sono tanti i grandi gruppi come Fincantieri e le piccole aziende, da Nord a Sud, che hanno deciso di sospendere l' attività. Alcune, come la Ferrari, hanno ridotto al minimo la presenza dei dipendenti negli stabilimenti di Maranello e Modena. Si ferma anche l' edilizia: i cantieri vanno verso la chiusura in tutta Italia, annuncia l' Ance, l' associazione dei costruttori. È la risposta alle richieste dei lavoratori, che per avere maggiori tutele in alcuni casi sono scesi in sciopero. Fincantieri ha sospeso tutte le attività produttive in tutti gli stabilimenti italiani fino al 29 marzo, con il ricorso alle ferie collettive. Si ferma fino all' inizio della prossima settimana la Ducati di Bologna con l' obiettivo, concordato con il sindacato, di riaprire progressivamente a turni ridotti alcuni reparti adattati alle nuove norme. La Brembo, che ha i suoi stabilimenti nel bresciano e nel bergamasco, le aree più colpite dal virus, ha sospeso dal 16 al 22 marzo le attività produttive. Fca ha deciso di prolungare le fermate degli stabilimenti di Melfi e Pomigliano fino a martedì per continuare gli interventi di igienizzazione e riorganizzazione del lavoro, stop alla Sevel di Val di Sangro anche lunedì. «Le mie priorità in questo momento sono la salute e la sicurezza dei dipendenti di Fca», ha scritto l' amministratore delegato Mike Manley ai lavoratori del gruppo.
Massimiliano Jattoni Dall’Asén e Isidoro Trovato per corriere.it l'11 marzo 2020. Il Coronavirus potrebbe richiedere ai lavoratori subordinati di prendere le ferie «forzate» o congedi obbligatori fino al 3 aprile. Lo prevede il Dpcm firmato nella notte dell’8 marzo dal premier Giuseppe Conte , esteso a tutta Italia dal 10 marzo. Il decreto riporta «Si raccomanda ai datori di lavoro pubblici e privati di promuovere, durante il periodo di efficacia del presente decreto, la fruizione da parte dei lavoratori dipendenti dei periodi di congedo ordinario e di ferie». La misura si «affianca», come specifica lo stesso Dpcm, all’invito a usufruire dello smart working, così come già consigliato per tutta l’Italia. Il decreto, nella versione entrata in vigore dal 10 marzo, prevede di evitare ogni spostamento non strettamente necessario in tutta Italia. Per questa ragione chi normalmente è abituato a recarsi sul posto di lavoro potrebbe vedersi essere costretto a ricorrere, come disposto dal datore di lavoro, al «lavoro agile» da casa, laddove possibile, oppure seguire l’invito a mettersi in congedo o in ferie fino almeno alla data prevista dall’attuale Dpcm, ovvero il 3 aprile. Un totale, dunque di 4 settimane che potrebbero significare il quasi totale esaurimento delle ferie annuali. Per quanto riguarda la soluzione dello smart working, il Dpcm prevede che possa essere attivata senza accordo individuale in tutto il Paese fino al 31 luglio (data finale dello stato di emergenza entro la quale si spera che l’epidemia di Covid-19 abbia raggiunto il suo picco e sia iniziata a scemare). Rimane l’obbligo di rispettare le norme che riguardano il lavoro agile, regolate dalla legge 81/2017 che prevedono assenza di vincoli orari o spaziali e un’organizzazione per fasi, cicli e obiettivi. Ai lavoratori deve essere garantita, inoltre, la parità di trattamento economico e normativo rispetto ai colleghi che eventualmente continuano a lavorare in modalità ordinaria. Il lavoro agile è però impossibile per operai e addetti alla pulizia e alla ristorazione. Per loro, le aziende, non possono che ricorrere alle ferie forzate o al congedo o agli ammortizzatori sociali di comparto, così come ripensati con un decreto di imminente emanazione. Ma si può forzare un dipendente ad andare in ferie? Il diritto alle ferie è disciplinato dal Codice Civile all’articolo 2109, che tutela sia le esigenze del lavoratore che quelle dell’azienda. Ferme le disposizioni del Ccnl, il datore ha però il potere di disporre delle ferie forzate secondo criteri di correttezza e buon senso. E questo anche prima che iniziasse l’emergenza Coronavirus e arrivasse il decreto dell’8 e del 9 marzo. L’invito è dunque quello di prendere congedo e ferie in accordo con colleghi e datore di lavoro. Ma se questo non è possibile, l’ultima parola spetterà sempre al datore. “ E’ un momento in cui deve prevalere il buon senso e la collaborazione – commenta Rosario De Luca, presidente della Fondazione Studi Consulenti del Lavoro -. La gestione delle presenze nella sede di lavoro è delicata e va trattata con cura in modo da garantire sia la salute di tutti che la fornitura di beni e servizi”.
Perderà il Paese che non può restare a casa: precari e emarginati. Gioacchino Criaco de Il Riformista l'11 Marzo 2020. C’è un’Italia nel tinello e una che se ne sta sui tetti delle prigioni, una che assalta i supermercati, una che corre al Sud da mammà, una che si fa lo spritz ai Navigli, una che ha i posti in terapia intensiva e una che i respiratori non gli bastano per il carico ordinario dei malati. C’è un’Italia che continua a stare fra l’i so io e voi non siete un cazzo. Che si divide fra quelli che se la cavano e quelli che si arrangino. C’è una parte più forte a cui non frega nulla della parte più debole, la parte che pretende gli sia conservato ciò che ha, contro chi non ha nulla da conservare. E quelli che non hanno sostanze sufficienti, che non hanno congedi pagati dallo Stato: non se ne possono restare a casa a guardare film bellissimi e leggere libri straordinari. Dell’Italia che non può aspettare nel tinello che passi la tempesta, non importa nulla all’Italia che se ne sta in panciolle sottocoperta. Un posto così non può affrontarle le emergenze, le affronta male. Un posto così può vincere qualche battaglia ma non ha un traguardo comune da tagliare. Non lotta per la vittoria, si sa già che alcuni vincono e altri perdono. Perdono quelli che stanno sopra i tetti delle carceri: perdono contro una società che li considera appestati pure se non sono malati, che non se ne occupa in tempi normali e non se ne occuperà nell’emergenza. Perdono quelli che hanno lavori precari, che sono sottopagati e non sono in grado di garantirsi più di qualche giorno di sopravvivenza senza lavoro. Perdono i troppo vecchi, gli emarginati, i più fragili. In fondo è sempre la stessa, solita, legge del più forte, che dovrebbe essere la ragione per cui si sta insieme: per eliminarla, eliminare le differenze e proteggere tutti. È la conservazione, bellezza, altro che la democrazia, e mancano pure i mistici che ambiscano a diventare santi abbracciandosi agli appestati. La Chiesa tace, va in onda in streaming, e sopravviviamo in un posto che continua a essere il Paese dei paesi, che tutte le sue voci le ha seppellite da tempo, e non ne ha più, non ne trova, di autorevoli. Ci dobbiamo accontentare degli amorevoli appelli dei vip che invitano i fortunati a chiudersi nei tinelli.
Coronavirus: la pandemia provocherà 25 milioni di disoccupati. Secondo l'Organizzazione mondiale del Lavoro le conseguenze sociali della crisi sanitaria saranno più gravi della crisi economica del 2008. La Repubblica il 20 marzo 2020. Uno studio realizzato dall'Organizzazione del Lavoro (che riunisce i governi, i sindacati e le organizzazioni degli industriali di 187 Paesi) dimostra che la pandemia rischia di provocare la perdita di 25 milioni di posti di lavoro, andando ad aggravare un settore dove nel 2019 già si contavano 188 milioni di disoccupati nel mondo. Un numero superiore a quello che si verificò dopo la crisi economica del 2008 e che comportò una crescita dei disoccupati mondiali di 22 milioni di unità. "I comparti più toccati saranno il turismo, i trasporti ma anche l'industria dell'automobile", dice Guy Ryder, direttore generale dell'Organizzazione delle Nazioni Unite. "Sarà un crash-test di proporzioni inquietanti, ben peggiore di quello del 2008". E saranno le economie occidentali quelle più funestate dalla crisi, con una perdita di guadagni che si prevede sfiorerà i 3100 miliardi di euro entro la fine del 2020. Questa pauperizzazione generalizzata si tradurrà su un'importante diminuzione di consumi e servizi, che a sua volta impatterà sulle imprese e sulle economie nazionali. Tra 8 e 35 milioni di persone rientreranno nella categoria dei cosidetti "lavoratori poveri" (che sono quelli che guadagnano meno di 2,90 euro al giorno), mentre si prevedeva che nel 2020 la cifra totale di questi, pari a 630 milioni di persone, sarebbe diminuita di 14 milione di persone. "Prendendo esempio da quanto accadde nel 2008 è di fondamentale importanza proteggere il salario dei dipendenti e cercare di salvare i posti di lavoro", dice ancora Ryder.
Pietro Del Re per repubblica.it il 20 marzo 2020. Uno studio realizzato dall'Organizzazione del Lavoro (che riunisce i governi, i sindacati e le organizzazioni degli industriali di 187 Paesi) dimostra che la pandemia rischia di provocare la perdita di 25 milioni di posti di lavoro, andando ad aggravare un settore dove nel 2019 già si contavano 188 milioni di disoccupati nel mondo. Un numero superiore a quello che si verificò dopo la crisi economica del 2008 e che comportò una crescita dei disoccupati mondiali di 22 milioni di unità. "I comparti più toccati saranno il turismo, i trasporti ma anche l'industria dell'automobile", dice Guy Ryder, direttore generale dell'Organizzazione delle Nazioni Unite. "Sarà un crash-test di proporzioni inquietanti, ben peggiore di quello del 2008". E saranno le economie occidentali quelle più funestate dalla crisi, con una perdita di guadagni che si prevede sfiorerà i 3100 miliardi di euro entro la fine del 2020. Questa pauperizzazione generalizzata si tradurrà su un'importante diminuzione di consumi e servizi, che a sua volta impatterà sulle imprese e sulle economie nazionali. Tra 8 e 35 milioni di persone rientreranno nella categoria dei cosidetti "lavoratori poveri" (che sono quelli che guadagnano meno di 2,90 euro al giorno), mentre si prevedeva che nel 2020 la cifra totale di questi, pari a 630 milioni di persone, sarebbe diminuita di 14 milione di persone. "Prendendo esempio da quanto accadde nel 2008 è di fondamentale importanza proteggere il salario dei dipendenti e cercare di salvare i posti di lavoro", dice ancora Ryder.
Napoli in ginocchio, a rischio migliaia di lavoratori “sommersi”. Carlo Nicotera de Il Riformista il 19 Marzo 2020. Gennaro fa il parcheggiatore abusivo. Non sta bene, ma non ha alternative. Arrotonda facendo anche il guardiano notturno quando chiude un locale della zona dove “fa il mestiere”. Non ci si crederà, ma è una brava persona. Ha tre figli, uno sta preparando il concorso per entrare in Accademia Aeronautica. Qualcuno dirà: poteva fare meno figli, cercare un lavoro onesto e non aspirare a far parte della competizione per l’ascensore sociale. Facile a dirsi se si sta da una parte della trincea che il Coronavirus sta scavando nella nostra collettività. Se si sta dalla parte di Gennaro, che da dieci giorni non porta un euro a casa e non ha diritto a esistere – altro che ammortizzatori sociali – il discorso è diverso. Gennaro mi ha confessato che un medico, che lo stima, gli ha pagato l’affitto per tutto il resto dell’anno. È giovane, Gennaro, ma piangeva nel raccontarlo. Commozione e gratitudine, e smarrimento, paura. È un uomo della strada, ma ho premesso che è un uomo perbene anche se parcheggiatore abusivo. Gennaro è solo una delle migliaia e migliaia di persone (e per di più anello più debole di altri) che producono a Napoli (ma è un discorso che per estensione vale per tutto il Mezzogiorno) una economia parallela, sommersa e nascosta, che però dà da mangiare alle famiglie di quelle stesse persone. Un territorio che ha perso sostanzialmente la rete industriale, che non ha risolto il conflitto con la multinazionale della criminalità organizzata, e che, per colpa del Coronavirus, vede a rischio i due circuiti produttivi rimasti solidi (Turismo e Agroalimentare) rischia di vedersi scoperto con tutte le sue piaghe, e senza più nulla che possa frenare una massa critica di persone che avranno prima o poi bisogno di gridare il proprio diritto alla sopravvivenza. Costi quel che costi. È un discorso amaro e pericoloso. Ma realistico. Leggete i due servizi di Viviana Lanza e Nicola Sellitti. La cameriera pagata a nero, il parcheggiatore abusivo, il ragazzo del bar pagato 30 euro al giorno più eventuali mance, la babysitter (a nero) che per ora non lavora perché la sua signora fa lo smart-working, lo stagionale irregolare di una struttura turistica, gli ambulanti del Lungomare “liberato”, i manovali dell’est semi-irregolari che lavorano nei cantieri di ristrutturazione case, i commessi dei negozi che facilitano il riciclaggio e sono pagati a nero, le migliaia di disperati (bianchi e neri) portati dai caporali sui campi e nei frutteti della regione, sono spazzati via dalla possibilità di “arrangiarsi” (parola indegna per un Terzo Millennio), e quindi di vivere, per un tempo che rischia di essere lunghissimo. E’ un dramma, è bene saperlo, che può avere due esiti possibili: un ulteriore incremento del reclutamento della manovalanza criminale (con crescita di numeri e violenza); o un magmatico ribollire del conflitto sociale con sbocchi gravissimi (altro che Whirpool!). Di certo non finisce a tarallucci e vino. Bisogna saperlo. Pensarci. Prevenire. Provvedere. Qualunque sia il posto che occupiamo in questa guerra ormai in corso, tra chi può e chi no.
Campania, la pandemia scopre la grande falla del lavoro nero. Viviana Lanza de Il Riformista il 19 Marzo 2020. C’è un pezzo di Napoli e della Campania che è sempre stato nell’ombra, quella nera del lavoro sommerso. È una parte di popolazione consistente, il 60% dei lavoratori secondo l’ultimo bilancio stilato all’esito di un anno di controlli ad opera delle forze dell’ordine. Qualcosa come il 10% del pil della nostra regione se lo si vuole rapportare alle stime degli economisti. Cosa ne sarà di questi lavoratori dopo la pandemia da Coronavirus? Quali scenari per la vita di queste persone e quali effetti sull’economia del territorio? Il decreto “Salva Italia” ha predisposto misure per dare sostegno al reddito di famiglie e imprese in questo momento di grande crisi, ma è ovvio che non ci si poteva aspettare un intervento che mettesse in campo risorse anche per i lavoratori in nero, per quelli irregolari, per i lavoratori invisibili. Quanto tutto questo peserà sulla tenuta e sulla ripresa dell’economia campana è uno degli interrogativi del momento. Il nuovo decreto non ha previsto misure per colf e badanti e per chi come loro percepisce un reddito legato alle ore di lavoro effettivamente svolte, lavoratori saltuari seppure non irregolari. Ci sarà un aumento di richieste di reddito di cittadinanza? È uno scenario possibile, secondo l’economista Tullio Jappelli, professore di Economia politica dell’Università di Napoli Federico II. “Il reddito di cittadinanza soprattutto in Campania è uno strumento di sostegno alla povertà, non uno strumento per inserire persone nel mondo del lavoro. Data l’eccezionalità della crisi determinata da questa pandemia si potrebbe verificare un aumento di richieste, anche perché ci sono state a margine persone che non avevano richiesto il sussidio ma adesso, private del lavoro, non avranno più motivo di non chiederlo”. Il riferimento è proprio ai lavoratori del sommerso, quelli che non hanno voluto rinunciare a impieghi saltuari in cambio del reddito di cittadinanza e che nel prossimo futuro si troveranno a fare i conti con la crisi che li sta costringendo a casa. Il riferimento è a non solo a quei lavoratori che hanno scelto fino ad ora di rimanere nell’ombra dell’irregolarità ma anche a quei lavoratori regolari, seppure precari come collaboratori e badanti. “C’è un buco nel piano del governo”, spiega il professor Jappelli commentando il decreto Salva Italia che per il momento non ha previsto aiuti per questa seconda categoria di lavoratori. Si rischia che diventino i poveri di domani. E non solo loro. Il rischio esiste anche per tutti i lavoratori che fino a febbraio avevano un reddito che non li faceva rientrare tra i beneficiari del sussidio pubblico. “Finora il reddito di cittadinanza è stato tarato sul reddito percepito nell’anno precedente ma bisognerà prevedere delle modifiche perché chi fino a febbraio aveva un certo reddito, dopo questa crisi, non averlo più e non può certo aspettare il 2021 per beneficiare del sussidio. Il vantaggio del reddito di cittadinanza sta inoltre nel fatto che si tratta di un sostegno durato e non una tantum, per cui consentirebbe di fronteggiare meglio un simile momento di crisi”, precisa il professor Jappelli. Quali gli scenari possibili? Ci saranno nuovi poveri, il che vuol dire nuove necessità di aiuti. E qui entra in gioco il terzo settore: “Diventa un settore ancora più importante – commenta Jappelli – Le associazioni di volontari andrebbero sostenute, sono il vero punto di contatto con territorio”. Per il resto, valgono le regole generali dell’economia: ci si aspetta una forte recessione, il cui impatto sarà proporzionalmente collegato alla durata della pandemia e dalla quale si potrà uscire in due modi, attuando politiche monetarie che prevedano maggiore liquidità per sostenere le imprese e aiutarle a risollevarsi dagli effetti negativi subiti in questi mesi, e approvando politiche fiscali con strumenti che, come i sussidi, aumentano il debito pubblico ma riescono a sostenere il reddito delle famiglie.
Senza migranti l’agricoltura rischia il collasso, in estate saremo senza frutta e verdura. Giovanni Altoprati de Il Riformista il 19 Marzo 2020. La prossima estate sarà senza frutta e verdura. Non per problemi dovuti alla siccità o al cambiamento climatico ma semplicemente perché nessuno raccoglierà nei campi i prodotti ortofrutticoli. E’ questo l’effetto del “cocktail” micidiale a base di decreti sicurezza e decreti sull’emergenza Coronavirus che hanno blindato le frontiere del Bel Paese. Il tema, che non è stato ancora affrontato dal governo, sta iniziando ad allarme gli addetti ai lavori della filiera agroalimentare. Il lavoro nei campi, in particolare l’attività di raccolta, da anni viene effettuata quasi esclusivamente da cittadini extracomunitari, molti provenienti dall’Africa o dall’Est Europa. Marocco, Tunisia, Egitto, Mali, Gambia, Liberia, Albania, Bulgaria, sono le nazioni che forniscono la gran parte della forza lavoro all’agricoltura tricolore. Complessivamente sono oltre 346mila gli stranieri, provenienti da ben 155 Paesi, impiegati in agricoltura. Nel Lazio, un terzo dei lavoratori agricoli, non solo quelli impiegati nella attività di raccolta, è straniero. Fino allo scorso anno, tanti lavoratori agricoli extracomunitari venivano in Italia con il permesso di soggiorno stagionale, che aveva durata da 20 giorni a nove mesi. Il giro di vite sui permessi ha fissato margini stringenti sulle quote annualmente stabilite dal decreto di programmazione dei flussi di ingresso per motivi di lavoro. Nel 2019 è stato fissato in 18.000 il numero di permessi per il lavoro subordinato stagionale nei settori agricolo e turistico-alberghiero. I settori più bisognosi di manodopera straniera. La richiesta di assunzione di un lavoratore straniero poteva essere fatta da un datore di lavoro italiano o straniero regolarmente soggiornante in Italia attingendo nell’elenco dei Paesi inseriti nel decreto flussi. Salvini, però, aveva messo dei paletti ai lavoratori che provenivano da Paesi i cui governi non si erano dimostrati “collaborativi” nei rimpatri dei migranti irregolari. La “rappresaglia” non aveva fermato i datori di lavoro senza scrupolo che avevano continuato ad impiegare, in condizioni di totale sfruttamento, manodopera clandestina. Intere aziende, il discorso unisce l’Italia, dalla Calabria alla Lombardia, si sono avvalse, e continuano ad avvalersi, di lavoratori senza alcuna tutela. Questo fino allo scoppio dell’emergenza Coronavirus che ha fatto tornare nei Paesi d’origine quasi tutti i lavoratori e che sono ora impossibilitati a rientrare in Italia. In questi giorni tantissimi produttori agricoli sono davanti ad un dilemma: seminare o non seminare. Le colture stagionali, infatti, devono essere impiantate a partire dalla fine di questo mese in modo da avere già per maggio i primi frutti. L ’agricoltura Italiana, va ricordato, si è profondamente rinnovata in questi anni. E’ cresciuta e ha saputo valorizzare le produzioni vegetali di più alto pregio. Al punto che l’Italia è diventato il primo Paese agricolo dell’Europa. I lavoratori stranieri – afferma la Coldiretti nell’ultimo rapporto – contribuiscono in modo strutturale e determinante all’economia agricola del Paese e rappresentano una componente indispensabile per garantire i primati del Made in Italy. Nel periodo 2008-2018, l’Italia ha conquistato la leadership di settore a livello dell’Unione europea. Qualche numero: nel 2018, in cui il valore aggiunto dell’agricoltura italiana è stato stimato da Eurostat pari a 32,2 miliardi di euro. Il dato permette al nostro Paese di mantenere il primo posto tra i Paesi della Ue, davanti alla Francia (32,1 miliardi), alla Spagna (30,2 miliardi) e alla Germania (16,8 miliardi). Risultati ottenuti senza contributi alla produzione a beneficio del settore agricolo che, nell’intera Ue, ammontano a un totale di circa 51 miliardi nel 2017. Considerando i valori assoluti, nella classifica dei Paesi che ricevono i maggiori contributi all’agricoltura (sia nazionali sia europei), al primo posto c’è la Francia con 8,2 miliardi, seguita dalla Germania con 6,7 miliardi e dalla Spagna con 5,7 miliardi. Per l’agricoltura italiana i contributi alla produzione ammontano a 5,0 miliardi. Tra i maggiori Paesi produttori agricoli Ue, il rapporto tra contributi alla produzione e valore aggiunto è per l’Italia il più basso. Tale rapporto, infatti, corrisponde nel 2017 al 33,1% in Germania, al 27,9% in Francia, al 20,4% in Spagna e solo al 15,8% in Italia, a fronte di una media della Ue pari al 27,6%. Quali sono le produzioni più gettonate? Quasi tutte le principali colture. Negli ortaggi l’Italia è il primo produttore Ue: pomodori, melanzane, carciofi, cicoria fresca, indivie, sedano e finocchi. E anche per quanto riguarda la frutta l’Italia primeggia in molte produzioni importanti: dalle mele e pere fresche alle ciliegie, dalle albicocche alle uve da tavola e da vino, dai kiwi alle nocciole. Per alcuni produzioni, come i carciofi, l’Italia è poi leader mondiale.
Il ministro del Sud Provenzano apre agli aiuti per chi lavora in nero. Redazione de Il Riformista il 24 Marzo 2020. “Se la crisi si prolunga dobbiamo prendere misure universalistiche per raggiungere anche le fasce sociali più vulnerabili: le famiglie numerose, oltre a chi lavorava in nero”. Parole e ‘musica’ di Peppe Provenzano, il ministro del Sud del governo Conte, che in una intervista al Corriere della Sera apre alla possibilità di aiutare anche chi oggi lavora in nero per fronteggiare l’emergenza, anche economica, provocata dal Coronavirus. Ciò che non è chiaro, ovviamente, è come sia possibile fornire aiuto a lavoratori fantasma, anche perché questi andrebbero prima di tutto scovati o dovrebbero confessare l’illecito compiuto. Mistero anche sul tipo di misura che l’esecutivo potrebbe fornire ai lavoratori in nero. Ma a preoccupare Provenzano è soprattutto la tenuta del Mezzogiorno nel caso l’epidemia di Covid-19 scoppiasse anche sotto Roma. “Al Sud abbiamo due settimane di tempo in più, perché il virus si è diffuso dopo – ricorda il ministro – Non dobbiamo sprecarle: il distanziamento va applicato con la massima cura e intanto dobbiamo ampliare la disponibilità di letti in terapia intensiva. A Sud partivamo da quasi 1.700 posti, ora siamo a 2.400 e dobbiamo arrivare al più presto almeno a 3.500”. Ma il ministro per la Coesione Sociale ricorda anche che “se l’epidemia fosse scoppiata al Sud sarebbe stata un’ecatombe. Non lo dico con sollievo, ma con rabbia. È il frutto del disinvestimento nella sanità pubblica, di alcune degenerazioni regionali, della scelta di puntare sul privato”. Provenzano ricorda però con orgoglio che “i malati di Bergamo oggi sono accolti negli ospedali in Sicilia o in Puglia e che dei quasi ottomila medici che si sono fatti avanti per dare una mano in Lombardia, moltissimi sono del Sud. Tutto il Paese sta dando una prova di responsabilità”. Quanto invece alle strategie e alle mosse in atto nel Mezzogiorno per fronteggiare l’emergenza, Provenzano spiega che “questa settimana dovrebbe entrare a regime l’approvvigionamento di macchinari e andranno distribuiti su tutto il territorio nazionale. Domenico Arcuri, il commissario straordinario, conosce bene le criticità del Sud. Lui rappresenta una garanzia”, conclude il ministro.
Emergenza Coronavirus, anche chi lavora in nero va aiutato. Severino Nappi de Il Riformista il 24 Marzo 2020. Persino il sindaco di Roma, Virginia Raggi, l’altro giorno ha scoperto che in Italia esiste il lavoro nero! Un esercito di persone che, fra le sue truppe, arruola tanti che certo non hanno scelto loro di lavorare fuori dalle regole, ma lo accettano soltanto perché è l’unico modo che hanno per mantenere la propria famiglia. Un fenomeno che attraversa l’intero Paese, ma che al Sud tocca tra il 20 e il 30 per cento della popolazione. Dunque una questione enorme che però sfugge del tutto ai radar del Governo. Certo, la pandemia già mette a durissima prova la tenuta della stessa economia regolare: le grandi aziende barcollano sotto i colpi di una borsa altalenante; quelle piccole e medie – l’ossatura del nostro tessuto produttivo – rischiano il tracollo; la filiera agroalimentare soffre per l’abbandono dei braccianti stranieri; i commercianti che hanno abbassato le saracinesche si domandano se avranno la possibilità di rialzarle quando l’emergenza sarà rientrata. Al netto della loro evidente insufficienza, le prime misure adottate sono servite a certificare la consapevolezza del Governo di doversi far carico di offrire delle risposte. Proprio per questo vi chiedo però di immaginare cosa ha potuto provare invece il popolo degli invisibili nello scorrere l’elenco degli interventi e scoprire di non ritrovarsi neppure citato. Di fronte a tutto questo non c’è retorica del balcone che tenga, anzi l’unità nazionale scricchiola quando sono in tanti a non poter mettere il piatto a tavola. Ecco, questo è il vero tema che il lavoro nero pone nei giorni del Coronavirus. Chi vive di mance che diventano stipendio, di fine settimana a fare il cameriere in pizzeria, di pulizie ad ore, di fabbrichette che non possono regolarizzarti, di lavori edili saltuari e di altre mille forme di precarietà deve avere un segnale, subito. Il mio non è buonismo, ma è consapevolezza di quello che può accadere nella mente di chi è chiuso in una casa di cui probabilmente sa di non poter pagare l’affitto tra pochi giorni. La spinta all’illegalità e alla criminalità è forte in queste condizioni, non prendiamoci in giro. E se il senso di dignità che caratterizza l’esistenza di quasi tutti i lavoratori in nero può fare da deterrente alla deriva illecita, lo scoramento di sentirsi soli, per giunta in un momento come questo, rappresenta una lacerazione profonda nella nostra società. Non possiamo permettercela guardando avanti, guardando alla grande fatica che tutti saremo chiamati a compiere quando, speriamo al più presto, dovremo iniziare il percorso della ricostruzione. Per poterlo fare tra qualche mese, dunque servono oggi misure straordinarie e coraggiose, che diano un segnale ai milioni di lavoratori sommersi di questo Paese.
In America, Donald Trump sta valutando l’ipotesi di inviare un assegno di mille dollari ad ogni americano. In Italia – incrociando le banche dati – si possono rapidamente censire tutti i nuclei familiari in cui non c’è nessuno che percepisce redditi, pensioni o altre altre forme di sostegno. A questi nuclei si deve assegnare un sussidio straordinario per questi 2/3 mesi di blocco totale delle attività, vincolato alla spesa e al fitto di casa. Un sostegno – da cui escludere i nuclei familiari senza reddito dichiarato ma coinvolti in vicende di criminalità organizzata, traffico di droga o reati gravi contro la persona – da erogare su domanda, da accompagnare con l’indicazione e le modalità dell’attività svolta in modo irregolare. Questo non con finalità delatorie o sanzionatorie, ma soltanto per iniziare anche a costruire quella “banca dati” del mondo del lavoro nero che in Italia non è mai esistita. Insomma, l’emergenza può rappresentare anche l’occasione per avviare una risposta strutturale al tema del lavoro nero.
Lodovico Poletto per “la Stampa” il 24 marzo 2020. Le mascherine sono l' ultimo problema. Fa più paura uscire di casa. «Io lavoro in un' azienda che rispetta tutti i protocolli, ma come si fa a stare tranquilli? Viviamo in una situazione troppo complicata. In giro ci sono le pattuglie che dicono al megafono di stare a casa. Il sindaco del mio paese, Collegno, ha fatto un video angosciante. Le nostre famiglie sono terrorizzate. Continuare a lavorare in queste condizioni è assolutamente i possibile». Parola di Massimo Di Canosa, delegato Fim Cisl della Ex Tyco di Collegno. Qui, come in decine di altre aziende - dal Nord al Sud del Paese - ieri i lavoratori hanno incrociato le braccia. Anzi, non si sono neanche presentati. I delegati si erano consultati domenica via telefono. Avevano tracciato strategie comuni. E avvisato i colleghi delle fabbriche: «Domani si sta a casa». È accaduto al Nord. Dove ai cancelli di decine di aziende non si è presentato nessuno. È accaduto nella Lombardia, che paga il prezzo più alto dal punto di vista sanitario. È accaduto a Leonardo, Safilo, Vitrociset. Ieri un' assemblea ha fermato gli impianti dell' Acciaieria 1 all' ex Ilva. I sindacati - Cgil, Cisl e Uilm- avvertono: «Siamo pronti alla difesa della salute del lavoratori e di tutti i cittadini». E ricompare la parola «Sciopero generale». Ne parlano i metalmeccanici. Lo fanno i bancari. L' Abi annuncia: «Pronti a ricevere eventuali segnalazioni di criticità e a sensibilizzare le banche». Ma è nelle fabbriche che monta la tensione. Arrivano note congiunte dei sindacati confederali: «Chiediamo di limitare il lavoro, senza eccezione alcuna, alle sole attività essenziali per ridurre la mobilità dei dipendenti. Sulla base di questa determinazione sosteniamo la richiesta di confronto avanzata al Governo». Dalla Lombardia arriva l' annuncio dello sciopero per il 25 marzo. Ieri il settore dell' aerospazio ha segnato una battuta di arresto. Aniello Montella, coordinatore Uilm a Rivalta stima un' adesione «tra il 90 e il 95 per cento di lavoratori allo sciopero che abbiamo proclamato domenica su lunedì». Lui lavora alla ex Avio, azienda che oggi è nel perimetro di General Electric. Il clima in fabbrica, in questi giorni è quello che è. Specialmente dopo che si è saputo o che un collega è risultato positivo al test. Ora lui è a casa. «E una ventina di persone sono in quarantena. Ecco, rischiare così non è giusto e in si può» dice. Ma da voi le condizioni di lavoro come sono? «Ottime, sotto molti profili. Abbiamo le mascherine Ffp2 e Ffp3, cioè il materiale più sicuro e le cambiamo ogni giorno. Da questo punto di vista non abbiamo nulla da contestare. Ma resta il fatto che il rischio è troppo grande». Ecco, è l' incognita del rischio che fa paura. Che lascia i reparti vuoti, che fa ripetete la parola sciopero, senza che stavolta venga srotolata una sola bandiera di parte. Lo sciopero è per la salute. «È stata lasciata troppa discrezionalità alle aziende, rispetto a ciò che diceva il Dpcm. Basta una comunicazione al prefetto e le fabbriche possono riaprire perché rientrano nella filiera di questo e di quello. Tutto ciò è assurdo, la salute va ben al di là del profitto», denunciano i sindacati dei metalmeccanici al Nord. Lo fanno mentre l' industria ragiona sul futuro. Partendo da un dato che fa gelare il sangue: il 70 per cento delle imprese rischia di non riaprire quando l' emergenza Corona sarà finita. Lo ha detto il presidente di Confindustria Vincenzo Boccia, lasciando intendere scenari catastrofici. E oggi si torna a discutere. E forse a scioperare. Alla Ex Tyco, dove si fabbricano connettori elettrici oggi non entra nessuno. L' azienda ha scelto di lasciare a casa i 400 lavoratori, dopo lo sciopero di ieri. Alal Ex Avio, invece si rientra. Ci saranno santificazioni e controlli. Magari sarà anche misurata la temperatura all' ingresso. Ma la fabbrica riapre. Gli stipendi si pagano. Si torna a produrre.
Rivolta dei sindacati contro il decreto: primi scioperi in tutta Italia, mercoledì stop in Lombardia. Redazione de Il Riformista il 23 Marzo 2020. Metalmeccanici in sciopero mercoledì in Lombardia contro il nuovo decreto del Governo che, scrivono i sindacati di categoria lombardi in una nota unitaria, “tiene conto solo in misura parziale delle istanze che Cgil, Cisl e Uil hanno posto all’attenzione dell’esecutivo”. Molte attività “non essenziali né indispensabili – scrivono i sindacati – sono state inserite tra quelle che possono continuare a lavorare. Abbiamo sempre preteso di mettere salute e sicurezza del lavoratore come questioni prioritarie, ma registriamo che il Governo ha ceduto alle indebite pressioni di Confindustria: il profitto e l’economia hanno avuto il sopravvento su salute e sicurezza. Così non va”. Per questi motivi, i sindacati proclamano la sciopero regionale il giorno 25 marzo “in tutte le aziende che non hanno produzioni essenziali e di pubblica utilità per le necessità del Paese e in tutti quei luoghi di lavoro dove non ricorrano le condizioni di sicurezza”. In merito allo sciopero di mercoledì il segretario generale della Fim-Cisl, Marco Bentivogli, ha spiegato che la decisione “è stata presa perché si consideri la Lombardia una regione dove sono necessarie misure più restrittive sulle attività da lasciare aperte”.
GLI SCIOPERI GIA’ IN ATTO – Ma senza attendere la chiamata generale dei sindacati, sono diverse le aziende dove già stamattina sono scattati gli scioperi contro il decreto del governo che avrebbe esteso le attività indispensabili rispetto a quanto concordato con il sindacato. Nel settore aerospazio, come riporta la Fiom Cgil, hanno incrociato le braccia i lavoratori di Leonardo, Ge Avio, Fata Logistic System, Lgs, Vitrociset, MBDA, DEMA, CAM e DAR.
LA DIFESA DI CONFINDUSTRIA – Intervenuto invece su Radio Capital durante la trasmissione ‘Circo Massimo’, il presidente di Confindustria Vincenzo Boccia aveva criticato l’ipotesi di uno sciopero generale: “”Lo sciopero generale? Onestamente non capisco a capire su cosa”. Per Boccia infatti le chiusure di aziende “sono addirittura più restrittive “di quello che aveva indicato” il Governo ai sindacati sabato scorso. “Io non ho capito più di questo cosa si dovrebbe fare”.
Boccia ha poi sottolineato che col decreto “si pone una questione che dall’emergenza economica ci fa entrare nell’economia di guerra”. Per il presidente di Confindustria “il 70% del tessuto produttivo italiano chiuderà”. “Se il Pil è di 1800 miliardi all’anno vuol dire che produciamo 150 miliardi al mese, se chiudiamo il 70% delle attività vuol dire che perdiamo 100 miliardi ogni 30 giorni”, avverte Boccia.
Vittorio Feltri: “Sindacati pericolosi come il Coronavirus, vogliono farci morire”. Vittorio Feltri - liberoquotidiano.it, Sab, 14/03/2020. Ammetto di non avere mai avuto simpatia per i sindacati quindi, nell’ articolo che sto scrivendo, sarò forse condizionato dal pregiudizio. Molti anni orsono quando essi ogni due per tre proclamavano uno sciopero, impedivano ai lavoratori di entrare in fabbrica istituendo dei picchetti davanti ai cancelli. Da lì non si passava, chi tentava di farlo veniva coperto di botte, cosicché la maggioranza degli operai rincasava, ovviamente senza la paga.
Oggi le cose sono cambiate e non c’ è più nessuno che percuota i cosiddetti crumiri. Però l’ insensatezza sindacale permane. Ieri alcuni tribuni del popolazzo se ne sono usciti con questa brillante idea: se bisogna che gli italiani se ne stiano riparati in casa per ridurre al minimo i rischi di contagio, è necessario chiudano anche gli opifici che sfornano prodotti di vitale importanza. Se l’ assurda proposta venisse accolta dal governo, va da sé che non solo si paralizzerebbe completamente il Paese, ma il popolo che non è morto a causa del virus morirebbe di inedia. Mi spiego con un esempio basico. Cremonini è il più grande allevatore di bestiame che, una volta macellato, serve ad alimentare milioni di persone. Se il suo personale, numerosissimo, cessasse di sgobbare, sparirebbe dal mercato la carne. Che io non mangio perché non mi va, ma di cui la maggioranza dei miei compatrioti ritiene di non potere fare a meno. Lo stesso discorso sussiste per mille altri generi di consumo. Se smetti di approntarli, automaticamente non li trovi al supermercato e forzosamente non sei in grado di acquistarli. È pacifico, non tutti gli articoli in vendita sono indispensabili, tuttavia parecchi di essi sì. Se le fabbriche e le officine, le ditte grandi o piccole, non li immettono più nel circuito commerciale, la gente non campa più. Chi non crepa di Corona muore di fame, che non è una gioiosa alternativa alla polmonite letale. Immagino che questi sintetici ragionamenti siano chiari a qualsiasi persona, tranne ai sindacalisti che insistono: fermiamoci tutti così scamperemo in blocco alla infezione senza distinzioni di appartenenza sociale. Essi non tengono conto che i cittadini non si nutrono di aria bensì hanno l’ urgenza di soddisfare alcune esigenze, tipo pranzare, bere, usufruire della luce elettrica e roba simile. Se impedisci loro di appagarle poiché preferisci che ogni singolo individuo stia sul divano a grattarsi il ventre, in ossequio alle disposizioni velleitarie della cosiddetta triplice, non solo si ferma il mondo ma l’ umanità va all’ altro mondo.
Non si deve morire di Coronavirus, ma neanche di fame! Aldo Grandi Imola Oggi La Gazzetta di Lucca sabato, 14, marzo, 2020. Sono come i coccodrilli. Prima li mangiano, poi piangono. Stessa cosa da queste parti. Prima li hanno terrorizzati, annunciando, lo abbiamo sentito e letto con i nostri occhi, milioni di morti nelle settimane successive, chiudendo ogni parvenza di vita quotidiana anche dove il Coronavirus, dati statistici alla mano, non si erano nemmeno accorti esistesse. Poi, adesso che si sono resi conto di aver creato un danno, paradossalmente, ancora più grande dello stesso virus, ma invisibile e non misurabile né, tantomeno, appetibile per gli avvoltoi della carta stampata e delle Tv, improvvisamente trasmettono i consigli per gli acquisti, ossia come affrontare ansia e attacchi di panico suscitati da questa emergenza che di emergenza, perdonateci, oltre al fronte sanitario, ha quello molto, ma molto più rischioso, strisciante e drammatico delle conseguenze delle misure adottate. Qui, a nostro avviso, è necessario distinguere tra i doveri di un giornalista e quelli di un intellettuale. Ormai i giornalisti sono diventati solo e soltanto degli amplificatori, nella peggiore delle ipotesi e dei diffusori, nella migliore, di ciò che dicono altri, politici soprattutto, senza avere non solo la possibilità, ma nemmeno l’idea che si possa nutrire qualche dubbio. Essere giornalisti, in particolare in provincia, ma non soltanto, significa fare i passacarte, stare seduti davanti al monitor e pubblicare tutto quello che ti inviano i numerosi e, ormai, onnipresenti addetti stampa. Copia e incolla salvo, quando chi invia non sa scrivere, redazionare. Per il resto siamo una struttura gerarchica dove gli incarichi sono quasi sempre distribuiti in maniera direttamente proporzionale non alle capacità, ma alla disponibilità a dire sempre di sì e a non mostrare segni di insofferenza verso chi è seduto al volante. Se qualche giovincello crede che fare questo mestiere sia la quintessenza della libertà se lo tolga dalla testa. Sono tutte stronzate. Fatta questa premessa, noi riteniamo che il dovere di chi utilizza la parola sia quello, in particolare, di stimolare la riflessione, anche, quando necessario, provocando senza, ovviamente, utilizzare trucchi o messinscene. Tornando al Coronavirus, siamo arrivati ad una sorta di atmosfera surreale. Siamo usciti a fare un giro e abbiamo visto lunghe code di fronte ai supermercati dove la distanza osservata non è di un metro, ma anche di due, a volte tre metri. Noi stessi, in attesa di fronte ad un negozio di verdura in città, a una distanza di un metro e mezzo, abbiamo notato la persona che ci stava di fronte fare qualche passo in avanti per distanziarsi ancora di più. E questi dementi in giacca e cravatta a 12 mila euro al mese vengono a parlarci di solidarietà, di unità nazionale, di forza morale. Buffoni. Hanno ridotto l’Italia ad un lazzaretto e adesso chiedono aiuto. Non c’è una sola persona che accetterebbe, adesso, di allungare anche una sola mano per aiutarne un’altra che dovesse avere bisogno in mezzo a una strada, magari a causa di una caduta o di un incidente. Tutti hanno paura di tutto. Stanno predisponendo l’eventuale arrivo di forze militari qualora dovessero avvenire assembramenti spontanei per qualunque motivo. Ricordiamo che, all’indomani della caduta di Mussolini e del fascismo, il 25 luglio 1943, gli italiani si dettero, si fa per dire, alla pazza gioia, credendo che la guerra e le sue tragedie fossero finite. Invece erano appena cominciate. Anzi, proprio dal 25 luglio e mentre la classe dirigente e la monarchia stava preparandosi la fuga a seguito dell’armistizio, vennero uccisi senza alcuna pietà migliaia di italiani colpevoli solo di credere che era tornata la libertà. E, con essa, la giustizia. Perché questi riferimenti storici? Sempre per riflettere e porre domande. Dialogo, ieri sera, telefonico, con un amico impiegato dello stato: Aldo famo a capisse. A me che sono impiegato statale che cazzo me frega se mi mettono a casa? Anzi, ci sto, ma bene. Leggo, ascolto musica, mi rilasso e quando mi ricapita? Tanto a fine mese lo stipendio lo riscuoto lo stesso. Ma quelli che vivono di turismo, di ristorazione, di vendita con negozi che sono chiusi, quelli che se non lavorano non mangiano, ma come fanno? Ma come cazzo si fa a chiudere, ad esempio, la Basilicata che ha appena dieci contagi come se fosse la Lombardia?. Appunto. Considerazioni populiste dirà qualcuno, menefreghiste osserverà qualcun altro, di pancia obietteranno i soloni della Sinistra che con lo stato vanno a braccetto da sempre. Eppure considerazioni veritiere. Hanno commesso uno dei più grandi errori, ossia trattare allo stesso modo situazioni diverse, con quella mania della omogeneizzazione e della omologazione tanto cara a queste latitudini, dove i meriti finiscono per essere appiattiti in nome di una eguaglianza senza senso che altro non fa se non aumentare frustrazione e necessità di affidarsi agli Xanax di turno. Ecco, veniamo allo Xanax. C’è un questionario che gli psicoterapeuti e non solo sottopongono ai propri pazienti, comprendente oltre 530 domande cui rispondere senza soluzione di continuità. Ebbene, pochi, pochissimi riescono ad ottenere un punteggio normale. La stragrande maggioranza accusa stati di ansietà di vario livello che si manifestano nella quotidianità e che vengono considerati, da ciascuno, inevitabili andicap o caratteristiche del proprio comportamento. In questo momento di allarme isterico e generalizzato, dove gli imbecilli e i bastardi del PUD si divertono a sparare cazzate senza nemmeno pensare alle conseguenze, le persone sono passate da livelli bassi di ansietà a livelli di vera e propria psicosi. Che si riflette, inevitabilmente, su tutti gli aspetti della propria esistenza a cominciare dai familiari. Ora, se foste un ristoratore, un artigiano, un commerciante, un piccolo imprenditore come vivreste la vostra quotidianità di fronte a quello che questa razza di incapaci ha disposto per tutto lo Stivale? Altro che Xanax. Un altro problema è il sonno. C’è gente che non dorme pensando alle preoccupazioni del futuro. Intanto guardate la Germania? 550 miliardi di euro e aiuti illimitati alle imprese. E ‘sti cazzi con l’Ue tanto l’Ue sono loro. E Conte e la sua truppa che fanno? Sospendono le bollette e rinviano tasse e imposte. Vi rendete conto? Cosa vuol dire sospendere il pagamento dei debiti fiscali? Ve lo diciamo noi. Prenderlo nel culo a effetto ritardato. Cancellare avrebbero dovuto dire, già, ma poi chi li sente quelli della Bce e dell’Unione Europea, i nostri nuovi fratelli, quelli che i politicanti da stra(c)azzo amano definire la nostra nuova patria? Gente, date retta: qui, con questo Coronavirus, l’unico risultato che hanno ottenuto è di piegare e, a molti, di spezzare la schiena alla gente comune che, così, avrà molta meno voglia e pancia per protestare. Guardate le statistiche della malattia, guardate i numeri che non mentiscono mai, ma guardate anche quelli dell’economia reale perché è vero che non si deve morire di Coronavirus, ma non per questo bisogna morire di fame.
Coronavirus, Confindustria contro il decreto: “Non si può chiudere tutto”. Redazione de Il Riformista il 22 Marzo 2020. “Mi preme ribadire l’esigenza di contemperare la stretta decisa ieri con alcune esigenze prioritarie del mondo produttivo”. Lo chiede in una lettera al premier Giuseppe Conte il presidente di Confindustria, Vincenzo Boccia.
La richiesta al presidente del Consiglio era quella di rinviare di qualche giorno il decreto nella speranza di poter includere altre attività da quelle ritenute necessarie. Ma l’emergenza coronavirus e le pressioni dei sindacati, che hanno minacciato lo sciopero generale “per difendere la salute”, hanno spinto Conte ad evitare ulteriori temporeggiamenti. Ma è guerra con i sindacati, contrari ad ampliare la lista dei settori da lasciare aperti. “Il governo si è impegnato a chiudere per due settimane le attività e i settori non essenziali”, si legge in un tweet della Cgil. “Aperto deve restare solo l’essenziale. Il sindacato è pronto alla mobilitazione e anche allo sciopero generale per difendere la salute”. Anche Cisl e Uil concordano. Alcuni dei punti che mette in evidenza: una disposizione di carattere generale, che consenta la prosecuzione di attività non espressamente incluse nella lista e che siano, però, funzionali alla continuità di quelle ritenute essenziali. Servirà, per gli industriali, anche un’analoga disposizione che consenta la prosecuzione di quelle attività che non possono essere interrotte per ragioni tecniche (ad esempio, quelle riguardanti gli impianti a ciclo continuo e a rischio incidente), pena altrimenti un pregiudizio alla funzionalità dei relativi impianti produttivi, nonché la continuità di quelle strategiche per la produzione nazionale. Confindustria domanda inoltre di tenere in considerazione “l’esigenza che la prosecuzione di tali attività possa essere garantita mediante il ricorso a una procedura amministrativa molto semplificata, che faccia leva su un’attestazione del richiedente e su meccanismi di controllo ex post da parte delle Autorità competenti”. “La necessità di far salve tutte quelle attività di natura manutentiva (e le relative produzioni), legate a cicli produttivi e non, finalizzate a mantenere in efficienza macchinari e impianti, in modo da non pregiudicare la capacità degli stessi di poter essere riattivati alla ripresa delle attività; analoga necessità riguarda la prosecuzione delle attività di vigilanza di attività e strutture oggetto del blocco; assicurare alle attività e strutture appena citate i tempi tecnici necessari dall’entrata in vigore del provvedimento, a concludere le lavorazioni in corso, ricevere materiali e ordinativi già in viaggio verso i siti produttivi, consegnare quanto già prodotto e destinato ai clienti”. “Infine, ma non certo in ordine di importanza, è indispensabile garantire flessibilità nell’individuazione delle attività essenziali mediante il meccanismo dei Codici ATECO, che se ben si addice alle attività commerciali, non si presta invece in modo efficace – anche perché alcune definizioni sono ormai risalenti nel tempo – a definire i confini e le caratteristiche delle attività industriali. In proposito, sono necessari almeno due accorgimenti: assicurare la possibilità, mediante un provvedimento ministeriale successivo al DPCM o con un’altra modalità estremamente “snella”, di ampliare o precisare i codici esclusi dal blocco; in ogni caso, far riferimento non solo ai singoli codici ma alle macro-classi e alle note esplicative della tabella ATECO 2007, note nelle quali sono indicate con maggior dettaglio molte produzioni rilevanti. Sarà determinante, inoltre, sciogliere immediatamente il nodo del credito e più in generale della liquidità, come anticipato ieri, per evitare che questa situazione produca conseguenze irreversibili per le imprese e che gli imprenditori perdano la speranza nella futura prosecuzione delle attività. Già oggi percepiamo la gravità dell’impatto sulla liquidità che le imprese tutte – piccole, medie e grandi – stanno già subendo per le misure annunciate. Occorre poi preservare l’operatività delle imprese che fanno parte delle filiere internazionali. Così come sarà importante valutare i necessari provvedimenti relativi all’operatività della Borsa e del mercato finanziario per evitare impatti negativi sulle nostre società quotate”.
