Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
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IL COGLIONAVIRUS
PRIMA PARTE
DI ANTONIO GIANGRANDE
IL VIRUS
INDICE PRIMA PARTE
IL VIRUS
Introduzione.
Le differenze tra epidemia e pandemia.
I 10 virus più letali di sempre.
Le Pandemie nella storia.
Coronavirus, ufficiale per l’Oms: è pandemia.
La Temperatura Corporea.
L’Influenza.
La Sars-Cov.
Glossario del nuovo Coronavirus.
Covid-19. Che cos’è il Coronavirus.
Il Coronavirus. L’origine del Virus.
Alla ricerca dell’untore zero.
Le tappe della diffusione del coronavirus.
I 65 giorni che hanno stravolto il Mondo.
I 47 giorni che hanno stravolto l’Italia.
A Futura Memoria.
Quello che ci dicono e quello che non ci dicono.
Sintomi. Ecco come capire se si è infetti.
Fattori di rischio.
Cosa risulta dalle Autopsie.
Gli Asintomatici/Paucisintomatici.
L’Incubazione.
La Trasmissione del Virus.
L'Indice di Contagio.
Il Tasso di Letalità del Virus.
Coronavirus: A morte i maschi; lunga vita alle femmine, immortalità ai bimbi.
Morti: chi meno, chi più.
Morti “per” o morti “con”?
…e senza Autopsia.
Coronavirus. Fact-checking (verifica dei fatti). Rapporto decessi-guariti. Se la matematica è un'opinione.
La Sopravvivenza del Virus.
L’Identificazione del Virus.
Il test per la diagnosi.
Guarigione ed immunità.
Il Paese dell’Immunità.
La Ricaduta.
Il Contagio di Ritorno.
I preppers ed il kit di sopravvivenza.
Come si affronta l’emergenza.
Veicolo di diffusione: Ambiente o Uomo?
Lo Scarto Infetto.
INDICE SECONDA PARTE
LE VITTIME
I medici di famiglia. In prima linea senza ordini ed armi.
Dove nasce il Focolaio. Zona rossa: l’ospedale.
Eroi o Untori?
Contagio come Infortunio sul Lavoro.
Onore ai caduti in battaglia.
Gli Eroi ed il Caporalato.
USCA. Unità Speciali di Continuità Assistenziale.
Covid. Quanto ci costi?
La Sanità tagliata.
La Terapia Intensiva….Ma non per tutti: l’Eutanasia.
Perché in Italia si ha il primato dei morti e perchè così tanti anziani?
Una Generazione a perdere.
Non solo anziani. Chi sono le vittime?
Andati senza salutarci.
Spariti nel Nulla.
I Funerali ai tempi del Coronavirus.
La "Tassa della morte".
Epidemia e Case di Riposo.
I Derubati.
Loro denunciano…
Le ritorsioni.
Chi denuncia chi?
L’Impunità dei medici.
Imprenditori: vittime sacrificali.
La Voce dei Malati.
Gli altri malati.
INDICE TERZA PARTE
IL VIRUS NEL MONDO
L’epidemia ed il numero verde.
Coronavirus, perchè colpisce alcuni Paesi più di altri?
Perché siamo i più colpiti in Occidente? Chi cerca, trova.
Il Coronavirus in Italia.
Coronavirus nel Mondo.
Schengen, di fatto, è stato sospeso.
Quelli che...negazionisti, sbeffeggiavano e deridevano.
…in Africa.
…in India.
…in Turchia.
…in Iran.
…in Israele.
…nel Regno Unito.
…in Albania.
…in Romania.
…in Polonia.
…in Svizzera.
…in Austria.
…in Germania.
…in Francia.
…in Belgio.
…in Olanda.
…nei Paesi Scandinavi.
…in Spagna.
…in Portogallo.
…negli Usa.
…in Argentina.
…in Brasile.
…in Colombia.
…in Paraguay.
…in Ecuador.
…in Perù.
…in Messico.
…in Russia.
…in Cina.
…in Giappone.
…in Corea del Sud.
A morte gli amici dell’Unione Europea.
A morte gli amici della Cina.
A morte gli amici della Russia.
A morte gli amici degli Usa.
INDICE QUARTA PARTE
LA CURA
La Quarantena. L’Immunità di Gregge e l’Immunità di Comunità: la presa per il culo dell’italianissimo “Si Salvi chi Può”.
L'Immunità di Gregge.
L’Immunità di Comunità. La Quarantena con isolamento collettivo: il Modello Cinese.
L’Immunità di Comunità. La Quarantena con tracciamento personale: il Modello Sud Coreano e Israeliano.
Meglio l'App o le cellule telefoniche?
L’Immunità di Comunità: La presa per il culo dell’italianissimo “Si Salvi chi Può”.
Epidemia e precauzioni.
Indicazioni di difesa dal contagio inefficaci e faziose.
La sanificazione degli ambienti.
Contagio, Paura e Razzismo.
I Falsi Positivi ed i Falsi Negativi. Tamponi o Test Sierologici?
Tamponi negati: il business.
Il Tampone della discriminazione.
Tamponateli…non rinchiudeteli!
Epidemia e Vaccini.
Il Vaccino razzista e le cavie da laboratorio.
Il Costo del Vaccino.
Milano VS Napoli. Al Sud gli si nega anche il merito. Gli Egoisti ed Invidiosi: si fanno sempre riconoscere.
Epidemia, cura e la genialità dei meridionali.
Il plasma della speranza, ricco di anticorpi per curare i malati.
Gli anticorpi monoclonali.
Le Para-Cure.
L’epidemia e la tecnologia.
Coronavirus e le mascherine.
Coronavirus e l’amuchina.
Coronavirus e le macchine salvavita.
Coronavirus. I Dispositivi medici salvavita: i respiratori.
Attaccati all’Ossigeno.
INDICE QUINTA PARTE
MEDIA E FINANZA
La Psicosi e le follie.
Epidemia e Privacy.
L’Epidemia e l’allarmismo dei Media.
Epidemia ed Ignoranza.
Epidemie e Profezie.
Le Previsioni.
Epidemia e Fake News.
Epidemia e Smart Working.
La necessità e lo sciacallaggio.
Epidemia e Danno Economico.
La Mazzata sui lavoratori…di più sulle partite Iva.
Il Supply Shock.
Epidemia e Finanza.
L’epidemia e le banche.
L’epidemia ed i benefattori.
Coronavirus: l’Europa ostacola e non solidarizza.
Mes/Sure vs Coronabond.
La Caporetto di Conte e Gualtieri.
Mes vs Coronabond-Eurobond. Gli Asini che chiamano cornuti i Buoi.
I furbetti del Quartierino Nordico: Paradisi fiscali, artifici contabili, debiti non pagati.
"Il Recovery Fund urgente".
Il Piano Marshall.
Storia del crollo del 1929.
Il Corona Virus ha ucciso la Globalizzazione del Mercatismo e ha rivalutato la Spesa Pubblica dell’odiato Keynes.
Un Presidente umano.
Le misure di sostegno.
…e le prese per il Culo.
Morire di Fame o di Virus?
Quando per disperazione il popolo si ribella.
Il Virus della discriminazione.
Le misure di sostegno altrui.
Il Lockdown del Petrolio.
Il Lockdown delle Banche.
Il Lockdown della RCA.
INDICE SESTA PARTE
LA SOCIETA’
Coronavirus: la maledizione dell’anno bisestile.
I Volti della Pandemia.
Partorire durante la pandemia.
Epidemia ed animali.
Epidemia ed ambiente.
Epidemia e Terremoto.
Coronavirus e sport.
Il sesso al tempo del coronavirus.
L’epidemia e l’Immigrazione.
Epidemia e Volontariato.
Il Virus Femminista.
Il Virus Comunista.
Pandemia e Vaticano.
Pandemia ed altre religioni.
Epidemia e Spot elettorale.
La Quarantena e gli Influencers.
I Contagiati vip.
Quando lo Sport si arrende.
L’Epidemia e le scuole.
L’Epidemia e la Giustizia.
L’Epidemia ed il Carcere.
Il Virus e la Criminalità.
Il Covid-19 e l'incubo delle occupazioni: si prendono la casa.
Il Virus ed il Terrorismo.
La filastrocca anti-coronavirus.
Le letture al tempo del Coronavirus.
L’Arte al tempo del Coronavirus.
INDICE SETTIMA PARTE
GLI UNTORI
Dall’Europa alla Cina: chi è il paziente zero del Covid?
Un Virus Cinese.
Un Virus Americano.
Un Virus Norvegese.
Un Virus Svedese.
Un Virus Transalpino.
Un Virus Teutonico.
Un Virus Serbo.
Un Virus Spagnolo.
Un Virus Ligure.
Un Virus Padano e gli Untori Lombardo-Veneti.
Codogno. Wuhan d’Italia. Dove tutto è cominciato.
La Bergamasca, dove tutto si è propagato.
Quelli che… son sempre Positivi: indaffarati ed indisciplinati.
Quelli che…i “Corona”: Secessione e Lavoro.
Il Sistema Sanitario e la Puzza sotto il Naso.
La Caduta degli Dei.
La lezione degli Albanesi al razzismo dei Lombardo-Veneti.
Quelli che…ed io pago le tasse per il Sud. E non è vero.
I Soliti Approfittatori Ladri Padani.
La Televisione che attacca il Sud.
I Mantenuti…
Ecco la Sanità Modello.
Epidemia. L’inefficienza dei settentrionali.
INDICE OTTAVA PARTE
GLI ESPERTI
L’Infodemia.
Lo Scientismo.
L’Epidemia Mafiosa.
Gli Sciacalli della Sanità.
La Dittatura Sanitaria.
La Santa Inquisizione in camice bianco.
Gli esperti con le stellette.
Epidemia. Quelli che vogliono commissariare il Governo.
Le nuove star sono i virologi.
In che mani siamo. Scienziati ed esperti. Sono in disaccordo su tutto…
Virologi: Divisi e rissosi. Ora fateci capire a chi credere.
Coronavirus ed esperti. I protocolli sanitari della morte.
Giri e Giravolte della Scienza.
Giri e Giravolte della Politica.
Giri e Giravolte della stampa.
INDICE NONA PARTE
GLI IMPROVVISATORI
La Padania si chiude…con il dubbio. A chi dare ragione?
Il Coglionavirus ed i sorci che scappano.
Un popolo di coglioni…
L’Italia si chiude…con il dubbio. A chi dare ragione?
La Padania ordina; Roma esegue. L’Italia ai domiciliari.
Conta più la salute pubblica o l’economia?
Milano Economia: Gli sciacalli ed i caporali.
“State a Casa”. Anche chi la casa non ce l’ha.
Stare a Casa.
Ladri di Libertà: un popolo agli arresti domiciliari.
Non comprate le cazzate.
Quarantena e disabilità.
Quarantena e Bambini.
Epidemia e Pelo.
Epidemia e Violenza Domestica.
Epidemia e Porno.
Quarantena e sesso.
Epidemia e dipendenza.
La Quarantena.
La Quarantena ed i morti in casa.
Coronavirus, sanzioni pesanti per chi sgarra.
Autodichiarazione: La lotta burocratica al coronavirus.
Cosa si può e cosa non si può fare.
L’Emergenza non è uguale per tutti.
Gli Irresponsabili: gente del “Cazzo”.
Dipende tutto da chi ti ferma.
Il ricorso Antiabusi.
Gli Improvvisatori.
Il Reato di Passeggiata.
Morte all’untore Runner.
Coronavirus, l’Oms “smentisce” l’Italia: “Se potete, uscite di casa per fare attività fisica”.
INDICE DECIMA PARTE
SENZA SPERANZA
TUTTO SARA’ COME PRIMA…FORSE
In che mani siamo!
Fase 2? No, 1 ed un quarto.
Il Sud non può aspettare il Nord per ripartire.
Fase 2? No, 1 e mezza.
A Morte la Movida.
L’Assistente Civico: la Sentinella dell’Etica e della Morale Covidiana.
I Padani col Bollo. La Patente di Immunità Sanitaria.
Fase 2: finalmente!
“Corona” Padani: o tutti o nessuno. Si riapre secondo la loro volontà.
Le oche starnazzanti.
La Fase 3 tra criticità e differenze tra Regioni.
I Bisogni.
Il tempo della Fobocrazia. Uno Stato Fondato sulla Paura.
L’Idiozia.
Il Pessimismo.
La cura dell’Ottimismo.
Non sarà più come prima.
La prossima Egemonia Culturale.
La Secessione Pandemica Lombarda.
Fermate gli infettati!!!
Della serie si chiude la stalla dopo che i buoi sono già scappati.
Scettici contro allarmisti: chi ha ragione?
Gli Errori.
Epidemia e Burocrazia.
Pandemia e speculazione.
Pandemia ed Anarchia.
Coronavirus: serve uno che comanda.
Addio Stato di diritto.
Gli anti-italiani.
Gli Esempi da seguire.
Come se non bastasse. Non solo Coronavirus…
I disertori della vergogna.
Tutte le cazzate al tempo del Coronavirus.
Epidemia: modi di dire e luoghi comuni.
Grazie coronavirus.
IL COGLIONAVIRUS
PRIMA PARTE
IL VIRUS
· Introduzione.
Coronavirus. Covid-19. SARS-CoV-2. Lo conosco. Li conosco. Testimonianza dall’inferno della malattia.
Intervista al dr Antonio Giangrande, sociologo storico, autore di “Coglionavirus”, libro in 10 parti che analizza gli aspetti clinici e sociologici del Virus; la reazione degli Stati e le conseguenze sulla popolazione.
Dr Antonio Giangrande, lei stesso è stato vittima del virus, essendo stato ricoverato in gravi condizioni in ospedale. Esprima, preliminarmente, la sua considerazione da vero esperto del virus.
«I nostri professoroni, dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, al Consiglio Superiore di Sanità, fino ai componenti dei vari comitati consultivi, saranno titolati, sì, ma sono assolutamente ignoranti sul tema, essendo il Covid-19 un virus assolutamente sconosciuto. A dimostrazione di ciò ci sono i pareri e le direttive espressi nel tempo, spesso in contraddizione tra loro. Si va da “non è epidemia” dell’Organizzazione Mondiale di Sanità, al “le mascherine non servono” del Consiglio Superiore di Sanità. Per non dire delle contrapposizioni tra gli scienziati. Nonostante ciò, i pseudo esperti hanno imposto regole che si sono dimostrati essere protocolli della morte.
Il Contagio avviene per aerosol con insinuazione in ogni orifizio. O si è tutti bardati o ristretti in casa, o si è tutti a rischio di infezione: altro che mascherina e distanziamento di un metro. Basterebbe indossare il burqa con visiera e saremmo liberi di circolare.
E che dire dei medici di base che che per colpa non verificano la salute, non seguono e non assistono i malati e non denunciano i positivi, in presenza di sintomatologia specifica, lasciandoli liberi di infettare.
La gente non è morta, o ha sofferto per il Covid-19, ma per la malasanità e per i protocolli sbagliati.
I posti letto negli ospedali sono mancanti perchè il ricovero non è tempestivo e con ciò si allungano i tempi di degenza. E le degenze non sono ristrette, usufruendo della terapia domiciliare o dell'assistenza domiciliare Usca per i casi più gravi non ospedalizzabili.
I nostri governanti, poi, da incompetenti in materia, hanno delegato ai sanitari, spesso amici, per pararsi il culo, la gestione della pandemia. Dico amici perché stranamente gli esperti non allarmisti, si trovano tutti dalla parte dell'opposizione politica. La Gestione maldestra della pandemia ha comportato gravi conseguenze economiche, sociali e psicologiche. Le Autorità sanitarie, a loro volta, hanno adottato dei protocolli passivi, giusto per “pararsi il culo” anche loro. Giusto per evitare azioni di tutela legale per colpa professionale.
In questo modo hanno osteggiato ogni forma di cura palliativa, sperimentale, innovativa e compassionevole. Chi lo ha fatto se n’è assunta la piena responsabilità.
I morti, poi, li hanno fatti passare per fisiologici:
E’ morto perché anziano.
E’ morto perché aveva patologie pregresse.
La verità è che il protocollo prevede la discrezionalità su chi deve vivere e su chi deve morire.
I medici come Dio, insomma.
Un giorno, forse, qualcuno dovrà rendere conto a Dio ed alla giustizia penale e civile per il male fatto alla popolazione».
Da leggo.it il 22 dicembre 2020. "Quello che ci stupisce è che durante tutta la pandemia, fino a oggi, non si è mai parlato di assistenza domiciliare e prevenzione. Ciò che andrebbe immediatamente sviluppato è il rapporto tra pubblico e privato, che al contrario non si è sviluppato al punto tale da poter fare gioco di squadra utile ai cittadini". Così la dottoressa Maria Stella Giorlandino, amministratrice dei Centri Diagnostici Artemisia Lab, intervenendo alla Camera dei Deputati alla conferenza stampa organizzata dai deputati del gruppo Misto Antonio Zennaro e Raffaele Trano per presentare, in osservanza della Costituzione, protocolli a tutela dell'universalità del sistema sanitario nazionale, sulla base della necessità di procedimenti diagnostici e terapeutici uniformi. "Le informazioni giunte dalla Cina hanno creato una grandissima confusione - ha sottolineato Giorlandino - su quella che era la reale natura del virus, là dove era stata erroneamente definita come polmonite bilaterale. Grazie alla professionalità dei nostri medici è stato rilevato che il Coronavirus parte come semplice stato influenzale per poi trasformarsi nei soggetti più deboli o affetti da patologie, in malattia immunitaria. Tralasciando le ben note difficoltà che le strutture private hanno incontrato per poter svolgere i vari test di supporto al pubblico - ha aggiunto - abbiamo delle proposte per uscire dalla pandemia". Secondo l'amministratrice di Artemisia Lab occorrerebbero "percorsi diagnostici curativi già esistenti con terapie da fare a domicilio al primo sintomo, lastre domiciliari polmonari per evitare l'intasamento dei Pronto Soccorso, ricoveri per persone a rischio o anziani immunodepressi, tampone dell'antigene quantitativo e non qualitativo". E infine, conclude Giorlandino "informazioni dettagliate dalle strutture del territorio, dei mass media non allarmistiche ma chiarificatrici e linee di condotta uniche a livello nazionale".
Quali le conseguenze per non essere omertoso come tutti gli italiani?
«Scrivere "Coglionavirus" ha comportato la mia rovina economica. Amazon, piattaforma internazionale su cui quel libro ed altri 200 testi tematici, erano distribuiti, stampati e venduti, ha cancellato il mio account e fatto cessare i miei proventi. Da questo Stato è logico non avere alcun ristoro economico. Non ho diritto a niente: bonus aziende o professionisti, indennità di disoccupazione, cassa integrazione, reddito di cittadinanza, pacchi alimentari».
Cosa pensa dell’allarmismo?
«Quando i numeri si danno a casaccio. La comparazione tra i tamponi effettuati ed il numeri dei positivi non sono veritieri. I dati ufficiali, se da una parte sono carenti, dall’altra parte sono eccedenti:
si prendono in esame i tamponi effettuati da privati, che danno solo esito positivo, escludendo quelli con esito negativo;
per ogni soggetto si effettuano più tamponi procrastinati nel tempo, quindi si rilevano più positività per un singolo soggetto positivo.
Da quotidianosanita.it il 3 novembre 2020. Gentile Direttore, ogni giorno nell’aggiornamento dei dati giornalieri sul Covid-19 tra i dati del Ministero della Salute/Istituto Superiore di sanità costantemente riportati e rielaborati in tutti i sistemi “derivati” di monitoraggio (come quelli utilizzati dai media di settore o “generalistici” o da social molto seguiti come “Pillole di ottimismo” su Facebook) ci sono quelli relativi ai nuovi casi (e quindi il numero di persone trovate per la prima volta positive al tampone riportato nella Tabella originale nella colonna “incremento casi totali”) ed al numero di tamponi effettuati (riportato nella tabella originale nella colonna “incremento tamponi”). Prendiamo i dati di ieri 2 novembre: ci sono stati in Italia 22.253 nuovi casi e 135.731 tamponi. Automaticamente viene calcolato in molti sistemi “derivati” il rapporto positivi/tamponi che sistematicamente cresce (ad esempio ieri è stato di 21,9 contro il 21,7 del giorno prima). E ovviamente questo dato viene assimilato ad un dato negativo che testimonia della maggiore circolazione del virus. In realtà si tratta di un indicatore fuorviante che così com’è non andrebbe usato o comunque molto meglio descritto ed interpretato. Perché mette in un unico calderone dati di diversa provenienza e completezza come evidenzierò tra poco. Premesso che il disciplinare tecnico che regolamenta il flusso dei tamponi è difficile da trovare (e non dovrebbe esserlo), lo si può ricostruire in base ad alcune ricostruzioni empiriche che partono da una analisi del modello organizzativo delle attività di laboratorio che “generano” il dato sui tamponi (ovviamente di quelli ritenuti validabili dai Servizi di Prevenzione e quindi eseguiti con tecnica molecolare in laboratori autorizzati dalle Regioni). I tamponi vengono per lo più eseguiti all’interno di tre percorsi: quello delle nuove diagnosi in persone con sintomi compatibili o contatti di casi, quello del monitoraggio dei casi ai fini del calcolo dei “guariti” e quello dello screening spesso su base volontaria da persone che vogliono sapere se sono infette o meno. I primi due percorsi sono gestiti per lo più da laboratori pubblici, mentre il terzo vede un coinvolgimento imponente dei laboratori privati autorizzati dalle Regioni. Cosa succede? La mia ricostruzione in base alla situazione delle Marche, che conosco bene, è che mentre i nuovi casi positivi diagnosticati dai privati finiscono appunto tra i nuovi casi e confluiscono nel numeratore del rapporto positivi/tamponi, il numero totale di persone esaminato dai privati (che comprende anche i negativi) non entra nel denominatore falsando l’andamento del rapporto. Ma non è finita qui. Il denominatore ha invece dentro anche i dati dei tamponi di monitoraggio che non c’entrano niente coi nuovi casi. Un denominatore (o un suo pezzo) che non genera numeratore non va incluso nel calcolo di un rapporto. Facciamo una verifica coi dati Ministero/ISS del 29 ottobre relativi alla Regione Marche che confrontiamo con l’elaborazione più analitica che ha fatto coi dati dello stesso giorno la Regione Marche. Scegliamo questo giorno perché sta in mezzo alla settimana e rappresenta più fedelmente la situazione. I dati di Ministero e Regione coincidono: 686 casi e 3.915 tamponi. Ma quello della Regione Marche è più analitico e ci dice che in realtà i nuovi casi sono stati “generati” da soli 2.372 tamponi (quelli relativi al cosiddetto percorso nuove diagnosi) e che quel numero 3.915 ha dentro anche i tamponi del cosiddetto percorso guariti ovvero quello che riguarda il monitoraggio dei “vecchi” casi. Ma non è finita qui. I tamponi del percorso diagnosi includono quelli dei laboratori privati solo quando positivi, mentre quelli negativi sempre più numerosi non vengono verosimilmente conteggiati.
Risultato: il rapporto positivi/tampone del monitoraggio ministero/ISS per quanto riguarda le Marche al denominatore conta tamponi in più di un tipo che non ci dovrebbero stare e dall’altra manca dei tamponi dei privati che ci dovrebbero stare. Se non si fa chiarezza è legittimo e credibile pensare che almeno parte dell’incremento quotidiano del rapporto positivi/tamponi sia sovrastimato visto il numero fortemente crescente dei tamponi fatti dai privati. Soluzione: migliore gestione del flusso. Claudio Maria Maffei, Coordinatore scientifico di Chronic-on».
Parli di come è stato infettato.
«Io vivo in Avetrana in provincia di Taranto. Per il mio lavoro e per il mio carattere ho sempre fatto vita riservata, così come mia moglie. Le uniche uscite erano il fare sport da singolo ed isolato ed il fare la spesa, con rispetto delle regole imposte: mascherine e distanziamento e rapportarsi il meno possibile con i genitori anziani. Eppure, questo mio comportamento esemplare, in ossequio alle regole sbagliate, si è dimostrato letale.
L’8 novembre 2020 mio fratello fa visita ai genitori: il giorno dopo ha la febbre.
Il 9 novembre 2020 vado a far visita ai miei genitori ultraottantenni: mascherina e distanziamento. Presente un terzo fratello. Ho notato che avevano il riscaldamento alto.
Il 10 novembre 2020, cioè giorno dopo il malessere dei miei genitori si trasforma in febbre lieve. Per questo motivo tutti i figli, tre maschi ed una donna, con altri familiari ristretti, gli fanno visita con mascherina e distanziamento.
I miei due fratelli dopo pochi giorni hanno evidenziato i primi sintomi, mia sorella asintomatica. Immediatamente, si è coinvolto il medico curante che ha provveduto al tampone per tutti. Alla fine risultano tutti infettati, compresi le loro famiglie. 15 componenti di 4 nuclei familiari. Ai primi sintomi, correttamente, tutti abbiamo adottato il confinamento domiciliare e nessuno ha infettato alcuno. Fortunatamente i genitori anziani sono stati pauci sintomatici, così come gli altri componenti della famiglia. Un fratello ricoverato in modo lieve. Solo io ho subito le conseguenze gravissime, rasentando la morte.
Si è scoperto che mio padre è stato infettato frequentando, con mascherina e distanziamento, un luogo pubblico. Egli pensava che la lieve febbre fosse dovuta al vaccino antinfluenzale.
Questo sta ha dimostrare due cose:
1. Che la mascherina ed il distanziamento non bastano, ma bisogna essere bardati con occhiali e visiera per non essere infettati. Il virus si insinua in ogni orifizio. Il virus è 100 volte più piccolo del batterio e quindi galleggia nell’aria e con essa si muove. Posso prenderlo dopo molti metri e dopo molti minuti;
2. Che spesso sono gli anziani ad infettare i giovani e non viceversa. Perché sono quelli che spesso non rispettano le regole;
3. Molti sono infetti asintomatici e non lo sanno. Ed infettano in buona fede;
4. Molti sono infetti pauci sintomatici o conviventi asintomatici o pauci sintomatici di infetti conclamati. Sanno di essere infetti, ma continuano la loro vita e da criminali infettano gli altri.
5. Ma cosa più importante che ho potuto constatare in seguito, dopo il mio ricovero, è che ci si infetta principalmente in strutture protette. Il degente C.mo C.lò è stato infettato in una RSA, quella di Villa Argento di Manduria e poi trasferito al Giannuzzi di Manduria. Il Degente V.to T.liente di Martina Franca, ricoverato al Santissima Annunziata di Taranto per altre patologie, è stato refertato negativo all’arrivo nel nosocomio e poi infettato in quel reparto. Successivamente trasferito al Giannuzzi di Manduria».
Parli della reazione degli avetranesi.
« A riguardo mi riporto a al post di mio figlio, avv. Mirko Giangrande, pubblicato sulla sua pagina facebook il 18 dicembre 2020 ore 20.30: “Il Festival delle Illazioni”. Come tutti ben sanno l’intera mia famiglia è stata vittima, chi in modo più grave chi in modo più lieve, del Covid - 19. Un nemico invisibile e infido che ha colpito in modo violento, repentino e simultaneo. Un fulmine a ciel sereno che si è abbattuto su gente sempre diligente e rispettosa di ogni regola: mascherina, distanziamento, tamponi, ecc. Tutto ciò, purtroppo, non è bastato ma alla fine, uniti come sempre, ne siamo usciti più forti di prima. Combattendo anche contro la “malasanità pugliese”, ma su tale argomento ormai tanto è stato detto e scritto, sebbene ancora qualcuno, accecato dalla partigianeria politica, esalta qualcosa che esiste solo nella propria mente e continua ad inondarci di belle parole su una situazione invece tragica e sotto gli occhi di tutti. Ma cosa ci è rimasto di questa esperienza? Il letame. Esatto, tutta la “merda” che buona parte (ovviamente non tutta) del nostro paese ci ha tirato addosso. Non supportandoci ma trattandoci da “untori del paese”, che “il virus ce lo siamo meritato”, “che non dovremmo più farci vedere in giro per un bel po’”, “che ci siamo infettati partecipando a delle feste”. Ma la stronzata numero uno è che l’untore degli untori sono stato io, il principio della pandemia avetranese. Io avrei infettato i miei familiari e poi sarei scappato via. Ovviamente tralasciando il fatto che è dal primo ottobre che sto a Parma senza mai tornare e che nessuno dei miei familiari ha partecipato a nessuna festa. Tali illazioni non possono che partire dalle bocche di criminali e che non possono che far leva solo sui COGLIONI creduloni. Tutto ciò condito da un alto tasso di codardia, dato che chi mette in giro queste voci lo fa di nascosto, conscio che fa bene a non esporsi, rischiando tantissimo in termini legali...”.
In questo modo per la cattiveria e l’ignoranza della gente, i positivi non si palesano per paura della gogna, alimentando l’epidemia.»
Parli dell’evoluzione della malattia.
«Dal famoso 9 novembre 2020 ho avvertito subito sintomi di malessere e febbre, ma ho continuato a fare i miei 22 chilometri di corsa e bicicletta. Fino a che la febbre a 39 e mezzo, senza sintomi specifici, me lo ha impedito. Pensavo fosse un periodico raffreddore, dovuto alla sudorazione e le temperature anomale, curabile con la tachipirina e gli antibiotici.
Il 15 novembre 2020 chiamo il medico curante chiedendogli un antibiotico più potente, con l’ausilio della penicillina, il cortisone e la protezione. Mi prescrive tutto, meno la tachipirina che è a pagamento. Antibiotico Azitromicina da 500, cortisone Deltacortene da 25, Penicillina, protezione, Eparina e sciroppo per la tosse. Per il proseguo della malattia ha voluto essere informata ed ella stessa si informava. Ha prontamente contattato l’ASL.
Il 20 novembre 2020 il tampone effettuato risulta positivo.
Il 22 novembre 2020 alle 10.30 per il persistere della febbre e per i sintomi di asfissia chiamo il 118. Con l’ossigenazione del sangue a 82, si decide il ricovero immediato».
Parli degli altri medici di base.
«La Dr.ssa Maria Antonietta Ingarozza, mio medico di base è stato esemplare. Ha seguito l’assistito ed avvisato le autorità. Ed è lo stesso medico di mia madre: esemolare anche con lei.
Il medico di mio padre, sintomatico, ha omesso la cura del paziente, abbandonandolo a sé stesso, e non ha avvisato le autorità, alimentando l’infezione in famiglia.
Il medico dei miei fratelli sintomatici, ha omesso alcune cure ai pazienti e ha disposto il tampone solo su sollecitazione degli assistiti.
Parlando con alcuni passanti, ho scomperto, addirittura, che a Sava vi era un medico che consigliava ai suoi assistiti di nascondere i sintomi del Covid-19, dissimulandoli come sintomi influenzali, omettendo, così, il controllo del tampone».
«Parli del suo ricovero e dell’impatto con il sistema sanitario.
«Per questa malattia la tempestività è essenziale. Prima si interviene, prima si impedisce l’aggravamento, prima si guarisce e nessuno muore. Prima si interviene e meno giorni sono di degenza e più posti letto sono a disposizione. Così come più posti letto si ottengono con una degenza limitata sostenuta da assistenza domiciliare Usca. Invece il sistema sanitario, per non ingolfare gli ospedali impedisce il ricovero ai pazienti sintomatici fino a farli diventare critici ed a lunga degenza, o con conseguenze mortali.
Ergo: il protocollo sbagliato porta la morte dei pazienti e la paralisi delle strutture sanitarie.
La saturazione ottimale del sangue deve essere pari a 100 o quasi. Ogni alterazione comporta un intervento immediato. A mio fratello è stato impedito un primo ricovero, dal medico del 118, con la saturazione a 92, chiaro sintomo di sofferenza. Tanto che c’è stato l’inevitabile peggioramento ed il ricovero, con degenza di settimane.
Alle 12 del 22 novembre 2020 inizia la mia odissea. L’equipaggio del 118 misura la saturazione del sangue: 82. Mi rendo conto perché, andando in bagno, ho avuto un mancamento stando in piedi e ho sbattuto la fronte sul muro sopra il vaso. Mi caricano sull’ambulanza e partono. Sento le sirene: questa volta le sirene sono per me e sento un groppo alla gola. Legato al lettino pare che tutte le buche della strada sono centrate dalle ruote posteriori: una volta una, altra volta l’altra. E finalmente si arriva all’ospedale Giannuzzi di Manduria.
Dante Inferno, Canto III
"...Dinanzi a me non fuor cose create
se non etterne, e io etterno duro.
Lasciate ogni speranza, voi ch'intrate"...
Ed ecco verso noi venir per nave
un vecchio, bianco per antico pelo,
gridando: "Guai a voi, anime prave! ..."
Così sen vanno su per l'onda bruna,
e avanti che sien di là discese,
anche di qua nuova schiera s'auna..."
11 ore in attesa di ricovero Covid: la precisazione del Marianna Giannuzzi. Non ha tardato ad arrivare la replica da parte della direzione medica del presidio ospedaliero “Marianna Giannuzzi” sul caso dell’uomo di Avetrana rimasto ad aspettare in ambulanza per circa 11 ore prima di essere ricoverato. Francesca Dinoi su La Voce di Manduria venerdì 27 novembre 2020. Non ha tardato ad arrivare la replica da parte della direzione medica del presidio ospedaliero “Marianna Giannuzzi” sul caso dell’uomo di Avetrana rimasto ad aspettare in ambulanza per circa 11 ore prima di essere ricoverato. A narrare l’esperienza, era stato il figlio del paziente, l’avvocato Mirko Giangrande in un’intervista rilasciata al Nuovo Quotidiano di Taranto, in cui lamentava, appunto, la lunga attesa a cui erano stati sottoposti a causa di un affollamento di ambulanze nel piazzale dell’ospedale. La direzione medica, in base alle notizie pervenute dal responsabile del Pronto Soccorso, racconta che all’arrivo del signor Giangrande in ospedale, l’assistito era stato visitato, eseguito il tampone naso-faringeo per verificare l’eventuale positività al Covid-19 e somministrata la terapia adeguata. In seguito, all’esito della positività del tampone, veniva fatto accomodare nell’area attrezzata all’osservazione breve fino a 48/72 ore e alle ore14:00 del giorno successivo, ricoverato nel reparto Medicina Covid, occupando il primo posto letto disponibile. «Al signor Giangrande non sono mai mancate le cure di cui ha avuto necessità in una giornata tuttavia congestionata per l’arrivo contestuale di numerose ambulanze del 118.», chiarisce la responsabile, riconoscendo l’imprevisto. Della stessa opinione anche la direzione Asl di Taranto che rivolge le proprie scuse al signor Giangrande ed al figlio, ribadendo che al paziente era sempre stata assicurata la massima sicurezza grazie all’esemplare competenza di tutti gli operatori sanitari presenti. Francesca Dinoi
Parla il figlio dell'uomo rimasto 11 ore in ambulanza prima del ricovero al Giannuzzi. L’avvocato Mirko Giangrande racconta in un’intervista al Nuovo Quotidiano di Taranto il calvario del padre ricoverato al Giannuzzi dopo un’attesa di 11 ore in ambulanza. La Redazione de La Voce di Manduria martedì 24 novembre 2020. Un calvario di 11 ore. Tanto è durata l’attesa in ambulanza di un uomo di Avetrana domenica scorsa. A raccontare l’incredibile vicenda al Nuovo Quotidiano di Taranto è il figlio del povero malcapitato, Mirko Giangrande. I particolari che l’avvocato riferisce hanno dell’incredibile. Il paziente, positivo già da diversi giorni, è stato prelevato dalla sua abitazione dopo aver effettuato una cura anti-Covid domiciliare. Giunto nel piazzale dell’ospedale Giannuzzi, dopo le prime ore, l’uomo - provato dall’attesa ed in evidente stato di agitazione - ha allertato il 112 ed il 113 addirittura dall’interno dell’ambulanza. Le comunicazioni con la famiglia avvenivano tramite whatsapp, visto l’affaticamento respiratorio e la difficoltà nell’effettuare chiamate vocali. Intorno alle 16.30, gli è stato effettuato un prelievo di sangue, ma il povero malcapitato – già da più di 4 ore all’interno dell’ambulanza – non dava segni di miglioramento e la febbre continuava ad aumentare. Il racconto del figlio del pover’uomo si fa sempre più inquietante: «Io vivo fuori, mi sono sentito impotente oltre che angosciato. In più – aggiunge l’avvocato – la cura intrapresa a casa si era interrotta durante le ore in ambulanza. Aveva solo l’ossigeno a sua disposizione e la febbre continuava a salire. Non sapevo cosa fare così, ormai stravolto, ho contattato il consigliere regionale Renato Perrini che si è adoperato a denunciare all’Asl di Taranto quanto stava accadendo» riferisce Giangrande. Stando a ciò che ha raccontato lo stesso avvocato durante l’intervista, sarebbero state ben cinque le ambulanze in coda per ore, così come riferitogli dal padre. L’avvocato non ci sta e promette di andare a fondo sulla vicenda: «Mi preme evidenziare che questo è accaduto ad un uomo di 57 anni in grado di comunicare con l’esterno e di mantenere lucidità. Ma se fosse capitato ad un uomo anziano? Non si può correre il rischio di morire in attesa di essere ricoverati. Questi inconvenienti potevano essere comprensibili a marzo, ma non a novembre perché, come cittadini, ci saremmo aspettati una maggiore organizzazione» aggiunge Giangrande, che poi conclude: «Tenere bloccate le ambulanze per così tante ore è inconcepibile. E se dovessero servire per un’emergenza? Non ho parole».
Verso mezzanotte, dopo la previsione di spostarmi all’Ospedale di Castellaneta, a 100 km di distanza, e la mia forte opposizione (ho preso la valigetta e stavo per scendere dall’ambulanza per recarmi al pronto soccorso), mi introducono in Pronto Soccorso. Qui mi rifanno il tampone e la radiografia. Fino alle 4 nel corridoio, poi in una stanzetta. Il ricovero effettivo in reparto avviene il giorno, 23 novembre 2020, dopo alle 14.00».
Parli della sua degenza in ospedale.
«Traumatica e psicologicamente devastante. Dante Inferno, Canto III
"...Dinanzi a me non fuor cose create
se non etterne, e io etterno duro.
Lasciate ogni speranza, voi ch'intrate"...
Ed ecco verso noi venir per nave
un vecchio, bianco per antico pelo,
gridando: "Guai a voi, anime prave! ..."
Così sen vanno su per l'onda bruna,
e avanti che sien di là discese,
anche di qua nuova schiera s'auna..."
Il Reparto. I Reparti Covid si suddividono in: reparto ordinario Covid; reparto Medicina Covid (reparto semi intensivo con gestione diversa del paziente); reparto di terapia intensiva (Rianimazione con assistenza più pregnante per i casi più gravi), reparti post Covid per la rieducazione polmonare. Sono stato ricoverato al Reparto Ortopedia Covid dell’ospedale Giannuzzi di Manduria. Quindi curato anche da ortopedici. Mi portano in una stanza a tre letti. C’è uno di Avetrana che non vuole esser nominato ed il mio amico Damiano Messina, noto per la sua ditta di trasporti, che mi ha autorizzato a citarlo. E’ critico e con criticità, cioè grave e con comorbidità o comorbilità, ossia patologie pregresse. In precedenza i suoi polmoni erano stati colpiti da una malattia simile al Covid 19 dovuta ad un virus trasmesso dai pipistrelli e debitamente curata. Era proveniente dal Moscati di Taranto, di cui racconta tutto il male possibile. E’ stato tra i primi degenti del reparto Ortopedia Covid di Manduria, con altri provenienti dal Moscati di Taranto. Arrivato sabato 14 novembre sera, ha trovato il solito balletto dell’inaugurazione. Però non c’era ancora acqua per lavarsi, né per bere. Così come mancava l’elemento essenziale: l’ossigeno. Elemento essenziale e continuativo. Poi sono sempre state insufficienti le bombolette dell’ossigeno per i degenti sufficienti che dovevano andare al bagno non accompagnati. Avevo il letto numero 2. In quella stanza c’era il letto n. 3. Postazione speciale con ossigenazione fino a 20 litri. Adeguata per necessità dopo un caso di emergenza proveniente dalle altre stanze. Alla dimissione dei miei amici mi hanno spostato nella stanza assieme a mio fratello, ricoverato al pronto soccorso il giorno prima di me, ma saliti simultaneamente in reparto. Poi sono stato spostato in un’altra stanza. Avevo il letto n. 7. Entrambe le stanze avevano un comune denominatore. Le emergenze delle seconda andavano a finire nella prima. E guarda caso solo la stanza numero 2 ha avuto emergenze, risultate, poi, mortali. La stanza è una prigione. Rispetto a noi i reclusi ostativi o del 41 bis del carcere sono in vacanza. Quando non sei costretto a letto, sei comunque costretto a letto. Non puoi aprire le finestre, né aprire la porta di entrata/uscita. Così per settimane. La stanza aveva due telecamere, affinchè i medici avessero la situazione sempre sotto controllo. In questo modo loro sanno tutto quanto succede nelle camere, anche delle emergenze. Non puoi ricevere i parenti, ne la biancheria di ricambio, quindi stesse mutande, stessa maglietta, stesso pigiama per settimane. Se non hai rasoi o strumenti della manicure diventi un licantropo.
La pulizia delle stanze. La pulizia era buona e per due volte al dì.
Il Vitto. Il vitto era decente, ma spesso freddo. Le buste ermeticamente chiuse con l’elenco del contenuto, come previsto dal capitolato d’appalto, erano sempre aperte a rischio di contaminazione e con l’acqua mancante. L’acqua era riservata al buon cuore dei sanitari, su richiesta. La distribuzione del vitto avviene:
Ore 8.00 colazione. Latte macchiato o te, quasi sempre freddo. Biscotti o fette biscottate con marmellata.
Ore 12. Pranzo. Primo, secondo, pane e frutta. Posate. Acqua mancante.
Ore 15.30. Cena. Idem come pranzo.
I pazienti. Paziente inteso come sostantivo si intende una persona affetta da malattia affidata ad un medico. Paziente inteso come aggettivo si intende una persona disposta alla moderazione, alla tolleranza ed alla rassegnata sopportazione. In questo caso verso il Covid e nei confronti dei sanitari.
Per i sanitari la morte di un paziente è sempre certificata come conseguenza di patologie pregresse: falso!
Antonio Calitri per “il Messaggero” il 22 novembre 2020. Nella BAT che i medici chiedevano diventasse zona rossa, una mamma di 41 anni è morta di Covid dopo aver atteso 11 ore al pronto soccorso. Non ci sono posti per i ricoveri all' ospedale di Barletta, capoluogo della provincia Bat in Puglia. E così Antonella Abbatangelo, che soffriva da una settimana di sintomi da Covid-19 sempre più gravi, è costretta ad attendere ben 11 ore prima di essere visitata. Quando finalmente viene presa in carico come recita la nota della Asl, i medici si accorgono subito della gravità della situazione, in due giorni finisce in terapia intensiva ma non ce la fa e dopo altri quattro, muore. E sberleffo finale, il marito e il figlio di appena 14 mesi non possono partecipare al suo funerale perché in isolamento domiciliare nonostante siano risultati negativi al tampone.
LE FALLE. Disorganizzazione, ospedali allo stremo e tanta sfortuna hanno inciso sul destino di una donna, giovane per le statistiche della letalità del virus, ma che si scopre essere stata anche vittima di malasanità. «Ben 11 ore di attesa prima di essere visitata al pronto soccorso», ha denunciarlo il marito Massimiliano che poi ha anche scritto sui social di aver ricevuto pochissime notizie della moglie. «Siamo stati attaccati al telefono da mattina a sera solo per avere spiegazioni confuse e veloci da parte dei dottori». La storia inizia la settimana scorsa quando la donna accusa febbre e tosse che inizia a curare a casa. Quando la situazione diventa più grave, il 12 novembre Antonella si reca all' ospedale di Trani, la città dove vive, ma non essendoci un reparto Covid, viene rimandata a casa. Il giorno dopo viene accompagnata a Barletta, dove attende 11 ore, fino alla presa in carico delle 23.01.
LA NOTA DELLA ASL. Poi, seguendo la nota della Asl, la donna è stata sottoposta a visita medica alle 23.05, sono stati evidenziati dispnea e febbre elevata da due giorni curata a domicilio. Al quadro clinico acuto va aggiunta una grande comorbilità rappresentata da problemi metabolici. È stato immediatamente eseguito tampone che ha dato esito positivo. La signora è stata quindi sottoposta a ossigenoterapia e sono stati immediatamente richiesti esami ematochimici ed emogasanalisi. Poi, prosegue la ricostruzione dell' Asl, il quadro clinico è apparso già molto complesso e compromesso. La situazione è peggiorata nella mattinata del 15 novembre quando sono intervenuti i rianimatori che hanno intubato la paziente in pronto soccorso e poi l' hanno trasferita nel reparto di Rianimazione ma, conclude il comunicato, nonostante tutti gli sforzi dei clinici la paziente è deceduta in data 19.11. Per sapere se abbia inciso anche la lunga attesa prima di accedere alla struttura, il direttore generale della Asl Alessandro Delle Donne ha detto di aver «avviato indagine per verificare tutti i passaggi di quanto accaduto».
Nel reparto normale ortopedia Covid di Manduria venivano ricoverati pazienti critici, ma anche critici e con criticità, cioè gravi e con comorbidità o comorbilità, ossia patologie pregresse, che sicuramente avevano bisogno di altro reparto:
con assistenza specialistica semi intensiva ed intensiva, con interventi invasivi e non invasivi, che un normale reparto non garantisce;
strumenti specifici come per esempio il casco respiratorio per ventilazione polmonare o l’intubazione e non la semplice mascherina polmonare, o l’occhialino polmonare di un normale reparto.
La ossigenoterapia può essere sostenuta da 0 a oltre venti litri di ossigeno. Dipende dagli strumenti di erogazione. E in quel reparto non c’erano. Come non c’erano medici specialistici per ogni patologia riscontrata. Differenze di interventi che possono causare la morte.
Il mio amico Damiano Messina mi parla della sua esperienza traumatica. Ha assistito alla morte di P.tro D.ghia di Monteiasi, 64 anni. Damiano è stato ricoverato sabato 14 novembre, P.tro è portato nella sua stanza 2-3 giorni dopo. Il degente critico e con criticità non è stato ricoverato in un reparto adeguato alle sue patologie: ne prima né dopo l’emergenza. Il pomeriggio del 16 o 17 novembre è stato spostato di urgenza dal posto n. 9 della stanza di ricovero e posto al n. 3 della stanza di Damiano. Il posto è stato adeguato successivamente come postazione speciale. Tutto il pomeriggio P.tro ha sofferto agonizzante con sintomi di asfissia. Sostenuto con il solo ausilio del casco respiratorio con ossigenazione a 20. Spesso i compagni di stanza chiamavano con il pulsante di emergenza, perché il paziente lasciato solo per molto tempo si spostava e si toglieva il casco, perchè non dava il ristoro richiesto. L’intervento dei sanitari non era immediato. L’agonia si è protratta, senza soluzione di continuità, senza che vi sia stato alcun cambio di intervento terapeutico, fino al primo mattino del giorno dopo. La morte è intervenuta per inerzia. Spesso la presenza fisica dell'assistenza dei sanitari non era garantita. Loro hanno visto tutto con le telecamere e non sono intervenuti. Morte di un essere umano senza il sostegno dei familiari. E’ seguita pulizia della salma e composizione della stessa in un sacco di plastica. Un uomo diventato una cosa trasferita in obitorio.