(AWE/LaPresse il 24 marzo 2020) - Il Pil dell'area euro nel 2020 segnerà una flessione del 2,7%, con un tonfo del 5,7% nel primo trimestre e del 7,4% nel secondo trimestre. Si registrerà una ripresa solo nel quarto trimestre, quando è previsto che il Pil aumenti dell'1,6%. Sono le stime degli analisti di Moody's, contenute nel report 'Covid-19: Global Economic Tsunami'. Le stime della società di rating sull'andamento del Pil globale nel 2020 vedono un calo dello 0,4%, per gli Stati Uniti, una flessione dello 0,5%. Covid-19 "ha creato uno tsunami economico mondiale. L'economia globale è immersa in una grave recessione", spiegano gli analisti di Moody's. "Il virus - proseguono - ha portato alla chiusura di parti significative delle economie asiatiche e ora europee e statunitensi". Le banche centrali "hanno reagito in modo aggressivo ma stanno esaurendo lo spazio di manovra poiché i tassi di interesse hanno raggiunto il limite inferiore a zero", sottolinea Moody'.
Lodovica Bulian per “il Giornale” il 24 marzo 2020. Il decreto Cura Italia è un decreto "Chiudi Italia", avverte il presidente di Confindustria Vincenzo Boccia. Così «dall' emergenza economica si entra nell' economia di guerra». E si rischia di scrivere l'epitaffio del motore produttivo del Paese: «Il 70 per cento del tessuto produttivo italiano chiuderà». Con un impatto devastante, calcola Boccia: «Se il Pil è di 1.800 miliardi all' anno vuol dire che produciamo 150 miliardi al mese. Se chiudiamo il 70% delle attività vuol dire che perdiamo 100 miliardi ogni 30 giorni». Numeri enormi in uno scenario da coprifuoco su cui incombe anche la minaccia di sciopero generale dei sindacati che volevano provvedimenti ancora più duri, e che chiedono una stretta ulteriore sulle tipologie di imprese che possono restare aperte. «Lo sciopero generale onestamente non riesco a capire su cosa - critica il presidente degli industriali - I codici Ateco che il governo ha indicato sono addirittura più restrittivi di quello che ci aveva indicato in quella sede. Ha indicato ai prefetti che se alcuni codici non sono previsti, possano verificare e quindi tenerli chiusi io non ho capito più di questo cosa si dovrebbe fare. In più - fa notare Boccia - avremo una massa rilevante di persone in cig; il punto è se qualcuno abusa, ci saranno i prefetti che controlleranno e gli stessi sindacati che faranno uno sciopero particolare in una singola azienda. Ma uno sciopero generale in questo fase non penso vada fatto anche come messaggio al Paese. Quindi l' appello che faccio è cerchiamo di essere compatti anche nelle nostre diversità». La domanda che ora ci si fa da nord a sud è quanto si può andare avanti. Quanta riserva hanno le piccole e medie imprese per sopravvivere e per quanto. Se avranno la forza, quando tutto sarà finito. La paura di non rialzarsi corre tra gli imprenditori: secondo un sondaggio condotto da Swg per Confesercenti il 44% dei titolari di attività non esclude la possibilità di non riaprire più, una volta superata l' emergenza. Un altro 34% ritiene di essere a rischio chiusura se la sospensione dell' attività disposta dal governo dovesse protrarsi ancora a lungo. E il 67% ritiene che i provvedimenti sin qui adottati siano poco o per niente adeguati: «Ci sono migliaia di imprese che rischiano di non riaprire dopo lo stop - conferma Patrizia De Luise, presidente di Confesercenti - Abbiamo bisogno di liquidità, da subito e in modo semplice. Bisogna aprire le maglie del credito con procedure semplificate. Vanno bloccati gli sfratti e sospesi i pagamenti delle locazioni commerciali, esonerando le imprese anche dai canoni demaniali e di concessione per le occupazioni di suolo pubblico». Anche l' indennizzo da 600 euro previsto per i lavoratori autonomi «non è sufficiente». Un quadro nero, confermato da una ricerca di Bva Doxa sugli effetti della diffusione del Coronavirus fatta su un campione di 301 aziende italiane: il 76% dichiara di aver subito un impatto negativo fin dalla prima ora, una su cinque teme che i primi effetti si vedranno solo da aprile. Il 49% dichiara che per compensare le perdite ridurrà per prima cosa gli investimenti pubblicitari.
Da confcommercio.it il 24 marzo 2020. "Da soli, non siamo più nelle condizioni di assicurare né il necessario livello di sicurezza sanitaria, né la sostenibilità economica del servizio. Di conseguenza gli impianti di rifornimento carburanti semplicemente cominceranno a chiudere: da mercoledì notte quelli della rete autostradale, compresi raccordi e tangenziali; e, via via, tutti gli altri anche lungo la viabilità ordinaria". Lo annunciano i sindacati dei gestori Faib Confesercenti, FegicaCisl, Figisc/Anisa Confcommercio. "C'è una categoria di persone, oltre 100mila in tutta Italia, che, senza alcuna menzione, ha finora assicurato, senza alcun sostegno né di natura economica, né con attrezzatura sanitaria adeguata, il pubblico servizio essenziale di distribuzione di energia e carburanti per il trasporto di beni e persone", sottolineano le associazioni. "Centomila persone che hanno continuato a fare il loro lavoro (ridotto mediamente dell'85%) a rischio della propria incolumità e mettendo in pericolo la propria salute, presidiando fisicamente il territorio, rimanendo dove sono sempre state e dove ogni cittadino di questo Paese è abituato a trovarle ogni giorno, vale a dire in mezzo alla strada". "Noi non siamo certo eroi, né angeli custodi. Ma nessuno può pensare di continuare a trattarci da schiavi, né da martiri", proseguono. "Siamo persone con famiglie da proteggere, cittadini tra gli altri che sanno di dover assolvere ad una responsabilità di cui non si vogliono spogliare, ma a cui non può essere scaricato addosso l'intero carico che altri soggetti, con ben altri mezzi, disponibilità economiche e rendite, si ostinano ad ignorare". "Correremo il rischio dell'impopolarità e dei facili strali lanciati da comode poltrone, ma davvero non abbiamo né voglia, né la forza per spiegare o convincere delle solari ragioni che ci sostengono. Chi volesse approfondire - concludono - può chiedere conto a Governo, concessionari autostradali, compagnie petrolifere e retisti indipendenti: a ciascuno di essi compete fare per intero la propria parte se si vuole assicurare la distribuzione di benzina e gasolio". “Il minacciato blocco da parte dei benzinai deve essere assolutamente evitato: a rischio il trasporto delle merci essenziali”. A lanciare l’allarme è il vicepresidente di Confcommercio e Conftrasporto Paolo Uggè, che invita il Governo a fornire risposte alle richieste dei gestori degli impianti autostradali e stradali di carburante per evitare che l’autotrasporto sia costretto, suo malgrado, a fermarsi per l’impossibilità di far rifornimento interrompendo l’approvvigionamento delle merci. “Auspichiamo un immediato intervento del Governo perché, se le sigle dei gestori di carburante dovessero confermare il fermo, annunciato a partire da domani, si avrebbe come effetto il rischio della conseguente sospensione dei servizi essenziali già precari che oggi le imprese dell’autotrasporto stanno garantendo agli ospedali, alle farmacie, alle attività produttive e ai negozi di generi di prima necessità”, conclude il vicepresidente di Conftrasporto-Confcommercio.
Alberto Quarati per “la Stampa” il 24 marzo 2020. Con il progressivo fermo delle navi da crociera - la stima è 200 unità in tutto il mondo - si apre il problema di circa 250 mila marittimi che devono o raggiungere casa, oppure raggiungere le navi per garantirne il funzionamento minimo nel periodo di blocco, che varia a seconda delle decisioni prese dalle singole compagnie (dalla fine di aprile fino a tutto maggio). Per loro non c' è solo l' Odissea del ritorno a casa - come il gruppo di indiani sbarcato dalla nave Costa a Barcellona, rimasto bloccato in aeroporto - ma anche la prospettiva di mesi senza stipendio. Anche chi rimane a bordo in attesa del cambio equipaggio (espressamente vietato in 27 Paesi come misura anti-covid19, tra cui tra cui potenze marittime come Cipro, la Germania, Singapore, le Filippine, la Turchia e gli Emirati Arabi Uniti) lo fa senza stipendio. E se le navi da crociera sono gli occhi di tutti, esiste un mondo fatto di 114 mila unità mercantili che trasportano il 90% della merce venduta in tutto il mondo: i lavoratori marittimi qui sono due milioni. Il timore che trapela dall' Itf, la federazione internazionale dei trasporti, è che i piccoli armatori non potranno reggere al fermo delle navi, e come durante la crisi del 2009 (l' onda della finanza drogata travolse lo shipping con un anno di ritardo) ne approfitteranno per fare pulizia nei bilanci, cambiare vita, disperdere le tracce: abbandonando le navi in Paesi con blandi controlli di sicurezza portuale, e insieme allenavi, i loro equipaggi. Già oggi, nel mare che fronteggia i grandi porti emiratini, viene segnalata una presenza anomala di navi alla fonda con a bordo gli equipaggi, in attesa di conoscere una destinazione che forse non arriverà mai. L' Itf intanto ha anche stigmatizzato, nei giorni scorsi, la lentezza di reazione delle maggiori bandiere del mondo (Panama, Liberia ecc...), mentre cominciano a chiudere anche i centri di assistenza per i marittimi nei porti (come è successo a Liverpool), ma non le visite sulle navi.La scorsa settimana, gli armatori italiani sono stati i primi a segnalare il rischio di un blocco degli equipaggi (e quindi anche delle navi) per l'effetto del coronavirus, scrivendo al ministro dei Trasporti, Paola De Micheli. Nel corso della stessa settimana, la stessa Itf insieme all' Ics (l' associazione internazionale degli armatori) si sono rivolti direttamente all' Onu e all'Oms per chiedere l' attivazione di corridoi burocratici per i 100 mila marittimi che ogni mese si danno il cambio di turno a bordo delle navi. Alcuni Paesi, Italia inclusa, hanno nei fatti concesso l' allungamento dei turni bordo (che da noi durano quattro mesi, ma possono arrivare anche a otto per i marittimi cinesi o filippini) ma è evidente che le persone non possono rimanere imbarcate a vita, così come soprattutto gli altri a casa in attesa che arrivi un nuovo contratto. Su due milioni di marittimi, 38 mila sono italiani o navigano sotto bandiera italiana. Su oltre 5.000 comandanti europei, 900-1.000 sono italiani e altrettanti sono direttori di macchina. In tutto gli ufficiali italiani sono circa 10 mila, e il loro maggiore impiego è proprio sulle navi da crociera. A sollecitare un corridoio burocratico, o almeno delle linee guida per non lasciare tutto al caso, ha scritto ieri alla Commissione europea anche Hubert Ardillon, presidente del Cesma, che riunisce gli oltre 5.000 comandanti del Vecchio Continente.
· Quando per disperazione il popolo si ribella.
Incredibile ma vero: cambia ancora il modulo di autocertificazione. Monica Pucci de Il Secolo d'Italia giovedì 26 marzo 2020. “La stragrande maggioranza degli italiani vive con sofferenza e fastidio disposizioni che limitano le nostre libertà e i nostri movimenti, ma le rispetta”. Così il capo della Polizia, Franco Gabrielli, a Sky Tg 24. “Ma c’è un’altra parte che o perché non ha compreso o perché non è consapevole del rischio è sempre un po’ allergica. E si comporta in modo negativo – denuncia Gabrielli – introducendo in questo complesso sistema un vulnus, un baco che può pregiudicare il tanto che si sta facendo”. Ecco perché, secondo Gabrielli, ad appena tre giorni dall’ultima modifica, in base alle nuove norme, verrà aggiornato ancora il modulo dell’autocertificazione, rispetto all’ultimo. Su questo, ha spiegato Gabrielli, “sono state fatte ironie, ma cambiano le disposizioni e noi dobbiamo aggiornare il modulo, anche per intercettare” i quesiti che arrivano dai cittadini. Ma come cambierà? Qui il link del nuovo modulo. Gabrielli ha parlato anche di controlli effettuati ogni giorno dalle forze dell’ordine. “Fino al 24 marzo – ha riferito – abbiamo controllato due milioni e mezzo di persone e rilevati 110mila comportamenti non corretti sanzionati con l’articolo 650 del codice penale”. Le sanzioni fin qui comminate, ha ricordato il prefetto, ammonteranno a un’ammenda pari a 200 euro. Una sanzione aggiornata dal governo. E specifica per chi non ha rispettato la quarantena, sia essa obbligatoria sia essa volontaria, “è quella che fa riferimento all’articolo 260 delle leggi sanitarie e prevede l’arresto da 3 a 18 mesi e la multa”. Poi il ringraziamento “alle forze dell’ordine che sono impegnate nella battaglia per spezzare la catena del contagio”.
L’inutile e dannosa autocertificazione. Sarà la quarta e ultima autocertificazione? Se consideriamo chi doveva entrare e uscire dalle prime zone rosse, senza contare il provvedimento dell’8 marzo scorso.
Stanno lì solo per fotterci. In una situazione di merda non poteva capitarci gente peggiore e giustizialista.
In un paese civile uno Stato avrebbe fiducia nei suoi cittadini che lo mantiene con le tasse, tributi e contributi.
Invece lo Stato che fa? Anziché aiutare il cittadino in difficoltà pensa solo a fotterlo.
Se uno ha necessità di uscire dal carcere dove è stato recluso senza condanna, gli si chiede oralmente qual è il motivo. Il cittadino si giustifica oralmente e finisce lì. Invece lo Stato burocrate considera tutti i suoi civici come incalliti spergiuri da perseguire. Senza alcuna distinzione e monca di difesa. La Sanzione da penale, poi, l’hanno resa amministrativa: per far pronta cassa.
Intanto i media asserviti creano tensione, ansia e stress parlando di assembramenti che non esistono. Si creano untori e delatori. Creano odio tra la gente. A morte il Runner! Le Istituzioni che non ringrazio per la situazione che hanno creato si vantano delle sanzioni elevate e dei controlli effettuati.
E’ corretto, è sacrosanto controllare e monitorare. Ma perché sempre a onerare chi è già soggetto ad una tensione psicologica? Perché lo Stato è forte con i deboli e debole con i forti? Perché stiamo pagando la sottovalutazione di un fenomeno? Perché non si sono svegliati prima nel chiedere di rompere il tabù dei tamponi che sono limitati e possono essere fatti solo dall’Istituto superiore di sanità e non nei laboratori disponibili? Perché gli asintomatici non sono stati considerati e non lo sono tutt’ora per il ministero un fenomeno scientificamente “pericoloso” per la diffusione del virus?
Noi ci autocertificheremo ancora, lo Stato si è già da solo autocertificato assente e deficiente (inadeguato), pesante, malato morente, e ancor di più correo.
Perché lo Stato ha permesso il propagarsi dell’infezione nelle sedi che meno te lo aspetti: gli ospedali; e resi i maggiori untori: gli operatori sanitari. Perché lo Stato rinchiude i suoi cittadini in casa, ma autorizza e consente il propagarsi dell’infezione dal Nord al Sud Italia. E se qualcuno lo rinfaccia, scatta la denuncia per vilipendio come per il sindaco Cateno De Luca.
Mi preoccupa altresì un fatto addivenire: cosa farà questo Stato nel momento in cui la gente sarà costretta ad uscire di casa per la fame? Non avendo né da mangiare, né soldi per comprare: ci fucileranno seduta stante?
Subire e tacere? Ma andate affanculo. Sono anch’io Cateno De Luca.
Se sei d’accordo condividi e fai girare.
Care istituzioni, giù la maschera e su le mascherine. Giovanni Capuano il 20 marzo 2020 su Panorama. Lettera aperta alle Istituzioni (tutte) in questo periodo dove su tante cose, sulle mascherine tanto per fare un esempio, c'è caos. Caro Presidente, gentile ministro/assessore o chiunque lei sia che ci parla dalla televisione a tutte le ore, sono un semplice cittadino barricato in casa da quasi un mese. Vivo con angoscia questa situazione, ho paura come tutti, guardo con crescente affanno a figli e parenti che compongono la mia famiglia. I primi perché fanno domande cui non so dare risposta, gli altri perché fisiologicamente appartenenti alle categoria che ho compreso essere più a rischio in questo assurdo incubo in cui siamo precipitati. Resto a casa, obbligo i miei a fare lo stesso. Litigo a distanza con mio suocero, partecipo a tutto quello che mi viene chiesto di partecipare, dono fondi, canto l'inno, accendo la torcia dello smartphone e - in tutta onestà - sono anche contento di farlo perché rappresenta quel poco di legame che rimane con l'umanità che mi circonda. Vado a fare la spesa una volta a settimana, ho concesso ai bimbi 30 minuti (trenta) di bicicletta nel grande parco dietro casa, a distanza siderale da qualsiasi forma umana. Mi perdonerà, presidente, ma dopo un mese di reclusione ho valutato che fosse utile e salutare senza dovermi necessariamente sentire un untore (irresponsabile). Ho attrezzato casa come fosse una base della Nasa. Lavoro (quel poco che resta essendo autonomo), assisto tecnologicamente le varie piattaforme per la scuola online, pulisco, faccio da mangiare, due chiacchierate via Skype e poi ricomincio. Sono quasi tentato dal pagare comunque le tasse subito e non per avere la stelletta che è stata promessa, caro presidente, ma perché penso che se ce la posso fare credo sia giusto così. Sono un italiano medio, insomma, ma da qualche giorno c'è qualcosa che comincio a tollerare poco. Vede, presidente, continuare a sentirla dire che "ci sono ancora troppe persone in giro" , che "i mezzi pubblici sono troppo affollati" , che siamo (in senso lato tutti noi) indisciplinati e che addirittura "troppe poche persone indossano la mascherina" mi sta provocando un moto di giramento delle palle costantemente in aumento. Cosa significa quello che dice? Mia moglie che è chiamata da decreti e azienda ad andare a lavorare è una irresponsabile? O invece lei e quelli come lei vanno ringraziati perché comunque portano avanti il loro, senza cedere alla tentazione di approfittare di una qualsiasi delle agevolazioni offerte per chiudersi in casa e salutare tutti? Tra l'altro rispettando una vostra decisione e cioè quella di non fermare tutte le attività produttive. E il taglio dei mezzi pubblici che ha causato il sovraffollamento di altri poveri cristi fuori per lavoro, chi l'ha deciso? Noi? Loro? Oppure un altro presidente come lei? Mi sono stufato di vederla pubblicare foto dei parchi, spesso pure non veritiere, per dire che ci sono dei bimbominkia che non sanno rinunciare al footing. Lei, caro presidente, non sta al bar virtuale insieme a noi. Lei e quelli come lei avete ampia delega e poteri per decidere e dirci cosa dobbiamo fare. Succede da un mese. Ci avete detto di limitare gli spostamenti e lo abbiamo fatto. Poi avete lasciato a casa i nostri gli e ci siamo attrezzati. Avete mandato milioni di persone in smart working e lo hanno fatto, occupando spazi e tempi che per qualcuno possono anche essere privazioni rispetto ad altre, identiche necessità. Ho stampato il modulo di autocertificazione. Poi l'ho ristampato perché è stato modificato e poi di nuovo dopo l'aggiunta di una riga. Praticamente ho fatto fuori mezzo bosco (oltre che del preziosissimo toner) per rispettare tutte le prescrizioni. Sono anche pronto a farmi venire il mal di stomaco nel click day che pensate di organizzare per darci gli aiuti che ci spettano. Fare con calma sarebbe troppo semplice, ho compreso il senso. Meglio una bella botta di adrenalina e via. Insomma ho fatto tutto, presidente. Sto a metri di distanza dal prossimo, mi soffio il naso nel gomito, mi lavo le mani ogni mezz'ora, le igienizzo e poi le rilavo per sicurezza. Cerco pure di stare allegro. Faccio finta di non ricordarmi che tra i milioni di persone che sono in giro come nulla fosse (l'ha detto lei) evidentemente non ci sono quelli che devono pagare le fatture che ho mandato negli ultimi mesi. Alzo le spalle. Sorrido. Penso che ci sono tanti che stanno peggio di me e mi faccio forza. Penso a quelli che lottano in corsia e li ringrazio. E sopporto. Sopporto tutto ma non la presa in giro. Ecco, presidente, l'ho sentita dire più volte negli ultimi giorni che ci sono troppe persone senza mascherina. Credo di non aver capito bene. Lei e quelli come lei mi avevano sempre detto che servivano solo ai malati e agli operatori sanitari mentre gli altri, noi, potevano farne a meno. Lei e quelli come lei sono le persone che nell'ultimo decennio hanno scelto dove approvvigionarsi di quel materiale oggi prezioso: se farlo in Italia (mantenendo viva la filiera) oppure all'estero, come purtroppo è capitato e quindi adesso facciamo fatica a essere autonomi. Se mi dice dove posso trovare le mascherine, gentile presidente, mi precipiterò a prenderle per me e per i miei cari, moglie compresa che continua a dover uscire senza che le sia stata garantita. Però mi dica dove devo andare, perché da venti giorni a questa parte io non le ho trovate né in farmacia né su internet. E le garantisco che non mi sono posto nemmeno problemi di prezzo. Oppure almeno su questo taccia e cambi modo di comunicare. Perché io sopporto tutto, anche di restare sulla trincea del mio balcone no all'estate, ma non di stare qui sentendomi dare dell'irresponsabile. Sopporto le privazioni, ma in cambio da chi (come lei) decide pretendo indicazioni e non la contabilità delle cose che non vanno.
PS - Già che ci siamo, avrei bisogno di capire se davvero il mio supermercato di fiducia dovrà smettere di vendere cosiddetti prodotti non di prima necessità, tipo cancelleria e materiale elettrico ed elettronico. Perché se così fosse dovrò uscire di corsa a fare il carico prima che venga meno in mezzo a questo tunnel lunghissimo che attraversiamo. Rigorosamente senza mascherina.
Coronavirus, milanesi indignati. Sala scatena i vigili, raffica di multe agli automobilisti chiusi in casa: "E vi manda senza mascherine?" Libero Quotidiano il 12 marzo 2020. L'indignazione dei milanesi contro il sindaco Beppe Sala in un altro video diventato virale sul web. "Vergognatevi, andate a casa", gridano alcuni passanti a due agenti della Polizia locale intenti a fare delle multe mentre gli automobilisti sono presumibilmente rintanati in casa. "Chi vi manda, il sindaco?", chiede provocatoriamente chi sta girando il video con il telefonino, accorso trafelato sul "luogo del crimine". Alla risposta affermativa e un po' stizzita delle due agenti, l'altra domanda: "E vi manda senza mascherine?". Anche questa è la Milano del Pd: fare cassa nei giorni, drammatici, del coronavirus.
La denuncia: "In piena pandemia i vigili pensano a multare le auto". La denuncia dei residenti di Colle del Sole, alla periferia sud ovest della Capitale: "In piena pandemia ci siamo ritrovati tutte le macchine verbalizzate, invece di sanzionare chi aggira le misure anti-contagio mazzolano noi che ce ne stiamo chiusi a casa". Bianca Elisi, Sabato 28/03/2020 su Il Giornale. La routine di Salvatore, residente di Colle del Sole sulla quarantina, è come quella dei suoi concittadini. Lavora da casa ed esce il meno possibile. L'ultima volta che ha spostato la macchina risale ad una decina di giorni fa, quando è andato a fare la spesa. La sua utilitaria l'aveva lasciata in uno spiazzale adiacente al condomino. Un parcheggio di fortuna, perché trovare un posto auto in queste settimane di lockdown è una vera e propria impresa. Non è stato il solo, dietro alla sua Suzuki Swift si sono incolonnate le automobili di diversi condomini. E nessuno di loro è scampato alla "scure" dei vigili urbani, che hanno staccato una decina di sanzioni ex articolo 157 comma 2 del codice della strada. Salvatore è infuriato, e parla a nome dei vicini di casa: "In piena pandemia ci siamo ritrovati tutte le macchine verbalizzate per sosta al centro della carreggiata, è una cosa indecente, invece di sanzionare chi aggira le misure anti-contagio mazzolano noi che ce ne stiamo chiusi a casa". La sanzione con il pagamento in forma ridotta entro i termini di legge è di 29,40 euro. Non una cifra da capogiro, ma per Salvatore è questione di principio. Da qui la decisione di scrivere al sindaco di Roma, Virginia Raggi, e al comandante della polizia municipale, Antonio Di Maggio, per segnalare l'accaduto. "In un periodo come questo, in cui la popolazione è provata ed ha grosse difficoltà persino a svolgere le attività più banali come trovare un parcheggio, l'aiuto e il sostegno degli operatori di polizia locale è fondamentale". Salvatore sa bene di aver violato il codice della strada, ma chiede comprensione. "Vi chiedo di esortare gli agenti ad assumere un comportamento più comprensivo nei confronti dei cittadini, chiudendo un occhio sulle violazioni di lieve entità". Sulla questione è intervenuto anche Daniele Catalano, capogruppo della Lega in XI Municipio. "Troviamo inaccettabile che né dalla Raggi né dal comando generale della polizia locale sia arrivato un segnale di distensione nei confronti dei cittadini costretti a rimanere in casa da settimane", denuncia il consigliere. "Ci auguriamo che per questo genere di multe sia per lo meno disposta la sospensione fino alla fine dell'emergenza", spiega. Proprio come suggerisce una circolare interpretativa delle misure restrittive emanata dal Viminale. Come si legge su Il Sole 24 Ore, infatti, per le violazioni contestate direttamente al trasgressore o notificate dal 13 febbraio al 31 marzo, il pagamento in forma ridotta (-30%) è esteso da cinque giorni a un mese. E il conteggio dei termini è sospeso dal 10 marzo al 4 aprile.
Saranno i nuovi poveri a fregarsene del coronavirus e delle multe. Per disperazione. Francesco Storace de Il Secolo d'Italia giovedì 26 marzo 2020. Ci farete poco con le sanzioni per il coronavirus se la gente ha fame. Mettetevelo bene in testa, signori governanti. Altro che furbetti avvisati. Avete sistemato, senza fargli fare un tubo, quelli del reddito di cittadinanza ma avete dimenticato dentro casa i nuovi poveri. Quelli che hanno chiuso i battenti delle attività. Oppure quelli che lavoravano da poco “sotto padrone” e sono stati messi alla porta. E tanti altri ancora. Chi deve sfamare i figli e non ha mai fatto nulla di male nella vita lo farà per disperazione. E non lo fermeranno né tremila euro di multa né la minaccia della galera.
Se a casa c’è la disperazione….Se a casa hanno fame, non c’è Conte che tenga, se lo andranno a prendere quel che serve da portare in tavola, file o non file, pure pericolose… A Palazzo Chigi non sembrano aver capito che cosa rischia di scatenare il menefreghismo sulle condizioni economiche degli italiani. Non c’è dubbio che la salute sia fondamentale. Ma se non si mangia non è che sia un vivere sano. Ci avete pensato almeno ai buoni spesa con cui rifornire le famiglie che stanno male? Non avete ancora i dati economici di ciascuno? Potete far smettere di recapitare le bollette? Il polso della situazione ce lo offre ad esempio dalle parti di Fiumicino un nostro amico abituato ad aiutare le persone che stanno male, Massimiliano Catini. “Sì, mi hanno detto anche che il riscaldamento non lo pagano, tanto arriva l’estate…”. Ecco come stanno le persone che non trovano sindacati che si sgolano per loro. I non rappresentati. Gli invisibili. I poveri da Covid-19.
Avevo un’attività. Ci campavo la famiglia. E ora non ce l’ho più ma i miei devono mangiare comunque.
Avevo trovato lavoro da pochi mesi. La ditta ha chiuso e non mi riconoscono né mobilità né cassa integrazione.
Ero precario, che te lo dico a fare….
Queste persone se restano in casa muoiono di fame. Se escono, ci pensa il coronavirus. Ma al governo ce l’avete un’anima, un cuore, un cervello? A poco serve l’una tantum di 600 euro, che quando c’è lo decide il Signor Stato…
Hanno perso il senso della realtà
Non si pensi che la regola per chi ha una partita Iva sia avere quattrini sul conto in banca. Perché anche lì ci sono molti che finora faticavano anche a mettere assieme pranzo e cena. E che hanno fatto Conte e Gualtieri? Hanno spostato i tributi, mica li hanno azzerati.
Una volta ci amareggiava vedere la fila degli italiani alla Caritas. Ora sarebbe un assembramento da manganellare. La disperazione da reprimere?
Al governo non hanno mai parlato con chi ha un bar o una bancarella. Giusto chiudere per rischio Covid-19, ma ci volete pensare davvero a come camperà chi aveva da lavorare e ora sta rinchiuso in casa vivendo di ricordi? Quali cavolo di tasse dovrà pagare quando arriverà il momento di far fronte alla scadenza “spostata” e non cancellata?
Avete perso tanto tempo dimenticando di salvare chi lavorava negli ospedali rischiando per la nostra salute; non ne perdete altrettanto dimenticando chi non lavora più e non sa come andare avanti. In questo guaio non ci si sono ficcati da soli. I disperati sono i più pericolosi. E se la prenderanno con voi.
Antonio Loconte - bari.ilquotidianoitaliano.com il 26 marzo 2020. “L’eroe di oggi”, “I baresi hanno un cuore enorme”, “Un grande uomo”, “Un esempio per tutti”. Sono alcuni dei commenti indirizzati all’uomo che nel video è ripreso a donare alcune banconote alla negoziante andata ridottasi a implorare 50 euro in banca, considerato il mancato accreditamento anticipato della pensione dell’anziana madre (prevista come sempre il primo del mese). L’uomo è un imprenditore barese che abita in zona. Era sceso da casa per andare a lavorare quando ha sentito urlare. Una piccola commerciante barese, in crisi dopo la chiusura del suo negozio per decreto lo scorso 11 marzo, aveva sentito in televisione che avrebbe potuto ritirare anche in banca la pensione della mamma, unico sostentamento della famiglia in questo momento di crisi. La donna ha perso lucidità e dopo un momento concitato e l’arrivo della Polizia, insieme al figlio, ha iniziato a urlare contro il dipendente uscito dalla filiale del centro di Bari a dare spiegazioni. L’imprenditore si è avvicinato e ha messo le mani in tasca e prima ancora sul cuore. “Negli occhi di quella negoziante ho visto una reale disperazione – dice l’imprenditore – e non ho potuto far altro che donarle ciò che avevo con me in quel momento. Me ne sono scappato in pochi secondi perché non volevo essere riconosciuto. Non avrei mai immaginato di essere ripreso con un cellulare”. Il periodo è nero per tutti. “Ho 50 dipendenti e posso dirvi che è davvero durissima – continua l’imprenditore – ma dobbiamo aiutarci gli uni con gli altri. Non sono un eroe, ho solo fatto ciò che chiunque al mio posto avrebbe fatto. Mi sono privato di quel poco che avevo per alleviare momentaneamente le sofferenze di quella famiglia. Non smettiamo mai di essere solidali tra noi, solo così potremo superare questo momento difficile e quelli che arriveranno dopo essere usciti dall’emergenza sanitaria”.
Rinaldo Frignani per roma.corriere.it il 26 marzo 2020. Come l’assalto alla diligenza. Rapinatori a caccia di furgoni carichi di merce ordinata da chi deve rimanere a casa per l’emergenza coronavirus. Un tipo di malavita forse non diverso da quello che ha preceduto l’arrivo dell’epidemia ma che in questi giorni assume un significato particolare. E inquietante anche, visto che a tutt’oggi non si sa ancora cosa potrà accadere nelle prossime settimane. È questa la paura più grande dei romani insieme con quella di rimanere contagiati. L’ultimo colpo è stato messo a segno nel pomeriggio di martedì in via delle Quinqueremi, a Ostia. Quattro rapinatori, a volto coperto ma apparentemente senza armi, hanno agganciato un furgone della Dhl carico di merce da consegnare a domicilio dopo essere stata ordinata su internet e hanno aggredito l’autista costringendolo a scendere dal veicolo. A questo punto hanno minacciato l’uomo e hanno preso il suo posto in cabina. Sono quindi fuggiti, ma poco dopo - anche per l’allarme lanciato dalla vittima - sono stati intercettati da una volante della polizia. Ne è nato un inseguimento durante il quale i banditi hanno speronato l’auto della polizia. Ma poi sono stati costretti ad abbandonare il furgone e il suo contenuto, del valore di alcune migliaia di euro, e si sono allontanati a piedi. Senza esito la battuta organizzata dalla polizia nella zona. Altro episodio che preoccupa e che viene ora catalogato per essere monitorato insieme ad altri, sempre sul litorale, questa volta di Anzio. In via Ardeatina un fruttivendolo cinquantenne è stato minacciato con una pistola da tre banditi che hanno fatto irruzione nel suo negozio incappucciati e con il volto coperto dalle mascherine da medico, già comparse nelle ultime settimane, per la verità anche prima, in assalti in farmacie, supermercati e negozi. Il commerciante ha dovuto consegnare alla banda 2mila euro in contanti che custodiva in cassa e altri 4mila in un borsello. I rapinatori sono quindi fuggiti in auto. E adesso la polizia indaga sull’ennesimo assalto a un esercizio commerciale appartenente a una delle categorie autorizzate a lavorare nel corso del blocco quasi totale delle attività per limitare i rischi di contagio.
Petronilla Carillo per ilmattino.it il 27 marzo 2020. «Sono vecchio, abbandonato ed affamato, aiutatemi». La voce sommessa, quasi spezzata dalle lacrime. Una voce stanca, anziana, che ha subito convinto gli addetti del 112, il numero unico europeo operativo presso la centrale dell’Ufficio prevenzione generale della questura. Sono le ore 12 quando scatta l’allarme. Una volante, che era già in servizio nel centro cittadino, è stata allertata dai colleghi e spedita subito all’indirizzo rilasciato dall’anziano mentre i colleghi, dall’ultimo piano della questura, hanno provato a tranquillizzare il cittadino, tenendogli compagnia fino all’arrivo della pattuglia. I poliziotti, muniti di dispositivi di protezione, hanno fatto di corsa le scale del palazzo, quasi col cuore in gola, consapevoli che avrebbero potuto trovarsi dinanzi agli occhi una scena non piacevole. Hanno così bussato alla porta che gli era stata indicata. Ad aprire un uomo provato, anziano, mortificato per aver «scomodato» la polizia. Tanto prostrato dalla situazione che quasi era in difficoltà a parlare. Ha spiegato loro di vivere da solo, di non scendere a fare la spesa, di non poterla sempre fare. Insomma, di avere necessitò di aiuto. Aiuto vero. Nei suoi occhi lucidi gli agenti hanno intravisto il peso di una condizione di vita non piacevole e la paura di chi è solo e non ha la forza per andare avanti. L’anziano ha spiegato loro che aveva necessità di avere qualche alimento in casa, che aveva già saltato qualche pasto. La prima preoccupazione dei poliziotti è stata però quella di constatare le sue condizioni di salute, di verificare se aveva qualche particolare patologia, febbre o sintomi che potessero far pensare ad un’infezione da Covid 19. Una volta verificato che, a parte l’età e la stanchezza provocata da una situazione di isolamento, l’uomo era in discrete condizioni fisiche, forse solo un po’ debole, gli agenti sono scesi, sono andati al supermercato ed hanno acquistato alcuni prodotti alimentari che gli hanno poi donato.
Da ilmattino.it il 27 marzo 2020. Un cittadino di Sant’Antimo ha chiesto aiuto ai carabinieri della locale tenenza. Ha ammesso che la sua famiglia fosse in serie difficoltà economiche, tali da non riuscire neanche a soddisfare i propri bisogni primari. I carabinieri hanno raggiunto l' abitazione dell’uomo – un 37enne del posto - e conosciuto il padre e madre anziani. Il 37enne ha confessato ai militari di lavorare solo saltuariamente e di avere in questo momento serie difficoltà di sostentamento a causa della chiusura di gran parte delle attività produttive. Ha poi mostrato loro frigo vuoto e la dispensa che conteneva un solo pacco di pasta. I militari, toccati dal racconto del cittadino, hanno acquistato decine di prodotti alimentari e non e garantito disponibilità e vicinanza alla famiglia. Scenario simile a San Vitaliano. Un uomo ha raggiunto i carabinieri della stazione locale e chiesto loro del cibo e due mascherine, una per la moglie e una per se stesso. I militari hanno così riaccompagnato a casa l’anziano e dopo qualche ora consegnato a domicilio una scorta di prodotti alimentari sufficiente per molti giorni. Tra i prodotti anche diverse mascherine. Ancora richieste di aiuto, questa volta a Villaricca. I militari della locale stazione sono stati contattati da un uomo che, non potendo più lavorare, non riusciva a garantire sostentamento alla moglie e alle due figlie minori. Come per le altre circostanze, i carabinieri hanno consegnato all’uomo alimenti, prodotti per la pulizia degli ambienti e per l’igiene personale. Enorme la riconoscenza ai Carabinieri per il lavoro svolto quotidianamente e per il grande gesto di umanità.
Valentino Di Giacomo per “il Mattino” il 27 marzo 2020. «Potenziale pericolo di rivolte e ribellioni, spontanee o organizzate, soprattutto nel Mezzogiorno d' Italia dove l' economia sommersa e la capillare presenza della criminalità organizzata sono due dei principali fattori di rischio». L' intelligence con un report riservato indirizzato alla Presidenza del Consiglio ha messo in guardia il Governo sulla possibilità che la crisi economica e le serrate di diverse attività commerciali a causa dell' epidemia del Coronavirus possano scatenare disordini sociali. Per ora, più che un allarme, si tratta di uno scenario ipotetico, tra i tanti stilati periodicamente dagli analisti dagli 007. Alla base le informazioni raccolte ogni giorno dalle forze dell' ordine sul territorio e che confluiscono nei rapporti quotidiani e settimanali che i vertici delle forze di polizia inviano per prassi ai capi-centro dell' intelligence. Un lavoro di raccolta di dati e informazioni portato avanti da uomini che nel gergo delle spie sono definiti «antenne». E all' interno del dossier messo sul tavolo dello staff del premier Giuseppe Conte, c' è finito anche un caso di cronaca avvenuto a Napoli appena una settimana fa quando un uomo dei Quartieri Spagnoli ha scippato la busta della spesa dalle mani di una signora anziana. Piccoli segnali di disagio in tutto il meridione, per ora sporadici, da non sottovalutare. Parcheggiatori abusivi, contrabbandieri, spacciatori solo per quanto riguarda l' economia illegale. Ma c' è un' altra enorme fetta formata da lavoratori in nero (cassieri, garzoni, baristi, camerieri) impiegati negli esercizi commerciali ora costretti alla serrata, che a breve non sapranno più come sbarcare il lunario. Solo i lavoratori irregolari nell' ultimo anno sono stati censiti in 3,7 milioni dall' ultimo rapporto Istat, con quasi l' 80% del fenomeno concentrato proprio al meridione. L' Italia e ancora di più il Sud regge tanta parte della propria economia grazie ad attività in nero. Lo scorso anno l' Istat ha certificato che almeno 200 miliardi del Pil sono stati prodotti dall' economia sommersa. Cifre che rappresentano appena un quarto dello stanziamento ipotizzato dal Governo di 50 miliardi per il piano di aiuti contro la crisi da Coronavirus. La domanda che ora si pongono gli analisti del Comparto intelligence è quanto possano tirare avanti senza guadagnare questi 4 milioni di cittadini? E, soprattutto, cosa succederà se il Covid-19 rendesse indispensabile di prorogare ancora a lungo le misure di distanziamento sociale già in atto? A questa variabile va poi aggiunta la presenza della criminalità organizzata sul territorio. È per questo che le forze dell' ordine nel corso di questi giorni non si stanno solo concentrando nel far rispettare le misure per il contenimento del contagio, ma si lavora anche per monitorare attraverso servizi di sicurezza dedicati il comportamento dei clan nell' affrontare l' emergenza. Il timore, non sottaciuto da parte dei comparti sicurezza, è che la capacità di controllo sul territorio in alcune zone del Sud possa indurre i boss a determinare disordini e facendo leva sul sentimento di insofferenza dei cittadini.
I RISCHI Non è un caso che il ministro per il Sud, Giuseppe Provenzano, abbia già lanciato nei giorni scorsi l' allarme sulla necessità di reperire risorse per aiutare anche i lavoratori in nero. Molto dipenderà dalla durata del periodo in cui si riuscirà ad arginare i contagi da Covid-19, più tempo passerà e maggiori saranno i rischi. Per ora la situazione è sotto il livello di guardia visto che non sono stati registrati casi di saccheggi nei supermercati, proteste o altri fenomeni correlati al disagio. In tal caso il primo organismo ad intervenire sarebbe il Cnosp il Comitato nazionale dell' ordine e della sicurezza pubblica organo ausiliario di consulenza del ministro dell' Interno, che non si riunisce dallo scorso gennaio, di cui fanno parte i vertici delle forze di polizia e, generalmente, i Capi di Stato Maggiore dell' Esercito e della Difesa.
Coronavirus, l’allarme del ministro Provenzano: “Il Sud può esplodere, a rischio tenuta democratica”. Redazione de Il Riformista il 28 Marzo 2020. “Ho paura che le preoccupazioni che stanno attraversando larghe fasce della popolazione per la salute, il reddito, il futuro con il perdurare della crisi si trasformino in rabbia e odio. Ci sono aree sociali e territoriali fragili ed esposte a qualsiasi avventura. Il bilancio pubblico si deve prendere cura dell’intero tessuto sociale. E lo deve fare adesso”. È l’allarme lanciato dal ministro per il Sud Giuseppe Provenzano, che mostra preoccupazione dopo le immagini proveniente dai supermercati assaltati in Sicilia, dove sono dovute intervenire le forze dell’ordine in assetto anti-sommossa, col rischio evocato dal sindaco di Palermo Leoluca Orlando che la mafia possa guidare la rivolta popolare. Per Provenzano, intervistato da Repubblica, “con il Cura Italia abbiamo fatto molto, in pochi giorni la manovra di un anno. Ma ora dobbiamo mettere i soldi nelle tasche degli italiani a cui fin qui non siamo arrivati. Questa e’ la priorità del decreto di aprile. Così come va assicurata liquidità al sistema delle imprese per tenerlo in vita, bisogna tenere in vita la società. Liquidità anche per le famiglie, per chi ha perso il lavoro e non ha tutele”, spiega il ministro. Quindi l’ex vicedirettore dello Svimez, l’Associazione per lo Sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno, evoca un possibile disastro. “In gioco c’è l’ossatura della democrazia. La polveriera sociale rimanda a una grande questione democratica. Viviamo giorni in cui per stato di necessità molte libertà sono compresse. Per ritrovarle dopo, dobbiamo affrontare le disuguaglianze anche nel momento dell’emergenza. Siamo entrati in questa crisi essendo già il Paese più diseguale d’Europa”, ricorda Provenzano. “Dobbiamo arrivare a 3.500 posti letto per terapie intensive, siamo quasi a 2.500. Per non far dilagare contagio bisogna rispettare misure distanziamento sociale”. Per il ministro la ricetta per evitare una situazione simile comprende l’estensione del reddito di cittadinanza. “Volevamo migliorarlo già prima del coronavirus, adesso diventa indispensabile. Rivedendo i vincoli patrimoniali, chi ha una casa familiare o dei risparmi in banca che non vuole intaccare oggi non può accedervi. Rafforzando il sostegno alle famiglie numerose. Rendendolo compatibile con il lavoro, per integrare il reddito se necessario. All’economia di sopravvivenza che non è solo al Sud, ma coinvolge anche autonomi, partite Iva proletarizzate, piccoli professionisti, occorre offrire una garanzia nella legalità”, spiega il ministro. Da Provenzano infine un ultimo appello all’Europa, che si sta mostrando divisa sulle misure unitarie da prendere per fronteggiare la crisi Coronavirus. “Diciamoci la verità, per la solidarietà europea questa crisi è l’ultimo appello. La commissione, la Bce, l’Europarlamento ne hanno piena consapevolezza”.
Coronavirus Sud Italia, i cittadini: “Non abbiamo soldi per pagare la spesa”. Laura Pellegrini il 28/03/2020 su Notizie.it. Al Sud Italia si alza la tensione fra i cittadini preoccupati per l'emergenza coronavirus: non hanno soldi per fare la spesa. L’emergenza coronavirus e le misure di contenimento adottate dal governo generano tensioni nel Sud Italia: i cittadini hanno dato il via ad alcune proteste. Infatti, molti hanno dichiarato di non avere i soldi per acquistare i beni di prima necessità e negli ultimi giorni non sono mancati i furti nei supermercati. Per questo si è reso necessario l’intervento delle forze dell’ordine che presidiano dall’esterno gli ingressi dei supermercati affinché non si dia il via a proteste o furti. Giovedì è andato in scena un assalto a un supermercato del Sud Italia: molti cittadini, infatti, non hanno i soldi per pagare la spesa a causa della chiusura delle attività per l’emergenza coronavirus. M0olti lavoratori, inoltre, erano in nero e per questo motivo, pur trattandosi di attività essenziali, non sono in grado di proseguire nel loro lavoro. Qualcuno ha tentato di rubare la merce fuggendo con il carrello e giustificandosi così: “Non abbiamo soldi e non vogliamo pagare”. La situazione in Sicilia ma anche a Napoli e a Bari è la stessa: i cittadini non sanno come pagare le merci. I soldi non bastano e al lavoro non si può andare. L’Italia non canta più dai balconi, ma cerca di sopravvivere. In un video di un supermercato di Napoli si vede una scena drammatica. Un uomo arriva alla cassa, svuota il carrello e al momento di pagare allarga le braccia sconsolato. Non ha i soldi per permettersi la merce, ma non può rinunciare al cibo. Le persone che attendono in fila iniziano ad urlare contro il cliente: “Chiamate la polizia, il signore non ha i soldi per la spesa. Non può mangiare, non ha comprato champagne e vino, ha comprato l’essenziale”. Nessuno scontro, ma solo il tentativo di far scattare un gesto di solidarietà. Una scena molto simile ripresa anche a Bari, dove un gruppo di persone denuncia la situazione: “Siamo rimasti senza cibo in casa, siamo senza soldi. Come facciamo a vivere?”. Un gruppo di persone radunate fuori dalla banca, invece, dichiara: “Non abbiamo più soldi”. E ancora: “Vi prego, venite a casa a vedere. Non ho più nulla. Io devo mangiare”. Gli agenti pattugliano di continuo gli ingressi dei supermercati e le zone dove si affollano le persone affinché non si svolgano risse.