La mia seconda stanza era la camera della morte. Durante la mia decenza, tutti i morti erano ivi ricoverati. C.mo C.lò, infettato alla RSA Villa Argento di Manduria, del letto n.9 ha preso il posto di P.tro D.ghia di Monteiasi. Il degente critico e con criticità non è stato ricoverato in un reparto adeguato alle sue patologie: ne prima né dopo l’emergenza. Ho convissuto con lui per due giorni dal 3 al 4 dicembre 2020. Era un continuo chiamare seguito da non immediata risposta. Per due giorni i parametri erano intorno agli 85-90 per l’ossigenazione e un ritmo cardiaco intorno ai 135 battiti, mai al di sotto dei 125, senza soluzione di continuità. La mascherina con il sacchetto gliela hanno messa quando la saturazione era ad 88, in sostituzione di quella con la proboscide. L’ultima chiamata di allarme da parte nostra (mia e di mio fratello riuniti nella stanza) per l’evidente sofferenza del paziente è avvenuta il 4 dicembre 2020. L’intervento non è stato pronto ed immediato. Loro hanno visto tutto con le telecamere e non sono intervenuti. Saturazione a 85 e 135 battiti e strumentazione impazzita. Il ritardo degli interventi mi ha costretto a filmare gli eventi a fini di giustizia ed informazione. Quando con le telecamere hanno visto che filmavo con il telefonino la situazione, con i parametri anomali e gli allarmi sonori della strumentazione, sono intervenuti a spostare il paziente nella postazione speciale. Subito dopo è intervenuto un energumeno di infermiere, che con fare minaccioso mi ha intimato, su ordine del medico, di cancellare il video dal cellulare. C.mo C.lò successivamente è morto, a 56 anni, ma tutti (dagli Oss, fino agli infermieri ed i medici) omertosamente hanno tenuto nascosto la notizia. Nella postazione n. 8 della mia seconda stanza un degente non autosufficiente è andato al bagno senza bomboletta di ossigeno, mancante, così come senza accompagnamento dei preposti a farlo. Loro hanno visto tutto con le telecamere e non sono intervenuti. Il paziente uscendo dal bagno ha avuto una mancanza d'aria ed è caduto. Si è schiantato al suolo ed è morto.
Omertà o meno, peccato per loro che mi sono trovato sempre nel posto giusto al momento giusto. O sbagliato secondo i punti di vista.
L’assistenza sanitaria. E’ previsto il Bonus Covid per medici e operatori sanitari. Va da 600 euro a oltre mille euro. L’1 dicembre 2020 c’è stata un’infornata di nuove assunzioni e trasferimenti al reparto Ortopedia Covid di Manduria.
Seconda ondata Covid in Puglia, indagine della Procura sulla gestione da parte della Regione. Fascicolo senza indagati né reati: tra gli accertamenti quello sulle assunzioni del personale sanitario. La Repubblica di Bari il 28 novembre 2020. La Procura di Bari ha aperto un fascicolo conoscitivo, cioè un modello 45, senza indagati né ipotesi di reato, sulla gestione della seconda ondata di contagi Covid in Puglia da parte della Regione. Sugli accertamenti in corso gli inquirenti mantengono il massimo riserbo. Il fascicolo è coordinato dal procuratore facente funzione Roberto Rossi. A quanto si apprende, tra gli aspetti su cui si sta concentrando l'attività investigativa ci sono verifiche sull'assunzione del personale sanitario.
Gli operatori sanitari, spesso, denunciano che a loro non viene fatto il tampone di controllo.
Gli operatori della sanità sono considerati degli eroi a torto dall’opinione pubblica, sotto influenza dei media, così come le forze dell’ordine ed i magistrati. I medici, gli infermieri e gli Oss, alcuni sono gentili, altri meno. Alcuni sono capaci, altri meno. Sono tutti uguali. Tutti imbaccuccati. Qualcuno mette il nome sulle tute, altri vogliono rimanere anonimi. Gli infermieri, spesso, passano da un paziente ad un altro per le operazioni di routine (prelievi del sangue, inserimento flebo, ecc.) senza disinfettarsi le mani. Tutti sono corporativi ed omertosi. Ai richiami di allarme non c’è pronto intervento, salvo eccezioni dovuti al buon cuore dell’operatore. Ma quello che turba ed inquieta è il loro distacco ed indifferenza di fronte alla sofferenza ed alla morte. Un giudice che manda in cella un innocente, spesso dovuto ad un suo errore, è indifferente e distaccato. Ma un operatore sanitario, se ha una coscienza, non può avere lo stesso distacco di fronte alla morte, specie se è stata causata per sua colpa o per colpa di un protocollo criminale.
Comunque delle mie affermazioni sugli operatori sanitari vi è ampia cronaca di stampa di conforto.
"Tra dieci minuti muori": così il medico al paziente Covid in fin di vita. Maltrattamenti e furti ai defunti nell'inferno dell'ospedale di Taranto. Gino Martina il 4 dicembre 2020 su La Repubblica-Bari. Sono almeno sette gli episodi che riguardano pazienti ricoverati al Moscati morti dopo giorni. Sarebbero venute a mancare assistenza e condizioni di ricovero umanamente adeguate: indaga la procura e anche l'Asl con un'inchiesta interna. Il sindaco convoca i vertici dell'azienda per un chiarimento. Uno dei racconti più scioccanti è quello di Angela Cortese. Il padre, Francesco, positivo al Covid, la notte tra l'1 e il 2 novembre aveva fatto il suo ingresso all'ospedale Moscati di Taranto. Dal suo ricovero al giorno seguente, l'uomo, 78enne, è rimasto in contatto con la famiglia attraverso il telefonino. Ma ciò che ha comunicato in quelle ore ha allarmato tutti: "Venitemi a prendere, qui muoio". Il 3 mattina, la donna, avvocato, parla con un medico che si trova nell'Auditorium dove il padre era stato sistemato. "Suo padre non collabora, non vuole mettersi la maschera Cpap, fra dieci minuti morirà, preparatevi!". La donna racconta di urla, di una sorta d'aggressione al telefono. "Ci sentiamo piombare addosso d'improvviso queste parole terribili - spiega -, quel medico sembrava una bestia inferocita, contro di noi e mio padre. Ho avuto solo la forza di chiedere della saturazione e per tutta risposta ho ricevuto altre urla: non c'è saturazione, vedrete che fra poco muore!". Cortese domanda se il padre fosse lucido, se stesse lì vicino. "Sì è qui, è qui, mi sta ascoltando, fra poco morirà!". La donna assiste in questo modo alla sua fine. "Neanche i veterinari con i cani si comportano in questa maniera", aggiunge, sottolineando come "Non gli è stata somministrata nessuna terapia, solo ossigeno, solo la Cpap". Affermazioni, quelle di Cortese, che dovranno trovare riscontro nella cartella clinica richiesta all'ospedale e nelle indagini che la procura ha avviato per diversi altri casi di morti nel presidio sanitario a Nord del rione Paolo VI.
Le inchieste. I procedimenti sono più d'uno, fanno seguito alle denunce dei parenti, ma sono volti anche a verificare la corretta osservanza delle misure precauzionali sanitarie da parte della dirigenza ospedaliera. Il sospetto è che l'organizzazione, le attrezzature e il numero del personale tra ottobre e novembre non fossero adeguati ad affrontare la seconda ondata della pandemia, lasciando spazio all'improvvisazione, a Operatori socio sanitari utilizzati come infermieri e personale sotto stress, portando a gravi mancanze. Al di là del lavoro della magistratura, sono almeno sette gli episodi che riguardano degenti del Moscati morti dopo giorni nei quali sarebbero venute a mancare assistenza e condizioni di ricovero adeguati, oltre che telefoni e oggetti di valore, come fedi e collane, non restituiti ai parenti. Su questi ultimi episodi l'Asl ha diffuso una nota nella quale smentisce che ci possano essere stai dei furti, ma fa emergere anche una scarsa comunicazione tra l'organizzazione del presidio e gli stessi operatori. "Nelle singole unità operative coinvolte nei percorsi assistenziali di presa in carico - scrive l'Asl - sono custoditi e repertoriati numerosi piccoli oggetti di valore ed altri effetti personali. Intanto il sindaco di Taranto, Rinaldo Melucci, ha deciso di convocare i vertici Asl: "Se confermati, i fatti sono di una gravità inaudita".
"Attento, tra 10 minuti muori". Il medico rivela: "Perché l'ho detto..." Nessun provvedimento nei confronti del medico dell'ospedale di Taranto, che spiega: "Ho urlato solo per salvarlo, come un padre che urla al figlio, perché non voleva mettersi la maschera Cpap". Federico Garau, Mercoledì 09/12/2020 su Il Giornale. Continua la polemica intorno ai fatti avvenuti all'ospedale Moscati di Taranto, dove sono state denunciate gravi lacune di assistenza ed alcuni pazienti hanno perso la vita dopo essere stati ricoverati per giorni. A finire sotto la lente d'ingrandimento il caso del signor Francesco, finito in ospedale dopo aver manifestato i sintomi del Coronavirus. L'uomo, secondo quanto riferito da "Repubblica", era arrivato al pronto soccorso nella notte fra l'1 ed il 2 novembre, e da subito aveva chiesto aiuto alla famiglia, temendo per la propria vita. A raccontare tutto la figlia del 78enne, Angela Cortese, che ha spiegato come il padre avesse chiesto di essere riportato a casa già dal giorno successivo al ricovero. Parlando con un medici per chiedere conto di quanto stava accadendo al genitore, la donna si sarebbe sentita rispondere: "Suo padre non collabora, non vuole mettersi la maschera Cpap, fra dieci minuti morirà, preparatevi!". Da qui l'allarme lanciato dalla signora Cortese, avvocato di professione. "Ci sentiamo piombare addosso d'improvviso queste parole terribili. Quel medico sembrava una bestia inferocita, contro di noi e mio padre. Ho avuto solo la forza di chiedere della saturazione e per tutta risposta ho ricevuto altre urla: non c'è saturazione, vedrete che fra poco muore!", ha raccontato la donna a "Repubblica". "Non gli è stata somministrata nessuna terapia, solo ossigeno, solo la Cpap". Parole forti, quelle dell'avvocato Cortese, alle quali hanno fatto seguito delle indagini da parte della Procura della Repubblica di Taranto. A dire il vero, le inchieste che riguardano l'ospedale sono più di una, dal momento che sono state diverse le famiglie a denunciare discutibili comportamenti nei confronti dei pazienti. Oltre ad episodi di mancata assistenza, c'è chi parla anche di oggetti rubati, cosa che la Asl ha categoricamente smentito. Per quanto riguarda il caso del signor Francesco, poi deceduto lo scorso 3 novembre, il medico accusato di aver usato parole troppo dure nei suoi confronti ha deciso di parlare. La Asl di Taranto, al momento, non ha preso provvedimenti nei suoi confronti. "Ho urlato solo per salvarlo, come un padre che urla al figlio, perché non voleva mettersi la maschera Cpap che in quel momento era fondamentale ma non voleva indossare", ha spiegato il dottor Angelo Cefalo, medico del 118 di Taranto, nel corso della conferenza stampa organizzata nell'auditorium dell'ospedale Santissima Annunziata di Taranto. "Ho conservato come in una cassaforte i messaggi su Whatsapp con la figlia, perché le ho dato la mia disponibilità per spiegarle cosa fosse accaduto e un conforto per la perdita del padre". Il 78enne, hanno spiegato i medici, aveva un livello di saturazione di ossigeno nel sangue molto basso. In più, era cardiopatico, soffriva di insufficienza renale, diabete e bronchite cronica, oltre ad avere una fistola al braccio. "Se fosse stato intubato non ce l'avrebbe fatta, perciò per convincerlo a mettere la Cpap ho utilizzato un linguaggio trasparente, come siamo abituati a fare noi medici che ci relazioniamo con pazienti e parenti", ha raccontato il dottor Cefalo. "Tra dieci minuti muori glielo dicevo solo per convincerlo a mettere la mascherina, gli ho detto se aveva voglia di rivedere i suoi nipoti. Ovviamente i dieci minuti non erano reali ma era la mia disperazione emergentista, perché il nostro lavoro si basa sui secondi che erano fondamentali per salvare la vita del paziente, che purtroppo non ce l'ha fatta dopo circa due ore", ha concluso.
Maltrattamenti e furti in ospedale a Taranto, il sindaco convoca i vertici Asl: "Fatti di una gravità inaudita". La Repubblica-Bari il 04 Dicembre 2020.
Gli oggetti smarriti. Si segnala, ad esempio, che nella cassaforte allocata nel punto di Primo intervento del 118 del presidio ospedaliero San Giuseppe Moscati, sono custoditi oggetti preziosi, mentre altri effetti personali quali valigie, telefoni e relativi carica batteria, sono conservati in aree dedicate del reparto". Nella stessa nota sono stati pubblicati i contatti e il link dell'ufficio di Medicina legale dell'azienda sanitaria attraverso il quale poter cercare le cose appartenenti ai propri cari. Ma alcuni parenti vanno avanti con la denuncia ai carabinieri, come il caso della famiglia Rotelli, sicura che il telefono del padre sia stato rubato e manomesso. Come affermano anche altri parenti di altri degenti, che parlano di video girati all'interno cancellati dai telefoni dei propri cari. "Mia madre - spiega Tina Abanese, di Massafra - è stata ricoverata in quei giorni per una crisi respiratoria. È stata maltrattata da alcuni addetti che le rispondevano in malo modo. Non è stata cambiata per ore. È rimasta anche senza cibo e dopo due giorni dalla sua morte ci siamo accorti che nella borsa mancavano la fede e un altro anello, che indossava al momento dell'ingresso in ospedale".
Il ricovero nel container. Donato Ricci, imprenditore di Martina Franca, ha perso invece il padre, ex ispettore di polizia. Ha raccolto i primi di novembre il suo grido d'aiuto. "Chiamate la polizia, portatemi via da qui", diceva. L'uomo, in salute prima di aver contratto il Covid, ha anche girato dei video nel container dov'era ricoverato con la biancheria abbandonata per terra in un angolo. Ricci ha raccolto in un gruppo Whats'app i contatti di altri parenti di chi non c'è più dopo esser passato in quei giorni nell'ospedale, durante i quali era anche difficile poter contattare i propri cari o avere notizie dal personale, per mancanza di un numero telefonico apposito (è stato attivato nelle ultime settimane). C'è chi racconta di bagni sporchi, inaccessibili, camere mortuarie con cadaveri sistemati alla peggio, addetti delle onoranze funebri che li prelevano senza alcuna protezione. "Abbiamo denunciato la sparizione di anelli, della fede nuziale e d alcune collane di mio padre - raccontano Mariangela e Pierangela Giaquinto, figlie di Leonardo, paziente Covid ricoverato il 30 ottobre e scomparso il 21 novembre - ci hanno detto che avrebbero richiamato se e nel caso avessero ritrovato qualcosa ma non abbiamo avuto alcune segnalazione. Mio padre è stato intubato e indotto due volte al coma farmacologico. La seconda, però, non ce l'ha fatta". A muoversi ora è anche il Tribunale del malato, che chiede formalmente un intervento della Regione: dall'assessore alla Sanità Pierluigi Lopalco al governatore Michele Emiliano. "La situazione è allarmante - spiega la coordinatrice Adalgisa Stanzione - non solo perché ci sono casi di morti, ma perché c'è stata una sottovalutazione delle autorità competenti. Se non si aveva personale sufficiente per assistere i pazienti bisognava agire prima, non arrivare fino ai primi di novembre, quando c'erano al Moscati 95 persone ricoverate per Covid. Gli Oss hanno dovuto sopperire al lavoro degli infermieri. Ci stiamo muovendo con le nostre strutture legali per fare chiarezza. La situazione è migliorata con l'attivazione dei posti alla clinica Santa Rita e all'ospedale Militare, ma senza personale i posti letto servono a poco. Il diritto alla salute - prosegue Stanzione - va rispettato a partire dalla qualità della prestazione che non può essere soffocata dalla pseudo carenza di infermieri e medici. E poi la gente va trattata con umanità, va ascoltata, e non attaccata come incompetente e sprovveduta, da personale sotto stress. La pandemia - conclude - non può essere affrontata senza mezzi, è come combattere una guerra senza fucili".
In ospedale la morte sospetta di un 68enne. I familiari: «Abbandonato su una sedia». C'è l'inchiesta. Francesco Casula su il Quotidiano di Puglia-Taranto Martedì 8 Dicembre 2020. La procura della Repubblica di Taranto ha disposto l'autopsia sul corpo di un uomo deceduto all'ospedale Moscati per Covid19, ma per cause ancora ignote alla famiglia dell'uomo. È stato il sostituto procuratore Remo Epifani ad aprire un fascicolo contro ignoti e a disporre l'esame autoptico: l'incarico al medico legale sarà affidato domani mattina nel Palazzo di giustizia e subito dopo il consulente eseguire gli accertamenti richiesti dal magistrati per stabilire la reale causa del decesso. Non ci sono, al momento, nomi iscritti nel registro degli indagati, ma il pubblico ministero Epifani ha ipotizzato il reato di «responsabilità colposa per morte o lesioni personali in ambito sanitario». È stata la denuncia depositata dai familiari, alcuni dei quali si sono rivolti all'avvocato Gaetano Vitale, a spingere la procura a effettuare una serie di approfondimenti. Nella denuncia, infatti, i parenti della vittima hanno raccontato che l'uomo, dopo aver trascorso una degenza burrascosa dovuta al peggioramento delle sue condizioni, sembrava aver ormai superato la fase critica e secondo gli aggiornamenti che il medico di famiglia forniva ai congiunti, sembravano prossime le dimissioni dall'ospedale. Una mattina, però, quelle speranze insieme al resto del mondo sono crollate. I familiari hanno infatti ricevuto la telefonata da un medico del nosocomio tarantino che annunciava la morte dell'uomo. Nessuna spiegazione sulle cause, nessuna comunicazione ufficiale che informasse la famiglia di cambiamenti improvvisi del quadro clinico. Non solo. Secondo le informazioni raccolte da alcuni parenti, l'uomo di 68 anni con problemi di diabete, sarebbe stato ritrovato già cadavere nelle prime ore del 18 novembre, non nel suo letto, ma addirittura seduto su una sedia accanto al suo letto. Un dettaglio che secondo i denuncianti è la dimostrazione dello stato di abbandono al quale sarebbero stati costretti i pazienti nei reparti dell'ospedale ionico. E oltre all'elevato numero di pazienti rispetto a quello del personale sanitario, denunciato anche dai sindacati nelle scorse settimane, i familiari avrebbero anche fatto notare come in quella stessa notte in cui sarebbe avvenuta la morte del 68enne, sarebbero stati registrati anche altri 13 decessi. Per i familiari, quindi, la causa della morte potrebbe non essere stato il virus contratto dall'uomo una decina di giorni prima, ma lo stato di abbandono oppure le negligenze di chi avrebbe dovuto garantire assistenza. E dalle parole dei familiari, inoltre, sarebbero emerse anche accuse circostanziate rispetto alle modalità di sistemazione dei pazienti a cui il personale medico e paramedico è costretto a fare ricorso per affrontare l'emergenza in corso. Sulla vicenda il pm Epifani ha affidato anche una delega di indagini agli investigatori della Squadra mobile di Taranto che hanno acquisito la cartella clinica della vittima. La salma, in attesa dell'autopsia è stata trasferita nelle celle frigorifere di Bari. Gli elementi raccolti dai poliziotti e dal medico legale che sarà nominato come consulente della procura per effettuare l'autopsia, serviranno per ricostruire l'intero quadro della vicenda e poter valutare in modo chiaro e approfondito le eventuali responsabilità del personale che aveva in cura il 68enne.
Covid, preziosi scomparsi e disumanità, inchiesta sull'ospedale: «Vogliamo la verità». Le testimonianze dei familiari delle vittime: «Quando ci dissero, “faccia poche tragedie”». u il Quotidiano di Puglia-Taranto Sabato 5 Dicembre 2020. «Amore, mi stanno portando in rianimazione, forse m'intubano». È l'ultimo messaggio che Ubaldo, 62 anni, è riuscito a mandare alla moglie prima di morire. Un tenero cuoricino rosso per chiudere la frase. Questo, assieme a tanti altri strazianti messaggi audio e video, farà parte delle denunce, undici sinora quelle previste, che presenteranno i componenti del gruppo «Per i nostri parenti», mogli, figlie e figli di altrettanti pazienti deceduti per Covid nei reparti soppressi dell'ospedale San Giuseppe Moscati di Taranto. Parenti che chiedono giustizia, spinti da cause diverse: la scomparsa di oggetti di valore indossati dai propri cari, ma anche presunti comportamenti dei sanitari al limite del disumano come anche dubbi sul trattamento e sulle terapie praticate sui pazienti. Anelli, fedi nuziali, orologi e telefoni cellulari che appartenevano a pazienti morti per Covid, nell'ospedale Moscati di Taranto, non sono mai più stati consegnati ai parenti che sospettano possano essere stati rubati. La magistratura ha aperto una inchiesta, mentre l'Asl di Taranto ha avviato una indagine interna. Ad alcuni cellulari restituiti - secondo la denuncia dei parenti - sarebbe stata cancellata la memoria che conteneva importanti ricordi. E forse anche qualcosa di strano che accadeva nell'ospedale e che era stata filmata e quindi - secondo i familiari delle vittime - doveva essere cancellata. Tra gli episodi riferiti, quello di un paziente 78enne la cui figlia ha ricevuto la telefonata di una dottoressa che, urlando, si lamentava perché l'anziano non sopportava la maschera per l'ossigeno. Davanti al paziente, che era vigile, la dottoressa avrebbe detto «se non la tiene muore, fra dieci minuti muore». Pochi minuti dopo la stessa dottoressa avrebbe chiamato la figlia del paziente dicendo «gliel'avevo detto che moriva, ed è morto». Nel suo racconto, la figlia di Ubaldo, quello del tenero e drammatico ultimo messaggio con il cuoricino rosso alla moglie, parla di «sgarbatezza e disumanità» nel descrivere le comunicazioni tra la famiglia e il personale dove è stato ricoverato suo padre. La sua storia è simile alle altre del gruppo. «Nostro padre aveva 62 anni, era pensionato Ilva e soffriva solo di pressione che controllava bene con una compressa al giorno». Poi l'incontro con il coronavirus. Otto giorni di cura a casa, il peggioramento dei sintomi e il ricovero al Moscati. «Gli hanno fatto il tampone risultato poi positivo e nell'attesa del referto è stato messo in un ufficio adibito a stanza di degenza dove è rimasto due giorni su una brandina con la borsa degli indumenti sulle gambe». Finalmente viene sottoposto ad esame Tac che rivela una grave polmonite da Covid. Viene così spostato nel prefabbricato della rianimazione modulare e da allora inizia l'odissea della famiglia che non avrebbe avuto notizie per mancanza di interlocutori. Nel bunker schermato il telefonino non sempre aveva la linea. Il seguito del racconto è ricco di telefonate senza risposta o di mezze risposte o di risposte cariche d'astio di chi dall'altra parte del telefono avrebbe dovuto tranquillizzare e informare sulle condizioni di salute del malato. E' ancora a figlia a parlare. «Infine il messaggio di papà alla mamma e poco dopo la telefonata di una dottoressa che c'informa che dovevano intubarlo. La nostra reazione si può immaginare racconta la figlia - io stessa ho richiamato subito dopo per avere più informazioni e la risposta che mi hanno dato non la scorderò mai: "Signora, poche tragedie per favore perché non posso perdere tempo con lei"». Ubaldo non ce l'ha fatta, è morto il 7 novembre scorso nella rianimazione del Moscati. Le cause del decesso, oltre ai comportamenti dei sanitari, saranno i quesiti che i familiari metteranno nella denuncia che presenteranno appena entreranno in possesso della cartella cinica. Intanto su questo e sui presunti casi di furto di oggetti di valore dai cadaveri Covid, il sindaco di Taranto, Rinaldo Melucci, ha convocato il direttore generale Asl, Stefano Rossi. «Si tratta di vicende - commenta il primo cittadino - se confermate, che oltre ad essere di una gravità inaudita, vanificherebbero gli sforzi che l'intera comunità sta compiendo e che, in particolare, stanno compiendo le istituzioni di ogni genere per garantire i diritti fondamentali dei cittadini in questo particolare periodo. Nessuna emergenza, infatti conclude il sindaco - può giustificare abusi, superficialità o deroghe al corretto esercizio di qualsiasi genere di servizio essenziale, a maggior ragione dei servizi di natura sanitaria».
Da romatoday.it 21 dicembre 2020. Sciacalli o una grave disattenzione? Il San Camillo di Roma è finito al centro dei un marasma sul qualche anche la Regione Lazio chiede lumi. Tutto è nato quando un uomo di 68 anni di Fondi, ricoverato nel nosocomio perché positivo al Covid, è morto il 14 dicembre scorso, dopo aver lottato invano contro il virus. Quando la figlia ha chiesto alla struttura ospedaliera di poter riavere la fede nuziale e i pochi beni che il padre aveva con sé si è sentita rispondere che di quegli oggetti non c'era traccia. Tutto sparito. Vestiti e occhiali compresi. La storia è ricostruita da Repubblica. La figlia del 68enne ha raccontato come ha scoperto che dei ricordi di suo padre non c'era più traccia. Spariti i vestiti, spariti gli occhiali, sparita la fede nuziale. "Faccia una denuncia contro ignoti per appropriazione indebita", hanno detto alla donna dal San Camillo. La signora si è quindi rivolta ai carabinieri denunciando l'accaduto. Il Direttore Generale del San Camillo di Roma Fabrizio D'Alba, nella giornata di domenica, ha quindi annunciato l'apertura di un'inchiesta interna da parte dell'azienda ospedaliera per verificare se sia avvenuto un furto, e per ricostruire tutti i passaggi "dal ricovero, alla degenza, fino al decesso". "Ho già avviato un'inchiesta interna per ricostruire tutti i passaggi, dal ricovero, alla degenza fino al decesso dell'uomo la cui famiglia ha denunciato il furto di alcuni oggetti personali, dice D'Alba, che aggiunge: "La procedura di presa in carico dei beni e degli oggetti personali dei nostri ricoverati è ben definita e standardizzata. Per questo l'inchiesta interna dovrà chiarire se e quali passaggi sono eventualmente saltati. Va sottolineato che in molti casi prima dell'arrivo presso la struttura Ospedaliera il paziente viene preso in carico dal 118 e sono molteplici le persone che intervengono in quella fase. Dai viglili urbani, alle forze di polizia, ai semplici cittadini che assistono e chiedono aiuto. E stessa cosa accade nella fase di trasporto della salma dopo il decesdo. Un momento in cui intervengono altre realtà non ospedaliere. Per questo - conclude il direttore - prima di individuare l'ospedale come responsabile unico e certo del furto è necessario ricostruire l'intera vicenda. Una vicenda triste, inacettabile corollario della morte di un paziente". Sul caso è intervenuto anche l'Assessore alla Sanità della Regione Lazio, Alessio D'Amato: "Ho richiesto una relazione alla azienda ospedaliera per verificare l'accaduto. Se venisse confermato quanto riportato ci troviamo di fronte ad un gesto vile e irrispettoso. Ho chiesto alla direzione generale una dettagliata relazione sugli eventi".
Gli strumenti della cura. Il saturimetro è uno strumento per la misurazione dell’ossigeno del sangue e del battito cardiaco. In ospedale, questo strumento non è ad acchiappapanni, ma è adesivo al dito. Le unghie, il sudore, l'acqua ne minano l'affidabilità, ma sui parametri falsati, spesso si poggiano le terapie.
La Cura. Per i sanitari la morte di un paziente è sempre certificata come conseguenza di patologie pregresse: falso!
Carla Massi per “il Messaggero” il 22 novembre 2020. Il titolo del documento è Decisioni per le cure intensive in caso di sproporzione tra necessità assistenziali e risorse disponibili in corso di pandemia da Covid-19. Tradotto significa ecco quali sono i criteri che i medici, gli anestesisti in particolare, dovrebbero seguire nel caso in cui dovessero trovarsi a scegliere chi ricoverare prima in terapia intensiva. Solo in una situazione di estrema gravità, dunque.
IL PROTOCOLLO. È stato messo a punto dalla Società italiana di anestesia analgesia rianimazione e terapia intensiva e dalla Società italiana di medicina legale e delle assicurazioni. Un documento secondo il quale dovrebbe essere assistito prima colui che ha maggiori speranze di vita. Come avviene durante le catastrofi. Come sta avvenendo in molte terapie intensive in cui, spesso, ci si trova a dover fronteggiare uno squilibrio tra domanda e offerta di cure. Al paziente, si legge ancora, vanno comunque garantiti i suoi diritti e assicurato che sarà preso in carico con «gli strumenti possibili». «Fermi restando i principi costituzionali (diritto alla tutela della salute e all'autodeterminazione, principio di uguaglianza, dovere di solidarietà - si legge nel testo pubblicato sul sito del Sistema nazionale linee guida dell' Istituto superiore di sanità) - si rende necessario ricorrere a scelte di allocazione delle risorse». Per le due società, vista la situazione, è necessario creare un triage ad hoc negli ospedali. Un centro di valutazione finalizzato a stabilire quali pazienti hanno la priorità per essere assistiti. Che per le rianimazioni, spiegano gli anestesisti, significa accertare chi «potrà con più probabilità o con meno probabilità superare la condizione critica con il supporto delle cure intensive». L' età, dunque, non è di per sé un criterio sufficiente per stabilire chi può beneficiare delle terapie. Ovviamente sono stati individuati anche tutti i parametri, sono dodici ora all' esame dell' Istituto di sanità, e tutte le possibili condizioni da seguire prima di arrivare alla scelta. Scelta che i medici, sempre nel caso di sovraffollamento, quando possibile, intendono sottoporre anche al paziente. Alcuni, come ci ricorda l' ampio dibattito sul testamento biologico, potrebbero anche non desiderare di essere sottoposti a cure intensive. In ogni caso dovrebbero essere rispettate le volontà nel caso il paziente abbia lasciato uno scritto o, in quel momento, informi il medico che lo sta assistendo.
LE RISORSE. «Lo scenario in cui ci siamo trovati a marzo sta purtroppo tornando attuale con un' intensità e una durata ancora non quantificabili - fa sapere la presidente della Società italiana di anestesia, analgesia, rianimazione e terapia intensiva Flavia Petrini - Per questo si è lavorato sui criteri di scelta di fronte a una eventuale mancanza di letti in terapia intensiva. Gli anestesisti-rianimatori sono tra i sanitari maggiormente impegnati, in Italia come negli altri Paesi, nelle cure per i pazienti colpiti dal virus. La scarsità di risorse prodotta dalla pandemia ci coinvolge in modo particolare. Abbiamo fatto e stiamo facendo ogni sforzo per garantire le migliori possibilità di cura in circostanze spesso drammatiche. Come si è visto in tanti filmati». La deontologia medica, come scrive nell' introduzione del documento Carlo Maria Petrini, direttore dell' Unità di Bioetica e presidente del Comitato etico dell' Istituto superiore di sanità, pone al centro il paziente privilegiando il criterio terapeutico. «Tuttavia - sono parole di Petrini - vi sono situazioni in cui è impossibile trattare tutti. In questi casi la sola etica ippocratica risulta insufficiente. Occorre applicare il triage. E come ogni atto medico deve basarsi innanzi tutto sui criteri di appropriatezza e proporzionalità». Si cominciano, intanto, a vedere i primi effetti della generale stretta nel Paese. Frena, infatti, l' incremento dei pazienti ricoverati in terapia intensiva per Covid-19. Secondo i dati di ieri del ministero della Salute: sono dieci le persone entrate nei reparti di rianimazione, che portano il totale a 3.758. Superata invece la soglia dei 34 mila nei reparti ordinari.
In ospedale l’iter giornaliero è questo:
5.30 prelievi di sangue, a volte l’Emogas arterioso. Per sottoporsi a emogasanalisi arteriosa non è richiesto il digiuno, né la sospensione di eventuali terapie in corso. L'esame può essere moderatamente doloroso. E’ estremamente doloroso se fatto da mani incapaci. Spesso analisi dell’urine. Tre volte al giorno misurazione della febbre e misurazione della pressione.
8.30 distribuzione della protezione e del cortisone ed eventuale flebo.
16.30 somministrazione tramite flebo di antibiotici, farmaci sperimentali, liquido di lavaggio.
Si crede che rivolgendosi alle strutture sanitarie ci si possa curare dal covid. Non è così. Spesso si muore. Io posso raccontare la mia esperienza in virtù del fatto di essere Antonio Giangrande. Esperto del Virus, fortemente caparbio ed estremamente rompiballe. Io sono a detta di tutti un miracolato. Ma il miracolo l’ho anche voluto io. Dal primo momento, la degenza in ospedale è stata caratterizzata dall’essere positivo sia dal Covid, sia nello spirito. Il mio principio, data la mia esperienza, le mie traversie e le mie sofferenze, è: me ne fotto della morte. Ed è stato lo spirito giusto. Ho mantenuto il morale alto ai miei compagni ed intrattenuto ottimi rapporti con gli operatori sanitari (meglio tenerseli buoi a scanso di ritorsioni).
La mia cura prima del ricovero era: protezione, antibiotico, cortisone, eparina.
La mia cura in degenza era: protezione, antibiotico, cortisone, eparina. Uguale!
In aggiunta c’era solo l’ossigenoterapia.
Loro curano la polmonite bilaterale interstiziale. La polmonite da Covid-19 è altra cosa. Perché è diversa la causa. Se non combatti la causa, l’infiammazione si aggrava, porta al collasso dei polmoni, in particolare uno, e mina la funzionalità degli altri organi: da ciò consegue la morte.
Negli ospedali si attende. Si aspetta l’evoluzione della malattia. Si aspetta il miracolo. Non c'è evoluzione positiva della malattia se non si effettua la cura adeguata. Le cure ci sono ma non le applicano per protocollo.
L’ossigenoterapia a me applicata era pari a 10 litri, con inalazione tramite mascherina con la bustina.
Tra i medicinali e l’ossigeno, la terapia nel complesso si è dimostrata inadeguata, tanto da causare l’aggravarsi della mia situazione. Hanno portato il livello della mia ossigenazione a 15, il massimo per quel reparto di ortopedia con inalazione tramite mascherina con busta. Sempre lucido e con il morale alto ho imposto la mia volontà e la mia competenza. Farmi somministrare, tramite flebo, il “remdesivir”, adottato contro l’Ebola. Farmaco osteggiato dall’elite sanitaria mondiale e nazionale.
La battaglia sul Remdesivir, il farmaco anti Covid che divide i due lati dell'Oceano. Elena Dusi su La Repubblica il 5 dicembre 2020. Per l'Oms non va usato: benefici inferiori ai rischi. Ma per il prestigioso New England Journal of Medicine a sbagliare è stata l'organizzazione mondiale per la sanità con sperimentazione su dati disomogenei. In ballo, oltre alla salute, c'è una fortuna: ogni ciclo di cura costa 2.400 dollari. C’è un farmaco che funziona in America ma non nel resto del mondo. E’ il controverso remdesivir, antivirale messo a punto per Ebola ma “riposizionato” in regime d’emergenza contro il coronavirus, usato anche per trattare il presidente americano Donald Trump. L’Organizzazione mondiale della sanità a fine novembre ha pubblicato i risultati di uno studio da lei coordinato: i benefici del farmaco non superano i rischi. «L’antivirale remdesivir non è consigliato per pazienti ospedalizzati per Covid-19, a prescindere dalla gravità della malattia, perché al momento non ci sono prove che migliori la sopravvivenza o la necessità di supporto di ossigeno». Anche i risultati dei trial precedenti non erano stati brillanti, ma lasciavano intravedere un qualche beneficio, come la riduzione dei giorni passati in ospedale (cinque in meno, in media, rispetto al placebo, secondo uno studio americano). La pubblicazione targata Oms, avvenuta sul British Medical Journal, ha spinto anche la nostra Aifa (Agenzia italiana per il farmaco) a riunire un tavolo per riscrivere le indicazioni di questo antivirale, che frutta alla casa produttrice americana Gilead 2.400 dollari per ogni ciclo (5 giorni di trattamento), somministrato via flebo esclusivamente in ospedale. L’articolo del British (che mette insieme i risultati di quattro studi diversi per un totale di 7mila pazienti) ha fatto cadere le azioni dell’azienda farmaceutica, nel giorno della pubblicazione, dell’8%. Da Boston, sede del prestigioso New England Journal of Medicine, è subito arrivata la replica: a sbagliare è l’Oms, scrive la rivista in un editoriale. La sperimentazione dell’Organizzazione di Ginevra, battezzata Solidarity, è stata condotta in 30 paesi, dalla Svizzera alla Germania, dall’Iran al Kenya. Secondo il New England non avrebbe raccolto dati omogenei. “Gli standard di cura in queste nazioni sono variabili, così come la condizione dei pazienti che vengono ricoverati in ospedale”. Il remdesivir – ribadisce l’altra sponda dell’Atlantico – deve continuare a essere somministrato. Di questa opinione era, fino alla scorsa estate, anche l’Europa. Trovatasi a corto di scorte (a luglio la Casa Bianca si è accaparrata tutte le dosi prodotte da lì a settembre), la Commissione ha intavolato in tutta fretta una trattativa con Gilead per una fornitura di 500mila dosi al prezzo di 1,2 miliardi di euro. La casa farmaceutica, secondo un’indiscrezione del Financial Times, conosceva già i risultati scettici dello studio Oms, ma non li avrebbe comunicati agli europei. “L’Italia – prosegue il quotidiano inglese – ha pagato 51 milioni per un ordine di remdesivir quando i casi stavano salendo e le scorte si stavano assottigliando”. Mi hanno fatto firmare la liberatoria con assunzione di responsabilità, previa nota informativa, per l’assunzione di un farmaco, non adottato a Manduria e nella maggior parte degli ospedali italiani. E poi, in previsione di morte certa, perché non tentare con cure che possono essere anche dannose o inefficaci?
Sull’efficacia del farmaco io sono un testimone, vivente, ospedalizzato ed attendibile. Dopo due giorni di cure, sì inefficaci, che mi hanno fatto rasentare la morte con il quadro clinico compromesso ed aggravante, con 15 litri di ossigeno e saturazione insufficiente, dopo tre giorni di infusioni con una dose al dì del farmaco, la mia situazione clinica è immediatamente migliorata. Da 15 litri di ossigeno sono passato a 4, con ossigenazione a 92, e tutti gli altri valori sono immediatamente migliorati. Tanto da che il tampone effettuato il giorno 3 dicembre 2020 è risultato negativo.
Sul costo del farmaco io sono dubbioso. Se si è curata l’Africa infetta da Ebola, non penso non si possa salvare la popolazione dei paesi più ricchi. E poi con tanti soldi buttati al vento tra sprechi, regalie e sostegni economici a pioggia, non penso che si possa far morire la gente per spilorceria.
Michele Bocci per repubblica.it il 28 novembre 2020. Non vanno dati subito e in certi casi non devono proprio essere somministrati. Bisogna valutare bene la situazione prima di scegliere i farmaci per la terapia domiciliare contro il Covid. Il cortisone, ad esempio, si può prendere in considerazione dopo almeno tre giorni di sintomi e se peggiora la saturazione dell'ossigeno nel sangue. L'eparina, che tanti medici invece utilizzano, andrebbe iniettata solo a chi rimane a letto a lungo a causa del virus. Del resto non ci sono prove di un beneficio clinico dal suo uso su chi non è ospedalizzato o comunque immobilizzato. E vitamine e integratori non servono proprio a niente. Sta finendo novembre e finalmente arrivano delle linee guida nazionali per la gestione al domicilio dei malati di Covid. Le ha approvate ieri il Cts della Protezione civile anche se il documento va ancora ritoccato. Ad attenderlo sono tantissimi professionisti. Medici di famiglia (che hanno collaborato a stenderlo) e delle Usca, ad esempio, oltre a tutti gli specialisti che in questi mesi sono rimasti sommersi sotto un gran numero di protocolli. C'è quello dell'ordine dei medici della Lombardia, che ritiene utile il cortisone ma solo con problemi di saturazione e febbre che va avanti da 5-7 giorni, e c'è il primario delle malattie infettive di Genova Matteo Bassetti, che suggerisce di aspettare 4 giorni di sintomi moderati prima di avviare i trattamenti farmacologici. Poi c'è la Simg, la società scientifica dei medici di famiglia, che parla di malattia moderata quando ci sono tre giorni di febbre superiore a 38 gradi o problemi di respirazione non gravi e indica di prendere il cortisone al settimo giorno di sintomi, quando suggerisce di introdurre anche l'eparina. L'Italia è il Paese delle linee guida sanitarie e il Covid non ha fatto eccezione.(…) Il documento del Cts dovrebbe mettere le cose a posto. Intanto sottolinea l'importanza del saturimetro, che in situazione normale segna un dato superiore al 95%: "L'utilizzo diffuso di questo strumento potrebbe ridurre gli accessi potenzialmente inappropriati ai pronto soccorso". Il limite di saturazione accettabile, tenuto anche conto del margine di errore degli strumenti da casa, è comunque quello del 92%. Quando il medico assiste a domicilio persone con pochi sintomi deve appunto far misurare l'ossigenazione di frequente, trattare la febbre con il paracetamolo e assicurarsi che il pazienti si idrati e mangi. Il cortisone a domicilio "può essere considerato in quei pazienti in cui il quadro clinico non migliora entro le 72 ore, soprattutto in presenza di un peggioramento dei parametri pulsossimetrici". Come detto l'eparina non va usata "se non nei soggetti immobilizzati per l'infezione in atto". Poi ci sono gli antibiotici, che vanno dati solo se c'è febbre per oltre 72 ore e il quadro clinico fa sospettare che sul problema virale si sia innestata una infezione batterica. L'idrossiclorochina non va usata, dicono gli esperti, e non vanno fatti farmaci con l'aerosol se ci sono conviventi non colpiti dal virus, visto che quel sistema è molto contagioso. Infine "non esistono a oggi evidenze solide e incontrovertibili di efficacia di supplementi vitaminici o intengratori alimentari, a esempio la vitamina D, la lattoferrina, la quercitina, il cui utilizzo per questa indicazione non è quindi raccomandato".
Bassetti: "Ecco la verità su Remdesivir, eparina e cortisone". Il professor Bassetti intervistato da ilGiornale.it: "Troppa confusione, ora servono linee condivise per fermare il virus". Matteo Carnieletto e Andrea Indini, Lunedì 02/11/2020 su Il Giornale. Professor Bassetti, ad oggi il Covid-19 ha fatto oltre 38mila morti in Italia. C’è chi punta il dito contro i medici di base, che non avrebbero curato a dovere i propri pazienti, preferendo spedirli in ospedale.
È davvero così?
«Innanzitutto non è del tutto vero che i medici non vanno a visitare i pazienti a casa. C’è però una cosa da dire: la nostra organizzazione delle medicina territoriale non è fatta per gestire una pandemia. Un medico arriva ad avere 1500 assistiti. In una città come Milano, dove in questo momento c’è una grande circolazione del virus, è probabile che un medico abbia a casa anche il 10, 15 per cento dei pazienti con i sintomi del Covid-19. Un medico è in grado di gestire 150 persone insieme? Non è un problema dei medici, è un problema di organizzazione e di tagli che sono stati fatti negli ultimi trent’anni. Nessuno se n’è accorto sul momento, adesso però stiamo vedendo i risultati. Ora bisogna imparare la lezione e organizzare il futuro: ci vogliono investimenti pesanti e sostanziosi».
Cortisone ed eparina sono medicinali che potrebbero essere somministrati ai malati che sono a casa. Perché non vengono prescritti?
«Bisogna stare attenti: lo studio “Recovery” dice che il cortisone ha un beneficio nelle forme gravi, in quelle dove il paziente ha la polmonite e un deficit di ossigeno. In questo caso funziona. Nei casi medio-lievi il cortisone potrebbe anche non essere la risposta corretta. Il problema è avere protocolli condivisi. Sapere cioè cosa fare quando un paziente ha la febbre, quando ha anche tosse e sintomi respiratori, se ha una grave (ma ancora non gravissima) insufficienza respiratoria, a chi posso dare l’eparina e a chi no. Sono tutte cose che sarebbe bene fossero in un protocollo nazionale».
Che attualmente però non c’è…
«No, c’è molto disordine. Ognuno fa un po’ come gli pare. Ho saputo anche di soggetti asintomatici che sono stati trattati con eparina, cortisone e antibiotici. La gente sente questa confusione e va in ospedale, dove si presume ci sia un po’ più di ordine».
Arrivata in ospedale, come viene curata la gente?
«Dipende dal quadro che ci troviamo davanti. Entro i dieci giorni dall’emergere dei sintomi si usa il cortisone a dosi sostenute, il Remdesivir che è stato approvato per chi ha deficit respiratori, l’eparina per evitare che si formino trombi e poi, per le forme più impegnative di polmonite, si aggiunge l’antibiotico».
Perché non viene regolarmente somministrato il Remdesivir?
«Ci sono criteri molto chiari definiti dall’Aifa. Va usato solo se i sintomi hanno un esordio da meno di dieci giorni ed è quello che facciamo anche noi seguendo i criteri dell’Aifa».
Quando Trump ha preso il Covid è guarito nel giro di pochi giorni. Eppure era considerato un soggetto a rischio. Perché?
«Hanno usato una cura sperimentale che attualmente non è in commercio - l’anticorpo monoclonale Regeneron - e che probabilmente ha dato buoni risultati. Ci sono dati preliminari che dicono che questo anticorpo potrebbe funzionare. Bisogna aspettare la conclusione dello studio: una volta che ci sarà, potremo dire qualcosa di più. Indubbiamente però uno degli anticorpi monoclonali in studio sembra essere promettente. È probabile che Trump abbia avuto una forma non troppo grave, ma è anche vero che per curarlo sono stati utilizzati il Remdesivir, l’eparina e l’anticorpo monoclonale».
Torniamo alle cure in casa. Il professor Cavanna è considerato il "padre" del modello Piacenza alla base del quale c'è l'uso della idrossiclorochina. Funziona?
«C’è uno studio che dimostra che l’idrossiclorochina non funziona. Fino a che non ci saranno nuovi studi che dimostrano che il farmaco funziona, io non lo utilizzerei. C’è uno studio randomizzato che dimostra come coloro a cui è stata somministrata l’idrossiclorochina non hanno ottenuto alcun beneficio. Bisogna evitare di fare una medicina aneddotica. La medicina si fa con l’evidenza scientifica, che arriva dagli studi. L’unico modo che hai per dimostrarne l’efficacia è quello di fare uno studio randomizzato: se lo fa hai un’evidenza scientifica. Altrimenti hai solo un’opinione».
Si può dunque fare di più nella scelta dei medicinali e così diminuire il numero dei morti?
«Ci sono alcune cose che si sarebbero dovute fare e che non sono state fatte. Primo: creare protocolli condivisi a livello nazionale, una sorta di linee guida italiane a cui le società scientifiche stanno lavorando. Io sono presidente della Società italiana di terapia anti infettiva, e abbiamo messo in piedi un gruppo di studio, insieme alla Società italiana di pneumologia, per stilare delle linee guida di trattamento del Covid. Con questo gruppo di lavoro cercheremo di produrre un documento che spieghi come trattare il Covid: quali farmaci utilizzare e quali no. Secondo: uniformare i criteri di ospedalizzazione. Chi deve essere ricoverato in ospedale? Chi deve essere curato a casa? Chi deve essere ricoverato in una struttura extra ospedaliera? Ci devono essere parametri precisi, che siano utilizzati da tutti. Ci devono essere anche criteri di dimissioni condivisi: una volta che il paziente sta bene, che non ha più bisogno di presidi ospedalieri, quando lo posso dimettere? Questo è importante perché permette un turnover maggiore di posti letto. Se riusciamo a far girare al meglio i pazienti, il sistema può reggere. Terzo: collegare l’ospedale e il territorio. La gente deve sentirsi sicura e sapere che i medici di base sono collegati all’ospedale in un certo senso si porta a casa l’ospedale».
Molti hanno affermato che la lattoferrina può essere un utile alleato contro il Covid. È davvero così?
«Anche su questo non ci sono forti evidenze. La lattoferrina è un farmaco che non ha grandi effetti collaterali, quindi se uno vuole può usarlo, ma non ci sono evidenze così forti a suo favore. Ci sono delle esperienze aneddotiche, ma io lavoro con le evidenze. Se uno la vuole utilizzare può farlo, ma non credo entrerà nelle linee guida come farmaco che cambierà la storia del Covid».
Da leggo.it l'11 dicembre 2020. La III Sezione del Consiglio di Stato ha accolto, in sede cautelare, il ricorso di un gruppo di medici di base e ha sospeso la nota del 22 luglio scorso di AIFA che vietava la prescrizione off label (ossia per un uso non previsto dal bugiardino) dell' idrossiclorochina per la lotta al Covid. «La perdurante incertezza circa l'efficacia terapeutica dell'idrossiclorochina, ammessa dalla stessa AIFA a giustificazione dell'ulteriore valutazione in studi clinici randomizzati - si legge nell'ordinanza - non è ragione sufficiente sul piano giuridico a giustificare l'irragionevole sospensione del suo utilizzo sul territorio nazionale». Gli appellanti, nella loro qualità di medici che avevano sino a quel momento prescritto l'idrossiclorochina ai pazienti, hanno proposto ricorso contro la nota di AIFA sostenendo in sintesi che l' idrossiclorochina, sulla base di studi clinici pubblicati su riviste internazionali accreditate, sarebbe efficace nella lotta contro il virus, censurando il difetto di istruttoria che inficerebbe le determinazioni di AIFA, e hanno lamentato la lesione della loro autonomia decisionale, tutelata dalla Costituzione e dalla legge, nel prescrivere tale farmaco sotto la propria responsabilità, ai pazienti non ospedalizzati che acconsentano alla sua somministrazione per la cura domiciliare del SARS-CoV-2. Nella prima fase della pandemia AIFA, così come del resto altre Agenzie nazionali europee ed extraeuropee, ha inizialmente consentito all'utilizzo off label - e, cioè, al di fuori del normale utilizzo terapeutico già autorizzato - dell'idrossiclorochina e ha reso prescrivibili a carico del Servizio Sanitario Nazionale alcuni farmaci, tra i quali la clorochina e, appunto, l'idrossiclorochina. Ma successivamente AIFA ha disposto la sospensione dell'autorizzazione all'utilizzo off label dell' idrossiclorochina per il trattamento del Sars-Cov-2, se non nell'ambito di studi clinici controllati, e la sua esclusione dalla rimborsabilità a carico del Servizio sanitario nazionale. Alla base di questa determinazione AIFA ha posto alcune evidenze sperimentali che avrebbero rivelato un profilo di efficacia assai incerto del farmaco nel contrasto al virus e un rischio di tossicità, in particolare cardiaca, rilevante ad elevati dosaggi. «La scelta se utilizzare o meno il farmaco, in una situazione di dubbio e di contrasto nella comunità scientifica, sulla base di dati clinici non univoci, circa la sua efficacia nel solo stadio iniziale della malattia - si legge nell'ordinanza del Consiglio di Stato - deve essere rimessa all'autonomia decisionale e alla responsabilità del singolo medico» «in scienza e coscienza» e con l'ovvio consenso informato del singolo paziente. Rimane fermo il monitoraggio costante e attento del medico che lo ha prescritto. L'ordinanza - è la n.7097/2020 ed è stata pubblicata oggi - precisa che non è invece oggetto di sospensione (né a monte di contenzioso) la decisione di AIFA di escludere la prescrizione off label dell' idrossiclorochina dal regime di rimborsabilità
Covid, via libera all'idrossiclorochina: "Irragionevole vietarne l'uso". Colpo di scena in Italia: il Consiglio di Stato accoglie il ricorso dei medici di base. "Dati clinici non univoci". Ma non può essere rimborsato. Giuseppe De Lorenzo, Venerdì 11/12/2020 su Il Giornale. Colpo di scena. Esultano i medici che da tempo sostengono l'uso dell'idrossiclorochina contro la malattia Covid-19. Il Consiglio di Stato, infatti, ha accolto il ricorso di alcuni medici contro la decisione dell'Aifa di vietarne la prescrizione off label, cioè per un uso non previsto dal bugiardino. Il medicinale finito al centro della polemica politica per "colpa" di Trump, Bolsonaro e (soprattutto) dei loro detrattori rientra in campo dalla finestra dopo essere stato messo alla porta senza tanti complimenti. Una decisione, quella dell'Aifa, che aveva diviso (e che ancora divide) la comunità scientifica tra chi ritiene l'Hcq pericolosa e chi la considera una valida arma contro il coronavirus. L'ordinanza del Consiglio di Stato, la numero 7097/2020, è stata pubblicata questa mattina ed è destinata a far discutere. Per i giudici amministrativi l'idrossiclorochina può essere usata come terapia per Covid-19, previa prescrizione di un medico e comunque, come previsto dall'Aifa, senza la rimborsabilità da parte del Servizio sanitario nazionale. La III Sezione ha accolto, in sede cautelare, il ricorso di un gruppo di medici di base e ha sospeso la nota del 22 luglio del 2020 con cui l'Aifa aveva impedito ai medici di prescrivere l'Hcq al di fuori degli studi clinici autorizzati dall'Ente. "La perdurante incertezza circa l'efficacia terapeutica dell'idrossiclorochina, ammessa dalla stessa Aifa a giustificazione dell'ulteriore valutazione in studi clinici randomizzati - si legge nella corposa ordinanza - non è ragione sufficiente sul piano giuridico a giustificare l'irragionevole sospensione del suo utilizzo sul territorio nazionale da parte dei medici curanti". E ancora: "La scelta se utilizzare o meno il farmaco, in una situazione di dubbio e di contrasto nella comunità scientifica, sulla base di dati clinici non univoci, circa la sua efficacia nel solo stadio iniziale della malattia, deve essere dunque rimessa all'autonomia decisionale e alla responsabilità del singolo medico in scienza e coscienza". Ovviamente ci deve essere il consenso informato del paziente e il medico deve monitorare il progresso clinico: ma non può essere vietato. La battaglia su questo farmaco è ormai di vecchia data. Come raccontato nel Libro nero del coronavirus, tra i primi ad utilizzarla fu Luigi Cavanna, primario di oncologia e padre del "Metodo Piacenza", decantato anche dai media stranieri. L’Hcq contro il Covid ha dimostrato di funzionare - ci raccontò - Anche tanti medici l'hanno assunta. Non farà testo, ma vuol dire che ci credevano. E poi ci sono centinaia se non migliaia di pazienti che l'hanno presa e sono guariti”. Per un certo periodo l'Aifa ha dato il via libera all'uso dell'Hcq a discrezione dei medici, autorizzando pure il rimborso da parte del Ssn. In fondo si tratta di un farmaco già usato contro diverse malattie. E costa pochissimo. Oggi però la molecola antimalarica è osteggiata e motivo di scontro sia medico che politico. Dopo uno studio pubblicato su Lancet sui rischi cardiaci e l'aumento di mortalità (poi ritirato con non poco inbarazzo), lo scorso maggio sia l'Oms che le agenzie del farmaco mondiali ne hanno sospeso l'utilizzo. Diversi medici ritengono che sul tema non ci sia un sereno dibattito scientifico, probabilmente anche per colpa delle prese di posizione di leader mondiali: diventato il farmaco "sovranista", è stato fatto quasi di tutto per dichiararlo inutile. "Purtroppo gli editori di riviste importanti sono molto riluttanti a pubblicare qualcosa di positivo sull’idrossiclorochina (chiamo questa riluttanza effetto Trump-Bolsonaro), mentre pubblicano immediatamente anche paper deboli quando non funzionano”, disse Antonio Cassone, già direttore del Dipartimento di Malattie Infettive dell’Iss e membro dell’American Academy of Microbiology. Certo sull'efficacia dell'idrossiclorochina i dubbi permangono. Alcuni studi randomizzati realizzati, tra cui il "Solidarity" dell'Oms, non hanno trovato effetti benefici, sottolineando pure "un rischio di tossicità, in particolare cardiaca, rilevante ad elevati dosaggi". Per L'Aifa alla base della decisione di bloccare l'Hcq ci sono "evidenze sperimentali, emergenti dagli studi clinici randomizzati e controllati", ma diversi medici ritengono che ancora non si sia arrivati all'ultimo capitolo. “Questi trial - disse Cassone - hanno usato dosi alte di Hcq nell’idea che queste dosi fossero quelle giuste per una diretta attività antivirale”. I favorevoli all'Hcq ritengono infatti che puntando sulla capacità anti-infiammatoria e anti-trombotica del farmaco sia sufficiente usare una dose inferiore, incapace di provocare controindicazioni. A quelle dosi uno studio dell'European Journal of Internal Medicine riteneva che l'Hcq potesse ridurre il rischio morte per Covid del 30%. Chi ha ragione? Il Consiglio di stato, va detto, non dà una risposta a questa domanda. I giudici si sono solo espressi sul ricorso presentato da un folto gruppo di medici di base che "nella prima fase della pandiemia" hanno "esercitato la loro attività somministrando" ai pazienti l'Idrossiclorochina. "Da decenni - si legge nell'ordinanza - l’Hcq viene usata non solo per curare la malaria, ormai debellata in Italia, ma contro l’artrite reumatoide e il lupus eritematoso in virtù della sua efficace azione di riduzione dei livelli di anticorpi fosfolipidi, tanto da essere somministrato in Italia a circa 60.000 pazienti affetti da tali malattie autoimmuni". I ricorrenti ritengono che le decisioni dell'Aifa siano superate da "studi clinici pubblicati su riviste internazionali accreditate" e che sia stata lesa la loro autonomia decisionale "nel prescrivere tale farmaco, in scienza e coscienza sotto la propria responsabilità" ai pazienti che acconsentono a farsi curare così. Le toghe danno loro ragione: via libera dunque all'uso dell'idrossiclorochina.
Una decisione che scatena polemiche. Idrossiclorochina, il Consiglio di Stato "sospende" l’Aifa e da l’ok al farmaco contro il Coronavirus. Carmine Di Niro su Il Riformista l'11 Dicembre 2020. Una decisione destinata a scatenare sicure polemiche. Il Consiglio di Stato ha dato il via libera all’uso dell’idrossiclorochina per la cura del Covid-19, solo su prescrizione e non rimborsabile. La terza sezione del Consiglio di Stato ha accolto, in sede cautelare, il ricorso di un gruppo di medici di base e ha sospeso la nota del 22 luglio 2020 di Aifa che vietava la prescrizione off label, cioè per un uso non previsto dal bugiardino, dell’idrossiclorochina per la lotta al Covid 19. Si legge nell’ ordinanza che “la perdurante incertezza circa l’efficacia terapeutica dell’idrossiclorochina, ammessa dalla stessa Aifa a giustificazione dell’ulteriore valutazione in studi clinici randomizzati, non è ragione sufficiente sul piano giuridico a giustificare l’irragionevole sospensione del suo utilizzo sul territorio nazionale da parte dei medici curanti”. “La scelta se utilizzare o meno il farmaco, in una situazione di dubbio e di contrasto nella comunità scientifica – è scritto nell’ordinanza – sulla base di dati clinici non univoci, circa la sua efficacia nel solo stadio iniziale della malattia, deve essere dunque rimessa all’autonomia decisionale e alla responsabilità del singolo medico“, “in scienza e coscienza” e con l’ovvio consenso informato del singolo paziente. Fermo il monitoraggio costante e attento del medico che lo ha prescritto. L’ordinanza precisa che non è invece oggetto di sospensione (né a monte di contenzioso) la decisione di Aifa di escludere la prescrizione off label dell’idrossiclorochina dal regime di rimborsabilità.
LE DIVISIONI SUL FARMACO – Lo sblocco dell’idrossiclorochina sancito oggi dal Consiglio di Stato riapre il dibattito sul farmaco e sui metodi scientifici per contrastare il virus. L’idrossiclorochina, va ricordato, è un farmaco genericamente utilizzato nel trattamento della malaria e di alcune malattie autoimmuni, come l’artrite reumatoide e il lupus eritematoso discoide e disseminato. Tra i primi sponsor del suo utilizzo contro il Covid-19 c’era stato il presidente degli Stati Uniti Donald Trump, un entusiasmo che non aveva trovato grande sponda nella comunità scientifica, con più studi che avevano in realtà evidenziato i suoi effetti minimi, se non nulli o dannosi, contro il Coronavirus. Recentemente anche l’Oms, l’Organizzazione Mondiale della Sanità, ha pubblicato uno studio in cui “boccia” l’utilizzo del farmaco contro il virus, mentre a luglio l’Aifa ne aveva sospeso l’autorizzazione “per il trattamento dell’infezione da Sars-CoV-2, al di fuori degli studi clinici, sia in ambito ospedaliero che in ambito domiciliare”. La decisione odierna del Consiglio di Stato ha provocato la reazione contrariata di Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione Gimbe, che su Twitter ha attaccato la decisione dei giudici: “Idrossiclorochina: le evidenze confermano che il profilo rischio-beneficio nella Covid-19 è sfavorevole, le linee guida e le autorità sanitarie raccomandano contro il suo utilizzo, il Consiglio di Stato sovverte la scienza”. Di tutt’altro parere uno sponsor "nostrano" del farmaco, il segretario della Lega Matteo Salvini, secondi cui il sì del Consiglio di stato “è una notizia che molti medici stavano attendendo. Tra gli altri, ricordiamo il dott. Luigi Cavanna che a Piacenza somministrando precocemente questo farmaco ha trattato con successo molti pazienti affetti da Covid, casa per casa, riducendo gli accessi all’ospedale e guadagnandosi anche fama internazionale per il suo impegno medico e umano”.
Così l’idrossiclorochina finisce al Consiglio di Stato. Gioia Locati il 7 dicembre 2020 su Il Giornale. Cos’è l’idrossiclorochina? Fa bene o fa male? Come si affronta oggi il Covid? Ci si può curare a casa? Proviamo a rispondere con l’aiuto di un medico, l’oncologo e professore Luigi Cavanna, che ha seguito centinaia di malati di Covid, trattandoli con questo farmaco al loro domicilio. Da maggio però non si può più prescrivere né somministrare idrossiclorochina (vedremo perché). Il 10 dicembre il Consiglio di Stato si esprimerà sull’esposto presentato da alcuni medici che chiedono il via libera al farmaco e di poter prescrivere in scienza e coscienza.
L’ antefatto. L’idrossiclorochina si usa da oltre 50 anni per curare la malaria e alcune malattie autoimmuni. Per le sue proprietà immunomudulanti, anti trombotiche e anti virali è stata impiegata anche per contrastare alcune importanti infezioni, dall’HIV all’Ebola, dalla Sars alla Mers. Costa poco. Durante la prima ondata del Sars-Cov-2, l’idrossiclorochina era presente nelle linee guida dei Paesi occidentali colpiti dall’infezione (approvata, dunque, anche da Aifa ed Ema) per trattare i malati, sia in ospedale che a domicilio. A maggio però esce uno studio su Lancet – rivelatosi poi fallace – che richiama le attenzioni delle agenzie regolatorie. Si afferma che l’idrossiclorochina era stata causa di un aumentato numero di decessi, a riprova si millanta l’analisi di 96mila cartelle di pazienti in 970 ospedali nel mondo. Ma, a una prima seria verifica, le basi di quel lavoro, crollano. Nessuno aveva esaminato quelle cartelle e la società che eleborò i dati falsi finì indagata. Cliccate qui. Tuttavia l’idrossiclorochina è rimasta inaccessibile ai malati di Covid. Sospesa la somministrazione nei Paesi occidentali già a poche ore dalla pubblicazione dello studio fallace. A giustificazione, oggi, Aifa cita la posizione dell’OMS che “per prudenza ne ha sospeso i trial”. Sarebbe pericolosa per il cuore e potrebbe aumentare i decessi. La situazione oggi. In mezzo mondo, i medici che, nei mesi di marzo aprile hanno trattato i malati con quel farmaco, hanno raccolto e pubblicato i loro dati. Secondo chi l’ha prescritta, “soprattutto nei primi giorni di malattia”, l’idrossiclorochina ha contribuito a contenere i decessi. Sono stati fatti numerosi confronti sia con con gruppi di pazienti ricoverati sia con chi si è curato a domicilio. Qui uno studio osservazionale belga su 8.075 partecipanti. Si sono poi studiati i decorsi dei pazienti che non hanno usato quel farmaco e si è giunti alle conclusioni che sintetizza Luigi Cavanna, oncologo, primario all’ospedale di Piacenza e ricercatore: “La mia esperienza con l’impiego di quel farmaco è più che buona, ho seguito personalmente a casa oltre 300 malati, dei quali il 30 per cento con forme severe e un altro 30 per cento con forme moderate. Di questi nessuno è morto e i ricoverati sono stati meno del 5 per cento”. E poi. “Mi sono sentito ringraziare con queste parole, ‘dottore, stavo così male che pensavo di non farcela, dopo 3 giorni di terapia la mia vita è cambiata”. Lo staff del professor Cavanna ha raccolto i dati in due pubblicazioni sui malati di tumore che hanno avuto il Covid e un terzo lavoro verrà spedito nei prossimi giorni per essere pubblicato. Intanto, altre ricerche sono state pubblicate, dapprima una metanalisi, ossia una summa di 26 studi che riferiscono dell’impiego di idrossiclorochina su 44.521 malati di Covid e che mostrerebbero una riduzione di mortalità con il farmaco a basse dosi. Cliccate qui. Poi un altro lavoro tutto italiano che riunisce le esperienze di 33 ospedali della Penisola in uno studio osservazionale multicentrico che trovate qui. Sono stati seguiti i decorsi di 3.451 pazienti non selezionati, ricoverati dal 19 febbraio al 23 maggio. Ed è emersa una mortalità ridotta del 33% in chi ha usato quel farmaco. In luglio, 13 Regioni italiane hanno chiesto di poter usare l’idrossiclorochina off label nei trattamenti domiciliari, cliccate qui. Ma Aifa è rimasta ferma sulla sua posizione. Nel frattempo ci sono stati ricorsi al Tar e si attende il verdetto del Consiglio di Stato del 10 dicembre.
Per l’Ema è un farmaco che “se preso in dosi elevate induce al suicidio”. Il 30 novembre Ema pubblica una nota. Si dice che “a seguito di una revisione dei dati sono emersi 6 casi di disturbi psichiatrici in pazienti Covid a cui erano state somministrate dosi di idrossiclorochina superiori a quelle autorizzate”.
Professor Cavanna ha osservato anche lei la tendenza al suicidio? “Qualsiasi farmaco preso a dosi da cavallo fa male…che dico farmaco, anche la pastasciutta…Penso che ci si debba avvicinare ai dati con umiltà e senza pregiudizi. Invito a guardare a ogni terapia in termini di costi e benefici, tenendo presente gli effetti collaterali e la situazione di ciascuno. A Piacenza ci sono stati oltre 900 morti nella prima ondata, in quel periodo, dei pazienti che noi seguimmo a domicilio trattati con idrossiclorochina – all’incirca 300 – i ricoveri sono stati inferiori al 5% e nessuno è morto”.
Per quanti giorni va somministrata l’idrossiclorochina?
“Per una settimana, non di più. Si ottenevano miglioramenti dopo due-tre giorni. Abbiamo osservato che è importante dare il farmaco ai primi sintomi, ed è sufficiente un basso dosaggio”.
Cosa pensa del fermo divieto delle agenzie regolatorie?
“Che per onestà sia necessario spiegare ai pazienti che hanno ricevuto l’idrossiclorochina nei primi mesi e sono guariti che cosa è successo; se hanno rischiato, che cosa hanno rischiato, e come hanno fatto a rimettersi in piedi. Una spiegazione è dovuta. Prima il farmaco era ammesso e lo è stato per tre mesi, ora è vietato. Perché Aifa non va vedere come stanno queste persone?”.
Aifa sostiene che non esistono studi randomizzati sui pazienti Covid.
“Abbiamo molti dati, non solo noi di Piacenza, ma da tutta Italia, penso alla provincia di Alessandria, a Novara, a Milano, e a Bologna. Sono stati pubblicati gli studi osservazionali (vedi sopra), una metanalisi che mostra la riduzione di mortalità su 40mila malati. Questi report vanno messi sul tavolo. Si tratta di uomini e donne, non di esperimenti in vitro. Sono un sostenitore dello studio randomizzato (si dividono i pazienti in due gruppi omogenei, a uno si somministra la miglior cura esistente più il farmaco da testare, all’altro la miglior cura più il placebo) ma lo studio è sempre un mezzo, non un fine. I malati bisogna guardarli in faccia e, in mancanza di studi randomizzati utilizzare farmaci di provata efficacia ‘sul campo’, di facile somministrazione, di costo contenuto e con pochi effetti collaterali.
Cosa farebbero all’Aifa se qualcuno di loro o dei loro familiari si ammalasse di Covid e si ritrovassero con una febbre alta che non passa dopo tre giorni, tosse e fiato pesante? Si accontenterebbero dell’antipiretico e del saturimetro (sono le indicazioni per curarsi a casa) aspettando forse di peggiorare per essere ricoverati d’urgenza? È come se misurassimo la pressione alta senza dare alcun farmaco ma consigliando di tenere a casa l’apparecchio per la pressione…”
Il Covid si può curare a casa?
“Assolutamente sì, la cura precoce, fatta cioè nei primi giorni di febbre alta, tosse e affanno, consente ai pazienti di evitare il ricovero in ospedale e di guarire. La mia esperienza coincide con quella di centinaia di medici in Italia e migliaia nel mondo che hanno curato a casa i pazienti”.
Cosa prendere ai primi sintomi?
“Chi non ha sintomi o ne ha pochi non deve fare nulla, isolarsi con le precauzioni per non infettare gli altri. Chi ha sintomi può assumere un antinfiammatorio. Se sopraggiunge tosse o se la febbre non passa in 24-30 ore bisogna rivolgersi al medico di famiglia che può attivare le Usca, Unità mediche territoriali che, a domicilio, possono visitare, fare un’ecografia ai polmoni, fare un tampone e valutare il livello dell’ossigeno” (nel Piacentino funziona così).
Insomma, è importante agire subito?
“Sì. Durante la pandemia abbiamo visto arrivare in ospedale persone con alle spalle 10 e più giorni di febbre, tosse, dispnea, non va bene”.
Ma oltre all’antinfiammatorio? Antibiotico o cortisone?
“Decide il medico. Se c’è il sospetto che l’infiammazione abbia intaccato i polmoni l’antibiotico va consigliato. Il cortisone va dato non subito ma nei giorni successivi per evitare il picco infiammatorio. L’eparina se il paziente è allettato o fatica a muoversi. Fondamentale è misurare la saturazione di ossigeno”.
Come mai un oncologo cura i malati di Covid a domicilio?
“L’oncologo ha come background culturale la presa in carico del malato, lo segue nel suo percorso di cura e nei successivi controlli fino alla guarigione o alle cure palliative. Ricordo un paziente che ci disse che avrebbe dovuto interrompere la terapia perché il figlio non lo poteva più accompagnare in ospedale poiché avrebbe rischiato di perdere il lavoro. Era 20 anni fa. Decidemmo di istituire una rete territoriale che funziona ancora oggi: nelle zone senza ospedale ci sono i nostri presidi, portiamo le cure oncologiche vicino al domicilio del paziente e siamo stati i primi in Italia a eseguire le terapie nella Casa della Salute, in una vallata del Piacentino priva di ospedali”.
Con l’inizio del Covid vi siete comportati così?
“Un nostro paziente, malato di tumore, ci avvisò di avere tosse e febbre. Siamo andati a domicilio. È cominciata così…Poi sono stati trattati tanti altri malati, anche, e soprattutto, non oncologici”.
Guariti con idrossiclorochina?
“Esattamente”.
Oggi in ospedale a Piacenza avete tanti malati Covid?
“Molti meno che a marzo, grazie anche alla nostra rete di assistenza domiciliare”.
Ora cosa farete?
“Cercheremo di convincere Aifa a cambiare le linee guida con la forza degli argomenti ma anche con la determinazione che ci trasmettono i malati”.
Ci sono speranze?
“C’è un assoluto bisogno di cure precoci. Ci sono tanti dati, c’è un’interrogazione parlamentare presentata dal senatore Armando Siri che ha a cuore la nostra causa e c’è il Consiglio di Stato”.
Coronavirus, il farmaco targato Latina che funziona e non usiamo. Latina - Il monoclonale “Cov555”, sviluppato dalla società statunitense Eli Lilly e prodotto dalla nostra Bsp Pharmaceuticals Spa, ha guarito Trump. Alessandro Marangon il 18/12/2020 su Latina Oggi. Un farmaco "targato" Latina che funziona ma che noi, in Italia, non usiamo. Si tratta del monoclonale "bamlanivimab", o "Cov555", sviluppato dalla multinazionale statunitense Eli Lilly e prodotto nello stabilimento pontino dell'Appia Bsp Pharmaceuticals dell'imprenditore Aldo Braca. Lunedì, salvo imprevisti, è attesa una delegazione della Eli Lilly a Latina per incontrare il ministro della Salute Roberto Speranza e per lanciare il farmaco. Farmaco che qui da noi è ancora in fase di sperimentazione, e quindi non in commercio, ma che negli Usa ha già guarito l'ex presidente Donald Trump. Una terapia a base di anticorpi monoclonali che in tre giorni neutralizzano il virus evitando il ricovero. «Abbiamo "pallottole" specifiche contro il Covid-19, potremmo salvare migliaia di pazienti, evitare ricoveri e contagi, ma decidiamo di non spararle», è l'ennesimo sfogo del virologo del San Raffaele di Milano Massimo Clementi, il quale ha spiegato che i colleghi degli Stati Uniti, da alcune settimane, somministrano gli anticorpi neutralizzanti come terapia e profilassi per malati Covid. «Dopo due, tre giorni - ha sottolineato Clementi - guariscono senza effetti collaterali apparenti». E questo al costo di circa mille euro per un trattamento completo contro gli 850 di un ricovero giornaliero. Un paradosso, dunque, che la nostra Bsp, oltre seicento dipendenti, un fatturato da centinaia di milioni di euro e definita da più parti una sorta di miracolo che lavora tra Stati Uniti e Giappone (l'80% dell'export con i primi e il 20% con il secondo), non veda il proprio prodotto utilizzato per guarire gli italiani che, per ora, aspettano il via libera alla sperimentazione.
Plasma iperimmune contro il coronavirus: funziona? Le Iene News il 19 novembre 2020. Oggi, dopo mille polemiche e scetticismi, molti medici da tutta Italia stanno cominciando a chiedere plasma iperimmune per aiutare i propri pazienti. Ma, secondo quanto ci raccontano in alcune strutture ospedaliere, le scorte di plasma starebbero finendo. Alessandro Politi e Marco Fubini accendono di nuovo i riflettori sul tema. “Va fatto un appello: chi ha avuto il Covid se può donare, doni. Perché questa è un’arma importante”. Alessandro Politi e Marco Fubini tornano a parlarci del plasma iperimmune contro il coronavirus. A oggi, non esiste ancora una cura certificata e standardizzata per combattere il coronavirus. Per aiutare i malati di Covid viene usato un mix di farmaci che la scienza ha reputato essere il migliore possibile dopo le sperimentazioni fatte in questi mesi. E tra questi, nell’azienda ospedaliera di Padova, da dove vi siamo raccontando da un mese la prima linea della battaglia, c’è anche il plasma iperimmune, che sostanzialmente fornisce al paziente che lo riceve gli anticorpi per combattere il virus. “Io non ho notizia di pazienti deceduti trattati con plasma iperimmune”, ha detto alla Iena il direttore generale Luciano Flor. “I medici di questo ospedale mi dicono che i pazienti trattati col plasma vanno bene”. Oggi, dopo mille polemiche e scetticismi, molti medici da tutta Italia stanno cominciando a chiedere plasma iperimmune per aiutare i propri pazienti. “Attualmente la terapia di prima linea più efficace non solo secondo Mantova, Pavia e Padova, ma secondo tantissimi altri centri è il cortisone, l’eparina e il plasma iperimmune come agente antivirale”, dice il professor Massimo Franchini, direttore di immunoematologia e medicina trasfusionale dell’ospedale di Mantova. Ma, secondo quanto ci raccontano in alcune strutture ospedaliere, le scorte di plasma starebbero finendo. “Abbiamo dei problemi per quanto riguarda i donatori. Va fatto un appello: chi ha avuto il Covid se può donare, doni. Perché questa è un’arma importante”, ci ha detto il prof. Roberto Vettor, direttore del dipartimento di Medicina a Padova. Ma in molte parti d’Italia non avrebbero nemmeno iniziato la raccolta di sacche. E nel caso si voglia donare il plasma? In questi gironi ci sono arrivate moltissime mail da parte di persone che vorrebbero donare e non sanno come fare. E anche la cantante Nina Zilli, come potete vedere nel servizio qui sopra, ha raccontato cosa le avrebbero risposto quando si è informata per donare il plasma. Ma perché quando sentiamo parlare in tv dei rimedi contro il coronavirus, nessuno parla del plasma iperimmune? Durante la trasmissione “Otto e Mezzo” su La7, il direttore dell’Aifa Nicola Magrini, alla domanda di Lilli Gruber su quale sia oggi la cura più efficace per combattere il coronavirus, ha risposto: “Lo standard di cura attuale è basato su tre farmaci importanti come l’ossigeno, il cortisone e l’eparina. In aggiunta, ma non ha ricevuto conferme come aspettavamo, c’è il Remdesivir che andrebbe pertanto ristudiato”. Ma, mentre ristudiamo il Remdesivir, perché il plasma non viene nemmeno citato?
Siri: “I farmaci anti-covid fanno paura a chi fa business sulla salute dei cittadini”. Rec News, direttore Zaira Bartucca 1 Dicembre 2020. Il senatore: “Ci si inventa di tutto per non utilizzarli. In atto propaganda strumentale, i medici hanno già salvato un sacco di vite” Idrossiclorochina a 6 euro funziona e fa paura a chi specula e fa business sulla salute dei cittadini. Così, pur di evitare che si utilizzi sui pazienti, ci si inventa qualunque cosa per screditarla. Pongo in premessa che personalmente non ho alcuna passione per l’Idrossiclorochina e che, per me, qualunque farmaco che si riveli utile per la cura a casa dei pazienti dovrebbe avere attenzione e la giusta considerazione da parte delle Autorità Sanitarie, soprattutto se sono i medici a chiederlo”. Mi limito a rilevare il dato, ovvero: il Dottor Cavanna, medico Primario all’Ospedale di Piacenza e con lui la Dottoressa Paola Varese Primario ASL di Alessandria, il Dottor Luigi Garavelli Primario Malattie Infettive Ospedale di Novara e centinaia di altri medici del Territorio hanno salvato centinaia di pazienti curandoli a casa con questa medicina, eppure hanno contro quasi tutta la comunità scientifica e i cosiddetti organi di “controllo” statali che si rifiutano di leggere gli studi nazionali e internazionali sull’efficacia del farmaco (che io ho letto) e insistono con una propaganda strumentale e vergognosa per delegittimarne l’utilizzo. L’ultima trovata propagandistica è quella dell’EMA, l’Agenzia Europea per i medicinali (sostanzialmente la sorella europea dell’AIFA nazionale), che guarda caso, proprio mentre 13 Regioni Italiane chiedono la ripresa dei protocolli sperimentali per le cure domiciliari con Idrossiclorochina, fa uscire una notizia in cui afferma che il farmaco è pericoloso per la salute mentale. Dunque, se quello che EMA afferma fosse vero ne conseguirebbe che tutti i reumatologi del mondo dovrebbero immediatamente sospendere la somministrazione di Idrossiclorochina che da più di 50 anni prescrivono ai loro pazienti visto che l’EMA dice che altrimenti si suicideranno. I medici non hanno mai avuto evidenza di questo grave effetto collaterale? Beh, non importa, vuol dire che non saranno stati attenti. Ora (proprio perché si è scoperto che l’idrossiclorochina è efficace per curare il COVID-19) guarda caso emerge che 6 persone che prendevano il farmaco si sono suicidate (non sappiamo niente di loro, ovvero ad esempio se avessero già problemi psichiatrici). Sappiamo però che hanno abusato del farmaco prendendo dosi superiori a quelle consigliate. E questa vi pare una notizia? Sei persone dal quadro clinico sconosciuto abusano di un farmaco, si suicidano e la colpa è del farmaco? Un farmaco che prendono ogni giorno milioni di persone a cui non è mai successo nulla di tutto questo? Certo che bisogna proprio essere dei mascalzoni, oppure davvero in malafede, per fare una propaganda così smaccatamente strumentale contro una medicina solo perché si è dimostrata, se assunta a basse dosi e all’insorgenza dei sintomi, uno strumento efficace per curare a casa il COVID-19 e costa solo 6 euro. Come si fa ad accettare che Enti istituzionali, che nella coscienza collettiva godono di autorevolezza scientifica, si approfittino della buona fede dei cittadini per diffondere storie artefatte come quella sulla pericolosità psichiatrica di un farmaco che viene utilizzato da 50 anni per la cura di artrite reumatoide e altre importanti malattie del sistema immunitario? Tra l’altro, non si vuole evidenziare che il Trattamento per il COVID-19 è molto breve (massimo una settimana e a dosi molto più basse di quelle già oggi consentite). Possibile che nessun organo di controllo etico della comunità scientifica sollevi il caso? Dov’è finita la serietà di una categoria che fa un giuramento solenne “di esercitare la medicina in libertà e indipendenza di giudizio e di comportamento rifuggendo da ogni indebito condizionamento”? Lo ripeto ancora: il Ministero della Salute e AIFA concedano la possibilità a tutti questi medici che lo chiedono, di poter riprendere la sperimentazione, con tutti i dovuti controlli e verifiche. Perché non si può negare una cura ritenuta efficace dai medici sul campo solo sulla base di storie rivelatesi false come il famoso studio di The Lancet, o suggestioni ai limiti del ridicolo come questa di EMA. Curare a casa il COVID-19 significa scongiurare l’affollamento degli Ospedali e dunque la necessità di DPCM che stanno, questi sì, incidendo negativamente sulla socialità e sulla salute mentale degli individui producendo danni incalcolabili al lavoro e all’economia”.
Coronavirus e vitamina D, l'appello di 61 prof e medici italiani: “Diamola ai soggetti a rischio”. Le Iene News il 10 dicembre 2020. Sono 61 i professori, ricercatori e medici che hanno sottoscritto un appello alle istituzioni per somministrare alle categorie più a rischio per il coronavirus la vitamina D in via preventiva: “E’ stata largamente evidenziata l’utilità della somministrazione ai pazienti di COVID-19”. Una richiesta simile a quella fatta un mese fa dai colleghi inglesi. Un appello di 61 tra professori, ricercatori e medici sul modelli di quello firmato dai colleghi inglesi: “Diamo la vitamina D ai soggetti a rischio per contrastare il coronavirus”. Vi abbiamo raccontato di questo appello oltre un mese fa: un gruppo di scienziati inglesi guidati dal professor Gareth Davies ha indicato come circa la metà della popolazione inglese abbia una carenza di vitamina D, e secondo loro questo basso livello potrebbe comportare un maggior rischio di contrarre il coronavirus. Non solo: se ci si ammala, e si ha poca vitamina D, la possibilità di avere sintomi gravi sarebbe più alta. E per questo il gruppo di scienziati ha lanciato un appello al governo per intervenire, facendo aggiungere dosi di vitamina D ai cibi più consumati come il latte o il pane. Adesso in Italia un documento sottoscritto da 61 tra professori, ricercatori e medici propone alle istituzioni italiane un percorso simile. “Ad oggi è possibile reperire circa 300 lavori con oggetto il legame tra COVID-19 e vitamina D”, scrivono i ricercatori. Gli studi “hanno confermato la presenza di ipovitaminosi D nella maggioranza dei pazienti affetti da COVID-19, soprattutto se in forma severa, e di una più elevata mortalità ad essa associata”. Per questo i 61 studiosi suggeriscono, nel documento inviato alle istituzioni sanitarie italiane, di valutare la “somministrazione preventiva” di vitamina D “a soggetti a rischio di contagio come anziani, fragili, obesi, operatori sanitari, congiunti di pazienti infetti, soggetti in comunità chiuse”. Secondo loro non ci sarebbero, in questo contesto, “sostanziali effetti collaterali”. La motivazione di questa richiesta è chiara: “E’ stata largamente evidenziata l’utilità della somministrazione di vitamina D a pazienti COVID-19”. Un tema che noi de Le Iene stiamo approfondendo da tempo: a inizio novembre vi abbiamo raccontato dello stato degli studi sul possibile legame tra vitamina D e coronavirus, dopo che gli scienziati inglesi avevano lanciato l’appello al governo per aggiungere la sostanza al cibo “per aiutare nella lotta contro il Covid”. Una richiesta seguita dall’annuncio del ministero della Salute britannico, che ha chiesto ai propri consiglieri sanitari di fornire linee guida per utilizzare la vitamina D come possibile modo per prevenire e trattare il coronaviurs. Con Giulia Innocenzi poi abbiamo intervistato il professor Giancarlo Isaia dell’università di Torino, tra i 61 firmatari dell’appello e coautore di uno studio secondo cui le regioni italiane che ricevono meno raggi solari UV sono anche quelle dove il coronavirus ha causato più contagi e morti. I risultati dello studio, ci ha detto il professore “sono coerenti con i possibili effetti benefici della radiazione UV solare sulla diffusione del coronavirus e sulle sue manifestazioni cliniche. Risulta infatti che la radiazione UV è sia in grado di neutralizzare direttamente il virus, sia di favorire la sintesi della vitamina D che, per le sue proprietà immunomodulatorie, potrebbe svolgere un ruolo antagonista dell’infezione e delle sue manifestazioni cliniche”. Pochi giorni fa infine vi abbiamo dato conto di una circolare del ministero della Salute, per la quale “non esistono ad oggi evidenze solide e incontrovertibili (ovvero derivanti da studi clinici controllati) di efficacia di supplementi vitaminici e integratori alimentari (ad esempio vitamine, inclusa vitamina D, lattoferrina, quercetina), il cui utilizzo per questa indicazione non è quindi raccomandato". A quelle parole ha replicato a Iene.it il professor Isaia, che ci ha detto: “La circolare è discutibile perché un nostro nuovo documento riporta nuove evidenze su quanto andiamo dicendo. Chi ha scritto il documento ha accomunato la vitamina D, che è cosa ben diversa, ad altre vitamine e integratori. Le nostre evidenze, che partono dall’inizio del 2020, possono essere discutibili ma meritano almeno un approfondimento”».
Tra il ricovero e la dimissione son passati solo 16 giorni, dal 22 novembre dell'attesa del ricovero, avvenuto il 23, fino al 7 dicembre 2020, data delle dimissioni.
«La mia dimissione. Purtroppo la mia dimissione come il mio ricovero è stato traumatico. Dal 3 dicembre 2020 al 7 dicembre 2020 sono stato costretto a stare da negativo in un reparto Covid. Le linee guida raccomandano il distanziamento tra coniugi, positivi e negativi, e poi le autorità permettono la promisquità negli ospedali Covid. Non è provato scientificamente il periodo di immunità, specie in presenza di carica virale forte, però in reparto per ben due volte hanno introdotto nella mia stanza pazienti di prima positività. La seconda volta, il 5 dicembre 2020 notte, addirittura, V.to T.liente di Martina Franca, poverino, egli stesso infettato in ospedale. Ho consigliato, per impedire la promisquità, l’appaiamento in stanze separate: vecchi degenti, con vecchi degenti, a minima trasmissione del virus; nuovi ricoverati con nuovi ricoverati ad alta carica virale. Risposta: problemi organizzativi. Ergo: troppo lavoro per gli addetti. Ho detto che la mia degenza non era necessaria perché potevo essere curato a casa o tramite Usca. Giusto per liberare il letto per nuove emergenze. Insomma sono stato costretto alla dimissione volontaria, da me imposta ed anticipata da giorni. L’uscita è stata procrastinata fino alle 19.30 della sera del 7 dicembre. E non voglio pensare che sia stata una sorta di ritorsione.
Positivi e negativi insieme al Giannuzzi, è normale? Lavoceassociazioneculturaleasud.it l'8 Dicembre 2020. Finalmente negativo. Antonio Giangrande, il “famoso” paziente dell’attesa di undici ore in ambulanza prima di essere ricoverato all’ospedale Giannuzzi di Manduria , è finalmente negativo. Tutto bene quel che finisce bene, direte voi. Invece no. Dopo 15 giorni di ricovero , la degenza procedeva secondo quanto auspicato, fino all’esito negativo del tampone. A questo punto ci si sarebbe aspettato uno spostamento di reparto per evitare che un negativo restasse in stanza con positivi. Ma niente. E risposta negativa è arrivata neanche alla richiesta del Giangrande di essere spostato almeno in un reparto dove i negativi non fossero “recenti ” e con altissima carica virale. Come noto, anche i negativizzati, specie chi ha avuto insufficienze respiratorie, devono rispettare le solite prescrizioni. La presenza di anticorpi neutralizzanti non d à certezza scientifica di “immunità” e, come già successo, i guariti possono essere reinfettati. Da non dimenticare la possibilità di imbattersi in un tipo di virus mutato contro cui gli anticorpi acquisiti nulla possono fare. A questo punto, data la possibilità di curare i postumi della malattia con cure ordinarie e con assistenza domiciliare, il Giangrande è stato costretto alla dimissione volontaria, per evitare di passare altri giorni da negativo in un reparto di positivi , anche nuovi, con i relativi rischi per la propria salute . Con l’assurdo che, in fase di dimissione, è stato raccomandato di non tornare a casa da coniugi o parenti positivi.
La denuncia di Giangrande: “guarito dal Covid nella stessa stanza con positivi”. Già protagonista della lunga attesa in ambulanza prima di essere ricoverato. La Voce di Manduria mercoledì 9 dicembre 2020. Dopo la denuncia per aver atteso undici ore in ambulanza prima di essere ricoverato in un reparto Covid del Giannuzzi, l’avvocato Antonio Giangrande, di Avetrana, si rende protagonista di un’altra vicenda. Dopo quindici giorni di ricovero, Giangrande si è negativizzato ma, racconta, è rimasto nella stanza con altri pazienti ancora positivi. Alla sua richiesta di essere trasferito in un reparto dove i positivi non fossero recenti e quindi con una carica virale alta, i responsabili del reparto si sarebbero opposti. «A questo punto, data la possibilità di curare i postumi della malattia con cure ordinarie e con assistenza domiciliare – si legge in una nota stampa -, l’avvocato Giangrande è stato costretto alla dimissione volontaria per evitare di passare altri giorni da negativo in un reparto di positivi, anche nuovi, con i relativi rischi per la propria salute». «Con l’assurdo che, in fase di dimissione – concluso il comunicato - è stato raccomandato di non tornare a casa da coniugi o parenti positivi».
Come si esce dall’ospedale.
«Se si è negativi: con le proprie gambe e con i propri mezzi: conoscenti o taxi. Anche se ti hanno sbattuto a decine di chilometri da casa.
Se si è ancora positivi: con l’ambulanza.
Se si è morti: ti puliscono; ti chiudono tutti gli orifizi con delol’ovatta; ti chiudono in un sacco di plastica così come eri vestito; mettono le tue cose in un altro sacco di plastica che verrà smaltito con procedura speciale; la salma nel sacco verrà trasferita, se ricoverato all’ospedale, dal reparto all’obitorio dell’ospedale e poi al cimitero o al crematorio, oppure da casa all’obitorio cimiteriale o al crematorio. La salma è chiusa ermeticamente nella bara, senza l’ultimo saluto dei familiari. Al cimitero verrà tumulata o inumata, spesso, senza la presenza dei familiari, obbligati al confinamento perché positivi anch’essi».
Come reagisca la gente nei confronti dei negativizzati?
«C’è la gente che ha paura e ti allontana. Poi c’è la cattiva gente: induce e convince gli altri ad allontanarti».
Cosa si sentirebbe di dire ai NoVax?
«Cazzi loro. Non sanno cosa significa veder morire la gente per mancanza d’aria, come se si stesse affogando in acqua. Non facendo il vaccino mettono a repentaglio la salute e, forse, la vita, di chi sta loro vicino».
Come conclude questa intervista.
«Il virus ha smascherato la vera natura della gente. Conoscenti, amici e parenti che ti allontanano e ti accusano, sol perché ti hanno infettato. I positivi conclamati posti alla pubblica gogna, non sono untori. Essi divenuti negativi, quindi immuni ed in un certo senso vaccinati, proprio loro devono stare attenti agli altri, che possono reinfettarli. E poi di questi tempi un contagio da Covid non si nega a nessuno, specie alla cattiva gente».
Censura da Amazon libri. Del Coronavirus vietato scrivere.
"Salve, abbiamo rivisto le informazioni che ci hai fornito e confermiamo la nostra precedente decisione di chiudere il tuo account e di rimuovere tutti i tuoi libri dalla vendita su Amazon. Tieni presente che, come previsto dai nostri Termini e condizioni, non ti è consentito di aprire nuovi account e non riceverai futuri pagamenti royalty provenienti dagli account aggiuntivi creati. Tieni presente che questa è la nostra decisione definitiva e che non ti forniremo altre informazioni o suggeriremo ulteriori azioni relativamente alla questione. Amazon.de".
Amazon chiude l’account del saggista Antonio Giangrande, colpevole di aver rendicontato sul Coronavirus in 10 parti.
La chiusura dell’account comporta la cancellazione di oltre 200 opere riguardante ogni tema ed ogni territorio d’Italia.
Opere pubblicate in E-book ed in cartaceo.
La pretestuosa motivazione della chiusura dell’account: “Non abbiamo ricevuto nessuna prova del fatto che tu sia il titolare esclusivo dei diritti di copyright per il libro seguente: Il Coglionavirus. Prima parte. Il Virus.”
A loro non è bastato dichiarare di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio account Amazon.
A loro non è bastato dichiarare che sul mio account Amazon non sono pubblicate opere con Kdp Select con diritto di esclusiva Amazon.
A loro non è bastato dichiarare altresì di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio account Google, ove si potrebbero trovare le medesime opere pubblicate su Amazon, ma solo in versione e-book.
A loro interessava solo chiudere l’account per non parlare del Coronavirus.
A loro interessava solo chiudere la bocca ad Antonio Giangrande.
Che tutto ciò sia solo farina del loro sacco è difficile credere.
Il fatto è che ci si rivolge ad Amazon nel momento in cui è impossibile trovare un editore che sia disposto a pubblicare le tue opere.
Opere che, comunque, sono apprezzate dai lettori.