Alfredo Pecoraro per ANSA il 27 marzo 2020 - Il tam tam corre sui social con l'apertura di un profilo Facebook, il gruppo si chiama "Noi". Nel giro di 24 ore gli iscritti sono già 585, soprattutto palermitani. S'inneggia alla rivolta: "Basta stare a casa, dobbiamo mangiare". "Recupereresti lo que nos quitas" è lo slogan della pagina Fb, mentre alcuni di loro si organizzano attraverso delle chat. C'è chi dice: "Chi per giorno 3 aprile è pronto alla guerra lo scriva qui sotto e facciamo gruppo", "dobbiamo rompere tutti i supermercati e se vengono gli sbirri...". E ancora: "Per farci sentire dobbiamo razziare i supermercati, come fanno in Siria e in Spagna, la protesta vera e propria è questa, così capiscono a cosa siamo arrivati". E un altro: "Allora ragazzi avevo detto ieri sera, il problema c'è da subito: i bambini devono mangiare". Nel profilo ci sono post sui "gilet gialli" che aggirano i divieti in Francia. In molti ci mettono la faccia, pubblicando video in cui sollecitano la rivolta sociale, mostrando anche i volti dei propri figli piccoli. Dai social alla realtà il passo è brevissimo. E così nel pomeriggio, a Palermo, una ventina di persone ha assaltato il supermercato Lidl in viale Regione siciliana, tra i più grandi e i più frequentati della città. Sono entrati, hanno riempito i carrelli di generi alimentari, e raggiunte le casse hanno cercato di forzarle: "Non abbiamo soldi, non vogliamo pagare". Gli impiegati del market hanno chiamato polizia e carabinieri, mentre all'esterno tra la gente in fila, a distanza di un metro come impongono le regole anti Covid-19, è scoppiato il panico. Per diverse ore è stato il caos. In città si è sparsa la voce di furgoni che trasportavano derrate alimentari rapinati da bande. Nel gruppo "Noi" di Fb, Aleandro scrive: "Io non aspetto aprile, sono senza un euro, la mia famiglia deve mangiare. Perciò senza fare le pecore, scendiamo in piazza e pretendiamo i nostri diritti. Non facciamo chiacchiere, che fanno acidità. Chi fa la pecora e non scende in piazza, per me fa parte dello Stato, senza offesa per nessuno". Intanto sorgono altri gruppi su Fb di persone che dicono di essere esasperate e c'è chi invita a fare fronte comune perchè "se ci uniamo siamo di più, si chiama rivoluzione nazionale". A Palermo ormai la situazione è esplosiva, l'esasperazione è alle stelle. "A casa ci possono stare quelli che hanno lo stipendio fisso, se noi dobbiamo stare chiusi lo Stato ci deve portare il cibo e deve pagare gli affitti, non siamo Cristiano Ronaldo: qui tre quarti di italiani lavora in nero. Ribellatevi", urla Luky in un video. Secondo un recente studio della Cgil, a Palermo e provincia un lavoratore su tre è in nero. Il divieto a uscire di casa per fermare i contagi ha svuotato la città. E così chi vive vendendo il pane per strada, chi finora ha guadagnato con la frutta e la verdura nelle bancarelle dei mercati tradizionali o in quelli rionali da due settimane non incassa più un euro. Sul gruppo "Noi" Salvatore fa il suo appello: "Qui non ci deve essere nessuna rivalità di quartiere: Ballarò, Zen, Sperone, Cardillo, Villaggio Santa Rosalia (zone popolari). Dobbiamo essere uniti, e buttare le corna a terra a questi perchè se aspettiamo via Libertà e viale Strasburgo (strade di zone benestanti della città)... a me non mi interessa dei domiciliari, io sono in prima fila. O vinciamo tutti o perdiamo tutti".
Coronavirus, l'assalto ai supermercati di Palermo: “Se ci caricano, li pestiamo”. Le Iene News il 28 marzo 2020. Una ventina di persone si è organizzata in gruppi Facebook per assaltare i supermercati di Palermo. Qui secondo la Cgil un lavoratore su tre è in nero. La guerra contro il coronavirus rischia di trasformarsi in emergenza economica. Su Iene.it vi facciamo ascoltare gli audio che si sono scambiati fino a pochi minuti prima del loro blitz. “Se c’è bisogno di pestarli mentre ci caricano, li pestiamo. E se lo sbirro ti dice pietà, deve perdere sangue e morire”. Così tramite messaggi audio scambiati su Facebook una ventina di persone si è data appuntamento per assaltare i supermercati di Palermo. Potete sentire tutte le registrazioni qui sopra. Da qualche ora i supermarket sono sorvegliati come fossero banche. All’esterno dei negozi ci sono schierate le forze dell’ordine. Dopo l’assalto di qualche ora fa, da lunedì il Conca d’oro distribuirà buoni spesa da 50 euro l’uno per dare una mano alle famiglie del quartiere Zen. Oltre al coronavirus, qui si deve combattere contro la povertà. Secondo la Cgil, nella provincia di Palermo un lavoratore su tre è in nero. La chiusura delle attività commerciali per limitare i contagi ha azzerato le entrate di molte famiglie. "Basta stare a casa, dobbiamo mangiare". Con questo grido sono stati assaltati alcuni supermercati di Palermo. Tutto è partito su un gruppo Facebook: "Dobbiamo rompere tutti i supermercati. E se vengono gli sbirri...", scrive un altro utente facendo intendere che si sarebbero opposti alle forze dell’ordine. Così una ventina di persone è partita all’assalto. “Dalla Conca d’Oro possiamo scappare. Fidati che quando saremo molti, a chi dovrebbero fermare”, dice uno di loro. “Ma lo sai quanti saremo? Tantissimi. Ci sarà il fuggi fuggi”. E un altro rincara la dose: “Con tutti quelli che saremo, anche dieci camionette antisommossa non ci potranno fermare. Tutti con la mazza in mano, con i bastoni”. A questo punto parlano dell’assalto prevedendo la reazione quando forzeranno le casse. “È normale che gli andranno incontro, è normale. E dopo ci sarà il corri corri. Perciò fatti il resoconto: stiamo andando a prendere la spesa, ma ci ritroveremo l’antisommossa alle spalle. Stai tranquillo che ce li ritroveremo”. Altri inviano audio per invitare altre persone a unirsi all’assalto: “Viene anche *** perché ha 4 bambini da sfamare. Abbiamo tutti bambini, quindi domani scendiamo ragazzi”. In un altro audio si sente una voce che ha anche consigli per come presentarsi all’assalto: “Mettetevi addosso cose imbottite perché ci saranno tantissime bastonate perché i figli di puttana con i manganelli non scherzano. Te lo può dire il sottoscritto con tutti i colpi di manganello che ha ricevuto nelle spalle. Copritevi bene!”. Si danno appuntamento alle 15.30 alla Conca d’Oro. E i messaggi continuano anche pochi minuti prima del loro ingresso: “Già ci sono i camion antisommossa”, si dicono. Entrano, riempiono i carrelli e forzano le casse urlando “non abbiamo soldi” e “non vogliamo pagare”. Nei supermercati è il panico mentre all’esterno le persone attendono il loro turno in fila. Nelle ore successive si sono diffuse anche fake news come camion di alimentari assaltati per strada. La disperazione si legge anche nei post su Facebook. "Non aspetto aprile, sono senza un euro, la mia famiglia deve mangiare. Chi fa la pecora e non scende in piazza, per me fa parte dello Stato, senza offesa per nessuno”. Un altro utente aggiunge: “A casa ci possono stare quelli che hanno lo stipendio fisso, se noi dobbiamo stare chiusi lo Stato ci deve portare il cibo e deve pagare gli affitti, non siamo Cristiano Ronaldo”. Nelle ore successive all’assalto il sindaco Leoluca Orlando ha parlato di “gruppi organizzati, gruppi di sciacalli e professionisti del disagio” e ha lanciato un invito a “tutti i cittadini di segnalarli alle autorità di polizia". E secondo La Repubblica, l'intelligence avrebbe consegnato a Palazzo Chigi un report che segnala un potenziale pericolo di rivolte e ribellioni, spontanee o organizzate, soprattutto al Sud, "dove l'economia sommersa e la capillare presenza della criminalità organizzata sono due principali fattori di rischio". Dopo l’emergenza sanitaria ci saranno da affrontare le conseguenze sociali ed economiche. Le prime conseguenze anche se non direttamente riconducibili al coronavirus si sono viste a Bari. Davanti a una banca una coppia urla la loro disperazione: “Siamo rimasti senza cibo e senza soldi. Mi hanno chiuso il negozio da venti giorni, io come faccio a vivere?”. Questa scena è stata registrata da un residente e il video è diventato virale. Noi di Iene.it abbiamo parlato con Michele, un passante, che ha aiutato la coppia allungando due banconote. “Non sono un eroe”, ci dice.
Romina Marceca per repubblica.it il 29 marzo 2020. Gli investigatori guardano dentro al gruppo “Rivoluzione nazionale” per comprendere chi ha promosso l’idea di assaltare il supermercato Lidl e ha anche lanciato la proposta di organizzare altri raid per rubare la spesa. La segnalazione alla procura è arrivata dalle forze dell’ordine per i 13 bloccati dentro al Lidl con i carrelli pieni di alimenti e decisi a non pagare. Il procuratore Francesco Lo Voi ha smentito a Repubblica che sia stato aperto formalmente un fascicolo sia dalla Dda sia dal dipartimento che si occupa di criminalità comune. Di certo, però, le indagini non si fermano. E tra i membri del gruppo ci sarebbero anche persone vicine a ambienti della criminalità. Si sta verificando la posizione di un uomo che sarebbe stato anche arrestato per avere custodito un arsenale, insieme ad altre persone. Armi che sarebbero state a disposizione di Cosa nostra secondo chi indagava. Al gruppo Facebook “Rivoluzione nazionale” dove c’era chi invitava pure alla violenza contro gli “sbirri” sono iscritti in oltre 2.500 e ci sarebbero anche i nomi di diversi pregiudicati della città. Quelle che potrebbero rimanere solo delle chiacchiere dentro a un gruppo social chiuso e al quale si accede con il permesso dell’amministratore, adesso è materia di studio per gli inquirenti palermitani. Da tre giorni le forze dell’ordine sono schierate a protezione dei centri commerciali più importanti della città: “Conca D’Oro” allo Zen, “La Torre” a Borgo Nuovo e “Forum” a Brancaccio. Ma le pattuglie passano con frequenza anche davanti alle farmacie, ai piccoli market, ai panifici. Proprio per ieri era stato annunciato un grosso assalto al “Conca D’Oro” o a “La Torre”. Circostanza che non si è verificata e che, tra gli audio che giravano su Whatsapp, era comunque diretta anche al pestaggio degli “sbirri”. Comunque, buongiorno a tutti. I nominativi che mi avete mandato li ho aggiunti tutti. Ricordiamoci che questo non è un "cortile" ("non siamo qui a parlare per parlare" ndt). A poco a poco che ci uniamo spieghiamo a questi "cristiani" (a queste persone) perché siamo qui riuniti: perché dobbiamo andare a buttare a terra il municipio. Dopodiché se Nino Naso (sindaco di Paternò) non ci aiuta, ché Nino Naso ci dice "non vi posso aiutare", ok, dobbiamo essere pronti che assaltiamo un supermercato grosso, il più grosso che c'è a Paternò, lo sdraiamo, nel senso che portiamo via anche gli scaffali, non è che a loro gli sembra che noi siamo qui per giocare, qua siamo per riunirci mille persone, appena siamo mille, spostiamo, diciamo "ci vediamo alle nove e dieci al municipio"... Dobbiamo arrivare a mille persone e non ci dobbiamo spaventare né della legge né di chicchessia, perché non sono nessuno la "legge", sono persone come a noi, non hanno tre teste, hanno una sola testa come a noi...Perciò, prima parliamo con Nino Naso (il sindaco), che dice che è presente sempre (MAI) e dopodiché come lui non ci aiuta e ci dice "non vi posso aiutare"... "va bene", siccome qua le persone siamo disperati "sai che stiamo facendo? stiamo andando in un supermercato e ci stiamo portando via anche i chiodi dal muro... automaticamente sei tu (Nino Naso) che mi ci stai mandando, perché non ci stai aiutando... perché lui può chiamare al governo, può chiamare a Musumeci (presidente della Regione Sicilia), può chiamare a Conte, può chiamare a chi gli pare... Basta. Perciò... questo gruppo è fatto... le persone che entrano ora devono capirlo perché siamo qua... siamo qua perché prima dobbiamo "sdraiare" (sottomettere, distruggere) prima il municipio... si era detto prima che bisognava andare direttamente nei supermercati... per non fare i "vastasi" (i maleducati) prima andiamo al Comune... come Naso si affaccia e ci dice "io non vi posso aiutare, anzi andatevene... qui state violando la legge..." perché lui (Nino Naso) la prima cosa che ci dirà sarà: "A voi chi ve lo ha detto che potevate uscire oggi..." e noi ci diciamo: "Ce lo hanno detto il papà e la mamma di uscire... e stiamo uscendo... chi ce lo deve dire di uscire..." perché verranno i carabinieri, verranno quelli in borghese, e ci diranno "chi vi ha detto di uscire"... "Ma perché, chi ce lo dovrebbe dire di uscire (o di stare a casa) voi (carabinieri) che non siete nessuno mischiato con niente? Dobbiamo mangiare qua! Non è che ci possiamo mangiare gli ultimi cento euro e quando finiscono poi chiamiamo aiuto...A me mi hanno insegnato da una vita che prevenire è meglio che curare... Perciò, ragazzi, siamo qua per fare questo, prima una rivolta contro il Comune, come quello ci allarga le braccia (come a dire "niente posso fare" ndt)... benissimo, sappi che da questo momento noi siamo con la "visiera" calata (il passamontagna, la calzetta)... ce ne stiamo andando in un supermercato e ci portiamo tutto quanto e non paghiamo niente... ci facciamo un carrello di spesa ognuno... non è che dobbiamo fare i maleducati... solo un carrello a testa... oggi... in un supermercato... domani in un altro. Ragazzi, io stamattina ho parlato con un pugno di ragazzi a San Cristoforo (quartiere a rischio di Catania, conosciuto come "Il Fortino") c'era qualcuno in giro, si stavano organizzando, compare, che stanno aspettando fino al giorno 3 aprile, compare, e dopo il 3 aprile incominciamo a fare danno, aspettano che si avvicina la Pasqua, i bambini devono mangiare, senza scherzare, dico sul serio, per cui organizziamoci con loro, loro sono già quaranta persone, compare...Adesso io sto passando la voce a Librino (altro quartiere a rischio), al Villaggio (Villaggio Sant'Agata)... e restiamo per il giorno 3 che ci diamo la conferma per l'indomani dove dobbiamo vederci... Per davvero ragazzi... iniziamo a fare la rivoluzione... iniziamo a fare danno...
Da repubblica.it il 28 marzo 2020. Si iniziano a registrare i primi casi di gente che ha fame, di famiglie che non ce la fanno. "Cominciamo già a vedere il dopo" della pandemia di coronavirus. Lo ha detto Papa Francesco, all'inizio della messa nella chiesa di Santa Marta, la 20esima in diretta streaming dopo la sospensione, in Italia e altri Paesi, della celebrazione eucaristica con la partecipazione dei fedeli a causa della pandemia di coronavirus. "In questi giorni", ha detto Bergoglio, "in alcune parti del mondo si sono evidenziate alcune conseguenze della pandemia. Una è la fame. Si comincia a vedere gente che ha fame perché non può lavorare, perchè non aveva un lavoro fisso. Cominciamo a vedere già il dopo. Verrà più tardi ma comincia adesso". Dunque, ha concluso il pontefice, "preghiamo per le famiglie che incominciano ad avere bisogno per la pandemia".
Laura Anello per “la Stampa” il 2 aprile 2020. Lo aveva detto il sindaco di Palermo Leoluca Orlando, il primo a lanciare l' allarme dopo il tentativo di razzia organizzato in un supermercato. «Il problema non è solo della mia città, e non è solo del Sud, i miei colleghi del centro e del Nord Italia se ne sono resi conto». Certo è che da un capo all' altro della penisola, i Comuni sono impegnati in una lotta contro il tempo per distribuire pacchi e buoni spesa a poveri e nuovi poveri che si sono ritrovati con la dispensa e il portafoglio vuoto.
Un mondo trasversale: operai in nero, precari, ma anche lavoratori atipici e commercianti costretti a fare i conti con zero introiti. La nuova emergenza Il tema del cosa mettere a tavola sembrava questione che non apparteneva più agli italiani - se non alle fasce più fragili e marginali - ma la paralisi del Covid-19 ha riportato le lancette della storia molto indietro. Secondo Caritas italiana, le richieste di aiuti alimentari sono aumentate in tutto il Paese dal 20 al 50 per cento. Richieste alle quali la Conferenza episcopale ha risposto mettendo a disposizione due dei dieci milioni utilizzati dalle 218 Caritas diocesane per interventi di prima emergenza, con pacchi da asporto, pacchi a domicilio e buoni spesa. Altri quattro milioni sono stati destinati ai territori più colpiti dall' epidemia. I Comuni, invece, sono impegnati nella distribuzione della loro quota dei 400 milioni messi a disposizione dal governo.
A Palermo, epicentro simbolico dell'emergenza alimentare, in quattro giorni sono arrivate 15 mila domande al bando promosso dall' amministrazione: un boom che ha costretto il Comune a sospendere l' accoglimento di nuove richieste fino a lunedì per esaminare intanto quelle già arrivate. Oggi saranno contattate le prime famiglie: importante dare un primo segnale, per disinnescare la bomba sociale. Le risorse sono quelle messe a disposizione dallo Stato (a Palermo sono andati circa 5 milioni euro), cui si aggiungono quelle della Regione, che ha stanziato cento milioni per i Comuni dell' Isola.
Il supporto. Il tema è come dare questi aiuti e in che forma. «Non è ipotizzabile stampare e mettere in circolazione buoni pasto cartacei per oltre cinque milioni di euro - dice l' assessore ai Servizi sociali, Giuseppe Mattina - e c' è un problema di livello di alfabetizzazione digitale dei beneficiari, per cui non sono ipotizzabili soluzioni interamente basate su strumenti digitali dematerializzati». In sostanza bisognerà che i cittadini vadano fisicamente in una delle postazioni che il Comune sta per allestire nelle circoscrizioni, per completare la procedura e ritirare successivamente il buono pasto. Non sarà facile.
A Milano, invece, dove il Comune potrà spendere poco più di sette milioni, l'obiettivo è di raggiungere tra le 50 e le 60 mila famiglie con circa 150 euro per due mesi. Tre le strade individuate: potenziare la distribuzione del pacco alimentare già attivata in città da un mese, intercettare le famiglie in maggiore difficoltà economiche che nei mesi scorsi avevano fatto richiesta di un sostegno e per le quali non c'erano risorse, infine individuare i nuovi poveri scaturiti dall' emergenza.
E se Bologna, con i suoi due milioni di euro a disposizione, si attrezza per dare buoni spesa dematerializzati tra i 150 e i 600 euro, a seconda del nucleo familiare, per una platea di 6.700 persone, a Roma - la città che ha avuto più di tutte le altre, circa 15 milioni - il presidente e alcuni consiglieri della Terza circoscrizione lanciano l' allarme: «I municipi sono stati estromessi dalle procedure - dice il presidente, Giovanni Caudo - è stato tutto accentrato su Roma Capitale. Fatto sta che le richieste si chiuderanno il 16 aprile e poi partirà la disamina. Probabilmente il buono spesa arriverà alla fine di aprile mentre l' urgenza è adesso».
Silvia Madiotto per corrieredelveneto.corriere.it l'1 aprile 2020. Quella che oggi è un’emergenza sanitaria diventerà un’emergenza economica. Ma è già un’emergenza sociale. In una decina di giorni sono triplicate le telefonate con richieste di aiuto alla Caritas di Treviso, le fasce di povertà sono cresciute, «le famiglie hanno fame, non riescono a fare la spesa» spiega don Davide Schiavon e racconta com’è cambiata (e quanto rapidamente) la fotografia dei soggetti che hanno bisogno di un sostegno concreto, immediato, dopo la perdita del reddito. Ci sono padri senza ammortizzatori sociali perché il lavoro che garantiva qualche soldo a casa era in nero; ci sono ragazzi disabili che non possono più avere l’assistenza diurna con la chiusura delle strutture. Ma arrivano anche mestieri mai visti fino ad ora agli sportelli, nuove marginalità nate da quando uscite, spostamenti e momenti di aggregazione sono stati vietati: ecco quindi che ai centralini si presentano prostitute, artisti di strada e operatori di spettacolo viaggiante. I loro introiti sono improvvisamente spariti.
Il servizio telefonico. «Il nostro servizio telefonico rimane sempre attivo – spiega don Davide -. Abbiamo avuto in incremento esponenziale, anche trenta chiamate al giorno, per il 95% le necessità sono alimentari. Sono circa 70 le famiglie che vivono di giostre e spettacoli itineranti, famiglie numerose, si arriva a 400 persone in difficoltà in tutta la Diocesi che dopo l’inverno di stop aspettavano il carnevale e la primavera. Per chi aveva lavori precari e stagionali, o era impiegato nei campi, oggi il vero problema è fare la spesa». Immigrati irregolari che non chiedono più l’elemosina sono un altro anello debole, «ma ci sono diverse situazioni sommerse» continua il direttore della Caritas: «Un elemento nuovo, e non mi era mai capitato, è che arrivano richieste di aiuto alimentare da donne vittime di prostituzione e trans, in una settimana sono state otto». Venti sono i senza dimora accolti in via Venier, protetti non solo dal freddo delle notti al gelo, ma anche dal virus. «Dobbiamo cominciare fin da ora a lavorare in prospettiva – riflette don Davide – creando reti di sostegno. Penso alla povertà educativa, studenti esclusi dalle lezioni on line perché vivono in condizioni di disagio, non hanno strumenti tecnologici o connessioni internet. Stiamo pensando a come programmare un’estate diversa nelle nostre parrocchie per poterli aiutare. Penso anche alle violenze domestiche che rimangono taciute, sia sulle donne che sui minori, oggi chiusi in casa».
La crisi del 2008. La Caritas di Treviso intravede uno scenario simile alla crisi del 2008: «Stiamo pensando di ridare forma e corpo al microcredito perché nessuno rimanga scoperto. Ci troviamo davanti a una situazione esplosiva. Bisognerà ripensare tutto ma quello che ci è caduto addosso può diventare un’opportunità rimettendo al centro l’uomo e ciò che davvero conta. Serviranno mente aperta e percorsi diversi per la marginalità, la disabilità, il lavoro, le fasce deboli». Un elemento positivo c’è già: «Le donazioni sono in aumento – chiude don Davide -. Persone e aziende ci offrono aiuto, pane, pizza, cibo. Ci chiedono di distribuire, di arrivare a chi ha bisogno. Questo mi rende fiducioso, vedo un popolo che non vuole lasciare indietro gli ultimi: come ha detto Papa Francesco non ci salviamo da soli. Servirà un grande sforzo comune, riusciremo a reinventarci e ripartire».
La fame è già entrata nelle nostre case. Un milione e 260mila bambini in povertà: niente pranzo senza la mensa a scuola. Serena Coppetti, Domenica 29/03/2020 su Il Giornale. C'è una scia dietro il virus. Una scia che entra in ogni casa ma che non colpisce tutte allo stesso modo. Per alcuni è il lusso della noia da fare a fette nell'ultima torta, per altri è il pezzo di pane avanzato perchè non ci sono più soldi per comprarne uno fresco. In Italia 1 milione e 260 mila bambini vivono in uno stato di povertà assoluta. Sono triplicati negli ultimi 10 anni. Stanno a Palermo ma anche a Milano. I genitori di solito lavoricchiano. Adesso hanno perso anche quel poco che riuscivano a racimolare e in molti casi non hanno accesso ad aiuti statali. Sono bambini che spesso hanno come unico pasto quello della scuola. Bambini che hanno come unica speranza di riscatto l'istruzione, la sola alternativa alla strada. Siamo in Italia, non in Africa. Qui dove (dati Ocse) quel 14% della popolazione che vive in una situazione di povertà rischia di diventare il 27% se dovesse mancare per tre mesi consecutivi lo stipendio. «Famiglie in grande difficoltà ora in drammatica difficoltà», racconta Ivano Abbruzzi, direttore generale dell'Albero della Vita, fondazione che dal 2008 prende per mano i genitori prima dei ragazzi per creare percorsi di uscita dalla povertà. Ma oggi per loro l'urgenza è un'altra. Il cibo, prima di tutto. E l'istruzione. «L'epidemia mondiale rischia di portarsi dietro un'emergenza sociale. Il rischio è la tenuta e la sicurezza sociale di interi quartieri con famiglie che non hanno da mangiare, che vivono ai margini della società, non hanno i requisiti legali per avere dei benefici dello stato. Persone già fragili rimaste senza lavoro, magari in 5 o 6 in una casa senza utenze di 50 metri quadrati. D'un tratto senza reddito, forzati a vivere insieme» in una somma di povertà (non ultime quelle culturali) dove un tema è anche quello della violenza domestica. L'associazione segue circa 600 famiglie adesso con gruppi whatsapp e colloqui a distanza. Obiettivo: non fare arrivare certe situazioni all'esasperazione. Hanno distribuito una buono da 50 euro per la spesa, ad esempio. E un centinaio di tablet con relative connessioni per fare restare i ragazzi agganciati alle loro scuole. In casa non hanno genitori che possono seguirli, i compiti arrivano e si rispediscono con l'unico cellulare disponibile in famiglia. «Il ministro ha lanciato le iniziative per la didattica digitale ma rischiano di avere tempi lunghi. Vodafone ad esempio ci a regalato 250 tablet, Amazon altri 200. Bisogna coinvolgere la grande distribuzione e il terzo settore. Creare un circuito perché tutti abbiano da mangiare oggi. Buoni spesa ad esempio. L'emergenza sociale è altrettanto importante di quella sanitaria. Il governo si deve occupare anche di questo».
Saccheggiato camion di alimentari diretto al supermercato. Cecilia Lidya Casadei il 26/03/2020 Notizie.it. Nella campagna barese, un camion contenente alimentari è stato saccheggiato da un gruppo di rapinatori. Tre uomini hanno saccheggiato un camion contenente alimentari in direzione Calabria. La rapina è avvenuta lungo la strada statale 96, poco prima della mezzanotte, quando un SUV si è avvicinato al mezzo per costringere l’autista ad accostare. Il tir è stato condotto nelle campagne tra Sannicandro di Bari e Adelfia, dove l’autista è stato costretto a scendere minacciato con delle armi da fuoco. Sul mezzo c’erano almeno 30 bancali di generi alimentari partiti da un deposito di Bitonto, Bari, e diretti ad un supermercato in Calabria. Dopo ore di sequestro, il camionista è stato rilasciato ma il suo mezzo è ripartito con a bordo i tre delinquenti. Le Forze dell’Ordine sono giunte sul posto per soccorrere l’uomo, facendo partire ricerche su tutto il territorio. La refurtiva, o comunque parte di essa, è stata ritrovata in un deposito sito nella barese Barletta mentre il camion in zona Bisceglie, abbandonato. Dei tre rapinatori al momento non vi è traccia, se verranno trovati dai Carabinieri dovranno rispondere di sequestro di persona e furto. Vista la quantità di controlli che si stanno svolgendo su tutto il territorio italiano, per via delle restrizioni in materia Coronavirus, non è escluso che si riesca a risalire ai delinquenti o quantomeno al SUV usato per commettere il reato. Da diversi giorni, infatti, l’Ente Nazionale per l’Aviazione Civile ha disposto il permesso di far volare droni per monitorare la situazione, su aree urbane ed extra urbane.
Farina e lievito introvabili nei supermercati. Gli italiani in tempo di lockdown fanno i panettieri…Redazione de Il Secolo d'Italia giovedì 26 marzo 2020. “La farina? No, è finita”. “La farina? No, terminata, va a ruba”. E’ così da giorni. E il motivo è presto detto, visto che assieme alla farina è sparito dagli scaffali dei supermercati anche il lievito. Gli italiani rinchiusi in casa fanno il pane, fanno la pizza e anche i dolci. Tutti panettieri o pasticceri. Per poi postare il pane casalingo sui social. Ma forse non è solo questione di fare sfoggio di arte culinaria. Magari i cittadini disorientati dai modelli di autocertificazione che cambiano continuamente preferiscono ricorrere al fai da te. Oppure la ritengono una necessità vistale lunghe file davanti ai supermercati. In ogni caso sui social è tutto un fiorire di foto che mostrano il pane fatto in casa e di commenti sulla quarantena che impegna gli italiani ai fornelli. Dice un utente: “Ma ve li immaginate gli americani in quarantena? Noi possiamo fare la pasta, la pizza, il pane, loro al massimo farciscono un tacchino con le verdure”. E poi ci sono gli annunci: ho fatto il pane al timo, ho fatte il pane di segale e avocado, ho fatto il mio primo pane, ho scoperto che si può fare il pane in casa, sono stufa di studiare e mi sono messa a fare il pane… Come in tempo di guerra, dunque, la farina diventa il bene più ricercato e indispensabile. Gli analisti stimano che la vendita di farina abbia subìto un incremento del +186%. Molto di più di carta igienica, detersivi e pasta.
Azzurra Barbuto per “Libero quotidiano” il 26 marzo 2020. Una bizzarra paura si è impossessata negli ultimi giorni del genere umano. Non quella di ammalarsi e morire a causa del Covid-19 né quella di perdere il lavoro o una persona cara, bensì il timore di restare sprovvisti di carta igienica. Si tratta di una isteria collettiva che non risparmia nessun continente e nessuno Stato. Sulla scia di quanto accaduto a Hong Kong, dove a metà febbraio la penuria di questo prodotto ha indotto un commando armato a irrompere in un supermercato al fine di rubare 600 rotoli, per un valore stimato di circa 200 euro, la popolazione mondiale, dall' Asia agli Usa, sta facendo incetta di confezioni. Tanto che i media americani ci tengono a rassicurare gli avventori rabbiosi, i quali per un rullo sarebbero disposti a cedere oro, e persino il marito o la moglie. Il messaggio è forte e chiaro: i cittadini statunitensi non rischiano di ritrovarsi senza soffici veli nel momento clou, in quanto l' America non esaurirà la sua carta igienica, nonostante l' aumento della domanda sia senza precedenti. Tuttavia ciò non allevia il terrore di uomini e donne e non frena la corsa all' accaparramento, per arginare la quale alcuni market hanno stabilito che non si possa acquistare più di un pacco alla volta. In Florida un tizio è stato arrestato per avere sottratto 66 rotoli da un albergo, caricandoseli nel bagagliaio della sua auto. Nel Nebraska sono stati chiusi i distributori automatici lungo una strada statale dato che gli automobilisti stavano saccheggiando le toilette pubbliche. Nella Carolina del Nord, invece, è stato posto sotto sequestro un camion risultato rubato, al suo interno c' erano diverse tonnellate di carta da bagno. Dall' altra parte dell' oceano Atlantico, precisamente a Londra, alcuni membri dell' Eltham Terrace Club giocano a poker puntando morbidissimi rulli anziché fiches. E a coloro che vincono non resta che augurare di andare... Vabbè, avete capito. Pure nel Belpaese abbiamo assistito a corse perdifiato verso i reparti dedicati all' igiene con l' obiettivo di portare a casa imponenti scorte di codesto amato articolo, senza il quale ci sentiamo persi. Anzi di più, finiti. Finché c' è carta c' è speranza. Secondo una ricerca del Worldwatch Institute nel 2005 ogni persona ha dissipato in media 3,8 chili di carta igienica, con picchi di 23 chili pro capite negli Stati Uniti, ossia di quasi due chilogrammi al mese. Il che appare quasi impossibile. Insomma, cosa diavolo ci faranno gli americani con tutti questi veli? Vi si avvolgono come mummie prima di andare a dormire o, semplicemente, hanno un intestino troppo attivo e una vescica neurologica? Sono gli effetti di una società dei consumi che ha ormai smarrito la bussola, insieme al senso della misura: forse più che accumulare dovremmo cominciare a economizzare. E a ciò ci predispone bene la quarantena. Se proprio non riusciamo a liberarci della fobia di terminare i rotoloni, ci basti pensare che per milioni di anni l' umanità ne ha fatto a meno, visto che si tratta di una invenzione piuttosto recente, comparsa nel mondo occidentale solo a metà dell' Ottocento, quando il newyorkese Joseph C. Gayetty (che impresse il suo nome su ogni ritaglio, forse non soffermandosi su dove esso si sarebbe poggiato) mise in commercio la carta igienica, presentandola come una rivoluzione che avrebbe migliorato la vita e la salute degli americani. In Italia essa fu considerata un bene di lusso fino alla seconda metà del Novecento e pure oltre. Prima di allora si provvedeva alla pulizia intima con pezzi di giornali, o di stoffe vecchie, o foglie, addirittura sassi. Gli egizi ricorrevano persino alla sabbia arricchita con oli profumati. Ma la patria della carta igienica è proprio la Cina, dove nacque nel XIV secolo, quella Cina da cui è partita a cavallo tra il 2019 e il 2020 la pandemia che ci fa tremare e impallidire all' idea di poter restare sforniti di ciò che siamo soliti gettare in abbondanza nel wc.
Davide Lessi e Monica Serra per “la Stampa” il 3 aprile 2020. I primi casi si sono verificati nella Palermo dei supermercati "blindati" dalla polizia dopo le minacce degli assalti di questi giorni di emergenza coronavirus. La sera del 23 marzo un rider ventenne di Glovo è stato aggredito mentre stava per consegnare le pizze nel quartiere di San Lorenzo. A scongiurare la rapina una guardia giurata di passaggio per le strade deserte. Qualche giorno più tardi, invece, il colpo è andato a segno allo Zen, periferia difficile della città, dove un uomo ha preso di mira un fattorino di «Zangaloro meat and factory», un locale specializzato in hamburger. Mentre il 25enne cercava il palazzo in cui fare la consegna, è stato minacciato e costretto a consegnare gli 80 euro incassati nel corso della serata. Ma nei giorni scorsi episodi di questo tipo si sono ripetuti in diverse città d' Italia. Tanto che i sindacati lanciano l' allarme: «Rapine e aggressioni si erano verificate tante volte anche in passato, ma mai i riders erano stati derubati del cibo destinato alla consegna». I pericoli quotidiani L' ultimo caso a Lucca: una coppia di 40enni ubriachi ha strappato dalle mani di un giovane le pizze che stava per consegnare. E lui è fuggito per paura che gli saccheggiassero anche il borsello. A Bologna hanno rubato la bici a un fattorino in centro. A Pierfrancesco Scatigna, 25 anni di Brindisi, corriere che lavora per BiciCouriers, in zona Porta Venezia a Milano, è stata rubata una cassetta di verdura. Ha provato a inseguire il ladro e lui lo ha aggredito: «Mi ha tirato un pugno in faccia. Ma quello che è più preoccupante - dice - è che nello stesso giorno, un altro collega è stato derubato mentre consegnava il vino». La serie dei fatti è lunga. Un altro rider milanese racconta di essere stato derubato di due confezioni di uova, sabato scorso in zona Loreto, mentre denunce di episodi simili a Porta Romana corrono sulle chat whatsapp dei fattorini. «È una guerra tra poveri», riflette Andrea Borghesi, di Nidil Cgil. «Non solo questi fattorini stanno rendendo un servizio essenziale, perché portano la cena o la spesa agli italiani blindati in casa per via dell' emergenza, e lo fanno nonostante le loro condizioni economiche e contrattuali complicate, spesso senza i dispositivi di sicurezza e rischiando di essere contagiosi o contagiati. Ma subiscono anche aggressioni da persone disperate che hanno difficoltà a mettere insieme il pranzo con la cena». Non è che in passato non sia mai successo, «ma i furti hanno sempre avuto a oggetto i soldi. Mai il cibo», dice Borghesi. «Adesso la situazione sociale complicata fa emergere questo fenomeno». Le protezioni Il tutto mentre i riders continuano a fare il loro lavoro nonostante il virus e la paura del contagio. Spesso le aziende di food delivery per cui lavorano non gli forniscono neanche le mascherine. È dell' altro ieri la sentenza del Tribunale di Firenze che, accogliendo il ricorso di un rider di Just Eat, Yiftalem Parigi, ha disposto che la piattaforma gli dia mascherine, guanti e gel disinfettante, per tutelarlo dai rischi di contagio. «È una sentenza importante e che riconosce il diritto di questi lavoratori e obbliga la piattaforma a tutelare la loro sicurezza sul lavoro. Speriamo che ora, sulla scia di questa pronuncia - conclude Borghesi -tutte le piattaforme si adeguino al più presto e dotino i propri riders dei necessari dispositivi di protezione individuale».
Da liberoquotidiano.it il 3 aprile 2020. Una telefonata tragica, disperata, che dà la cifra del momento che stiamo vivendo a causa di questo maledetto coronavirus. Una telefonata ancor più tragica quella piovuta alla Centrale Operativa dei Carabinieri della Compagnia di Vergato, nel Bolognese, perché a farla è stata una 12enne: "Abbiamo fame, mio padre non lavora più e il frigorifero è vuoto. Aiutateci, vi prego". Questo il sunto di quanto detto al telefono. L'operatore, dopo aver tranquillizzato la bimba, ha inviato una pattuglia a casa della famiglia, di origine straniera e composta dai genitori e due figli. I militari hanno preso atto del fatto che la bambina non mentiva: il frigorifero era vuoto. Il padre, unica fonte di reddito della famiglia, aveva infatti perso il lavoro da precario a causa della pandemia. La famiglia non aveva più nulla da mangiare.
Chiara Baldi per “la Stampa” il 15 aprile 2020. Maria e Mohamed litigano in continuazione: mentre una fa i compiti, l' altro vorrebbe giocare ma l' appartamento ha solo due stanze e in quattro lo spazio scarseggia. «Servirebbe una casa più grande ma siamo già fortunati ad avere questa». Fatima - nome di fantasia, come quello dei suoi figli - è una giovane donna sola di 35 anni. È originaria del Marocco ma dal 2012 vive a Milano, in un alloggio popolare al Giambellino, uno dei quartieri più poveri della città. Qui una famiglia su quattro delle quasi 17 mila presenti abita in una casa popolare e ha un reddito annuo inferiore ai 9 mila euro lordi. «Già tre settimane fa il virus ha ridotto alla fame migliaia di persone. Oggi consegniamo pasti a 600 famiglie ma non basta», racconta don Gino Rigoldi, punto di riferimento di via Lorenteggio. Chi si lamenta di stare chiuso in un appartamento con doppi servizi e magari un terrazzino, non ha idea di cosa sia una quarantena per quelli come Fatima, 40 metri quadrati da condividere con i figli: Maria, di 15 anni, Mohamed di 10 e Nadja, di 4. Mohamed soffre di una disabilità psichica che in questa situazione lo porta ad avere più crisi del solito. «Non ha abbastanza giochi e si stufa a usare sempre gli stessi. In più, non abbiamo wi-fi e così anche i dati del telefono finiscono velocemente». Anche perché lo smartphone serve alla sorella maggiore per studiare: «Maria deve seguire 5-6 ore di lezione al giorno, ma non avendo un pc può usare solo il cellulare. Arriva a sera con gli occhi che le fanno male». Il "Laboratorio del Giambellino", insieme a "QuBì" della Fondazione Cariplo, ha calcolato che in tutto il quartiere servirebbero un migliaio tra tablet e computer per far studiare i ragazzi under 14. Alcuni aiuti arriveranno grazie al fondo di comunità lanciato proprio dal "Laboratorio". A undici chilometri da qui, ci sono le "Case Bianche" di via Salomone. Nel 2017 questi palazzoni grigi che somigliano a alveari hanno accolto Papa Francesco, strappando all' ente delle case popolari la promessa di fare dei lavori per renderli più decenti per le oltre 400 famiglie: dei 447 appartamenti, molti sono vuoti da anni. «Qualche giorno fa abbiamo ricevuto una lettera del Pontefice che si diceva contento che i lavori fossero partiti. Peccato che si siano dovuti subito interrompere per la pandemia», commenta don Augusto, della parrocchia di San Galdino. In via Salomone i palazzi svettano, hanno 8-10 piani. Ma non c' è neanche un balcone. «Questo ci pesa molto, per i bambini sarebbe importante. Ci accontentiamo di portarli a fare due passi dopo mezzanotte, quando in cortile non c' è nessuno», racconta Amalia Criscuolo, 31 anni. Lei e il marito Raffaele, con i due figli - Salvatore di 5 anni e Sabiana di 9 - e il cane Walker hanno vissuto i primi giorni di quarantena come sempre: sveglia alle 7, colazione, poi lezione. «Solo che la giornata non passava mai, i bambini non si stancavano mai, la luce del sole li teneva attivi. Era diventato impossibile. Così abbiamo deciso di cambiare gli orari: ora vanno a letto alle 3-4 di notte, si svegliano alle 13, fanno colazione, all' ora della merenda pranzano». Il salotto è stato riadattato: sul tavolo c' è una distesa di fotocopie: italiano, inglese, matematica. Centinaia di fogli stampati e compilati. «Sono di Sabiana: ogni giorno trascorre dalle 5 alle 6 ore a fare i compiti che riceviamo via chat. Poi vanno stampati, eseguiti, scannerizzati e caricati sul sito della scuola», chiarisce Amalia. «Ma certi momenti», confessa, «sono durissimi. I bimbi hanno capito che non possono uscire. A volte ci chiedono di fare una passeggiata e come fai a dire di no, quando da 40 giorni sono confinati in tre stanze? ». Nel palazzo accanto vive Franca, 45 anni, mamma di quattro ragazzi - ma due vivono fuori casa - e in sedia a rotelle. Disoccupata, è rimasta sola dopo che il marito è stato ricoverato per una depressione. «Ha perso il lavoro», dice. I due figli - Francesco, 15 anni e Sara, 11 - trascorrono il tempo davanti alla tv o al cellulare. «La scuola? Purtroppo la connessione non è molto stabile e riescono a seguire poco le lezioni. Li salva solo vedere in videochat gli amici. È l' unico sfogo che hanno».
Flavia Amabile per “la Stampa” il 15 aprile 2020. Anna D' Ilario ha 52 anni. Il suo lavoro è pulire sale e bagni di palazzo Altemps o della Crypta Balbi, i luoghi della Grande Bellezza. Continua a andarci ogni giorno anche se da settimane le sale sono chiuse al pubblico. Verso le sei torna a casa alla Magliana e si mette alla ricerca di cibo. Vive in un appartamento occupato con tre figlie e due nipoti di 8 e 11 anni, in totale sono sei persone in 80 metri quadrati, poco più di dieci metri quadrati a testa. Anna è l' unica ad avere un motivo valido per restare fuori casa buona parte della giornata. Gli altri cinque componenti della famiglia da oltre un mese sono costretti a rimanere negli 80 metri quadrati. Anche le figlie andavano a fare pulizie in giro per Roma. «Una era in nero, è stata subito mandata via. L' altra era stata assunta a febbraio, giusto in tempo per essere messa in cassa integrazione. Ora sono tutti a casa, vuol dire che invece di un pasto o al massimo due ce ne sono tre ogni giorno. E poi la luce, l' acqua, le spese sono aumentate moltissimo. Non faccio altro che cercare un modo per recuperare più soldi, oltre a quelli che guadagno», racconta Anna. «Ho chiesto in chiesa ma lì per aiutarmi chiedono il mio Isee. Io non ho un Isee perché non ho residenza. Ho un tetto perché qualche anno fa ho sfondato la porta di un appartamento con un piede di porco e un cacciavite ma una legge del 2014 mi vieta di utilizzarla come residenza ufficiale». Anna non ha un Isee ma nemmeno una tessera elettorale, una patente e un medico di famiglia. «Siamo gli invisibili, non esistiamo». E senza medico e assistenza sanitaria non può sperare molto in caso di contagio. «Che cosa accadrebbe? Non lo so, probabilmente non riuscirebbero nemmeno ad avvertire le mie figlie. E se accadesse alle mie figlie? Non lo so».
Quanti sono gli invisibili senza residenza a Roma?
«Tutti quelli che vivono nelle case occupate a meno di non avere ottenuto la residenza molti anni fa. Sono persone che il governo non ha tutelato in alcun modo nei suoi decreti. Eppure esistono», risponde Angelo Fascetti, responsabile nazionale del sindacato Asia-Usb. Esistono e sono tanti. Soltanto a Roma Federcase nel 2016 calcolava 8mila persone clandestine nelle case popolari occupate abusivamente. In realtà sono di sicuro clandestini e senza residenza tutti quelli che hanno occupato una casa dopo il 2014 quando fu approvato il decreto Lupi che vieta a chi occupa abusivamente una casa di chiedere la residenza o di allacciare luce e gas. «Sono migliaia di persone private di diritti primari da una legge che crea illegalità e che in questo momento aumenta il disagio e rende i deboli ancora più deboli», spiega Maria Vittoria Molinari dell' Asia-Usb di Tor Bella Monaca. Resta quindi una domanda senza risposta: che cosa accadrebbe in caso di contagio alle migliaia di persone solo a Roma prive di un indirizzo di residenza e quindi di assistenza sanitaria? «Non lo so. Sinceramente non mi sono posto il problema», risponde Marco, 27 anni, uno delle centinaia di occupanti delle case popolari del Quarticciolo, un lavoro in nero perso all' inizio della quarantena. «Ma noi siamo gli abbandonati, non abbiamo diritto nemmeno al contagio. Se dovessimo ammalarci di coronavirus, dovremmo stare molto male per chiedere un tampone e dovremmo proprio avere un piede nella fossa per essere portati in ospedale dove poi se la prenderebbero con noi sostenendo che il contagio sarebbe dovuto alle nostre scarse condizioni igieniche. Qui non vediamo mai nessuno, stiamo andando avanti in questo difficile momento in cui in tanti abbiamo perso il lavoro grazie alla rete di solidarietà creata dal comitato di quartiere. Almeno un piatto di pasta è assicurato».
Quello che accadrà quando poi la quarantena finirà è un ulteriore punto interrogativo. Anna Maria occupa da diciassette anni una casa di 38 metri quadrati alla Magliana. Ci vivono in quattro.
«Ma è il mio tetto e intendo difenderlo con ogni mezzo. Che si sappia: siamo pronti a tutto pur di non finire in strada».
Monica Serra per “la Stampa” il 14 aprile 2020. Stazione Domodossola-Fiera, ore 22. 25. Un centinaio di rider prova a prendere un treno di Trenord. Hanno la bicicletta, i contenitori per trasportare il cibo in spalla. Alcuni indossano la mascherina, altri neanche quella. Sono in tanti, tutti sulla banchina ad attendere il treno per tornare a casa, nell' hinterland milanese o nelle province di Bergamo, Monza, Varese, Sondrio, Lecco. La vita dei rider pendolari al tempo del coronavirus è stata denunciata dal collettivo "Deliverance" con un video girato in una stazione periferica della città che mostra le condizioni in cui i fattorini sono costretti a lavorare e viaggiare, nonostante l' emergenza sanitaria, in questi giorni di festa. La stazione Domodossola-Fiera viene spesso scelta dai rider perché i controlli della polizia ferroviaria sono meno serrati rispetto alle fermate di Garibaldi, Cadorna e Bovisa, dove è difficile passare senza mascherina e certificazione che attesti le "comprovate esigenze lavorative". «Sono soprattutto stranieri, migranti, che accettano di lavorare così. Capita che qualcuno arrivi troppo tardi o venga bloccato in stazione. Chi non riesce a prendere l' ultimo treno è costretto a dormire in strada, mettendo ancora più a rischio la sua salute», denuncia Angelo Avelli, di Deliverance Cobas. Le immagini pubblicate sul profilo Facebook del collettivo mostrano i fattorini, uno accanto all' altro, senza rispettare neppure il metro di distanza di sicurezza imposto dal Governo. «È proprio in un momento come questo che decidiamo in che tipo di società intendiamo vivere», prosegue Avelli. «O in una società che lascia indietro gli ultimi scambiando sushi, pizza e patatine come un servizio essenziale ai danni di qualcun altro. O in una società in cui le istituzioni sono in grado di garantire il benessere collettivo». Mentre i rider sono oggetto anche di violenza (l' ultimo caso la sera di Pasqua a Bari, dove il 21enne Vito Antonio Cassandra ha sparato dal balcone verso un corriere), nulla sembra essere cambiato dopo la sentenza del Tribunale di Firenze che, due settimane fa, accogliendo il ricorso di un rider di Just Eat, ha imposto alla piattaforma di fornirgli mascherine, guanti e gel disinfettante. «Servono risposte immediate e concrete da parte delle aziende di food delivery che non offrono soluzioni puntuali ai lavoratori, benché la fase sia così delicata», dice Avelli. Per questo Deliverance ha chiesto un incontro con le parti sociali: Assodelivery, Prefettura, Regione Lombardia e Comune di Milano. Tra le proposte, raccolte nel documento "10 punti per un delivery al sicuro", oltre all' istituzione di quattro centri di smistamento di mascherine e guanti da mettere a disposizione di tutti i fattorini, c' è la richiesta di regolamentare il loro lavoro all' esterno di locali e ristoranti. E di creare un presidio sanitario mobile che possa monitorare sempre la salute dei rider. Per limitare i rischi di contagio loro e dei clienti con cui ogni giorno entrano in contatto.