Ergo: Amazon, sembra scagliare la pietra, altri nascondono la mano.
AMAZON. CENSURA LA CONTRO-INFORMAZIONE SUL COVID. Cristiano Mais su La Voce delle Voci il 7 Ottobre 2020. La scure della censura contro le verità che danno fastidio. L’oscuramento di tutto coloro i quali, in modo autonomo e indipendente, con i propri mezzi e sforzi personali, cercano di fare autentica controinformazione. Succede adesso, è il caso di dirlo, ad un pioniere della comunicazione, Alberto Contri. Proprio come è successo, alcuni mesi fa, ad un pioniere nel campo dei vaccini, Giulio Tarro, con il suo “Covid, il virus della paura”. Allievo di Albert Sabin che scoprì l’antipolio, per ben due volte nella cinquina del Nobel per la Medicina, Tarro è l’autore di un libro che ha subito cercato di far luce sul bollente tema del Coronavirus e la disinformazione imperante. Incorrendo subito negli strali di Amazon, che ha inserito il volume nella sua vetrina virtuale, impedendone però l’acquisto. La strategia di Amazon era il fresco frutto avvelenato di un accordo per la “non informazione” siglato addirittura con l’Organizzazione Mondiale per la Sanità, il super organismo internazionale controllato da Bill Gates. L’OMS, infatti, non gradiva tutto ciò che avrebbe potuto aprire gli occhi a tanti cittadini. Costretti invece ad ingurgitare montagne di fake news propinate dai media di regime. Lo stesso copione, adesso, per l’altrettanto scomodo “La sindrome del criceto”, firmato da Alberto Contri ed edito da “La Vela”, piccola casa ma coraggiosa casa editrice guidata da David Nieri. Denunciano Contri e Nieri: “Abbiamo fatto in estate una intensa campagna social per promuovere il libro, con buoni risultati di vendita. Ma non con Amazon: sappiamo che ha ricevuto molte richieste alle quali non ha dato e non dà seguito, perché dicono che stanno ristrutturando i processi di acquisizione e vendita e poi hanno problemi di algoritmo”. Un modo come un altro per boicottare in modo palese l’uscita del Criceto. Sottolineano ancora Contri e Nieri: “I monopolisti della distribuzione, oltre a distruggere intere filiere concorrenti, intervengono sulla libertà di pensiero, agevolando od ostacolando la presenza di prodotti e di libri nei loro scaffali virtuali. Semplicemente vergognoso. Ricordiamo che il nostro libro si può ordinare direttamente andando sul sito edizionilavela.it”. Contri è stato il fondatore e per anni animatore della Federazione Italiana della Comunicazione, quindi presidente di Pubblicità Progresso.
Amazon denunziata per la censura di libri sul Coronavirus. su La Voce delle Voci il 30 Giugno 2020. Amazon nega anche ad un giornalista italiano, Francesco Amodeo, la vendita on line di un libro sul coronavirus. Lo scrittore non si arrende e decide di chiedere alla giustizia l’autorizzazione alla vendita del suo testo e il risarcimento danni subiti rispetto ad altri autori, preferiti da Amazon, conferendo mandato all’avvocato Angelo Pisani di trascinare in tribunale il colosso commerciale del web per combattere ogni forma di censura. L’avvocato Angelo Pisani, nel denunciare all’Autorità Giudiziaria ogni violazione in danno del giornalista censurato e la arbitraria e fuorviante strategia commerciale di Amazon, chiede anche l’immediato intervento dell’Antitrust e massima tutela per le vittime indifese del sistema Amazon. Il caso del giornalista Amodeo non è l’unico. Anche il professor Giulio Tarro ed altri autori sono stati esclusi dalla piattaforma Amazon per il mancato gradimento da parte di qualcuno dei loro iscritti, ma non è possibile giustificare simili violazioni dei fondamentali principi di informazione legalità e democrazia. Insomma, esplode una guerra legale contro il colosso del web per porre freno a censure e discriminazioni e comprendere il perché di tanto interesse e volontà di indirizzamento. Questo l’attacco di Pisani. «Ingiustificabile e discriminatoria la strategia della società Amazon, che la comunica al giornalista Amodeo il rifiuto di vendere il suo libro-inchiesta “31 coincidenze sul coronavirus e sulla nuova Guerra Fredda USA-Cina” sulla loro piattaforma kindle, perché violerebbe le loro linee guida, spiegando che a causa del rapido cambiamento delle condizioni relative al Virus Covid19, si sarebbe deciso di indirizzare la clientela verso fonti ufficiali per ottenere informazioni sul virus, proponendo pertanto all’autore del libro l’assurda scelta di valutare la rimozione dei riferimenti al Covid19, affinchè lo stesso possa vendersi sulla piattaforma Amazon». Pare che l’algoritmo censuri in automatico i libri che fanno riferimento alla parola “coronavirus” nel titolo. Non sembra però un’ipotesi plausibile, dal momento che sul portale Amazon sono in vendita libri che contengono nel titolo la parola “coronavirus”, come il libro di Roberto Burioni, intitolato: “Virus, la grande sfida: Dal coronavirus alla peste: come la scienza può salvare l’umanità”. «Purtroppo – denuncia l’avvocato Pisani – risulta chiaro che se il libro è in linea con una certa versione sul virus, non esistano linee guida né algoritmi capaci di intercettarne le parole. Se in fase di revisione i libri fossero letti si sarebbero accorti che nel libro inchiesta di Amodeo sono pubblicate 150 foto tratte solo da fonti ufficiali, analizzando oltretutto il coronavirus non dal punto di vista sanitario, ma dal punto di vista giornalistico e geopolitico. Non vi era quindi alcuna ragione di censurarlo, ma il sistema preferisce imporre un altro sapere». Di fronte a queste condotte, al di là degli approfondimenti e di indagini su tematiche delicate e stravolgenti come quelle su mondo del coronavirus – dichiara l’avvocato Pisani – non si può far finta di nulla e non chiedere tutela per l’autore discriminato Francesco Amodeo vittima di illegittima censura e discriminazione ingiustificabile da parte del sistema Amazon che, in barba ai fondamentali principi di trasparenza, correttezza e buona fede non può escludere libri non graditi accettando invece il libro di Burioni (sul quale invece il reportage delle Iene ha dimostrato il conflitto di interessi con le case farmaceutiche). Oltre a presentare ricorso cautelare e richiesta risarcitoria alla Magistratura, ricorriamo anche dell’Antitrust e dell’Ordine dei giornalisti per la tutela dei diritti di tutti noi e la difesa del diritto di informazione, in uno alla corretta concorrenza commerciale. Dalle prime indagini emerge in realtà che proprio l’Organizzazione Mondiale della Sanità non voglia vedere in giro tesi contrarie sul coronavirus. Stavolta però si mina la libertà d’informazione, in combutta con Amazon. Per la serie: i due big boss a stelle e strisce Bill Gates, fondatore di Microsoft e grande finanziatore dell’OMS, e Jeff Bezos, in sella al colosso della distribuzione, sono oggi uniti nell’indirizzamento dei lettori e negano la commercializzazione e diffusione di altri testi, generando anche ingiustificabile disinformazione. Così si impedisce ai cittadini di farsi una propria idea e di comprendere la vera storia del coronavirus e quali sono i motivi e gli autentici responsabili della pandemia che sta mettendo in ginocchio il mondo. «Pochi lo sanno – attacca Pisani – ma già ad inizio febbraio 2020 OMS, Amazon e altri book store a livello internazionale hanno deciso di indirizzare i lettori a fonti preferenziali tramite un accordo che va sotto il nome di “Covid Policy”, con lo scopo dichiarato di “bloccare la vendita di libri che avrebbero, a dire del sistema dominante, l’obiettivo di fomentare la paura o, peggio, di diffondere teorie di cospirazione sul Covid”. Con queste ultime, strategiche parole, in pratica viene attuata una politica di vendite editoriali che nessuno mai in democrazia si sarebbe mai sognato di mettere in atto: meglio, a questo punto, bruciarli, quei libri scomodi, invece che vigliaccamente impedirne la diffusione». «Pare che a qualcuno dia fastidio la conoscenza di quanto è successo per la tragedia del coronavirus: non si devono ricercare colpevoli della strage e capovolgimento del mondo in corso, ma fortunatamente noi continueremo sempre a scrivere per l’amore della verità e dell’informazione, garantisce l’avvocato al giornalista oscurato da Amazon».
AMAZON. BLOCCA l’USCITA DEL LIBRO-ACCUSA DI TARRO SUL COVID. Paolo Spiga su La Voce delle Voci il 20 Giugno 2020. L’Organizzazione Mondiale della Sanità colpisce ancora. Stavolta la libertà d’informazione, in combutta con Amazon. Per la serie: i due big boss a stelle e strisce Bill Gates, fondatore di Microsoft e grande finanziatore dell’OMS, e Jeff Bezos, in sella al colosso della distribuzione, sono oggi uniti nella lotta per la disinformazione. Impediscono ai cittadini di conoscere la vera storia del coronavirus e quali sono gli autentici responsabili della pandemia che sta mettendo in ginocchio il mondo. Pochi lo sanno, infatti, ma già ad inizio febbraio 2020 OMS, Amazon e altri book store a livello internazionale hanno sottoscritto un patto che va sotto il nome di “Covid Policy”, il cui scopo dichiarato e basilare è stato ed è quello di “bloccare la vendita di libri che hanno l’obiettivo di fomentare la paura o, peggio, di diffondere teorie di cospirazione sul Covid”. Con queste ultime, strategiche parole, in pratica viene attuata una politica di vendite editoriali che neanche i nazisti si sarebbero mai sognati di mettere in atto: meglio, a questo punto, bruciarli, quei libri eretici, invece che vigliaccamente oscurarli e con sotterfugi impedirne la diffusione. E soprattutto la conoscenza di quanto è successo per la tragedia del coronavirus: dove ci sono nomi, cognomi e indirizzi dei colpevoli della strage, fino ad oggi impuniti, a piede libero. E guarda caso, i colpevoli si possono rintracciare proprio sotto i vessilli dell’Organizzazione Mondiale della Sanità e della Bill & Melinda Gates Foundation, come abbiamo documentato nell’inchiesta del 19 giugno. Ovvio, quindi, che killer e mandanti si siano ben attrezzati e premuniti – come testimonia la “Covid-Policy” – per nascondere le verità, per affossare quella contro-informazione, quei libri che spiegano e documentano la scientifica strage del Covid-19, ottimamente studiata a tavolino, mossa per mossa, azione per azione. Un esempio fresco e lampante? Amazon ha appena bloccato la vendita del libro firmato dal più autorevole virologo italiano, Giulio Tarro, intitolato “Covid, il Virus della paura”, che fa luce su una serie di fatti e vicende che la dicono lunga sulle responsabilità di Big Pharma nella coronavirus-story, su quelle dell’OMS, della Fondazione Gates, e – sul fronte di casa nostra – del governo e di tanti, troppi cialtroni travestiti da scienziati. Evidentemente un pugno nello stomaco per amici & sodali di Amazon, come appunto sancito dalla “Covid-Policy” ammazza libertà e democrazia. Così dichiara Tarro. “Invece di indossare i panni del martire, preferisco evidenziare come i condizionamenti posti dalla ‘Covid-Policy’ stanno facendo perdere credibilità soprattutto alle riviste scientifiche. Mi riferisco alla planetaria figuraccia della rivista ‘The Lancet’ sulla idrossiclorochina. Se "The Lancet" ha dovuto ritirare il suo articolo è solo perché centinaia di medici, tra i quali molti che avevano pazienti in cura con idrossiclorochina, si sono dovuti mobilitare contro quell’articolo che aveva immediatamente fatto sospendere la vendita di un farmaco efficace. Una mobilitazione che spero segni l’inizio di una presa di coscienza politica in una categoria, quale quella dei medici, che non brilla certo per coraggio. Basti pensare, ad esempio, alle vaccinazioni alle quali, come è noto, la stragrande maggioranza dei medici non si sottopone (e molti, addirittura, arrivano a redigere falsi certificati di vaccinazione per i propri pazienti). Ma quando si trattò di prendere posizione contro la radiazione del medico Roberto Gava, "colpevole" di esternare pubblicamente alcune sacrosante considerazioni sui vaccini, tra i 400mila medici italiani iscritti all’Ordine, solo pochissimi hanno sottoscritto una lettera di protesta”. Aggiunge Tarro: “Sembra normale che ‘The Lancet’, considerata la Bibbia della Medicina, non si sia degnata di verificare che gli strampalati dati sui quali si basava l’articolo erano falsi? Ma cosa c’era davvero dietro la pubblicazione di quell’articolo destinato a togliere di mezzo un farmaco che faceva svanire i guadagni legati al vaccino anti-Covid? Ma quali intrallazzi si nascondono dietro tanti articoli che pubblicati su autorevoli riviste scientifiche spianano ai loro autori una carriera accademica? Basta leggersi il libro di Marcia Angell, già direttrice del ‘New England Journal of Medicine’, ovvero ‘Farma&Co. Industria farmaceutica: storie di straordinaria corruzione’. Che ovviamente non è disponibile su Amazon”.
PER IL NUOVO COLOSSO MONDADORI-RIZZOLI IN ARRIVO L’ANTITRUST. MA ECCO COSA SUCCEDE NEGLI USA CON IL CASO AMAZON. Paolo Spiaga su La Voce delle Voci il 24 Ottobre 2015. Mondadori ingoia Rizzoli, un affare da 127 milioni di euro. Dopo sette mesi di tira e molla, di trattative, di “si dice”, manifesti anti fusione, esternazioni anti berlusconiane da parte di un nutrito gruppo di autori, ai primi di ottobre il matrimonio si fa e nasce il nuovo colosso che sfiora il 40 per cento del mercato dei libri, mettendosi alle spalle – iperdistanziate – le altri sigle (Gems al 10, Giunti al 6, Feltrinelli col 5 e De Agostini con il 2 per cento). Sconto da circa 8 milioni sulla base iniziale della trattativa, perchè Mondadori si “accolla” il rischio Antitrust: vale a dire cosa dirà, a questo punto, l’autorità di controllo circa la legittimità o meno di un colosso del genere, che – secondo alcuni addetti ai lavori – in qualche comparto (ad esempio i tascabili), arriva addirittura a detenere l’80 per cento del mercato. Minimizzano il rischio alla Mondadori: “nella scolastica – osservano – non superiamo il 25 per cento mentre nel commerciale in senso ampio non andiamo oltre il 35 per cento: quindi quote compatibili in un libero mercato”. Le cifre dei fatturati, comunque, sono elevatissime: ai circa 240 milioni di introiti della divisione libri della Mondadori, infatti, si sommeranno gli oltre 220 che arrivano dalle entrate di Rcs Libri (ossia i nuovi marchi Bompiani, Fabbri, Sonzogno, Marsilio e la stessa Rizzoli). Un’operazione fortemente voluta da Ernesto Mauri, convinto che la nascita del nuovo colosso possa dare impulso al mercato del libro in Italia, allineandoci ai trend dei paesi esteri (e anche per fronteggiare l’assalto di Amazon). Di parere opposto, ad esempio, un altro Mauri, Stefano, al timone di Gems dalla sua nascita (in tandem con Spagnol), tra i parti più riusciti quello di Chiarelettere. Ai microfoni di Lilli Gruber per Otto e mezzo, Stefano Mauri ha espresso i suoi dubbi circa la nascita del colosso-competitor: e ha denunciato l’esistenza di un vero e proprio “monopsonio”. Tecnicamente si tratta della presenza, sul mercato, di “un solo acquirente a fronte di una pluralità di venditori” (mentre il monopolio è caratterizzato da “un unico venditore che offre il suo prodotto”). E’ la stessa accusa che negli Stati Uniti tre storiche e agguerrite sigle associative – American Bookseller Association, Authors United e Authors Guild – hanno formulato nei confronti di Amazon a metà luglio, chiedendo un pronunciamento da parte dell’Antitrust a stelle e strisce, in particolare al “Justice Department of the Antitrust Division”. I promotori chiedono di verificare l’esistenza di una “posizione dominante” nel mercato editoriale ormai detenuto da Amazon, che “ha ottenuto una posizione di monopolio nella vendita dei libri e di monopsonio nell’acquisto di libri”. Il gruppo di Seattle – spiegano alcuni esperti – sarebbe cioè “venditore unico o quasi nel primo caso, compratore unico o quasi nel secondo caso”. Se il buongiorno si vede dal mattino, Amazon ha buone chance per farla franca, o quasi. Il numero uno dell’Antitrust, William J. Baer, ha “esternato” a giugno in modo “leggermente” inappropriato, celebrando – scrive il New York Times – il modello economico “selvaggio” di Amazon nel campo degli e-book: “è servito ad alimentare la competizione”, “a ravvivare il mercato”, è il parere di Baer. Qualche “conflitto” in vista anche negli Usa e nelle “sentenze”? Di parere opposto – cita ancora il New York Times – una nota firma statunitense, Peter Meyers, fresco autore di “Breaking the Page” sul passaggio dalla stampa al digitale: “Il successo di Amazon – sottolinea Meyer – ha schiacciato la competizione”. Insomma un Golia senza alcun Davide all’orizzonte capace di intimorirlo. Ma vediamo, più in dettaglio, le principali accuse contenute nel documento (24 pagine) inviato al Dipartimento di giustizia dalle tre sigle associative, “gruppi che rappresentano – scrive ancora il New York Times – migliaia di autori, agenti e librai indipendenti”. In primo luogo, viene sottolineato, “Amazon ha usato la sua posizione dominante in modi che secondo noi danneggiano i lettori americani, impoveriscono l’industria editoriale nel suo complesso, danneggiano le carriere di molti autori (generando paura fra di essi) e impediscono il libero scambio delle idee nella nostra società”. Bordate da non poco. “Non esiste un solo esempio, nella storia americana, dove la concentrazione di potere nella mani di una sola compagnia abbia alla fine portato benefici ai consumatori”. Ecco alcune fra le pratiche più “distruttive” adottate da Amazon nella sua politica iperaggressiva: “vendere alcuni libri e non altri sulla base di precise tendenze politiche; vendere alcuni libri sottocosto in modo tale da mettere in serie difficoltà, fino ad estromettere, le aziende editoriali dotate di minori mezzi economici; bloccare o ridurre la vendita di alcuni libri (per milioni di copie) per esercitare pressione sugli editori; esercitare la sua posizione dominante per ottenere una percentuale sulle vendite superiore rispetto agli altri editori”. Pratiche e tattiche commerciali che “minano alla base l’ecosistema dell’intera industria del libro negli Stati Uniti”, in una misura che risulterà molto dannosa anche per gli autori della “mid list”, quelli emergenti, le “voci delle minoranze”. Ci voleva la guerra con Amazon (che oggi controlla un terzo del mercato dei nuovi prodotti stampati e i due terzi delle vendite di e-book) per riuscire a riunire sigle storicamente mai gemellate, come ad esempio la Bookseller Association e Author Guilds, che mettono insieme 9000 autori e 2.200 punti vendita. “I nostri punti di vista fino ad oggi sembra siano stati ignorati”, lamentano, ma confidano nel fatto che “il clima sta cambiando”. E, a quanto pare, sperano (sic) nell’Europa. “Ci sono dei grossi sforzi all’interno dell’Unione Europea – Germania e pochi altri Paesi – per esaminare con più attenzione il dossier Amazon. Ciò può avere dei positivi riflessi in quello che accade qui da noi”. Nota il sito “Consumerist”: “a giugno l’Unione Europea ha annunciato che aprirà formalmente una pratica di Antitrust per quanto riguarda i particolari contratti di vendita stipulati da Amazon sul fronte degli e-book”. Saranno allora curiosi, negli States, di conoscere gli sviluppi del nostro Antitrust alle prese con la patata bollente del nuovo colosso “Mondazzoli”?
A proposito di Coronavirus.
Il parere del sociologo storico e scrittore, dr Antonio Giangrande.
Non ho nulla più da chiedere a questa vita che essa avrebbe dovuto o potuto concedermi secondo i miei meriti. Ma un popolo di coglioni sarà sempre governato, amministrato, giudicato, istruito, informato, curato, cresciuto ed educato da coglioni. Ed è per questo che un popolo di coglioni avrà un Parlamento di coglioni che sfornerà “Leggi del Cazzo”, che non meritano di essere rispettate. Chi ci ha rincoglionito? I media e la discultura in mano alle religioni; alle ideologie; all’economie. Perché "like" e ossessione del politicamente corretto ci allontanano dal reale. In quest'epoca di post-verità un'idea è forte quanto più ha voce autonoma. Se la libertà significa qualcosa allora ho il diritto di dire alla gente quello che non vuole sentire.
Coronavirus: idiozia ed invidia vs capacità. Mediaset ed il sistema padano non possono nascondere i meriti mondiali dei professori meridionali Ascierto, Gambotto, Ranieri. rispettivamente: Cura, vaccino e tecnica salvavita. Il razzismo territoriale dei padani contro la competenza dei meridionali. Ci chiamano Terroni, potremmo chiamarli Corona, ma li apostrofiamo semplicemente: Coglioni.
Sul Coronavirus ho scritto “Coglionavirus”, un saggio in più parti di centinaia di pagine con fonti autorevoli ed attendibili.
Il saggio scritto a futura memoria e inteso a dimostrare come l’incapacità ed inaffidabilità del passato possa affrontare un problema nel presente, e l’incompetenza, poi, ritrovarcela nel futuro.
Perché in Italia nemmeno i disastri o le rivoluzioni cambiano le cose.
Il sunto del mio saggio sono verità che dai media prezzolati e politicizzati non sentirete mai.
Il Virus italiano non è cinese: nessun cinese o comunità razziale o etnica diversa da quella italiana, stanziata nel Bel paese, è stata origine di focolaio o di paziente zero.
Il Virus italiano non è tedesco, come qualcuno a ripicca del diniego degli euro aiuti vuole far credere. Nessun focolaio tedesco è stato acceso in Germania, così come in Italia.
Il Virus italiano è padano, per la precisione è lombardo: perché lì vi è stato il paziente uno. Lì vi è stato il focolaio principale che ha causato decine di migliaia di morti. Tanti contati, altri non conosciuti. Quel Focolaio ha dato vita alla pandemia in Italia ed all’estero. Perché gli italiani dove vai vai, lì ne trovi sempre qualcuno, chi per vacanza, chi per lavoro.
Il Virus italiano è simile, non uguale, a quello cinese ed ama umidità ed inquinamento. Attraverso le particelle dello smog o le goccioline della nebbia si trasporta per vari metri e per lungo tempo.
Il fattore principale di propagazione in tutta Italia è stata la partita a Milano tra l’Atalanta ed il Valencia, con quarantamila bergamaschi in trasferta, originari del focolaio principale. Così come è stato strumento di propagazione ogni partita che l’Atalanta ha giocato a porte aperte fuori casa, compresa quella col Lecce, in Puglia.
Per il resto si è permesso di infettare il Sud Italia, al momento immune, per alleggerire il carico sulla sanità padana. Qualche coglione padano, cosiddetto giornalista, si rallegrava del fatto che ora sì, siam diventati tutti “Fratelli d’Italia”!
Oltretutto, e non lo dicono, oltre alla mascherina omologata ci vuole l’occhiale che protegge gli occhi. Perchè se è vero, come è vero, che il virus viaggia nell’aria, può entrare da ogni pertugio del corpo umano.
La Sanità Lombarda, prima, e quella nazionale, poi, ha mostrato tutti i suoi limiti, essendo gli operatori sanitari i principali untori della pandemia. Si andava per cure e si usciva infettati.
Gli operatori sanitari, qualcuno vero eroe, altri meno, tra cui coloro che hanno preso decisioni scellerate o i disertori dalla malattia facile, hanno pensato bene di proporre la loro immunità penale, facendo leva sull’indignazione e cavalcando l’onda del momento a loro favore.
Il sistema lombardo centrico non ha avuto remore, in tempo di crisi, a privare la sanità meridionale dei macchinari salva vita per devolverli agli ospedali del nord, requisendo i respiratori già consegnati in Calabria ed in Puglia.
L’eccellenza riconosciuta all’estero, ma come al solito denigrata in Italia, è stata quella dell’ospedale napoletano: il Cutugno per mezzo del prof. Ascierto, che ha scoperto la cura testata su tanti pazienti già guariti.
I media prezzolati e politicizzati, poi, con i soliti ciarlatani, hanno allarmato il popolo per prepararlo al peggio, con decisioni risibili.
Il popolo italiano, inoltre, ha combattuto la guerra come è usuale farlo: fuggendo.
Chi di dovere, anziché relegare pochi migliaia di malati ed il proprio nucleo familiare in strutture protette, ha rinchiuso 60 milioni di sani, privandoli di libertà e ricchezza, senza soluzione di continuità e senza barlume di speranza. Non li ha rinchiusi tutti, però. Nel contempo hanno permesso a chi, infettato, era autorizzato a girare per le città su autobus e metrò e così a continuare a contagiare ed a diffondere l’epidemia.
Bastava poco ad arginare l’emergenza. Tamponare o analizzare il sangue a tutti, o perlomeno, uno per nucleo familiare, considerato che dove lo è uno lo sono tutti quelli a lui vicino. Di conseguenza monitorare i suoi spostamenti, passati, presenti e futuri, con gli strumenti tecnologici.
Invece se coglioni eravamo prima del disastro, lo siamo durante o lo resteremo in futuro.
Per provare quello che dico, basta fare mente locale su quello che si è detto e fatto durante tutto questo periodo: il tutto ed il contrario di tutto. E nulla si sa del futuro.
Antonio Socci cinguetta: "Siccome non erano capaci di procurare le mascherine, ci dicevano che non servivano alla gente comune. Di questa splendida informazione sanitaria firmata dal governo chi risponde?"
Maria Giovanna Maglie punta il dito contro il secondo presunto fronte della menzogna, quello relativo ai tamponi. "E siccome non hanno tamponi ci dicono che i test agli asintomatici non servono. Quante bugie di Stato! Qualcuno pagherà?”
Toni Capuozzo, cosa non torna sulla foto dei Navigli pieni. "Ecco l'osso gettato alla gente". Fase 2, un grosso dubbio. Libero Quotidiano il 09 maggio 2020. Non s'allinea all'indignazione generale per la troppa gente a passeggio sui Navigli milanesi il giornalista e scrittore Toni Capuozzo. Che, in un post su Facebook, definisce il caso «un osso gettato da mordicchiare a un' opinione pubblica nervosa». Provocatoriamente, Capuozzo si chiede se sia colpa di questi se le mascherine non si trovano, l'app di tracciamento non si è vista, i tamponi sono pochi, le banche non erogano prestiti alle imprese in difficoltà. Domanda retorica: no, con tutte queste questioni - le vere questioni - i Navigli non c' entrano. Ma così la gente ha qualcuno con cui prendersela.
Qualcuno dice che tutto questo ci cambierà: sì, in peggio.
Dr Antonio Giangrande
Il Lockdown (confinamento) visto con gli occhi di un bambino. Di Antonio Giangrande
Bimbo: papà, perché siamo reclusi in casa come i carcerati?
Padre: per non farci ammalare…
Bimbo: ma non ci sono gli ospedali per curarci?
Padre: non ci sono posti per tutti…
Bimbo: papà, tu ti lamenti che paghi tante tasse, perché non fanno i posti per tutti?
Padre: i posti c’erano, poi li hanno tolti, perché dicevano che i soldi non bastano.
Bimbo: perché se i soldi non ci sono, tutti li vogliono senza lavorare e poi li ottengono?
Padre: perché ne vogliono di più…e tanti campano così.
Bimbo: papà, se io mi ammalo e vado in ospedale e non ci sono posti, muoio?
Padre: Non ti preoccupare, i posti disponibili li danno ai malati più giovani, mentre i malati più vecchi li fanno morire, o li mandano in quei posti dove ci sono altri vecchi.
Bimbo: ma papà, ma così fanno ammalare e morire anche quelle persone anziane che sono sane! Meno male che io sono giovane. Se vado in ospedale mi curano…
Padre: no! Se tu vai all’ospedale ti ammali. Quasi tutte le persone si sono infettate all’ospedale, dove c’erano anche i medici e gli infermieri senza mascherine.
Bimbo: papà, allora perché non chiudono gli ospedali e ci fanno uscire a noi?
Papà: non dire queste cose, perché alla tv dicono che chi lavora in ospedale sono eroi e non untori e poi sono i medici che decidono che dobbiamo essere reclusi. Per loro se andiamo in ospedale e ci ammaliamo è colpa nostra!
Gli affari della Sanità privata padana a danno di quella del Sud, sotto tutela dello Stato.
Con il principio della spesa storica (riferimento a quanto percepito negli anni precedenti), il Nord Italia si “fotte” più di quanto dovuto, a spese del Sud Italia.
In virtù, anche, di quel dipiù la Sanità padana spende di più perché è foraggiata dallo Stato a danno della Sanità meridionale, che spende di meno perchè vincolata a dei parametri contabili prestabiliti.
Poi c’è un altro fenomeno sottaciuto:
Nelle strutture private del Nord, costo pieno di rimborso;
Nelle strutture private del Sud, costo calmierato di rimborso.
Con questa situazione si crea una contabilità sbilanciata e un potere di spesa diversificato.
In questo modo i migliori chirurghi del meridione sono assoldati dalle strutture settentrionali e pagati di più. Questi, spostandosi, con armi, bagagli e pazienti meridionali affezionati, creano il turismo sanitario.
Con una finanza rinforzata la Sanità padana è pubblicizzata dalle tv commerciali e propagandata dalla tv di Stato.
Ergo: loro diventano più ricchi e reclamizzati. Noi diventiamo sempre più poveri e dileggiati.
Poi arriva il Coronavirus e ristabilisce la verità:
la presunta efficienza crea morte nei loro territori;
la presunta arretratezza contiene la pandemia, nonostante, artatamente, dal Nord per salvare la loro sanità, siano stati fatti scappare i buoi infetti con destinazione Sud.
Michele Emiliano a Stasera Italia su Rete4 (Rete Lega) del 3 maggio 2020. «Innanzitutto noi abbiamo aumentato di millecinquecento posti i posti letto autorizzati da Roma. E abbiamo subito approfittato di questa cosa. Devo essere sincero: il sistema sanitario pugliese è un sistema sanitario regolare. Noi non abbiamo mai avuto problemi sulle terapie intensive. Quindi però, Pomicino evidentemente è intuitivo, capisce che questo è il momento per cui le sanità del Sud…siccome i nostri non possono più andare al Nord per curarsi perché è troppo pericoloso, devono essere rinforzate per limitare la cosiddetta mobilità passiva. Quindi io l’ho detto chiaro: io non terrò più conto dei limiti, posti letto, assunzioni, di tutta questa roba, perché non siamo in emergenza. Farò tutte le assunzioni necessarie, assumerò tutte le star della medicina che riuscirò a procurarmi, cercherò di rinforzare i reparti. Manterrò i posti letto in aumento. Anche di più se possibile. Chiederò ai grandi gruppi privati della Lombardia per i quali c’è una norma che li tutelava in modo blindato. Immaginate: io potevo pagare senza limite i pugliesi che andavano in Lombardia presso queste strutture, se queste strutture erano in Puglia c’era un tetto massimo di spesa fatto apposta…Siccome questo tetto deve saltare, io sto proponendo a questi grandi gruppi di venire e spostarsi al Sud per evitare il rischi Covid, ma soprattutto per evitare il rischio aziendale per loro. Perché è giusto che questa mobilità passiva: 320 milioni di euro di prestazioni sanitarie che la Puglia paga alla Lombardia in prevalenza, solo perché quel sistema è stato supertutelato. Adesso tutti dovremmo trovare il nostro equilibrio e la nostra armonia».
Marino Niola per “la Repubblica” il 18 aprile 2020. Il baco del millennio è arrivato. Ma vent' anni dopo. Il suo nome è Covid 19 e non ha niente a che fare con l' apocalisse digitale. Lo aspettavamo tra l' ultima notte del Novecento e il primo giorno del Duemila. E invece si è presentato adesso, profondamente mutato e mutante come ogni virus che si rispetti. Allora avevamo un timore quasi superstizioso della tecnologia e invece la bordata è arrivata dalla biologia. Credevamo che il vulnus del sistema fosse nell' immateriale e invece era nella materia vivente. Eravamo certi che la fine del mondo incubasse nei circuiti dell' intelligenza artificiale, nel moderno logos. Invece era nell'antico bios, nella forma di vita più arcaica e primordiale che ci sia. Temevamo il default dei sistemi complessi ed evoluti e invece il colpo da "ko" è arrivato da un organismo semplice e involuto. In quei giorni, che sembrano ormai lontani anni luce, eravamo convinti che il battito elettronico che comanda il bioritmo del villaggio globale si sarebbe arrestato all' improvviso precipitandoci in un vuoto elettronico ed esistenziale, un enorme buco nero capace di inghiottire in un istante ogni nostro avere e ogni nostro essere. Abbiamo vissuto nell' attesa millenaristica del black out della civiltà. Che l' economia si bloccasse, che gli aerei rimanessero a terra, che i sistemi scolastici si impallassero, che le Borse implodessero, che le fabbriche si fermassero, che la logistica impazzisse, che i consumi si arrestassero. E che il sistema sanitario andasse in tilt. Allora non è successo niente. Ma è successo tutto adesso. E per ragioni completamente diverse. Non informatiche ma epidemiche. E paradossalmente, in questo momento a reggere è proprio l'informatica, che al tempo del baco ci appariva il nostro tallone d' Achille, quello che avrebbe rivelato la fragilità del mondo iperconnesso, che avrebbe fatto coincidere il crollo dei nostri nervi con l' encefalogramma piatto dei nostri processori. E invece la Rete non solo sta tenendo botta, ma è diventata l' antidoto contro il male, l' anticorpo comunicativo che ci sorregge e ci protegge. Relazioni e transazioni. Formazione e informazione. Contatti e contratti. Interventi e coordinamenti. La connessione permanente ha salvato la salute dell' organismo sociale e sanitario. E, in assenza dei nostri corpi fisici, remoti e reclusi, ha liberato dalla quarantena le nostre anime. Ha permesso ai nostri volti di riconoscersi e ritrovarsi, di non smarrirsi in un buio affettivo, emotivo e comunicativo. All' alba del millennio, certi di averla sfangata, ci eravamo sentiti al sicuro. E siamo ripartiti a manetta senza più chiederci il senso della nostra corsa verso lo sviluppo infinito, che ormai sembrava inarrestabile. Invece a mettere il paletto nella ruota della globalizzazione ci ha pensato un agente patogeno microscopico. Non so se il virus abbia allungato il secolo breve o accorciato il nostro. Fatto sta che adesso, quello che verrà sarà il vero inizio del Millennio. Allora credevamo di avere un problema di impostazione. Invece abbiamo scoperto che era un difetto di visione. Perché vent' anni fa a spaventarci era solo il fantasma incorporeo dei parassiti virtuali che avrebbero messo a nudo la vulnerabilità della società comunicante. E invece a darci scacco matto è stato un parassita fisiologico. Un veleno nel senso letterale della parola, visto che virus deriva da un termine indoeuropeo che significa proprio veleno, umore venefico, ma anche saetta, vettore, qualcosa che vola nell' aria, proprio come le frecce divine che nell' Iliade spargono la peste nel campo dei Greci. E che ci ricorda la fragilità della condizione umana. Insomma, per noi la parola virus era diventata solo una metafora, per designare un contagio informatico propagato da hacker-untori. Da combattere con antivirali digitali. Quasi che la materialità delle cose e il peso dei corpi fossero stati azzerati dalla società liquida e dalla sua insostenibile leggerezza. A spaventarci era lo spettro del malware, vale a dire malicious software, l' algoritmo del male. E adesso che la pandemia ci ricorda che siamo prima di tutto carne e sangue, ci rifugiamo sotto l' ala del welfare, il sistema del bene, che molti consideravano un costoso rottame del secolo scorso. E che invece resta il solo farmaco in grado di curare corpi e anime.
· Le differenze tra epidemia e pandemia.
Allarme coronavirus, quali sono le differenze tra epidemia e pandemia. Redazione de Il Riformista il 25 Febbraio 2020. L’epidemia di coronavirus ha accelerato in tutto il mondo, tanto che l’Organizzazione mondiale della Sanità (Oms) ha alzato il livello di rischio a una potenziale pandemia. “Dobbiamo concentrarci sul contenimento (della nuova epidemia di coronavirus, ndr), mentre facciamo tutto il possibile per prepararci a una possibile pandemia”, ha detto il direttore generale dell’Oms, Tedros Adhanom Ghebreyesus. In particolare, l’Oms ha giudicato “molto preoccupante (…) l’improvviso aumento” di nuovi casi in Italia, Corea del Sud e Iran. L’Italia è il terzo paese al mondo per numero di contagi (oltre 200 i casi confermati e 7 decessi). Tuttavia, ha osservato un rallentamento della diffusione in Cina, il paese di origine del virus, dall’inizio di febbraio.
QUALI SONO LE DIFFERENZE TRA EPIDEMIA E PANDEMIA – Entrambe le parole epidemia e pandemia riguardano malattie infettive causati da agenti che entrano in contatto con l’individuo, come può essere appunto il coronavirus. La differenza sta non nella gravità della malattia, ma nella sua diffusione geografica. Come ricorda infatti l’Istituto Superiore della Sanità le malattie infettive possono essere più o meno contagiose, potendo diffondere in forma sporadica, epidemica, endemica o pandemica. Un caso sporadico si manifesta si manifesta in una popolazione in cui una certa malattia non è sempre presente, mentre una malattia può essere definita endemica quando l’agente, che può essere un virus, è stabilmente presente e circola tra la popolazione con un numero di casi più o meno elevati, ma distribuito uniformemente nel tempo.
L’epidemia invece si manifesta quando il numero di casi infetti aumenta in breve tempo esponenzialmente, interessando in una particolare un numero elevato di persone, superiore alla media, per una certa comunità.
Per parlare di pandemia (dal greco pan-demos, “tutto il popolo”), l’OMS parla di un agente patogeno per il quale le persone non hanno immunità e che si diffonde con grande rapidità e facilità in una zona più vasta rispetto a quella solitamente interessata da una semplice epidemia.
· I 10 virus più letali di sempre.
Qual è la differenza tra batteri e virus. Da farmaciauno.it. Piccola guida per capire qual è la differenza tra batteri e virus e come prevenirli.
Perché è importante conoscere la differenza tra batteri e virus. Entrambi sono invisibili all’occhio umano, possono essere trasmessi per via aerea, alimentare o tramite dei rapporti sessuali causando malattie e infezioni anche gravi: stiamo parlando dei virus e batteri. Questi due termini, molto spesso, vengono utilizzati in maniera confusionaria e, a volte, erroneamente anche come sinonimi. Ma qua è la differenza tra virus e batteri? Cosa sono i virus e quali malattie portano?
I virus (che dal latino significa “veleno”) sono dei microorganismi in grado di riprodursi solamente all’interno di un altro organismo perché al di fuori di esso possono sopravvivere solo per un lasso di tempo limitato. Sono pertanto definiti parassiti obbligati perché per moltiplicarsi devono entrare nella cellula ospite, vivendo da “parassita”. A differenza dei batteri, i virus sono molto più piccoli ed esiste una quantità innumerevole, che varia in base alla specie virale e ai meccanismi con i quali agisce. I virus sono all’origine di malattie, come poliomielite, influenza, rabbia, AIDS, vaiolo e anche del nuovo Coronavirus: un nuovo ceppo che non è stato precedentemente mai identificato nell'uomo, la cui malattia è il “COVID19” (dove "CO" sta per corona, "VI" per virus, "D" per disease e "19" indica l'anno in cui si è manifestata).
Cosa sono i batteri? I batteri sono dei microrganismi unicellulari che, a differenza dei virus, sono una presenza fissa per il nostro organismo. Infatti, convivono con noi e sono presenti negli organi che hanno un contatto con l’esterno, come: la bocca, la pelle o alcuni organi dell’apparato respiratorio e ci aiutano a svolgere alcune funzioni vitali. Questa tipologia di batteri è quindi innocua per l’uomo. Tuttavia esistono anche dei batteri detti “patogeni” che invece possono far sviluppare all’individuo delle infezioni a carico di un determinato organo. Inoltre i batteri, sia innocui che patogeni, non hanno bisogno necessariamente di un organismo per riprodursi e sopravvivere ma possono farlo anche nell’ambiente circostante.
Differenza tra batteri e virus: come si combattono? I virus e i batteri hanno dei trattamenti specifici ben diversi che saranno efficaci per eliminarli dal nostro organismo o prevenirne la comparsa. Sono delle terapie farmacologiche che vanno iniziate in accordo con il vostro medico che elaborerà quella più adatta alla vostra condizione fisica. Ecco però alcune informazioni su questi farmaci:
Antibiotici: gli antibiotici sono efficaci solamente per i batteri e invece non risultano efficaci sui virus.
Farmaci antivirali: bloccano la moltiplicazione del virus, ma vanno assunti dietro prescrizione medica solo in caso se ne presenti uno e non sono da considerare dei farmaci preventivi.
Vaccini: sono dei farmaci che contengono una piccola quantità di virus resa però innocua per l’uomo, ma che è in grado di farci sviluppare gli anticorpi necessari per combattere il virus stesso. I vaccini prevengono la comparsa di un virus nell’organismo e per questo non sono efficaci per la cura contro i batteri. Quando si presenta un nuovo virus, come per esempio il Coronavirus, ha inizio la fase di ricerca e di sperimentazione di un vaccino per evitarne la propagazione. Ciò che possiamo fare in attesa del vaccino, è mantenere le distanze e rispettare rigidamente le norme igieniche.
La banca dei virus. Report Rai PUNTATA DEL 04/05/2020. Quella di Covid-19 è solo l’ultima delle numerose gravi epidemie che hanno scandito la storia dell’uomo. Solo negli ultimi 25 anni si sono succedute influenza aviaria, Sars, A H1N1, Mers. Come procede la ricerca? Un’inchiesta del network franco-tedesco Arte, di cui Report propone un estratto, mostra alcune tecniche sperimentate in laboratori europei che hanno suscitato dispute all'interno della comunità scientifica.
“LA BANCA DEI VIRUS” Tratto da “ÉPIDÉMIES: LA MENACE INVISIBLE” – Arte France.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Bentornati. Allora, la crisi provocata dalla pandemia potrebbe ispirare la mente perversa di qualche bioterrorista che potrebbe essere tentato dall’utilizzare il virus quale arma invisibile, vista la capacità che ha avuto di mettere in ginocchio anche le più grandi potenze mondiali. Ora. Nel mondo ci sono una quarantina di laboratori ad alta sicurezza nei quali vengono in qualche modo anche creati dei virus. E la ricerca si è spinta ad un livello tale da utilizzare anche delle tecnologie molto controverse, molto spinte. Si arriva addirittura a modificare un virus, per renderlo più letale o più virulento, per verificare e valutare la capacità di sviluppo di una malattia. Ma soprattutto per sviluppare delle cure, sviluppare dei vaccini. Ora la questione è: qual è il compromesso tra la sicurezza e la conoscenza? Quando uno scienziato viene in possesso di informazioni così importanti, deve condividerle o mantenerle segrete? Ecco, insomma, siamo entrati in uno dei laboratori più importanti del mondo: in una banca dei virus, dove conservano i virus dal 1800.
VOCE NARRANTE C’è un’evoluzione importante nel campo della ricerca: alcuni scienziati hanno messo a punto una forma di virus aviario che potrebbe portare una malattia mortale trasmissibile tra umani. Se i bioterroristi riuscissero a impossessarsi di questo virus potrebbero usarlo per colpire milioni di persone.
LUIS ENJUANES – CENTRO BIOLOGIA MOLECOLARE UNIVERSITÀ AUTONOMA DI MADRID C’è un grande deposito dipendente dall’Unione Europea o dal governo americano, che contiene già tutte le strutture necessarie e gli strumenti per creare un nuovo virus.
FUORICAMPO VOCE NARRANTE Per creare nuovi virus e conservarli, gli scienziati utilizzano metodi sempre più controversi. In questo ospedale olandese nel 2011 è stata creata la mutazione del virus H5N1. È la mutazione che temiamo tanto in natura; il passaggio dall’animale all’uomo questa volta l’hanno fatto i ricercatori laboratorio.
ALBERT OSTERHAUS – VIROLOGO CENTRO ERASMUS - ROTTERDAM In queste latte ci sono delle scatoline, in ogni scatola c’è una fiala e in ogni fiala il principio di un virus. Ma i virus pericolosi per umani o animali non li conserviamo qui. Ora ve li faccio vedere. Ecco. Qui c’è una stanza a -20 gradi, in ognuna di queste fialette c’è il plasma. È l’archeologia di un virus. È il sangue di qualcuno che è nato nel 1857. Contiene gli anticorpi dei virus che circolavano in quegli anni.
GIORNALISTA E dove conservate il nuovo ceppo?
ALBERT OSTERHAUS – VIROLOGO CENTRO ERASMUS - ROTTERDAM H5? Ovviamente non lo dirò. Se ci fossero persone che volessero il virus, potrebbero volere anche la mappa per trovarlo. Se ve lo rivelassi al vostro programma potreste dare una mano ai terroristi.
VOCE NARRANTE Ci vietano di avvicinarci ai ceppi dei virus mutanti o avvicinarci a quei laboratori dove fanno esperimenti sulle cavie e animali come i furetti. Tuttavia incontriamo i ricercatori che lavorano sui virus. Chiediamo se nelle condizioni attuali c’è un rischio che il super virus possa uscire dal laboratorio.
THEO BESTEBROER – RICERCATORE CENTRO ERASMUS - ROTTERDAM Per l’H5 c’erano 3 ricercatori che aspettavano a ogni esperimento i risultati. A un certo punto avevamo verificato la mutazione ed era contagioso. Se uscisse ora dal laboratorio avremmo un bel problema.
ALBERT OSTERHAUS – VIROLOGO CENTRO ERASMUS - ROTTERDAM Dobbiamo essere consapevoli del fatto che questo lavoro genera critiche. È un mestiere pericoloso e se non lo fai nel modo giusto il rischio c’è. Anche se non è facile che un bioterrorista usi le nostre informazioni, usi il nostro “difficile” sistema molecolare per gestire questi virus… Ma dobbiamo tener presente che noi stiamo combattendo una guerra benefica e abbiamo un obbligo morale verso la comunità.
VOCE NARRANTE Questo tipo di ricerca non convince e molti scienziati si sono mobilitati per fermarla. Aveva subito uno stop, ma l’anno scorso l’OMS ha revocato la sospensione e questo preoccupa uno specialista di bioterrorismo come Patrick Berche.
PATRICK BERCHE – DIRETTORE CENTRO MICROBIOLOGIA OSPEDALE NECKER – PARIGI Significa giocare all’apprendista stregone. Perché rendere super contagioso un virus che non lo è? E se ci scappasse un morto nel laboratorio? Cosa diremmo? Che hanno creato, un mostro, come Frankenstein, che può addirittura creare una pandemia? Tutto questo è assurdo.
VOCE NARRANTE Ma non sarebbe la prima volta. In Gran Bretagna per due casi di vaiolo, duecento persone sono state messe in quarantena a Birmingham. Janet Parker, un’abile fotografa, è morta dopo essere rimasta contagiata con il virus del vaiolo che era sfuggito dal frigorifero di un laboratorio.