Valeria D’Autilia per “la Stampa” il 14 aprile 2020. Si appoggia a un' auto parcheggiata in strada. Il proprietario lo vede dal balcone e inizia a sparare. Vittima un rider nigeriano, che stava effettuando una consegna a Bari, nel quartiere Madonnella. Un episodio che, secondo i carabinieri, poteva avere conseguenze molto più gravi considerando che «i colpi sono stati esplosi dall'alto verso il basso e quindi a maggior ragione potenzialmente letali». Ma il fattorino è riuscito a trovare riparo all' esterno del furgone utilizzato per il trasporto della merce ed è rimasto illeso, così come il collega che era con lui. La follia A far scattare l' ira del barese affacciato dalla sua abitazione, il fatto che il rider si fosse appoggiato alla sua vettura, mentre era in attesa di ultimare la consegna del cibo a domicilio. Immediata l' aggressione verbale con l'intimazione ad allontanarsi. Il ragazzo nigeriano ha cercato di spiegare che era lì per lavoro e stava aspettando il pagamento da parte del cliente. Ma il 21enne, dopo le minacce, è passato ai fatti: ha impugnato la pistola e aperto il fuoco. Accanto a lui, nel balcone, la moglie incinta. Poi è fuggito, probabilmente per nascondere l' arma, che non è stata ancora trovata. Sono stati alcuni vicini, che hanno assistito alla scena dai loro appartamenti, a lanciare l'allarme e chiedere l' intervento dei militari. Al loro arrivo, hanno trovato il malcapitato in forte stato di agitazione. Ha riferito quanto accaduto, spiegando che era lì per una consegna di cibo a domicilio, per conto di un ristorante vicino. La ricostruzione degli istanti successivi è stata confermata anche dalle segnalazioni degli altri residenti che avevano parlato di una persona che sparava verso alcuni uomini, in strada. Nel mirino, il corriere. «Si era accanito su di lui» commentano i militari. I proiettili hanno colpito solo la parte superiore del camioncino delle consegne. Tutto documentato anche da una telecamera privata che ha ripreso i vari momenti, dalla discussione in poi. Il giovane, pregiudicato per spaccio di droga e vicino a un clan del posto, è stato sorpreso in strada, nei pressi della sua abitazione, e arrestato. Anche in passato era stato denunciato ed era finito in carcere. Risponde di tentato omicidio. Per gli inquirenti il filmato e la perizia balistica non lasciano dubbi. Di fronte ai carabinieri ha negato di aver sparato, dicendo che ad accusarlo sono state delle «malelingue».
L'IMMONDA IDEA DI UN REDDITO PER CHI LAVORA IN NERO. Maurizio Tortorella il 31 marzo 2020 su Panorama. A partire proprio da quel mattacchione di Beppe Grillo, che oggi lancia l'idea (del tutto assurda e paradossale) di un «Reddito universale, per diritto di nascita, destinato a tutti, dai più poveri ai più ricchi»: sul suo blog, il fondatore del Movimento 5 stelle lo descrive come «la via d'uscita da questa crisi». Se pare demenzialmente grillesca l'idea di dare soldi ai "più ricchi" , è indiscutibile l'esistenza - creata dal virus - di un problema reddituale per ampie fasce della popolazione. E difatti il governo sta correttamente valutando di distribuire un «Reddito di emergenza» a precari, colf, badanti, babysitter, stagionali, e a tutte le categorie di lavoratori che nei mesi del lock-down rischiano di non ottenere uno stipendio o il rinnovo del contratto. S'ipotizza lo stanziamento di 800 euro al mese per i due mesi di aprile e di maggio. Ma un sintomo preoccupante di contagio da Covid-19 spunta là dove alcuni esponenti governativi del Movimento 5 stelle, di Liberi e uguali e del Pd, ipotizzano di allargare la tutela ai lavoratori "in nero" , circa 3,5 milioni di italiani. Sono gli evasori scali sui quali il grillismo e la sinistra giustizialista per anni hanno affilato le armi, ma ora a Palazzo Chigi si decide che (ohibò) «non saranno lasciati senza bonus». Nell'esecutivo giallo-rosso se ne discute animatamente, come sempre del resto: al momento prevale l'idea di non equipararli proprio in tutto a chi s'è trovato costretto a chiudere un'attività o una bottega, né di trattarli come i precari regolari. Si pensa quindi di sostenerli con un «mini bonus di 400 euro mensili». Per tutti, comunque, il Reddito di emergenza sarà temporaneo, cioè legato alla crisi provocata dal virus. Uno Stato che decida di sostenere gli evasori fiscali, a modesto avviso di chi scrive, merita decisamente di chiudere. E non per malattia, o per ferie: per sempre. Saranno forse i disastrosi effetti del Covid-19 sul cervello dei geni attualmente al governo, ma pare evidente che non abbiano la più pallida idea di quanto stanno ipotizzando. Partiamo dalla cifra: se i nostri governanti avessero moltiplicato i 400+400 euro per quei 3,5 milioni di lavoratori irregolari, per esempio, avrebbero scoperto che la moltiplicazione produce un risultato allarmante: 2,8 miliardi di euro. Vogliamo dimezzare la platea dei destinatari? Bene: si scende a 1,4 miliardi. Ma davvero vogliamo regalare miliardi agli evasori fiscali? No: francamente, sarebbe di gran lunga preferibile spendere quelle cifre per dotare al più presto dei presìdi sanitari e delle protezioni (che non hanno) i nostri poveri medici e infermieri, che per colpa del Covid-19 muoiono a decine. Quello sì che andrebbe fatto subito: per chiudere una vergogna senza fine, che ricadrà per sempre su questo governo tardo e tardivo, che il 31 gennaio - esattamente due mesi fa! - aveva consapevolmente decretato lo stato d'emergenza. Viene poi da chiedersi come farà questo governo tardo e tardivo a individuare i 3,5 milioni di «lavoratori in nero» cui regalare gli 800 euro di cui sopra: gli evasori fiscali dovranno forse presentare un'autodenuncia, magari con garanzia d'impunità futura? O forse si scoprirà che la Guardia di finanza in un cassetto ne ha l'elenco dettagliato, regione per regione? S'immagina, peraltro, che questi "lavoratori in nero" non possano essere compresi tra i percettori del Reddito di cittadinanza. Perché se lavorano evadendo le tasse, in teoria e in base alla legge, non avrebbero diritto al Reddito grillino. Insomma, è l'ennesima, vergognosa misura demagogica all'italiana. Un'eventualità che da sola dovrebbe scatenare proteste corali, soprattutto in un momento così grave per il Paese. Viene in mente un altro tentativo di negoziato tra Stato e fasce malavitose: lo scandaloso tentativo di un "patto con i contrabbandieri", che nel 1992 portò l'allora ministro delle Finanze Rino Formica a dialogare, per mesi, con un folto gruppo di contrabbandieri pugliesi. Il confronto non è del tutto corretto, però, perché rispetto ai quacquaracquà di oggi (evidentemente obnubilati dal virus) di certo Formica passerà alla Storia come un vero gigante della politica, uno Statista con la S maiuscola. Ventotto anni fa, in effetti, il ministro, che era socialista e pugliese, voleva stroncare il contrabbando offrendo a quei malviventi un lavoro e un condono. Non se ne fece di nulla. E non tanto perché alla fine si mise di mezzo il tetragono Partito comunista italiano (un po' il "nonno" del Pd), che all'epoca si ergeva ipocritamente come grande moralista e difensore di ogni legalità, anche in campo scale. Il patto naufragò soltanto perché i contrabbandieri, alla fine, non si fidarono del governo. Quei fuorilegge avevano perfettamente ragione allora. Figurasi oggi… Maurizio Tortorella.
L'IMMONDA IDEA DI UN REDDITO PER CHI LAVORA IN NERO. Così scrive Maurizio Tortorella il 31 marzo 2020 su Panorama.
La Germania non ha fiducia nell’Italia nell’onorare i suoi debiti. L’Italia è reputata indebitata, inaffidabile e senza garanzie. E tutti gli italiani contro i tedeschi.
La stessa cosa, però, pensano i padani di noi meridionali: lavativi e approfittatori.
Mi devono spiegare e farmi capire, questo tipo di scienziati, in termini di PIL a quanto ammonta il “Lavoro Nero”, se per definizione il “Lavoro Nero” e la relativa evasione fiscale è di per sé invisibile. Ergo: incalcolabile.
Questi scienziati considerano "Nero" anche quella fascia di contribuenti che per legge fiscale sono esonerati dal presentare la dichiarazione dei Redditi.
E comunque il cosiddetto “Nero” vero è che non paga l’Irpef, ma vive e consuma Padano, facendoli ricchi, e, quindi, spende, e spendendo paga, comunque, tasse ed imposte (Iva, accise, ecc), che servono ai parassiti per sostenersi e per avere l’aria di parlare.
In tempo di Coronavirus si cerca di aiutarsi tutti quanti. Così dicono.
Chi lavora è sostenuto con i bonus.
Chi è dipendente e non lavora gli viene riconosciuta la Cassa Integrazione Guadagni o la disoccupazione.
Gli autonomi ed i professionisti che si sono fermati vengono pagati con una indennità (600-800 euro).
Chi non lavora e non rientra nelle categorie suddette ha il reddito di cittadinanza.
Poi ci sono gli sfigati. Quelli che per 10 euro in più nel conto in banca o nel valore immobiliare non rientrano nel reddito di cittadinanza, o quelli che, lavorando sottopagati, o pagati parzialmente in nero al Nord, con questa crisi sono stati licenziati a paga dimezzata e senza diritti, o quelli che comunque sono stati licenziati, o che sono disoccupati da lunga data, ma non maturano i requisiti di alcun beneficio.
Questi non sono “nero”, ma semplici sfigati. Per gli scienziati dall’accusa e dalla condanna facile, hanno un peccato: essere meridionali. Come se al Nord non ci fossero i morti di fame, anzi, di più. Perché non hanno una famiglia dietro che li sostiene. Però i media padani la menano sul pericolo Sud e le rivolte per la fame, aiutati in questo da certi sindaci meridionali senza dignità ed orgoglio, che sono sempre lì a lamentarsi...
Se al Nord guardassero meno la pagliuzza negli occhi del Sud, e si facessero solo i cazzi propri, forse scriverei meno nei miei libri sulle loro nefandezze.
· Il Virus della discriminazione.
Giordano Tedoldi per “Libero Quotidiano” il 22 giugno 2020. Bigotti fino al ridicolo. Governo e Regioni escludono i sexy shop dai contributi stanziati per la ripartenza dopo il lockdown. In un Paese così ipocrita da avere legiferato una "porno tax" (una tassa sui proventi dei ricavi o dei compensi derivanti dalla produzione, distribuzione, vendita e rappresentazione di materiale pornografico, che ha colpito in modo del tutto anticostituzionale una sola categoria commerciale) non ci potevamo aspettare niente di diverso. La nostra classe politica ostenta ancora un imbecille puritanesimo per cui il sesso è sporco, va nascosto e sottaciuto, salvo poi spremere il settore come un limone quando si scopre che il giro d' affari di film, indumenti striminziti, attrezzature fetish e altri ammennicoli erotici è fiorente. A denunciare la discriminazione sul Gazzettino è Marina Corradini, che con il compagno e il figlio gestisce alcuni sexy shop nel Friuli: «Noi siamo discriminati da chi governa che, una dopo l' altra, sta facendo ripartire tutte le attività: solo i "sexy shop" restano chiusi. Solo noi esclusi dagli aiuti di Stato e Regione. Per questo siamo pronti alla disobbedienza fiscale. Ci stanno lasciando nel limbo in attesa di poterci spremere con un' altra tassa anticostituzionale come è accaduto in passato». Forse i nostri politici immaginano che chi gestisce un sexy shop, a differenza di un salumiere o di un fornaio, può permettersi di vivere senza lavorare, senza vendere la sua merce, senza incassare. Già, il negoziante di sexy shop, agli occhi di questi integerrimi e immaginiamo castissimi rappresentanti del popolo (i quali mai e poi mai, ne siamo convinti, hanno frequentato una prostituta, o visto un film hard, o praticato la masturbazione) non è un cittadino lavoratore che ha gli stessi diritti di tutti gli altri, ma un sudicione da colpire, lui e tutti i suoi clienti. «L' articolo 1 della Costituzione dice che Italia è una Repubblica fondata sul lavoro» attacca la Corradini, «a noi lo vietano! Ci stanno ostacolando, inventandosi divieti paradossali! Visto che non ci riconoscono il diritto di accedere agli aiuti che danno alle altre attività commerciali, non devono nemmeno chiederci di pagare le tasse e di rispettare gli adempimenti fiscali. Siamo arrivati all' 80% del nostro reddito destinato allo Stato per non ricevere nulla in cambio se non vessazioni e discriminazioni». E ancora: «Noi svolgiamo un' opera di aiuto alla società. Mettiamo a disposizione, a 360 gradi, un sostegno psicologico e materiale nei confronti di chi ne ha bisogno. Persone che trovano da noi quello che psicologi, farmacisti, medici ecc. non sono in grado di fornire. Il funzionamento della famiglia e l'equilibrio delle persone hanno come base fondamentale l'attività sessuale! Basta nascondere la testa sotto la sabbia! Basta bigotti che prendono decisioni per noi». Debellare la bigotteria in Italia? Vasto programma. In parlamento o in campo culturale (università, arti, letteratura, ecc.) se una donna è appena un po' avvenente, viene tacciata di meretricio, e spesso le prime a diffamarla sono le altre donne, alla faccia del femminismo e di quella lucrativa caccia alle streghe che è stata il #MeToo. Quanto ai nostri politici, non occorre rievocare quei campioni di moralità pubblica che avevano una doppia vita stupefacente e il vizietto del trans, o i cattolici accigliati che, tra un comizio e l' altro sulla famiglia e la fedeltà coniugale, trovavano il tempo di sollazzarsi con l'amante, approdando poi all' ennesimo divorzio. Ma lasciamo da parte le questioni etiche, perché lì non c'è speranza. Passiamo al dato economico: il mercato dei sex toys è in cospicua crescita sulle piattaforme online, però i negozi fisici, i sexy shop veri e propri, hanno registrato negli ultimi quattro anni una flessione di oltre il 5%. Dei 315 sexy shop la metà si trova nel nord Italia, e i gadget sessuali sono venduti soprattutto nelle grandi città: Milano, Roma, Torino. Eppure, ad esempio, proprio in Piemonte la Lega ha fatto escludere i sexy shop dal bonus dei 1500 euro previsti dalla legge "Riparti Piemonte". Il Piemonte può ripartire, sì, ma senza eccitarsi troppo, in puro stile sabaudo. Ciò vuol dire che 33 esercizi commerciali - tanti sono i sexy shop in Piemonte - non avranno alcun aiuto regionale, e quindi probabilmente dovranno fallire, mandare a casa i dipendenti, e gli stessi proprietari si troveranno disoccupati. Il bello è che all'inizio i sexy shop erano compresi nell'erogazione del bonus, poi è arrivato il moralista di turno che si è accorto della loro spregevole inclusione e, dopo aver montato su uno scandalo, ha chiesto alla maggioranza di escluderli. Naturalmente è stato esaudito: i consiglieri avranno avuto paura di essere accusati di detenzione di falli di gomma o vibratori a cinque velocità.
Da leggo.it il 19 maggio 2020. Franca Borin, madre di quattro figli e paraplegica da 23 anni in seguito ad un incidente stradale, lavora come venditrice online per un'azienda che produce integratori. Il suo lavoro, dall'inizio del lockdown, è andato avanti ma ovviamente niente è stato come prima. «Noi siamo pagati a provvigione tramite fattura: sono iscritta alla gestione separata Inps perché ho la partita Iva e fino a qualche tempo fa lavoravo anche come dipendente a tempo determinato, poi mi è rimasto solo quest'impiego» - spiega la donna a Leggo - «Se non vendiamo, non guadagniamo: io personalmente negli ultimi mesi ho avuto solo alcuni riordini ma nessun nuovo cliente, dal momento che le persone non spendono soldi in un simile momento di crisi». Franca Borin, nota sui social come “Zia Franca'” ovviamente non ha una capacità lavorativa al 100% ma vuole essere la voce di tante persone nella sua stessa situazione: «Vorrei che questa cosa venisse alla ribalta: non sono l'unica disabile esclusa, lo sono tutti coloro che percepiscono l'assegno ordinario di invalidità. Per riceverlo, si devono avere almeno cinque anni di contributi versati negli ultimi tre: io, come tante altre persone, rispondo a questi requisiti e ricevo 340 euro di indennità lorda, non netta. Questo stesso criterio però mi impedisce di ricevere bonus e sussidi di disoccupazione: a luglio ho cessato un rapporto di lavoro dipendente ma mi hanno negato la disoccupazione. Mi hanno riconosciuto una parziale capacità lavorativa e dovrei scegliere tra l'invalidità e altri sussidi, compresi disoccupazione e bonus del Cura Italia. Col nuovo decreto Rilancio potrei farmi rientrare tra gli aventi diritto, ma non ne ho la certezza e ovviamente non si tratta di misure retroattive, quindi ho già perso ciò che ritengo mi spettasse negli scorsi mesi. Inoltre, prima di un adeguamento da parte dell'Inps ho paura di dover aspettare mesi». «Le persone con disabilità non sono solo persone non autosufficienti che hanno bisogno di assistenza totale. Io non sono in questa condizione, ho scelto di lavorare per mantenere la mia famiglia e non voglio vivere di sussidi a spese dello Stato» - spiega ancora Franca Borin - «Tante persone normodotate magari percepiscono il reddito di cittadinanza e poi lavorano in nero per arrotondare: io non posso farlo, se lo Stato mi dà la possibilità di aprire la partita Iva e pagare le tasse, ho diritto ad avere il bonus».
Bonus Spesa: l'umiliazione della domanda e l'umiliazione della spesa e la rinuncia per dignità ed orgoglio. Ne approfitteranno i soliti furbi, spendendoli in futilita', e chi ne chiederà conto politico. Se tutti, oggi, sono in emergenza, perché non distribuiscono i pacchi spesa casa per casa, salvo rifiuto? Consegna a domicilio del fabbisogno alimentare a carico degli esercizi commerciali convenzionati con l'amministrazione comunale.
Claudia Voltattorni per il “Corriere della Sera” il 25 aprile 2020. Quasi la metà dei contribuenti italiani ha un reddito sotto i 15mila euro. Oltre 12 milioni di persone nel 2018 non ha pagato un euro di Irpef a causa di redditi molto bassi o per effetto delle detrazioni. La metà dei contribuenti ha un reddito tra i 15mila e i 50mila euro e paga il 56% dell' Irpef totale, mentre solo il 6% ha un reddito superiore a 50mila euro pari al 40% dell' Irpef. I redditi dichiarati sopra i 300mila euro sono solo lo 0,1% del totale. La fotografia è scattata dal ministero dell' Economia con i dati sulle dichiarazioni dei redditi per anno d' imposta 2018 con un leggero aumento (+0,4%) del numero dei contribuenti che hanno presentato la dichiarazione dei redditi: 41,4 milioni di persone. Il reddito totale (pensione, lavoro dipendente e lavoro autonomo) dichiarato è stato di circa 880 miliardi, cioè 42 miliardi in più rispetto al 2017 (+ 5%) con un reddito medio di 21.660 euro, cresciuto del 4,8%. La maggior parte dei redditi dichiarati derivano da lavoro dipendente (53%) e da pensione (29%). Cresce (+6,3%) il reddito medio da lavoro autonomo, ma anche quello da pensione (+2,5%) nonostante sia calato il numero dei pensionati, effetto però, spiega il Mef, della riforma Fornero. La Lombardia è stata la regione con il reddito medio complessivo più alto con 25.670 euro, seguita dai 24.760 euro di Bolzano. La Calabria è quella con il reddito medio più basso: 15.430 euro. «Anche nel 2018 - sottolinea il Mef - rimane cospicua la distanza tra il reddito medio delle regioni centrosettentrionali e quello delle regioni meridionali». Scorporando i dati, il reddito degli autonomi, nella dichiarazione del 2018, risulta essere più del doppio rispetto a quello del lavoro dipendente con 46.240 euro dichiarati, rispetto ai 20.820 euro dei lavoratori dipendenti. Per i titolari di ditte individuali invece è stato di 20.940. I pensionati in media hanno dichiarato 17.870 euro.
Solidarietà limitata. Report Rai PUNTATA DEL 25/05/2020 di Bernardo Iovene. Con ordinanza della Protezione civile datata 29 marzo, il governo ha stanziato 400 milioni di euro per i comuni italiani per erogare buoni spesa in favore delle famiglie più bisognose. L’Anci ha fissato delle linee guida abbastanza generiche sull'uso dei buoni. Di fatto, ogni comune si è regolato un po’ come voleva. Il Comune di Ferrara ha inserito nei requisiti per chiedere il buono spesa l’obbligo della residenza, e ha dato priorità a chi ha la cittadinanza italiana o europea. Ultimi i cittadini extra-Ue, e solo con permesso di soggiorno di lungo periodo. Come se la sarà cavata chi è rimasto bloccato sul territorio comunale per il lockdown? E il Comune avrà speso per intero il fondo dello Stato?
“SOLIDARIETA’ LIMITATA” Di Bernardo Iovene.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Le prime cure dal governo sono arrivate Il 30 marzo: 400 milioni di euro per 8000 comuni. Il decreto recita: risorse da destinare a misure urgenti di solidarietà alimentare, buoni spesa da dare ai nuclei familiari tra quelli in stato di bisogno. A Bologna sono arrivate 11 mila domande, ma ne aspettavano meno della metà.
GIULIANO BARIGAZZI – ASSESSORE SANITÀ E WELFARE COMUNE DI BOLOGNA Il 40 per cento delle domande pare siano singoli. E quindi abbiamo deciso assieme al sindaco di poter stanziare anche delle risorse aggiuntive dal bilancio del Comune.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Il comune ha aggiunto ai 2 milioni di euro del governo 1 milione 700 mila euro. Qui invece siamo a Ferrara: è la mensa dell’associazione fondata da don Domenico Bedin, che da anni dà risposte concrete al disagio sociale e a chi è in difficoltà offrendo vitto e alloggio, ma alcuni dei frequentatori della mensa non possono accedere ai buoni spesa del comune.
DON DOMENICO BEDIN – PRESIDENTE ASSOCIAZIONE VOLONTARIATO VIALE K Non potranno usufruirne perché non hanno il permesso di soggiorno diciamo di lunga durata.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Il comune di Ferrara ha inserito nei requisiti per chiedere il buono spesa l’obbligo della residenza, e ha stabilito la priorità prima a chi ha la cittadinanza italiana o quella europea, e concede per ultimo agli extra comunitari, ma solo a quelli con un permesso di soggiorno di lungo periodo.
VOLONTARIO È una novità questa cosa qui. Trattare la gente così, non si può mica dire che sia umano. BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Per i volontari che ogni giorno si prestano per gli altri queste distinzioni sono inconcepibili, proviamo allora all’esterno di un supermercato.
BERNARDO IOVENE Ferrara è l’unico comune che ha detto prima gli italiani.
VOX Beh prima a chi ne a bisogno, a prescindere. Come gli italiani” va beh, lasciamo stare… Ferrara!
VOX Al di là della cittadinanza forse guardare le necessità, le vere necessita: il reddito o mancanza di reddito. Perché c’è anche chi il reddito ce l’aveva a poi ha dovuto chiudere.
1 MAURO COLLINA - DIPARTIMENTO NAZIONALE DIRITTI RIFONDAZIONE COMUNISTA È incredibile che si pongano delle discriminazioni rispetto alle persone. Pensiamo che questa debba essere invece come dire un aiuto, un sostegno, a tutte le persone che siano famiglie o siano singoli, che hanno il diritto – a nostro parere – di ricevere aiuti.
STEFANIA SORIANI – SEGRETERIA PROVINCIALE RIFONDAZIONE COMUNISTA FERRARA La storia rinascimentale di Ferrara è una storia di accoglienza, è una storia di crocevia di popoli e di culture ed è una storia che di fronte a questi esempi di intolleranza e veramente di razzismo.
DON DOMENICO BEDIN – PRESIDENTE ASSOCIAZIONE VOLONTARIATO VIALE K Per me è razzista. Fa ricordare certe anticipazioni degli anni trenta. Questo “Prima gli italiani”. Con il permesso di soggiorno – anche breve – si lavora e si pagano le tasse. Non capisco proprio la logica che sta dietro. Il Coronavirus non ha fatto distinzione né di razza, né di religione, né di denaro, né di niente.
BERNARDO IOVENE Lei è un prete? DON DOMENICO BEDIN – PRESIDENTE ASSOCIAZIONE VOLONTARIATO VIALE K Purtroppo nella mia vita ho la fortuna di essere un prete.
BERNARDO IOVENE Il partito del sindaco è quello che dice il rosario in pubblico…
DON DOMENICO BEDIN – PRESIDENTE ASSOCIAZIONE VOLONTARIATO VIALE K Ma non li ho visti molti dire il rosario. I leghisti ferraresi…
BERNARDO IOVENE Non lo dicono il rosario?
DON DOMENICO BEDIN – PRESIDENTE ASSOCIAZIONE VOLONTARIATO VIALE K Sono leghisti ma ferraresi
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Anche se in quel di Ferrara, sembra di respirare l’atmosfera dei romanzi di Guareschi: qui nei panni del novello Don Camillo c’è un prete che sventola il vessillo dei valori della sinistra, quelli dell’accoglienza nei confronti dei diversi. E invece, dall’altra parte c’è nei panni di novello Peppone, c’è un sindaco che invece è leghista. Buonasera. La storia è questa: il governo italiano ha stanziato 400 milioni di euro per i buoni spesa per quelle famiglie che avevano bisogno. Chi è che deve decidere chi ha bisogno? Gli uffici competenti comunali, cioè quelli dei servizi sociali. Fino a oggi si sono orientati in base alle linee guida emanate dall’Anci, l’associazione nazionale dei comuni. E si sono basati sul reddito e sulla valutazione, appunto, nel verificare chi aveva veramente bisogno del buono spesa. Solo che poi c’è stata anche ampia possibilità nella 2 discrezionalità. É un’opportunità che va usata con intelligenza anche perché è rara. Come l’hanno usata nel comune di Ferrara? Il nostro Bernardo Iovene.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO In città la polemica politica ha assunto toni forti, il sindaco ci aveva fissato un’intervista, ma il giorno prima è arrivata la disdetta. Qui siamo proprio sotto lo scalone del comune con una consigliera dell’opposizione.
ILARIA BARALDI - CONSIGLIERE COMUNALE FERRARA Esclude tutte quelle persone che per la ragione dell’emergenza non sono ad esempio potute tornare a casa, ma sono domiciliati qua ma non residenti, sia all’estero che in Italia. In moltissimi altri comuni anche a guida leghista non sono stati previsti.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Nella piazza del comune siamo stati notati dallo staff del sindaco e qualcuno ci viene incontro.
BERNARDO IOVENE Buongiorno, portavoce del sindaco?
CAPO DI GABINETTO No. Sono il capo di gabinetto, ma mi occupo io della comunicazione.
CAPO DI GABINETTO C’è magari un vicesindaco, assessore, qualcuno con cui parlare…
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Dopo varie trattative ci viene concesso un’intervista con l’assessora alle politiche sociali.
BERNARDO IOVENE Questa discriminazione sotterranea in modo arbitrario…
CRISTINA COLETTI – ASSESSORE POLITICHE SOCIALI FERRARA Non vedo nessuna discriminazione, secondo me è una scelta come tante altre. La risposta che l’amministrazione vuol dare, la vuol dare rivolta ai cittadini residenti.
BERNARDO IOVENE Chi è domiciliato qua non può avere gli stessi diritti?
CRISTINA COLETTI – ASSESSORE POLITICHE SOCIALI FERRARA Perché comunque il buono spesa vuole esser rivolto a coloro che hanno delle attività commerciali, che hanno un radicamento sul territorio.
BERNARDO IOVENE Chi non ha la cittadinanza italiana è passato dopo gli altri diciamo.
CRISTINA COLETTI – ASSESSORE POLITICHE SOCIALI FERRARA Allora sono esclusi dal riconoscimento del buono spesa coloro che hanno un permesso di soggiorno breve.
BERNARDO IOVENE È inutile che ci giriamo intorno, le accuse di razzismo…
3 CRISTINA COLETTI – ASSESSORE POLITICHE SOCIALI FERRARA Sono completamente infondate BERNARDO IOVENE Potevate dare un segnale di umanità, in un momento così si poteva dare un segnale di umanità e dire: “Lo diamo a tutti”, così come hanno fatto in tutti gli altri comuni. Perché differenziarsi in questo modo? È questo che mi sfugge…
CRISTINA COLETTI – ASSESSORE POLITICHE SOCIALI FERRARA Le ho detto, è una scelta politica che si muove in questa direzione, volendo dare delle risposte a coloro che sono radicati sul territorio.
ANGELA ALVISI – EMILIA ROMAGNA CORAGGIOSA Il criterio appunto della residenzialità di lungo periodo è assolutamente discriminatorio. Non è pensabile che al bisogno si corrisponda – come dicono oggi il direttore generale e l’assessore Coletti – con le radici.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Varie organizzazioni hanno fatto ricorso al tribunale di Ferrara che il 30 aprile accerta il carattere discriminatorio dalla giunta comunale e ordina al Sindaco di riformulare i criteri senza clausole consentendo la presentazione di nuove domande.
ALAN FABBRI – SINDACO DI FERRARA Noi non ci fermeremo abbiamo 15 giorni di tempo come prevede la legge di poter far reclamo…
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Il sindaco che a noi non concede interviste, sul suo profilo annuncia che farà ricorso e rivendica le scelte fatte. ALAN FABBRI – SINDACO DI FERRARA Politicamente la mia linea rimane ferma e non mi pento anzi sono orgoglioso che questa amministrazione, questo comune, abbia lavorato in questo senso, in questa maniera perché ha riconosciuto effettivamente valore a un principio fondamentale che è quello del lavoro e a un altro principio fondamentale che è quello della residenza.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO I buoni spesa a fine aprile sono stai distribuiti a 2963 famiglie di cui 50 con permesso di soggiorno di lungo periodo. Dei 700 mila euro che ha ricevuto dal governo per la solidarietà alimentare il comune ne ha spesi in buoni 661.000, alla fine forse c’era posto per tutti. A Bologna invece i soldi del governo sono finiti in 10 giorni e l’amministrazione ne ha aggiunto quasi altrettanti.
BERNARDO IOVENE Anche voi fate “Prima gli italiani”?
GIULIANO BARIGAZZI – ASSESSORE SANITÀ E SERVIZI SOCIALI BOLOGNA No. Noi abbiamo detto domiciliati perché si poteva anche qui... uno che era rimasto qua…
BERNARDO IOVENE 4 I domiciliati avete messo?
GIULIANO BARIGAZZI – ASSESSORE SANITÀ E SERVIZI SOCIALI BOLOGNA Dopo il lockdown magari era qua e si è dovuto fermare qua.
BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO I criteri a bologna inizialmente erano il limite di 780 euro di reddito ma poi lo hanno concesso a tutti i richiedenti, anche con reddito superiore.
GIULIANO BARIGAZZI – ASSESSORE SANITÀ E SERVIZI SOCIALI BOLOGNA Io credo che questa epidemia, questa pandemia accomuni tutti e ci mancherebbe solo che facessimo delle differenze.
SIGFIDO RANUCCI IN STUDIO Così si dovrebbe fare. Nel comune di Bologna i soldi stanziati dal Governo son finiti e ne hanno messi di loro. E quindi hanno aiutato tutti, anche quelli che non erano residenti, perché questo è il significato della solidarietà. La pandemia ha colpito tutti e tutti insieme se ne esce. I valori della solidarietà e della discrezionalità sono talmente alti che non puoi lasciare il sospetto che vengano usati come leva elettorale. Ma qualcuno ancora non l’ha capita.
Davide Desario per leggo.it il 4 aprile 2020. Il Comune di Roma per distribuire gli aiuti alle famiglie bisognose con i buoni pasto è pronto a servirsi di una società francese e scarta una italiana. E' la triste realtà che viene fuori in questi giorni drammatici in cui l'emergenza Coronavirus non solo sta mietendo migliaia di vittime, non solo sta stravolgendo le vite di tutti noi ma sta mettendo in difficoltà l'intero sistema economico del Paese con migliaia di famiglie ridotte sul lastrico, aziende che non riescono a lavorare. E Virginia Raggi e il suo staff che fanno? Smentendo i tanti slogan in favore del made in italy, si appresta a utilizzare un'azienda straniera piuttosto che una italiana, con sede a Roma, che già lavora con l'amministrazione capitolina dopo aver vinto un regolare gara d'appalto con la Consip. Ma andiamo con ordine per capire questa storia piena di ombre, gestita in maniera "discutibile" e senza puntare per davvero all'aiuto del made in Italy, delle famiglie bisognose e del sistema dei supermercati. Nei giorni scorsi, il governo italiano ha stanziato dei fondi di emergenza per aiutare le famiglie bisognose italiane in questo momento di grande difficoltà. Li ha stanziati direttamente ai Comuni demandando a loro la distribuzione. Al Comune di Roma sono arrivati circa 15 milioni di euro. Il Campidoglio, come molte altre amministrazioni, ha pensato che il modo migliore per distribuire questi fondi sia attraverso i cosiddetti buonipasto. Così il capo di gabinetto della sindaca Raggi ha subito chiamato la società Repas, che ha vinto la gara di appalto Consip per la gestione dei buoni pasto per la pubblica amministrazione del Lazio. La società, da quanto è trapelato, ha offerto al Comune uno sconto del 10% in questa maniera il Comune con 15 milioni di euro riuscirebbe invece a fornire aiuti per 16,5. Ma non solo la società Repas ha ridotto, accogliendo l'appello lanciato nei giorni precedenti dalla ConfCommercio, la percentuale di guadagno nei confronti dei supermercati che accettano i buoni. E i supermercati a loro volta avrebbero applicato alle famiglia un ulteriore sconto in cassa. Insomma un sistema virtuoso, efficiente. Ma pochi giorni dopo nella vicenda si è inserita senza troppi scrupoli un'altra società di fornitura di buoni pasto, la francese Edenred la quale ha offerto al Campidoglio uno sconto maggiore pari al 20%. Uno sconto che però non permette poi di agevolare i supermercati e a catena di non poter far fare più sconti, a quanto sembra, ai clienti. A questo punto, suo malgrado, la società italiana Repas si è adeguata all'offerta e ha presentato un piano con il 20% di sconto per il Campidoglio. Ma proprio ieri è stata chiamata dagli uffici del dipartimento alle politiche sociali del Comune di Roma che, forse stizzito, ha comunicato che avrebbe scelto la società francese. Il motivo ufficiale, da quanto è trapelato, è che la società francese avrebbe messo a disposizione anche una speciale App per la gestione più veloce dei buoni pasto. Una cosa bella a dirsi ma, lo capirebbe anche un bambino, di dubbia efficienza. La maggior parte degli aventi diritto agli aiuti del Governo-Comune sono persone molto anziane il cui grado di digitalizzazione è spesso scarso. Ma soprattutto in un periodo così delicato come si fa a non rivolgersi a una società che, avendo vinto una regolare gara d'appalto Consip, ha già dato prova di serietà e affidabilità. E cosa dire dei supermercati che così saranno costretti a riconoscere percentuali molto alte alla società francese? Eppure con questa scusa Virginia Raggi si sta preparando a offrire su un piatto d'argento l'operazione ad una azienda francese, fregandosene di aiutare una società italiana, di aiutare i supermercati nella gestione dell'operazione e di avvantaggiare i reali bisognosi che con ogni probabilità non potranno godere di un ulteriore sconto alle casse dei supermercati. Proprio ieri il Comune avrebbe messoa punto una determinazione dirigenziale che sostituisce quella del 31 marzo e che di fatto assegna l'operazione ai francesi di Edenred. Il Comune di Roma al momento ovviamente non risponde. Sulla vicenda è già intervenuto il consigliere comunale della Lega Davide Bordoni: "Invece di avvalersi della società con cui il rapporto è consolidato, società con la sede nel territorio di Roma, perché già fornitore collaudato dal Comune e contrattualizzato regolarmente a seguito di gara CONSIP - scrive in una nota - alcuni funzionari vogliano esplorare nuove soluzioni anche con società estere che potrebbero causare ritardi e incertezze nell’erogazione del servizio: data la situazione di bisogno di tanti romani in questo momento, credo che non possiamo permetterci esperimenti e che la messa a terra dell’intervento deve essere immediata". Bordoni, che sta inoltrando un'interrogazione urgente alla sindaca Raggi, aggiunge: "I tempi di contrattualizzazione, l’incertezza sulle modalità operative mai testate con nuovi fornitori potrebbero diventare invece l’ennesimo ostacolo burocratico al raggiungimento di qualche ristoro per chi oggi ha bisogno".
La pandemia nel campo rom: "Qui lo curiamo con le erbe". Viaggio in un campo rom di Giugliano in Campania, nel Napoletano, dove quasi 500 persone provano a tenere lontano il nuovo coronvirus con le preghiere e affidandosi agli infusi delle donna più anziana del gruppo. Agata Marianna Giannino, Venerdì 17/04/2020 Il Giornale. Pregano e si affidano agli infusi miracolosi della “nonna” per tenere lontano il virus. Non possono fare altro ai margini di quella periferia dove sono relegati. Il distanziamento sociale, la pulizia degli ambienti e l’igiene personale, soprattutto il lavarsi le mani, sono alcune delle regole principali da seguire per prevenire il contagio da Covid-19. Ma in luoghi dove le condizioni igienico-sanitarie sono precarie, dove mancano i servizi minimi essenziali e le abitazioni sono baracche spesso sovraffollate, queste raccomandazioni diventano difficili da seguire. A Giugliano, nel campo rom allestito abusivamente in un’area privata abbandonata, 80 famiglie hanno appreso dalla televisione del diffondersi dell’epidemia che ha finito per travolgere il mondo intero. È così che oltre 400 persone - di cui più della metà sono minori - sono venute a conoscenza dell’emergenza determinata dal nuovo coronavirus e delle norme da rispettare per impedire la diffusione del contagio. “Qui non è venuto nessuno a informarci, a dirci come ci dovevamo comportare. Noi lo abbiamo saputo dalla televisione. Il Comune ci ha abbandonato”, dicono nell’insediamento. E pensare che riescono ad accendere il piccolo schermo solo perché si sono allacciati illegalmente alla rete elettrica. Fino a qualche mese fa nel campo non avevano nemmeno l’acqua corrente. “Poi abbiamo risolto noi – raccontano - Abbiamo comprato dei tubi, li abbiamo montati, e ora abbiamo delle fontane”. Grazie a quelle fontane oggi hanno la possibilità di lavarsi le mani. Con del sapone, quando riescono a comprarlo. “Se arriva qua, il virus fa una strage”. Ne è consapevole Giuliano, che vive in un camper con la moglie. Per proteggersi si copre bocca e naso con uno scaldacollo. “La paura c’è”, dice. “C’è la paura che uno di noi possa prendere il virus e che possa contagiare tutti. Se lo prende uno di noi, finisce che lo prende tutto il campo, perché siamo troppi. A volte ci chiudiamo dentro, non usciamo spesso. Preghiamo anche molto, preghiamo Dio che questo male resti lontano da noi, da tutto il mondo”. “Le mani io le lavo. Con sapone e amuchina”, dice una donna. Ci mostra la sua casa di legno e lamiere. “Mio marito ha costruito la baracca e io l’ho arredata”, dice con fierezza. Dentro, i colori esplodono nell’ordine. Fuori, il vento soffia sul terreno e opacizza una quotidianità che non sembra essere cambiata molto con l’avvento della pandemia, se non per il venir meno del lavoro in nero che permetteva di portare il pane a tavola. I rapporti sociali nel campo non sono cambiati. “Noi sempre così, baci e abbracci”, ammettono delle donne. “Siamo sempre tutti insieme. Con i nipotini, con i figli”, conferma una nonna di 52 anni. L’unico distanziamento che mettono in pratica è da quel mondo esterno da cui già erano emarginati. Nel campo baracche e roulotte si susseguono. Tra gli spazi che lasciano liberi sul terreno appiattito dai passi, i bambini (tanti) si muovono come se nulla fosse cambiato. Qualcuno corre a piedi scalzi. “Un metro di distanza”, urlano. Lo ripetono come un mantra. Per loro è un gioco. Si divertono a ricordarselo mentre trotterellano in un villaggio circondato da cumuli di ferro vecchio e rifiuti. Molti piccoli non sanno nemmeno cosa significhi quel “metro di distanza”. Non sanno cosa sta succedendo fuori dal contesto in cui vivono. Per loro la vita è cambiata poco con l’esplodere della pandemia da Coronavirus: le scuole sono chiuse, ma loro già non ci stavano andando; le relazioni sociali si limitano a quelle interne alla circonferenza del campo in cui vivono, come prima del diffondersi del Covid-19. “Io vorrei andarci a scuola, mi piace”, confida Manuela, 11 anni. Lei faceva parte di quei bambini che riuscivano ad entrare in una classe grazie all’impegno di fratel Raffaele, religioso che non fa mancare il suo supporto alla comunità rom locale. Un autobus andava a prendere i piccoli e li portava a scuola, fino a quando non sono stati sgomberati dall’area dove vivevano fino a maggio scorso, distante pochi chilometri da quella dove poi si sono stabiliti. I più piccoli sembrano non avvertire il peso dell’emergenza che ha stravolto tutto il mondo, se non nelle preoccupazioni che riescono a cogliere dagli adulti. “Qui nessuno è stato contagiato”, afferma convinto Nurija. “Stiamo a casa. Ci muoviamo soltanto per andare a prendere prodotti alimentare. Siamo preoccupati pure noi per questo coronavirus”, riferisce. Attorniato da 12 figli e 22 nipoti, è uno dei capifamiglia del gruppo, il portavoce. Nurija è uno dei pochi a indossare una mascherina. In mancanza, la moglie si è rimboccata le maniche e le ha realizzate con le sue mani per la famiglia. La piccola Camilla arriva a mostrarne una. Sono in molti a cercarne. “Avete portato mascherine?”, “Conoscete qualcuno che le realizza a mano?”. Nel campo chiedono anche altro. Il minimo per la sopravvivenza. “Io avrei bisogno di una maglietta”, dice Alex. “Avete vestiti per bambini?”, domanda una donna di 52 anni che con il marito dice di vendere in un mercatino delle pulci in un comune poco distante. Anche loro, con il blocco degli spostamenti e di tutte le attività non essenziali, hanno smesso di lavorare. “Abbiamo la partita Iva”, affermano. Cercano informazioni sul bonus da 600 euro messo a disposizione dal Governo per far fronte all’emergenza economica causata dalla pandemia. Giuliano dice di averla presentata la domanda, pur non possedendo i requisiti: “Lavoro in nero, mi arrangio a svuotare garage, magazzini. Adesso stiamo fermi, abbiamo paura di uscire perché c’è il divieto, ci sono le multe, ci sono le denunce. Posso uscire solo per fare un po’ di spesa. Quel lavoro mi permetteva di vivere, noi andiamo avanti con quel lavoro”. “Non lavoriamo da quasi due mesi”, è il problema che sollevano diversi uomini del campo. Molti si arrangiano a raccogliere il ferro e a rivenderlo, altri svuotano cantine e rivendono il recuperabile nei mercatini delle pulci. Secondo un censimento eseguito internamente, sono 81 le famiglie che vivono nell’insediamento. Circa 300 sono i minori, su 465 occupanti totali. Dati che meno di un mese fa sono stati trasferiti alle associazioni impegnate a favore degli abitanti della baraccopoli. Chi può, oggi riesce a tirare avanti con i risparmi accumulati. “Poi ci aiutiamo tra di noi”, racconta Nurija, mentre alle sue spalle una donna porta un cesto pieno di alimenti in una baracca. Un importante supporto lo forniscono don Francesco Riccio, parroco della chiesa San Pio X di Giugliano, e fratel Raffaele. Il loro impegno è riconosciuto da tutti nel campo. In questo periodo pare che siano gli unici a mettere piede nell’insediamento, per offrire il loro sostegno e portare pacchi alimentari. La fame sembra preoccupare più del virus in quell’area occupata situata tra le campagne a ridosso della Circumvallazione esterna. Il centro cittadino è raggiungibile solo con mezzi privati. “Sì, abbiamo paura. Ma qui non succede niente”, dice senza esitare Nurija. E molti nel campo sembrano convinti di questa presunta immunità dal virus. “Abbiamo la nostra nonnina che ci prepara le sue medicine con le erbe. Lei sa come si prepara il tè con le erbe, le foglie, per non far arrivare certe malattie. Lei è il nostro medico. Poi, vedi i bambini, stanno bene. Noi ogni sera gli prepariamo un tè con quest’erba che raccogliamo nelle campagne qui vicino”. E mostra il raccolto, posizionato su un vassoio di argento in attesa dell’immersione in acqua bollente con delle fette di limone. “Pure noi lo beviamo. Nella giornata – racconta Nurija - si dà ai bimbi. Non avranno né bronchite, né polmonite, né tosse. Vedi come sta ogni bambino? Gioca come se non ci fosse il virus”. La nonnina è la donna più anziana del gruppo. Ha superato i 90 anni e tra una faccenda e l’altra si ferma a fumare un sigaro nel suo camper. Da circa 30 anni in Italia, è immigrata negli anni Novanta dalla Bosnia, come gli altri più anziani, per fuggire dalla guerra. “Vedi lei come sta bene. Non ci prende il virus a noi zingari”, sostengono nel campo. Ma il virus non fa differenze, trova vita dove gli viene aperta la strada per attecchire. E per il momento il distanziamento sociale e l’igiene personale, rappresentano ancora l’unico rimedio per fermarne la diffusione.
La pacchia dei migranti: buoni spesa anche a chi ha già vitto e alloggio pagato. Succede a Castel San Pietro Terme (Bologna). La denuncia arriva da Galeazzo Bignami di Fratelli d'Italia: "Perché dobbiamo dargli altri soldi? Questi devono andare a chi è in difficoltà". Luca Sablone, Sabato 18/04/2020 Il Giornale. Buoni spesa anche a chi riceve già vitto e alloggio e ha diritto al pocket money, una sorta di diaria data ai rifugiati e ai richiedenti asilo ospitati nelle strutture di accoglienza per le piccole spese quotidiane: una situazione surreale che vede i migranti privilegiati rispetto ai cittadini italiani in seria difficoltà. Tutto succede a Castel San Pietro Terme, la cui amministrazione comunale a inizio aprile ha emesso il bando per l'ottenimento dei buoni spesa legati all'emergenza sanitaria da Coronavirus al fine di soddisfare le esigenze primarie relative all'acquisto di alimenti. Buoni spesa finanziati con risorse dello Stato, che però finiscono nelle tasche pure delle persone in situazione di Cas o Sprar: sul sito del Comune viene sottolineato in maniera esplicita che tale opportunità "è rivolta ai nuclei famigliari residenti (o persone in situazione di Cas o Sprar) nel Comune di Castel San Pietro Terme al momento di presentazione della domanda". La situazione è stata denunciata da Galeazzo Bignami, che ritiene questa scelta piuttosto discutibile: "Le persone in situazione di Cas ricevono già vitto e alloggio proprio perché tali sono le modalità di funzionamento dei Centri di Accoglienza Straordinaria". I richiedenti asilo che vivono negli Sprar, oltre a essere seguiti per altre necessità anche dai servizi sociali, hanno diritto all'alloggio e al pocket money: "Pertanto queste persone percepiscono già sussidi statali ed indicarli come beneficiari di buoni spesa, che servono nello specifico per acquistare beni di prima necessità a causa di crisi economica sopravvenuta per l’emergenza sanitaria, appare quantomeno incoerente".
"Buoni a chi è in difficoltà". Il Comune di Castel San Pietro Terme ha informato che i buoni spesa possono essere utilizzati per l'acquisto di tutti i generi alimentari, eccezion fatta per bibite, vini, spumanti, distillati e aperitivi. È possibile usufruirli anche per prodotti non alimentari come ricariche telefoniche, articoli per l'igiene personale e per la casa, per l'igiene dell'infanzia, combustibile per uso domestico (in particolare per il riscaldamento degli ambienti) e articoli per l'illuminazione e la manutenzione della casa. Fino a mercoledì 15 aprile sono state oltre 300 le famiglie ad aver presentato la domanda: le prime 120 hanno già ricevuto buoni prima di Pasqua, per un valore complessivo di 45.860 euro. Il deputato di Fratelli d'Italia ha presentato un'interrogazione al ministro dell'Interno, Luciana Lamorgese, a cui ha chiesto se intende avviare delle verifiche di competenza e se vuole chiarire i destinatari delle suddette risorse "esplicitando che i residenti migranti in Cas o Sprar, essendo già percettori di benefici, non dovrebbero figurare tra i destinatari dei suddetti buoni spesa". Qualora il Comune di Castel San Pietro Terme e altri Comuni d'Italia avessero erogato buoni spesa a persone in situazione di Cas o Sprar, la titolare del Viminale sarebbe disposta a specificare che i Comuni stessi sono tenuti a rifondere tali somme e a metterle a disposizione, con buoni spesa di importi equivalenti, "a cittadini residenti regolarmente sul territorio e in situazione di difficoltà a causa dell'emergenza sanitaria"?. Bignami non ha utilizzato mezzi termini per effettuare la propria richiesta: "Non c’è un motivo al mondo per il quale si debbano dare i buoni spesa ai migranti nei Cas o negli Sprar: questi devono (sottolineo devono) andare a chi è in difficoltà".