PATRICK BERCHE – DIRETTORE CENTRO MICROBIOLOGIA OSPEDALE NECKER – PARIGI Janet Parker aveva 40 anni. Ha contratto il virus attraverso l’impianto di aerazione. È morta dopo tre settimane. Ma prima ha contagiato la madre, che è sopravvissuta, poi suo padre che invece è morto. Ma questo è solo un esempio. Ci sono stati incidenti con la SARS nei laboratori cinesi. Gli incidenti anche se si tratta di laboratori ad alta sicurezza, ci sono sempre stati. Ne abbiamo contati 450 negli ultimi 30 anni.
VOCE NARRANTE C’è il rischio di incidenti, ma quello che più preoccupa è un attacco di bio terrorismo. I terroristi potrebbero avere accesso in modo fraudolento o attraverso la corruzione, alle banche dei Virus. Quelle che conservano un nuovo virus o semplicemente uno vecchio, contro il quale non ci si vaccina più come il vaiolo. Virus che oggi si potrebbero riprodurre da zero.
PATRICK BERCHE – DIRETTORE CENTRO MICROBIOLOGIA OSPEDALE NECKER – PARIGI I luoghi dove si conservano i virus come Ebola sono praticamente inaccessibili, ma ci si può entrare tramite scienziati di buon livello che sappiano sintetizzarli a partire dalla sequenza. È complicato, ma è possibile. Non esistono santuari.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Secondo l’ex direttore dell’Istituto Pasteur di Lille, Patrick Berche, insomma bisogna agire con una certa prudenza perché l’uomo non è immune a nulla. Del resto anche lo scienziato a cui è intitolato il suo Istituto Louis Pasteur, aveva in qualche modo considerato i batteri come un arma, visto che li ha usati per eliminare i conigli che avevano infestato alcune regioni. Ecco però per un bioterrorista non è semplice andare a rubare e gestire dei super virus. Non è cosa da principianti. Piuttosto la ricerca per come è arrivata oggi impone delle riflessioni oltre che bioetiche, anche di biopolitica se vogliamo. Le geopolitica attuale offre un panorama molto più frammentato rispetto al passato. E quello che ci insegna la pandemia è quello che bisogna sicuramente investire sulla fiducia. C’è la necessità per prevenire delle minacce che non verranno sicuramente, non potrebbero venire sicuramente in realtà nazionali o sovrannazionali, c’è la necessità di governare la ricerca. Dovrebbe farlo qualche ente istituzionale, dedicato a questo e dovrebbe anche diventare una casa di vetro, come non lo è stata l’Organizzazione Mondiale della Sanità. È l’argomento di lunedì prossimo.
I 10 virus più letali di sempre. Paolo Remer - La Legge per Tutti. Data di pubblicazione: 11 Marzo 2020. Riprodotto da radiomaria.it. Le infezioni più pericolose della storia fino ad oggi: pandemie che hanno sterminato popolazioni, tutte con effetti più devastanti del coronavirus. Il coronavirus è solo l’ultimo, il più recente di una lunga serie di infezioni che hanno colpito l’umanità nel corso della sua storia. La maggior parte sono state molto più letali dell’attuale Covid-19, hanno provocato enormi stragi e alcune di esse continuano a mietere tuttora vittime. È bene quindi sapere che non esiste solo il coronavirus, ma che l’uomo ha fatto e continua a fare ancor oggi i conti con altri virus ancor più pericolosi. Ecco la classifica dei 10 virus più letali di sempre dalla peste alla Sars, passando per il morbillo, una malattia dimenticata in un’epoca di vaccini ma provoca ancora centinaia di migliaia di morti all’anno. Così come non è confortante sapere che ad oggi i morti per l’influenza della stagione invernale superano ampiamente quelli per coronavirus. Inoltre, in un’epoca di globalizzazione come quella che stiamo vivendo è utile conoscere quali malattie esistono ancora oggi e non sono state definitivamente debellate; proprio il Covid-19 insegna come un virus emerso in Cina si sia diffuso in pochi giorni in tutto il mondo, diventando subito – quando era ancora molto lontano dall’Italia – un allarme mondiale grazie alle sue capacità infettive e alla circolazione delle persone, spesso radunate in ambienti chiusi e affollati. Una circostanza che ha favorito la diffusione del contagio, insieme al fatto che, trattandosi di un’infezione nuova, il nostro sistema immunitario non ha ancora sviluppato adeguate difese.
La peste. Risale agli albori della storia ed è la pandemia più letale che l’umanità abbia mai conosciuto: si stima che abbia ucciso 200 milioni di persone. Celebre la grande peste nera del XIV secolo, che nel 1300 colpì l’Europa intera sterminando il 60% della popolazione. Da qui però sorsero il Rinascimento e le basi dell’economia moderna: il capitale umano era diventato troppo scarso e costoso in termini di forza lavoro, e così furono inventati nuovi metodi produttivi, con l’impiego delle macchine in ausilio e in sostituzione dell’uomo. Ora noi la conosciamo soprattutto dal racconto manzoniano della peste milanese del 1630 contenuto ne I Promessi sposi, ma devi sapere che ancora oggi la peste esiste in alcune zone dell’Africa, dell’Asia e dell’America centro-meridionale.
Il vaiolo. Il virus del vaiolo è letale nel 30% dei casi e in coloro che riescono a sopravvivere lascia tracce permanenti. Questa malattia, che ha sterminato quasi totalmente le popolazioni native americane venute in contatto con i colonizzatori, provocava ancora 400mila morti all’anno nella sola Europa fino alla prima metà del Novecento. Poi, è diventata il simbolo del vaccino, che fu scoperto nel 1796 da Edward Jenner, incuriosito dal fatto che gli allevatori di bovini non si ammalavano di vaiolo. Le vaccinazioni applicate su larga scala hanno portato alla completa eradicazione della malattia, cioè alla sua pressoché completa scomparsa nel mondo; l’ultimo caso registrato è del 1977, ma le autorità sanitarie mantengono alta la vigilanza, in caso di ripresa del virus, come nel caso di propagazione dovuta ad un attacco bioterroristico. Non è fantascienza: lo puoi leggere sul sito dell’Istituto Superiore di Sanità, nella pagina dedicata al vaiolo.
La rabbia. È la malattia più antica di cui si ha notizia, ed esiste ancora oggi. Si trasmette all’uomo dagli animali infetti attraverso la saliva, soprattutto con i morsi. Provoca un’encefalite (infiammazione del cervello) che molto spesso risulta mortale. Tutt’oggi, è responsabile di un numero di morti che varia tra i 25mila ed i 50mila all’anno. Il Paese più colpito è l’India. Esiste un vaccino antirabbico che negli Stati occidentali aiuta molto a contenere la diffusione della malattia e a prevenire l’esito letale.
Il morbillo. Nonostante le vaccinazioni disponibili da oltre 50 anni, il morbillo rimane una delle principali cause di morte dei bambini piccoli: ne muoiono più di 130 mila all’anno, soprattutto nelle zone del Terzo mondo, come il Congo, l’Etiopia, l’India, la Nigeria e il Pakistan. Resta a tutt’oggi un allarme mondiale: tra le malattie vaccinabili è quella che provoca ancora il maggior numero di decessi. Gli studi indicano che il morbillo è nato dalla peste bovina, un’altra grave malattia che solo di recente è stata eradicata, come il vaiolo. Questo dimostra anche le capacità dei virus di evolversi, mutare e adattarsi all’ambiente, colpendo in modo diverso gli altri esseri viventi.
L’Aids. Il virus dell’Hiv, che causa l’immunodeficienza acquisita, è un “retrovirus”, che colpisce la cellula infettata in un modo diverso da quello dei virus tradizionali: si va a insediare nel Dna e da lì inizia a replicarsi. Il suo bersaglio sono le cellule del sistema immunitario, che si indeboliscono; così in chi ne è affetto aumenta enormemente il rischio di infezioni da altri virus o batteri, o di tumori. La malattia continua a mietere vittime: nel 2018 sono state 770 mila, erano più del doppio nel 2004. Ma soprattutto continua a serpeggiare: sempre nel 2018 (gli ultimi dati ufficiali aggiornati) ci sono state 1,7 milioni di nuove diagnosi. Si stima che quasi 40 milioni di persone nel mondo vivono con l’infezione di Hiv, soprattutto nei Paesi dell’Africa Sub-Sahariana, dove, secondo l’Oms, quasi 5 persone su 100 sono sieropositive.
Ebola. Il virus Ebola è recente: appena 6 anni fa, nel 2014, è esploso nell’Africa occidentale, provocando una febbre emorragica che ha ucciso più dei tre quarti delle persone infettate. Nonostante la pericolosità, il numero dei morti è sotto le 2.000 persone. Questo accade perché il virus ha un’azione così veloce che uccide la maggior parte degli ospiti prima di poterne contagiare altri. Inoltre, in Africa, le popolazioni colpite vivono prevalentemente nei villaggi, non in grandi città, e questo ha limitato la sua diffusione, insieme al fatto che l’ammalato non è in grado di muoversi. Ma la malattia rimane pericolosissima e molte cose rimangono difficili da spiegare: “non esiste ancora un trattamento provato”, avverte l’Istituto Superiore di Sanità, così come non si può prevenirla efficacemente perché “il serbatoio naturale della malattia non è stato identificato con certezza”. Sappiamo solo che si trasmette attraverso il contatto con sangue, secrezioni, organi o altri fluidi corporei di animali o di altre persone infette. L’Oms la ritiene l’epidemia più complessa della storia dei virus.
Le influenze. Parliamo al plurale perché quelle letali sono più di una. Nel ventesimo secolo, si sono verificate tre pandemie di influenze che hanno provocato vere e proprie stragi: la Spagnola, l’Asiatica e la Cinese. Ma non bisogna dimenticare che anche le comuni influenze stagionali provocano più morti di quelli attribuibili al coronavirus: solo quest’anno ci sono già stati 5 milioni di casi in Italia, che hanno colpito il 9% della popolazione, con 300 decessi collegati all’influenza e alle complicanze che ne sono derivate.
La Spagnola. L’influenza Spagnola nel 1918, fu chiamata così perché le prime notizie giunsero dalla Spagna, che non era sottoposta alla censura che coinvolgeva tutti gli Stati partecipanti alla prima Guerra mondiale. Si stima che provocò più di 50 milioni di morti (il quintuplo di quelli cagionati dalla stessa guerra), di cui almeno 375.000 in Italia. È la pandemia che ha cagionato il maggior numero di morti della storia umana, superando ampiamente la peste.
L’Asiatica. L’influenza Asiatica del 1958 è stata l’erede della Spagnola; nei precedenti quarant’anni, le influenze erano state “normali” fino all’esplosione di questa nuova pandemia. Anche in questo caso si trattava di un virus innovativo, del tutto diverso dai ceppi fino a quel momento conosciuti; provocò 2 milioni di morti ma ben presto, grazie a un vaccino fu contenuta, e scomparve dopo 11 anni.
La Cinese. I meno giovani la ricorderanno: venne chiamata così perché scoppiò nella colonia cinese della città di Hong Kong nel 1968. Tra le pandemie del XX Secolo fu la meno letale: provocò “solo” un milione di morti, di cui 20mila in Italia. Era altamente contagiosa e associata a polmoniti. Fortunatamente, l’anno dopo scomparve, velocemente così come era apparsa.
Il Rotavirus. È una pericolosissima gastroenterite infantile che colpisce soprattutto i neonati e i bambini al di sotto dei 5 anni. Provoca una forte diarrea che porta alla disidratazione. È responsabile di 200mila morti all’anno, circa 500 o 600 al giorno, e l’Oms la considera una delle più gravi emergenze sanitarie attuali.
La Dengue. È una febbre endemica e insidiosa, che si trasmette solo con le punture di zanzara, dunque non da uomo a uomo. Colpisce dai 50 ai 100 milioni di persone ogni anno ed è particolarmente diffusa in Thailandia, in India e nel Sud Est asiatico, ma è presente in tutto il mondo, soprattutto nelle regioni tropicali. Non esiste contro di essa un vaccino o un altro trattamento specifico efficace; il suo tasso di mortalità è piuttosto basso ma non trascurabile e si attesta al 2,5%, quasi come per il coronavirus.
La Sars. La Sars, acronimo di “Sindrome acuta respiratoria grave”, è una forma atipica di polmonite, molto contagiosa. Compare in Cina nel 2003 e inizia a mietere vittime (anche se meno di quel che si pensa: 770 persone); da quel momento è declinata, ma non del tutto scomparsa. È associata al Covid-19, sia per la famiglia di origine del ceppo virale (entrambe appartengono al coronavirus) sia per le manifestazioni sintomatiche (febbre, tosse e difficoltà respiratorie) e le zone colpite. Secondo l’Oms, però, Covid-19 non è mortale come altri coronavirus come Sars e Mers: nel Covid-19 oltre l’80% dei pazienti ha una forma moderata e guarisce e solo nel 2,5% circa risulta letale, mentre per la Sars il tasso di letalità è almeno del 9%.
E il coronavirus? Dopo questa lunga rassegna sulle emergenze passate, sembra opportuno fare un cenno a quella in corso: il coronavirus, che ancora non è stata classificata come pandemia dall’Oms, anche se forse siamo alle soglie. Intanto rimane un’epidemia con un livello di allarme e di emergenza molto alto, come ben sappiamo.
Se rapportato alle altre malattie virali (abbiamo visto che anche la Sars appartiene al ceppo dei coronavirus) gli studiosi hanno verificato che il Covid-19 “nell’80% dei casi nel suo genoma è più o meno uguale a quello della Sars del 2002 – 2003”, come spiega Massimo Ciccozzi, dell’Università Campus Bio-Medico di Roma. Ma quello che fa la differenza sono le mutazioni del virus, che lo rendono, da un lato,” estremamente più contagioso rispetto alla Sars” e, dall’altro lato, “meno letale”. “Quindi fa più casi. Ma è meno pericoloso, almeno tre volte meno pericoloso della Sars”, sottolinea l’esperto.
· Le Pandemie nella storia.
Giulio Tremonti per il ''Corriere della Sera'' il 15 dicembre 2020. 1720, 2020: la peste e la bolla. Certo, la storia non si ripete mai per identità perfette, ma a volte ne emergono coincidenze quasi perfette, spesso fatali. Quanto segue non ha pretesa storica: solo una suggestione che viene dal passato per arrivare ad oggi. Nel 1720 la Francia — se non il cuore dell’Europa, certo già allora una sua gran parte e centrale — fu investita tanto da una devastante pestilenza, quanto da una catastrofe finanziaria. La peste bubbonica, detta nel caso «peste levantina» perché portata da una nave che veniva dal levante, esplose a Marsiglia e da qui, terribile, si estese verso nord, bloccando i commerci, fino al Regno Unito. Nel 1720, e dunque nello stesso anno, sempre in Francia crollò il cosiddetto «Sistema di Law»: una finanza per allora super moderna, basata su banconote e su azioni emesse dalla «Compagnia» cui il Re aveva concesso lo sfruttamento della super reclamizzata, ma inesistente, ricchezza della «Louisiana». Il «Sistema» crollò quando, nonostante il ricorso a sempre nuovi artifici contabili, la realtà ebbe a prevalere sull’illusione, quando la povertà (ri)prese il posto della ricchezza (inventata). Ma, se la peste levantina ebbe più o meno presto termine, non fu così per la peste finanziaria: prima la lotta per le farine e per il pane, poi nel popolo crescente rabbia, mentre proseguivano le tristi feste dei reali, infine la «Rivoluzione». Si badi, qui non si sostiene che nel 1720 l’arrivo della peste causò la catastrofe finanziaria: solo una coincidenza. Ma certo, in un mondo già allora in qualche modo pre-globale, i due fenomeni hanno comunque anticipato i tratti del mondo globale che oggi vediamo e in cui viviamo. E qui in specie: se la pandemia del 2020 avrà un prossimo termine, vinta dalla scienza e dai vaccini, non è detto che sia lo stesso per la gigantesca bolla finanziaria che già ci stava sopra e che la pandemia ha ingigantito. Ma, se è permesso, prima di proseguire facciamo un passo indietro. Torniamo al ’700, quando infine e non per caso proprio in Francia prese forma e sostanza la triade rivoluzionaria «Liberté, Égalité, Fraternité». Una triade che sarebbe poi venuta ad esprimersi nella forza delle leggi. Non per caso ma pour cause, nei loro «Quaderni di doglianza», i rivoluzionari chiedevano: «un Re, una Legge, un Ruolo di imposta». Questa la base dei «Grandi Codici» che nei successivi due secoli hanno retto la nostra civiltà e la nostra economia. È stato solo trenta anni fa che, con la globalizzazione, tutto è cambiato. Quella vecchia è stata sostituita da una triade nuova: «Globalité, Marché, Monnaie». Questa basata sull’idea che, in un mondo globale e perciò automaticamente progressivo e positivo, la regola giusta fosse quella che non dovevano esserci regole. Caduti i confini nazionali ed estesa sul mondo la «Rete», questo è stato l’habitat in cui è venuta a crearsi una finanza nuova e super moderna, basata su di una «moneta» che viene dal nulla e va verso il nulla, che cresce per tutto il mondo senza controlli e senza limiti, con debiti che si fanno ma non si pagano. Contata in trilioni (i nuovi fantastiliardi) questa finanza è già più di tre volte superiore a quanto è prodotto dall’economia. Si dice che, con tutto questo, si va verso la Mmt («Modern Monetary Theory»). Questa una teoria che per la verità non è affatto nuova, ma vecchissima: è la formula base del metafisico e catastrofico «Sistema di Law», solo con il mondo digitale al posto della «Louisiana». Ciò che si vuole qui dire è che, se già c’è il vaccino contro il coronavirus, non c’è ancora il vaccino contro questo tipo di peste. Un vaccino questo che può essere prodotto solo in un laboratorio politico. Per esperienza personale, dopo la (prevista) crisi finanziaria del 2008, ricordo tanto un’immagine quanto un’utopia. L’immagine era quella del videogame: è come esserci dentro, batti un mostro, ti rilassi, ma poi arriva un altro mostro diverso e ancora più grande. La crisi, portata dalla globalizzazione, non era (e non è) infatti finita: muta e ritorna in altre forme, se si sta fermi, se non si fa qualcosa. E poi l’utopia: la sostituzione del «Free Trade» (nessuna regola) con il «Fair Trade»: regole estese a monte sulla produzione dei beni e dei servizi, così da superare l’asimmetria tipica del mondo globale, dove sopra la regola è l’anarchia, sotto — a livello nazionale — all’opposto ci sono fin troppe regole, spesso inutili, anzi paralizzanti. Il Gls («Global Legal Standard») che incorporava l’utopia fu approvato dall’Assemblea dell’Ocse, ma fu battuto dalla finanza e in specie dall’Fsb («Financial Stability Board»): nessuna regola per l’economia, solo qualche criterio per la finanza e questo definito dalla finanza stessa. Solo un curiosum (si fa per dire): già dieci anni fa, all’articolo 4 del Gls, si prevedevano... «regole ambientali e igieniche»! Oggi, con la pandemia e con le sue tragedie sanitarie, ma soprattutto mentali e sociali, politiche e geopolitiche, è tornato il tempo della responsabilità e della legalità. Oggi, crollata la «Torre di Babele», nello spirito del nuovo mondo, quello che allora (nel 2009) era troppo presto può e deve tornare e prendere forma in una nuova «Bretton Woods». Questo il «Trattato», se non globale certo internazionale che, pensato sul finire della guerra (1943-4), regolò per decenni i cambi e le valute. Oggi nuove regole potrebbero, anzi dovrebbero essere estese alla produzione dei beni, questo il vero vaccino per evitare l’arrivo altrimenti certo di nuove crisi.
Lettera di Antonio Fadda a “il Giornale” il 17 novembre 2020. Il professore americano Sigmund Ginzburg ne La Repubblica del 10 novembre ha affermato che la spagnola è responsabile della crisi economica degli anni Venti. Tra l' altro raddoppia i morti che risultano 50 milioni affermando che siano stati 100 milioni. Mi pare che sia stata una ulteriore forzatura quella di Roberto D' Agostino a Stasera Italia Speciale condotto da Barbara Palombelli far riferimento alla Repubblica di Weimar e Maria Giovanna Maglie si è accodata. Voler attribuire al malessere causato dalla spagnola l' andata al governo del partito Nsdap nella Repubblica di Weimar non trova riscontro in quanto hanno scritto gli storici esperti della materia. Che il Covid-19 possa provocare una crisi economica ora è vero, ma che c' entra fare riferimento alla spagnola che si è estinta nel 1920 per l' ascesa del nazismo? Nella Repubblica di Weimar, assillata dalle durissime misure imposte dai vincitori della Grande guerra, su indicazione soprattutto della Francia, vi fu una inflazione fortissima nel 1923, ma successivamente, grazie al buon governo di Stresemann ed al trattato di Locarno vi fu una notevole ripresa economica favorita anche dai prestiti degli Stati Uniti. Fu la crisi del '29 che rimise in difficoltà la Germania e il partito nazista che nel 1928 aveva solo 12 deputati al Bundestag salì a 107 nel 1930. Ma la spagnola non c' era più. Antonio Fadda
Dagospia il 17 novembre 2020. Riceviamo e pubblichiamo: Avrei un altro paio di precisazioni da aggiungere alla lettera pubblicata col titolo “Falsità storiche”, oltre al fatto che il Parlamento tedesco a quei tempi si chiamava Reichstag, non Bundestag. Mi chiamo Siegmund Ginzberg e non Sigmund Ginzburg. Non sono professore ma giornalista. Non sono americano ma italiano. Non sono io ad affermare che la Spagnola ebbe effetti sull’ascesa degli estremismi negli anni ‘30, ma uno Staff report della Federal Reserve Bank di New York a firma Kristian Blickle (lui sì americano) pubblicato il 20 maggio 2020. Si intitola Pandemics Change Cities: Municipal Spending and Voter Extremism in Germany, 1918-1933. Circa la caduta della democrazia di Weimar Il vostro lettore signor Fadda potrebbe voler dare uno sguardo al mio Sindrome 1933, recentemente raccomandato come lettura da Papa Francesco. Siegmund Ginzberg
Sergio Carli per blitzquotidiano.it il 16 novembre 2020. Peste ad Atene, 430 a.C. , 27 secoli fa. Leggendo la descrizione dello storico Tucidide sembra di leggere i giornali di questi giorni. Peste o forse tifo petecchiale (epidemia originata dal morso di un pidocchio). Fu una strage che durò alcuni anni ad Atene. Intere famiglie furono distrutte. Ne morì anche Pericle, uno dei più grandi statisti di tutti i tempi. Tucidide, politico e generale ateniese e poi storico fra i più antichi, descrive cosa accadde ad Atene in quei mesi. Siamo nel libro 2, capitolo 47, delle sue Storie. I medici erano impreparati, perché era la prima volta che il male si manifestava. In prima linea nella lotta alla peste, allora, come oggi col covid, erano i primi a morire. Lo stesso Tucidide se la cavò. Così fu in grado di descrivere i sintomi in dettagli che ancora oggi fanno accapponare la pelle. “Non si ricordava che ci fosse stata da nessuna parte una peste talmente estesa né una tale strage di uomini”.
I medici non l’avevano mai vista. I medici non erano di nessun aiuto, a causa della loro ignoranza, poiché curavano la malattia per la prima volta. Ma anzi loro stessi morivano più di tutti, in quanto più di tutti si avvicinavano ai malati; né serviva nessun’altra arte umana”. Oggi nemmeno il Papa attribuisce il covid a qualche punizione divina. Si limita a pregare e a fare il sociologo. A quei tempi la religione era vita quotidiana per tutti, ma con risultati anche allora modesti. “Tutte le suppliche che facevano nei templi o l’uso che facevano di oracoli e cose simili, tutto ciò era inutile; e alla fine essi se ne astennero, sgominati dal male”.
Il morbo arrivò dal mare, ora con l’aereo. Probabilmente la peste arrivò dal mare, come nel ‘300 la peste portata dalle navi genovesi dal Mar Nero. Oggi si è diffuso con gli aerei. Secondo lo storico, l’epidemia scoppiò in Etiopia, “nella parte al di là dell’Egitto. Poi scese anche nell’Egitto, nella Libia. Nella città di Atene piombò improvvisamente, e i primi abitanti che attaccò furono quelli del Pireo”. Il porto di Atene, appunto. Poi arrivò anche nella città alta, e da allora i morti aumentarono di molto.
Come un buon giornalista, sempre, anche Tucidide obbedisce a un obbligo professionale: “Dirò in che modo si è manifestata e mostrerò i sintomi. Osservando i quali, caso mai scoppiasse un’altra volta, si sarebbe maggiormente in grado di riconoscerla, sapendone in precedenza qualche cosa”. Testimonianza diretta di un cronista: “Io stesso ho avuto la malattia e io stesso ho visto altri che ne soffrivano”.
Il morbo arrivò senza preavviso. “Quell’anno, come era riconosciuto da tutti, era stato, in misura eccezionale, immune da altre malattie”. Poi però accadde che sempre più numerosi gli ateniesi, “senza nessuna causa apparente, mentre erano sani improvvisamente venivano presi da violente vampate di calore alla testa. E da arrossamenti e infiammazioni agli occhi. E tra le parti interne la faringe e la lingua erano subito sanguinolente ed emettevano un alito insolito e fetido. “Poi, dopo questi sintomi, sopravveniva lo starnuto e la raucedine, e dopo non molto tempo il male scendeva nel petto, ed era accompagnato da una forte tosse. E quando si fissava nello stomaco lo sconvolgeva. E ne risultavano vomiti di bile di tutti i generi nominati dai medici. E questi erano accompagnati da una grande sofferenza. “Alla maggior parte dei malati vennero conati di vomito che non avevano esito. Ma producevano violente convulsioni. Per alcuni ciò si verificò dopo che i sintomi precedenti erano diminuiti, per altri invece dopo che era trascorso molto tempo.
Pustole e ulcere. “Esternamente il corpo non era troppo caldo a toccarlo, né era pallido, ma rossastro, livido e con eruzioni di piccole pustole e di ulcere. L’interno invece bruciava in modo tale che i malati non sopportavano di esser coperti da vesti o tele di lino leggerissime. Né sopportavano altro che esser nudi. E ciò che avrebbero fatto con il più gran piacere sarebbe stato gettarsi nell’acqua fredda. Questo in realtà lo fecero molti dei malati trascurati, che si precipitavano alle cisterne in preda a una sete inestinguibile. Eppure il bere di più o di meno non faceva differenza”. Non riuscivano a riposare. Soffrivano di insonnia. “Il corpo per tutto il tempo in cui la malattia era acuta non deperiva. Ma resisteva inaspettatamente alla sofferenza. Così la maggior parte dei malati moriva il nono o il settimo giorno a causa del calore interno, ma aveva ancora un po’ di forza”.
Diarrea liquida. “Se si salvavano, la malattia scendeva ancora nell’intestino, si produceva in esso una ulcerazione violenta. Insieme sopraggiungeva un attacco di diarrea completamente liquida. E a causa della debolezza che essa provocava i più in seguito decedevano”. “Il male colpiva anche gli organi sessuali e le punte delle mani e dei piedi. Molti scampavano con la perdita di queste parti, alcuni anche perdendo gli occhi. Altri, quando si ristabilivano, sul momento furono anche colti da amnesia. Che riguardava tutto, senza distinzioni, e perdettero la conoscenza di sé stessi e dei loro familiari”. “Alcuni morivano per mancanza di cure. Altri anche curati con molta attenzione. Non si affermò nemmeno un solo rimedio, per così dire, che si dovesse applicare per portare a un miglioramento. Infatti proprio quello che giovava a uno era dannoso a un altro”. “Nessun corpo si dimostrò sufficientemente forte per resistere al male, fosse robusto o debole, ma esso li portava via tutti, anche quelli che erano curati con ogni genere di dieta”. “Ma la cosa più terribile di tutte nella malattia era lo scoraggiamento quando uno si accorgeva di essere ammalato. I malati si davano subito alla disperazione, si abbattevano molto di più e non resistevano). E il fatto che per aver preso la malattia uno dall’altro mentre si curavano, morivano come le pecore. Questo provocava il maggior numero di morti”.
Social distancing non prescritto ma decisivo. “A quel tempo non si parlava di mascherine né di social distancing. Ma le regole sono sempre quelle. Così quelli che si recavano dai malati perivano, soprattutto coloro che cercavano di praticare la bontà. Grazie al loro senso dell’onore non si risparmiavano nell’entrare nelle case degli amici. Dato che alla fine addirittura i familiari interrompevano per la stanchezza anche i lamenti per quelli che morivano, vinti come erano dall’immensità del male”. “Tuttavia, più degli altri coloro che erano scampati avevano compassione per chi stava morendo o era malato. Perché avevano già avuto l’esperienza della malattia. E perché loro ormai erano in uno stato d’animo tranquillo”. Immunità di gregge. “Il morbo infatti non coglieva due volte la stessa persona in modo da ucciderla. E gli altri si congratulavano con loro. Ed essi stessi, nella gran gioia del momento, avevano un po’ di vana speranza che anche in futuro nessuna malattia li avrebbe mai più potuti uccidere”.
Vittorio Feltri, il libro di Melania Rizzoli che vi spiega come non ammalarsi: la guida "scansa-malattie". Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 21 ottobre 2020. Per gentile concessione dell’editore Baldini+Castoldi e dell’autore pubblichiamo la prefazione del libro di Melania Rizzoli «La salute prima di tutto» scritta dal direttore Feltri. Questo libro di Melania Rizzoli, se solo proverete a leggere le prime pagine e a sfogliarlo, non finirà infilato nella pila di libri atti a gonfiare gli scaffali della libreria per far vedere che siamo gente di cultura. Il suo posto di combattimento naturale sarà in prima linea, sul tavolino accanto alla poltrona, indi si sposterà sul comodino vicino all'abat-jour, persino nella classica casamatta fortificata del bagno. Angelo custode con la spada in mano, guardia del corpo in senso letterale. Scendendo sul pratico, ritengo che questo tomo abbia due funzioni, la prima delle quali è bene illustrata dal titolo: è un manuale per scansare le malattie e i malanni, o comunque per affrontare quelli più seri e che inducono timore e tremore senza andare nel pallone, venendo quindi, una volta che si cerchi di farsi interpretare i sintomi da spavento, affogati nel gergo di luminari che di solito ci tengono molto a oscurare il loro dire per essere presi maggiormente sul serio, a costo di essere indecifrabili come la Sfinge o come le centurie di Nostradamus. Ovvio: la consultazione del volume rizzoliano non è sostitutivo di visite mediche e consultazioni devote del proprio cerusico di fiducia, ma fornisce la stele di Rosetta per decifrarne diagnosi e terapie. La seconda utilità di questo libro è l'essere un talismano, garantito dall'esperienza di chi sta scrivendo questa nota. Per cui va toccato, carezzato, se del caso palpato, oltre che letto. Aprite, leggete, poi chiudetelo con familiare delicatezza. Sembra un gatto egizio, di quelli adorati dai faraoni: porta bene. Io ne sono un buon testimonial, avendo assistito al suo concepimento, e poi avendolo visto crescere, di settimana in settimana, sempre più bello, vispo, intelligente, con unghie tese a graffiare la malattia indirizzando l'attenzione non solo sui rimedi posteriori al suo insorgere, ma con indicazioni atte a mandarla a ramengo, preservando e prevenendo. Confesso di essere il primo fruitore e oserei dire ostetrico di questa sapienza di Melania qui raccolta in un grosso tomo. (A proposito la ponderosità di un libro di solito ha un effetto deleterio di allontanamento. Non in questo caso. Il peso ci fa intuire d'emblée che abbiamo schierato dalla nostra parte un pezzo da 90, un cannone di gran calibro, e non le palline di carta da cerbottana delle rubriche mediche di qualche camice alla moda). Il volume raccoglie infatti, catalogati in sezioni e capitoli così da renderne agevole la consultazione, gli articoli che in questi anni recenti la dottoressa - che è un fior di clinico - ha scritto con penna straordinariamente fluente per Libero. L'idea è stata mia. Avevo ammirato le due opere della Rizzoli dedicate al cancro. L'autrice l'aveva raccontato splendidamente da un doppio punto di vista: quella del clinico e quella del malato. Ha avuto il privilegio (meritato) di osservarlo e vincerlo stanno sul lettino del paziente ma anche "sopra" quel lettino. Le ho chiesto di insistere. Non di fornire ai lettori un materiale preordinato, quasi che dovesse partire dalla a di alluce valgo per finire con la zeta di zombie. Si attaccasse piuttosto alla cronaca, illustrando i dubbi e scombinando certezze riguardo a questa o a quella malattia che avesse turbato la vita o accompagnato al camposanto qualche protagonista della scena pubblica. Oppure proponendo ai lettori le scoperte o le ricerche promettenti sui malanni che gremiscono la vita delle famiglie. Detto fatto. Mi bastava sfiorare lo schermo dell'iPad su cui erano appena apparsi freschi di scrittura i suoi servizi, e già mi passava il formicolio alle mani, la pressione si sistemava. Giuro. Credo abbiano qualcosa di magico queste pagine. E la magia consiste nella semplicità e nell'umiltà. Melania non trasmette nozioni polverose, con paternalistica condiscendenza. Macché. Studia le più accreditate riviste mediche del pianeta. E quando trova qualcosa di davvero utile non solo per gli specialisti o per i laboratori di ricerca, ma per le persone comuni, dotate tutte di un corpo soggetto alle malattie più serie e ai malanni più frequenti, ma sempre antipatici, spezza il pane della scienza così che possano masticarlo anche coloro che non hanno i denti del laureato in medicina e chirurgia. E lo fa senza in nessun modo svilire o banalizzare quel sacro sapere in origine impastato, infornato e destinato alle tavole regali di aspiranti Nobel o azzimati baroni. Non mi stupisco che questo possa suscitare qualche nervosismo tra i custodi del tempio chiuso a chiave, ma noi diciamo grazie. Negli anni Sessanta, anche tra le famiglie dove non abbondavano libri, oltre all'enciclopedia Vita Meravigliosa oppure alla sua concorrente Conoscere che si compravano volume per volume ad uso degli scolari, indispensabile per copiare le cosiddette "ricerche", non mancava mai un volumone di Enciclopedia medica, la più popolare era quella di selezione per la famiglia del Rider' s Digest. I nostalgici dei tempi del boom ne possono ancora acquistare delle copie usate su ebay a 5 euro. Si cercava la voce cancro, oppure tosse. Sono opere con un loro perché e un valore di abbecedario. Le mamme e le nonne andavano alla "v" di varicella, oppure alla "o" di orecchioni (delusione, non c'era, bisognava guardare alla "p" di parotite) per capire se figlioletti o nipotini ce l'avessero sul serio. I ragazzi si curvavano, pronti a cambiare capitolo, sulle pagine e specie sulle figure dell'apparato riproduttivo. Quei libri erano curati da medici e usavano un linguaggio popolare sì ma non troppo, perché altrimenti avrebbero svilito la considerazione che era dovuta ai medici che (allora) arrivavano sul serio anche di notte, per appoggiare le loro calde mani sulle pance dei ragazzini con l'appendicite, o appoggiare il freddo stetoscopio sul petto vizzo della nonna. Quella stirpe antica l'abbiamo vista rinascere negli ospedali e nei reparti di terapia intensiva da Covid-19. Tanti ne sono morti per servirci. Un milione di volte meglio loro di quei presunti geni frequentatori di talk-show televisivi che litigano senza sapere quasi salvo farci conoscere la propria presunzione. Questo libro di Melania Rizzoli sta dalla parte dei medici condotti del tempo che fu e di quelli che hanno passato e passano i giorni e le notti al capezzale di chi non riusciva e non riesce a respirare. Ripristina la fiducia verso la scienza medica, insegna ad accettarne i limiti. Rispetto a quelle gloriose enciclopedie mediche rappresenta una magnifica evoluzione adeguata ai tempi del coronavirus.
IMPARIAMO DALLA STORIA. Circolo Culturale Excalibur. Come fece il Fascismo a sconfiggere la Tubercolosi (TBC) senza mascherine e distanziamento? Silvio Berlusconi a 84 anni ha contratto il virus del Covid19 e, nonostante l'elevata carica virale che l'ha colpito, dopo due settimane è uscito dalla clinica allegro e pimpante come il presidente Americano Trump (74 anni) dopo due giorni di degenza. Questi due esempi ci dimostrano che chiunque abbia contratto il virus può guarire. Le migliaia di morti che abbiamo registrato nel pieno della pandemia (e che speriamo di non rivedere), sarebbero state infinitamente meno se quelle persone fossero state curate adeguatamente. Non è il Virus che uccide, ma la mancanza di cure, a parte il caso di pazienti affetti da gravi patologie poi aggravate dal Covid. Negli anni venti, prima dell'avvento del Fascismo, in Italia la Tubercolosi (TBC) infettava ogni anno 600mila persone e causava oltre 60mila vittime, soprattutto fra i bambini. Eppure nel giro di pochi anni il Regime riuscì a depotenziarlo fino a sconfiggerlo del tutto. Come fece? Prendendolo a manganellate o annegandolo nell'olio di ricino? Battute a parte, la risposta è semplice: costruendo ospedali e dotandoli delle più moderne strumentazioni tecnico-scientifiche e applicando procedure mediche all'avanguardia nella cura delle malattie infettive. Furono realizzate negli anni del Fascismo quelle eccellenze in campo ospedaliero che tutto il mondo guardava con ammirazione e che ancora oggi rappresentano l'ossatura del sistema sanitario pubblico: a Roma lo Spallanzani, il San Camillo e il Forlanini, a Napoli il Cardarelli, a Genova il Gaslini solo per citare i più noti, cui si aggiunsero le centinaia di ospedali minori e le molteplici strutture specializzate per la cura delle patologie polmonari come, ad esempio, il Villaggio Sanatoriali di Sondalo. In pochi anni dal 1929 al 1936 furono creati oltre 20mila posti letto in sessantuno nuovi ospedali. In ogni località termale sorgevano le Colonie Elioterapiche per la cura delle patologie polmonari e tutti gli anni i bambini potevano andare a respirare aria salubre al mare o in montagna grazie alle colonie estive. In quegli anni nessuna nazione europea investì nella sanità pubblica come l'Italia fascista. Altro che mascherine, distanziamento sociale e banchi a rotelle nelle scuole...Per saperne di più è disponibile il libro di Gianfredo Ruggiero: In pochi anni dal 1929 al 1936 furono creati oltre 20mila posti letto in sessantuno nuovi ospedali. In ogni località termale sorgevano le Colonie Elioterapiche per la cura delle patologie polmonari e tutti gli anni i bambini potevano andare a respirare aria salubre al mare o in montagna grazie alle colonie estive. In quegli anni nessuna nazione europea investì nella sanità pubblica come l'Italia fascista. Altro che mascherine, distanziamento sociale e banchi a rotelle nelle scuole...
Sul fascismo molto si è scritto, ma poco si è compreso a causa del conformismo degli storici che pur sapendo come realmente si svolsero i fatti, tacciono e si adeguano. In questo libro, chiaramente di parte, di quella parte di storia sul fascismo volutamente ignorata, sono affrontate le maggiori colpe attribuite a Mussolini e al suo regime: dalla presa del potere con la violenza al delitto Matteotti, dalla morte di Gramsci all'omicidio dei Fratelli Rosselli, dall'uso dei gas nella guerra d'Abissinia alle leggi razziali, dall'entrata nel secondo conflitto mondiale ai crimini della guerra civile. Fatti e circostanze descritti con rigore storico che, di conseguenza, fanno vacillare molte delle certezze che ci sono imposte fin dai banchi di scuola. Nella seconda parte sono descritte e documentate le principali realizzazioni del fascismo. Opere, istituzioni e leggi (molte delle quali ancora in vigore a conferma della loro validità) che nei libri di testo sono ignorate o sminuite nella loro portata. Nella terza parte, quella dedicata agli approfondimenti, si parla di come il regime, senza mascherine e distanziamento sociale, ha sconfitto la tubercolosi, una malattia infettiva che ogni anno mieteva molte più vittime del Coronavirus di oggi, soprattutto tra i bambini. Di come l'industria chimica italiana si è imposta a livello mondiale e un capitolo sul rapporto tra fascismo e turismo, sport e cultura. Sono infine smentite molte delle cosiddette "bufale sul fascismo". Il fascismo, piaccia o no, è parte integrante della nostra storia e non può essere racchiuso tra due parentesi come fosse una sorta d'incidente e sbrigativamente relegato in un angolo della nostra memoria collettiva, salvo poi riprenderlo per usarlo come spauracchio o come etichetta per denigrare l'avversario politico. I suoi meriti e le sue colpe vanno dibattuti con distacco e serenità. Solo così potremmo togliere spazio al fanatismo delle frange estreme e alla strumentalizzazione della politica. Historia Magistra Vitae, affermava Cicerone. Quella vera aggiungiamo noi.
Coronavirus, quando finirà la pandemia? Che cosa dice la storia. Cristina Marrone su Il Corriere della Sera il 19 ottobre 2020. Le malattie infettive nate milioni di anni fa sono ancora tra noi. L’unica debellata con il vaccino è il vaiolo. Il nuovo coronavirus probabilmente diventerà endemico. Quando finirà la pandemia di coronavirus e quando riusciremo a tornare a una vita normale? Dal mese di febbraio nel mondo si sono registrati 40 milioni di casi da coronavirus con oltre un milione di morti ed è normale sentirsi stanchi ed esasperati avendo ancora di fronte un periodo di incertezza di cui non si vede la fine. Dall’inizio della pandemia epidemiologi ed esperti di salute pubblica hanno utilizzato modelli matematici per prevedere che cosa succederà suggerendo, in base alle previsioni, le adeguate misure di contenimento. Ma i modelli matematici, specie quando riguardano le malattie infettive, non sono sfere di cristallo, e anche i modelli più sofisticati difficilmente ci diranno quando finirà la pandemia o quante persone moriranno. Chi studia la storia delle malattie suggerisce di guardare indietro piuttosto che azzardare previsioni future. Analizzando come si sono concluse le epidemie passate forse si potrà almeno intuire come andrà a finire questa.
Le prime previsioni. Durante i primi giorni di pandemia molte persone speravano che il coronavirus sarebbe semplicemente svanito (come era successo con la Sars che è tornata nel bacino animale). Alcuni scienziati hanno ipotizzato che sarebbe scomparso con il caldo estivo. Altri hanno immaginato che la salvezza sarebbe arrivata con l’immunità di gregge. Nulla di tutto questo è accaduto. Il virus ha continuato a circolare anche in piena estate (alcuni degli Stati più caldi degli Usa sono stati duramente colpiti durante la stagione calda) e l’immunità di gregge, oltre a essere ritenuta pericolosa e immorale perché il virus non sarebbe comunque sconfitto, è ben lontana dall’essere raggiunta.
Una malattia endemica. È stato dimostrato che una serie di sforzi messi in atto per mitigare la pandemia sono di grande aiuto. Distanziamento sociale, indossare la mascherina, lavaggio frequente delle mani e tracciamento dei contatti sono molto utili, ma probabilmente non sufficienti a porre fine alla pandemia. Tutti stanno guardando allo sviluppo dei vaccini, le sperimentazioni proseguono spedite come mai era successo. Eppure alcuni esperti sostengono che anche con un vaccino sicuro ed efficace e un farmaco di successo Covid-19 potrebbe non scomparire mai. Potrà succedere, ed è successo, che l’epidemia rallenti in una parte del mondo continuando invece in altre zone . «Sono ormai molti i virologi e gli epidemiologi a sostenere che il coronavirus diventerà probabilmente endemico, cioè circolerà nella popolazione e dovremo farci i conti in tutte le stagioni, più di quanto succede con l’influenza e i raffreddori che colpiscono prevalentemente in inverno» scrive Nükhet Varlik , professore di storia all’Università della South Carolina . Insomma, potrebbe non andarsene mai, come l’Hiv, il virus che causa l’Aids che però oggi, grazie ai farmaci non è più una condanna a morte perché con le terapie attuali l’infezione può diventare cronica senza evolvere verso l’Aids.
Il vaiolo unica malattia debellata con il vaccino. Purtroppo, salvo poche eccezioni le malattie infettive difficilmente se ne vanno. Qualunque patogeno, che sia un batterio, un virus o un parassita è ancora tra noi anche se magari è comparso migliaia di anni fa. È molto difficile eliminarli. L’unica malattia che è stata debellata con la vaccinazione è il vaiolo. Le campagne di vaccinazioni di massa guidate dall’Organizzazione Mondiale della Sanità negli anni Sessanta e Settanta hanno avuto successo, e nel 1980 il vaiolo è stato dichiarato debellato. È per ora la prima malattia umana (e per ora unica) ad essere stata sconfitta completamente. Ma la storia del vaiolo è un’eccezione: le malattie purtroppo di solito restano.
Le malattie infettive mai scomparse. La malaria ad esempio, dovuta a un protozoo e trasmessa da zanzare è antica quasi come l’umanità. Nonostante gli sforzi con il DDT e l’uso della clorochina abbiano portato a un certo successo, la malattia in molti Stati del Sud del mondo è ancora endemica. Nel 2018 ci sono stati circa 228 milioni di casi di malaria e 405 mila decessi in tutto il mondo. Malattie come la tubercolosi, la lebbra e il morbillo ci accompagnano da molti millenni e nonostante l’impegno con farmaci e vaccini l’eradicazione non c’è stata. Anche il virus dell’influenza spagnola non è mai scomparso del tutto. Dopo tre ondate (la seconda più letale della prima) e almeno 50 milioni di morti la malattia è praticamente scomparsa. Gli accademici concordano che la fine della pandemia arrivò nel 1920 quando la società sviluppò un’immunità collettiva Secondo Benito Almirante, responsabile delle malattie infettive dell’ospedale Vall d’Herbon di Barcellona «L’influenza spagnola ha continuato ad apparire, mutando e acquisendo materiale genetico da altri virus».
I decessi per malattie infettive. La ricerca sul carico globale delle malattie evidenzia che la mortalità annuale causata dalle malattie infettive (la maggior parte delle quali si verifica nei Paesi in via di sviluppo) è quasi un terzo di tutti i decessi a livello globale. Oggi in un mondo così globalizzato, dove gli spostamenti intercontinentali sono la normalità, e i cambiamenti climatici sempre più pressanti siamo più esposti a malattie infettive emergenti che si aggiungono alle vecchie patologie, ancora vive e vegete.
Il caso della peste. Anche la peste, che molti di noi pensano scomparsa, in realtà è ancora tra noi. La peste è tra le malattie infettive più letali nella storia umana (60%) . Ci sono stati innumerevoli focolai locali e almeno tre pandemie di peste documentate negli ultimi 5.000 anni che hanno ucciso centinaia di milioni di persone. La più nota delle pandemie fu la peste nera, nella metà del XIV secolo. La peste per almeno sei secoli si è ripresentata con diversi focolai colpendo anche le società più evolute. Ogni focolaio nel corso dei mesi, talvolta degli anni, si è attenuato in modo graduale a causa dei cambiamenti nei vettori, alla disponibilità di ospiti , al numero di individui suscettibili. Alcune società si sono riprese dall’epidemia, altre non ci sono riuscite. Questo batterio, Yersinia pestis, veicolato dai roditori, è ancora tra noi e ogni anno non mancano segnalazioni specie nelle zone più remote del mondo (l’Oms segnala dai 1.000 ai 3.000 casi ogni anno soprattutto tra Africa, Asia e Sudamerica). Oggi, grazie alla terapia antibiotica somministrata in modo tempestivo, la peste è curabile ed epidemie non sono più possibili. Ma la peste non è comunque mai sparita.