Il 40 per cento dei buoni pasto finirà in tasca agli immigrati. Antonella Aldrighetti, Mercoledì 01/04/2020 su Il Giornale. La solidarietà del governo giallorosso ancora una volta strizza l'occhio ai cittadini extracomunitari iscritti nelle anagrafi comunali. Infatti stando agli ultimi dati diffusi dai Caf (Centri di assistenza fiscale) la popolazione più in linea con i requisiti per incassare il voucher per la spesa alimentare è proprio quella straniera, che secondo stime prudenti è tra il 30 e il 40% di tutti gli aventi diritto, scremando chi percepisce reddito o pensione di cittadinanza senza essere italiano. Per semplificare le procedure per richiedere il voucher le grandi città (Milano, Bologna, Torino, Roma, Bari, Napoli, e Reggio Calabria), si sono affidate a uno strumento tanto semplice quanto facile da usare in modo fraudolento: l'autocertificazione. Ciascun iscritto all'anagrafe, compresi i richiedenti asilo, potrà compilare a partire da questa mattina un modulo e inviarlo via posta elettronica o fax, specificare le proprie credenziali al numero di telefono dedicato e precisare se vorrà ricevere il voucher su un conto corrente bancario o postale riportando l'Iban oppure la stessa cifra in buoni spesa indirizzati al proprio domicilio. Ogni Comune che accetterà l'autocertificazione ha promesso controlli a campione. Ma per coloro che sceglieranno i buoni spesa sarà facile aggirare eventuali controlli: chi vorrà barare sui requisiti sociali e incassare il bonus non rischierà prelievi forzosi sul conto bancario. Quanto ai controlli a campione, saranno possibili solo se l'Inps consentirà verifiche veloci e capillari su tutti i percettori di voucher. Lunedì il sindaco di Palermo Leoluca Orlando ha voluto anticipare di un giorno la procedura per richiedere i buoni spesa. E il sito del Comune è stato preso d'assalto: 11 mila le richieste di aiuto, pari a 4 al minuto. E per uscire dall'impasse è stato deciso di bloccare le iscrizioni fino a lunedì 6 aprile. In questi giorni che restano si avvierà la verifica. «Evitiamo che qualche sciacallo provi a intrufolarsi» la chiosa di Orlando. E tra le strade possibili per l'erogazione dei soldi: buoni pasto, carta prepagata, convenzione con catene di supermercati. Già perché in ultima istanza se i primi voucher saranno erogati a metà aprile ce ne potrebbe essere un'altra ondata alla fine del prossimo mese e di uguale entità.
Coronavirus, buoni spesa solo a chi è antifascista: Giorgia Meloni e il ricatto di Parma. Antonio Rapisarda su Libero Quotidiano il 04 aprile 2020. Persino per fare fronte all'emergenza "fame", legata per molti italiani a stretto nodo a quella del Covid-19, un cittadino deve dimostrare di essere antifascista. Tutto ciò succede a Parma, comune amministrato dal grillo-sinistro Federico Pizzarotti non nuovo a sparate del genere. L'ultima, incredibile, riguarda proprio i famosi buoni spesa erogati tramite i Comuni dal governo per le famiglie bisognose, ancora più esposte a causa della crisi scatenata dal coronavirus. Nel capoluogo emiliano questo "diritto" è perimetrato da una condizione, o meglio da una discriminazione ideologica a tutto tondo. Leggere per credere: «In base all'art. 5 comma 3 bis del Regolamento Comunale per la concessione di Contributi, vantaggi economici e patrocini - si legge nell'autocertificazione - dichiaro di riconoscermi nei principi costituzionali e di ripudiare il fascismo e il nazismo; di non professare e fare propaganda di ideologie nazifasciste, xenofobe, razziste, sessiste o in contrasto con la Costituzione» e così via. Insomma, tutto l'armamentario delle varie proposte Fiano, Boldrini e compagnia. Che c'entri però la caccia all'uomo "nero" e l'ossessione liberticida della sinistra con il diritto a poter sfamare la propria famiglia non è dato a sapere. Di certo è troppo per l'opposizione di centrodestra. Non crede ai suoi occhi Giorgia Meloni che chiama in causa Luciana Lamorgese: «A Parma il ricatto del sindaco e della sinistra: buoni pasto per chi è in difficoltà in questa emergenza solo a chi si dichiara antifascista tramite modulo. Chiedo l' immediato intervento del Ministro dell'Interno per mettere fine a questa pagliacciata». Una "clausola" giudicata incostituzionale ma soprattutto grottesca: «Quindi per esempio - prosegue Meloni - un anziano che avesse fatto la seconda guerra mondiale nella Rsi e che non volesse sottoscrivere quel modulo dovrebbe morire di fame... Mentre i tagliagole dell'Isis, i mafiosi, i criminali, quelli che inneggiano ai crimini di Pol Pot, di Stalin, alle foibe, possono invece abbuffarsi con i buoni pasto del Comune di Parma».
Napoli, al via buoni pasto per 30mila famiglie ma con molti errori. Ciriaco M. Viggiano de Il Riformista il 3 Aprile 2020. L’annuncio è di quelli roboanti, nello stile cui Luigi de Magistris ha abituato i napoletani. “Abbiamo finalmente il conto corrente sul quale confluiranno i fondi a sostegno dei cittadini privi di reddito”, ha fatto sapere il sindaco ribadendo che “nessuno sarà lasciato solo”. Eppure, se si analizza il meccanismo di solidarietà attivato dal Comune per sostenere le fasce sociali più colpite dalla crisi economica indotta dal Coronavirus, il rischio che qualcuno venga abbandonato a se stesso è concreto. Così com’è plausibile che le risorse stanziate da Palazzo San Giacomo si rivelino insufficienti e diventino addirittura causa di sperequazioni tra famiglie bisognose. Nel fondo comunale di solidarietà, ribattezzato “Il cuore di Napoli”, confluiranno un milione di euro tratto dal fondo di riserva di Palazzo San Giacomo, sette milioni e 300mila euro dei 400 complessivi sbloccati dalla Protezione civile nazionale e destinati ai Comuni italiani. Risorse alle quali si aggiungeranno le donazioni private e la parte degli stipendi cui sindaco e assessori hanno deciso di rinunciare. Si parte, insomma, con una dotazione di poco meno di otto milioni e mezzo di euro. La cifra sembrerebbe cospicua se non si considerasse platea dei nuclei familiari beneficiari che, secondo il Comune, ammontano a 30mila. In altre parole, allo stato attuale sono meno di 280 gli euro destinati a ciascuna famiglia senza reddito o rimasta priva di reddito per effetto delle restrizioni imposte dal governo nazionale e dalla Regione per contenere la diffusione del Coronavirus. Il sussidio, che sarà erogato sottoforma di buoni spesa, sembra piuttosto esiguo. E diventerà ancora più esiguo se, come è ragionevole ipotizzare, la crisi dovesse prolungarsi ampliando così la platea degli aventi diritto. Ciò che colpisce è che il piano varato da Palazzo San Giacomo non tenga conto della composizione dei nuclei familiari: 280 euro possono bastare a una coppia, non certo a una famiglia formata da cinque, sei o più persone. Qui entra in gioco un meccanismo di correzione. Il Comune, infatti, ha previsto che l’ammontare del sussidio possa essere accresciuto nella misura di venti euro per ciascun componente del nucleo familiare che abbia da zero a dodici mesi d’età. In altre parole, si ha diritto a venti euro in più per ciascun bambino fino a un anno, ma non sono previsti incrementi nel caso in cui della famiglia facciano parte anche ragazzi o anziani. Per quanto dovranno sopravvivere le famiglie con le briciole messe a disposizione dal Comune? “Procediamo mese per mese – fanno sapere da Palazzo San Giacomo – ma dipende dalle risorse a disposizione: se da Roma dovessero arrivare altri milioni di euro, il fondo comunale di solidarietà sarà rimpinguato e il sostegno agli indigenti prorogato”. Al momento, però, le risorse disponibili dovrebbero bastare per non più di tre settimane, ammesso e non concesso che la platea degli aventi diritto al sussidio corrisponda alle previsioni stilate dagli uffici comunali. E, stando alla delibera con cui la giunta de Magistris ha attivato il fondo di solidarietà, ciascun nucleo familiare non potrà spendere più di cento euro in buoni spesa a settimana. Quanto alle procedure, si prevede che le domande vengano presentate online e corredate da un’autocertificazione in cui i richiedenti dichiarino di non percepire pensione, reddito di cittadinanza e altri sostegni economici pubblici. Peccato che la gran parte delle famiglie bisognose non disponga di un computer, ragion per cui per molte persone sarà tutto più complicato: dovranno rivolgersi alle municipalità e chiedere supporto alle associazioni di volontariato. Nel frattempo Diego Venanzoni segnala “furgoni di proprietà di società partecipate del comune di Napoli coordinati da uomini delle istituzioni che consegnano generi alimentari a Scampia”. Secondo il consigliere comunale di minoranza si tratta di “una vicenda grave perché non ci sono ancora regole a riguardo né tantomeno mezzi di proprietà pubblica possono essere utilizzati per certi compiti”. Opinione condivisa dall’ex assessore comunale Bernardino Tuccillo: “In base a quale criterio e secondo quale procedura sono stati individuati i beneficiari di quei pacchi? Si faccia chiarezza al più presto”.
Badanti e colf abbandonate, il dramma della fame. Matilde De Rossi de Il Riformista il 3 Aprile 2020. “Molte badanti hanno perso il lavoro e non hanno nemmeno i soldi per prendere la metropolitana”, spiega preoccupato Antonio Di Criscio, presidente dell’Associazione “Bado a te” con sede in Via Port’Alba. Il virus ha creato un effetto domino e boomerang allo stesso tempo: ho paura che la mia badante esca e poi venga a casa per assistermi, la mando via, lei resta senza lavoro. Nello stesso tempo, ho bisogno dell’assistenza della badante che, tuttavia, non ha un contratto regolare e non può venire a casa mia. Insomma, nell’ingarbugliata situazione in cui è piombata l’Italia da un giorno all’altro, c’è una parte della società che pare essere invisibile, nonostante sia stata fondamentale fino a poche settimane fa. “Finora si è tollerata la situazione perché faceva comodo a tutti, chi non ha documentazione regolare, non ce l’aveva neanche prima dell’emergenza Covid – spiega Di Criscio – Adesso la questione è complicata, riceviamo centinaia di richieste al giorno da parte di persone che vorrebbero lavorare”. A questo punto la domanda sorge spontanea: chi prima assisteva un anziano e soggiornava nella stessa abitazione, ora dove vive? “C’è una forte solidarietà tra le varie comunità rumene, bulgare e così via. Si aiutano tra loro, magari in una casa vivono in otto, ma lavorano regolarmente in due – racconta Di Criscio – Il problema è per chi prima lavorava in una casa e poi andava a dormire altrove. Molte badanti pagavano sette euro al giorno per un posto letto, ora non hanno neanche più quei soldi”. Va da sé che non potranno andare avanti a lungo, anche perché la maggior parte delle lavoratrici inizia ad aver paura dei controlli e questo vale soprattutto per chi prestava assistenza giornaliera e si spostava più volte al giorno. Le misure anti-Covid hanno giustamente imposto controlli serrati per il rispetto delle regole, di qui la scelta di molte lavoratrici di tornare nel Paese d’origine. “Molte badanti della nostra associazione, si sono rivolte al proprio consolato di pertinenza per ottenere il rimpatrio – dice Di Criscio – Ottenerlo è difficile, ma non impossibile. La Romania, per esempio, sta organizzando il ritorno in patria con aerei speciali che accolgono circa una decina di passeggeri per volta”. Il rischio è che la maggior parte vada via e che, quando tutto sarà finito, ci saranno poche persone ad occuparsi degli anziani. Ora ci sono le famiglie che, obbligate a stare in casa, si prendono cura dei familiari: quando saranno tornate alla normalità, però, avranno ancora voglia e tempo di prendersi cura dei propri cari?
La rabbia dell'Esercito: dimenticati dal governo. I rappresentanti del Cocer chiedono lo sblocco degli straordinari per chi è impegnato nell'emergenza. Chiara Giannini, Domenica 10/05/2020 su Il Giornale. Il governo giallorosso sembra essersi dimenticato dei militari, almeno stando a ciò che appare in una bozza della relazione tecnica del decreto legge Rilancio, il fantomatico provvedimento con cui l'esecutivo Conte intende riavviare l'economia dopo la fase 1 dell'emergenza sanitaria. Bozza finita nelle mani del Cocer Esercito, i cui delegati Pasquale Fico, Gennaro Galantuomo, Domenico Bilello, Giuseppe Scifo, Francesco Gentile e Antonino Duca ora scendono sul piede di guerra contro il premier, accusandolo di affossare l'Esercito italiano. «Nelle quasi mille pagine - spiegano i rappresentanti militari - ogni dicastero ha messo il proprio marchio. Il decreto più che un rilancio sembra dare un colpo al cerchio e uno alla botte in stile democrazia cristiana di andreottiana memoria. E quelle che erano le perplessità e paure dei delegati del Cocer Esercito, si sono trasformate in drammatiche certezze: i soldati sono stati completamente dimenticati». Una situazione tutt'altro che nuova, visto che da oltre dieci anni la Difesa paga i tagli e le scelte scellerate di governi che l'hanno messa in secondo piano. Basti pensare alle politiche degli ex ministri Roberta Pinotti ed Elisabetta Trenta, improntate più a togliere che a costruire. L'attuale ministro Lorenzo Guerini da tempo sta provando a far capire ai colleghi che i militari svolgono un ruolo fondamentale per la vita del Paese. Basti vedere l'impegno che le Forze armate hanno messo nella gestione dell'emergenza Covid-19. Ma la parte pentastellata sembra pensare più ad altre priorità. Proprio il Giornale raccontò di come le scelte politiche avessero determinato l'assenza di risorse per le bollette di acqua e gas o per il carburante degli aerei dell'Aeronautica. Adesso i delegati del Cocer Esercito ci vanno giù pesanti e chiedono un maggior impegno, almeno pari a quello che il governo pare voglia mettere per soddisfare le esigenze delle forze di polizia. La richiesta del Viminale è infatti di un incremento di 13 milioni da destinare agli straordinari, per un totale di circa 46 milioni di euro. «Praticamente - spiegano i delegati dell'Esercito - il ministero dell'Interno mette nero su bianco che un terzo della forza degli operatori della pubblica sicurezza è impiegato nell'emergenza». L'Esercito sarebbe penalizzato. Nella bozza si accenna infatti a «una richiesta di altri 500 uomini da impiegare, in aggiunta agli apparenti 7.303 marchiati con un mancata copertura finanziaria». Secondo le dichiarazioni del sottosegretario alla Difesa Giulio Calvisi, i «soldati impiegati per l'emergenza sono 24.500». Finanziare soltanto l'impiego di 7.303 militari, spiegano i delegati del Cocer Esercito, «e lasciare che gli altri 17.179 gravino sul bilancio della Difesa, ormai martoriato dai continui tagli senza stanziamenti ad hoc, è una cosa deplorevole». I soldati italiani, che in queste ore stanno pattugliando tutto il territorio nazionale e dando sostegno alla popolazione, concludono, «lo stanno facendo a testa alta e con senso del dovere, quel valore che chi governa sembra aver dimenticato». E i loro rappresentanti chiedono maggior attenzione per il comparto.
«Senza assegno da 600 euro oltre 35mila avvocati, ora lo Stato trovi i fondi». Il Dubbio il 29 aprile 2020. A fare il punto sull’incredibile situazione è una nota diffusa ieri dal presidente di Cassa forense Nunzio Luciano, che ha fornito i dati relativi in particolare agli avvocati. Sono 120mila: tutti professionisti che avrebbero pieno diritto a ricevere l’assegno da 600 euro “promesso” dal governo e che però sono tutt’ora in attesa causa esaurimento fondi. Una cifra enorme, tanto più se si considera che il provvedimento istitutivo del “reddito di ultima istanza”, il Dl Cura Italia, risale all’ormai lontano 17 marzo. A fare il punto sull’incredibile situazione è una nota diffusa ieri dal presidente di Cassa forense Nunzio Luciano, che ha fornito i dati relativi in particolare agli avvocati: «Cassa forense ha già liquidato 102.133 domande di accesso al reddito», ricorda Luciano, «anticipando, per conto dello Stato, ben 61 milioni 279.800 euro. A questi, si aggiungeranno, entro i primi di maggio, altri 3.000 pagamenti circa, ad esaurimento del budget disponibile. Nonostante ciò», prosegue la nota, «le domande di oltre 35mila iscritti, al momento, pur avendo i requisiti previsti dal decreto ministeriale del 28 marzo 2020, non possono essere ammesse al bonus dei 600 euro per mancanza di fondi». A tal fine, aggiunge Luciano nella sua nota, l’Adepp ( di cui lo stesso vertice di Cassa forense è vicepresidente) «ha già provveduto, in data 23 aprile, a sensibilizzare i Ministeri competenti per un ampliamento del finanziamento che, al momento, con riferimento a tutte le Casse libero professionali, è stato sforato di oltre 71 milioni di euro, lasciando senza copertura», appunto, «quasi 120mila domande». Luciano si sofferma anche su altre parti contestate della misura di sostegno al reddito: sempre con la missiva del 23 aprile, ricorda, «l’Adepp ha anche sottolineato l’iniquità della interpretazione autentica disposta dall’articolo 34 del Dl 23 del 2020, che ha escluso dal bonus gli iscritti con posizioni previdenziali, spesso del tutto marginali, anche in altre gestioni. Parimenti come ingiusta e irrazionale è stata segnalata l’esclusione di tutti i pensionati, indipendentemente dall’entità, a volte modesta, della pensione loro corrisposta. Contiamo sul fatto che le giuste sollecitazioni dell’Adepp non cadano nel vuoto e che il prossimo decreto preannunciato ( cosiddetto decreto aprile) possa consentire il pagamento di tutte le domande sospese e l’allargamento della platea dei beneficiari alle due categorie sopra evidenziate». Cassa forense ricorda infine di aver destinato «proprie risorse, per complessivi 5,6 milioni di euro», a due bandi, attualmente in corso, «per il rimborso delle spese di locazione per studi professionali ( persone fisiche e persone giuridiche) relative al periodo febbraio- aprile 2020». Sul punto interviene il presidente deell’Aiga Antonio De Angelis, che solleva a sua volta in un proprio comunicato alcune criticità del bando, innanzitutto il criterio di formazione della graduatoria basato sul maggior numero di associati iscritti, nello stesso studio, a Cassa forense. Un meccanismo che secondo De Angelis «finirà per favorire i grandi studi legali, a discapito dei piccoli studi associati (spesso costituiti da Giovani Avvocati) che hanno certamente maggiore bisogno di un sostegno economico in questo momento».
La protesta dei giovani avvocati: «Per noi no ai 600 euro». Il Dubbio il 20 aprile 2020. La rassicurazione di Cassa Forense: «Nessuna esclusione». Ma i neoiscritti ribadiscono: «il ministro del Lavoro deve chiarire». I neoiscritti a Cassa Forense non ci stanno: sono loro le vittime principali dell’emergenza Coronavirus, risultando attualmente esclusi, in attesa di un chiarimento da parte del ministro del Lavoro Nunzia Catalfo, dalla platea dei beneficiari del reddito di ultima Istanza. E al momento non è dato nemmeno sapere perché. I requisiti richiesti per l’accesso al fondo sono pienamente integrati: iscrizione attuale e in via esclusiva all’Ente previdenziale privato e l’aver dichiarato meno di 35mila euro nel 2018. Ed è qui che risiederebbe l’esclusione, in quanto bisogna tenere a mente che molti praticanti abilitati, e quindi iscritti nel 2019 e nel 2020 alla Cassa, hanno dichiarato redditi anche nel 2017/2018 e che quelli con reddito zero non avevano alcun obbligo. Tale discriminazione, denuncia l’avvocato tarantino Stefania Giannico, che ha lanciato un tweetbombing per sollecitare entro il 30 aprile una interpretazione autentica da parte del ministro del Lavoro, parrebbe quantomeno ingiustificata. Il tweetbombing, attraverso l’hashtag #600europertutti, coinvolge i profili di Cnf, Ocf, quello del ministro Catalfo e quello dell’associazione degli enti previdenziali privati. «Si tratta di una iniziativa che registra la vicinanza dell’avvocatura tarantina della Provincia, dai risvolti nazionali – ha dichiarato l’avvocato Giannico – occorre, infatti, che nessuno si senta abbandonato ed escluso in questo momento difficile, dove per tutelare il bene primario della salute stiamo assistendo all’inginocchiarsi dell’economia. Stare accanto alle fasce deboli, ora dell’avvocatura italiana, ma in generale di tutti i giovani che investono nel proprio futuro è un dovere morale. Il ministro Catalfo deve prestarci ascolto e gli Enti di Previdenza devono assisterci al bisogno ed è questa la sfida che oggi ci proponiamo di vincere».I giovani avvocati hanno interessato Cassa Forense per avere la garanzia che, a prescindere dal parere del ministro, la Cassa garantisca, anche attraverso fondi propri, un trattamento assistenziale pari a quello degli altri avvocati, iscritti alla stessa prima del 2019. Cassa Forense, con un comunicato pubblicato sul proprio sito domenica, ha intanto inteso rassicurare i giovani avvocati, precisando «che le domande presentate da coloro che sono stati iscritti alla Cassa successivamente al 1° gennaio 2019 sono state regolarmente acquisite e conservano intatta la loro posizione cronologica, stante il criterio di erogazione, appunto cronologico, previsto dal provvedimento ministeriale che Cassa Forense deve osservare. Si ribadisce, quindi, che non è stata operata alcuna esclusione e che entro la corrente settimana si provvederà, secondo le determinazioni che verranno assunte, a proseguire nei pagamenti agli aventi diritto e fino alla capienza del fondo stanziato». Per l’avvocato Giannico è proprio quell’inciso a spaventare i giovani legali: la protesta – ha chiarito – è finalizzata ad evitare proprio che la platea dei giovani avvocati venga inserita tra coloro che non hanno diritto. Motivo per cui, «il ministro Catalfo dovrà necessariamente pronunciarsi».
Luciana Grosso per it.businessinsider.com il 20 aprile 2020. C’è il Covid 19 in giro e non ci si può stringere la mano, figuriamoci fare sesso a pagamento. Così, anche se, poco se ne parla, uno dei settori più colpiti dalla crisi è quello della prostituzione e del sesso a pagamento, completamente fermo da mesi e senza grandi speranza di ripresa nel breve periodo. Per questo il Giappone ha deciso di dare accesso alle misure di sostegno post CoVid (circa 989 milioni di euro) anche a chi (di entrambi i sessi) si prostituisca. La decisione ha suscitato grande sollievo nel settore, ma anche molte polemiche visto che, in teoria, la prostituzione è illegale in Giappone, anche se, a conti fatti, sembra generi un mercato da circa 24 miliardi di dollari secondo Havocscope , un’organizzazione di ricerca sul mercato nero globale.
La prostituzione e il coronavirus. Andrea Massardo su Inside Over il 15 aprile 2020. La prostituzione è sempre stata un fenomeno borderline nella nostra società: sin dai tempi antecedenti alla nascita del Cristianesimo. C’è chi sostiene che sia addirittura il lavoro più vecchio del mondo, chi la sostiene e la vorrebbe legalizzare anche nel nostro Paese e che invece la contrasta duramente, facendo leva su limiti morali che non andrebbero oltrepassati. Similarmente funziona in quasi tutto il mondo, sebbene con gradi di accettazione sociale differenti, legale o illegale a seconda dei Paesi e delle situazioni. In ogni caso, quasi tutte le prostitute del mondo sono accomunate da un fattore, che in questo momento le lega a doppia mandata più che mai: nella prostituzione si vive alla giornata, non sapendo mai cosa riserverà il domani. E con le restrizioni dovute al lockdown – oltre ai maggiori rischi legati alla salute, in aggiunta a quelli che già affronta il settore – anche le loro possibilità di guadagno sono state quasi del tutto azzerate.
Oltre all’isolamento, anche l’esclusione sociale. In quasi tutto il Mondo, una donna che ha fatto della prostituzione la propria principale fonte di guadagno ha dovuto fare i conti con uno status sociale che l’ha portata sostanzialmente all’esclusione. In questa situazione, anche le possibilità dunque di fare affidamento su qualcuno che possa aiutare in tempi di crisi sono molto limitate, rendendola sostanzialmente dipendente solamente da se stessa. Con le misure restrittive alle quali sono sottoposte oltre la metà delle persone sulla Terra e con il divieto di uscire se non per stretta necessità, la prostituzione – volente o nolente – è diventata una di quelle attività de facto soggetta al blocco lavorativo. E senza stipendio fisso o possibilità di risparmio a causa della natura illegale dei guadagni sopravvivere ad uno stop prolungato rischia di essere un’impresa dalla portata colossale. Tutto questo, inoltre, senza contare nemmeno l’impatto psicologico, fatto di esclusione sociale che si aggiunge all’isolamento, lasciando la donna abbandonata completamente a se stessa.
Nei Paesi in via di sviluppo l’impatto è più evidente. Mentre in Occidente le possibilità di sopravvivenza sono comunque garantite da un presente e importante impianto di welfare volto a garantire qualunque individuo, lo stesso non è valido per la maggioranza dei Paesi del mondo: in particolare dell’Africa e dell’Asia centro-meridionale. Come sottolineato dalla testata giornalistica Deutsche Welle, la questione è particolarmente vera per quanto riguarda l’India: uno dei Paesi col più alto tasso di prostituzione al mondo, spesso anche minorile, che è giunto per decreto a fermare la prostituzione durante il periodo di serrata. Fiorente nelle baraccopoli, deve in questo periodo far i conti a sua volta con le restrizioni sugli spostamenti che impediscono di alle prostitute di guadagnare attraverso la vendita del proprio corpo. E in una situazione già in partenza di povertà, dove i ricavi sono necessari per le spese della giornata, rimanere senza possibilità di lavorare per un periodo prolungato (che si prospetta anche in India di essere di 8-12 settimane) rischia di diventare ben presto una condanna a morte. Come in India, lo stesso discorso vale anche per il colosso sudamericano del Brasile – nelle cui favelas molte donne vivono dei frutti del proprio corpo – e in buona parte del Continente africano. E anche in questo caso, l’assistenza garantita dallo Stato è praticamente nulla, abbandonando le ragazze in balia del proprio destino.
L’esclusione sociale può mietere vittime. Vivere ai margini della società diventa particolarmente difficile proprio col nascere di situazioni come quella che stiamo attraversando in questo delicato momento storico. E la possibilità che da questo atteggiamento di esclusione alcune donne che hanno fatto della prostituzione il proprio lavoro possano non superare in vita il lockdown deve farci pensare a delle misure volte a garantire anche il loro di diritto alla vita. Senza scendere necessariamente in campo legislativo – ma anche sì – è necessario costruire un immaginario collettivo che non si limiti all’ostracizzare una figura borderline ma cerchi anzi di includerla all’interno della società. In assenza di questo duro lavoro formativo, infatti, la medesima situazione rischierebbe di ripetersi inesorabilmente nel prossimo periodo di difficoltà che l’umanità dovrà attraversare.
Trans senza clienti per colpa del Covid: le aiuta l'elemosiniere del Papa. Un gruppo di transessuali di Torvaianica, in provincia di Roma, scrive a Papa Francesco. Il parroco della chiesa della Beata Maria Immacolata: "Sono rimaste senza soldi per colpa del Covid, l'elemosiniere ci ha inviato un bonifico". Alessandra Benignetti, Giovedì 30/04/2020 su Il Giornale. Si è presentata con la mascherina e un paio di grossi occhiali da sole, forse per farsi coraggio e sconfiggere timore e vergogna. Quando don Andrea Conocchia si è trovato davanti alla porta della chiesa della Beata Maria Immacolata di Torvaianica, una donna transessuale che chiedeva qualcosa da mangiare la prima reazione è stata la "sorpresa". Poi si è rimboccato le maniche e le ha confezionato un pacco alimentare come fa con tutti quelli che dallo scorso marzo si rivolgono alla parrocchia. Finora ne ha distribuiti a decine a chi dopo il lockdown si è ritrovato senza più un’entrata fissa. "Abbiamo aiutato almeno 150 persone, gente che lavorava in nero o che faceva le pulizie a domicilio, che ora ha perso il lavoro e non sa più come sostentarsi", ci racconta al telefono il sacerdote. E tra i "settori" in crisi per colpa della pandemia c’è anche quello della prostituzione. "Dopo la prima trans che abbiamo aiutato, ne sono arrivate diverse altre – ci racconta don Andrea - all’inizio ero stupito e meravigliato, in 24 anni di sacerdozio non mi era mai capitata una cosa del genere, ma penso che siano state mandate da Dio". "Se non ci fosse stato il coronavirus – si spiega meglio – probabilmente in chiesa non ci sarebbero mai entrate". E invece dopo aver ricevuto pacchi di pasta, latte, biscotti e passata di pomodoro, il parroco ne ha vista qualcuna sgranare il rosario davanti all’immagine della Madonna. "Mi hanno raccontato che da quando, lo scorso marzo, le strade si sono svuotate per effetto delle misure restrittive, i loro incassi si sono azzerati – continua il sacerdote – e ora non riescono più a pagarsi l’affitto o a fare la spesa". Le risorse della parrocchia, però, sono limitate. E così a don Andrea viene l’idea di scrivere direttamente al Papa. "Ci ho pensato perché la maggior parte di loro sono argentine o sudamericane", va avanti il sacerdote. Le "amiche" allora, come le chiama il parroco, hanno preso carta e penna e in spagnolo, tra disegni e cuori, hanno raccontato a Francesco la loro storia. Una richiesta di aiuto, la loro, non solo pratica ma anche spirituale. "Gli hanno chiesto di pregare per loro e gli hanno assicurato le loro preghiere", ci racconta il sacerdote. "Per alcune di loro – aggiunge – è stato un viaggio a ritroso nei meandri della propria esistenza: una donna malata di Hiv non riusciva a smettere di piangere mentre cercava le parole per descrivere la sua condizione, altre non se la sentivano neppure di prendere la penna in mano, per la vergogna". Alla fine le lettere sono state tutte imbucate, accompagnate da una missiva del parroco. "Nel giro di pochi giorni l’elemosiniere del Papa, il cardinale Konrad Krajewski, ci ha risposto e ci ha inviato un’offerta in denaro", ci spiega al telefono il sacerdote. Non ci svela a quanto ammonta il contributo ma, ci assicura, sull’Iban della parrocchia è arrivato denaro a sufficienza per coprire "l’affitto e le spese vive di ognuna". I soldi sono stati distribuiti dal sacerdote alle trans. "Non se lo aspettavano, per loro è stata una sorpresa", spiega don Andrea. Dietro il trucco marcato e i modi affettati, rimarca il sacerdote, ci sono storie piene di dolore e solitudine. "Per le loro famiglie di origine sono fantasmi, nessuno sa che lavoro fanno e che fine hanno fatto, non hanno amici oltre la loro comunità e nessun rapporto umano, a parte quello con i clienti", riflette il prete. "Pensare di togliere dalla strada? La vedo come una cosa più grande di me, tra loro c’è chi fa questo mestiere da oltre trent’anni, convincerle a cambiare vita è un’impresa ardua", ci confessa. Per ora cerca di aiutarle e accoglierle come fa con gli altri parrocchiani in difficoltà economica a causa della pandemia. "Sono le 9.30 – ci dice dall'altro capo della cornetta - e stamattina già si sono presentati in sei a chiedere aiuto".
Alice Facchini e Valerio Lo Muzio per internazionale.it l'11 aprile 2020. “Non riesco ad arrivare alla fine del mese e per la prima volta nella mia vita sono andata a mangiare alla Caritas. Spero che il 14 aprile finisca questa emergenza, anche se poi quello che mi aspetta è sempre la strada”. Gabriella, 32 anni, è una delle trans che a Napoli si prostituiscono per vivere. Paga 300 euro al mese di affitto e per via delle restrizioni imposte dal governo Conte contro il coronavirus è costretta come tutti a rimanere a casa. “Faccio questo lavoro da otto anni, ho cercato altri impieghi, ma nessuno mi ha mai dato una possibilità. Non ho scelta: qui non si assumono trans, siamo discriminate. Certo, non mi piace quello che faccio, sono stata aggredita e rapinata più volte, ma almeno prima della pandemia riuscivo a sopravvivere. Adesso, quando vado in giro, tutti mi evitano come se fossi infetta, come se noi trans fossimo automaticamente delle prostitute e quindi veicolo del virus”. Essere lavoratrici e lavoratori del sesso nei giorni dell’emergenza del coronavirus non è facile. Pochissime ragazze vanno ancora in strada, visti i rischi di essere denunciate e di contrarre il Covid-19, e in tante non sanno come arrivare a fine mese: non hanno abbastanza soldi per pagare l’affitto o per fare la spesa, e alcune hanno anche dei figli a carico. “La situazione è tragica: pochi giorni fa ci è stato segnalato un caso di quattro ragazze nigeriane vittime di tratta rimaste chiuse in casa senza cibo, perché la madame non vuole farle uscire per paura che si ammalino”, racconta Andrea Morniroli della cooperativa Dedalus, portavoce della Piattaforma nazionale antitratta. “Le prostitute nigeriane sono totalmente sparite dalla strada: sono fragilissime, spesso non sanno leggere e scrivere, non sanno accedere a strumenti online e non hanno clienti fissi che le cercano. E così non riescono a guadagnare nulla: non ripagano il debito, ma più di tutto non hanno i soldi neanche per mangiare. Diversa è la situazione delle ragazze dell’est, che spesso hanno un ‘protettore’: alcune di loro sono obbligate ad andare in strada anche adesso, mettendo a rischio loro stesse e i clienti. Infine ci sono le prostitute cinesi: anche loro hanno ricevuto l’ordine di stare in casa e di non avere contatti con gli italiani, che ora sono considerati infetti”.
Senza aiuti. Per guadagnare qualche euro, alcune mantengono i contatti telefonici con i clienti: li ricevono a casa, a loro rischio e pericolo, o fanno videochiamate a pagamento. Chi ha più dimestichezza con la tecnologia online si iscrive a siti di incontri e piattaforme dove lavorare attraverso le webcam. “La situazione cambia da ragazza a ragazza”, spiega Morniroli. “Alcune sono più indipendenti, altre fanno molta fatica. In questo momento ci sarebbe bisogno di una misura di sostegno al reddito per chi aveva un lavoro precario, saltuario, in nero, o per chi il lavoro non ce l’aveva, altrimenti queste persone finiranno per sentirsi abbandonate dalle istituzioni”. La prostituzione in Italia non è illegale, ma neanche legalmente riconosciuta: per questo, le lavoratrici e i lavoratori del sesso non possono avere accesso ad ammortizzatori sociali né ad aiuti economici. “Le misure restrittive contro il contagio hanno colpito anche i lavoratori del sesso”, spiega Pia Covre, ex prostituta e fondatrice del Comitato per i diritti civili delle prostitute. “Mentre nei paesi dove il lavoro sessuale è riconosciuto come lavoro i governi possono mettere in campo degli aiuti economici, in Italia l’emergenza in cui si trovano queste persone sarà totalmente ignorata. In più, quasi tutte le unità di strada hanno interrotto le attività e operano solo telefonicamente: molte ragazze finiscono per rivolgersi alla Caritas o alle banche alimentari per chiedere aiuto”. Jana, 51 anni, due figli, è quella che si definisce una “prostituta consapevole”. Vive a Bologna, dove da sei anni si prostituisce nel suo appartamento. In questo momento però ha tolto tutti gli annunci online, per non diventare veicolo della malattia e per paura di eventuali controlli. “Il rischio di una sanzione o di un procedimento penale è altissimo”, racconta. “Il mio timore è che un uomo mi contatti e che poi si presenti la polizia. Certo, guadagnare mi farebbe comodo, ma ho la fortuna di aver messo da parte abbastanza, e poi ho alcuni amici che mi aiutano. Tante colleghe invece sono in una situazione di tale difficoltà che non hanno scelta: siamo libere professioniste e doniamo amore, ma lo facciamo senza nessuna garanzia. Il nostro mestiere non è tutelato”. In tutta Europa, le associazioni per i diritti di lavoratrici e lavoratori del sesso chiedono che i governi includano nelle manovre di sostegno all’economia anche questa categoria. In Italia, il Comitato per i diritti civili delle prostitute ha lanciato una petizione per chiedere aiuti economici, mentre in Irlanda la Sex workers alliance ha attivato un crowfunding per sostenere chi lavora nel settore, raccogliendo finora più di 13mila euro. Anche in Francia il Syndicat du travail sexuel si sta battendo affinché le prostitute siano tutelate in questa emergenza, e sul sito ha pubblicato un decalogo per chi non può permettersi di smettere di lavorare: tra le precauzioni c’è quella di disinfettarsi le mani prima e dopo il rapporto, rifiutare clienti che presentano sintomi influenzali ed evitare ogni contatto con la saliva.
Chi ce la fa e chi no. Non tutte le lavoratrici e i lavoratori del sesso sono però colpiti allo stesso modo dalla quarantena. “Il Covid-19 è apparentemente molto democratico e non fa distinzioni tra poveri e ricchi”, spiega Porpora Marcasciano, presidente del Movimento identità transessuale (Mit). “La verità però è che i più fragili si ritrovano ancora più esposti alle intemperie della precarietà, mentre chi prima guadagnava bene riesce in qualche modo a cavarsela”. È il caso di alcune escort e gigolò che lavorano nel settore della “prostituzione di lusso”. Tra loro c’è Roberto Dolce, in arte Roy Gigolò, uno dei più conosciuti in Italia. Marchigiano d’origine, Dolce lavora in nove città, da Milano a Roma, da Napoli a Torino. “Ho iniziato vent’anni fa: facevo lo spogliarellista in discoteca, quando una donna mi ha pagato semplicemente per far ingelosire suo marito. Allora ho capito che poteva diventare una professione”. Dolce guadagna in media diecimila euro al mese, a volte anche di più. In questo periodo non sta lavorando e ne approfitta per rifare il suo sito: “Per fortuna ho dei soldi da parte, sono in una situazione privilegiata”. Anche Manuela, 29 anni, di Bologna, ha dovuto modificare il suo stile di vita a causa della pandemia: “Preferisco non ricevere i clienti a casa: organizzo solo videochiamate erotiche a pagamento”. Manuela prima lavorava in un’azienda, aveva un buono stipendio, ma voleva una vita diversa: “Ho provato a mettere un annuncio su un sito di incontri, e da lì è cominciato tutto. In media il guadagno è alto e anche in questo periodo non faccio fatica a vivere, anche se gli introiti sono calati. Certo, mi piacerebbe essere considerata come ogni altra libera professionista”. La pandemia, come è successo per altre categorie di lavoratori, ha svelato disuguaglianze e fragilità. L’unica possibilità di mettersi in regola per chi fa un lavoro sessuale è aprire una partita iva, dicendo di essere massaggiatrici o lavoratrici del settore del benessere. Chi ha detto esplicitamente di fare un lavoro sessuale ha ricevuto sempre la stessa risposta: non è un settore regolamentato, quindi niente partita iva. “E così siamo state tagliate fuori anche in questa emergenza”, conclude Manuela.
Roberta Lanzara per adnkronos.com il 9 aprile 2020. Sex worker, categoria reietta e dimenticata, per la quale neanche il Covid-19 è riuscito a mettere in quarantena i pregiudizi. In prevalenza donne e trans che "non possono accedere alle prestazioni sociali istituite come misure di emergenza dal Governo dopo il Dpcm “Io resto a casa”; Oggi come ieri "abbandonate dalla politica e senza tutele per il mancato riconoscimento della professione di 'lavoratrice sessuale'", adesso "sull'orlo del baratro di una povertà estrema". Uno scenario drammatico che Pia Covre, storica rappresentante del Comitato per i diritti civili delle prostitute, denuncia all'Adnkronos, lanciando un appello al Governo e agli italiani: "Non fermatevi a giudicare. Aiutate chi ha più bisogno di voi". Quindi annuncia: "Domani insieme alle organizzazioni anti-tratta e ai collettivi di sex worker lanceremo una raccolta fondi sulla piattaforma Produzioni dal basso intitolata Covid 19, solidarietà immediata per le sex worker più colpite dall'emergenza". Tra queste, le trans di Napoli: "Si stanno organizzando, scenderanno in piazza. Dicono: meglio morire di malattia, che come i topi, che di fame", racconta all'Adnkronos Loredana Rossi, vicepresidente Associazione transessuali del capoluogo campano. Parole ricalcate dalla collega, Gabriella Iovio, trans napoletana che con voce rotta dall'emozione domanda: "Dobbiamo restare chiusi per evitare di morire? Ma cosi moriamo lo stesso! Se non fosse stato per chiese e associazioni non avremmo resistito alla fame. Noi non siamo bestie. Dateci un contributo per una sopravvivenza dignitosa o qua scoppierà una rivolta". Uno scenario ancor più devastante quando si guarda alle vittime di tratta: "come le nigeriane chiuse in casa dalle Madame, in condizioni di totale miseria, che per un rapporto completo prendono 10 euro, che non essendo in grado di gestire circuiti on line non hanno clienti e spesso non hanno da mangiare. O donne dell'est costrette a 'battere' in strada anche oggi, con altro tipo di rischio dovuto alla presenza di uomini che continuano a giocare il doppio ruolo di amante-protettore", riferisce Andrea Morniroli responsabile cooperativa Dedalus, capofila dei 21 progetti anti-tratta finanziati dal Dipartimento Pari Opportunità, ed impegnato nel progetto di crowdfunding. "Noi come 'Comitato per i diritti civili delle prostitute' (fondato dalla Covre nel 1982 insieme a Carla Corso - ndr) raccoglieremo le donazioni e le distribuiremo attraverso la rete delle associazioni anti-tratta che fanno capo al numero verde del Dipartimento Pari Opportunità gestito dal comune di Venezia. E ci appelliamo alla politica. Segnaliamo -aggiunge Covre- che nei decreti straordinari di questi giorni è assente un popolo", migliaia di cittadini invisibili, non contemplati dai provvedimenti. "Denunciamo l'affollamento dei Ctr, dove sono recluse anche moltissime prostitute e transessuali senza rispetto delle norme di distanziamento previste. Chiediamo pietà per le sex worker costrette a tornare in strada per procurarsi da mangiare". "Ci sono situazioni di povertà estreme di cui non si può non tener conto. Ci sono circostanze di terrore, vissute dalle vittime di tratta, che non possono essere ignorate. Noi - conclude - finora abbiamo fronteggiato la situazione, ma abbiamo bisogno di aiuto".
Luca Monaco per “la Repubblica - Edizione Roma” il 7 aprile 2020. «Sapete indicarmi un posto dove poter lasciare il mio cane? Non riesco più a mantenerlo». Sibel la prende alla larga. Dopo alcuni giorni in casa, la trans brasiliana, 27 anni, è dovuta tornare in strada per racimolare quei pochi soldi indispensabili per la sopravvivenza. «Venti euro, amore - ripete - faccio un cliente e vado via». È giorno. In via Portuense passa solo qualche auto, non si ferma nessuno. « Ho fame - confida finalmente agli operatori dell' unità strada - vivo in un piccolo appartamenti con altre due ragazze, non possiamo ricevere » . Sibel accetta il pacco alimentare: una scorta di pasta, pelati, legumi utili per circa una settimana. Appunta il numero degli operatori e l' indirizzo del banco alimentare del suo quartiere. Da quando era arrivata a Roma, sette anni fa, non le era mai capitato di trovarsi in una situazione di così profondo disagio economico. Una volta estinto il debito con le due donne trafficanti che l' hanno portata in Italia, Sibel ha sempre vissuto della sua professione senza poter contare su altri aiuti. L' unico riferimento sono le associazioni impegnate nelle riduzione del danno e nel contrasto alla tratta delle schiave del sesso. « Quelli dei preservativi » adesso distribuiscono pacchi alimentari in strada e a domicilio. «Non è un' iniziativa caritatevole - precisano gli operatori - ma un' azione di prevenzione ». Il cibo diventa uno strumento per instaurare o rinsaldare il patto di fiducia con «le ragazze » , conoscerne la storie e poter fornire loro le coordinate per emanciparsi. Passando per le denunce alle forze dell' ordine quando è necessario, i corsi di lingua e avviamento al lavoro. In piena quarantena, delle 1953 prostitute intercettate nel 2018, continuano a esercitare sul ciglio delle consolari solo i soggetti più fragili: alcune delle 361 trans, fra brasiliane, colombiane, argentine e delle 773 donne romene. Sono rimaste solo le rom giovanissime. Spinte dalla fame, sono costrette a sfidare i divieti e i rischi del contagio. Sopravvivono grazie ai pacchi alimentari delle associazioni, alle mense sociali. Chi è ancora schiava dei trafficanti, invece, resta in casa. Non ha problemi di sostentamento perché incrementa di circa 100 euro al giorno il proprio debito iniziale (oscilla tra gli otto e 20mila euro) da estinguere imposto dalle organizzazioni criminali al momento dell' arrivo in Italia. È il caso delle 575 donne nigeriane censite dalle associazioni. Rischiano di perdere tutto. «In questo momento paradossalmente sono tra le più tutelate - è all' allarme degli operatori - se la pandemia andrà avanti ancora un mese rischiano seriamente di scivolare nella povertà più assoluta. Perché i trafficanti le cacceranno dagli appartamenti per sgravarsi di ogni spesa, pronti poi a sfruttare altre donne quando sarà conclusa l' emergenza » . Da schiave del sesso a nuove senza fissa dimora. È la prospettiva agghiacciante che riguarda una fetta cospicua delle prostitute che esercitano sulle strade di Roma .
Prostitute ed escort, il sesso a pagamento al tempo del coronavirus. Le Iene News il 09 giugno 2020. La prostituzione sembrava non affrontare crisi, ma la pandemia di coronavirus ha cambiato tutto: la quarantena infatti ha fermato un business del valore stimato in 5 miliardi di euro solo in Italia. La nostra Alice Martinelli ha girato le strade e le case delle escort durante la quarantena per raccontare l’impatto del coronavirus su questa realtà. Prima della pandemia, c’era un settore che non aveva mai conosciuto crisi: quello della prostituzione. Dalle ragazze in strada fino agli appartamenti di lusso delle escort, parliamo di un giro d’affari stimato in 5 miliardi di euro solo in Italia. La nostra Alice Martinelli ha girato le strade di varie città durante la quarantena per raccontare l’impatto del coronavirus su questa realtà, fatta di persone che spesso non hanno scelta se rimanere in strada o meno: “Io non posso chiedere al governo i 600 euro”, spiega una di loro. Il giro della Iena parte da Milano, dalle ragazze che rimangono per strada. Non sono molte, anche perché tanti clienti sono intimoriti dai controlli della polizia ma soprattutto dalla possibilità del contagio: alcune sono senza mascherina, altre ancora la portano come potete vedere nel servizio qui sopra. C’è però anche chi ha deciso di non tornare in strada: “Io ho smesso di lavorare il 10 marzo”, dice una di loro. “Con la fase 2 ho riprovato, tanti complimenti ma neanche un soldo”. Evidentemente il mercato non si è ancora riacceso. Per molte questo è un problema economico, e aiutarle non è così semplice: oltre al lavoro che non è riconosciuto dallo Stato, alcune di loro sono anche clandestine. Per sostenerle allora sono scese in campo alcune associazioni, che hanno fornito scorte di cibo: “Latte, biscotti, riso”, racconta Regina, una donna che ha messo in piedi una rete di sostegno per le prostitute. La nostra Alice Martinelli si unisce al giro di queste volontarie che distribuiscono cibo per le prostitute. “Dal male sta uscendo il bene, perché ci stiamo avvicinando… e aiutando una con l’altra”, ci dice una di loro. In questo periodo comunque c’è anche chi si è organizzato per poter lavorare a distanza, per esempio con telefonate erotiche: “Alla fine la sessualità ha varie sfaccettature”, ci racconta una escort che era abituata a ricevere i clienti a casa. “Questi uomini sono impazziti, l’unico sfogo era la telefonata erotica ma soprattutto la videochiamata”. Un modo veloce, e anche sicuro, per portare i soldi a casa. Le escort “sono state tra le più ligie nel rispettare le regole”, ci dice Mike Morra, fondatore del sito escortadvisor, una piattaforma che recensisce le escort di appartamento. “Da quando è iniziata l’emergenza sanitaria le ragazza hanno smesso immediatamente di svolgere la loro attività”, ci racconta. “Non so quanto ci vorrà per riprendere”, ci dice una escort. Dimenticate la prostituta di strada: qui parliamo di cifre da capogiro, come potete sentire nel servizio qui sopra.
Dagospia l'8 aprile 2020. Da “la Zanzara – Radio24”. “Faccio la escort da due anni e lavoro in un ristorante come lavapiatti. Ho chiesto anch’io i seicento euro all’Inps, non come prostituta ma per il mio lavoro regolare. Speriamo, perché non ho più un euro e devo mantenere due figli piccoli”. Katiuscia, escort milanese di 45 anni, a La Zanzara su Radio 24 racconta come sta vivendo nell’Italia del coronavirus: “Guadagno molti di più con la prostituzione, da lì vengono gli introiti maggiori. E purtroppo devo anche limitarmi, perché non ho tutto questo tempo a disposizione. Se potessi lavorare regolarmente con una partita iva come escort, lo farei volentieri”. Ma non stai lavorando via cam come fanno molte?: “Dove lo faccio? A casa ho i figli piccoli…”. Quando hai iniziato a fare la escort?: “Un paio di anni fa. Sono abbastanza nuova. Mi sono messa su Escort Advisor, il sito su cui mi appoggio prevalentemente. Ma la vocazione ce l’ho innata, il sesso mi è sempre piaciuto. Mi viene bene, nella mia vita mi è sempre piaciuto scopare tanto. Ho fatto della mia passione una professione, esattamente come voi alla radio”. Nessuno ti ha mai costretto a fare la escort: “Assolutamente no. E’ stata una scelta molto ponderata. Ho conosciuto un po’ di ometti che si divertivano a passare la serata con me ed ho pensato che ho due figli da crescere e allora quasi quasi ne faccio un bel lavoro. E ci sono riuscita”. Cosa è scattato due anni fa?: “Pensavo di avere un matrimonio felice, come tante coppie che probabilmente stanno ascoltando, invece un bel giorno mio marito mi dice che non mi ama più e che si è innamorato di un’altra donna. Va via da casa, sparisce del tutto, non mi ha più dato un soldo. Mi ritrovo con due bambini piccolini da crescere, le spese, una casa, tutto quello che immaginate. Inizialmente cerco di andare avanti come le classiche donne che voi definite normali. Quindi vado a lavorare, faccio i debiti, cerco di tirare avanti. Cerco di far crescere i miei figli nella maniera più decorosa, ma non è possibile. Frequento degli uomini, piccole avventure, qualche storia. Piaccio ai maschi. E ho pensato: perché allora non provo a guadagnarci con questa cosa?”. Ma se potessi faresti un altro lavoro?: “In realtà no. Se potessi io farei solo quello come lavoro, voglio dire la verità. La prostituta. Avere la possibilità di farlo in maniera regolare, con annessi e connessi, lo farei molto volentieri. Considerando che io non posso dedicare il tempo che le mie colleghe dedicano a questo lavoro, io faccio sui 2000-2500 euro al mese”. E adesso?: “Con le cam non posso. Lo avrei anche fatto, ma ho due bambini per casa. Troppo complesso”. Hai incontrato qualcuno di nascosto?: “Non vi nego che l’ho fatto. Li devo far mangiare questi bambini. Siccome tengo alla mia salute ed a quella dei miei figli, ho incontrato un paio di persone che già conosco e delle quali mi posso fidare. Due, tre incontri a settimana. Mi faccio pagare di più, visto il rischio. E comunque. Dovevo decidere: rischio e magari va tutto bene, o i miei figli vanno a letto senza cena? Tu cosa avresti fatto?”. Non sei di primo pelo, cosa dai agli uomini in più rispetto a una più giovane?: “Quella che tutte le mogli negano. Il culo”. Come vivevi il sesso con tuo marito?: “Ero una spregiudicata con mio marito, ma fedele. Ci si divertiva, d’altra parte questa cosa devi averla innata, non è che te la puoi inventare. Sono una predestinata”.
Dagospia il 6 aprile 2020. Comunicato stampa. Oltre 2 milioni di domande per i 600 euro dell’Inps sono già state presentate e anche il 12% delle escort italiane ha già provato a richiederli. Dagli ultimi dati di Escort Advisor, il sito di recensioni di escort più visitato in Europa con oltre 2 milioni di utenti mensili solo in Italia, emergono diversi comportamenti delle escort in questo momento di blocco totale delle attività. Tra le escort, c’è chi ha dovuto adottare lo smart work iniziando ad offrire videochiamate erotiche ai propri clienti che non le possono visitare. Altre invece hanno deciso di fermarsi del tutto e di non essere interessate alle videochat, poichè hanno risparmi sufficienti per vivere. Altre sfortunatamente vivono il disagio e provano a chiedere aiuto ad associazioni ed enti come la Caritas per riuscire a sopravvivere. Durante l’anno in media lavorano 120.000 escort online in Italia , praticamente più dei 105.000 pizzaioli presenti sulla Penisola, che non sono fermi del tutto vista la possibilità di fare asporto. Un danno ancora maggiore se si pensa che i mesi più redditizi per il settore sono mediamente aprile, maggio e ottobre. Ciò indica come questo momento sia ancora più drammatico per i mancati guadagni. Secondo un sondaggio in merito alla possibilità di richiedere il sussidio all’Inps o qualsiasi altra forma di aiuto ad enti e associazioni fatto da Escort Advisor tra le escort professioniste, che curano il loro profilo e hanno recensioni, emerge che: il 46% ha detto assolutamente non farà richiesta all’Inps o ad altri enti perchè non ne ha bisogno il 28% che se la crisi durerà pochi mesi se la caverà il 14% non esclude che debba chiedere aiuto a partire dal prossimo mese il 12% ha immediatamente dovuto provare a chiedere aiuto per riuscire a sopravvivere, anche se ha dubbi che con il suo lavoro da documentare possa ricevere questo aiuto. Dalla stessa ricerca emerge la lamentela da parte delle professioniste del sesso che non possono lavorare e non sanno quando potranno ricominciare. Racconta Rossana, escort di Firenze: Siamo abbandonate a noi stesse. Quello che sta accadendo è l’esempio di una fascia della popolazione lasciata indietro come e più di altre. A noi, come a tutti, richiedono di pagare le tasse per un lavoro non riconosciuto e difficile da documentare. Anche se noi paghiamo le tasse, gli affitti, le bollette, e tutte le spese che ognuno ha, alla fine, soprattutto in questi momenti di crisi, non abbiamo mai nulla in cambio dallo Stato. Io ho due bambini e non riesco nemmeno a mettermi a fare videochat erotiche perchè non posso lasciarli da soli e perchè non ho uno spazio dedicato per farlo in casa senza che mi vedano. Sono in crescita le escort che si cimentano nello smart work iniziando ad offrire videochiamate erotiche ai propri clienti che non le possono visitare. Nella classifica di questa nuova attività delle escort che si pubblicizzano su Escort Advisor, Roma e Milano sono già al 1° posto con più del 20% delle escort disponibili al servizio. Tra le città con più attive, seguono Verona 12%, Bologna 11%, Napoli 10%. Racconta Chiara Martini, escort con 91 recensioni che attualmente pubblicizza il servizio di videochat su Escort Advisor: Io sono fortunata, non mi manca niente, ho un'abitazione privata dotata di tutti i comfort, dei risparmi da parte e una solida attività principale che mi permette di continuare a lavorare in smart working, anche se in questa sto comunque accusando il colpo di introiti dimezzati. Quindi anche se non ricevo o mi dedico a qualche videochiamata posso comunque vivere tranquilla. Non è così per tutte. Ci sono ragazze che stanno affrontando problemi enormi: chi ha un’attività primaria come la mia magari è strozzata dalle spese e dal fatto di non poter tenere aperto, come ad esempio le titolari di negozi di abbigliamento, centri estetici, o locali e decide comunque nella sua seconda attività di non vedere clienti per tutelarsi. Le colleghe straniere cercano di tornare a casa. Le italiane cercano di arrotondare con altri lavoretti improvvisati. Danno fondo ai loro risparmi in questo momento. Ci sono ragazze che non hanno nulla al di là della loro attività di escort. Non avendo alternative si stanno rivolgendo alle associazioni come la Caritas per sopravvivere. Le più fortunate hanno clienti affezionati che le supportano economicamente a distanza per potersi mantenere in questo periodo difficile. Si meriterebbero un aiuto più concreto visto l’impegno che mettono quotidianamente nelle loro attività. Un dato interessante è che le ricerche su Google del settore escort sono diminuite in media del -17% nell’ultima settimana, mentre quelle del brand “Escort Advisor” sono aumentate nello stesso periodo del +24%. I clienti delle escort vogliono continuare ad informarsi nell’attesa di poter uscire di nuovo in sicurezza. Le ricerche legate al tema "escort" riferito a città risultano essere diminuite: parola chiave su Google “escort Roma” -8%, “escort Milano” -1%, “escort Verona” -9%, “escort Bologna” -5%, “escort napoli” -9%. Nella settimana appena conclusa (30 marzo - 5 aprile), Escort Advisor è cresciuto più della media del settore. Il traffico ha avuto un incremento rispetto alla scorsa settimana: prima del +5% (rispetto alla settimana 16/3-22/3), fino ad arrivare al +19% (rispetto al 23/03-29/03) . Aumentati quindi anche gli accessi al sito dalle singole città: Roma +15%, Milano +8%, Verona +4%, Bologna +9%, Napoli +28%. Questo perchè Escort Advisor continua a mantenere un contenuto informativo che interessa ai clienti delle escort: sul sito sono tuttora visibili più di 68.700 profili di escort con recensioni, poiché raccoglie giornalmente tutti i numeri di telefono associati ad annunci di escort pubblicati su tutte le bacheche online italiane. In più, quelli che gli utenti sfogliano non sono i classici annunci, ma veri e propri profili che le sex workers curano per promuoversi. Continua Chiara Martini, che racconta del suo lavoro al momento: Come detto, non ricevo, ma ho iniziato ad usufruire delle videochat, come mezzo per mantenere i contatti con i miei clienti. La cosa divertente è che spesso è la loro prima volta, sono tutti in imbarazzo. Organizziamo brindisi a luci soffuse attraverso lo schermo e proseguiamo con conversazioni piacevoli, fino ad arrivare alle sfumature erotiche. Sono particolari anche le cene a distanza perché i miei clienti mi mostrano le loro abitazioni e i panorami dai loro balconi. Ho condiviso un brunch virtuale con vista sul Colosseo, sorseggiato caffè in un appartamento con vista sul Lago di Como e organizzato un aperitivo sexy con una coppia anticonformista nel cuore di Dubai. Nonostante sia confinata tra le quattro mura della mia casa, mi si apre la vista su più realtà, suggestioni e paesaggi diversi. Molte persone si sentono sole e faticano a trovare quell' intimità che si può avere con chi si conosce di persona: non bastano degli sterili video porno o delle sbrigative telefonate erotiche da dieci minuti. Hanno bisogno della “chiamata emozionale” che poi diventa erotica. Devono sentire l’energia di una donna, come noi ragazze dobbiamo sentire quella di un uomo. Sentirsi desiderati è importante visto lo stato di isolamento che siamo costretti a vivere. Escort Advisor lancia sul proprio sito un’iniziativa editoriale: Le Cronache di Escort Advisor, una sorta di “Decamerone”, un contenitore che sarà attivo per raccontare come vivono la vita ed il sesso gli utenti in questo momento particolare. Anche le professioniste del sesso a pagamento diranno la loro su come si sono adattate a questa situazione. L’invito a partecipare è esteso a tutti, scrivendo a racconta@escort-advisor.com. Unica regola: narrare come si sta vivendo il sesso in questo periodo difficile. Escort Advisor indicizza gli annunci pubblicati sui principali siti di escort in Italia per verificare i numeri recensiti dai propri utenti. Grazie alle 150.000 recensioni raccolte dal 2014, permette agli utenti di scegliere velocemente e in sicurezza una escort corrispondente ai propri desideri, con la garanzia in più offerta dalle recensioni di altri visitatori del sito. Escort Advisor è il primo sito di recensioni di escort in Europa, in Italia ha oltre 2 milioni e 300 mila utenti al mese ed è tra i primi 40 siti più visitati in assoluto (fonte: Alexa.com - Amazon). E’ attivo inoltre in Spagna, Germania e UK.
Giampaolo Visetti per “la Repubblica” il 2 aprile 2020. «Abbiamo fame e nessuno ci aiuta. Prima per strada lavoravamo, adesso ci finiamo a dormire negli scatoloni. Senza clienti non possiamo più pagare l' affitto di una stanza. Di coronavirus si può morire anche senza prendere la polmonite ». Poco dopo mezzogiorno quattro ragazze sono in coda davanti alle cucine economiche popolari di Padova. Tre straniere e un' italiana: poco più che ventenni, non sembrano studentesse. «Fino a un mese fa - dice Gloria, partita tre anni fa dalla Nigeria - a quest' ora ero appena andata a letto. Ora, già all' alba, mi svegliano i crampi della fame. La vergogna questa volta può fare una strage». La catastrofe del coronavirus in Italia travolge anche 120 mila prostitute. Il divieto di uscire di casa, le norme sul distanziamento sociale e la chiusura dei locali, azzerano un business da 4 miliardi all' anno. Le vittime sono donne e transessuali: il 55% è extracomunitario, spesso clandestino, quasi sempre schiavo di tratte e sfruttatori. Per queste invisibili, più esposte al contagio e prive di assistenza medica, non ci sono aiuti. Le ragazze in fila L' epidemia fa esplodere nuove povertà ed emarginazioni diverse. «A pranzare qui - dice suor Albina - vengono in 170 al giorno. Quasi tutti anziani, disoccupati, migranti e senza fissa dimora. Per la prima volta vedo impennare il numero delle ragazze che cercano cibo. Non chiediamo chi sono, ma la professione perduta è chiara». Sei prostitute su dieci, fino ai primi di marzo, vendevano sesso per strada. La maggioranza pagava una quota a chi le sfruttava e spediva il resto alla famiglia in patria. Poche quelle che hanno dei risparmi. «Difficile stimare quante sono ridotte alla fame - dice don Luca Facco, direttore della Caritas padovana - ma chi adesso ci chiede aiuto, ne ha davvero bisogno. Questo virus sconvolge anche il profilo delle emergenze: i prossimi mesi, per chi precipita nella povertà, si annunciano durissimi». Ancora di più per chi è piegato dal peso dello stigma sociale. «Queste donne - dice Pia Covre, che con Carla Corso ha fondato il Comitato per i diritti civili delle prostitute - ora hanno fame. Più ancora, hanno paura. La maggioranza non osa nemmeno chiedere aiuto. Se non esercitano ogni giorno il mestiere, non sanno di cosa vivere e sono ancora più esposte alle violenze. Da giorni ricevo centinaia di messaggi: ragazze che domandano dove possono trovare cibo. Qualcuna, che ha da parte dei soldi, aiuta le amiche che hanno bambini». L'idea è istituire un fondo di sostentamento per chi non può più vendere sesso. «Ex clienti generosi - dice Carla Corso - potrebbero ricordarsi di noi e fare delle donazioni». Ai margini della strada Ad affondare, anche altri precari che dipendono dalla strada e dal benessere degli altri: giostrai, circensi, ambulanti, artisti itineranti e stagionali al lavoro nei campi. Tra Lombardia e Veneto, epicentro del contagio, migliaia di famiglie in queste ore vivono la tragedia di non avere niente da mettere sulla tavola. «È un' onda che cresce - dice Luciano Gualzetti, direttore della Caritas Ambrosiana di Milano - con centinaia di nuclei sul lastrico. Molti hanno anche gli animali da nutrire e si affidano alla generosità dei contadini. Non possono mettere in scena i loro spettacoli, le giostre sono ferme. Centinaia di mamme non sanno come sfamare i figli. Il primo mese hanno tenuto duro, adesso non ce la fanno più. Telefonano per le borse della spesa solidale o per ritirare un pasto nelle mense: tra le necessità, anche i prodotti per l' igiene. Nessuno chiede soldi: sono ridotti a farsi bastare un pezzo di pane». I numeri sono questi: più 50% di accessi agli 8 market solidali di Milano. Quasi spariti poveri ed emarginati storici, bloccati in alloggi e comunità. Esplode il sommerso della fame improvvisamente generata da Covid-18, ancora senza data di scadenza. Anche su Caritas, parrocchie e volontariato della solidarietà incombe lo spettro delle difficoltà economiche. «Il 95% di chi sta chiedendo aiuto - dice don Davide Schiavon, direttore della Caritas di Treviso - è in emergenza alimentare. Per anni abbiamo pagato affitti e bollette, adesso compriamo farina. Qui ci sono 70 famiglie di giostrai, oltre 400 persone, che mangiano a turno ogni due giorni. Da ieri mi hanno chiamato 8 prostitute rimaste senza cibo: mai successo, nemmeno durante le guerre e dopo la crisi finanziaria del 2008: dobbiamo pensare subito al microcredito, nessuno deve essere lasciato morire di fame». L' ostacolo della vergogna A preoccupare, tra Bergamo, Brescia e Vicenza, le periferie urbane e i territori abbandonati anche dalla solidarietà organizzata. «Qui - dice Filippo Monari, direttore della Caritas bresciana - ammettere il bisogno fa vergognare. La sfida sarà intercettare la fame prima che uccida, come un osceno virus tollerato dall' umanità». A Brescia, la sera, le prostitute si mettono in fila a un metro e mezzo di distanza. Prima erano al lavoro lungo le strade dirette al lago di Garda. Oggi anche loro sono sole, in coda per una tazza di minestra.
Anna Ditta per tpi.it il 6 maggio 2020. I due maggiori gruppi al mondo del settore del lusso, titolari di marchi come Gucci e Louis Vuitton, hanno deciso di non gravare sui conti dello Stato in Francia durante l’emergenza Coronavirus, pagando di tasca propria i dipendenti, ma non hanno esitato ad attingere a piene mani dallo strumento della cassa integrazione e dagli altri ammortizzatori sociali messi a disposizione per i lavoratori in Italia durante il periodo di lockdown. È quanto TPI è in grado di documentare riguardo alle scelte dei due colossi francesi del lusso: da una parte Kering, gruppo titolare di marchi come Gucci, Yves Saint Laurent, Bottega Veneta, Brioni, Pomellato, Dodo, con 38mila dipendenti nel mondo e un fatturato di 15,9 miliardi di euro nel 2019, e dall’altra LVMH, leader mondiale del settore, cui appartengono marchi come Louis Vuitton, Christian Dior, Sephora, Fendi, Givenchy, che conta 163mila dipendenti in tutto il mondo un fatturato pari a 53,7 miliardi di euro nel 2019.
Due p(a)esi e due misure. In Italia TPI ha potuto verificare, sulla base degli accordi raggiunti con i sindacati tra la fine di marzo e i primi di aprile, che sono in totale almeno 5mila i lavoratori di aziende del gruppo Kering che hanno usufruito di ammortizzatori sociali di vario tipo, tra il comparto produttivo e quello commerciale. Tra le società che ne hanno fatto richiesta ci sono Gucci Logistica, Bottega Veneta, Guccio Gucci, Gpa, Kering Fashion Operations, Yves Saint Laurent Logistica, Brioni, Pomellato, Dodo, Balenciaga, Alexander McQueen. Per il gruppo LVMH, solo una parte dei dati è accessibile sulla base degli accordi raggiunti, ma i lavoratori coinvolti sono sicuramente più di un migliaio (752 dipendenti della divisione moda di LVMH per il settore retail, 168 per la produzione del marchio Stella McCartney, una sessantina di lavoratori della manifattura orafa di Bulgari) cui si aggiungono i dipendenti del comparto produttivo di Fendi e Loro Piana e i dipendenti retail delle catene del settore profumi e cosmetici, come Sephora, i cui numeri non siamo riusciti a verificare. Una situazione molto diversa da quella verificatasi in Francia dove i due gruppi inizialmente avevano preannunciato ai propri dipendenti l’intenzione di ricorrere alla cassa integrazione francese, ma poi – come riporta il Financial Times – dopo l’iniziativa di concorrenti più piccoli, come Chanel ed Hermès, di pagare i dipendenti di tasca propria per non gravare sulle tasche dello Stato, hanno fatto un passo indietro, rinunciando al chomage partiel, ovvero alla cassa integrazione francese. A pesare sulla scelta compiuta in patria dai due gruppi, oltre all’iniziativa dei concorrenti, probabilmente è stata la posizione delle due figure che li controllano: nel caso di LVMH si tratta di Bernard Arnault, l’uomo più ricco di Francia secondo Forbes, e mentre l’amministratore e presidente delegato di Kering è il miliardario François-Henri Pinault. Entrambi nelle scorse settimane, sottolinea il Financial Times, hanno donato fondi per combattere l’emergenza Coronavirus e LVMH ha convertito le sue fabbriche di profumo per produrre gel sanificanti per le mani.
Gianluca Zapponini per formiche.net il 17 maggio 2020. Si fa presto a chiedere un prestito garantito dallo Stato Italiano, anche da 6,3 miliardi. Ma è davvero possibile per un’azienda che non ha sede legale in Italia e nemmeno quella fiscale. Un’azienda come Fca. Il caso dell’ex Fiat, che avrebbe chiesto un prestito garantito dalla Sace nonostante da anni versi parte delle tasse presso l’erario britannico, sta facendo molto discutere. La legge, ovvero il decreto Liquidità, parla chiaro, per beneficiare della garanzia pubblica serve la sede in Italia. Fca non ce l’ha ma la branch italiana, sì. E allora se, e con ogni probabilità sarà così, il prestito sarà chiesto da Fca Italy (sede a Torino), allora l’ostacolo verrà aggirato. Cosa dice la legge? “Il decreto Liquidità”, che istituisce i finanziamenti con garanzia pubblica per l’emergenza Covid-19, “prevede delle caratteristiche specifiche per poter accedere alla garanzia di Stato: tra queste sede in Italia e riferimento esclusivo al fatturato Italia, nonché attese di destinazione degli investimenti e finalità del finanziamento rivolte sempre a supporto dell’attività in Italia. Quindi ogni eventuale richiesta di garanzia viene valutata e accettata solo nel caso siano rispettate tutte le caratteristiche previste dalla norma”, fa notare una fonte molto qualificata a Formiche.net. E in effetti, a leggersi il testo del decreto pubblicato in Gazzetta Ufficiale, sembra proprio così, perché i soggetti destinatari della garanzia sono proprio le imprese aventi sede in Italia, diverse dalle banche e altri soggetti autorizzati all’esercizio del credito. L’articolo uno del provvedimento per le imprese parla chiaro quando premette la necessità di “assicurare la necessaria liquidità alle imprese con sede in Italia, colpite dall’epidemia Covid-19″. Insomma, tecnicamente ci sono dei dubbi sull’operazione. Ma, c’è un ma. Come detto, a chiedere il prestito sarà con ogni probabilità Fca Italy, la società di diritto di Fca, che la sede in Italia ce l’ha eccome. In quel caso il problema potrebbe essere aggirato e dunque risolto. Questo però non mette a tacere il dibattito politico. Sorprende – spiega a Formiche.net Ettore Licheri, presidente della Commissione Affari Ue del Senato in quota M5S – che solo ieri L’Ad di intesa Sanpaolo (l’istituto con cui Fca starebbe trattando il prestito, ndr) auspicasse il ritorno in Italia delle aziende che hanno spostato la sede all’estero per un vantaggio fiscale, ed oggi acconsente il finanziamento di FCA che ha sede fiscale a Londra e sede legale ad Amsterdam. Incoerenza, opportunismo? Diciamo che si tratta di una delle mille aporie di un sistema fiscale europeo tutto da riscrivere”. Secondo Licheri, il problema è infatti di natura europea. “È bene sapere che, malgrado l’Olanda ed il Regno Unito portino avanti da anni una politica fiscale aggressiva, entrambe non sono qualificabili “tecnicamente” come paradisi fiscali. Una icastica ipocrisia che frutta enormi ricavi ai due Paesi ed incalcolabili danni alle altre economie europee. Un’ipocrisia che non permette di sollevare obiezioni alla correttezza dell’operazione FCA. Ma attenzione, se l’Europa tollererà ancora queste iniquità non sarà difficile per chiunque intravedere l’epilogo della sua stessa esistenza”. Su Twitter il vicesegretario dem, Andrea Orlando, scrive che “senza imbarcarci in discussioni su che cosa è un paradiso fiscale credo si possa dire con chiarezza una cosa: un’impresa che che chiede ingenti finanziamenti allo Stato italiano riporta la sede in Italia. Attendo strali contro la sovietizzazione e dotti sermoni sul libero mercato” mentre, sempre su Twitter l’ex ministro dello Sviluppo, Carlo Calenda, fa notare come la sede legale e fiscale deve “ovviamente tornare a Torino. Perché altrimenti andremo sul surreale”. “Condizioniamo l’aiuto dello Stato per imprese alla residenza giuridica e fiscale in Italia, a cancellare i dividendi non per un anno, ma fino a quando le garanzie dello Stato per essi immobilizzate non vengono liberate”, scrive invece il deputato di Leu, Stefano Fassina, sul fattoquotidiano.it. “1 miliardo di euro per Agnelli, Elkann e soci comodamente residenti in paradisi fiscali. 1 miliardo di euro per milioni di famiglie in guerra contro la povertà in Italia. 1 miliardo di euro è, pià o meno, la garanzia dello Stato assorbita da Fca per ricevere 6,3 miliardi di prestiti da Banca Intesa. 1 miliardo di euro, anzi un po’ meno, è quanto assegnato al Reddito di Emergenza (Rem) per almeno tre milioni di persone. Tutte le imprese vanno aiutate, anche le multinazionali. Ma senza aggravare un’ingiustizia sociale già insostenibile”. Più cauto e meno emotivo infine, l’economista Marcello Messori, sentito dall’Agi. “Non c’è nulla di male che un’impresa chieda un finanziamento con la garanzia dello Stato, l’importante è che non riduca la sua attività e che venga valutata la portata dell’investimento rispetto alla sua capacità produttiva nel Paese”. Bisogna “capire qual è la ratio economica per cui un’impresa chiede il prestito in garanzia. Ci troviamo di fronte ad un evento eccezionale, il Covid-19, e la garanzia concessa deve essere proporzionale all’attività produttiva e occupazionale. Se lo fosse, sarebbe legittimo. Se non lo fosse, cioè se ad esempio dopo qualche mese che ottiene il finanziamento garantito l’impresa smantellasse gli impianti, allora dovrebbe esserci una clausola che interrompa il finanziamento”.
DAGONEWS il 19 maggio 2020. Quello che trapela dalle parti di Torino e Parigi è che la pandemia non fermerà la fusione FCA-PSA, come invece ha stoppato la ricchissima operazione su PartnerRe. Elkann si trova quindi davanti a un vicolo cieco, e non solo perché i 6,3 miliardi di finanziamento in Italia gli servono per tenere in piedi la Exor, confermando l'extra-dividendo miliardario che è alla base dell'operazione coi francesi. Ma perché quell'extra-dividendo di circa 5,5 miliardi che Exor deve incassare per la susione con PSA ha una doppia funzione: da una parte, remunerare l'addio alla gestione da parte del gruppo italiano. Si fa presto a parlare di fusione 50-50: l'amministratore delegato sarà francese, a Elkann andrà solo la presidenza, per quanto ''operativa''. Dall'altra, per riequilibrare i valori delle due società in modo da ottenere l'ok del governo francese, secondo azionista di PSA, che non avrebbe mai accettato l'opzione 60-40. Macron non vende, al massimo fonde il motore (tenendosi le chiavi della macchina). Quindi, come aveva chiesto qualcuno, pescare dal forziere olandese i soldi per sostenere FCA Italy avrebbe voluto dire mandare a monte la fusione, perché si sarebbero squilibrati tutti i calcoli. Allora perché non finanziarsi sul mercato? Come scrive su Twitter il Signor Ernesto, i Credit Default Swap su FCA (tutta, mica solo la sussidiaria italiana) sono schizzati alle soglie dei 600 punti base con l'inizio della pandemia, un livello di fiducia del mercato davvero basso, che avrebbe comportato tassi di indebitamento da suicidio. Assicurarsi contro il crac della ex Fiat costa un sacco, dunque costerebbe un sacco ottenere fiducia dagli investitori se la crisi l'avesse costretta all'emissione di una nuova obbligazione. Insomma abbiamo capito due cose: che Elkann non aveva altre strade. Ah, e che non paga i fornitori nei tempi del contratto. Pare che la tecnica del Lingotto sia simile a quella di certi imprenditori furbetti, ovvero di ritardare il saldo delle fatture finché non si arriva a negoziare prezzi più convenienti. Altrimenti non si spiegherebbe l'urgenza di saldare i debiti coi fornitori visto che dall'inizio del lockdown sono passati poco più di due mesi, e il negoziato con MEF e Mise è iniziato un mese fa. C'è un terzo dettaglio da sottolineare: la cassa dell'azienda non sta in Italia. E neanche quella degli Elkann: sia FCA che Exor hanno sede in Olanda. Quindi per lo Stato italiano è quasi impossibile controllare cosa faranno coi soldi ottenuti. Potrà la SACE davvero mettere il naso negli sfuggenti caveau olandesi? Soprattutto quando tra qualche mese il controllo della società passerà aldilà delle Alpi? La vediamo difficile…
Fernando Soto per startmag.it il 19 maggio 2020. Come utilizzerà Fca Italia il prestito da 6,3 miliardi di Intesa Sanpaolo garantito da Sace? E che cosa si impegnerà a fare Fca sia con Intesa Sanpaolo che con la Sace (gruppo Cdp) se il ministero dell’Economia, sentito quello dello Sviluppo economico, approverà con decreto la garanzia di Sace? Ecco le risposte sulla base delle informazioni finora raccolte. Innanzitutto, la controllata italiana del gruppo Fca ha chiesto l’innalzamento all’80% della percentuale standard del 70% della garanzia di Sace prevista dal decreto Liquidità. Una possibilità prevista per le grandi imprese. L’innalzamento è vincolato al rispetto di specifici impegni da parte di Fca, che saranno previsti anche nel contratto di finanziamento da parte di Intesa Sanpaolo, più che nel decreto del ministero dell’Economia. Con il prestito di Intesa Sanpaolo garantito all’80% da Sace e controgarantito dallo Stato Fca si impegnerà – secondo le ricostruzioni di Start – a mantenere gli attuali livelli occupazionali in Italia e a potenziare gli stabilimenti operativi in Italia in termini di crescita, sviluppo tecnologico, innovazione e ricerca. Fonti bancarie sottolineano che le risorse finanziarie dovranno essere destinate al pagamento dei fornitori, al pagamento degli stipendi ai dipendenti e agli investimenti in stabilimenti italiani. La linea di credito, in sostanza, andrà a coprire questi capitoli: costi del personale, pagamenti dei fornitori, supporto alla rete di vendita e sostegno agli investimenti, anche per ricerca e sviluppo, in stabilimenti italiani necessari alla prosecuzione del piano industriale. Sia Intesa Sanpaolo che Sace – dopo che la garanzia sarà approvata – analizzeranno e verificheranno la rendicontazione periodica dei risultati raggiunti, con meccanismi di monitoraggio e anche con la possibilità di controlli mirati.
(AGI il 25 maggio 2020) - "Il denaro che il gruppo Fiat Chrysler Automobiles presta abitualmente alla sua rete di concessionari di automobili viene erogato attraverso finanziamenti della controllata Fca Bank con interessi che vanno dal 5% al 6%. C'e' da sperare che queste condizioni vengano riviste immediatamente, con importanti abbattimenti dei tassi, qualora Intesa Sanpaolo, che proprio domani riunisce il consiglio di amministrazione per deliberare su questa operazione, decida di accordare il finanziamento da 6,5 miliardi di euro coperto da garanzia statale". Lo dichiara il presidente onorario di Unimpresa, Paolo Longobardi, a proposito del prestito, garantito dalla Sace, che Intesa dovrebbe concedere usufruendo della garanzia fornita da Sace introdotta dal decreto "liquidità". Secondo Longobardi "il prestito garantito dallo Stato sara' erogato a Fca a tassi assai contenuti, certamente non superiori al 2%: ci aspettiamo, quindi, come rappresentanti di tante imprese che lavorano nel cosiddetto indotto della casa automobilistica, che la liquidità venga girata alle imprese del settore senza margini di guadagno: insomma, i contribuenti italiani non devono diventare il paracadute di una vantaggiosa operazione finanziaria di un colosso industriale".
Lettera di Franco Debenedetti al ''Foglio'' il 26 maggio 2020. Al direttore. Se abuso ancora della sua ospitalità è perché, su quello che è diventato il “caso” Fca, per un saggio Prodi e le sue equilibrate parole, sono tanti, anche insospettati, che nei talk-show (per non parlare della politica) ripetono cose inesatte o insensate.
Sede legale: a seguito della fusione con Chrysler, con cui Marchionne salvò la Fiat, per ammansire la superbia di Detroit che mal avrebbe tollerato di essere guidata dal Lingotto, si pensò di mettere la sede di Fca nel “paradiso” dei tulipani.
Dividendo straordinario: dal calcolo del valore degli apporti di Fca e Psa nella fusione con cui provare a giocarsela nei cambiamenti sociali e nella rivoluzione tecnologica in atto nel mercato dell’auto, quelli di Fca risultano superiori di €5 miliardi di euro. Darli ai proprietari, al 29 per cento che fa capo agli eredi dell’Avvocato, al 71 per cento nelle mani investitori in giro per il mondo. Non è una distribuzione di utili, è una restituzione di capitale. Prestito di €6,3 miliardi di euro. Il prestito, finalizzato a sostenere spese ad attività produttive localizzate in Italia, lo erogano le banche, lo stato fornisce garanzia, tra l’altro neppure gratuita, per un totale di €200 miliardi di euro, contro default dei debitori. Invece ecco cosa si sente dire.
Di riportare la sede in Italia: che tanto Detroit ormai se ne sarà dimenticata. Di non distribuire ai proprietari il capitale in eccesso: che se poi l’operazione va in fumo, noi ci teniamo l’arrosto. Di escludere dalle attività produttive da sostenere la dozzina di stabilimenti (per 55.000 persone) di proprietà di Fca Italia: che se poi…
LA RISPOSTA DEL DIRETTORE CERASA. Tutto corretto. Ma c’è solo un punto, a voler essere pignoli, che faccio fatica a condividere. Per quale ragione il divieto di distribuzione dei dividendi, per le aziende che hanno accesso al prestito con garanzia dello stato, è valido solo fino al 2020 e non è invece valido fino a quando il prestito non viene restituito?
Dagospia il 15 maggio 2020. MA QUANTO SONO BRAVI GLI ELKANN/AGNELLI A FARE I FROCI CON IL CULO DEGLI ALTRI!
2. PERCHÉ LO STATO ITALIANO DEVE GARANTIRE, ATTRAVERSO LA SOCIETÀ PUBBLICA SACE, IL PRESTITO DI 6,3 MILIARDI DI EURO CHIESTI DA FCA A BANCA INTESA? RICORDIAMO CHE FCA È UN’AZIENDA ITALO-STATUNITENSE CON SEDE LEGALE IN OLANDA E SEDE FISCALE IN GRAN BRETAGNA, CHE STA PER FONDERSI CON LA FRANCESE PSA: PERCHÉ JOHN ELKANN NON LI VA A CHIEDERE A TRUMP, A MACRON, A BORIS JOHNSON O AL SIMPATICO PREMIER OLANDESE RUTTE?
Reuters il 15 maggio 2020. Fca sta discutendo con Intesa SP l'erogazione di un prestito da 6,3 miliardi di euro con la copertura della garanzia pubblica della Sace, secondo quando previsto dal decreto liquidità che mira al sostegno di piccole e grandi imprese colpite dall'emergenza economica conseguente all'epidemia da Covid-19. Lo ha detto una fonte che segue il dossier, spiegando che un prestito di queste dimensioni dovrebbe essere sottoposto al vaglio del cda della banca e seguire poi l'iter previsto dal decreto per dare garanzia alle richieste delle grandi imprese. Stamane MF ha scritto dell'intenzione di Fca di ottenere questo prestito. Secondo Bloomberg, il gruppo automobilistico sta trattando con Intesa SP per avere una linea di credito con garanzia pubblica da circa 6,3 miliardi di euro. Fca, Sace e Intesa non hanno commentato. Una volta che Fca si accordasse con Intesa per il prestito, il dossier passerà alla Sace per una istruttoria preliminare e da lì al Mef, che valuterà l'operazione prima di autorizzare la garanzia con un apposito decreto ministeriale.
Settore lusso: gli ammortizzatori usati in Italia da Kering e LVMH. Gran parte degli accordi del settore produttivo di Kering e LVMH, redatti su base aziendale insieme ai sindacati di categoria e quindi non sempre omogenei, prevedono l’utilizzo di ferie, ex festività e banche ore maturate e non fruite, oltre al ricorso al massimo di 9 settimane di cassa integrazione come previsto dal decreto “Cura Italia” del 17 marzo 2020, con l’integrazione salariale da parte delle aziende. “Le produzioni sono state fermate per decreto, quindi si sono fermati tutti, ad eccezione di chi ha lavorato in smart working, e la richiesta di cassa integrazione l’hanno fatta tutti”, spiega a TPI Sonia Paoloni della divisione moda della segreteria nazionale di Filctem Cgil (Federazione Italiana Lavoratori Chimica Tessile Energia Manifatture). “Alcune di queste aziende sono ripartite la settimana scorsa ma solo per la prototipia e la modelleria, il resto sono ripartite il 4 maggio”, spiega la sindacalista. Il settore retail, ovvero il commercio al dettaglio, dovrebbe ripartire invece a partire dal 18 maggio. In questo comparto, praticamente la totalità dei dipendenti sono sospesi e beneficiano di ammortizzatori sociali, come spiega a Luca De Zolt di Filcams Cgil. “Per il gruppo Kering tutti i marchi, ad esclusione di Ginori, hanno la cassa integrazione in deroga o il Fondo di integrazione salariale (Fis), perché alcuni hanno meno di 50 dipendenti”, spiega il sindacalista. “In quest’ultimo caso l’azienda anticipa il trattamento dovuto dall’Inps, mentre per i lavoratori che hanno la cassa in deroga l’azienda anticipa tredicesima e quattordicesima per le prime 9 settimane, che ormai sono quasi esaurite. Per tutti le aziende integrano il 100 per cento della retribuzione dovuta”. Un uso massiccio quindi – e legittimo – delle risorse messe in campo dallo Stato italiano per il momento di crisi dovuto alla pandemia di Covid-19. Ma perché questi due gruppi hanno scelto di utilizzare le risorse in Italia e di rifiutarle in Francia? “La priorità del gruppo rimane quella di proteggere l’occupazione ed è questo il motivo per cui, caso per caso, paese per paese, marchio per marchio, a seconda della situazione, si è deciso di ricorrere a modalità di ammortizzatori sociali”, ha dichiarato Jean Marc Duplaix, Cfo di Kering, lo scorso 21 aprile, in occasione della presentazione dei risultati del primo trimestre. “Il gruppo”, ha aggiunto, “si è impegnato a pagare il 100 per cento dello stipendio fisso e, in alcuni casi ha anche compensato la parte variabile che gli nostri addetti alle vendite non hanno più ricevuto in conseguenza della chiusura dei negozi”. Kering, contattata da TPI per un chiarimento, rimanda alle parole del Cfo senza aggiungere ulteriori elementi, mentre nessuna risposta è arrivata finora da LVMH. Intanto, i contribuenti italiani – e lo Stato – hanno sulle loro spalle il peso di queste risorse, che viene invece generosamente risparmiato ai cugini d’Oltralpe.
Fondi alle imprese, chi è indagato non li avrà. Giovanni Altoprati Redazione de Il Riformista il 17 Aprile 2020. Dai fondi alle imprese per l’emergenza Covid-19, deve essere escluso «chi sia stato condannato per reati di criminalità organizzata, reati contro la pubblica amministrazione e reati tributari», oppure «proposto per la irrogazione di una misura di prevenzione personale e patrimoniale». Il diktat viene direttamente dal Csm per bocca dei consiglieri Nino Di Matteo e Giovanni, detto Ciccio, Zaccaro. I due magistrati hanno chiesto questa settimana al Comitato di Presidenza di Palazzo dei Marescialli, composto dal vice presidente David Ermini e dai vertici della Cassazione, il primo presidente Giovanni Mammone e il procuratore generale, «l’apertura di una pratica perché il Csm svolga le sue funzioni consultive e propositive sul c.d. Decreto Credito». Alla richiesta del pm del processo Trattativa Stato-mafia e del giudice barese si sono poi accodati il davighiano Sebastiano Ardita e i togati della sinistra giudiziaria di Area, la corrente di Zaccaro, Giuseppe Cascini, Elisabetta Chinaglia, Mario Suriano ed Alessandro Dal Moro. Secondo i magistrati «la decisione – senza dubbio opportuna (bontà loro, ndr) – di immettere ingenti risorse finanziarie nel circuito economico del Paese per fronteggiare le conseguenze della pandemia sul tessuto produttivo nazionale rischia di favorire anche le imprese criminali». «La previsione normativa – sottolineano i consiglieri del Csm – non contiene alcun meccanismo per escludere dai benefici le imprese riferibili a persone coinvolte in processi di criminalità organizzata o che abbiano riportato condanne o siano indagati per reati contro la pubblica amministrazione o reati tributari». Un “vulnus” che era stato evidenziato domenica scorsa dalle colonne di Repubblica dai procuratori di Milano e Napoli, Francesco Greco e Giovanni Melillo. I due pm si erano lamentati dell’assenza di controlli sul punto «in un Paese ove il crimine organizzato, la corruzione e l’evasione fiscale sono connotazioni strutturali di ampia parte del tessuto sociale ed economico». Al grido di dolore dei due procuratori, sempre dalle colonne di Repubblica, si era unito, direttamente dal Massimario della Cassazione, l’attuale sede di servizio dell’ex capo dell’Anac, Raffaele Cantone: «L’allarme è molto realistico. Dico di più, lo giudico effettivo, e anche serio e documentato. Il pericolo è lì, davanti agli occhi di chi conosce corruzione e mafia. Il legislatore deve farsi carico del rischio che la mafia adocchi subito l’affare». Musica, ovviamente, per le orecchie di Alfonso Bonafede che si e immediatamente dichiarato «pronto a cambiare il Decreto Credito». «Le soluzioni? Sono ancora da scrivere e saranno messe a punto in sede di conversione», la promessa ai pm del Guardasigilli. In che modo si muoverà il governo non è chiaro. Si tratterà, comunque vada, di norme anticostituzionali. Come capita spesso anche a qualche magistrato, ci si dimentica che la pena in Italia non ha finalità afflittiva ma di reinserimento del condannato nella società. A maggior ragione il discorso vale per chi sia indagato e per il solo fatto di essere finito nell’italico gorgo giudiziario vedrà negarsi l’aiuto di Stato. Per non parlare, infine, della sterminata platea di soggetti coinvolti nel procedimento di prevenzione, previsto soltanto in Italia. Tale procedimento, vale la pena ricordarlo, mira ad accertare la pericolosità sociale della persona accusata, indipendentemente dal fatto che abbia o meno commesso un reato. Per raggiungere questo scopo, appunto preventivo, i giudici si avvalgono di presunzioni, di allegazioni varie, di indizi. Tutti elementi che però non sono per nulla certi. Senza dimenticare le interdittive antimafia che, emesse senza contraddittorio, – dal 2013 al 2018, ultimo dato disponibile, sono aumentate del 300percento – distruggono le imprese, soprattutto al Sud, sulla base di una semplice parentela. L’arbitrio dei pm ha avuto la meglio anche sul coronavirus.
Siamo in un’epoca in cui i diritti dipendono da una serie di variabili…Piero Sansonetti Redazione de Il Riformista il 17 Aprile 2020. L’idea di una parte dei Pm italiani è molto semplice. Una società si organizza dando delle priorità. La priorità assoluta è punire i colpevoli. Lo Stato serve a questo, l’etica è questa, è questo, in fondo, il fine della vita. Per capire chi sono i colpevoli ci sono, appunto, gli stessi Pm. I quali sulla base dei loro idee, o congetture, o sulla base di qualche soffiata, o di qualche intercettazione, o anche di una lettura attenta dei giornali, li individuano e mandano loro un avviso di garanzia. La parola garanzia, per questi Pm, sta a significare “garanzia di colpevolezza”. Da quel momento in poi è anche possibile che il colpevole si divincoli e ottenga una assoluzione, ma questo – come è noto – non determina la sua non colpevolezza ma semplicemente certifica il fatto che l’ha fatta franca. Resta colpevole. Se un Pm gli ha mandato un avviso di garanzia evidentemente non è innocente, altrimenti il Pm non glielo avrebbe mandato. Ci sarà pure una differenza tra chi ha ricevuto un avviso di garanzia e chi non lo ha ricevuto. Questo ce lo dice il buonsenso, non c’è bisogno di aver studiato tanto diritto. Studiare troppo diritto è inutile e dannoso. Non a caso è una pratica alla quale sono molto affezionati soprattutto gli avvocati. I Pm meno. Una volta che si è stabilito che i Pm cercano i colpevoli e li scovano, poi si può procedere a tutto il resto. Per esempio, si può anche affrontare la questione economica e persino – talvolta – la questione dei diritti. Il problema dell’economia italiana è uno solo: evitare che i colpevoli possano partecipare alla partita economica. Libero mercato, statalismo, liberismo, socialismo, keynesismo: tutte chiacchiere da lestofanti. Il problema dell’economia è evidentemente un problema essenzialmente giudiziario. È bene che imprenditori, lavoratori e economisti non si occupino di queste cose: devono occuparsene i Pm con l’aiuto, eventualmente, di qualche prefetto. Su questo punto spesso i prefetti sono d’accordo coi Pm. Anche quando diventano ministri. La ministra Lamorgese, l’altro giorno, ha concordato coi Pm ed è andata oltre le ipotesi di Di Matteo e Gratteri (che guidano da tempo questa squadra di Pm, e la guidano dalle colonne dei giornali e dagli schermi della Tv). Gratteri e Di Matteo propongono di avere un controllo dei Pm sui prestiti alle aziende mentre la ministra, sembra di capire, ha idea di affidare ai Pm anche la distribuzione dei 600 euro di aiuto a chi resta in mezzo a una strada. La ministra, suppongo, pensa che se resta in mezzo a una strada un individuo sospetto è bene che resti in mezzo a una strada senza sussidio. E qui arriviamo alla questione dei diritti. I diritti sociali, ad esempio, non possono essere universali. Il sussidio a un indagato è immorale. L’indagato se è rimasto senza una lira in tasca è bene che muoia di fame. Non è stato ancora detto che un indagato, così come non ha diritto al sussidio, potrebbe essere escluso anche dall’assistenza sanitaria. Se un medico si trova in corsia con un non indagato e un indagato è bene che dia priorità al primo, quantomeno. Poi vedremo se il secondo può o no, in seconda battuta, ricevere assistenza anche lui. Forse è meglio negargli l’assistenza, altrimenti i diritti diventano una scusa per diffondere la corruzione e la mafia.
Ad Africo anche nella fame si è diseguali per legge. Gioacchino Criaco su Il Riformista il 5 Aprile 2020. In Aspromonte bisogna salirci in Primavera: le ginestre spinose aprono i fiori gialli al cielo riempiendo i monti di un sapore che sa di limone, liquirizia, vaniglia e caramello. I perastri si imbiancano a neve e tra profumi e colori l’isola che sta fra lo Jonio e il Tirreno diventa davvero la più gustosa fra le leccornie create dagli Dei. Gli africoti costruivano strade verso l’interno, non ne volevano che scendessero al mare. Se ne stavano nel ventre di Mana Gi, la grande madre, che per loro era greca quindi Aspru era lucente, bianco, non ostile. Se ne stavano lì Apo Osci Potamo, oltre la frontiera, li chiamavano Sambali, Ghoriati: duri come il cuoio e incivilizzabili. Immobili e liberi dentro 100 km quadri: l’unità della Nazione gli rubò la lingua greca, il fascismo gli prese la terra per darla ai propri adepti e la Repubblica li cacciò a forza, si inventò un’alluvione, gli fece fare un giro di 80 chilometri e li depose sul mare: un nido dentro una palude di mezzo chilometro quadrato, in una terra già altrui. Gli africoti diventarono cucchi, e vennero trattati da cuculi, in un posto senza nome, profughi dentro baracche di legno ad aspettare, mezzogiorno e sera, il pane donato dal Governo. Africo è un paese diseguale per Legge, perché la Legge se lo è inventato come fosse un incubo: come paese senza terra che è una cosa solo di fantasia. È rinato male davanti i thalasse, la mare, femmina come la madre aspromontana. Anzi non è rinato per nulla, è rimasto un’astrazione continuando a restare senza terra, caso unico al mondo, che anche nei luoghi più desolati, un paese ce l’ha un fazzoletto di fango con cui congiungersi per dar vita a qualcosa. E Africo è ancora unico in Italia, l’unico posto in cui i buoni spesa per l’emergenza Covid escludono i pregiudicati. Africo è sciolto per mafia, gli capita sovente a dire il vero, la terna commissariale ha emesso un avviso che in un primo tempo escludeva, dalla ripartizione dei 25.000 euro di sussidi alimentari, i nuclei familiari in cui ci fossero condannati o indagati per mafia. Poi l’avviso è stato corretto, ora i buoni da 10 euro non andranno in mano alla famiglia se il dichiarante, solo lui, ha riportato una condanna per mafia: quindi, sia che abbia scontato il proprio debito con la società, sia che la sentenza debba essere ancora consolidata. Diciamo che è stato ristretto il cerchio delle esclusioni, ma rimane il no se chi presenta la domanda di sussidio ha precedenti di mafia. È un discorso di principi questo. È anche un discorso di fame, e pensare che chi richieda buoni pasto da 10 euro lo faccia per profittarsi dello Stato è cosa possibile. Certo a immaginare i mafiosi fin qui narrati, un po’ da tutti, col cappello in mano per queste cifre, ci sarebbe da riscrivere tutta un’epica del male. Ma non è nemmeno questo il tema. La questione, per un popolo che non avrebbe mai voluto venire in questo Occidente, che ci è stato portato a forza, è di essere nato diseguale per Legge, e di continuare a essere diseguale, a rappresentare il caso unico.