Futuro incerto. Cosa succederà con Sars-CoV-2? C’è da augurarsi che non persista per millenni ma senza un vaccino tenerlo a bada non sarà facile. E anche quando il vaccino arriverà le campagne vaccinali saranno fondamentali. Basta guardare il morbillo e la poliomielite che si ripresentano ogni volta che gli sforzi per le vaccinazioni vacillano un po’. «La previsione che alcuni scienziati fecero negli Anni Sessanta del secolo scorso riguardo ad un mondo in cui le malattie infettive sarebbero state definitivamente sconfitte ed eliminate grazie al progresso scientifico si è rivelata una irrealistica utopia» riflette Paolo Bonanni, epidemiologo e professore ordinario di Igiene all’Università di Firenze. «Un approccio saggio al problema - aggiunge - deve partire dalla coscienza della nostra scarsa comprensione dei meccanismi che portano all’emergenza delle pandemie. Socraticamente, solo l’essere consapevoli “di non sapere” ci può mettere nella posizione di umiltà e impegno a conoscere e ricercare necessario a combattere con la nostra intelligenza, la scienza e la tecnologia l’eterna battaglia contro i microbi e i virus, che sono i nostri veri “predatori”».
Quando finirà davvero il Covid? Che cosa ci insegna la Storia. Matteo Carnieletto su Inside Over il 20 ottobre 2020. Il 17 novembre del 2019, si registra in Cina il primo contagio di Covid-19. I media iniziano a parlare di una “strana polmonite” che, poco a poco, colpisce la popolazione dello Hubei. Nessuno può immaginare ciò che accadrà nei mesi a venire. Il virus si muove velocemente, troppo. Xi Jinping dichiara guerra al “demone” del coronavirus, ma gli sforzi cinesi – arrivati dopo ritardi e mancanze – non bastano a fermare il contagio. In pochi mesi, il nuovo coronavirus è in Germania, Italia, India e Stati Uniti. La peste del XIV secolo ci mise 16 anni per arrivare in Europa. Il Covid-19 riesce a fare lo stesso percorso in pochi mesi. I tempi sono cambiati, gli scambi tra Paesi, anche lontanissimi, sono sempre più frequenti e, soprattutto, veloci. E così il virus è libero di correre. L’11 marzo del 2020, l’Oms dichiara la pandemia: “Nei giorni e nelle settimane a venire, prevediamo che il numero di casi, il numero di decessi e il numero di paesi colpiti aumenteranno ancora di più – annuncia il direttore generale Tedros Adhanom Ghebreyesus – L’Oms ha valutato questo focolaio 24 ore su 24 e siamo profondamente preoccupati sia dai livelli allarmanti di diffusione e gravità, sia dai livelli allarmanti di inazione. Abbiamo quindi valutato che Covid-19 può essere caratterizzato come una pandemia. Pandemia non è una parola da usare con leggerezza o disattenzione”. Il Covid-19 diventa così un problema globale. Questo è ciò che, ad oggi, sappiamo del virus. Questo e poco altro. Riusciamo a ripercorrerne la nascita e la diffusione, ma non sappiamo ancora quando uscirà dalle nostre vite. La Storia, però, può esserci d’aiuto. Un articolo del New York Times del 10 maggio scorso (qui la traduzione di Internazionale) individuava due momenti fondamentali per dichiarare conclusa una pandemia: “La fine sanitaria, quando crollano l’incidenza e la mortalità, e quella sociale, quando sparisce la paura dovuta alla malattia”. A che punto siamo adesso? Difficile dirlo con certezza. Durante la scorsa estate, sembrava che in Italia il virus avesse perso la propria spinta e fosse meno pericoloso. Da metà maggio fino alla fine di settembre, infatti, i contagi sono stati nell’ordine di poche centinaia/migliaia al giorno, le terapie intensive erano stabili e i decessi al minimo. Nelle ultime settimane, seguendo il trend europeo, il numero delle persone contagiate in Italia è però schizzato oltre gli 11mila (di cui il 95% asintomatiche, come ha affermato il virologo Giorgio Palù), le terapie intensive si stanno lentamente riempiendo e il numero di morti risulta stabile. La situazione attuale non è paragonabile a quella dello scorso inverno, come ha spiegato anche il presidente del Consiglio Giuseppe Conte: “Non siamo a marzo, dobbiamo adottare scelte proporzionate e ponderate”. Ad oggi, l’obiettivo del governo è quello di contenere il virus in modo tale che l’impatto sulle strutture sanitarie sia come un’onda piccola e costante e non come uno tsunami che tutto travolge. Perché forse, la cosa migliore da fare è imparare a convivere con il virus, smorzandolo il più possibile e riducendo al minimo l’impatto sugli ospedali. Il secondo modo, forse un po’ brutale, per dichiarare la fine di una pandemia è rappresentato dalla popolazione che, stanca dell’epidemia, decide di convivere con il virus. Secondo Allan Brandt, storico di Harvard citato dal New York Times, questo scenario potrebbe avverarsi con il Covid-19: “Come evidenzia il dibattito sulla riapertura, le discussioni a proposito della cosiddetta fine della pandemia non sono determinate dai dati medici e sanitari, ma dal processo sociopolitico”. La prima cosa da fare per accelerare la fine del coronavirus è raccontare ciò che sta accadendo in modo chiaro, senza però cedere a inutili allarmismi. Ci troviamo certamente di fronte a un virus complesso, ma il Covid-19 non è la peste. A proposito: questo morbo, che in diverse occasioni ha decimato la popolazione mondiale, ci insegna una cosa molto importante: le malattie vanno e vengono. A volte in modo misterioso. La “morte nera” non è infatti sparita, ma si è solo momentaneamente ritirata: “Negli Stati Uniti – riporta il New York Times, la malattia è endemica tra i cani della prateria, roditori che vivono nel sudovest, e può essere trasmessa agli essere umani”. Recentemente, alcuni casi si sono registrati anche in Cina. “La peste” – fa notare Giuseppe Pigoli ne I dardi di Apollo (Utet) – “non è mai stata debellata in modo radicale. In un rapporto dell’Oms del 2000 sono stati elencati oltre 34mila casi in 24 nazioni nell’arco di 15 anni. Soprattutto dagli anni Novanta si è assistito ad una recrudescenza del male, al punto che è stata fatta rientrare nel novero delle malattie ri-emergenti”.
L’influenza spagnola. Molti hanno paragonato il Covid-19 all’influenza spagnola che, tra il 1918 e il 1920, infettò 500 milioni di persone, uccidendone (secondo alcune stime) 50 milioni. A distanza di cento anni, non si sa ancora dove sia nato questo virus. Le ipotesi sono le più disparate: c’è chi ritiene che si sia inizialmente diffuso nella contea di Haskell in Kansas e portato dai soldati americani in Europa e chi sostiene che, a far da super diffusori, furono 96mila lavoratori cinesi infetti inviati sul fronte occidentale durante la Prima guerra mondiale per aiutare le truppe inglesi e francesi. Come fa notare Pigoli nel volume citato, “la malattia si presentava come una ‘banale’ influenza: febbre, dolori alle articolazioni e debolezza. Nel volgere di pochi giorni però il quadro clinico subiva un peggioramento drammatico: la febbre conosceva un brusco rialzo e comparivano muco e sangue nei bronchi che ‘annegavano’ le persone colpite portando rapidamente a morte individui sino a poco prima sani”. Una descrizione, questa, che ricorda molto il Covid-19. Contrariamente a quanto si possa pensare, però, ad essere colpiti non furono le persone più fragili e gli anziani, come il coronavirus, ma uomini tutto sommato giovani. Stanchi, sporchi e sfiniti dal fango delle trincee, i militari furono il bersaglio preferito del morbo, che infatti ne inghiottì a migliaia. Nel maggio del 1918, i tassi di mortalità toccarono il 70%. Fu l’inizio del massacro: tornando a casa, i reduci portarono con sé il morbo, che colpì anche i loro parenti: “Le cronache parlano di funerali celebrati di continuo, di persone che portavano mascherine protettive e di intere famiglie colpite, segregate in case di cui le forze dell’ordine sorvegliavano le porte”. Dopo due anni, la “spagnola” sparì all’improvviso. Fa notare Pigoli che “i virus trovano la propria ragione di sopravvivenza camuffandosi per sfuggire agli anticorpi. La storia di queste mutazioni è ricca di episodi che ci rendono chiaro come questo agente infettivo sia pressoché invincibile e di come, nonostante ogni anno le autorità sanitarie approntino nuovi vaccini, saltuariamente si verifichino epidemie virulente, difficilmente controllabili, come quelle avvenute nel 1957, 1968 e 1977”. I virus, dunque, vanno e vengono. E sono, come ha scritto Andrew Nikiforuk ne Il quarto cavaliere, “un promemoria mutante di come è la vita”.
Coronavirus, seconda ondata peggiore della prima? Il confronto con l'influenza spagnola. Le Iene News il 12 ottobre 2020. Con l’arrivo dell’autunno in tutta Europa è arrivata anche la seconda ondata di coronavirus: anche l’Italia, ultima tra i paesi del Vecchio continente, sta vedendo i suoi casi esplodere. Ma questa seconda ondata sarà peggiore della prima, come è stato per l’influenza spagnola? Ecco le similitudini e le differenze con la pandemia di cento anni fa. La seconda ondata della pandemia di coronavirus si rivelerà peggiore della prima? La domanda, di fronte alla crescita verticale dei contagi in tutta Europa, comincia a circolare insistentemente, insieme alla paura di ripiombare nell’incubo vissuto a marzo. E anche perché si cominciano a fare paragoni con la seconda ondata pandemica dell’influenza spagnola, che in pochi mesi uccise oltre cinquanta milioni di persone. Ma quali sono le similitudini, le differenze e le lezioni che possiamo imparare da quanto successo cento anni fa? Nel caso dell’influenza spagnola, come detto, la seconda ondata fu molto più grave della prima. Dopo una prima crescita nella primavera del 1918, con l’estate sembrò che il virus fosse sparito. Ma tra settembre e ottobre i casi esplosero improvvisamente, causando in tutto il mondo un numero di morti stimato tra i 50 e i 100 milioni dall’autunno di quell’anno fino alla fine della terza ondata pandemica nel 1920. Uno scenario che suona, per certi aspetti, simile come scadenze temporali e ovviamente molto diverso come numero di morti: per fortuna il coronavirus si è mostrato finora molto meno letale dell’influenza spagnola. I numeri sono così diversi da risultare difficili da comparare, ma il comportamento simile dei due virus è stato sottolineato anche dal direttore aggiunto dell’Oms Ranieri Guerra a fine giugno: la spagnola infatti “si comportò esattamente come il Covid, andò giù in estate e riprese ferocemente a settembre e ottobre, facendo 50 milioni di morti durante la seconda ondata”, ha detto Guerra il 27 giugno parlando della possibilità che ci fosse una seconda ondata. Seconda ondata che puntualmente è arrivata, prima dai nostri vicini come Spagna e Francia, e adesso anche in Italia. Un’importante lezione che poteva essere imparata e che invece sembra sia stata ignorata. Un’opinione non nostra: "È stato sottovalutato il fatto storico che tutte le pandemie hanno una seconda ondata, più pericolosa della prima". Queste parole, pesanti come macigni, sono state pronunciate da Walter Ricciardi, consulente del ministero della Salute per la pandemia del coronavirus. Resta comunque aperta una domanda: come nel caso della spagnola anche la seconda ondata di coronavirus sarà peggiore della prima? E’ ancora presto per poterlo dire, anche perché i numeri dei contagiati sono inevitabilmente influenzati dalla capacità di test: oggi siamo molto più pronti che a marzo, e se i nuovi positivi salgono rapidamente è anche perché siamo più attrezzati per scovarli. Tuttavia non bisogna sottovalutare la diffusione del virus: ieri sono stati registrati 5.456 nuovi casi. Il giorno record è stato il 21 marzo, con 6.557 positivi. Nell’ultima settimana, i nuovi casi sono stati 29.621 contro la settimana record del 22/28 marzo in cui se n’erano registrati 38.551. Cifre sempre più simili e che probabilmente sono destinate a essere superata, visto l’andamento ascendente della curva epidemica in questo periodo. Dobbiamo insomma aspettarci che in questa seconda ondata il numero di casi registrato sia ampiamente superiore a quello della prima ondata, anche se come detto gioca un ruolo chiave la migliorata capacità di scovare i contagiati. Per quanto riguarda il numero di decessi, invece, siamo fortunatamente molto lontani dai picchi della prima ondata: ieri se ne sono registrati 26, contro il triste record di 919 del 27 marzo. La scorsa settimana sono stati 180, contro i 5.303 registrati dal 22 al 28 marzo. Qui i numeri sono ancora lontanissimi, sebbene in crescita, a ulteriore testimonianza del fatto che oggi scoviamo molti più casi asintomatici o con pochi sintomi grazie alla migliore capacità di effettuare e analizzare i tamponi. Insomma, si può concludere che nella seconda ondata il numero di nuovi casi registrati probabilmente supererà - e non di poco - quello della prima. Esattamente come avvenuto, si stima, nella seconda ondata dell’influenza spagnola. Le vittime invece, se le strutture ospedaliere reggeranno il peso dei numeri crescenti e continueremo a rispettare il distanziamento sociale e l’uso delle mascherine, non dovrebbero tornare a toccare quei picchi. Nel caso della spagnola invece le vittime furono molte di più nella seconda ondata, anche a causa della scarsa preparazione sanitaria comparata a quella odierna e alle conseguenze della Prima guerra mondiale. Con un’ultima avvertenza: l’influenza spagnola ebbe anche una terza ondata, meno forte della seconda ma più forte della prima. In attesa dei vaccini, la raccomandazione è sempre la stessa: usare le mascherine, stare a distanza, lavare spesso le mani. E’ la nostra migliore arma per non dover tornare come a marzo. Con una nota di speranza: Ilaria Capua, direttrice dell’One Health Center of Excellence dell’Università della Florida, ha dichiarato al Corriere che entro un “paio d’anni presumibilmente saremo tornati a una normalità”. Teniamo duro.
Scopri tutte le epidemie della storia, in Italia e nel mondo. Redazione OK Salute il 18 Maggio 2020. Dalla pesta di Atene al coronavirus, la scienza ha fatto passi da gigante. Non si può dire altrettanto del comportamento degli uomini.
Peste di Atene (430 a.C.). Una delle prime epidemie della storia fu descritta da Tucidide. Lui ne fu testimone in prima persona, essendo anche colpito dal morbo, e scoppiò durante l’assedio di Atene da parte di Sparta durante la seconda guerra del Peloponneso. Portò alla morte, tra gli altri, della guida politica ateniese, Pericle. Diverse le ipotesi sul tipo di malattia. Dal morbillo al vaiolo fino all’influenza. Per Powel Kazanjian, medico e docente esperto di storia delle malattie infettive, potrebbe trattarsi di ebola. In netto anticipo sui tempi rispetto al primo focolaio riconosciuto del 1976 in Congo.
Peste Antonina (165 d.C.). Dal nome della dinastia imperiale allora regnante, è conosciuta anche come la peste di Galeno, il famoso medico dell’antichità che la descrisse. Portata all’interno dell’impero romano dalle legioni dopo la spedizione nel regno dei Parti, durò per una trentina di anni, mietendo almeno 5 milioni di persone. Tra le quali, forse, l’imperatore Lucio Vero, associato al trono a Marco Aurelio. Vaiolo, morbillo o peste bubbonica le ipotesi più accreditate sul virus responsabile.
Epidemia di San Cipriano (251 d.C.). Dal nome del padre della Chiesa e vescovo di Cartagine che la descrisse, nella sola Roma sarebbe arrivata a uccidere fino a 5mila persone al giorno. Compreso l’imperatore Claudio II detto il Gotico. E, forse, un suo predecessore, Ostiliano. I ricercatori ipotizzano che sia stata generata dal virus del vaiolo o del morbillo, anche se Kyle Harper della University of Oklahoma (Usa), basandosi sulle cronache antiche, parla di un contagio da febbre emorragica diffusa da un roditore.
Peste di Giustiniano (541 d.C.). Dal nome dell’imperatore regnante, che secondo Procopio di Cesarea ne sarebbe anche stato colpito, passò dal delta del Nilo a tutto l’Egitto, la Siria e la Palestina, approdando a Costantinopoli e al resto dell’impero, sconvolto per circa un secolo. Lo storico bizantino riporta come al culmine dei suoi effetti l’epidemia uccidesse 10mila persone al giorno nella sola capitale. Ma i ricercatori dell’Università del Maryland parlano di dati assai sovrastimati. Dall’esame del Dna di un uomo morto nel 570 d.C., i cui resti sono stati ritrovati ad Altenerding (Germania), è emerso come causa del decesso il batterio Yersinia pestis.
Epidemie della storia: peste nera (1347). Responsabile della morte di un abitante su tre dell’Europa (20-25 milioni di vittime circa, quindi), fa da sfondo al Decameron di Giovanni Boccaccio e ha avuto un’onda lunga che si è protratta fino al ’700. Provocata dallo Yersinia pestis, secondo i ricercatori delle università di Ferrara e Oslo (Norvegia) la causa della sua diffusione non furono i topi ma l’uomo. Attraverso un contagio diretto avvenuto probabilmente tramite i pidocchi.
Scambio colombiano (XVI secolo). I conquistadores e i coloni europei portano nelle Americhe influenza, tifo, morbillo e vaiolo, malattie nei confronti delle quali gli indigeni sono privi di difese immunitarie, così le epidemie in alcune regioni sterminano fino al 90% della popolazione autoctona. A spazzare via la civiltà degli Aztechi, secondo uno studio dell’Istituto Max Planck dell’università tedesca di Jena, è la salmonella.
Peste del 1575. A Milano chiamata «Peste di San Carlo» per l’assistenza data ai malati dal vescovo Carlo Borromeo, a Venezia stermina un abitante su quattro a porta alla decisione di far costruire ad Andrea Palladio una chiesa dedicata al Redentore, ove ancora oggi ci si reca annualmente in processione.
Peste del 1630. Descritta nei suoi risvolti milanesi da Alessandro Manzoni ne I promessi sposi e nella Storia della colonna infame, fu portata dai mercenari lanzichenecchi assoldati da Venezia per la guerra di successione al ducato di Mantova. Onda lunga del morbo del 1347, a Milano fece 60mila morti. Dall’analisi chimica dei registri dei morti e di una grida dell’epoca è emerso come, oltre allo Yersinia pestis, fossero presenti anche carbonchio o antrace, a spiegare un 5% di morti di febbre violenta.
Peste del 1656. Partita da Algeri in Tunisia, passa in Spagna e, quindi, in Sardegna. Dall’isola, probabilmente portata da un veliero, sbarca a Napoli, all’epoca una delle città più popolose d’Europa, e si diffonde in tutto il regno, in pratica l’Italia meridionale, causando, si stima, un milione e 250mila morti (il 43% della popolazione).
Grande peste di Londra (1665). Arrivata in Inghilterra probabilmente sulle navi da commercio provenienti da Amsterdam (Olanda), si stima che a Londra fece tra le 75 e le 100mila vittime in due anni, cioè oltre un quinto dell’intera popolazione, e si spense definitivamente con lo scoppio del grande incendio che devastò la capitale britannica. Tra i testimoni un piccolo (5 anni) Daniel Defoe, l’autore di Robinson Crusoe che nel 1722 pubblicherà il Diario dell’anno della peste.
Vaiolo (XVII-XIX secolo). Malattia contagiosa di origine virale rilevata in Cina fin dal 1122 a.C., dal ’600 flagella più volte tutti i Paesi del mondo, diventando endemica. In due secoli colpisce all’incirca l’80% dell’intera popolazione europea con una mortalità tra il 20 al 40%: a Napoli nel 1768, per esempio, perdono la vita 60mila persone. Dopo un ultimo caso nel 1977, è dichiarato ufficialmente eradicato nel 1980 dall’Organizzazione mondiale della sanità.
Sette pandemie di colera (dal 1817 a oggi). Causato dal batterio Vibrio cholerae, a partire dal XIX secolo si diffonde più volte nel mondo a partire dalla sua area originaria, attorno al delta del Gange in India, dando origine a sei pandemie che uccidono milioni di persone. La settima è ancora in corso: iniziata nel 1961 in Asia meridionale, ha raggiunto l’Africa nel 1971 e l’America nel 1991. In Italia coinvolge nel 1835 Genova e Torino e nel 1854 prima Genova e il Piemonte, poi il Sud Italia, con 15mila morti a Napoli e 20mila a Messina.
Epidemie della storia: influenza russa (1889). La prima vera pandemia d’influenza ha probabilmente origine tra l’Asia e la Russia, poi, grazie allo sviluppo delle vie di comunicazione, coinvolge velocemente tutta l’Europa, arrivando in dicembre in America e nel gennaio 1890 in Australia. I morti accertati nel mondo sono poco più di un milione, di cui 11.771 in Italia.
Influenza spagnola (1918). Causata dal virus H1N1, inizia probabilmente negli Stati Uniti (anche se c’è chi ne sostiene l’origine asiatica), con i militari americani che la portano sui campi di battaglia europei nella I Guerra Mondiale. Infetta circa 500 milioni di persone in tutto il mondo, causando tra i 50 e i 100 milioni di morti, di cui 600mila in Italia, il 99% dei quali con meno di 65 anni. È chiamata «spagnola» perché i primi a parlarne sono i giornali spagnoli, mentre la stampa degli altri Paesi, sottoposta alla censura di guerra, la minimizza a lungo.
Epidemie della storia: influenza asiatica (1957). Causata dal virus H2N2 (scomparso dopo 11 anni), viene identificata per la prima volta nella Cina Orientale. È ritenuta responsabile da uno a quattro milioni di decessi nel mondo, colpendo soprattutto le persone affette da malattie croniche.
Influenza di Hong Kong (1968). Causata dal virus H3N2 (lo stesso che da allora circola come virus stagionale), proviene dal Sud Est Asiatico. In Italia provoca circa 20mila decessi, un milione in tutto il mondo (particolarmente colpiti gli Stati Uniti). È la meno letale delle pandemie del XX secolo.
Epidemie della storia: il colera a Napoli (1973). Tra l’agosto e il settembre si accertano 277 casi, con 24 morti a Napoli e nove in Puglia. Responsabile dell’infezione una partita di cozze all’interno delle quali si annidava il batterio Vibrio cholerae, importata dalla Tunisia.
AIDS (dal 1981 a oggi). È lo stadio clinico terminale dell’infezione causata dal virus dell’immunodeficienza umana (HIV). I primi casi vengono scoperti negli Stati Uniti tra giovani omosessuali, anche se già negli anni 70 ne erano stati segnalati di isolati in numerose aree del mondo. A oggi i morti stimati a livello globale sono circa 35 milioni, di cui oltre 45mila in Italia con picchi negli anni 90.
SARS (2003). La Severe Acute Respiratory Syndrome, comparsa nella provincia cinese meridionale del Guangdong negli ultimi mesi del 2002, costringe per la prima volta nella sua storia l’Oms a lanciare un allarme mondiale. Il numero complessivo delle vittime ammonta a circa 800.
Epidemie della storia: influenza suina (2009). Causata da un virus A H1N1, che fino a quel momento provocava la malattia solo nei maiali, in Italia contagia oltre un milione e mezzo di persone, ma il tasso di mortalità risulta inferiore a quello della normale influenza.
MERS (2012). Il coronavirus della Sindrome respiratoria medio-orientale ha probabile origine nei pipistrelli, che in un’era remota l’hanno trasmesso ai dromedari, responsabili del contagio all’uomo. I Paesi maggiormente colpiti, in cui esistono ancora focolai di epidemia, sono Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Corea del Sud.
Ebola (2014). I primi casi si segnalano in Africa occidentale e la scienza attribuisce probabilmente a un contatto con cacciagione infetta l’insorgenza dell’epidemia, la cui trasmissione, poi, diviene interumana. I morti accertati sono 11.325 in dieci Paesi, tra cui anche l’Italia.
Coronavirus, da Apollo alla peste nera: ciò che la storia (e l’epica) delle epidemie non ci hanno insegnato. Pubblicato martedì, 19 maggio 2020 su Corriere.it da Giuseppe Curigliano. «Quando uno storico racconterà la storia di questa epidemia, cosa pensi che scriverà?» mi ha chiesto mia moglie. Ho riflettuto su cosa la storia racconta sulle epidemie del passato. Ogni epidemia ha la sua storia e ha la sua epica. Queste storie diventano memoria collettiva per i significati che ne derivano, o almeno per i ricordi che ne conserviamo nel tempo. Le epidemie del passato «contaminano» le arti e la letteratura e cambiano il corso della storia. Chiamiamole «Storie di Epidemie». Il primo a utilizzare la parola epidemia, dal greco epi (su) e demo (popolo), ovvero «sul popolo», fu Omero. Nell’Iliade, Agamennone, re degli Achei in guerra contro Troia, rapisce la figlia del sacerdote Chrise. Quest’ultimo si reca dai nemici con le insegne del dio Apollo, ed implora la restituzione della figlia Criseide. Agamennone, risoluto, rifiuta. In risposta alle preghiere di Chrise, il dio Apollo, infuriato per il sacrilegio, punisce gli Achei con una epidemia. Molti Achei moriranno nelle navi ormeggiate sulle rive vicino a Troia. Quelle navi e quei morti mi ricordano la Diamond Princess, ormeggiata nel porto di Yokohama, e posta in quarantena con i suoi 3.700 passeggeri a bordo. Era il 4 Febbraio 2020 ed il Sars-CoV-2 viaggiava dalla Cina sulle navi da crociera. Tucidide ne «La storia della guerra del Peloponneso» ha dedicato un’ampia sezione all’epidemia che ha devastato Atene nel 430 a.C., indebolendo fatalmente la prima democrazia e togliendo la vita al suo grande leader Pericle. Il «Decamerone» di Giovanni Boccaccio venne scritto pochi anni dopo che la Peste Nera in Europa, tra il 1347 e il 1353, uccise almeno un terzo della sua popolazione (25-30 milioni di morti su 75-80 milioni di persone). Quella epidemia veniva da lontano. L’esercito mongolo, assediando un avamposto genovese sul Mar Nero, fu contrastato da una forte difesa e da forti mura. Quell’esercito aveva portato la peste bubbonica dalle steppe asiatiche e stava morendo fuori dalle mura. I comandanti mongoli ebbero l’idea di catapultare i cadaveri delle vittime della peste nella fortezza. In pochissimo tempo, i difensori iniziarono a morire per la «morte nera». Uomini d’affari genovesi impacchettarono le loro merci, salirono sulle loro navi e fuggirono, portando con sé il bacillo della peste a Costantinopoli e in Italia, e infine in tutto il bacino del Mediterraneo e in tutta Europa. Allora come oggi le epidemie amano la globalizzazione, amano i viaggi a lunga distanza. Il «Journal of the Plague Year» di Daniel Defoe prende vita diversi decenni dopo l’ultima peste bubbonica che afflisse l’Inghilterra nel 1665-66. Esso è una straordinaria rappresentazione di come fosse vivere un simile evento. I londinesi irresponsabili evitarono l’isolamento sociale, acquistarono false cure contro la peste dai truffatori che si arricchirono nel panico generale. Allora, come ora, i medici in prima linea «hanno fatto il loro lavoro con brutale coraggio», per citare Defoe. Una Storia di Epidemia racconta di John Snow, l’ostetrico britannico che studiò un focolaio di colera nella Londra del 1854. Aveva notato che il focolaio nel quartiere di Soho si era concentrato nelle abitazioni intorno a una pompa pubblica (Broad Street Pump) per l’erogazione dell’acqua. La metafora della «Broad Street Pump» è molto amata dai medici: quando conosci la causa di una malattia (sigarette per il cancro ai polmoni), rimuovi i rubinetti delle pompe dell’acqua (come Snow convinse le autorità riluttanti a farlo) e puoi porre fine all’epidemia. È una grande metafora che ha funzionato per il colera, ma non per Covid-19. Cosa dire de «La peste» di Albert Camus, il grande romanzo che racconta dell’epidemia che uccise migliaia di abitanti e paralizzò la vita civica della città algerina di Orano. Uno dei principali eroi del libro, il dottor Rieux, cerca di convincere le autorità che questa malattia deve essere presa sul serio, che non è un affare come al solito, ma senza risultati. Uno dei temi ricorrenti delle «Storie di Epidemie» è che non impariamo mai, non affrontiamo mai efficacemente la malattia epidemica fino a quando non ci travolge. L’epidemia di Aids, naturalmente, ha sviluppato una sua vasta letteratura, con opere teatrali come «Angels in America» di Tony Kushner e il film «Philadelphia» che valse il premio Oscar a Tom Hanks. L’Aids è stata un’epidemia al rallentatore e la vediamo in un modo diverso rispetto a un focolaio acuto come il Covid-19. Nel 2012 David Quammen raccontava in «Spillover: Animal Infections and the Next Human Pandemic» di come una zoonosi originata in un wet market cinese potesse dare origine ad una pandemia. La prima pandemia che ho vissuto risale al 2003: era la Sars (Severe acute respiratory syndrome). La causa era un nuovo coronavirus (Sars-CoV). Il primo focolaio si era sviluppato tra il novembre 2002 ed il gennaio 2003 a Guangzhou, in Cina. Nel settembre 2012 l’Oms riportava i primi casi di polmonite causati dalla nuova sindrome respiratoria associata a un coronavirus (Mers-CoV). Il Sars-CoV2 (responsabile dell’attuale pandemia Covid-19) presenta molte analogie con i suoi «cugini», tutti di origine animale. Siamo stati ingannati da Sars, Mers ed Ebola nel pensare che queste malattie infettive appartenessero essenzialmente ad altri luoghi, come se, in qualche modo, fossimo protetti dalla distanza e dal nostro modo di vivere. Ci sono molti virus animali che attendono pazientemente il loro turno per «contaminare» la specie umana. Ciò che mi colpisce come oncologo, medico abituato a trattare malattie che si sviluppano negli anni o nei decenni, è l’importanza della tempestività con cui si deve reagire ad una epidemia. Se troppo presto le conseguenze economiche sono devastanti. Se troppo tardi ti ritrovi con gli scenari della Lombardia o di New York City nel 2020. Dobbiamo imparare ad agire con tempestività, sulla base di informazioni incomplete e modelli imperfetti. Navigando su PubMed (il motore di ricerca della scienza) e digitando la parola Covid-19, scopro che negli ultimi tre mesi la ricerca biomedica ha prodotto 13.400 lavori scientifici. Penso che sia straordinario come medici e ricercatori di tutto il mondo abbiamo reagito all’emergenza dando prova di grande capacità di collaborazione, senza barriere geografiche e senza limiti nella condivisione dei dati. Abbiamo imparato che la scienza del ventunesimo secolo ha svolto un ruolo marginale nel controllo dell’attuale pandemia. È innegabile che l’abbiamo contenuta con le norme del XIX secolo: lavaggio delle mani, confinamento sociale e quarantena. Su questo dovremmo riflettere. Ora è il momento di tornare a prendersi cura dei miei malati di cancro, e dei malati di malattie cardiovascolari, neurologiche, degenerative e dell’invecchiamento. Tornando alla domanda di mia moglie... quando scriveranno la storia di questa epidemia, le storie saranno sempre le stesse vecchie storie e ci insegnano che la storia non insegna nulla.
Quando il generale Tifo sconfisse Napoleone. La Grande Armée di Bonaparte invade la Russia a giugno del 1812. Mezzo milione di effettivi per una guerra lampo che si trasforma in un calvario di cinque mesi. Ma sono i pidocchi a distruggere l'esercito francese. Poche migliaia tornano a casa. Gianfrancesco Turano il 26 maggio 2020 su L'Espresso. Nei libri di storia suonerebbe peggio ma il vero vincitore sulla Grande Armée napoleonica in Russia non è il Generale Inverno ma il Generale Tifo. Come nel caso delle zanzare, un insetto ha ragione della potenza tecnica dell'uomo. Il pidocchio (pediculus humanus) succhia il sangue di un malato e avvia un processo di contagio devastante che si rivela molto più letale di ulani e cosacchi durante la campagna militare iniziata nel giugno 1812 e durata poco più di cinque mesi. Il tifo petecchiale o esantematico, da non confondere con la febbre tifoide o Salmonella enterica, prende il nome dalla parola greca typhos (stupore) perché ha fra i suoi sintomi caratteristici l'ebetudine e lo stato di confusione mentale che in Italia sono ritenuti tipici dell'appassionato di calcio. Il rash cutaneo accompagnato da febbre altissima è provocato dall'aggressione dei pidocchi che diffondono il batterio gram negativo della Rickettsia Prowazekii. In combinazione con le condizioni climatiche della spedizione militare in Russia, dall'estate torrida alla neve e al gelo, il tifo ha raggiunto indici di letalità elevatissimi, superiori al 40% dei casi. Alla fine le truppe della coalizione francese conteranno centinaia di migliaia di morti.
L'illusione della guerra lampo. La campagna di Russia è concepita da Bonaparte per mettere in ginocchio lo zar Alessandro I. Nel 1807 la Francia aveva imposto allo zar, e alla Prussia, la pace di Tilsit dopo avere sconfitto i russi nella battaglia di Friedland. Fra le altre clausole, l'accordo vietava ai russi ogni rapporto commerciale con l'Inghilterra provocando nel Regno Unito la recessione aggravata dal fenomeno luddista (1811) della distruzione delle macchine tessili da parte degli operai. Ma il monarca della dinastia Romanov non si mostra ligio agli accordi di embargo e Napoleone decide che il pretesto commerciale è buono quanto un altro. Il 22 giugno 1812 il Corso passa in rivista le sue truppe accampate sul Niemen, il fiume al confine tra Prussia e Russia dove era stata firmata la pace cinque anni prima. L'esercito comandato in prima persona da Bonaparte è poderoso: mezzo milione di effettivi di cui 265 mila francesi e 235 mila soldati messi a disposizione dagli alleati, soprattutto austriaci e i prussiani. Tutto sembra organizzato alla perfezione. Alle spalle del corpo di spedizione ci sono sei ospedali da campo allestiti in territorio prussiano. In omaggio al principio napoleonico per cui le guerre si vincono con la pancia, è stata organizzata un'imponente struttura di rifornimenti. Nessuno dubita che l'impresa sarà portata a termine in brevissimo tempo. Il 24 giugno, l'Armée attraversa il ponte sul Niemen e punta su Vilna. La maggiore città della Lituania viene raggiunta il 28 giugno, dopo quattro giorni di marcia indisturbata. Il ministro della guerra zarista, Mikhail Barclay de Tolly, e il comandante delle forze russe Mikhail Kutuzov (qui accanto) hanno deciso di non affrontare in campo aperto un esercito che appare invincibile. Indietreggiano e applicano la tattica della terra bruciata. La stessa dimensione dell'invasore diventa presto uno svantaggio. Durante la marcia verso est, i reparti di vettovagliamento perdono contatto e i soldati sono costretti ad approvvigionarsi saccheggiando le fattorie risparmiate dalle truppe zariste. È una pessima idea perché i contadini lituani e bielorussi vivono in condizioni igieniche terrificanti. Nella torrida estate continentale i pidocchi sono dovunque e, insieme a loro, si diffondono i batteri del tifo e del morbo delle trincee (Bartonella quintana). Non è il primo incontro fra le truppe napoleoniche e le epidemie. Durante la campagna d'Egitto contro il sultano turco, i grognards (brontoloni) come vengono chiamati i veterani dell'Armée, devono affrontare la peste bubbonica. Per sopprimere la rivolta degli schiavi di Haiti, guidati da Toussaint Louverture, i francesi perdono migliaia di uomini per la febbre gialla. Nell'insieme, prima della campagna di Russia, alcune centinaia di migliaia di soldati sono morti di malattie. Napoleone lo ha imparato talmente bene che ama dire: «Meglio affrontare la battaglia più cruente che mettere le truppe in un luogo malsano». Ma il tifo non gli lascia scelta e si diffonde con una velocità spaventosa. Nel mese di luglio sono già morti o indisponibili per il morbo ottantamila soldati. Nel frattempo, lo zar Alessandro I vede che l'invasore è sempre più vicino alle porte di Mosca e pretende che i suoi strateghi accettino lo scontro. La città del Cremlino non è più capitale da un secolo ma è pur sempre la più grande dell'impero. Kutuzov, di mala voglia, deve piegarsi agli ordini del sovrano e il 17 agosto affronta il nemico nella prima battaglia in campo aperto davanti a Smolensk (400 km da Mosca). Non è una vittoria chiara per i francesi che perdono molti uomini. I russi, prima di indietreggiare, incendiano la città. Il 7 settembre c'è un nuovo scontro nei pressi del villaggio di Borodino (125 km da Mosca). La battaglia è la più dura della campagna, con cinquantamila morti russi e trentamila francesi. Le truppe di Kutuzov non possono fare altro che ripiegare ancora.
L'incendio di Mosca. Una settimana dopo, il 14 settembre 1812, Napoleone entra a Mosca. Sembra il sigillo dell'ennesimo trionfo militare ma in meno di tre mesi l'esercito bonapartista si è ridotto a centomila effettivi, un quinto di quelli iniziali. Il tifo è di gran lunga il maggiore responsabile di queste perdite, molto prima che arrivi l'inverno. Il processo del contagio, piuttosto ripugnante, è il seguente. Il pidocchio morde un uomo che è già infettato dal batterio. Una volta passata nell'insetto la rickettsia si riproduce così freneticamente da colonizzare le feci del pidocchio fino a farne esplodere le interiora. Altri uomini si infettano grattandosi e facendo passare il batterio nella pelle o nelle mucose. La campagna di Russia è una delle prime a lasciare abbondante materiale diaristico da parte dei reduci anche al di sotto degli ufficiali in comando. Scrive il sergente Bourgogne: “Avevo dormito per un'ora quando ho sentito un prurito insopportabile in tutto il corpo. Con orrore ho scoperto di essere coperto di insetti. Sono balzato in piedi e in meno di due minuti ero nudo come un neonato, dopo avere buttato nel fuoco camicia e pantaloni. I pidocchi scoppiettavano nella fiamma”. Per tre giorni, dal 15 al 18 settembre, Mosca è avvolta dagli incendi appiccati dai russi in ritirata. L'artigliere di Ajaccio diventato imperatore nel 1804 si rende conto di essere arrivato alle soglie di un inverno che si annuncia precoce e rigido. I problemi di vettovagliamento e di sanità dell'Armée sono drammatici. Bonaparte offre ad Alessandro un negoziato. Lo zar rifiuta e Kutuzov riorganizza le truppe in modo da aggirare l'ex capitale e chiudere i francesi in una sacca. Napoleone tenta la carta della disperazione. Tornato per calcolo tattico ai suoi esordi rivoluzionari, cerca di sobillare i contadini e di convincerli a ribellarsi al tiranno Romanov come aveva fatto Emeljan Pugačëv nel 1773. L'operazione fallisce. Il 19 ottobre 1812 Napoleone ordina la ritirata verso Smolensk.
La catastrofe della Beresina. Fa già molto freddo. La fame mette a durissima prova le truppe in marcia che subiscono gli attacchi dalle retrovie della cavalleria leggera cosacca mentre i servi della gleba che Napoleone voleva emancipare infieriscono sullo straniero che fugge. I servizi logistici sono totalmente disgregati e i reparti da combattimento faticano a mantenere l'ordine. Il grosso dell'Armata ormai è composto da sbandati, compresi molti civili e anche donne e bambini, che tentano di sopravvivere alla fame, al ghiaccio, ai pidocchi, alla dissenteria e allo scorbuto. Ai primi di novembre i francesi rientrano in Smolensk o in quel poco che rimane di Smolensk dopo l'incendio di agosto. Ma non c'è riparo né tempo da perdere e il 9 novembre la marcia riprende. Kutuzov non è lontano e si accinge a completare la manovra di aggiramento che significherebbe distruzione. Napoleone punta con decisione verso ovest e il fiume Beresina. È la fase più terribile della ritirata, segnata da episodi di cannibalismo. Dal 26 novembre per circa due giorni si concentrano sulle rive del fiume ventottomila superstiti in grado di combattere e circa altrettanti sbandati. Quando le truppe zariste capiscono che il nemico sta per mettersi in salvo, cercano di chiudere il passaggio. Ma vengono ingannate dal diversivo dei francesi che fanno credere di volere passare in un punto presidiato dai russi mentre costruiscono il vero passaggio con due ponti quindici chilometri più a nord. Mentre il battaglione del maresciallo Nicolas Oudinot blocca 40 mila nemici sulla riva destra, Napoleone passa il fiume il 28 novembre. Per coprire la ritirata, ordina di incendiare i ponti mentre migliaia di sbandati non sono ancora riusciti a passare. È una scena apocalittica. I disperati vengono respinti dai soldati francesi. Molti si buttano nell'incendio, altri affogano nel fiume gelido. La catastrofe della Beresina, che pure poteva avere come esito l'annientamento totale, viene accolta a Parigi come una tragedia nazionale, la prima vera sconfitta della Grande Armée. Gli oppositori di Napoleone organizzano un colpo di Stato che obbliga l'imperatore ad abbandonare la Russia in fretta il 5 dicembre per tornare in Francia. Il comando passa al re di Napoli, e cognato di Napoleone, Gioacchino Murat che aveva deciso la battaglia di Borodino in settembre. L'8 dicembre 1812 l'Armata rivede Vilna dopo oltre cinque mesi. Del mezzo milione di effettivi arrivati in Lituania a giugno sono rimasti settemila soldati in grado di combattere e ventimila sbandati, in larga parte malati di tifo. Almeno altri tremila di loro vengono abbandonati all'agonia in Lituania. Gli scheletri saranno trovati nell'autunno del 2001 durante l'abbattimento di un'ex caserma sovietica. In un primo tempo, si penserà a un ossario più recente riempito dalle truppe naziste con corpi di ebrei. Ma i franchi trovati nei portamonete indirizzeranno sulla strada giusta l'archeologo Rimantas Jankauskas e l'infettivologo dell'università di Aix-Marsiglia Didier Raoult (foto sopra), specializzato in Rickettsia e tornato d'attualità con il Covid-19 per la sua contestata terapia a base di antibiotici e clorochina. La spedizione della Grande Armée in Russia si conclude lì dove era incominciata. Gli storici calcolano fra diecimila e ventimila i superstiti che attraversano il fiume Niemen il 13 dicembre 1812. Poche imprese militari della storia hanno avuto un bilancio così pesante. Per fare un paragone, il corpo di spedizione italiano (Armir) che invade l'Urss durante la Seconda guerra mondiale perde centomila uomini su 230 mila durante la durissima ritirata. Napoleone riesce a salvarsi dal colpo di Stato in Francia ma la campagna di Russia segna l'inizio del suo declino. Meno di un anno e mezzo dopo, il 6 aprile 1814 l'imperatore destituito va in esilio all'Elba.
Il tifo oggi. L'Oms-Who segnala nel suo sito che il tifo petecchiale ha avuto manifestazioni epidemiche recenti in Rwanda, Burundi ed Etiopia. Le premesse sono scarsa igiene e sovraffollamento ossia le caratteristiche dei campi di rifugiati e delle prigioni. Non esiste profilassi. Proprio per questo il tifo è stata l'epidemia dei lager nazisti e dei gulag staliniani. Nel campo di Bergen Belsen muore Anna Frank (1945). Sette anni prima (1938) il tifo petecchiale aveva ucciso il poeta russo Osip Mandelṡtam in un campo di smistamento nei pressi di Vladivostok.
Lo sbarco degli americani in Sicilia del 1943 va incontro a una potenziale epidemia di tifo ma l'esercito Usa ha grandi scorte di Ddt e riesce a distruggere i parassiti.
Febbre gialla sul Canale di Panama: quando l'epidemia batte l'economia. Dopo avere costruito il passaggio di Suez, il francese De Lesseps ci riprova in America e coinvolge 85 mila piccoli risparmiatori. Una zanzara li porterà al disastro uccidendo 34 mila lavoratori finché il progetto sarà ripreso dagli Usa e inaugurato nell'estate 1914, all'inizio della Grande Guerra. Gianfranco Turano il 19 maggio 2020 su L'Espresso. Epidemia contro economia è una partita dal risultato scontato. Ma poche volte nella storia l'impatto è stato così distruttivo come quello che ha avuto la febbre gialla nella costruzione del canale di Panama. Alla fine dell'Ottocento il taglio dell'istmo di terra che divide Atlantico e Pacifico è un'impresa concepita per cambiare volto agli scambi commerciali. In pieno positivismo, il progresso della tecnologia sembrava già in grado di vincere ogni ostacolo della Natura. Le rocce che tenevano separati due oceani sarebbero state spazzate via dalla potenza delle macchine e del denaro necessario a costruirle. Questo calcolo non peccava di arroganza salvo un particolare minimo: la presenza nella foresta centroamericana di un animale quasi invisibile ma appartenente alla specie più letale per l'uomo. Questo insetto avrebbe trasformato la cavalcata trionfale in un calvario. Come per la malaria, il veicolo del contagio da febbre gialla è la zanzara, nelle varianti Aedes Aegypti e Haemagogus, che diffonde un virus della famiglia Flaviviridae a singolo filamento di Rna, con un genoma simile schematicamente al Cov-Sars-2. L'infezione, dagli effetti simili ad altre portate dalla zanzara come zika, dengue e chikungunya, si presenta in forma grave nel 15% dei casi. La metà dei malati gravi muore in 7-10 giorni.
Il sogno della scorciatoia. L'avventura della costruzione del canale di Panama inizia a concretizzarsi nel 1876 quando la Società geografica di Parigi e la Società civile internazionale del canale interoceanico di Darién si affidano nelle mani ritenute sicure di Ferdinand de Lesseps, l'imprenditore e diplomatico che appena sette anni prima (1869) era riuscito a realizzare il canale di Suez su progetto dell'ingegnere italiano Luigi Negrelli. Ma l'idea di aprire una varco fra Atlantico e Pacifico nella lingua di terra più stretta delle Americhe, l'istmo di Panama o Panamá nella pronuncia locale, è di poco successiva alle prime esplorazioni di Cristoforo Colombo e dei conquistadores spagnoli. All'inizio del Cinquecento viene costruita la strada detta Camino Real fra le cittadine di Panamá (Pacifico) e di Nombre de Dios (Atlantico). Nel 1529 viene proposta per la prima volta l'escavazione di un canale che eviti alle navi di seguire la lunghissima rotta di Magellano con la circumnavigazione di Capo Horn in Patagonia. Nel secolo successivo (1690) la Company of Scotland tenta di costituire una colonia nella provincia del Darién, al confine con l'attuale Colombia, con lo scopo di sfruttare l'istmo. Il tentativo si conclude in un disastro finanziario e politico che porta, nel 1707, ai due Acts of Union fra Inghilterra e Scozia e alla nascita del Regno Unito. Da lì in avanti la zona diventa una terra di nessuno in mano ai pirati fino all'idea francese di replicare l'impresa ingegneristica egiziana in terra d'America.