Niente buoni spesa per mogli e figli dei detenuti per associazione mafiosa. Maria Concetta Crisafi, avvocato, su Il Dubbio l'1 aprile 2020. La denuncia di un avvocato: «I decreti non dovrebbero essere adottati secondo il criterio della solidarietà sociale, della sussidiarietà e dell’assistenza?» In un momento storico in cui il Governo italiano si attiva per adottare misure straordinarie e urgenti per fronteggiare l’emergenza alimentare della popolazione italiana colpita e decimata dal Covid 19 destinando dei fondi per alleviare bisogni e necessità, in un momento in cui le polemiche sulla distrazione dei fondi dal Sud verso il Nord occupano le pagine delle principali testate giornalistiche, c’è chi, in rappresentanza di uno Stato “giusto” e “solidale” ha decretato che dall’assegnazione dei Buoni Spesa saranno escluse le famiglie nel cui nucleo familiare sussistano condanne definitive ai sensi dell’art. 416 bis del c.p. e condanne per i reati contestati per l’aggravante dell’agevolazione mafiosa né carichi pendenti per gli stessi reati”. Ebbene sì! Il commissario prefettizio del Comune di Africo, in provincia di Reggio Calabria, ha stabilito i parametri di assegnazione dei buoni spesa da destinare alle famiglie bisognose, escludendo quei nuclei dove un membro ha riportato condanne penali. C’è da chiedersi: ma in questo caso, i decreti non dovrebbero essere adottati secondo il criterio della solidarietà sociale, della sussidiarietà e dell’assistenza? Eppure si tratta di buoni spesa. Buoni spesa, ovvero buoni spendibili in beni alimentari o di prima necessità, quasi che i figli dei detenuti non abbiano bisogno di mangiare, di curarsi, di vivere. Buoni spesa necessari per l’acquisto di alimenti! Non beni di lusso! Il dubbio è che il commissario prefettizio del Comune reggino abbia adottato tale provvedimento senza considerare lo stato di bisogno del popolo che amministra e senza una vera concertazione con le parti sociali perché se lo avesse fatto avrebbe visto lo stato di bisogno delle famiglie dei detenuti. Sorge il dubbio che il potere conferito a chi dovrebbe farsi “verbo e rappresentante” delle istituzioni abbia perso di vista la funzione che gli è stata assegnata sentendosi una sorta di peritus peritorum che si arroga il compito di escludere le famiglie dei detenuti per mafia dal sussidio statale dei buoni spesa. Eppure lo stato di bisogno riguarda anche loro. Certamente i controlli vanno fatti, vanno verificate tutte le compagini sociali ma in uno Stato improntato alla solidarietà sociale, non si può escludere a priori una parte della comunità soprattutto quando si tratta di interventi destinati all’assistenza alimentare. Che dire, il commissario avrà pure scritto una bella pagina di “Giustizia” in una terra aprioristicamente tacciata di mafiosità, ma quando il suo mandato sarà finito, ci si augura che qualcosa anche Egli l’abbia imparata da questa terra: la dignità con cui i figli dei detenuti affrontano ogni giorno la vita non si vende. I figli dei detenuti non chiedono, attendono che lo Stato si ricordi anche di loro. I figli dei detenuti sono abituati a vivere di privazioni, di mancanze e se lo Stato ha decretato che per loro non c’è necessità di pane sulla loro tavola, l’esclusione dai buoni spesa non cambierà le cose, vivranno lo stesso anche senza il pane quotidiano.
Figli dei condannati lasciati senza buoni pasto. Anche le toghe si indignano. Simona Musco su Il Dubbio il 2 aprile. I magistrati Area: «Difendere la società dalla criminalità non può tradursi in un’ingiusta compressione dei diritti fondamentali». «Ragionare nei termini prospettati dalla Commissione straordinaria del Comune di Africo è sbagliato e pericoloso». A parlare è la sezione di Reggio Calabria di Area Democratica per la Giustizia, che stigmatizza il comportamento dei commissari del piccolo Comune calabrese, decisi a escludere dalla lista dei beneficiari dei buoni pasto concessi per via dell’emergenza Coronavirus coloro nel cui nucleo familiare siano presenti soggetti condannati o indagati per associazione mafiosa o per altri reati aggravati dell’agevolazione mafiosa. Una decisione che la triade – insediatasi dopo lo scioglimento dell’amministrazione comunale a dicembre 2019 – ha comunicato ai cittadini lo scorso 31 marzo, attraverso un avviso affisso all’albo pretorio contenente i criteri per la concessione dei buoni. Il Comune, spiega l’annuncio, è destinatario di una somma di poco superiore ai 25mila euro per poco meno di tremila abitanti, le cui richieste verranno smistate in base al reddito e alla composizione del nucleo familiare. La selezione operata dalla Commissione ha scatenato le proteste di cittadini e avvocati della zona, portando i magistrati di Area Democratica a criticare la scelta dei tre funzionari prefettizi. «Non si esplicita nell’avviso se gli eventuali precedenti o le pendenze per reati di criminalità organizzata costituiscano una pregiudiziale causa di esclusione dai benefici (anche per il mero familiare convivente del reo o dell’indagato ancora sub judice) ovvero elementi acquisiti in via preliminare dall’amministrazione, in vista di accertamenti patrimoniali più approfonditi da eseguirsi in un momento successivo», scrivono le toghe. Secondo cui il ragionamento della Commissione è «sbagliato e pericoloso». Sbagliato in quanto «il contributo economico previsto dal Governo è esclusivamente di carattere solidale, ha cioè la sola finalità di far fronte alla mancanza di mezzi di sostentamento venutasi a determinare nelle famiglie italiane a causa e in conseguenza della crisi economica provocata dall’emergenza sanitaria in atto, a prescindere dal fatto che a richiederlo sia un cittadino virtuoso ovvero chi abbia commesso il delitto di cui all’art. 416 bis o altro reato aggravato ex art. 7 dl. 152/91». Ed è pericolo in quanto «si pretende di applicare, in assenza della previsione generale di cause ostative e, dunque, in chiave sanzionatoria (nei confronti di chi non possa fornire l’attestazione negativa richiesta, riferita – addirittura – anche solo a pendenze giudiziarie di congiunti), meccanismi presuntivi che operano su piani e in contesti normativi affatto diversi, nei quali sono stati introdotti dal legislatore regimi speciali finalizzati a contrastare sempre più efficacemente l’emergenza mafiosa». Difendere la società dalla criminalità, senza tentennamenti né esitazioni, non può tradursi, secondo i magistrati reggini, «in un’ingiusta compressione dei diritti fondamentali». «Lo ‘ndranghetista non è una vittima del sistema, è semmai il responsabile dei guasti del sistema e l’autore della più grave violazione del patto sociale: lo è tanto più se, a dispetto della stantia e falsa rappresentazione secondo cui egli aiuterebbe il popolo creando lavoro e opportunità, agisce come un parassita, come un virus che depreda le risorse pubbliche e affama (lui sì, da sempre) i cittadini», si legge nella nota. Ma la priorità, ora, «è sostenere senza indugio chi dichiara di non avere i mezzi per sopravvivere, riservando a controlli successivi – da eseguirsi, su un piano di parità, su tutto il territorio nazionale, sulla base non di mere evidenze formali, ma di elementi concreti ed effettivi acquisiti attraverso riscontri di tipo sostanziale – la verifica di eventuali situazioni di abuso fondate sulla falsità della dichiarazione resa».
· Le misure di sostegno altrui.
Dal bazooka tedesco alle sovvenzioni britanniche. Ecco come si muovono i principali Paesi per sostenere l'economia reale colpita dal coronavirus. L'Abi ha ripercorso le misure messe in campo dai principali Paesi europei. La Repubblica il 23 Aprile 2020. Decreto liquidità, cassa integrazione, bonus da 600 euro. In Italia sono le prime risposte che il governo ha dato all'emergenza coronavirus, con annessi ritardi e disfunzioni cui stiamo assistendo in questi giorni. Come si sono mossi gli altri Paesi? Una interessante carrellata degli interventi, in primo luogo a supporto delle imprese, è stata annessa dall'Abi al materiale che il dg Sabatini ha portato in audizione alla commissione d'inchiesta sulle banche, nella quale ha fatto il punto sul ruolo degli istituti in questi meccanismi. Ecco dunque la sintesi fornita dall'associazione delle banche sulle iniziative messe in campo a sostegno dell'economia reale, "principalmente agendo sul piano del rilascio di garanzie a favore delle banche su crediti in essere o su nuovi crediti".
In Francia, ricostruisce l'Abi, stato lanciato un pacchetto di stimolo all'economia consistente in una riduzione di 45 miliardi di euro dei contributi previdenziali, con rinvio dei pagamenti fiscali e previdenziali, creazione di un fondo di solidarietà per artigiani e commercianti, nonché misure di garanzia statale per disoccupazione/riduzione orario lavorativo per 300 miliardi di euro. Bpifrance, banca di investimento pubblica, sosterrà il credito alle imprese attraverso una garanzia del 90% sulle line di credito per una durata dai 12 ai 18 mesi e sui finanziamenti dai 3 ai 7 anni. Offrirà inoltre direttamente finanziamenti da 3 a 5 anni senza garanzie. E' stata poi aumentata al 90% la quota di copertura di Bpifrance Assurance Export (controllata dalla banca pubblica Bpifrance) nelle garanzie offerte per l'assicurazione del capitale circolante impegnato in progetti di esportazione, con riferimento anche alle garanzie prestate per operazioni di export finance. E' stata altresì aumentata la capacità dell'assicurazione del credito all'esportazione a breve termine attraverso l'ampliamento del regime di riassicurazione pubblica Cap Francexport. Vengono fornite informazioni specifiche dal team Export Business France, Chambres de commerce et d'industrie e Bpifrance, in particolare attraverso un osservatorio specifico su ciascuna area geografica e il lancio di una serie di tre webinar geografici, ciascuno dedicato a una regione del mondo, per fare il punto della situazione.
In Germania - sono sempre le parole dell'Abi - attraverso il nuovo Fondo per la stabilizzazione economica e l'Istituto di credito per la ricostruzione (KfW, assimilabile all'italiana Cassa depositi e prestiti) sono stati stanziati 600 miliardi di euro per sostenere le grandi aziende, provvedendo così ad aumentare il volume e ad estendere l'accesso alle garanzie sui prestiti pubblici. Il governo federale ha anche definito un nuovo pacchetto di misure volto a rispondere esclusivamente alle esigenze delle start-up (che non sempre trovano rispondenza nell'impiego degli strumenti di credito tradizionali) e ha approvato un Programma di Assistenza Immediata con un budget fino a 50 miliardi di euro per lavoratori autonomi, liberi professionisti, piccole imprese e agricoltori. È stato previsto anche uno scudo protettivo per le aziende e i loro dipendenti, con un adeguamento, all'emergenza pandemica in corso, delle relative norme sull'indennità di riduzione dell'orario di lavoro e il rimborso dei contributi previdenziali. È stata ampliata anche la portata delle garanzie di esportazione: il nuovo approccio consente garanzie sulle operazioni export con obblighi di pagamento a breve termine (fino a 24 mesi) all'interno dell'UE e con alcuni paesi OCSE, allo scopo di compensare potenziali strozzature nel mercato privato dell'assicurazione del credito all'esportazione. Infine, i consumatori e le microimprese possono beneficiare, fino al 30 giugno, di una moratoria sull'esecuzione dei contratti stipulati prima dell'8 marzo 2020.
In Belgio, il governo federale ha attivato un sistema di garanzia, per un valore complessivo di 50 miliardi di euro, su tutti i nuovi prestiti e alle line di credito della durata di 12 mesi che le banche forniranno alle imprese in bonis e ai lavoratori autonomi. Una moratoria sul credito commerciale è stata inoltre concessa dalle banche alle imprese, consentendo il rinvio del rimborso della quota capitale per un periodo massimo di 6 mesi. Il pagamento degli interessi, tuttavia, rimane dovuto. Una volta raggiunta la fine del periodo di differimento, i pagamenti riprenderanno. La durata del prestito sarà estesa per il periodo di differimento. In sostanza, il debitore continuerà a rimborsare il proprio prestito per un periodo fino a 6 mesi più lungo di quello inizialmente previsto. Non saranno applicate spese di deposito o spese amministrative per l'utilizzo del regime di differimento. Nel caso di nuovi prestiti e linee di credito con una durata massima di 12 mesi, il governo ha accordato alle imprese un regime di garanzia.
In Olanda, il governo ha messo a disposizione delle imprese che si attendono una perdita di fatturato di almeno il 20% uno schema di supporto al pagamento degli stipendi per un ammontare massimo del 90% del loro importo, con un budget stimato di 10 miliardi di euro. Ha inoltre ampliato i termini per il pagamento delle imposte delle imprese (IVA e imposte dirette), con un costo di 150 mln di euro per l'erario, ma un beneficio per le imprese calcolato in 26 miliardi di euro. Ha inoltre fornito la garanzia pubblica sul 75% del credito alle PMI, con una garanzia che copre il 90% del credito e si applica ai prestiti con 2 anni di durata massima. I lavoratori autonomi possono ricevere un sostegno aggiuntivo al reddito (a fondo perduto) per 3 mesi, attraverso una procedura accelerata, o in alternativa un finanziamento a tasso ridotto, con un costo per lo Stato stimato fra 1,5 e 2 miliardi di euro. Per i lavoratori autonomi che devono chiudere la propria attività a causa della crisi pandemica è prevista una somma di 4.000 euro di sostegno economico, con un costo per lo Stato pari a 465 milioni di euro. Lo schema di garanzia dei finanziamenti alle imprese è stato rafforzato, portandone la disponibilità da 400 milioni a 1,5 miliardi di euro, per essere in grado di aiutare sia le grandi che le piccole e medie imprese ad ottenere credito dalle banche. Garanzia statale dell'80% sui crediti (inferiori ai 3 anni) alle imprese con fatturato superiore ai 50 milioni di euro e del 90% per quelle al di sotto, con perdite condivise fra banche e Stato. Moratoria accordata dalle principali 6 banche del paese alle imprese che prima della crisi sanitaria erano in buone condizioni di salute. L'Agenzia statale per il credito all'export, infine, ha offerto un ampio pacchetto di misure a sostegno del delle imprese attive sui mercati internazionali.
In Spagna, il governo ha concesso a PMI e lavoratori autonomi una sospensione di 6 mesi sul pagamento delle imposte ed ha creato una garanzia pubblica stimata in 100 miliardi comparto di euro, di cui: i primi 20 miliardi con lo scopo di aiutare imprese, PMI e lavoratori autonomi durante la crisi COVID-19, fornendo loro una garanzia sui crediti per l'80% dell'importo, sia su crediti in essere che su nuovi crediti per le PMI, e il 70% per nuovi crediti (60% per quelli in essere) per tutte le altre imprese.
Nel Regno Unito, il governo ha assunto misure di sospensione degli oneri fiscali per imprese e lavoratori autonomi e lanciato un fondo per le avversità attraverso il quale fornirà alle autorità locali inglesi 500 mln di sterline di nuovi finanziamenti per sostenere le famiglie economicamente vulnerabili. E' stato altresì varato uno stimolo fiscale per 30 mld di sterline (inclusi 18 mld per spese pubbliche aggiuntive). E' stato anche aumentato da 3.000 a 10.000 sterline l'ammontare della sovvenzione in contanti per le imprese ammissibili agli schemi di sostegno per piccole imprese commerciali e agricole. Il Governo britannico ha anche varato un pacchetto iniziale, successivamente ampliato, di garanzie su prestiti per 330 mld di sterline, erogato secondo due principali schemi: 1) un sistema di garanzia coperta dal governo per l'80% per i prestiti alle PMI; 2) un sistema di garanzia coordinato dalla BoE e dall'HM Treasury per sostenere la liquidità delle imprese più grandi. Da segnalare - conclude il paragrafo dell'Abi - anche un meccanismo di sostegno all'occupazione offerto dal governo per il mantenimento del posto di lavoro, con cui il governo mira a evitare licenziamenti di massa nel settore privato: il governo pagherà l'80% dello stipendio dei lavoratori coinvolti.
· Il Lockdown del Petrolio.
Giordano Stabile per “la Stampa” il 22 aprile 2020. Le quotazioni del petrolio sono rimaste sotto pressione, dopo il tonfo di lunedì che ha portato il Wti texano sotto lo zero, a meno 37 dollari al barile, un prezzo surreale dovuto all' impossibilità di stoccare l' eccessiva produzione. Ieri il greggio statunitense è risalito fino a 5 dollari per i "futures" di maggio ma è crollato del 52,33 per cento, a 9,74 dollari, per quelli con scadenza a giugno. E anche il Brent, qualità di riferimento per i mercati euroasiatici, e per l' Italia, è sceso per la prima volta da vent' anni sotto i 20 dollari. A pesare è lo stop ai trasporti imposto dall' epidemia di coronavirus. Ma influisce anche la guerra sotterranea fra Arabia Saudita e Russia. Nonostante l' accordo per tagliare la propria produzione a 8,5 milioni di barili al giorno a partire da maggio, dai quasi 11 milioni di adesso, Riad e Mosca sono ancora impegnate a strapparsi quote di mercato a colpi di sconti, e così deprimono i prezzi. Le tensioni sono precedenti alla crisi del Covid-19 e sono esplose nella rottura alla riunione dell' Opec del 4 marzo, quando i sauditi hanno aperto i rubinetti e innescato il collasso. Il terreno principale di scontro è l' Asia. I russi hanno appena lanciato l' oleodotto Espo che li collega direttamente alla Cina e, via il terminal di Kozmino, a Corea e Giappone. Hanno acquisito un vantaggio strategico con costi di trasporto più bassi rispetto alle spedizioni via mare. I sauditi hanno subito reagito con sconti aggressivi, fino a 5 dollari in meno rispetto alle quotazioni di mercato, e li hanno allargati anche all' India. Ma devono affittare superpetroliere, a prezzi sempre più alti in questo periodo di eccesso di stoccaggio. Dalla loro hanno però le più basse spese di estrazione al mondo, appena 3 dollari per un barile contro i 18 dei russi. La battaglia si è poi spostata in Europa. Riad ha concluso accordi con la Polonia, dove ad aprile ha esportato 560 mila tonnellate, circa 100 mila barili al giorno. Varsavia, in compenso, non ha importato neanche un barile del greggio di alta qualità russo, l' Ural. La compagnia di Stato saudita Aramco è sempre più aggressiva, consente ai clienti europei di pagare a 90 giorni dalla consegna, punta a recuperare terreno in Italia, Francia e Germania e persino negli Stati Uniti. Il costo di estrazione per lo "shale oil" americano è più alto, fra i 43 e i 53 dollari, e secondo Artem Abramov, analista della Rystad Energy, ci sono «533 compagnie che rischiano la bancarotta con quotazioni sotto i 20 dollari». I sauditi hanno aumentato il loro export negli Usa a 600 mila barili al giorno, il massimo da due anni, ma hanno ricevuto un netto stop da Donald Trump. Il presidente Usa ha minacciato di bloccare l' import per proteggere la propria industria petrolifera.
Tutti a casa, il coronavirus rende inutile il petrolio: crollo storico. Redazione de Il Riformista il 20 Aprile 2020. Un crollo storico al di sotto dello zero. In un’ondata unica di forti tonfi, gli scambi sul greggio a New York virano addirittura in negativo: il barile Wti (West Texas Intermediate) è precipitato sotto zero dollari, toccando il minimo storico del -305% rispetto alla chiusura di venerdì. Ed è la prima volta . Ad esacerbare i ribassi la scadenza dei contratti a maggio, ma gli investitori si fanno prendere dal panico soprattutto per un accordo, quello tra i vertici di produttori, che ancora non convince. Anche lo spread italiano sembra farsi trascinare dal clima di vendite fino a chiudere a un soffio dai 240 punti base. I listini europei chiudono timidamente in rialzo – compresa Piazza Affari – mentre Wall Street procede in profondo rosso, con il Dow Jones che in apertura segna una flessione dell’1,93% a 23.774,82 punti. Si attesta al di sotto dello zero, in calo del 305% a -36,73 dollari al barile, il prezzo finale del greggio scambiato a New York. Va meglio al Brent – riferimento per il greggio europeo – che cede il 7,41% a 26 dollari a barile. L’accelerazione ribassista dei prezzi dei futures Wti in scadenza a maggio si spiega con la scadenza del contratto, in calendario domani, 21 aprile. Ma anche con l’incertezza legata alla pandemia di coronavirus e soprattutto al taglio della produzione deciso dai membri dell’Opec+ e dal G20. Un’intesa da meno 10 milioni di barili al giorno. I contratti sull’oro nero spingono al ribasso i principali listini europei, che riescono però a mantenersi in territorio positivo. A Londra l’indice Ftse100 termina gli scambi in rialzo dello 0,45% a 5.812,83 punti, a Francoforte il Dax avanza dello 0,47% a 10.675,9 punti, a Parigi il Cac40 sale dello 0,65% a 4.528,3 punti. Fa eccezione Madrid, dove l’Ibex scivola dello 0,64% a 6.831,5 punti. A Milano Piazza Affari termina gli scambi in rialzo dello 0,05% a 17.064,14 punti. Ma lo spread riprende la corsa iniziata qualche giorno fa. A fine giornata il differenziale di rendimento tra Btp e Bund tedesco chiude a 239 punti base, con il rendimento del decennale italiano all’1,94% sul mercato secondario. A innervosire i contratti sul Btp italiano, l’attesa per il Consiglio europeo di giovedì prossimo, che dovrà dare il via libera al pacchetto di aiuti europei per fronteggiare l’emergenza coronavirus. Per allentare le tensioni la Bce ha però potenziato il proprio programma ‘pandemico’ di acquisto titoli. Francoforte fa sapere che il totale degli acquisti di titoli effettuati fino ad oggi nell’ambito del Pepp (pandemic emergency purchase programme) ammonta a 70,674 miliardi di euro.
PERCHÉ CROLLA IL PETROLIO? Da “The Guardian”, dalla rassegna stampa estera di “Epr comunicazione” il 22 aprile 2020. The Guardian spiega in cosa consiste la crisi del petrolio, e se i prezzi rimarranno sempre bassi. I prezzi del petrolio americano sono diventati negativi per la prima volta nella storia lunedì, nel bel mezzo del più profondo calo della domanda degli ultimi 25 anni. Un'inondazione di petrolio indesiderato sul mercato ha fatto precipitare il West Texas Intermediate (WTI), il prezzo di riferimento per il petrolio statunitense, a quasi -40 dollari al barile dopo il più rapido crollo della storia. Ciò significa che i produttori pagano i compratori per disfarsi del petrolio.
1. Perché i prezzi del petrolio americano sono diventati negativi? Il prezzo del petrolio ha subito un calo costante sui mercati globali da quando il coronavirus è scoppiato per la prima volta in Cina alla fine del 2019. Da allora, la chiusura delle principali economie e delle rotte di viaggio per frenare la diffusione del virus ha spazzato via la domanda di petrolio, mentre i trasporti si sono fermati. Ma i produttori di petrolio hanno continuato a pompare greggio dai loro pozzi, causando uno squilibrio catastrofico tra il petrolio in eccesso e il più grande crollo della domanda degli ultimi 25 anni.
2. Cosa significa "prezzi negativi"? In breve: i produttori di petrolio pagano i compratori per togliersi i barili di petrolio dalle mani perché gli impianti di stoccaggio sono pieni fino all'orlo. Al punto più basso del mercato di lunedì, una compagnia petrolifera avrebbe potuto pagare circa 40 dollari per ogni barile di petrolio se qualcuno era disposto a prendere. Un compratore avrebbe dovuto considerare il costo del trasporto del petrolio dal pozzo a un porto di spedizione, o a un impianto di stoccaggio, dove potrebbe dover essere trattenuto per un massimo di sei mesi, con un costo significativo. Dovrebbe anche scommettere che il prezzo del petrolio aumenterà nel corso di quest'anno per ottenere un ritorno sull'"investimento". Nessuna compagnia petrolifera vuole "vendere" il proprio greggio in perdita, quindi è probabile che molti produttori chiudano i loro pozzi fino alla ripresa del mercato.
3. Perché i prezzi del petrolio in altri Paesi sono ancora sopra lo zero? L'eccesso di offerta mondiale di petrolio è particolarmente acuto negli Stati Uniti, che producono circa 10 milioni di barili di petrolio al giorno, perché i serbatoi di stoccaggio del petrolio si sono riempiti, lasciando le compagnie petrolifere in difficoltà a vendere i loro barili in eccedenza. In altre regioni, i prezzi del petrolio sono ancora sopra lo zero, in parte perché devono affrontare costi di trasporto più bassi e un accesso più facile ai porti. Tuttavia, nessun mercato petrolifero è rimasto indenne. Il prezzo del petrolio di riferimento internazionale, noto come greggio Brent, è ancora sopra i 20 dollari al barile, ma è sceso di due terzi da gennaio ai minimi di 18 anni.
4. Cosa significa questo per i prezzi della benzina? È probabile che quest'anno i prezzi della benzina scendano bruscamente a causa dell'improvviso crollo dei prezzi del petrolio e della lunga strada verso la ripresa del mercato che probabilmente ci attende. Ma vale la pena ricordare che il prezzo pagato alla pompa non è un riflesso perfetto dei mercati petroliferi perché i prezzi della benzina e del gasolio includono le tasse governative e un margine di profitto per il venditore. I prezzi negativi del petrolio visti negli Stati Uniti avranno vita breve, quindi nessuno dovrebbe aspettarsi di essere pagato per fare il pieno alla propria auto.
5. È probabile che i prezzi si riprendano? Sì, e abbastanza rapidamente. Il prezzo negativo del petrolio negli Stati Uniti si riferisce in particolare al prezzo del greggio consegnato a maggio, il mese in cui si prevede che la domanda di petrolio sarà più bassa e le forniture più alte. A partire da martedì, i commercianti di petrolio cominceranno a commerciare seriamente i barili per la consegna a giugno, e si prevede che i prezzi saranno molto più alti. Una significativa ripresa dei prezzi del mercato petrolifero dipenderà da quanto rapidamente aumenterà la domanda di carburanti per il trasporto - una rapida fine del blocco accelererebbe la ripresa dei prezzi di mercato, ma un lento emergere dalla crisi Covid-19 potrebbe significare ulteriore sofferenza finanziaria per i produttori di petrolio fino al 2021.
Ettore Livini per “la Repubblica” il 22 aprile 2020. I depositi delle raffinerie sono pieni di petrolio. Le riserve strategiche degli Stati - Usa compresi - non hanno più spazio nemmeno per una tanichetta di carburante. Cisterne e autobotti sono stracolme. E così speculatori e big dell' oro nero - pieni di materia prima che non vuole più nessuno - giocano l' arma finale: parcheggiare il greggio invenduto in alto mare. A bordo di superpetroliere lunghe come tre campi di calcio capaci di caricare 2 milioni di barili l' una. Obiettivo: tentare il colpo grosso. Ovvero tenere il carico in stand-by per non svenderlo oggi, in attesa di una rimbalzo dei prezzi che consenta di guadagnarci domani. La corsa all' accaparramento delle Very large crude carriers (Vlcc) - come si chiamano questi bestioni lunghi oltre 300 metri - è iniziata a febbraio. Allora solo una decina delle 750 navi della flotta mondiale erano state trasformate in "depositi galleggianti". Oggi sono già ottanta, ferme alla fonda davanti a Singapore e nel golfo del Messico con in stiva 160 milioni di barili, il 60% in più del record dopo il crac Lehman. La febbre da maxi-tanker - dicono oltretutto gli analisti - è destinata a salire: il greggio sotto zero ha fatto schizzare la domanda di superpetroliere alle stelle. E malgrado il prezzo d' affitto sia balzato fino a 350 mila dollari al giorno - quasi il 700% in più del normale - le Cassandre vaticinano per fine maggio la trasformazione di 200 imbarcazioni in mega-parking dell' idrocarburo. Il gioco, dicono i guru, vale comunque la candela. Le aziende di mezzo mondo sono chiuse. Gran parte degli aerei mondiali (grandi consumatori di kerosene) è a terra, le auto sono ferme. E l' offerta di petrolio - nonostante i 9,7 milioni di barili al giorno tagliati dall' Opec (l' organizzazione dei Paesi produttori) - supera di gran lungo la domanda, crollata ad aprile del 30%, ai minimi dal '95. E malgrado molti giacimenti abbiano fermato le pompe - negli Usa è attiva solo la metà dei pozzi - ogni giorno vengono estratti 9 milioni di barili in più di quelli che si consumano. L' effetto non è solo il crollo del prezzo. L' altro dramma è che non c' è più posto dove conservare la marea nera in eccesso. Le cicale che non hanno depositi a disposizione sono state costrette a liberarsene a prezzi da saldo, facendo crollare il valore del barile - con la spinta decisiva dei derivati e della speculazione - in territorio negativo. Le formiche che hanno affittato le superpetroliere hanno invece assistito alla "carneficina" sui mercati fregandosi le mani: i due milioni di barili parcheggiati in alto mare su ogni Vlcc - al prezzo di oggi - valgono zero o quasi. Al prezzo dei contratti per consegna del petrolio a giugno - 18 dollari al barile - valgono invece 36 milioni. Cifra che rende economici anche prezzi d' affitto delle supernavi molto maggiori di quelli attuali. La mossa del "contango", come gli squali di Wall Street chiamano queste operazioni ad alto rischio, è un classico dei periodi di alta volatilità in cui chi ha buon fiuto (e una certa dose di fattore "C") può guadagnare tanti milioni in po che ore. Il "Maradona" del settore è da sempre Andy Hall, talentuoso trader di materie prime della Phibro che nel 1990, alla vigilia dell' invasione del Kuwait, convinse il management della società a fare una scommessa da roulette russa: affittare una valanga di cisterne e autobotti e riempirle di greggio puntando sull' esplosione del conflitto nel Golfo Persico. Previsione azzeccata: appena le portaerei Usa hanno iniziato a lanciare i missili su Baghdad, le quotazioni del petrolio hanno messo le ali. E la Phibro ha venduto il suo "tesoretto" guadagnando 100 milioni in un pugno di giorni. Lo stesso che coltivano oggi i furbetti del petrolio che hanno puntato tutto sulle maxinavi in affitto.
Estratto dell’articolo di Giuliano Garavini per “il Fatto quotidiano” il 22 aprile 2020. (…) Come si è arrivati fin qui? Agli inizi di marzo, quando l' emergenza sanitaria aveva cominciato a farsi sentire fuori dalla Cina, Russia e Arabia Saudita hanno rotto l' alleanza che teneva assieme loro e altri Paesi produttori dal 2016 - la Opec Plus - scatenando una guerra per accaparrarsi quote di mercato. La società nazionale saudita Saudi Aramco è arrivata a produrre il suo massimo storico di 12,3 milioni di barili al giorno (mbg). Mai tempistica fu più improvvida. La domanda di petrolio infatti iniziava già a tracollare, anche perché il settore dei trasporti, da quello aereo a quello su strada, andava in ibernazione in tutto il mondo. Tanto per dare un' idea, in Spagna la vendita di carburante per aerei e di benzina per auto è diminuita rispettivamente del 93% e dell' 83% rispetto alla stessa settimana dal 2019. L' Agenzia internazionale dell' energia, solitamente prudente, ha predetto una riduzione del consumo di petrolio di 30 mbg ad aprile e di 10 mbg per il 2020. Sarebbe la prima diminuzione consistente dei consumi dall' inizio degli anni 80. I prezzi del petrolio iniziavano così il loro declino inarrestabile. Poi il colpo di scena. Il presidente Usa Trump, che ha esultato a ogni calo dei prezzi del greggio e definito ogni taglio dell' Opec "un furto", si trasformava nel broker di un accordo fra i Paesi produttori, bombardando di telefonate il presidente Putin e l' erede al trono saudita Mohammad bin Salman. Trump temeva per la bancarotta del settore dello shale americano, nonché per la perdita di occupazione in Stati petroliferi come il Texas, dove l' industria petrolifera rappresenta il 10% del Pil e impiega 360mila lavoratori. Grazie all' intervento di Trump, e con la benedizione dei ministri dell' Energia del G20 , appositamente convocato a Riyad, l' Opec Plus ha faticosamente raggiunto il 12 aprile un accordo definito "storico", con un impegno al taglio di 9,7 mbg per maggio/giugno. Già il giorno successivo allo storico accordo, il mercato prendeva atto che il taglio era assolutamente inadeguato. Molti cominciavano a chiedersi quale fosse la contropartita americana per i tagli Opec Plus, non esistendo alcun concreto impegno americano a ridurre la produzione. A differenza dei leader Opec, infatti, Trump non ha potere sulle decisioni di imprese private. La Texas Railroad Commission, autorità che potrebbe invece intervenire sulla produzione petrolifera del Texas (il terzo maggior produttore al mondo), resta ancorata a un' ideologia liberista che vede nella regolazione il primo passo verso il socialismo. Insomma, a oggi nel mondo non esiste un' impalcatura di accordi internazionali che possa stabilizzare il prezzo del petrolio. Le società petrolifere internazionali (tutte) e quelle nazionali (parecchie) con questi prezzi non sono in grado di generare profitti. L' Eni si era mossa a marzo con vari tagli degli investimenti in previsione di un prezzo del Brent di 40-45 dollari (siamo alla metà). Le società del fracking negli Stati Uniti, che tra il 2006 e il 2015 hanno già speso 80 miliardi in più rispetto alle entrate, rischiano un crac finanziario di proporzioni epocali. I principali Paesi produttori, che dipendono dalle entrate petrolifere per sostenere la spesa pubblica, vedono aprirsi il baratro davanti a loro. Questo vale per l' Arabia Saudita (che può pareggiare il proprio bilancio con un prezzo sopra gli 84 dollari) così come per la Russia (con un break even più basso a 48 dollari). Da questa crisi si può uscire in due direzioni. La prima, molto complicata, è quella "cooperativa". Considerando che i Paesi Opec Plus producono meno del 50% del greggio mondiale e che la domanda sta crollando un accordo per regolare la produzione deve essere globale. Deve coinvolgere strutturalmente, e non solo con i tweet di Trump, anche gli Stati Uniti. Questo significherebbe un intervento statale senza precedenti nel settore energetico, un abbassamento dei margini di profitto per le imprese nel medio periodo e maggiori pressioni pubbliche per velocizzare la riconversione delle società petrolifere verso il low carbon (un percorso già intrapreso, ma a passo di lumaca). L' altra via è quella "competitiva": tutti contro tutti. Questo significa la bancarotta dello shale americano (oppure l' introduzione di dazi commerciali combinata con un impopolare quanto inevitabile salvataggio pubblico del settore), nonché fusioni a raffica tra le imprese energetiche, visto che con prezzi del petrolio e valori in Borsa in calo è più economico comprarsi il petrolio degli altri piuttosto che investire in esplorazione. Queste fusioni potrebbero coinvolgere anche le società nazionali dei Paesi Opec: Saudi Aramco, per esempio, ambisce ad agire secondo una logica puramente "commerciale" e sta già comprando quote di società europee. Se dovesse prevalere lo scenario "competitivo" i prezzi del greggio resterebbero molto bassi nel medio periodo, mettendo in seria difficoltà le energie da fonti rinnovabili rispetto a quelle fossili (a meno di ulteriori incentivi e/o di una corposa carbon tax), e rendendo irrealistici i piani di trasformazione verde presentati da società e governi in quest' ultimo anno.
Fabrizio Ravoni per “il Dubbio” il 22 aprile 2020. il 22 aprile 2020. Thomas Jefferson inviò i marines a Tripoli per molto meno. La prima missione internazionale delle forze armate americane fu a Tripoli nel 1802 per bloccare le scorrerie dei pirati libici che assaltavano le navi cargo americane nel Mediterraneo. Partì così la prima Guerra Barbaresca. Tant’è che l’avventura è citata nell’inno dei Marines. All’epoca, però, gli Stati Uniti non avevano ancora scoperto il petrolio. Thomas Jefferson inviò i marines a Tripoli per molto meno. La prima missione internazionale delle forze armate americane fu a Tripoli nel 1802 per bloccare le scorrerie dei pirati libici che assaltavano le navi cargo americane nel Mediterraneo. Partì così la prima Guerra Barbaresca. Tant’è che l’avventura è citata nell’inno dei Marines. All’epoca, però, gli Stati Uniti non avevano ancora scoperto il petrolio. E’ stato proprio il petrolio a definire il profilo capitalistico degli Stati Uniti a partire dalla metà dell’Ottocento. Chi colpisce il petrolio, colpisce il cuore dell’economia americana. E’ per queste ragioni che il crollo delle quotazioni rappresenta qualcosa di più di un mero fenomeno di mercato. L’altro giorno, il prezzo del Wti ( West Texas Interediate è la qualità di petrolio indicato nelle quotazioni) è stato negativo per 37 dollari il barile. Cioè, i produttori di petrolio pagavano 37 dollari se qualcuno acquistava il loro greggio. Ieri le quotazioni sono migliorate: da - 37 dollari a meno 16 dollari. E, secondo l’esperto Jeff Currie, il fenomeno proseguirà fino a metà maggio. Un crollo di questa portata ha motivazioni economiche, di mercato, ma anche geopolitiche. Quelle di mercato riguardano una sovrapproduzione di greggio, stimata in 30 milioni di barili al giorno. Questa sovrapproduzione è determinata sia dal rallentamento del ciclo congiunturale mondiale, sia dal crollo dei consumi determinati dal Covid 19.Nell’ultimo vertice straordinario dell’Opec, esteso anche alla Russia, i paesi produttori hanno deciso di tagliare la produzione di 10 milioni di barili per tenere alto il prezzo; ma non è servito un granchè. Anzi, ha peggiorato la situazione. Anche perché è pur vero che nel mondo c’è un eccesso di offerta di petrolio, ma è evidente che le cause non sono generate dal mercato, ma hanno matrici politiche. E’ evidente che l’impatto economico del Covid 19 avrà riflessi sulle aree di influenza politica di Russia e Cina. E per potenziare le rispettive aree di influenza, gli Stati Uniti devono ridefinire ( cioè, ridurre) la loro. Per queste ragioni, l’Europa ( stretta alleata americana attraverso la Nato) è stata l’area maggiormente colpita dal virus. Ma gli aiuti russi e cinesi sono arrivati solo in Italia. Poi è stata la volta degli Stati Uniti sul proprio territorio. Ma se l’impatto sociale sulla popolazione, seppure tremendo ( negli Usa non esistono ammortizzatori automatici come in Italia), è stato tamponato dalla Casa Bianca con 3 trilioni di dollari, quello sull’economia reale si sta scaricando attraverso il crollo del prezzo del petrolio. Cioè, il cuore dell’apparato produttivo americano proprio a ridosso di un appuntamento fatidico per gli Usa: la piena autosufficienza petrolifera. In Arabia Saudita estrarre un barile di petrolio costa 9 dollari. In Russia, 19. Negli Usa costa circa 30 dollari. E’ del tutto evidente che quotazioni inferiori ai costi di produzione porta al fallimento delle imprese ( spesso piccole) che estraggono greggio ( shale). Proprio quello che sta avvenendo in queste ore negli Stati Uniti. Trump sta correndo ai ripari annunciando aiuti a pioggia alle imprese di settore ed aumentando di altri 75 milioni di barili le riserve strategiche nazionali. Ma il problema non è di mercato; ma politico. Ed alla Casa Bianca lo sanno benissimo. Ma stanno facendo di tutto per evitare di cadere nella trappola geopolitica innescata dal Covid 19. La Storia ci insegna che il crollo dell’Impero Ottomano comportò la ridefinizione delle aree di influenza occidentale nell’area del Medio Oriente; proprio quelle con le maggiori riserve energetiche del Pianeta. Dopo la seconda Guerra Mondiale ci fu Yalta che divise in due l’Europa. È evidente che per superare la crisi economica mondiale servirà un appuntamento chiarificatore fra le superpotenze. Ed è altrettanto evidente che Cina e Russia hanno tutto l’interesse che gli Stati Uniti arrivino all’evento con un’economia interna in ginocchio. Washington, però, è presidente di turno del G- 20. Ed al G- 20 siedono sia la Russia e sia la Cina. Ed anche l’Arabia Saudita, principale produttore di petrolio e primo alleato degli Usa nell’area del Golfo. Ma in questi giorni inspiegabilmente alleata della Russia nella politica energetica ostile all’America.
Il ricordo del 1973, la grande reazione degli italiani rimasti senza benzina. Paolo Guzzanti de Il Riformista il 22 Aprile 2020. C’era un tempo in cui la gente – seriamente – diceva: “Vedrai che il petrolio finirà, quanto vuoi che ce ne sia, siamo agli sgoccioli”. Correva l’anno e anzi correvano tutti gli anni. Il petrolio era l’unica risorsa per accendere la luce, far camminare i motori e spingere l’economia, anche il cinema andava a petrolio e il petrolio era per quanto ci riguarda tutto in mano araba. Così, successe che dopo una serie di cocenti sconfitte nelle guerre dei Paesi arabi contro il neonato Stato di Israele, l’Egitto e la Siria si accordarono per attaccare di sorpresa lo Stato ebraico durante le sacre festività di Yom Kippur il 6 ottobre del 1973, contando sul rilassamento delle difese israeliane, che infatti furono totalmente colte di sorpresa. Il mondo si spaccò fra filoarabi e filoisraeliani, ma comunque dopo un inizio disastroso Israele si riorganizzò, stravinse e inseguì gli egiziani fino alle porte del Cairo. Fu allora che gli stati arabi produttori di petrolio per ritorsione contro gli occidentali fecero salire alle stelle il prezzo dell’energia e il 3 dicembre ci trovammo tutti in bicicletta. Era bellissimo. Una bici nuova come la mia costava settantamila lire, i bambini avevano la loro e il governo proclamò la Grande Penitenza. Non fu, come oggi, un lockdown per motivi sanitari. Fu proprio proclamata, dal nostro governo e un po’ da tutti i governi del mondo, la penitenza contro la modernità, non soltanto l’automobile, ma contro lo sfarzo, la vita ricca, fu urlato in tutte le salse che “povero è bello” e tutti eravamo contenti perché in fondo si trattava soltanto di qualche domenica e nulla di più.Per chi non c’era o non era in età tale da poter ricordare oggi, proverò a ricordare il mio ricordo. Di un’atmosfera, prima di tutto. Da poco, dal 1970 esattamente, si era cominciato a parlare di inquinamento e la parola ecologia ancora non si usava. Si deprecava la plastica e la si associava al mondo capitalistico guidato dal gretto e sordido proposito di fare soldi e soldi e soldi, mentre il mondo era bello così, senza l’uomo, neanche l’homo faber che sarebbe il sapiens-sapiens dopo il Neolitico. Ci rifugiammo anzi, per iniziativa del governo, in un Neolitico artificiale che però ammazzava un sacco di gente: le prostitute manifestavano con cartelli che dicevano “Lasciateci lavorare almeno a lume di candela”. Era tutto chiuso, era tutto vietato e faceva freddo perché era dicembre e sarebbe stato di lì a poco un Natale bruttino e gelido, con il terrorismo che cominciava a colare sangue, la strage di Piazza Fontana del 12 dicembre del 1969 che era ancora un cupo mistero attuale e c’era questa sensazione di dover espiare la civiltà, fare apostasia dall’essere uomini sapientes et ludentes, ma era anche una fase di grande libertinaggio sessuale. Il femminismo era appena stato importato in Italia dagli Stati Uniti e si erano formati gruppi di meravigliose intellettuali donne che si dividevano e litigavano politicamente come gli uomini e noi uomini “de sinistra” eravamo tutti femministi o almeno ci provavamo e tutti esageravamo in tutto, si vedevano facce truci, molto rivoluzionarie, giravano armi, giravano agenti di ogni razza, terroristi di varie e pregiate risme ma malgrado tutto il mondo – il mio ricordo è focalizzato ovviamente su Roma, la mia città e più che altro su Città Giardino e il quartiere africano e piazza Vescovio, le nostre zone del Salario, tutti a rotta di collo in bicicletta, grandi barbe e capelloni, ancora e per un bel po’ – malgrado tutto, il mondo seguitava a girare e le albe seguivano i tramonti e tutto era ciclico ma anche nuovo e triste e allegro e angoscioso e festoso. Ci avevano tagliato il petrolio ed era stata prevista una catastrofe, come oggi col Covid. Predicavano tutti, dai comizi e dalle università occupate, dalle fabbriche e dalle chiese, e sentivi i politici e i sindacalisti, i preti, i comunisti, i democristiani, i socialisti e i gruppettari e gli estremisti, tutti erano – eravamo – raccolti per famiglie e per sdegni. Volavamo in bici e pedalavamo senza tenere il manubrio e tutti tessevano rapporti sentimentali, la nostra generazione di mezzo – che allora era nel fulgore del sex appeal e del fanatismo – aveva spaccato tutti i tabù dei padri e sarebbe poi incorsa nel fulmini della generazione dei figli, tutti più o meno rientrati in una ortodossia arresa, anche un po’ mesta. Noi invece, con poche eccezioni, spaccavamo tutto e le domeniche dell’austerità erano perfette per questa nuova religione in cui si faceva finta di maledire le automobili e l’America che era sempre colpevole di tutto, salvo che della bella musica che ci inondava, benché anche da noi si facessero belle canzoni e tutti girassero con una chitarra sulla schiena, salvo me che non ho mai imparato. Il pretesto governativo era risparmiare con le domeniche inchiodate, circa 50 milioni di litri di carburante, a botta. Potevano andare in macchina i preti, i medici, i vigili e le forze armate, i pompieri e i veterinari e per fare bella figura la Nomenklatura della politica rinunciava alle auto blu e le multe arrivavano fino a un milione di lire, più o meno mille euro. Il papa Montini, Paolo VI che sarebbe morto dopo il martirio di Aldo Moro di cui era intimo, stava ancora bene e andò in carrozza a piazza di Spagna per l’Immacolata. La gente reagì con spirito carnevalizio. Era in fondo lecito, rinunciando a Satana, la macchina, travestirsi e girare anche su un elefante (si dice, a Palermo) ma più che altro a provare che cosa si prova – vengo anch’io – a camminare in mezzo alla strada, sui binari dei tram, a fare insomma tutto ciò che normalmente o è vietato o è folle fare. Era molto divertente perché tutto si viveva meno che uno spirito quaresimale: si facevano spaghettate domenicali, picnic sull’erba, tutti facevano l’amore dove capitava e tirava un’aria da giudizio universale ma divertente, e tutti giocavano a calcetto e colpivano finestre e saracinesche e statue decapitate, tutti si estasiavano dicendo senti come è bella quest’aria pulita senza i gas delle macchine e la puzza della nafta. Tutti avevamo le tasche piene di gettoni telefonici e le cabine erano assediate e i telefoni non funzionavano e la gente prendeva a calci le maledette macchine, ma si giocava a flipper nei bar con quella pallina che schizzava e si faceva il tifo e c’erano un po’ di luci proibite, ma giusto il minimo indispensabile. Così era l’era dell’austerità Non c’era niente di austero, ma una gran voglia di vivere e di giocare a questo gioco del facciamo finta. Tutti facevamo finta e c’era questa rabbiosa libertà sessuale, questa spontaneità perfino ossessiva del finto ritorno a un’innocenza mai vista e bisogna tener conto che si usciva dal biennio sessantotto sessantanove quando era scoppiato il mondo del vecchio secolo ed era arrivato un nuovo Novecento ancora informe, ma avido di essere e di consumare. Non durò molto: le restrizioni al traffico finirono nel mese di giugno del ’74, dunque erano durate sei mesi, non moltissimo ma abbastanza per lasciare un ricordo. Di ricordi, si sa, ognuno ha il suo. Ma l’immagine di insieme era quella di una nuova gioventù che faceva seguito a quella della vecchia contestazione sul modello tedesco e americano e che veniva su un’Italia ancora confusa e decisamente capace anche di violenza. Questo, oggi, ce lo siamo scordato. Allora, ai tempi delle domeniche dell’austerity, girava, era nell’aria, un clima di violenza imminente e immanente. C’era paura e sfrontatezza, fra tante biciclette e pallonate e canti e cori e padellate e schitarrate. C’era anche una vena di disperazione, questo sì, ma appena una vena e anche lì, ognuno aveva la sua. Ci aspettavano anni terribili, non soltanto per il piombo e gli assassinati e le minacce e le fanfaronate. Ma perché c’era paura di guerra termonucleare, c’era rabbia confusa e tutto quel clima di disperata festosità sarebbe terminato solo con la fine degli anni Settanta, con gli anni fin troppo rilassati ma calorosi degli Ottanta, prima che tutto ricadesse nel nuovo turbine. Oggi il petrolio ti pagano se vai a portartelo via. Allora, era il sangue di Satana e costava più della libertà.
Perché la benzina non scende come il petrolio: la doppia beffa italiana. Redazione de Il Riformista il 21 Aprile 2020. Il petrolio è stato il protagonista assoluto di giornata ieri. La debolezza vista nel corso della giornata è culminata in serata, quando per la prima volta nel mercato dei futures sul petrolio, i prezzi sono capitolati al di sotto dello zero, diventando negativi. Il contratto Wti con consegna a maggio (con scadenza oggi) è precipitato ieri alla chiusura delle contrattazioni sul Nymex di New York, fino al di sotto dello zero, chiudendo a -37,63 dollari al barile. Di fatto significa che i produttori sono ormai disposti a pagare pur di liberarsi delle scorte che non riescono più a immagazzinare. PREZZI SU ANDAMENTI DIVERSI – Ma l’andamento del prezzo del petrolio, il suo storico crollo in questo caso, non si traduce automaticamente in ribassi altrettanto forti alle pompe di benzina italiane, come gli automobilisti hanno ormai imparato a riconoscere. Per confrontarlo basta fare due calcoli: tra il 24 febbraio e il 13 aprile, ultima rilevazione disponibile nell’Osservatorio prezzi carburanti del Ministero dello Sviluppo Economico, il prezzo della benzina ai distributori è calato del 7,9%; il prezzo del petrolio, al netto del tonfo di lunedì, è crollato del 43% passando dai circa 50 dollari di febbraio ai 29 della scorsa settimana.
FATTORI ITALIANI – Dietro l’andamento bivalente dei prezzi ci sono alcuni fattori tipicamente italiani. In partenza va considerato che il prezzo del greggio incidente ormai solo marginalmente sul costo finale della benzina, circa un terzo. Il resto? Circa il 50% se ne va nelle accise che nel corso dei vari decenni hanno permesso ai governi di finanziare di tutto, dalla guerra d’Etiopia di epoca fascista alle ricostruzioni post-terremoto. Il 18% va invece nella tasche dello Stato sotto forma di Iva. Va da sé che per gestori e compagnie, alle prese con una crisi di dimensioni devastanti per le auto rimaste in gran parte ferme nei garage, la scelta obbligata è stata quella di ridurre del minimo il costo del carburane per ‘tamponare’ in qualche modo la crisi dei ricavi, applicando quindi ribassi molto più ‘cauti’ rispetto al tonfo della materi prima.
L’ANALISI SUL FUTURO – L’Agenzia Internazionale dell’Energia ha già avvertito nel suo report mensile che la domanda di petrolio del mese di aprile potrebbe essere inferiore a quella dello stesso periodo del 2019 di ben 29 milioni di barili, al minimo dal 1995. E con i depositi praticamente colmi, la domanda è: dove stoccare il petrolio? Non sorprende che ieri i produttori di petrolio siano arrivati al punto tale da essere disposti perfino a pagare i potenziali acquirenti pur di liberarsi dalla zavorra del loro bene fisico, vista la difficoltà a parcheggiarlo da qualche parte. E l’hub di Cushing non è sicuramente l’eccezione che conferma la regola. Problemi di stoccaggio sono stati rilevati anche negli hub dei Caraibi e del Sud Africa, in Angola, Brasile e Nigeria. Depositi anche qui vicini al massimo della loro capacità, che potrebbe essere raggiunto entro l’arco di qualche giorno, visto che tutto il petrolio che doveva essere consegnato, ora le aziende in lockdown non lo vogliono più. Non ora, almeno, visto che le loro attività produttive ed economiche sono finite in quarantena con il Covid-19. L’offerta, insomma è troppa: “L’offerta di petrolio sta minacciando di mettere sotto pressione l’attività di stoccaggio delle prossime settimane, con l’ondata di petrolio crude che non mostra alcun segnale di discesa – ha commentato Robert Yawger, numero uno del dipartimento di energia presso Mizuho Securities USA, in una nota pubblicata nella giornata di lunedì.Secondo l’esperto, se i livelli di stoccaggio del crude continueranno a crescere ai ritmi attuali, le scorte Usa sfonderanno tutti i loro precedenti record nell’arco di due settimane, raggiungendo la capacità massima tra 8-9 settimane.
· Il Lockdown delle Banche.
Camilla Conti per “la Verità” il 5 maggio 2020. «Non concordo sulla responsabilità civile e penale delle banche. Le abbiamo messe in condizione, togliendo il merito creditizio e con la garanzia diretta dallo Stato, di operare in totale serenità. Non c' è bisogno di uno scudo», ha detto ieri il ministro dello Sviluppo economico, Stefano Patuanelli, nel corso della sua audizione in Commissione alla Camera sul Dl liquidità. Il Mise, dunque, tira dritto su uno degli ostacoli che rischia di rallentare le delibere sull' erogazione dei prestiti fino a 25.000 euro previsti dal decreto varato lo scorso 8 aprile. Qualsiasi concessione di finanziamenti a imprese in crisi o insolventi espone infatti le banche a rischi penali a causa della legge fallimentare in vigore, che andrebbe modificata o congelata appositamente. Altrimenti gli istituti, che prima dello scoppio della pandemia erano finalmente usciti dal tunnel dei crediti deteriorati, non si sentiranno adeguatamente protetti e quindi agiranno con grande cautela. Non a caso l' Abi ha chiesto che il sistema dell' autocertificazione sia esteso anche i prestiti di dimensioni maggiori rispetto ai 25.000 euro. E che, per tutta la gamma dei prestiti non garantiti al 100 per cento, sia estesa la norma dell' articolo 227 bis della legge fallimentare equiparando nei fatti questi prestiti garantiti alle operazioni di concordato per le quali c' è l' esenzione dal reato di bancarotta. Senza dimenticare la questione sollevata dal Procuratore generale antimafia Federico Cafiero De Raho: non è possibile controllare che alcuni mutui possano essere concessi ad aziende in odore di criminalità organizzata. Anche in questo caso, quindi, le banche rischiano di rispondere tanto in proprio, quanto in concorso con gli amministratori e gli imprenditori stessi. L' allarme è stato rilanciato ieri anche dal sindacato: «Qualche banca ha rallentato perché sta pretendendo dal governo uno scudo penale» allo scopo di non essere accusati di reati come «la bancarotta preferenziale o la bancarotta semplice delle imprese a cui concedono i prestiti garantiti dallo Stato», ha detto il segretario generale della Fabi, Lando Maria Sileoni, intervistato da Rai 1. Aggiungendo che «il problema nasce da un decreto farraginoso che sostanzialmente ha sovrapposto delle norme». Se si analizzano i documenti necessari per poter ricevere i prestiti si vede infatti che ne servono da 4 a 22, secondo il tipo di finanziamento e garanzia, contando sia le carte previste dalla legge sia quelle dalle banche. La sensazione del sindacato è che, ai fini della lavorazione delle pratiche di fido con garanzia statale, vi siano due procedure interne «parallele», l' una con i requisiti minimi obbligatori - che permette talvolta di accelerare l' intero iter - l' altra con requisiti aggiuntivi o soggettivi che richiedono tempi e modalità non semplificate. Di certo, il tema è connesso a quello dello scudo penale. Dalle prime indicazioni quando la banca deve approvare anche solo il 10% di rischio richiede un numeroso set di documenti, tra cui compaiono business plan e prospetti previsionali. L' obiettivo è proteggersi dai rischi di incauta concessione del credito in caso di futuro fallimento. Diversi documenti però non sono disponibili subito, non sono nella disponibilità dell' imprenditore richiedente, arriveranno dai commercialisti, dall' Inps. Nel frattempo, secondo i dati aggiornati dall' Abi e dal Mediocredito Centrale, al 3 maggio sono arrivate 72. 660 richieste al Fondo garanzia Pmi per oltre 4,6 miliardi di finanziamenti. Di queste, 52.313 sono le domande per i prestiti fino a 25.000 euro corrispondenti a 1 miliardo e 100 milioni di finanziamenti.
Così si fa morire un Paese, le storie dei troppi no ricevuti dalle banche. Claudio Marincola il 24 aprile 2020 su Il Quotidiano del Sud. Svuotati i pronto soccorso, la pressione si è spostata sugli sportelli bancari. E come in tutte le navigazioni tempestose se il carico scivola bruscamente da un lato all’altro la barca rischia di affondare. Chi fino ieri chiedeva agli scienziati un farmaco salva vita ora si rivolge ai direttori delle banche. Sono loro i nuovi medici. Che non sempre, però, a quanto pare, hanno voglia di trasformarsi in eroi. O meglio: non sembrano per ora aver percepito fino a che punto i loro assistiti abbiano bisogno di cure. Cure non banali, intensive, se non proprio rianimazioni per chi rischia di chiudere e tirare giù le saracinesche una volta per tutte. Le richieste per attivare la concessione di prestiti e di micro-finanziamenti previsti dal decreto liquidità sono già decine di migliaia. Si procede a passo di lumaca. Un esempio: con una certa enfasi Credem, una delle banche d’impresa più solide, ha annunciato ieri di aver perfezionato l’iter delle prime dieci pratiche di piccolo prestito. Avete letto bene: dieci su quattromila domande pervenute finora, precisa l’istituto di credito che ha stanziato un plafond di tre miliardi per sostenere le aziende. Da più parti si segnalano intoppi, lentezze, burocrazie varie. E sono ancora troppe le clausole pubblicizzate sui banner ma non previste dal Dl liquidità. Alcune associazioni di consumatori denunciano, ad esempio, che in alcuni istituti di credito i prestiti concessi ai clienti verrebbero utilizzati per fidi già aperti dalle aziende. Che vuole dire non differenziare le linee di credito e azzerarne i benefici. Concedere prestiti finalizzati a ridurre o ad estinguere i sospesi. È appena il caso di ricordare che il provvedimento varato in pompa magna dal governo prevede prestiti garantiti anche alle piccole medie imprese. La maggior parte delle segnalazioni riguardano però cittadini che hanno chiesto il prestito da 25 mila euro, articolo 13, del decreto liquidità, lettera M. Per le persone fisiche e per le ditte individuali basta una mail. Non è necessario essere correntisti di una banca, né dimostrare alcun calo di fatturato. Serve una auto-certificazione, il prestito si basa sui dati relativi all’anno precedente. Il finanziamento ha un tetto massimo di 25 mila euro ma non potrà superare il 25% dei ricavi del 2019. Lo Stato si fa garante al 100%. È previsto un preammortamento di 24 mesi. In teoria – purtroppo solo in teoria – l’istruttoria della pratica tra inizio e fine dovrebbe risolversi nell’arco di 48 ore. Ma come leggerete spesso, troppo spesso, non è così quasi mai.
L’IMPRENDITORE ANTI-CAMORRA. «Mi chiamo Roberto Vitale, ho 55 anni, sono un imprenditore della provincia di Caserta, a capo di un’azienda che ha 15 dipendenti, attiva nel campo della ristrutturazione e delle costruzioni. La prima volta hanno tentato di intimidirmi nel maggio scorso incendiando la cappella di famiglia al cimitero. La seconda, alla fine di novembre, dando fuoco ai locali dei nostri uffici. Sono legato al mio territorio, dove ancora hanno una grande influenza due noti clan della Camorra. Io non ha paura, ho sempre denunciato qualsiasi tentativo di minacciarmi. Date le difficoltà derivate dall’emergenza Coronavirus ho chiesto alla Banca locale, con tanto di atto legale in carta da bollo, di spalmare in rate più piccole il mutuo che ho acceso tre anni fa. Non se ne parla, mi hanno detto. Ho chiesto allora se potessi fare la domanda per il micro-prestito di 25 mila euro. “Perderebbe solo tempo”, mi è stato risposto. Che devo fare? Lavoro per lo più al Nord – continua l’imprenditore che ha inviato una mail al nostro giornale – con la mia ditta avevamo quasi ultimato la realizzazione di un hangar, a Bologna, per conto del ministero della Difesa. I lavori non si sono conclusi e i pagamenti slitteranno. Cosa devo fare? Vogliono farmi fallire? Non ci riusciranno». Le segnalazioni che seguono sono state raccolte dalla Commissione parlamentare bicamerale d’inchiesta sul sistema bancario presieduta dalla deputata M5S Carla Ruocco. Una delle millequattrocento mail arrivate alla casella di posta elettronica istituita dalla commissione. Tutte le missive sono firmate ma per ovvi motivi di privacy non sono stati diffusi.
“LA RATA DEL MUTUO? PER NON PAGARLA NON LASCI SOLDI SUL CONTO”. Mi sono attivata con la banca per richiedere la sospensione del pagamento della rata del mutuo già da fine marzo. Rendendomi conto che esistevano tempistiche ho pagato regolarmente la rata di marzo e ho inviato richiesta conforme via mail inizio aprile. A metà mese dopo mie telefonate mi hanno chiesto di rinviare documenti. Oggi martedì 21 aprile mi dicono che la pratica non è ancora caricata. Che se per caso non ricevessi ancora risposta di non lasciare soldi sul conto in maniera da non pagare la rata… Io mi rifiuto di usare questo mezzo che non trovo decoroso. Grazie per il vostro intervento.
ZERO FINANZIAMENTI AI “NON MERITEVOLI”. Vorrei segnalare il fatto che il finanziamento a piccole imprese di 25.000 euro con garanzia dello stato la banca non lo concede a tutte le aziende. Deve essere un’azienda sana, con un rating giusto, senza segnalazione in Centrale rischi. Evidenzio che anche le aziende “non meritevoli ” per la banca hanno subito danni da Covid e danno lavoro a tante persone. Noi abbiamo bisogno di aiuto per riaprire.
IL LAVORO È FERMO MA IL MUTUO CAMMINA. «Ho mandato la modulistica per il blocco mutuo ormai 21 giorni fa senza aver nessuna risposta, anzi la mia consulente non mi risponde al telefono neanche tramite messaggio, da Roma mi dicono che ancora non sanno niente, il mio mutuo doveva essere già sospeso dal 10 aprile come da decreto invece mi dicono che sono in debito con la banca di una rata e mi dicono di pagare. Mio marito è fermo, non lavora dai primi di marzo avendo un negozio di autoricambi. Anch’io ferma, come mi devo comportare? Aiutatemi!!!»
NEGARE UN PRESTITO GARANTITO DALLO STATO È UN ABUSO? La mia segnalazione è finalizzata ad avere un chiarimento circa l’istruttoria che le banche effettuano per erogare i finanziamenti fino a 25000 con garanzia al 100% da parte dello Stato. Nel presentare il decreto è stato detto che l’istruttoria sarebbe stata la più veloce possibile, semplicemente presentando pochi documenti (Camera di Commercio, Documenti di Identità e Dichiarazione dei Redditi e/o Bilancio). In questo modo nel giro di pochi giorni il prestito sarebbe stato erogato senza alcuna complicazione. La banca che ho indicato invece, effettua una istruttoria più approfondita andando a verificare che il richiedente non sia segnalato al Crif e nella banca dati dei cattivi pagatori della Banca d’Italia, respingendo il finanziamento in caso di esito positivo. La mia domanda è: tale “approfondimento” è nelle facoltà delle banche effettuarlo o è un “abuso” dell’istituto di credito? considerato sempre il fatto che il prestito è garantito al 100% dallo Stato, quindi a rischio zero per la banca?».
NESSUNA RISPOSTA MUTUO PRELEVATO. «La mia banca chiede oltre autocertificazione dei ricavi 2018 anche il modello unico e/o bilancio. Le banche si attengono alla “Guida operativa” del Fondo di Garanzia. Di snello non c’è nulla! non ho avuto risposta dalla banca pur avendo fatto domanda il 23/03/2020 e il 31/03/2020 mi hanno prelevato la rata del mutuo semestrale dal conto corrente».
LA MIA BANCA TACE MA LA COLPA È ANCHE DI MIO FRATELLO. «Ho inviato la documentazione per la procedura di cassa integrazione aperta dalla mia società alla banca con modulo Mef compilato. Non ho tuttora riscontro circa la possibile accoglienza della domanda. Mutuo cointestato con mio fratello (anche lui in cassa integrazione ma documentazione non allegata perché non richiesta). Segnalo che ha altro mutuo per sua prima casa (cointestato con me) ma per ora abbiamo fatto richiesta di sospensione solo “del mio”. Ps: questa situazione si è creata per l’impossibilità di contrarre un unico mutuo».
“STANCO DI ASPETTARE: PAGO GLI INTERESSI”. «Sono stanco, la banca non sospende il mutuo dicendo che non hanno ancora le direttive, che lo devo fare io personalmente accedendo al sito e facendo richiesta. Sono passati oltre un mese e mezzo, anzi quasi due, e non sono ancora riuscito a sospendere il mutuo tramite il decreto del governo. Alla fine, ho richiesto di sospenderlo tramite la banca con tanto di interessi maggiorati perché non ho potuto più aspettare».
SE LA BANCA SCOMPARE E NESSUNO RISPONDE. «Nessuna risposta per accesso al fondo di garanzia, ad un fido per pagare le tasse e carta di credito per avere un minimo di scoperto! Via telefono è sempre occupata per un appuntamento, via mail nessuna risposta da vari giorni». «Chiedo attenzione per le persone come me segnalate in Crif. L’impossibilità di mettersi di nuovo in bonis a causa della segnalazione. Essere marchiati perché non si è riuscito a pagare rate mutuo prima casa, causa crisi economica. Ormai nessuno ti fa credito per risolvere la posizione della banca dove hai contratto il mutuo. E nessuna banca si prende il debito di un’altra, solamente se hai garanzie buone, dare la possibilità di tornare a vivere, perdere la casa tutto ciò che hai investito per anni perché la banca è ostica. Si faccia una moratoria».
LA MIA BANCA NON ADERISCE: AIUTATEMI. «Sono amministratore di una srls attiva dal 25 ottobre 2012, attiva nel settore ristorazione. Volevo accedere al finanziamento garantito al 100% fino a 25mila euro. Occorrono 8000 euro per ripartire, ho scaricato e compilato il modulo dal sito del Ministero, fatto l’auto-dichiarazione di azienda chiusa a causa del Covid e ho contattato la mia banca per avere l’indirizzo mail presso cui mandare la richiesta. Premetto che sono correntista con conto aziendale con questa banca dal 2016. La banca ha prima risposto che aspettava il decreto per organizzarsi e poi, quando, ho fatto notare che il decreto era stato pubblicato sulla gazzetta ufficiale l’8 aprile 2020, mi ha risposto che si occupa solo di credito al consumo e ha deciso di non aderire a questo finanziamento garantito e a nessun tipo di finanziamento per le aziende. Mi chiedo se sia regolare rifiutarsi di erogare finanziamenti dello Stato e soprattutto se sia legittimo visto che il decreto chiaramente dice che tutte le banche devono erogare questi finanziamenti. E mi chiedo ancora: perché la mia banca apre i conti correnti alle aziende se non intende offrire loro alcun tipo di servizio? Ci rendiamo conto del danno che sto per avere? Dopo 8 anni, chiuderemo per colpa della banca. Perché adesso nessuna banca erogherà finanziamenti a nuovi correntisti. Aprire un conto con le banche per una azienda chiusa è praticamente impossibile. Sono sconcertata spero facciate qualcosa». «La mia banca ci sta negando moratoria relativamente ad un finanziamento in essere (importo originario 10.000; importo da estinguere euro 890 circa), definendoci come ad alto rischio di deterioramento. Si basano su esito Crif per una errata segnalazione. Questa situazione è determinata da una segnalazione effettuata da altro istituto con il quale abbiamo lavorato in passato, e ci segnala in Crif per 30.000 euro, quando in realtà abbiamo concordato un piano di rientro e attualmente dobbiamo estinguere l’ultima rata che ammonta a 452 euro. Chiediamo aiuto in termini reali».
Il "Cura Italia" così non serve, dalle banche troppe scorrettezze. Claudio Marincola il 25 aprile 2020 su Il Quotidiano del Sud. “Ci arrivano ogni giorno centinaia di segnalazioni che noi gireremo sotto forma di esposti alla Banca d’Italia. Ci sono ancora troppi comportamenti scorretti. Le banche devono sbrigarsi. Non c‘è motivo per cui i prestiti garantiti dallo Stato non vengano concessi ai cittadini e alle imprese. E non vorrei che ogni giorno che passa si trovassero altri lacci e lacciuoli per inibire le erogazioni. Perché così, con questo andamento al rallentatore, il decreto Cura Italia non serve”.
COMPORTAMENTI FRAUDOLENTI. Nel Parlamento semi-chiuso per Covid 19, c’è una Commissione che ha continuato a lavorare tutti i giorni: la Bicamerale d’inchiesta sul sistema bancario, presieduta dalla deputata M5s Carla Ruocco. “Non ci siamo mai fermati, sia pure rispettando tutte le regole di distanziamento o lavorando da remoto”. Nelle prime audizioni i vertici di Bankitalia e Abi hanno preso atto delle tante denunce presentate dai cittadini. Nel giro di pochi giorni sono pervenute alla Commissione 1.400 segnalazioni, altrettanti “no” a richieste di prestito e moratorie. Lo stesso Giovanni Sabatini, direttore generale Abi ha ammesso che da parte di alcuni istituti di credito “ci sono stati comportamenti fraudolenti e fuorilegge”, comportamenti sui quali gli organi vigilanti dovranno intervenire.
LE BANCHE COME I COVID HOSPITAL. Le banche nella fase 2 avranno la stessa funzione che i Covid-Hospital hanno avuto finora. Dovranno dare al Paese la possibilità di rimettersi in piedi senza che sia iniziata una vera e propria convalescenza giacché bisognerà convivere ancora a lungo con il virus. L’iter per l’accesso al credito delle aziende in difficoltà presenta delle complessità. E’ di ieri l’allarme lanciato dal Consiglio nazionale dei Commercialisti, manca un allineamento tra i due canali di garanzia proposti: quello Sace, per cui le banche possono ottenere la garanzia pubblica al 90% solo se erogano finanziamenti che si traducono in pratica in una nuova finanza per i beneficiari, e quello delle Pmi, per il quale la garanzia pubblica è all’80%, anche se si danno finanziamenti che si traducono in una nuova finanza per i beneficiari fino al 10%, e il resto per rinegoziare esposizioni debitorie già in essere. Molte aziende sono finite loro malgrado nel buco nero della Centrale rischi. Specie al Sud il contagio, per restare nella metafora, è altissimo. Un piccolo “incidente”, magari risalente a molti anni fa, è bastato per marchiarle a vita. Tagliarle fuori dalla ripresa vorrebbe dire annullare i benefici del Cura Italia. Senza il bazooka europeo, private di un qualsiasi sostegno, della promessa liquidità “da ottenere nel giro di 24/48, condannate a sicura morte. “Bisogna analizzare caso per caso – riprende la Ruocco – perché altrimenti continueremo a penalizzare sempre le stesse aziende. Bisogna capire il motivo per cui si è iscritti alla Centrale rischi. Non si può fare un ragionamento unitario sulle crisi pregresse. Ognuna è diversa dall’altra. Anche perché, diciamolo, a beneficiare del prestito finora sono stati in pochi. E se si continua a ridurre la platea…”.
FERMARE LE SEGNALAZIONI DI INSOLVENZA. Che fare, dunque? “La prima cosa da fare è cominciare a fermare le segnalazioni alla Centrale rischi per le imprese insolventi. È stato fatto, mi chiedo? Qualcuno ha verificato questo? La ratio del decreto Cura Italia è quella di aiutare le imprese in difficoltà. Se le iscriviamo nel registro della Centrale rischi o le condanniamo a vita stiamo contravvenendo allo scopo principale del decreto. L’altra domanda che pongo, e scusate se insisto, è questa: se lo Stato si fa garante, perché le banche stanno ostacolando la concessione dei prestiti?”. Una percentuale altissima delle segnalazioni recapitate alla Commissione bicamerale riguardava proprio questo aspetto specifico. La contraddizione di uno Stato che ti tende una mano promettendoti – a parole – un prestito ma che un minuto dopo ti inserisce nel registro dei cattivi pagatori se ritardi nel pagamento del rateo del mutuo. “Le banche ora sanno che noi abbiamo acceso una lente su di loro. Da mercoledì prossimo riprenderemo le audizioni, quindi Bankitalia sarà riconvocata e sentiremo in che modo è stato affrontato questo punto”: Le imprese che possono beneficiare di prestiti fino a 25 mila euro sono circa 3 milioni, secondo l’Abi. Da qui la cautela mostrata da molti istituti bancari. La procedura in teoria è molto semplice, non bisogna presentare un bilancio e neanche l’ultima dichiarazione dei redditi. Ma è chiaro che fare presto non vuol dire non vigilare. “Se un’azienda è fuori mercato da anni e vuole sfruttare il Coronavirus per rilanciarsi senza avere alcun requisito allora sono d’accordo anch’io – spiega la Ruocco – Ma, se c’è un business plan, un piano di ristrutturazione, questo non è difficile da verificare”. La Commissione in tutte le audizioni tenute finora ha ribadito l’importanza di recepire i provvedimenti del governo e fornire ai clienti le modalità per ricorrere alla moratoria. E fin qui tutto bene. Peccato però che i ritardi nei pagamenti dei mutui e dei prestiti, a quanto pare, verranno comunque segnalati perché altrimenti le banche e le società finanziarie non avrebbero informazioni aggiornate sui comportamenti dei clienti rispetto ai debiti contratti”. “Queste segnalazioni di insolvenza – conclude la Ruocco – vanno assolutamente fermate”.
Decreto liquidità, disastro vero: da Sace prestiti solo a tre aziende. Carlo Porcaro il 7 maggio 2020 su Il Quotidiano del Sud. Il decreto illiquidità è un vero e proprio disastro. A certificarlo, dati alla mano, è stato direttamente l’amministratore delegato di Sace, Pierfrancesco Latini, nell’audizione svoltasi ieri mattina alla Commissione bicamerale d’inchiesta sulle banche presieduta da Carla Ruocco. «Sace, con Garanzia Italia, ha realizzato tre primi interventi presentati da due banche diverse ed è pronta a ricevere ulteriori richieste di garanzie per finanziamenti, che ci risultano al momento pari a circa 170 potenziali operazioni per circa 12,5 miliardi», ha detto nella sua relazione priva di dati precisi. Avete capito bene, è proprio il caso di dire: ricomincio da tre. Appena tre aziende.
Collegato in remoto mentre i parlamentari erano presenti fisicamente, Latini è stato messo sotto accusa. «Nelle risposte fornite ho riscontrato troppa vaghezza: faccia mente locale e sia più puntuale. Non è esattamente quello che ci aspettavamo come Commissione: la farò contattare dai miei uffici per chiedere informazioni più dettagliate per iscritto», è stata la replica lapidaria della Ruocco, autodichiaratasi «insoddisfatta» della relazione al termine della seduta, durata appena un’ora. Latini è venuto meno, dinanzi a una Commissione d’inchiesta, rispetto al dovere di spiegare con la massima trasparenza e precisione tutti i passaggi che una partecipata di Stato sta compiendo in una fase così delicata per il Paese.
I NUMERI. A un mese dall’annuncio del premier Conte di 200 miliardi di liquidità garantiti dallo Stato a sostegno delle imprese, è stato coperto lo 0,1% del plafond totale. Briciole, quindi, per le imprese colpite dalla crisi del Covid-19. Se doveva essere un bazooka, quello della società Servizi Assicurativi del Commercio Estero – che a regime ordinario offre servizi assicurativo-finanziari per operare sui mercati internazionali – è decisamente scarico. Quindi inutile, al momento. A dimostrazione che affidare ad una piccola struttura dedita alle garanzie per le esportazioni, come Sace, non è stata la scelta più efficace per rispondere alle esigenze degli imprenditori che invece necessitano di denaro fresco e immediato per non chiudere i battenti per sempre. Eppure, secondo Latini, il suo team di 100 persone operativo dal 7 aprile «sta lavorando bene e lo testimoniano i primi numeri». In sintesi, un mese di task force in collaborazione con l’Abi per aiutare appena tre aziende.
LA RELAZIONE. L’ad della società facente capo a Cdp ha premesso che siamo dinanzi «alla più grande crisi economica dal secondo dopoguerra». In questo quadro si sono inserite, appunto, le disposizioni del Cura Italia, e nello specifico il decreto liquidità, con cui finanziare le attività economiche in difficoltà. «Siamo abilitati a rilasciare garanzie per finanziamenti alle imprese entro l’importo massimo di 200 miliardi di euro, per aziende sia grandi che piccole, purché con attività produttive basate in Italia – ha spiegato – La garanzia dura al massimo per 6 anni. Si tratta di nuovi finanziamenti che non si possono utilizzare per rifinanziare prestiti già in essere, che resteranno invariati per i 12 mesi successivi: il prestito sarà erogato infatti su conto corrente ad hoc per poterne verificare la destinazione ed evitare intromissioni della criminalità organizzata». Quanto agli oneri finanziari, il costo della garanzia, è fissato dal decreto in base all’entità dell’azienda e alla durata del prestito, tra 0,25 e 2%. Il meccanismo è stato presentato come liscio e semplice, con una narrazione totalmente contrapposta all’evidenza degli scarni numeri. «Si va dalla richiesta alla banca al processo istruttorio, poi viene girata la richiesta a Sace, una volta verificato l’esito positivo rilasciamo la garanzia ed infine la banca eroga il prestito garantito dallo Stato. I controlli saranno ex post, in casi di gravi inadempimenti ci può essere la revoca del prestito». Sono 170 le banche che stanno lavorando per la strutturazione e la successiva presentazione delle richieste. Ad esito di queste attività, ha proseguito Latini, le banche potranno presentare, già dai prossimi giorni, le richieste a Sace «che procederà, nel caso di processo semplificato, al rilascio delle garanzie in 48/72 ore».
LE INCONGRUENZE. Secondo alcuni componenti della Commissione d’inchiesta, le notizie provenienti dalle imprese sui tassi d’interesse praticati dalle banche non corrispondono alle rassicurazioni fornite dai vertici di Sace. Ha messo le mani avanti poi Rodolfo Errore, presidente di Sace, intervenuto in apertura dei lavori: «Siamo consapevoli di dover ascoltare i rappresentanti istituzionali, ma noi siamo mero strumento di attuazione: abbiamo preso in carica iniziativa del governo. In pochissimo tempo abbiamo attivato la struttura per il sostegno alle imprese, siamo un agente dello Stato. L’obiettivo è la coesione nazionale». Un modo per non assumersi la responsabilità di ritardi e complicazioni dovuti ai tanti passaggi burocratici.
I REQUISITI. Da ricordare che Garanzia Italia prevede il rilascio della garanzia in diverse percentuali, in base alla dimensione e al fatturato dell’impresa beneficiaria: le imprese con meno di 5.000 dipendenti in Italia e un fatturato inferiore o pari a 1,5 miliardi di euro ottengono una copertura pari al 90% dell’importo del finanziamento richiesto e per queste è prevista una procedura semplificata per l’accesso alla garanzia; la copertura scende all’80% per imprese con oltre 5.000 dipendenti e un fatturato fra 1,5 e 5 miliardi di euro; scende al 70% per le imprese con fatturato sopra i 5 miliardi. Misure necessarie, ma utili solo nella misura in cui diventano efficaci in breve tempo. Altrimenti il disastro si tramuterà in catastrofe.
· Il Lockdown della RCA.
Effetti positivi del Covid-19: incidenti stradali gravi ai minimi. Matilde De Rossi su Il Riformista il 30 Aprile 2020. L’isolamento al quale siamo stati costretti negli ultimi due mesi pare proprio che non abbia portato con sé nulla di buono. Invece un lato positivo c’è: stare a casa ci “protegge” dai pericoli ai quali solitamente siamo esposti. In particolare da quello, che in Italia è considerato la prima causa di morte tra i 15 e i 34 anni: gli incidenti stradali. Nel 2018 in Campania sono si sono verificati 9.721 incidenti stradali che hanno causato la morte di 206 persone e il ferimento di altre 14.643. Rispetto al 2017, sono diminuiti gli incidenti (-2%) e il numero di vittime (-14,9%) con decrementi percentuali superiori a quelli rilevati nell’intero Paese (rispettivamente -1,4% e -1,3%); il numero di feriti si è ridotto (-0,9%) poco meno della media nazionale (-1,6%). L’ultimo rapporto dell’Istat fa riferimento a due anni fa e l’indagine ha abbracciato l’intera Regione. Non soni stati ancora resi noti i dati del 2019, ma guardando quelli degli anni passati riusciamo ad avere un quadro più o meno chiaro del numero di incidenti avvenuti in Campania. Stringendo il campo di indagine, però, e sfogliando i report con i numeri dell’anno appena trascorso, siamo in grado di comprendere cosa è cambiato nel capoluogo partenopeo con l’arrivo dell’emergenza Covid-19. “Dall’inizio del lockdown, quindi dal 10 marzo, alla fine di aprile – spiega Antonio Muriano, capitano della sezione infortunistica della polizia municipale di Napoli – abbiamo registrato 206 incidenti. Si è trattato quasi sempre di episodi poco gravi che, nella maggior parte dei casi, non richiedevano il trasporto in ospedale”. Ma cosa succedeva nella nostra città l’anno scorso? “Nello stesso periodo del 2019 – continua Muriano – si sono verificati 781 incidenti e tre decessi”. Praticamente con la “serrata” imposta dal governo per il contenimento del contagio, si è verificato un terzo degli incidenti stradali e addirittura il 95% in meno di incidenti gravi che, come tali, avrebbero richiesto il ricovero in ospedale. La squadra mobile interveniva soprattutto sul luogo di incidenti gravi, ma con l’arrivo del virus anche queste dinamiche sono cambiate. “In questi mesi – conclude Muriano – abbiamo la fortuna di intervenire anche sul luogo di incidenti banali come un tamponamento tra due auto, proprio perché non siamo impegnati con quelli più gravi, controlliamo anche se i coinvolti avevano ragioni valide per circolare”. Dai controlli effettuati è emerso che solo un terzo delle persone controllate è stato sanzionato perché non presentava l’effettiva necessità di lasciare il proprio domicilio.
Maurizio Caprino per ''Il Sole 24 Ore'' il 27 aprile 2020. Quanto sta risparmiando il sistema assicurativo sulla Rc auto, la copertura più importante, per le forti limitazioni alla mobilità personale dovute al coronavirus, con cali di traffico e incidenti stimati in circa l' 80%? Una risposta arriva ora, alla vigilia della prima ripartenza: le compagnie stanno risparmiando circa 25 milioni di euro al giorno. Che, moltiplicati per i quasi 60 giorni di blocco, fanno quasi un miliardo e mezzo. Potranno questi soldi tornare nelle tasche dei consumatori? La risposta è complessa: c' è anche il rischio che con la fase 2 gli incidenti aumentino più del consueto, erodendo il tesoretto attuale. Il metodo di calcolo La stima dei risparmi viene dalla direzione Studi e ricerche dello Sna (Sindacato nazionale agenti assicurativi). Si è partiti dal calo della mobilità per i veicoli leggeri, che varie fonti (dati provenienti da scatole nere e statistiche di gestori autostradali) concordano nel determinare attorno all' 80%. Poi, sulla base degli incidenti rilevati da alcune forze di polizia, si è visto che i sinistri sono diminuiti nella stessa misura del traffico. Sui costi di liquidazione pesano anche tanti incidenti su cui le forze dell' ordine non intervengono, ma l' esperienza dice che l' andamento dei sinistri solo denunciati alle assicurazioni (circa 6mila al giorno, in tempi normali) è analogo. Presunto così il calo degli incidenti, lo si è tradotto in risparmio attribuendo a ciascuno di essi il valore medio che risulta dalle statistiche Ania per il 2018: 4.537 euro. Il tutto è stato parametrato su base giornaliera, in modo da poter calcolare il risparmio totale facendo una moltiplicazione per la durata del blocco, quando il lockdown sarà revocato. Il miliardo e mezzo di risparmio è stato poi suddiviso tra le compagnie sulla base dei premi che ciascuna ha incassato nel 2018. Ne è uscita la simulazione che si vede nella tabella a destra. Tesoretto con incognite Il miliardo e mezzo risparmiato sinora sulla sola Rc auto equivale a oltre un terzo dei 4,5 miliardi di utili totali 2018 dell' intero settore assicurativo. Ed è il triplo degli utili del settore Rc auto. Non pare un caso se l' Ivass con la pandemia ha sensibilizzato le compagnie e per loro l' Ania ha annunciato iniziative di vicinanza ai clienti, decise in autonomia: dilazioni di pagamento nei rinnovi di polizza, flessibilità sulla possibilità di sospendere le polizze in caso di mancata circolazione, sconti sul prossimo rinnovo considerati equivalenti al periodo di lockdown. L' Ivass valuta positivamente, ma annuncia vigilanza sulla correttezza dei comportamenti. E in effetti qualcosa non convince: gli sconti, concessi sotto forma di voucher da 30-40 euro, possono indurre i clienti a fruirne passivamente alla scadenza della polizza, rinunciando a cercare sconti maggiori dalla concorrenza. Anche perché il nuovo comparatore ufficiale dell' Ivass, annunciato due anni fa per facilitare la ricerca, è fermo per la mancanza della norma sul contratto-tipo da usare per i confronti. «E continuano ad arrivare proposte di rinnovi polizza con rincari rispetto all' anno scorso», lamenta Massimiliano Dona, presidente dell' Unione nazionale consumatori. Le compagnie si tengono prudenti anche perchè nessuno può prevedere se il tesoretto da lockdown sarà cancellato da un' impennata dei sinistri quando si riprenderà: con i limiti anti-contagio ai mezzi pubblici, le persone useranno molto di più quelli privati. Anche se lo smart working potrebbe attenuare il fenomeno e la movida faticherà a riprendere, cosa che potrebbe far diminuire i gravi incidenti del sabato sera. Nel dubbio, Fabrizio Premuti, presidente di Konsumer Italia, vede di buon occhio anche i voucher: «Non sono il massimo, ma sono agevolazioni immediate destinate a essere offerte da tante compagnie, ripristinando la concorrenza. L' alternativa sarebbe chiedere compensazioni al prossimo rinnovo, quando però le compagnie potranno rispondere che l' aumento dei sinistri induce prudenza sui prezzi». Tra i preoccupati per i voucher ci sono gli agenti, che temono siano iniziative per avere tutti i dati dei clienti e contattarli direttamente: «Le compagnie hanno il dovere (e l' interesse) di impegnare una minima parte del risparmio da lockdown per mantenere in vita il sistema delle agenzie, rimaste aperte durante l' emergenza perché riconosciute essenziali dal Governo», dice Claudio Demozzi, presidente Sna.
Rc auto, il report di Ania: il calo c’è, ma di soli 4 euro. L’associazione delle imprese assicuratrici calcola un -1% tra marzo 2020 e marzo 2019. Ma in diversi casi il risparmio è maggiore: Altroconsumo e Facile.it stimano un -8%. Federico Formica su La Repubblica il 30 Aprile 2020. Con il lockdown il traffico stradale è sceso di quasi l’80% e gli incidenti del 68%. E anche l’assicurazione auto, il cui costo viene calcolato soprattutto sulla probabilità di un incidente stradale, dovrebbe diminuire. Ma è davvero così? La risposta è sì, un calo del premio c’è, ma è difficile capire se è minimo o, invece, tale da portare un reale beneficio ad automobilisti e motociclisti. Secondo l’ultimo rapporto di Ania (l’associazione che riunisce le imprese assicurative) nel periodo marzo 2019-marzo 2020 il premio medio rc auto è sceso di appena l’1%, che equivale a quattro miseri euro: da 343 a 339 (la cifra è “prima delle tasse”, non considera perciò imposte né contributo al Servizio sanitario nazionale). Anche se è la stessa Ania a specificare che il calo medio potrebbe essere più marcato, perché la stima non tiene conto di “variazioni contrattuali o di eventuali ulteriori sconti” offerti ai clienti ma solo del premio pagato da chi è rimasto fedele alla propria compagnia, c’è chi considera questo 1% insufficiente. "Considerato il blocco degli spostamenti iniziato in tutta Italia il 10 marzo, considerando il solo mese scorso, lo sconto, per quei 21 giorni di fermo, avrebbe dovuto essere pari a 23 euro, pari al 5,75% del costo medio della polizza comunicato ufficialmente dall'Ivass, pari a 404 euro, imposte comprese" afferma Massimiliano Dona, presidente dell'Unione nazionale consumatori. "Se poi consideriamo che il blocco durerà fino al 3 maggio, ossia durerà 55 giorni, allora il bonus dovrebbe essere pari a 61 euro, pari al 15 per cento, ossia 15 volte lo sconto dell'1% comunicato dall'Ania" conclude Dona. Poche ore dopo la pubblicazione dello studio di Ania anche Facile.it ha divulgato la propria rilevazione che è più rosea. A marzo 2020, rispetto al marzo 2019, il calo è dell’8%. Il campione è diverso, Facile.it infatti ottiene il dato sulla base dei preventivi fatti sul proprio portale, che non ospita tutte le compagnie assicurative ma solo il 55%, un campione comunque affidabile. Tuttavia la differenza con Ania è notevole: 7 punti percentuali in più. Ma il -8% è lo stesso risultato al quale è arrivata anche Altroconsumo in un’indagine condotta in quattro città per due profili di rischio (quarantenne in classe 1; ventottenne in classe 6). In questo caso il periodo preso in considerazione è molto interessante perché abbraccia l’Italia pre-Coronavirus con l’Italia di oggi, pienamente investita dall’emergenza sanitaria e dal lockdown: gennaio 2020-marzo 2020. I risultati delle tre rilevazioni non sono del tutto confrontabili proprio perché è il campione a variare di volta in volta, ma danno comunque la misura di una tendenza. Su una cosa sono concordi Facile.it, Altroconsumo e un’altra associazione che abbiamo interpellato, Adiconsum: il premio medio di aprile dovrebbe essere ancora più basso. “Non è assolutamente da escludere” spiega Andrea Di Palma, segretario nazionale Adiconsum. “Di certo, il vero vantaggio ce l’ha chi a marzo e ad aprile ha rinnovato o rinnoverà l’assicurazione. Ma quando il lockdown finirà mi aspetto un rialzo dei premi”. Molto simile il parere di Diego Palano, managing director assicurazioni di Facile.it: "Superata la fase di incertezza dovuta al Covid-19 ci aspettiamo un rincaro misurabile dei prezzi". Da Altroconsumo, pur confermando la sensazione di un aprile ancora più conveniente per gli automobilisti, sono più cauti sul post-lockdown: “Non è facile prevedere cosa accadrà al mercato dell’rc auto - fanno sapere - un po’ perché i sinistri sono solo uno di tanti fattori, e poi perché la ripresa sarà graduale e non possiamo neanche escludere altre chiusure, per aumento dei contagi”.
Coronavirus: ogni assicurato Rca perde 33,6 euro al mese. La Sicilia il 19 Aprile 2020. Il Codacons ha calcolato che ogni assicurato in questo periodo «perde ogni mese 33,6 euro» considerando una polizza media da 404 euro (dato Ivass). Una cifra, spiega l’ associazione dei consumatori «più elevata per i residenti al sud e per i neopatentati, che arrivano a pagare anche più di 1.000 euro all’ anno per la Rc auto. Calcolando che le auto assicurate sono 39 milioni, il danno economico per gli automobilisti è di 1,3 miliardi di euro al mese». Il tutto mentre i sinistri a marzo sono scesi dell’ 80%. Codacons ha chiesto al Governo ed all’ Ivass misure per rimborsi parziali del costo della polizza anche attraverso sconti sui rinnovi o di destinare i maggiori profitti a sostegno delle famiglie.
Ecco come il Coronavirus strizza l’occhio alle compagnie di assicurazione. Sono tanti - e troppo spesso dolorosi - gli effetti del contagio, ma per alcuni gli affari vanno meglio. Fra questi il settore della RCAuto. Enrico De Vita su automoto.it il 16 marzo 2020. Riflessioni in tempo di pandemia. C’è una categoria, che senza ingegnarsi a scovare vie alternative, vede incrementare sul Coronavirus i propri margini senza battere ciglio. Sono le compagnie di assicurazione per la responsabilità civile auto, RCA. Da due settimane e in qualche zona anche da quattro, il traffico automobilistico è quasi inesistente, diciamo ridotto almeno del 90%. Quello merci, invece, è sceso molto meno, forse del 20%. I consumi di gasolio e di benzina sono l’indice più rivelatore di questo calo. Che, è evidente, porterà a una riduzione vertiginosa degli incidenti stradali, per tre motivi:
- circolano molte meno auto, all’incirca il 10% del normale;
- quelle poche adottano un comportamento prudente per la insolita presenza di agenti sulle strade;
- i veicoli merci, per la prima volta, circolano in mezzo a poche autovetture, quindi in condizioni di fluidità;
- ma soprattutto sono spariti pedoni e ciclisti, che costituiscono da qualche anno la fascia più a rischio della RCA, con oltre 1.000 vittime sulla strada, contro un totale generale di 3.300 decessi.
Il risultato non può che essere una riduzione generale della velocità, delle alterazioni dell’andatura del traffico, del numero degli incidenti e delle lesioni conseguenti.
Un debito di coscienza. In altre parole senza alcun merito le compagnie si troveranno ad aver incassato premi sulla base di risultanze del passato, ma di andare incontro a un periodo nel quale gli indennizzi scenderanno notevolmente. E la cui entità dipenderà dal tempo della quarantena. Non aggiungiamo altro. Il Paese è in affanno e piange le sue vittime, non vorremmo però che qualcuno si stropicciasse le mani. Al contrario, siamo pronti ad applaudire quelle compagnie che, coscienziosamente, sapranno tener conto di guadagni immeritati e di restituirli l’anno prossimo ai loro clienti. Non come già avvenne all’epoca della patente a punti, quando gli incidenti scesero del 30% - per solo merito degli automobilisti - ma le polizze rimasero invariate mentre i pedaggi autostradali crebbero proprio grazie alla riduzione degli incidenti. Alzi la mano chi è d’accordo.
Rimborso Rc auto coronavirus: come funziona e chi può averlo. Fiammetta Rubini il 22 Aprile 2020 su money.it. Auto ferma per lockdown: c’è il rimborso o la sospensione dell’Rc auto (ma non per tutti). Ecco come funziona, chi può richiederlo e come fare domanda. Un rimborso dell’assicurazione, anche attraverso sconti sul rinnovo della polizza, vista l’impossibilità di utilizzare la propria vettura durante il lockdown. È questo l’appello lanciato dal Codacons al Governo e all’Ivass (Istituto per la Vigilanza sulle Assicurazioni) per tutelare proprietari di auto e moto fermi da inizio marzo a causa dei provvedimenti anti-contagio. E alcune compagnie assicurative hanno già provveduto, come Unipol, che offre la possibilità di avere un rimborso mensile dell’Rc auto ai suoi clienti attraverso un voucher. L’iniziativa di Unipol per il momento è un unicum nel panorama nazionale, ma è probabile che anche altre compagnie si stiano organizzando per offrire al più presto il rimborso dell’Rc auto a causa del coronavirus. Intanto vediamo chi può richiedere il rimborso dell’assicurazione auto e moto e come funziona.
Rc auto e coronavirus: come chiedere il rimborso dell’assicurazione. I clienti Unipol che hanno un contratto di polizza RCA in vigore alla data del 10 aprile possono richiedere il rimborso di un mese sotto forma di voucher, che avrà il valore di un mese del premio RCA pagato. Niente rimborso di denaro, quindi, ma solo come voucher che può essere usato per i prossimi rinnovi.
In Unipol ci spiegano che per fare la richiesta di rimborso bisogna andare su questo sito. Una volta ricevuto il voucher sarà necessario attivarlo sull’app UnipolSai (che bisogna scaricare) e poi comunicarlo, in sede di rinnovo annuale della polizza, alla propria agenzia di riferimento. L’importo del voucher va dai 20 ai 35 euro e viene calcolato dal sistema di preventivazione a partire dal 22 aprile. Il cliente potrà utilizzare il coupon entro il 31 maggio 2021.
Niente rimborso Rc auto? I rischi per chi non rinnova l’assicurazione. Con il veicolo che resta fermo e l’assenza di rimborsi e sconti dalla propria assicurazione, si potrebbe essere tentati dalla voglia di non rinnovare la polizza perché tanto non si prende l’auto. Ma è bene fare molta attenzione. Avere la macchina o la moto non assicurata parcheggiata in strada espone al rischio di sanzioni pecunarie e ritiro del mezzo. Per non parlare del rischio a cui si va incontro se malauguratamente il mezzo fermo dovesse essere coinvolto in un sinistro o in un incidente: lì il proprietario dovrebbe pagare di tasca propria i danni provocati ad altre persone o veicoli. L’emergenza coronavirus, quindi, non rappresenta una giustificazione valida per non pagare l’assicurazione o il bollo. Si può invece pensare di sospendere il pagamento fino alla fine dell’emergenza se il mezzo è parcheggiato nel proprio garage e in aree private. Ricordiamo che per effetto del Decreto Cura Italia fino al 31 luglio 2020 la copertura assicurativa oltre la data di scadenza non è più di 15 giorni ma di 30 giorni.