Il progetto francese. Il 20 ottobre 1880 viene costituita la Compagnie universelle du canal interocéanique de Panama, presieduta da De Lesseps con un budget di 600 milioni di franchi da raccogliere attraverso successivi prestiti obbligazionari destinati a investitori istituzionali e piccoli risparmiatori. La concessione francese è osteggiata dal governo statunitense che ritiene di avere voce in capitolo nell'istmo in applicazione della dottrina Monroe, il principio di supremazia continentale Usa definito circa mezzo secolo prima. Politicamente Panama è una provincia colombiana dopo avere fatto parte della Grande Colombia di Simón Bolívar con gli attuali Venezuela ed Ecuador fino allo scioglimento nel 1880. Washington non riesce a sfruttare la situazione perché negli Stati Uniti la situazione è resa instabile da un'elezione presidenziale fra le più incerte e contestate della storia. In più il vincitore, il repubblicano James Garfield, sarà assassinato dopo pochi mesi in carica alla Casa Bianca (settembre 1881). I lavori del Canale iniziano il 10 gennaio 1881. A giugno del 1881 c'è il primo morto di febbre gialla. La diffusione dell'epidemia è molto rapida e già nel marzo 1882 a Colón, la cittadina di partenza dei cantieri sulla sponda atlantica, le suore di San Vincenzo attrezzano il primo ospedale dedicato a quello che in inglese è chiamato Yellow Jack. Nella prima fase dell'epidemia i francesi commettono errori catastrofici che trasformano la febbre gialla in un morbo nosocomiale come il Covid-19. Basandosi sulla teoria miasmatica, la stessa che tentava di spiegare malaria, colera e peste bubbonica con gli effluvi malsani, i primi reparti vengono riccamente addobbati di piante che, con il ristagno d'acqua da irrigazione, diventano vivai per le larve degli insetti. Le finestre degli stanzoni, tenute aperte con l'intenzione di garantire il ricambio dell'aria, favoriscono soltanto l'andirivieni delle zanzare che pungono i malati nel ricovero per poi uscire a diffondere il virus all'esterno. Eppure proprio nel 1881 il medico cubano Carlos Finlay ha ipotizzato che la febbre gialla sia diffusa dalle zanzare. La sua scoperta rimane ai margini della profilassi di un morbo di difficile interpretazione e impossibile trattamento.
Champagne terapeutico. La malattia si presenta con dolori articolari e muscolari, mal di testa, febbre, vomito ed emorragie interne. Il tratto più caratteristico è il colorito giallognolo che fa pensare a un paziente colpito da itterizia. Il quadro sintomatologico è di difficile diagnosi perché si confonde con altre malattie come la leptospirosi, l'epatite virale e la malaria che, con l'anofele, è presente a Panama ma risulta meno letale. I rimedi sono praticamente inesistenti. Ai malati è prescritto riposo a letto, anche perché non riuscirebbero a stare in piedi. Ai privilegiati viene somministrata la fenacetina, un antipiretico brevettato dalla Bayer nel 1887, e qualche sorso di champagne per contrastare la disidratazione. Chic ma poco efficace. Il bilancio è pesantissimo. Nel periodo francese dei lavori (1881-1889) vengono colpiti dalla febbre gialla l'85% dei lavoratori impegnati nello scavo del Canale. I morti sono 22 mila e a questi si aggiungono 12 mila decessi fra la manodopera impegnata nella costruzione della ferrovia attraverso la giungla pluviale. La Compagnie du Canal, di fronte al panico delle maestranze che fuggono dai cantieri al primo caso di contagio, cerca di rimediare migliorando le condizioni di lavoro durissime in un clima che alterna piogge torrenziali a caldo infernale. Il personale tecnico qualificato è accolto in casette di legno. Gli operai finiscono ammassati in tende ai bordi della giungla fra nugoli di zanzare. La manodopera è composta soprattutto da afroamericani ingaggiati, se non si vuole dire deportati, dalle vicine isole del Caribe, le Indie occidentali. La maggior parte viene dalla Giamaica, colonia della corona britannica dove la schiavitù è stata abolita solo nel 1834 e sostituita dall'apprentice system, una schiavitù vagamente attenuata. Ma la febbre gialla non condivide il classismo della Compagnie du Canal e infierisce a tutti i livelli. Quando nel 1883 Jules Dingler (primo seduto da sinistra nella foto) accetta il posto di direttore generale della Compagnia e arriva a Panama con Charles de Lesseps, figlio del presidente, non immagina la tragedia personale che lo attende. Nel 1884 perde prima la figlia, un mese dopo il fratello, poi il genero e, nel 1885, al picco dell'epidemia, la moglie. Dingler rimane al suo posto e tenta di portare avanti l'opera, appesantita dai ritardi e dai carichi finanziari crescenti. Nel 1888 si inizia a introdurre il sistema di chiuse progettato da Gustave Eiffel che, l'anno prima, ha avviato in riva alla Senna la costruzione di una strana torre metallica che i parigini guardano con disgusto. Ma l'avventura francese a Panama sta arrivando alla conclusione, insieme ai soldi dell'investimento che da 600 milioni di previsione sono più che raddoppiati (1,33 miliardi). Il 4 febbraio 1889 il parlamento francese nega un ennesimo finanziamento. Nell'anno dell'Expo universale di Parigi, la Compagnie du Canal viene sciolta, messa in liquidazione e 85 mila risparmiatori mettono una croce sul loro investimento. Il vecchio De Lesseps finisce sotto processo per corruzione e malversazione di fondi. Nel 1893 è condannato a cinque anni di prigione che non sconta perché ha già 89 anni. Vincitore a Suez e perdente a Panama, muore poco dopo nel 1894.
Le brigate di Roosevelt. Per quindici anni rimane tutto fermo. Gli Stati Uniti rafforzano il loro controllo sull'America centrale sconfiggendo la Spagna nella guerra del 1898, quando ai mille soldati Usa morti in combattimento se ne aggiungono cinquemila uccisi da Yellow Jack. Per un po' si parla di costruire un nuovo canale in Nicaragua ma la secessione degli indipendentisti di Panama dalla Colombia, fomentata dagli Stati Uniti, ripropone la soluzione percorsa dai francesi. Il progetto e la concessione passano agli Usa guidati dal presidente Theodore Roosevelt.
Il 4 maggio 1904 i cantieri riaprono. Nel frattempo, la teoria miasmatica è finita nella spazzatura della storia e il maggiore Walter Reed ha mostrato, servendosi di cavie umane, che sono le zanzare a diffondere il virus. Gli Stati Uniti hanno già avuto in casa la febbre gialla. Fra il 1839 e il 1860 la malattia è stata endemica a New Orleans con 22 mila casi e centinaia di morti. A Panama William Gorgas, chief sanitary officer, dichiara guerra all'Aedes Aegypti, all'Haemagogus e all'anofele. È una guerra di nome e di fatto. Le “Mosquito brigades” sono composte da quattromila sanificatori che rovesciano su larve e insetti 120 tonnellate di piretro, 300 tonnellate di zolfo, prosciugano le superfici allagate e, quando non è possibile, le cospargono di olio per impedire alle uova di schiudersi. Solo per la messa in sicurezza dell'ambiente si spendono 20 milioni di dollari (576 milioni ai valori di oggi). I risultati sono eccellenti. A novembre 1906 si conta l'ultimo morto di febbre gialla. Il canale viene aperto al traffico delle navi il 5 agosto 1914, otto giorni dopo la dichiarazione di guerra dell'Austria-Ungheria al regno di Serbia che dà il via al primo conflitto mondiale.
La febbre gialla oggi. Diffusa tremila anni fa nelle foreste pluviali africane e passata in America con i conquistadores e gli schiavisti, la febbre gialla sarà bloccata dal vaccino nel biennio 1937-1939, dopo anni di ricerche dell'Institut Pasteur e di scienziati Usa finanziati dalla Rockefeller Foundation, la stessa che si impegna a debellare la malaria in Sardegna negli anni Cinquanta. Il vaccino, prodotto con una versione indebolita del virus, è opera del medico sudafricano Max Theiler che nel 1951 riceve il premio Nobel. Oggi la febbre gialla è ancora letale benché il vaccino nel 2016 si sia evoluto da una durata di dieci anni a una copertura a vita senza richiami. I dati Who-Oms del 2013 riferiscono di 200 mila casi nelle 47 nazioni (34 in Africa e 13 in Latinoamerica) dove ancora il contagio è endemico. I decessi sono valutati fra 29 mila e 60 mila all'anno. Nel 2016, quando viene portato a termine il raddoppio del canale di Panama, l'Oms denuncia un'epidemia in Angola e nella Repubblica democratica del Congo con migliaia di casi. L'anno dopo è lanciato il programma Eye (eliminate yellow fever epidemics) strategy con la partecipazione dell'Unicef e di altri cinquanta partner privati. Molto attiva nella lotta con 1 miliardo di dollari di finanziamenti è la Bill and Melinda Gates Foundation. I ricchissimi di oggi seguono le tracce dei ricchissimi di ieri, i Rockefeller, affinché si possano vaccinare i poverissimi di oggi, gli stessi di ieri.
Racconti dell’era atomica. Alessandro Tesei, Pierpaolo Mittica su Insideover.com il 20 aprile 2020. L’era atomica iniziò ufficialmente il 6 agosto 1945 con la prima esplosione di un ordigno nucleare a scopi militari: la bomba atomica di Hiroshima. Tutto, ovviamente, era iniziato molto prima, con la scoperta della fissione nucleare nel 1938 e lo sviluppo della prima bomba atomica degli Stati Uniti nei laboratori di Los Alamos che fu fatta detonare in gran segreto nel “test Trinity” il 16 luglio 1945 nel poligono di Alamogordo, in Nuovo Messico. Da allora, il nucleare, più che risorsa, diventò un incubo per l’umanità, tra lo sviluppo degli armamenti atomici e la costruzione di centrali nucleari. L’utilizzo delle due bombe atomiche da parte degli Stati Uniti sul Giappone, il 6 agosto 1945 sulla città di Hiroshima e il 9 agosto sulla città di Nagasaki, oltre a causare circa 250mila morti, pose fine alla Seconda guerra mondiale e fece iniziare due eventi epocali: l’era atomica e la Guerra fredda. La Guerra fredda tra l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti iniziò subito dopo la fine della Seconda guerra mondiale, intorno al 1947, e si concluse con la caduta del muro di Berlino, quando Mikhail Gorbačëv e George H. W. Bush, in occasione del vertice di Malta, il 3 dicembre 1989, dichiararono la fine di un’epoca di tensioni. Furono, quelli della Guerra fredda, anni che segnarono indelebilmente il mondo intero. In questo periodo le due superpotenze, per poter primeggiare l’una sull’altra, svilupparono le armi atomiche. La Guerra fredda si concretizzò di fatto nelle preoccupazioni riguardanti le armi nucleari; entrambe le parti auspicavano che la loro semplice esistenza fosse un deterrente sufficiente a impedire una guerra vera e propria. Ma lo sviluppo delle armi atomiche portò con sé un’eredità tremenda e spaventosa in entrambi i Paesi: i poligoni di tiro di Semipalatinsk, in Kazakistan, e il Nevada Test Site negli Stati Uniti, dove vennero sperimentate rispettivamente 456 e 1021 testate atomiche. Oltre alla contaminazione causata dagli esperimenti nucleari, si aggiunse negli anni un altro tipo di contaminazione: quella causata dagli incidenti alle centrali nucleari civili. Per poter costruire le testate atomiche c’era bisogno di materiale fissile come plutonio e, per produrre questo materiale, l’unica modo possibile erano le centrali nucleari. L’8 dicembre 1953 il presidente degli Stati Uniti Dwight D. Eisenhower fece un discorso chiamato “Atomi per la pace” all’Assemblea generale delle Nazioni Unite. Fu un discorso che servì a fare accettare alla popolazione del mondo la costruzione di centrali nucleari, facendole passare per “nucleare civile”, per produrre energia per l’umanità. Incurante dei rischi e dei problemi che queste avrebbero portato di lì a poco con gli incidenti nucleari e le loro conseguenze, fra tutti quello di Chernobyl. L’era atomica era iniziata, con tutte le sue terribili conseguenze.
Chernobyl. Una ferita ancora aperta. Testo e foto Pierpaolo Mittica su Insideover.com il 26 aprile 2020. Il 26 aprile del 1986, nella centrale atomica di Chernobyl situata in Ucraina, furono inviati da tutta l’Unione Sovietica i cosiddetti “liquidatori”, per contenere il disastro e liquidare le conseguenze dell’incidente. Dal 1986 al 1988 furono mandate 600mila persone e il Kazakistan fornì 60mila uomini. Di questi oggi ne rimangono vivi solo 3mila. A Semey c’è un piccolo museo dedicato a Chernobyl e a quegli eroi dimenticati. Il libro che raccoglie le fotografie dei liquidatori partiti dal Kazakistan e morti a causa di Chernobyl. È stato fatto proprio dall’associazione dei liquidatori di Chernobyl del Kazakistan, per non dimenticare quella tragedia. Inoltre in Kazakistan i liquidatori di Chernobyl sono due volte vittime delle radiazioni: non solo di Chernobyl ma anche del poligono di tiro di Semipalatinsk. Il primo liquidatore lo incontriamo a Semey, in una piccola stanza del museo che raccoglie ricordi e le reliquie di chi ha vissuto direttamente quella tragedia e che adesso non c’è più. Ci riceve Kaisanov Soviet, vice direttore dell’associazione di volontariato in favore degli invalidi di Chernobyl della città di Semey, e anche lui liquidatore. “A quel tempo nessuno ne sapeva nulla perché dopo quanto accaduto l’argomento era stato immediatamente secretato. Io ne sono venuto a conoscenza soltanto dopo il 9 maggio. All’epoca prestavo servizio nell’esercito e tutti i militari furono inviati laggiù. O meglio, non soltanto i militari, ma anche unità civili specializzate. Io ho partecipato all’operazione nel 1988, anno in cui sono stato inviato a Chernobyl per tre mesi. Sono rimasto a Chernobyl per 83 giorni consecutivi, vivevamo a 13 – 15 chilometri di distanza dalla centrale nucleare. Lavoravamo giorno e notte senza sosta, a nessuno era permesso andarsene, e tutti gli accessi erano regolati da un rigoroso sistema di lasciapassare. C’erano divieti ovunque, ogni luogo era interdetto. In questo modo ho trascorso a Chernobyl 83 giorni della mia vita. Dopo Chernobyl, nel 1990, ho iniziato ad avvertire i primi sintomi della malattia. Inizialmente mal di testa, poi ho avuto un attacco di cuore. Però all’epoca ero giovane, non gli ho dato il giusto peso e ho continuato a lavorare senza neppure consultare un medico. Poi, verso la fine del 1990, tutti coloro che presero parte alle formazioni inviate a Chernobyl furono convocati nei locali dell’ospedale distrettuale, sottoposti a una visita e messi al corrente della situazione. Ma io volevo considerarmi sano con tutte le mie forze, tanto da rifiutare l’invalidità che mi era stata riconosciuta. Finché, nel 1997, ho dovuto accettare lo status di invalido.” Il secondo liquidatore lo incontriamo proprio a Kurchatov, la città militare che serviva il poligono dei test delle armi atomiche di Semipalatinsk. Juri Berezuev vive qui: “Nel 1986 siamo stati i primi incaricati alla liquidazione dei danni provocati dall’incidente di Chernobyl. Appena arrivati a Pripyat ci siamo spaventati, perché tutti indossavano maschere e camici bianchi. Certo era agghiacciante, ma l’essere umano finisce per abituarsi a tutto. Ci siamo guardati attorno e abbiamo capito il senso del nostro lavoro. Inizialmente è stato uno choc, poi tutto si è normalizzato e abbiamo iniziato a lavorare Volevamo essere d’aiuto, perché si era verificata un’enorme disgrazia, era terribile, nessuno sapeva cosa fare e come farlo. Io ho voluto farlo. I primi a partire lo hanno fatto volontariamente, come noi”. Nel villaggio di Znamenka, uno dei villaggi più colpiti dal fallout del poligono di tiro di Semipalatinsk ci accoglie il sindaco del villaggio, Abusana Karsakbaev anche lui liquidatore di Chernobyl. “A quel tempo, il 26 aprile del 1986, avevo quasi trent’anni. Quando arrivammo, la legge marziale era già in vigore, noi eravamo stati richiamati in qualità di personale militare, indossavamo l’uniforme, e soltanto allora ci spiegarono quello che era successo. Da quel momento tutto ci fu chiaro. Ci illustrarono i nostri compiti, esattamente com’era in uso nell’esercito. Si usciva al mattino e si rientrava alla sera, tutto secondo una tabella di marcia prestabilita. Fummo tutti dotati di speciali uniformi militari, impregnate di una qualche sostanza sconosciuta, e fino all’inverno lavorammo alla dismissione dei centri abitati, di villaggio in villaggio. Tutti gli abitanti erano già stati evacuati, non era rimasto nessuno, i villaggi erano completamente deserti, delle vere e proprie città morte. Alcuni ragazzi dovettero entrare nel quarto blocco, furono impiegati là dentro. A me non capitò mai, grazie a Dio non mi ci mandarono, perché sicuramente chiunque abbia lavorato là non è sopravvissuto. Sono rimasto di stanza laggiù per due mesi e mezzo. Poi, nel mese di novembre del 1986, ci hanno rimandati a casa. Molti di coloro che hanno prestato servizio assieme a me oggi non ci sono più. Alcuni sono rimasti invalidi, altri si sono ammalati gravemente. Oggi ho la possibilità di raccontarvi questa storia, una storia inusuale per le giovani generazioni. Perché non ci siamo accorti di niente, nessun odore, nessuna traccia, nulla tranne la polvere. È stato terribile…è stato terribile…”. Terribile come tutta l’era atomica e le sue conseguenze per l’intera umanità.
Il crimine dei test nucleari. Testo e foto Pierpaolo Mittica su Insideover.com il 27 aprile 2020. La strada per arrivare a Semipalatinsk-21 è una lunga striscia di asfalto nero e ricoperta di buche, quasi crateri, circondata da steppe infinite e villaggi che compaiono dal nulla. I cartelli stradali, che indicano Semipalatinsk-21, non esistono, perché la città non esiste. O meglio, Semipalatinsk-21 era il nome in codice di una delle città più segrete dell’ex Unione sovietica: la città di Kurchatov. Non compariva nelle mappe ed era conosciuta solo da chi partecipò allo sviluppo del nucleare militare sovietico. Fu costruita nel 1947 e rinominata in onore del fisico nucleare Igor Kurchatov, il padre del programma nucleare sovietico. In quest’area, situata nelle steppe desolate del Kazakistan, fu sviluppata e fatta esplodere, il 29 agosto 1949, la prima bomba atomica dell’Urss. A quella esplosione ne seguirono altre 456, fino al 1989. Oggi la strada arriva a Kurchatov e non è più una zona segreta. Chiunque può accedervi, non esistono più filo spinato e check-point. Perché tutto è finito nel 1991 quando il poligono di tiro fu dismesso. Ma nulla è finito qui. Il poligono di tiro di Semipalatinsk è infatti una tragedia dell’era nucleare che andrà avanti, con le sue terribili conseguenze sulla popolazione e sull’ambiente, per oltre 24mila anni. Durante tutto il periodo degli esperimenti la popolazione locale fu totalmente tenuta all’oscuro di quello che stava succedendo. Gli abitanti locali venivano avvisati dai militari delle esplosioni imminenti, anche perché erano talmente evidenti che potevano essere viste e sentite a decine di chilometri di distanza. I locali erano obbligati a uscire dalle proprie abitazioni e aspettare l’ordine dei militari per poter rientrare, ma non erano messi al corrente che fossero esplosioni nucleari, con rilascio di massicce quantità di radiazioni. Tutto era taciuto. Tutto era nascosto. Come ci conferma Roman Vassilienko, vice ministro degli esteri del Kazakistan. Ci riceve nel suo ufficio, nella capitale Nur-Sultan per raccontarci di questa tragica eredità che il Kazakistan si è ritrovato sulle spalle al crollo dell’Unione sovietica. “Nel 1991 il Kazakistan ereditò il sito per i test nucleari di Semipalatinsk dall’Unione Sovietica e il presidente del Kazakistan Nur-Sultan Nazarbayev decise di chiuderlo il 29 agosto del 1991. Per molti decenni le conseguenze dei test sulle armi atomiche non furono conosciute dagli abitanti locali e dal governo locale. Fu tenuto tutto segreto e nascosto durante il periodo sovietico. Solamente all’epoca della Glastnost e Perestrojka, l’informazione sulle conseguenze dei test nucleari, o addirittura a proposito del dato di fatto che i test nucleari fossero condotti in questo o quell’altro giorno, furono dati al governo della repubblica socialista del Kazakistan. In base alle nostre informazioni governative, attraverso i 40 anni dei test nucleari sovietici in Semipalatinsk, circa un milione e 800 mila persone furono colpite. A tutt’oggi la maggior parte di quelle persone è morta, ma adesso stiamo affrontando il problema con la seconda e terza generazione, sopravvissuti ai test sulle armi nucleari. Questi sono i figli e i nipoti di quelli che furono esposti alle radiazioni”. L’area del poligono di tiro era di 18.500 chilometri quadrati (quasi come il Veneto), ma la contaminazione fu rilevata in un’area di 300mila chilometri quadrati (una superficie paragonabile a quella della Germania). Una gran parte di terra è stata contaminata pesantemente e non potrà essere toccata per i prossimi 24mila anni. Villaggi come Znamenka, Sarzhal e Kaynar, che si trovano praticamente ai margini del poligono di tiro, non furono mai evacuati e tuttora la popolazione vive con le conseguenze della contaminazione. Ma anche città più grandi come Kurchatov e soprattutto Semey, con i suoi 320mila abitanti, situata a meno di 100 chilometri dal poligono, furono sistematicamente investite dai venti radioattivi. In termini di danni alla salute delle persone, in base a diverse stime, oggi ci sono attualmente 200mila persone che vivono in terre altamente contaminate e soffrono di un aumento notevole di tumori, deformazioni alla nascita e, naturalmente, tutti gli altri tipi di patologie correlate alle radiazioni. E quasi due milioni di persone sono state colpite, negli anni degli esperimenti, dai venti radioattivi. Ma la problematica maggiore sta iniziando adesso e sono le malformazioni genetiche che stanno aumentando esponenzialmente nelle nuove generazioni, nei figli dei testimoni della Guerra fredda. Una eredità che continuerà nelle generazioni future per migliaia di anni.
Noi, sopravvissuti alla bomba atomica. Testo Pierpaolo Mittica su Insideover.com il 30 aprile 2020. Hiroshima è un nome che non si dimentica. Un nome entrato nella storia a causa di uno degli eventi più tragici che l’umanità abbia mai vissuto: l’uso di un ordigno nucleare contro la popolazione civile. Il 6 agosto 1945 gli Stati Uniti, per cercare di piegare la resistenza del Giappone e porre fine alla seconda guerra mondiale, decisero di utilizzare la prima bomba atomica, soprannominata “little boy”, e sviluppata nei laboratori di Los Alamos. La scelta dell’obiettivo ricadde sulla città di Hiroshima, situata a sud del Giappone e con una popolazione di 255mila abitanti. L'isola di Miyajima si trova a pochi km di navigazione da Hiroshima. Mentre Hiroshima è considerata luogo di sofferenza, l'isola di Miyajima è uno dei luoghi della spiritualità più importanti in Giappone, dove si crede che gli uomini convivano con gli dei. Lui quel giorno c’era. Il 6 agosto 1945 Kunihiko Bonkohara era a Hiroshima, dove viveva insieme alla sua famiglia. Quel giorno sua madre e sua sorella non tornarono a casa perché furono inghiottite dall’esplosione. “All’epoca avevo cinque anni. Vivevamo in quattro in famiglia: mio padre, mia madre e mia sorella più grande”, ricorda Kunihiko Bonkohara. “Abitavamo a due chilometri dal centro della città. Quel giorno di agosto, prima delle otto di mattina, mia sorella era andata alla scuola superiore, e mia madre andò in centro. All’improvviso arrivò una luce accecante. Mio padre subito mi spinse sotto la scrivania e mi coprì con il suo corpo. In quel momento ci avvolse il tuono di una esplosione e, a seguire, un vento fortissimo. La casa tremava, le finestre e la porta furono distrutte. Tutti i mobili caddero per terra, il tetto volò via. Quando la polvere si depositò, mio padre si alzò e mi tirò fuori da sotto gli oggetti che ricoprivano la scrivania. Vedevo la schiena di mio padre che sanguinava tantissimo e diventava rossa. Nelle mie braccia e nelle mie gambe c’erano conficcati vetri ovunque. Subito dopo con mio padre ci recammo al fiume Teman per lavarci. In quel momento la città di Hiroshima era avvolta dalle fiamme, il fumo aumentava e il cielo diventava nero. E dal cielo iniziò a cadere una pioggia nera. Iniziai a vedere tante persone vagare tra le macerie con le braccia piegate, con i capelli e la pelle bruciati. I loro volti erano arrossati, quasi diventati neri. Indimenticabile la vista del fiume dal ponte "Aisho" i cadaveri portati via dalle onde giacevano… Non so come dire, se esistesse una parola…direi…l’inferno…”. La mattina dopo il padre di Kunihiko Bonkohara andò a cercare la moglie e la figlia tra le macerie della città spazzata via dall’onda d’urto della bomba, rovesciando i cadaveri bruciati che trovava per strada. Non le trovò mai. Purtroppo la sorella e la mamma di Kunihiko Bonkohara fanno parte di quelle 80 mila persone che la bomba di Hiroshima si portò via all’istante. Kunihiko Bonkohara è sopravvissuto alla bomba atomica di Hiroshima ed è uno di quei pochi “hibakusha”, letteralmente “coloro che sono stati colpiti dal bombardamento”, ancora vivi e che possono raccontare quei tragici momenti. Come Rsaybaev Koksubai Umurtaevich. Il 29 agosto 1949 abitava a Znamenka, un villaggio di 2mila anime situato in Kazakistan, al confine con il poligono di tiro dei test delle armi atomiche dell’ex Unione sovietica. Quel giorno fu testata la prima bomba nucleare dell’Urss a Semipalatinsk-21. Semipalatinsk-21 era il nome in codice di una delle città più segrete dell’ex Unione sovietica: la città di Kurchatov. Non esisteva nelle mappe ed era conosciuta solo da chi partecipò allo sviluppo del nucleare militare sovietico. Fu costruita nel 1947 e così rinominata in onore del fisico nucleare Igor Kurchatov, il padre del programma nucleare sovietico. In quest’area, situata nelle steppe desolate del Kazakistan, fu sviluppata e fatta esplodere, il 29 agosto 1949, la prima bomba atomica dell’Urss. A quella esplosione ne seguirono altre 456, fino al 1989. Rsaybaev Koksubai Umurtaevich ha visto e sentito centinaia di esplosioni. “Ovunque volgessi lo sguardo, ovunque girassi gli occhi potevo scorgere i funghi generati dalle detonazioni”, ci racconta Rsaybaev Koksubai Umurtaevich, sprofondato nel suo divano. “Di questi ordigni terrificanti la gente ha cominciato ad accusare la situazione, ad ammalarsi, a svegliarsi ogni giorno con gli occhi rossi come dopo notti trascorse insonni…Uno stato d’animo che influiva sulla vita delle persone. Un’arma mostruosa puntata sul nostro popolo, che ha generato un disastro nei confronti di tutte le popolazioni residenti nella regione di Semipalatinsk: tutti esposti a questa terribile contaminazione. Questo era il modo in cui venivano condotti i test sperimentali, ogni anno sempre più intensi, ogni anno sempre più forti. Dopo il 1956 le esplosioni si sono talmente intensificate da ricoprire l’intero territorio di polvere bianca, persino il grano ne era completamente cosparso. Erano esplosioni di diverso tipo, quasi delle ondate. Capitava, a volte, che non ci trovassimo in casa e fossimo costretti a trovare riparo da qualche parte, magari di là dal fiume, finché non ci davano il segnale di via libera. Le finestre di tantissime case esplodevano, la gente era esasperata e un odore terribile pervadeva le strade del Paese. La contaminazione ha colpito tutti. Basta visitare il cimitero accanto per rendersene conto. Quando mi sono trasferito qui non ospitava neppure una tomba, e il camposanto più vicino, peraltro di piccole dimensioni, si trovava a 14 chilometri di distanza. Eppure guardate adesso… Il fatto più significativo è che si tratta soprattutto di giovani, tutti coloro che abbiamo perso nell’ultimo anno non avevano più di quarant’anni. Ecco cosa ci hanno portato gli esperimenti…”.
Il coronavirus non è una delle maggiori pandemie di sempre: lo studio. Laura Pellegrini il 27/04/2020 su Notizie.it. Il coronavirus non sarebbe una delle maggiori pandemie della storia: i dati sulla mortalità a partire dalla peste analizzati in uno studio. Rispetto ad alcune delle maggiori pandemie degli ultimi millenni, il coronavirus si colloca tra gli ultimi posti. In uno studio della Deutsche Bank vengono infatti analizzati i tassi di mortalità delle 27 pandemie: i risultati sono sconvolgenti. Un’analisi che parte dal secondo secolo d.C. con la peste antonina e si conclude con il nemico invisibile del 2020: il Covid-19. Pare che l’epidemia che ha mietuto il numero di vittime maggiori sia invece la peste nera descritta nel celebre Decameron di Boccaccio, mentre la ricerca rivela anche che a contenere il contagio da Covid-19 è stato anche il rigoroso lockdown.
Coronavirus, le maggiori pandemie mondiali. Nella classifica delle maggiori pandemia mondiali realizzata dalla Deutsche Bank, l’attuale emergenza coronavirus si colloca tra gli ultimi posti. Sarebbero infatti la peste nera del XIV secolo e la successiva peste di Giustiniano, nel sesto secolo d.C. a essere state le più letali. La prima, descritta dal Boccaccio, sterminò il 40% della popolazione dell’epoca, mentre la seconda causò la morte del 28% della popolazione allora attuale. Il tasso di mortalità del Covid-19, invece, è dello 0,002% e pare che il rapporto malati/morti superi il 12%. Alcuni fattori da tenere in considerazione rispetto al coronavirus sono innanzitutto il rigoroso lockdown, che ha permesso di contenere in modo efficace i contagi. Importante anche l’aumento della popolazione a livello globale ( attualmente 7,7 miliardi), il progresso del sistema sanitario e il miglioramento delle condizioni igieniche ed alimentari. Lo studio ha anche evidenziato come, senza lockdown, il tasso di mortalità sarebbe salito a 0,23% registrando 17,6 milioni di vittime su tutto il pianeta. “L’attuale pandemia diventerebbe così – scrivono i ricercatori – la quinta più letale della storia; in termini relativi, la 13esima”.
Da affarinternazionali.it il 27 marzo 2020. Riproponiamo un articolo di Filippo di Robilant sull’emergenza Ebola, pubblicato su AffarInternazionali il 13 ottobre 2014. Questo scritto, estremamente attuale oggi durante la crisi da pandemia di Covid-19, spiega profeticamente la pericolosità delle minacce virali e la nostra difficoltà di risposta. L’esperienza ultradecennale della pandemia dell’Aids ci avrebbe dovuto rendere più vigili rispetto ai virus emergenti. Non è stato così. Ancora oggi, governi e istituzioni sanitarie mondiali preferiscono aspettare di essere travolti dalla valanga di pandemie prima di prendere provvedimenti seri. Finché si continuerà a considerare le emergenze pandemiche come problema sanitario solamente, e non come questione da affrontare anche dal punto di vista politico-istituzionale e dello sviluppo umano, la nostra risposta rimarrà inadeguata.
Dall’Aids a Ebola. Sono passati più di vent’anni da quando autorevoli membri della comunità scientifica internazionale esortavano i decisori politici a guardare al di là del fenomeno dell’Aids. Ammonivano che da troppo tempo troppe persone violavano troppi ecosistemi. Avvertivano, per esempio, degli effetti allarmanti della graduale distruzione della biosfera tropicale: la foresta pluviale, essendo il serbatoio del pianeta più capiente di specie vegetale ed animale, lo è anche di varietà di virus. E quando un ecosistema viene degradato, virus sconosciuti sono sfrattati dai loro ambienti naturali e sottoposti a una pressione selettiva estrema: alcuni reagiscono scomparendo, altri mutando rapidamente e cambiando habitat. Gli scienziati si domandavano se il virus dell’Hiv fosse solo un caso emblematico e non il culmine di un disastro che invece avrebbe potuto prendere il nome di altri virus letali come Ebola, Dengue, Marburg, Junin, Lassa, Machupo, Guanarito, O’nyong’nyong.
Virus che ignorano le frontiere. Non c’è dubbio che i programmi nazionali contro l’Aids degli inizi degli anni ’90 erano troppo rigidamente concepiti come programmi governativi anziché come frutto degli sforzi congiunti degli organi esecutivi, dei centri di ricerca, delle associazioni e del settore privato. La sfida posta alla comunità internazionale richiedeva invece una cooperazione coordinata, sostenibile, transnazionale e complementare. Altrimenti detto, il fatto che il virus ignorasse le frontiere rendeva essenziale stabilire una politica comune tra gli stati. Invece, la visione “globale” della pandemia, paradossalmente, anziché allargarsi, si è ristretta: i paesi donatori hanno dimostrato una crescente predilezione a lavorare indipendentemente e su base bilaterale con i paesi del Terzo mondo, con il risultato che Unaids, l’agenzia Onu che dal 1996 concentra su di sé le attività anti-Aids, non ha sviluppato la necessaria credibilità per assegnare ruoli e creare meccanismi di coordinamento. L’esperienza accumulata in questi anni dall’agenzia dovrebbe tuttavia essere messa al servizio dell’emergenza Ebola; anzi, c’è da chiedersi se l’urgenza non imponga di estendere il suo mandato a tutti i virus letali. Questa nuova emergenza è infatti un’occasione per creare uno strumento transnazionale permanente, con poteri vincolanti, in grado di garantire l’attuazione di regole comuni in caso d’insorgenza di qualsiasi pandemia. Con la deflagrazione della bomba Ebola – che il Presidente statunitense Barack Obama ha definito una minaccia alla sicurezza globale – interesse collettivo è quindi evitare gli errori compiuti nel passato all’interno del dispositivo predisposto dall’Onu: disarmonia tra politiche accettate a livello globale e azione a livello nazionale, indicazioni tecniche contraddittorie, diverse interpretazioni dei mandati e delle aree di competenza delle varie organizzazioni, insufficiente coordinamento degli input dati ai singoli paesi, risposte lente all’evoluzione della pandemia. In Europa, per esempio, non esiste l’equivalente del Centers for Disease Control and Prevention statunitense (Cdc): il European Center for Disease Prevention and Control (Ecdc), creato sull’onda dell’epidemia Sars nel 2004 e di base in Svezia, svolge un ruolo di coordinamento degli esperti sanitari nazionali, ma non ha una sua unità che risponde alle urgenze.
Un Mission for Ebola Emergency Response. L’istituzione, il 19 settembre scorso, della Un Mission for Ebola Emergency Response (Unmeer), ad Accra, e la nomina di un Inviato speciale delle Nazioni Unite per la lotta al virus, vanno quindi nella buona direzione. Per la prima volta nella sua storia l’Onu crea una Missione per un’emergenza di salute pubblica. Vedremo se seguirà anche un flusso di fondi tale da garantire continuità al suo operato. Anche la Emergency Response Unit dell’Unione europea, che abitualmente monitora conflitti armati e disastri naturali, ora segue l’andamento dell’epidemia 24 ore su 24. Tutto questo rischia però di non essere sufficiente se gli sforzi non saranno moltiplicati. Ieri come oggi dobbiamo prendere atto che: a) le risposte alle emergenze vengono effettuate sostanzialmente su basi ad hoc; b) non esiste una procedura ufficiale per determinare quali organizzazioni a livello internazionale devono assumere la responsabilità amministrativa, tecnica e finanziaria, per non parlare di responsabilità politica, e con quale catena di comando; c) manca una valida rete di comunicazione per garantire una risposta operativa efficace e tempestiva da parte di autorità nazionali. E poi: esistono strategie per scoprire e prevenire epidemie dovute a nuovi virus o alla riapparizione di vecchi? Siamo in grado di inventare efficaci contromisure per circoscrivere epidemie prima che facciano il “salto di qualità” e diventino fenomeno globale? Un quadro giuridico-istituzionale da attuare su scala globale può essere previsto per i virus, che per definizione non conoscono né limiti di tempo né di spazio? In questi venti anni si è dormito il sonno dei giusti. Si è lavorato più alla “conservazione delle catastrofi” che alla loro prevenzione. Occorre invece lavorare alla riduzione del rischio, introducendo regole comuni anche per aggirare gli effetti frenanti delle tradizioni religiose e culturali che portano i virus a essere accettati come tragica fatalità. Infine, un appello alle case farmaceutiche: evitiamo milioni di morti come è stato per l’Aids solo perché chi poteva non aveva interesse e chi non poteva non aveva scelta.
Coronavirus, una "pandemia ogni 7 anni". Dalla Spagnola al Covid, l'accelerazione dei contagi: ecco lo studio. Libero Quotidiano il 31 marzo 2020. Le pandemie sono sempre più frequenti, e il mondo si mostra sempre impreparato. Il coronavirus rappresenta un nuovo capitolo nella storia, sanguinosa, delle epidemie e segna una accelerazione inquietante: come ricorda Alberto Brambilla su Libero, si sta accorciando "il ciclo della malattia". Fino al 1800 c'era una pandemia ogni 300 anni, dalla peste nera del 1300 a quella del 1510 fino alla influenza russa del 1889. Poi, nel 1918, la famosa influenza spagnola affrontata grossomodo come oggi: mascherine, negozi chiusi, quarantena forzata: fece tra i 50 e i 100 milioni di vittime. Nel 1957, l'asiatica causò 2 milioni di decessi, fu trovato un vaccino ma nel 1968 si propagò una sua variante, la Hong Kong: altri 2 milioni di morti, 20mila in Italia. Dagli anni Duemila il ritmo aumenta: la Sars nel 2002, nel 2009 l'influenza suina (H1N1) che probabilmente sta ancora circolando come influenza stagionale, nel 2012 la Mers. Ora, 7 anni dopo, il coronavirus: "Effetto globalizzazione?", si chiede Brambilla. Di sicuro, come in passato, per le pandemie non è mai stato trovato un vaccino e le autorità politiche e sanitarie rispondono nell'unico modo conosciuto: isolamento. "Certo - conclude Brambilla - oggi abbiamo la terapia intensiva che probabilmente, se regge, salverà molte vite ma abbiamo anche meno medici e meno posti letto di 20 anni fa".
Le epidemie sono davvero più frequenti rispetto al passato? Paolo Mauri su Inside Over il 31 marzo 2020. L’attuale pandemia da coronavirus Covid-19 ha fatto riemergere nell’uomo l’atavico timore delle malattie infettive, che, forse troppo sbrigativamente, è andato dimenticato soprattutto in Occidente. Al netto delle origini dell’attuale malattia, ovvero dei meccanismi che hanno permesso il salto di specie da animale a uomo al virus diffusosi a partire dalla Cina, è interessante cercare di capire se le epidemie che hanno accompagnato la storia umana recente siano più frequenti rispetto al passato e per quale motivo. Prima di addentrarci nella trattazione diventa però interessante fornire qualche cenno di carattere scientifico che ci permetterà di trarre delle conclusioni che non siano esclusivamente basate sulle cronache degli ultimi cento anni di storia dell’umanità. Il primo ad affrontare il tema della “storia delle epidemie” è stato lo storico francese Mirko Grmek che alla fine degli anni ’60 del secolo scorso ha proposto di leggere in chiave ecologico-evolutiva le trasformazioni che hanno subito le malattie, soprattutto quelle infettive, che nelle diverse epoche hanno colpito l’uomo. Utilizzando come modello la nozione di biocenosi, che nell’ecologia definisce l’insieme di tutti gli organismi presenti in un ecosistema, Grmek ha proposto il concetto di patocenosi, inteso come l’insieme di stati patologici presenti all’interno di una data popolazione in un determinato momento. Più in dettaglio la patocenosi si articola su tre punti fondamentali: l’insieme degli stati patologici presenti in una determinata popolazione a un momento storico dato; il principio secondo cui la frequenza e la distribuzione di ogni malattia dipendono, oltre che dai fattori endogeni ed ecologici, dalla frequenza e dalla distribuzione di tutte le altre malattie che possono ostacolare, favorire o essere indifferenti nella diffusione; infine il principio che la patocenosi tende verso uno stato di equilibrio, in particolare in una situazione ecologica stabile. Avendo in testa questo principio risulta interessante dare uno sguardo alla storia dell’uomo sin dai suoi albori. I nostri antenati ominidi avevano diversi “patogeni di famiglia”, cioè parassiti, condivisi con gli antenati dell’ordine dei primati, come pulci, vermi, protozoi, enterobatteri, stafilococchi e streptococchi. Le punture di insetti, i morsi di animali, la lavorazione e il consumo di cibo contaminato sono stati all’origine di zoonosi come tubercolosi, leptospirosi, schistosomiasi, tetano, tripanosmiasi e trichinosi. Fintanto che l’uomo aveva una vita ed una società articolate sull’essere cacciatore/raccoglitore alcuni patogeni, come il morbillo o il vaiolo, non riuscivano a trovare terreno fertile e a diventare quindi endemici nella popolazione. Il passaggio da un’economia di caccia e raccolta a una basata sull’agricoltura ha però stravolto l’equilibrio. Questo importantissimo cambiamento, anche conseguente ai cambiamenti climatici cominciati 18mila anni fa quando avvenne quello che in geologia si chiama Lgm (Last Glaciation Maximum), ha modificato non solo la nostra società ma anche la nostra biologia. La transizione all’agricoltura e l’addomesticamento e allevamento degli animali espongono l’uomo a nuovi agenti infettivi, e a nuove cause di malattia anche non trasmissibili, modificando quindi per la prima volta nella storia dell’umanità la nostra patocenosi. Gli insediamenti umani costituiscono una nuova nicchia ecologica per gli agenti patogeni per tutta una serie di motivi che spazia dall’aumento della densità di popolazione, all’impatto delle coltivazioni e degli allevamenti sull’ecosistema. Inoltre l’economia agricola primordiale non dava il corretto apporto energetico all’uomo rendendolo debole e quindi più esposto ai contagi di malattie infettive anche in considerazione della mutata biocenosi data dagli insediamenti urbani con insetti e roditori che hanno cominciato a vivere “in simbiosi” con le nostre città e villaggi. Grazie agli allevamenti e agli animali domestici poi, decine di malattie effettuano il salto di specie e si diffondono nell’uomo proprio a partire dal 6000 a.C. Tra di essi si ricordano: scabbia, morbillo, vaiolo, tubercolosi, carbonchio, influenza e la terribile peste. La rapida urbanizzazione conseguente al nascere di civiltà ed imperi ha accelerato questo fenomeno tanto che le prime società organizzate del Medio Oriente, dell’Egitto e dell’Asia (sud-est e centrale) acquisiscono ognuna una distinta serie di malattie infettive, ma soprattutto, ed è il fattore più interessante, quando tra queste si stabiliscono i primi contatti, si creano le condizioni per la nascita di gravi epidemie, soprattutto nel caso di campagne di conquista o guerre, quando si scontrano le diverse patocenosi. Insomma già nell’antichità l’uomo doveva fare i conti con pestilenze ed epidemie, e uno studio condotto su testi greci che raccolgono casi di malattie ha mostrato che i tipi e le proporzioni tra esse presenti in quel tempo sono già grosso modo quelli che caratterizzeranno la storia dell’Europa fino alla metà del diciannovesimo secolo. Esistono chiaramente delle differenze: per esempio il morbillo, la rosolia e diverse malattie virali che caratterizzano l’età moderna sono assenti nell’antichità, così come la sifilide, il vaiolo, la lebbra, il colera e soprattutto l’influenza. Quello che è importante sottolineare è che con l’intensificarsi di viaggi e guerre tra civiltà contigue dell’Eurasia, le malattie infettive che hanno origine nell’Asia cominciano a diffondersi ma ancora a fasi alterne che, non casualmente, dipendono dalla storia degli imperi: dalla metà del quinto secolo d.C. gli scambi commerciali in Europa diminuiscono e le grandi città cominciano a spopolarsi con l’arrivo dei popoli invasori, che portano nuove malattie ma che troveranno meno terreno fertile proprio perché la società urbana era in crisi.
Fino al sesto secolo, infatti, ci sono meno epidemie, ma a partire dal 541 ricompare in Europa il vaiolo, e nel 542 per la prima volta le peste bubbonica, che da Costantinopoli, dove è arrivata dal Mar Rosso, giunge a Roma nel 543. Circa 20 ondate si susseguono dal 541 al 767, quanto la malattia scompare sia dall’Europa che dall’Asia e dall’Africa. Malattie e carestie, dipendenti da fattori esterni come cambiamenti climatici o strutturali come il rinascere delle città nell’epoca comunale, hanno continuato ad accompagnare l’umanità sino ad arrivare a quella che è forse la pestilenza più conosciuta in Europa: la peste nera che ha devastato un intero continente dal 1347 al 1352, sterminando tra il 25 e il 50% della popolazione e portando con sé grandi cambiamenti nell’economia, nella geopolitica e anche nella religione. Peste che ritornerà, famosissima essendo stata consegnata alla letteratura da Alessandro Manzoni, quasi tre secoli dopo tra il 1629 ed il 1633, e che, solo in Italia settentrionale, si stima che uccise un milione e centomila persone su 4 milioni di abitanti. Era un mondo molto diverso, ma la corsa della malattia, che in cinque anni, nel quattordicesimo secolo, fece il giro d’Europa, sarebbe stata sicuramente più lenta se la società fosse stata ancora quella primitiva, ovvero senza quella frequenza di scambi commerciali che la caratterizzavano.
Oggi le malattie infatti corrono, anche grazie al tipo di società in cui viviamo caratterizzato da grandi assembramenti di popolazione nelle città. Venendo a tempi recenti e limitandoci alle pandemie influenzali del ventesimo secolo, possiamo vedere come ci sia una differenza di velocità e maggiore diffusione spaziale delle epidemie rispetto ai secoli scorsi: la “spagnola”, uccise tra i 50 e i 100 milioni di persone in due anni, tra il 1918 e 1919, portata in giro per il mondo dai soldati che rientravano in Patria dopo la Prima Guerra Mondiale; la “asiatica”, nata forse a Singapore, uccise due milioni di persone in un periodo più o meno simile tra il 1957 e il 1958; l’influenza di Hong Kong nel 1968 uccise tra le 750mila ed i 2 milioni di persone nell’arco di un anno, infine la Sars e la Mers si sono diffuse in pochissime mesi ma sono state contenute grazie ad efficaci politiche sanitarie. Anche l’attuale pandemia di coronavirus ha fatto il giro del mondo in pochissime settimane. Le cause di questa rapidità nella diffusione sono molteplici ma principalmente possono essere ridotte a due: la prima di carattere sociale causata da un sentimento di falsa sicurezza tecnologica, la seconda data dalla globalizzazione spinta e dallo stesso progresso che ci permette di viaggiare da una parte all’altra del globo in poche ore. Per quanto riguarda quella che è stata chiamata “illusione tecnologica”, possiamo dire, riassumendo, che l’avvento dei vaccini, il progresso della scienza medica dai tempi di Jenner passando per Pasteur e la genetica, ma soprattutto l’eradicazione del vaiolo ha diffuso un falso sentimento di sicurezza non solo tra la popolazione, ma anche tra i vertici scientifici: alla fine degli anni sessanta l’Oms organizzava delle riunioni di esperti ponendo domande del tipo “le malattie infettive sono ancora importanti?” ed anche se la risposta era stata positiva il fatto stesso che la domanda fosse stata posta mostra la prevalente atmosfera di ottimismo. La globalizzazione ha poi un ruolo fondamentale, anche se duplice: se da un lato lo sviluppo ed implementazione delle relazioni internazionali e quindi lo scambio e la condivisione di informazioni di tipo medico grazie alla stipula di apposite convenzioni sanitarie internazionali e all’organizzazione di congressi e riunioni scientifiche, ha permesso di affrontare le malattie in modo uniforme mettendo a sistema le eccellenze dei singoli Stati, dall’altro la stessa società globalizzata ha permesso alle patologie di “correre” ben al di là della loro patocenosi e diffondersi molto più rapidamente rispetto al passato. Del resto se oggi per fare da Pechino a Roma bastano poco più di 17 ore di volo, cento anni fa ci sarebbero volute settimane, e trecento anni fa il viaggio avrebbe richiesto mesi: una malattia, a seconda della virulenza, avrebbe quindi potuto fermarsi molto prima della destinazione uccidendone il portatore o dandogli tempo di guarire. Quindi, per rispondere alla domanda di partenza, forse le epidemie non sono più frequenti rispetto al passato se le guardiamo dal punto di vista dell’intera umanità, ma si muovono più velocemente e quindi arrivano con più facilità in tutti i punti del globo rispetto solamente ad un secolo fa.
Ogni 100 anni precisi un’epidemia sconvolge il mondo, la verità sulla maledizione del ’20. Redazione de Il Riformista il 13 Marzo 2020. Sul web circola la foto di un foglio di carta con su scritto a penna “1720: peste, 1820 colera 1920: influenza spagnola, 2020: coronavirus”. Agli amanti del complotto deve essere piaciuta a molti perché la foto è ovunque. Tuttavia è una congettura sbagliata. Tutto probabilmente è partito dalla curiosa coincidenza che una delle più grandi epidemie di peste si verificò nel 1720. Si tratta solo all’ultima grande epidemia che ha devastato una grande città dell’epoca come Marsiglia. In quell’occasione morì quasi metà della popolazione. Una delle ultime epidemie di peste che colpì tutto il mondo, però, è stata nel 1855. Altra influenza legata al secolo successivo sarebbe il Colera. Ma questa iniziò nel mondo nel 1817 e terminò quasi del tutto alla fine del secolo. Poi nel ‘900 l’Influenza Spagnola che portò alla morte di centinaia di milioni di persone. Iniziò nel 1918 e finì solo nel 1920. Dunque poco a che fare con la “coincidenza” con il Coronavirus del 2020.
Dal Sars al Covid, così i virus attaccano (e come la scienza li può sconfiggere). Il libro con il Corriere. Pubblicato lunedì, 09 marzo 2020 su Corriere.it da Luigi Ripamonti. Fra un virus dentro a una cellula che lo ospita e uno fuori da una cellula c’è la stessa differenza che passa fra una mucca e una bistecca. Il paragone a cui Roberto Burioni ricorre per spiegare la natura di questi parassiti intracellulari obbligati farà forse arricciare il naso a qualcuno ma è efficacissimo. Sarebbe come dire che dentro una cellula il virus è qualcosa di vivo e fuori è «qualcosa» e basta, senza vita. Apparentemente può essere difficile da capire ma le pagine del nuovo libro del microbiologo del San Raffaele di Milano, scritto assieme a Pier Luigi Lopalco, ordinario di Igiene all’Università di Pisa, rendono molto semplice questo concetto, accompagnando il lettore in un percorso ricco di esempi elementari e chiarissimi, accessibili a chiunque. Il risultato è un saggio che si legge come una storia. E in effetti è una storia anche nel senso stretto del termine, perché il volume è scandito proprio da storie di epidemia, a partire da quella della peste nera, ripercorsa prendendo l’avvio dalle pagine di Tucidide, che descrive quella di Atene del 430 a.C, per arrivare alle sue manifestazioni più recenti, passando per quella che probabilmente fu decisiva per la caduta dell’Impero romano. Dalla narrazione emerge come gli aspetti medici ed epidemiologici del morbo si siano intrecciati in modo inestricabile con quelli economici, politici e culturali essendone in parte determinati. All’analisi della peste fanno seguito capitoli in cui vengono analizzate altre epidemie importanti, più vicine a noi nel tempo, come l’influenza spagnola, l’Aids, la Sars-1, Ebola, per finire con uno sguardo sull’attuale di coronavirus. Tutte queste infezioni diffondendosi hanno «contaminato», in senso buono, lo sviluppo scientifico, stimolando ricerche che hanno portato a progressi nella medicina di cui ancora oggi beneficiamo. L’analisi chiara, sintetica ma non superficiale dell’andamento di queste epidemie e delle loro caratteristiche è infatti svolta anche attraverso le vicende umane di scienziati come per esempio Alexandre Yersin, a cui si deve l’identificazione del batterio responsabile della peste, oppure di Carlo Urbani al quale moltissimo si deve nel caso della Sars-1, di cui, fra l’altro, morì. Ma anche politici o «untori», e non solo, fanno da cornice alle pagine che illustrano cos’è e come funziona un virus, di cui viene svelata la strategia di fondo a partire dall’esempio paradigmatico fornito da quello della rabbia. Ogni virus ha il solo scopo di replicarsi e diffondersi. Per farlo ha bisogno di una cellula che sfrutta e mette al proprio servizio, lasciandola morire non prima di averne esaurito le risorse a proprio favore. Verrebbe da pensare quindi che il virus sia un essere crudele e intelligentissimo, ma in realtà è solo un filamento di acido nucleico (Dna o Rna) circondato da un involucro di proteine, certamente non dotato di volontà propria, anche se sembra quasi averne per come si comporta. Paradossalmente deve pure la sua fortuna in termini evolutivi al fatto di essere sciatto e impreciso nella replicazione, compiendo molti errori in questo passaggio fondamentale. Talvolta, infatti, alcuni di questi errori lo dotano, per puro caso, di capacità straordinariamente utili ai fini della sua sopravvivenza e della sua diffusione. Ed è proprio da questi «sbagli» che possono nascere le sue varianti più pericolose per l’uomo, che quasi sempre provengono da uno spillover, cioè da un «salto» o «tracimazione» da una specie animale. Un libro che si legge di getto, senza nessuna difficoltà, e che contribuisce a chiarire molti dei dubbi di fondo che si possono essere creati negli ultimi tempi non tanto sull’epidemia in corso (trattata solo marginalmente) ma su ciò che, in termini generali, può averla prodotta, fornendo elementi utili per decrittare le molte parole che in questo periodo si spendono su virus, infezioni ed epidemie.
INVASIONI CHE NON SI VEDONO. Coronavirus e altri germi e batteri che hanno cambiato la storia. L’Inkiesta 14 febbraio 2020. L’impatto dell’epidemia in questi giorni sulla Repubblica Popolare Cinese. Ma dalla peste all’aids, le pandemie da sempre seguono i principali eventi storici. Davvero il Coronavirus potrebbe avere per il regime della Repubblica Popolare Cinese lo stesso impatto che Chernobyl ebbe sul regime dell’Unione Sovietica? Che lo scenario sia temuto dallo stesso Xi Jinping lo dimostra la notizia che, proprio per evitare il paragone, il suo governo ha fatto rimuovere dai palinsesti televisivi la acclamata serie Hbo sul famoso disastro nucleare. C’è infatti un sito di recensioni su film e libri che si chiama Douban, e che è uno dei rari angoli di web cinese dove è consentito di esprimersi con relativa libertà. E lì, a quanto pare, i paragoni tra Wuhan e Chernobyl si stavano sprecando. Qualcuno ha addirittura pensato che il regime avesse lasciato aperta apposta quella valvola di sfogo appunto per usare come capro espiatorio la dirigenza locale: salvo poi spaventarsi quando si è visto che il livello del mugugno inventiva anche i vertici nazionali. Non bisogna però dimenticare che di “Chernobyl sanitaria cinese” si era già parlato nel 2009 all’epoca della epidemia di polmonite atipica che portò alle dimissioni del ministro della Sanità e del sindaco di Pechino. Né il regime ha traballato: anche se forse può esserci stato un rivolgimento interno a favorire l’ascesa di Xi Jinping, che non a caso si presenta come fustigatore di corrotti e inefficienti. Né la Cina ha smesso di crescere: anche se effettivamente il +6,2% del 2019 è stato la crescita più bassa da 27 anni, ed è meno della metà rispetto allo spettacolare +14,2% del 2007. Pure vero che il progetto di sorpassare il Pil Usa nel 2017 è rimasto un sogno: in quell’anno invece gli Stati Uniti registrarono un Prodotto interno lordo di ben 19,39 migliaia di miliardi, che era oltre un terzo in più rispetto alle 12,24 migliaia di miliardi della Cina. Ma ancora più fantapolitica si rivelò l’ipotesi di alcuni esperti che se l’epidemia non fosse stata circoscritta nel più breve tempo possibile il mondo intero avrebbe potuto rischiare un “inverno nucleare elettronico” per scarsità di hardware. Una immagine opera del think tank di analisi finanziarie Aberdeen, che sottolineava come, nelle città di Guangzhou e Shenzen, si producesse all’epoca il 50% di tutti i chip del pianeta, si assemblasse l’85% delle componenti di computer e si fabbricasse quasi il 100% degli adattatori di corrente Ac-Dc per computer portatili. Chi fa stime adesso è invece Standard & Poor’s, che dopo aver valutato l’impatto sul Pil cinese in una riduzione dal 5,7 al 5% ne traduce il contraccolpo sul Pil globale in un -0,3%. Secondo questa previsione gli effetti economici del Coronavirus si faranno “sentire maggiormente sui settori esposti alle spese cinesi legate alle famiglie come il traffico aereo, gli aeroporti, i giochi, la vendita al dettaglio e le strade a pedaggio. Chiusure temporanee di impianti in Cina possono causare interruzioni della catena di approvvigionamento in alcuni settori, tra cui automobili, tecnologia e materie prime industriali. In Cina, sono probabili misure di soccorso” all'emergenza, “tra cui riduzioni fiscali e sussidi, così come sostegno alle banche”. Sono sempre scenari: non profezie. Ma che virus e batteri possano influenzare la storia e addirittura modificarla non è una fantasia. Gli storici, infatti, da tempo hanno cominciato a rileggere le vicende del passato secondo questa particolare chiave di lettura. Sarebbero state, ad esempio, le epidemie di colera del primo Ottocento a provocare la caduta dell’Impero austro-ungarico. La rapida decimazione della borghesia di lingua tedesca in città come Budapest, Praga o Zagabria non avrebbe infatti dato il tempo al sistema scolastico di formare in tempi adeguati “ricambi germanofoni” tra i figli dei contadini acculturati, dando così spazio a un nuovo ceto medio di lingua magiara, ceca e croata, sensibile alle sirene dei nuovi nazionalismi. L’Impero, indebolito dal vibrione del colera, non poté così ostacolare il Risorgimento, a sua volta “ritardato” per secoli dal plasmodio della malaria. Sarebbe stato infatti l’effetto micidiale delle punture di anofele sui non italiani a convincere i Sacri Collegi dei Cardinali a riservare il soglio pontificio ai soli nativi della penisola, dopo il fallimento del tentativo di una “leva” di papi francesi di allontanare il papato dalle paludi pontine spostandolo ad Avignone. E lo Stato Pontificio si era così frapposto all’unità nazionale. Ma come aveva potuto, a sua volta, la Chiesa spodestare da Roma i Cesari, se non con l’aiuto della Yersinia pestis? Sarebbero state le epidemie di peste del periodo del Basso Impero ad aprire la via alle invasioni barbariche. E sarebbe stata un’altra pestilenza, che infuriò nel Medio Oriente nel VII secolo d.C., a infiacchire i due imperi rivali, bizantino e sasanide, rendendoli incapaci di reagire all’ondata di guerrieri a dorso di cammello provenienti dal deserto arabo, resi fanatici dalla nuova fede annunciata dal profeta Maometto. Esploso grazie alla peste, però, l’Islam implode di fronte all’espansione europea proprio a partire dal XVIII secolo, in coincidenza sospetta con la conversione delle tribù del Bengala orientale. I bengalesi portano infatti con loro, durante i pellegrinaggi alla Mecca, i vibrioni colerici endemici nel delta del Gange. Il punto di partenza di questo nuovo filone di studi è la nozione, ormai comunemente accettata, di “genocidio preterintenzionale”, usata per dare un nome a ciò che avvenne alle popolazioni dell’America pre-colombiana dopo il 1492. La cosiddetta scuola di Berkeley ha elaborato proiezioni secondo cui gli indigeni amerindi sarebbero passati da 90-112 milioni di persone nel 1492 a 4,5 milioni a metà del XVII secolo. Stando a questi numeri, il massacro sarebbe stato superiore sia ai 50 milioni di vittime provocate dalla pandemia di febbre spagnola del 1918, sia ai 30 milioni di morti della peste nera del XIV secolo. È vero, però, che i cadaveri della spagnola si ammucchiarono in soli quattro mesi e quelli della peste nera in quattro anni, mentre il “genocidio preterintenzionale” si sarebbe spalmato nell’arco di due secoli. Le cifre della scuola di Berkeley sono contestate dalla scuola minimalista che fa capo ad Angel Rosenblat, secondo la quale il decremento demografico sarebbe stato minore, e si sarebbe passati cioè da 13,3 milioni di abitanti del 1492 a 10 milioni nel 1650. Ma anche questa seconda ipotesi ci descrive uno scenario apocalittico, non spiegabile solo con la ferocia dei Conquistadores contro cui il missionario Bartolomé de Las Casas scrisse veementi pamphlet. E non perché la violenza non fosse presente, ma perché non era qualitativamente peggiore di quella utilizzata nello stesso periodo dagli ottomani nei Balcani o dagli spagnoli durante il Sacco di Roma: per non parlare dei metodi di guerra che, nella stessa Mesoamerica, avevano avuto gli Aztechi. D’altra parte, anche la spagnola seguì la Prima guerra mondiale, e la peste nera fu un effetto “collaterale” delle invasioni mongole. Ma più che degli eventi bellici le grandi pandemie vanno considerate conseguenza dei movimenti di globalizzazione, nei quali i soldati in marcia sono per virus e batteri veicoli efficaci quanto e più di commercianti e turisti. Ma se la peste nera colpì l’Europa con la stessa violenza con cui il “genocidio preterintenzionale” avrebbe colpito di lì a un secolo e mezzo l’America, l’impatto psicologico fu ben diverso. Concentrando ingenti fortune nelle mani dei sopravvissuti, distruggendo antiche caste chiuse, migliorando il rapporto tra popolazione e risorse, annientando la vecchia “mafia intellettuale” che aveva mantenuto il latino come strumento di esclusione delle masse dalla cultura, il massacro di metà della popolazione europea, più che annichilire il Continente, valse invece a rimuovere le remore che lo tenevano ancora chiuso in se stesso, dando il via al vorticoso moto di progresso che avrebbe posto fine al Medioevo e dato inizio all’età moderna. Al contrario, le culture precolombiane furono traumatizzate per sempre da quello sterminio. Le malattie, dunque, possono modificare la storia, ma non sono indifferenti al contesto culturale in cui operano. Col loro senso – anche abnorme – di un peccato originale che dio poteva periodicamente punire a colpi di catastrofi, gli europei del Medioevo avevano comunque le risorse psicologiche per farsene una ragione e ricominciare da capo. Per i precolombiani, invece, il “silenzio degli dei” di fronte alle preghiere dei fedeli era una spinta ulteriore a rinunciare alla vita, o per lo meno alla propria cultura ancestrale, favorendo l’accettazione del nuovo dio portato dai cristiani. Su questo peculiare punto di vista dei “vinti” hanno insistito in particolare gli studi di Nathan Wachtel a proposito del Perù e quelli di Tzvetan Todorov a proposito del Messico. Ma nella costruzione di un vero e proprio modello storiografico sull’interrelazione tra malattie, cultura e storia analogo alle chiavi di interpretazioni create da Marx a partire dall’economia o da Weber a partire della religione sono da citare soprattutto lo studio dei francesi Jacques Ruffi e Jean-Charles Sormia, pubblicato in italiano col titolo Le epidemie nella storia dell’uomo, e, ancor di più, La peste nella storia. Epidemie, morbi e contagio dall’antichità all’età contemporanea, dell’americano William H. McNeill. Partito dall’analisi del caso del Messico dopo la Conquista, McNeill è arrivato a costruire un’originale griglia interpretativa che affianca il “microparassitismo” degli agenti patogeni al “macroparassitismo” delle élite dominanti. Sia i parassiti “micro” che i “macro”, argomenta, hanno interesse a “spremere” risorse dalle loro vittime. Ma quando esagerano e le uccidono, finiscono per soccombere, a loro volta, per mancanza di “cibo”. La civiltà, dunque, corre lungo uno stretto sentiero, in bilico tra i condizionamenti socioeconomici che determinano il parassitismo “macro” e i condizionamenti climatici che determinano il parassitismo “micro”. Un esempio dal libro: in India, gli invasori ariani lasciarono il Sud agli aborigeni dravida proprio perché il clima di quell’area era troppo caldo per il loro sistema immunitario. Ma il loro “macroparassitismo” ha comunque creato una pressione tale sulle risorse che la cultura locale ha dovuto “inventare” le pratiche ascetiche dei fachiri e dei santoni, come “incentivo” spirituale per un’ampia fascia della popolazione, che rinuncia così a pesare sui circuiti del consumo. Ma il culmine per questi studi è stato il celebre Guns, germs and steel, scritto nel 1997 da Jared Diamond: un fisiologo e biologo con la passione dell’ornitologia che frequentando la Nuova Guinea appunto in cerca di specie di uccelli iniziò anche a interessarsi alla antropologia e geografia, per fondere poi tutte assieme queste competenze in una analisi di Storia Mondiale che a partire da que primo best-seller si è poi allargata in altri saggi anche a ecologia, archeologia e politologia. Premio Pulitzer, quell’Armi, acciaio e malattie. Breve storia del mondo negli ultimi tredicimila anni, secondo il titolo italiano, partiva da una domanda: perché è stata la civiltà “europea” a conquistare il mondo? Non certo per “naturale superiorità della razza bianca”, ma perché, di tutte le aree adatte allo sviluppo dell’agricoltura, nessuna presentava una simile varietà di piante idonee all’alimentazione – in un clima temperato e in una zona vasta – come quella del Mediterraneo. Il “Mare Nostrum” dei romani, inoltre, a cavallo fra tre continenti, aveva una posizione strategica particolarmente adatta a favorire scambi di idee e conoscenze. Si aggiunga che, dei quattordici grandi mammiferi addomesticati, ben tredici sono originari dell’Eurasia o del Nord Africa, mentre le specie provenienti dall’Africa sub-sahariana rifiutano la cattività. Fu dunque l’allevamento, con l’assuefazione ai virus degli animali domestici, a dare all’uomo occidentale un vantaggio decisivo non solo dal punto di vista tecnologico ed economico, ma anche immunitario. I germi, dunque, come dice il titolo, con l’acciaio e i cannoni. Ovviamente, l’impatto continua. La mucca pazza fu interpretata come un campanello d’allarme per la deregulation di derivazione thatcheriana, e portò l’Ue a reagire a colpi di regolazioni che potrebbero aver innescato per ripicca la febbre della Brexit. Dell’Aids si è detto che potrebbe aver posto termine al modello “libertino” che si era imposto nel ’68. Ma non solo i virus possono determinare la politica: anche viceversa. Oggi si dibatte se in Cina la diffusione del Coronavirus non sia stata appunto favorita per il tentativo delle autorità di silenziare i medici che denunciavano il contagio. In Cina nel 1911 l’ultima grande epidemia di peste della Storia fu innescata da un evento squisitamente politico come la proclamazione della repubblica. Il batterio della Yersinia pestis si spande infatti coi morsi di roditori infetti, o più spesso, delle pulci che vivono addosso a questi roditori. E i roditori sono particolarmente abbondanti nelle steppe della Manciuria: terra da cui la dinastia Qing nel XVII secolo era partita alla conquista della Cina, e che gli stessi Qing avevano voluto continuare a riservare alle sole tribù locali. Ma a fine ‘800 l’occupazione russa aveva aperto la “cortina di salice”, come veniva chiamata, ai coloni cinesi, e il processo si accentuò dopo la rivoluzione repubblicana che nel 1911 abbatté i Qing. Solo che i mancesi avevano regole ataviche di adattamento ecologico, per cui ad esempio cacciavano i roditori da pelliccia solo col fucile o l’arco: nelle trappole rischiavano infatti di finire bestie intontite dal contagio. Per la stessa ragione, la tribù che vedeva una marmotta barcollante levava subito le tende per andarle a piantare da un’altra parte. I contadini cinesi, ovviamente, risero di queste superstizioni da “barbari”. E si infettarono in massa.
Da “la Stampa” il 27 febbraio 2020. L'infezione da coronavirus si sta allargando e molti esperti ipotizzano che presto non si parlerà più di epidemia ma di pandemia. La differenza può sembrare sottile, ma per epidemia si intende una patologia che si diffonde fino a colpire un gran numero di persone in un territorio più o meno vasto. Mentre per pandemia ci si riferisce a un agente infettivo che si diffonde in zone molto più vaste in diversi luoghi del mondo. Questo fa sì che la malattia superi lo stadio epidemico divenendo appunto pandemica perché raggiunge un grado di elevata trasmissibilità all' interno della specie umana e il virus viene a contatto con popolazioni che non avevano contratto l' infezione precedentemente. Il fatto che per la prima volta i nuovi contagi registrati sono maggiori nel mondo che in Cina spinge molti virologi e anche l' Oms a parlare di pandemia.
Dalla Peste al Coronavirus: come le pandemie hanno cambiato la storia dell’uomo. Pubblicato martedì, 24 marzo 2020 su Corriere.it da Milena Gabanelli e Luigi Offeddu. Ogni pandemia ha cambiato il corso della storia: accompagnando o provocando guerre, migrazioni, crolli di imperi, sistemi economici, poteri religiosi, persecuzioni ideologiche. «È come se da millenni – riflette Ernesto Galli della Loggia, professore di storia contemporanea – fosse in corso una interminabile lotta fra noi umani e il nostro luogo di provenienza, cioè la natura. Grazie al nostro cervello ci siamo distanziati o resi più liberi da lei e una pandemia, attraverso il contatto troppo vicino e pericoloso con alcuni animali, è il modo in cui la stessa natura cerca di rimpossessarsi di quello spazio. Anche noi poi abbiamo contribuito con l’inquinamento ambientale: pensiamo solo al ruolo che l’uomo ha avuto nello sterminio delle api… ma ricordiamoci anche che nessuna pandemia è stata più forte dell’uomo».
La più spaventosa è stata la Spagnola, pandemia del 1918-1920 (dilagata in due ondate, una primaverile e una autunnale, seguita forse negli Usa da due altre ondate minori fino al 1925). Esplosa alla fine della Grande Guerra, quando le popolazioni erano più debilitate e le truppe si muovevano da un continente all’altro, e trasmessa attraverso uccelli o suini dal virus H1N1. Ha ucciso fra i 50 e 100 milioni di persone nel mondo, molto di più delle vittime della stessa Grande Guerra. Arrivò fino ai confini del globo abitato, sull’Artico. Fu chiamata così perché ne parlarono per primi i giornali spagnoli e quelli americani – forse ancora influenzati dalla censura militare – preferirono evitare l’onta sul loro Paese. Perché, pare, la pandemia arrivò negli Usa con i soldati americani di ritorno dall’Europa. Non si conoscevano cure, se non rimedi empirici contro la febbre e la mascherina facciale o l’isolamento: tutto inutile o quasi. Solo nel 1938 il virologo Thomas Francis riuscì ad isolare il virus e a provare l’esistenza di altri virus influenzali, ma la strada verso il vaccino era ancora lunga e le cause dell’estinzione della pandemia sono ancor or oggi tema di dibattito.La Spagnola provocò un terremoto demografico e migratorio: molti lasciarono le proprie nazioni alla ricerca di Paesi «sani», che però non c’erano, e colpì soprattutto giovani e adulti sani che, nella normale vita civile producendo, vendendo e comprando merci, erano la spina dorsale del sistema economico. La pandemia provocò ovunque la crisi della domanda e dell’offerta, della produzione e del consumo: un vero choc per qualsiasi Paese anche economicamente sano (anche se la manodopera, diventata ricercata e rara, ottenne salari migliori). Il Pil dell’Europa occidentale calò del 7,5%. Tutto questo non poteva non avere effetti destabilizzanti sui sistemi politici e sociali interni. La repubblica di Weimar, grande «bolla» di vuoto politico e incertezza economica, nasce in Germania nel novembre 1918, in coincidenza con la fine della Grande Guerra e l’inizio destabilizzante della Spagnola. E il vuoto di Weimar preparerà l’arrivo di Hitler. Secondo alcuni storici la Spagnola, che coinvolse tutta l’Europa e gli Usa, è alla fine una delle concause indirette anche della Seconda Guerra Mondiale.
Nell’ultimo secolo, un’altra epidemia trasmessa da uccelli (anatre selvatiche dalla Cina) è stata l’influenza asiatica del 1956, provocata da un virus sottotipo dell’H1N1. Durò due anni e fece 1 milione di vittime nel mondo, ma diluita nel tempo non ebbe grandi conseguenze sul boom economico in corso. Nel 2003 arriva la Sars (prima epidemia da coronavirus del ventunesimo secolo), molto contagiosa ma poco letale (8200 vittime nel mondo). Fu portata dalle anatre selvatiche del Guangdong (l’antica provincia cinese meridionale di Canton) e il virus fu identificato dal medico italiano Carlo Urbani, che ne rimase vittima. Ma le pandemie dei millenni precedenti fecero ben altre stragi. Anni 430-426 a.C.Peste ateniese, 70-100 mila vittime durante la guerra con Sparta, politicamente importante anche perché vi muore Pericle, leader dell’egemonia ateniese. Nel 2005, nel Dna estratto dai denti di uno scheletro sepolto in un cimiltero militare dell’epoca, viene isolato un batterio di febbre tifodea. E si pensa a questo, o a un antenato del virus Ebola, come origine della pandemia.
Anni dal 130 d.C in poi, Peste antonina, con 5-10 milioni vittime, forse vaiolo o morbillo portato a Roma dalle Legioni dopo la campagna contro i Parti, per alcuni storici segna l’inizio della fine politica e militare dell’Impero. Vi muore l’imperatore Lucio Vero.Dal 1346 al 1353 e poi a ondate successive che seguono le invasioni dell’Orda d’Oro tartaro-mongola, lungo la via della Seta arriva la Peste Nera, sempre portata dalle pulci dei ratti. All’assedio di Caffa mongoli e cristiani si lanciano a vicenda i cadaveri degli appestati. La piaga colpisce popolazioni europee già defedate dalle carestie iniziate nel 1315 dopo una serie di alluvioni. Vittime mai calcolate con precisione, dai 25 ai 100 milioni. Cambia il mondo agricolo del Medioevo, alcuni storici scrivono di «fine dell’antichità«. «Se devo morire fra poco, perché andare nei campi?» è il ragionamento che spinge molti agricoltori ad abbandonare le terre, che presto diventano deserti. Ma chi sopravvive, immunizzato e trasferito nelle città, vivrà meglio: diventerà manodopera ricercata e più pagata di prima, mentre la scarsità di braccia fa crescere ovunque l’innovazione tecnico-meccanica, come la stampa e le armi da fuoco. Con meno soldati in campo, ai re e signori occorrono più armi.
La Peste Nera porta anche i pogrom antisemiti, i peggiori fino ai tempi della Shoa, con gli ebrei accusati come untori. Nel 1348 una bolla di papa Clemente VII vieta di «ascrivere agli ebrei delitti immaginari». Ma la piaga colpisce anche il prestigio della Chiesa: quella «vita e salute» chiesta nelle sue preghiere e processioni, non arriva. E si prepara indirettamente il clima morale e ideologico per l’avvento della Riforma (1517: Lutero affigge le sue tesi a Worms).Durò due anni e non si può definire pandemia perché fu circoscritta soprattutto nel nord Italia. Arriva probabilmente dal passaggio degli eserciti (lanzichenecchi) che dormivano nei fienili e si presero le pulci dei ratti. Conseguenze: più di un milione di morti, destabilizzazione sociale, carestie, campagne abbandonate, rivolte rurali, guerre sociali e civili in Italia. Negli ultimi 100 anni, la scienza ha accertato senza più dubbi l’origine zoonotica di varie pandemie (anche fuori dalla Cina: lo scimpanzé dei Laghi, in Africa, morsicando un essere umano avrebbe trasmesso nel 1980 il virus dell’HIV-Aids, circa 36 milioni di vittime nel mondo). La ricerca insegue nuovi vaccini, ma tremila anni dopo i coronavirus e i loro «parenti» arrivano lo stesso. Come cambierà il nostro mondo con il Covid-19 è ancora da scrivere. Sappiamo solo che non sarà più lo stesso.
Dalla peste al coronavirus: le pandemie nell'arte. Rita Fenini il 20 marzo 2020 Panorama. Per puro caso o per preciso disegno divino non è dato sapere, ma che nella storia ci siano delle costanti è un dato di fatto: e anche questa ultima, nuova epidemia chiamata Coronavirus, non è certo la prima pandemia virale così grave che l'umanità si trova ad arontare. Come appunto testimoniano storici e cronisti. Ma anche scrittori e pittori, che con la loro arte e con tempi e modalità diverse, hanno descritto (e descrivono tuttora) i più tragici agelli umani.
La peste nera del Trecento. Tra le pandemie più famose e nefaste della storia, la Peste Nera, tra il 1346 e il 1363, sterminò un terzo della popolazione europea. Di questo agello ne scrisse il Boccaccio nel suo «Decamerone» mentre, nell'arte pittorica, non si contano le varie versioni del «Trionfo della morte»: tra le più note, l'aresco staccato e conservato nella Galleria regionale di Palazzo Abatellis a Palermo.
La peste del Seicento. Epidemia di «manzoniana memoria», la Peste del XVII°secolo colpì e devastò il nostro Paese in due momenti diversi: nel 1630, portata dai Lanzichenecchi e fatale soprattutto per l'Italia settentrionale e nel 1656, quando, ad essere decimato, fu soprattutto il Regno di Napoli. È in questo periodo che molti artisti, tra cui il genovese Bernardo Strozzi (pittore e sacerdote), dedicarono opere a San Rocco, protettore degli appestati, mentre altri, da Giovan Battista Crespi ad Antonio Zanchi, passando per Micco Spadaro e uno stuolo di pittori anonimi, hanno immortalato nelle loro tele le città devastate dal morbo: Milano, Venezia, Genova, Napoli. Con i loro morti. Con i loro orrori.
L'influenza spagnola (1918-1919) Pandemia che colpì un terzo della popolazione mondiale e fece registrare circa 50 milioni di decessi, la Spagnola costò la vita anche a molti artisti di fama internazionale: di questa inuenza letale, ne morirono infatti lo scrittore Guillaume Apollinaire, Gustav Klimt, Amedeo de Souza Cardoso, Egon Schiele e la sua famiglia.
Oggi. Se per certi aspetti anche il diondersi dell'HIV e dell'AIDS può considerarsi una sorta di pandemia, in questi giorni è sicuramente il Covid-19, con le sue incognite e la sua rapidissima diusione, a preoccuparci di più. Per sdrammatizzare, ma anche per invitarci a rispettare semplici regole comportamentali, ci viene in aiuto anche l'arte: è già virale infatti il murales di TvBoy, noto street artist italiano, autore de «L'Amore ai tempi del Covid-19», versione con Amuchina e mascherina dell'iconico bacio di Hayez.
Coronavirus, l’emergenza che ricorda quella notte di 19 anni fa. Pubblicato lunedì, 16 marzo 2020 su Corriere.it da Tommaso Labate. «Sono passati diciannove anni da quella notte. Te lo ricordi?». Di fronte alle comunicazioni quotidiane del governo Conte sulla guerra al Coronavirus, alcuni dei componenti del governo Berlusconi in carica nel 2001 – alcuni, non tutti, la maggioranza di essi è rimasta all’oscuro - stanno rivivendo i traumi della clamorosa storia che andò in scena tra Palazzo Chigi, l’Ospedale Spallanzani e l’aeroporto di Ciampino ben diciannove anni fa. Una storia rimasta nascosta, coperta e secretata ai massimi livelli fino a oggi. Se fosse un film si chiamerebbe «2001, attacco batteriologico all’Italia». Ma per quanto assomigli tantissimo a un film, nulla di tutto questo è stato un film. Anche se gli ingredienti della spy story (avvertenza, a lieto fine) ci sono tutti, con tanto di personaggi che però non sono di fantasia. Ma veri, in carne e ossa. Due i protagonisti. Gianni Letta, all’epoca sottosegretario alla presidenza del Consiglio, che si precipita nottetempo all’Ospedale Spallanzani per organizzare tamponi, terapie intensive e posti letto in vista di un attacco terroristico all’Italia. E Giulio Tremonti, ministro dell’Economia, che compra dalla Svezia e dalla Svizzera una partita di oltre duecento milioni di euro di vaccini anti-vaiolo. Sullo sfondo, le massime cariche dello Stato che trattengono il fiato e organizzano la difesa di emergenza da un attacco terroristico al limite del fantascientifico. La storia, ricostruita dal Corriere accedendo alla testimonianza di fonti qualificate e testimonianze dirette, ha un preambolo noto a tutti. L’11 settembre 2001, l’attacco alle Torri Gemelle con Al Quaeda che tenta di mettere sotto scacco le democrazie occidentali. All’interno dei Paesi del G7, organismo nel quale l’Italia gestiva i dossier relativi a «terrorismo e flussi finanziari», si moltiplicano i segnali di allarme. Le minacce captate dai servizi segreti sono praticamente all’ordine del giorno, in quell’autunno 2001. Si esce dalla routine quando, qualche settimana dopo l’attacco alle Torri Gemelle, si materializza una minaccia concreta di attacco terroristico all’Italia. «Un attacco con il virus del vaiolo diffuso attraverso le condutture dell’acqua», ricostruiscono le fonti. La soffiata viene considerata degna di attenzione. Scatta un protocollo di difesa che, probabilmente, aveva pochissimi precedenti nella guerra al terrorismo e forse nessun precedente nella storia della Repubblica. E due protagonisti che si muovono nell’ombra sapendo che il loro tempo a disposizione è poco, pochissimo. Giulio Tremonti e Gianni Letta si dividono i compiti. Il primo riesce nell’impresa disperata di garantirsi – non senza fatica – due incredibili «partite» di vaccino contro il vaiolo, acquistate una in Svezia e l’altra in Svizzera. Il secondo esce da Palazzo Chigi e, nottetempo, si materializza in prima persona all’ospedale Spallanzani per organizzare la resistenza sanitaria nel caso qualcosa non vada per il verso giusto. Il tutto senza cedere a isterismi, tenendo presente che una fuga di notizie è in grado di paralizzare il Paese. Nell’arco di qualche ora, la resistenza del governo italiano al probabile attacco è organizzata. Due Hercules decollano dall’aeroporto di Ciampino per ritornare in patria con il carico di vaccini. Lo Spallanzani, intanto, è stato organizzato come se fosse un ospedale di guerra. I servizi di sicurezza avrebbero fatto il resto per «fermare» i terroristi. Ma quella partita di vaccini anti-vaiolo ancora nella disponibilità dello Stato italiano, oltre alla prontezza di riflessi di chi ancora oggi ricorda l’episodio, è ancora considerata un segnale di efficienza italiana nella sfida a un nemico invisibile. Anche se i protagonisti che oggi ricostruiscono quelle ore terribili si scambiano commenti partendo da una frase che sembra una frase di circostanza: «Sono passati diciannove anni da quella notte. Te la ricordi?».
Quando la malaria uccideva in Sardegna. Terzana, quartana, perniciosa. Le febbri portate dalla zanzara anofele ha fatto strage per millenni con epidemie, prima di stabilirsi in alcune aree. In Italia l'isola dei Quattro Mori ha pagato il prezzo più alto. Fino all'intervento nel 1946 della Fondazione Rockfeller, del Ddt. E della Cia. Gianfranco Turano il 05 maggio 2020 su L'Espresso. La malaria è una delle malattie infettive più antiche della storia umana. Presente almeno dal Neolitico è testimoniata nei testi cinesi di tremila anni fa, in quelli indiani di venticinque secoli fa e nell'Iliade di Omero. Colpiva in Egitto, come è stato possibile osservare dalle milze ingrossate di alcune mummie, inclusa quella del faraone Tutankhamon (1333-1323 a.C.), e in Mesopotamia dove gli astronomi la collegano all'apparizione in cielo di Sirio, la stella del Cane. Nel V secolo a.C. se ne occupa il padre della medicina, il greco Ippocrate, e in seguito diventerà un'ossessione per i romani circondati dagli stagni malsani dell'agro pontino e romano tanto da essere considerata uno dei fattori della caduta dell'Impero. È stata la malattia dei banditi e dei latitanti perché creava zone così infette da costituire la migliore difesa per chi sfuggiva la giustizia. Chiamata febbre autunnale, perniciosa, romana o paludismo, è detta anche terzana – maligna o benigna - oppure quartana, secondo una supposta ricorrenza di attacchi febbrili molto violenti ogni tre oppure ogni quattro giorni. Nella Toscana medievale viene ribattezzata mal'aria o malaria in onore della teoria miasmatica che fino alle soglie dell'età contemporanea la associa alle esalazioni provenienti in particolare dagli stagni costieri. In realtà, la malaria è una malattia zoonotica cioè si trasmette all'uomo da altre specie animali, come il Cov-Sars-2. All'origine non c'è però un virus Rna o un batterio ma una delle varietà del Plasmodium, un protozoo parassitario presente anche negli uccelli e nelle scimmie che viene diffuso dalle zanzare, in particolare dall'anofele. Arrivata dal Nordafrica, l'anofele diffonde il plasmodium falciparum, quello della terzana maligna che è la forma più letale. Inizialmente epidemica, la malaria si insedia in modo endemico nei luoghi che garantiscano all'anofele un habitat confortevole, ricco di depositi di acqua stagnante dove le zanzare proliferano con milioni di larve. La malaria ha infestato e infesta gran parte del mondo. Questa è una breve storia di come è stato debellato il morbo in Sardegna.
Antefatto. A partire dai secoli VII-VI avanti Cristo, Cartagine, una colonia fenicia nata sul territorio dell'odierna Tunisia, inizia a espandersi verso Nord nel bacino del Mediterraneo sulle rotte tracciate dai suoi fondatori, arrivati da Tiro (Libano). I cartaginesi, che si espanderanno fino a essere la maggiore potenza marittima prima dei Romani, invadono la Sardegna. È tutt'altro che una passeggiata perché le popolazioni sardo-nuragiche impegnano in due guerre la città-stato africana che deve limitarsi a un'influenza commerciale attraverso i suoi avamposti (Cagliari, Nora, Tharros). Con gli eserciti invasori arriva anche l'anofele. La zanzara inizia una convivenza mortale con l'uomo destinata a durare fino al secolo scorso e a cambiare faccia alla seconda isola più grande del Mare nostrum.
Età moderna. La vocazione agricolo-pastorale della Sardegna coincide con un'opera di deforestazione e di abbandono della linea costiera che favorisce la diffusione dell'anofele. Nei testamenti i figli minori sono quelli che ereditano le terre vicino al mare, le stesse che diventeranno una sorgente di ricchezza a partire dagli anni Sessanta e Settanta del Novecento. Le spiagge fra le più belle del Mediterraneo e gli stagni naturali dove svernano i trampolieri sono luoghi di morte per chi osa avvicinarsi. Il disboscamento continua a ritmo accelerato in età moderna quando l'Isola dei quattro mori diventa il principale fornitore di legno da traversine per le ferrovie che si sviluppano in continente e molto meno in Sardegna, proprio per la difficoltà di organizzare lavori nelle zone paludose. Dopo l'Unità d'Italia il senatore e ministro dell'Agricoltura (1864-1865) Luigi Torelli, valtellinese ex combattente delle Cinque giornate di Milano, inizia a occuparsi della malaria e delle bonifiche nelle aree a maggior rischio. Sono anni in cui i morti causati dal Plasmodium falciparum in Sardegna sono duemila all'anno in media. Nell'isola, dove vive un italiano su quaranta, c'è un morto su cinque del totale nazionale. Torelli prende a cuore l'endemia e nel 1882, a 72 anni, pubblica la Carta illustrata della malaria in Italia. Le zone rosse dell'isola occupano gran parte dei 1849 chilometri di costa ma anche aree interne. Il cagliaritano, l'alto Campidano, la bassa Gallura, la Nurra (Alghero-Sassari) sono le zone più infestate. Alla fine dell'Ottocento, la malaria è presente in 316 comuni della regione su 364 (87%).
L'intervento della scienza. Ma i tentativi di bonifica vanno a vuoto. Solo in quegli anni la biologia e la medicina iniziano a dare indicazioni più precise dopo migliaia di anni di strage. Nel 1880 il medico francese Alphonse Laveran, Nobel nel 1907, scopre il parassita responsabile delle febbri. Nel 1885 il bresciano Camillo Golgi (Nobel 1906) inizia i suoi studi sul ciclo del plasmodium nel sangue. Nel 1897-1898 il britannico Ronald Ross e l'italiano Giovanni Grassi arrivano contemporaneamente a scoprire il parassita nell'anofele, che lo succhia dall'uomo e lo inietta ad altri uomini. Grassi e Ross diventano rivali per il primato in un crescendo polemico che sfiora l'incidente internazionale e che si concluderà con il Nobel a Ross nel 1902. Si muove anche lo Stato italiano che nel 1884 inizia la bonifica dell'Agro romano con la manodopera ravennate che riporterà alla luce Ostia antica. Nel 1895 è messo in vendita nelle tabaccherie a prezzo politico il chinino. L'estratto della corteccia di Cinchona, albero originario del Perù che dal Seicento è l'unico argine efficace a terzana e quartana, viene prodotto dai Monopoli a Torino. La sua diffusione dimezza in un decennio i 16 mila morti del 1895.
L'età delle bonifiche. Nel 1924 Benito Mussolini rilancia il tentativo di estirpare la malaria attraverso la bonifica idraulica, ottimamente raccontata da Canale Mussolini di Antonio Pennacchi. Le terre bonificate intorno a Littoria (Latina) vengono assegnate ai contadini veneti e romagnoli. Anche in Sardegna c'è un tentativo di bonifica meno pubblicizzato perché meno efficace che lascia traccia con la fondazione di Mussolinia (oggi Arborea in provincia di Oristano) abitata dai coloni veneti e di Fertilia nel sassarese con i coloni ferraresi. Arrivano novità importanti anche dagli studi chimici. Nel 1934 in Germania la Bayer sintetizza la clorochina, potente antimalarico applicato anche nella terapia contro il Covid-19. Nel 1939 il chimico svizzero Paul Müller, in servizio ai laboratori Geigy, scopre i poteri insetticidi del diclorodifeniltricloroetano o Ddt. L'invenzione di Müller (Nobel nel 1948) attraversa subito l'Atlantico e diventa lo strumento principale per il programma di lotta alla malaria in Brasile della Rockfeller foundation, creata dalla famiglia proprietaria della Standard Oil. L'intervento nel paese sudamericano passa per l'uso combinato di insetticidi in due fasi. Nella prima vengono aggredite le zanzare con disinfestanti a base di piretro. Nella seconda fase il Ddt distrugge le larve. Alla fine del biennio 1939-1940, quando gli Usa non sono ancora in guerra con l'Asse, la Fondazione Rockfeller annuncia lo sradicamento della malaria dal Brasile con grande gioia dell'industria statunitense che trova maggiori possibilità di sviluppo nel gigante sudamericano.
Sardinia Project. Dopo l'attacco giapponese del 7 dicembre 1941 a Pearl Harbor, gli Usa fanno conoscenza con avversari militari temibili sul fronte del Pacifico meridionale. Su quel fronte c'è un nemico in più. È la malaria che infetta centinaia di migliaia di soldati. Per l'esercito di Washington il chinino diventa una dotazione essenziale quanto le munizioni finché nel 1942 i giapponesi strappano agli olandesi l'isola di Giava, maggiore produttore, e costringono le truppe di Roosevelt a servirsi di farmaci di sintesi: la clorochina e la quinacrina. Alla fine della guerra, la Fondazione Rockfeller ha un nuovo obiettivo sanitario e geopolitico. In collaborazione con il governo dell'Italia repubblicana, con l'Eca, la finanziaria del piano Marshall, con l'Erlaas (l'ente sardo per la lotta all'anofele) e l'Unrra, l'agenzia Onu per la ricostruzione, viene lanciato il Sardinia Project con lo slogan “today Sardinia, tomorrow the world”. Oltre all'obiettivo umanitario, gli Stati Uniti hanno inquadrato la Sardegna come punto d'appoggio strategico nel Mediterraneo anche se l'isola era rimasta ai margini nell'ultima fase della Seconda guerra mondiale e le forze tedesche della 90 Panzer Division avevano abbandonato l'area il 17 settembre 1943, nove giorni dopo l'armistizio. A gennaio del 1944, con l'isola liberata dai nazifascisti, viene nominato commissario governativo il generale Pietro Pinna Parpaglia che rimarrà in carica anche dopo la fine della guerra. Nello stesso anno l'esercito Usa fa i suoi primi test a base di Ddt nell'agro romano, alla foce del Tevere, e più a sud verso la zona pontina, a Castel Volturno. Sono esperimenti di breve durata perché la guerra contro la Wehrmacht infuria. Il Sardinia Project è avviato nel 1946, l'anno dopo l'armistizio, con la doppia fase (zanzare prima, larve poi) già sperimentata in Brasile. I finanziamenti sono considerevoli, nell'ordine di qualche decina di miliardi di euro, attualizzati ai valori di oggi. Il generale e commissario Pinna Parpaglia è affiancato dal malariologo Alberto Missiroli dell'Istituto superiore di sanità (Iss). La campagna antimalarica, documentata dal fotografo Wolf Suschitzky, dura cinque anni contro i due impiegati in Brasile su un'area molto più ampia. Fra le difficoltà ci sono le prime avvisaglie degli effetti collaterali sull'ambiente e sugli esseri umani del Ddt, che negli anni del dopoguerra viene impiegato dovunque in Italia e quantità enormi. A rallentare i lavori contribuiscono i banditi sardi che si vedono sottrarre terreni un tempo inaccessibili e che rapinano spesso i mezzi di carico e i portavalori dell'Erlaas.
Nel 1951 la Rockefeller Foundation dichiara estirpata la malaria dalla Sardegna.
Un anno dopo accade un fatto destinato a rimanere ignoto al pubblico fino alla metà degli anni Ottanta.
Nel 1952 il generale Ettore Musco viene nominato alla guida del Sifar, il servizio segreto unico della Repubblica. L'ufficiale è l'animatore dell'Armata italiana della libertà, nata pochi anni prima nel contesto della Guerra fredda e in funzione anticomunista.
Nel 1953 Musco e due soci iniziano a rallestrare i terreni nella zona di Torre Poglina a sud di Alghero, in una zona che nella mappa della malaria del senatore Torelli era segnata con un rosso acceso.
È un'operazione riservatissima condotta su disposizione della Cia che finanzia e realizza su quei terreni la base militare segreta di Capo Marrargiu. Se ne farà cenno a proposito dei 731 “enucleandi” del Piano Solo (1964), il golpe tentato dal generale Giovanni De Lorenzo, successore e rivale di Musco.
Nel 1985 si saprà che la base è il punto di riferimento operativo dell'organizzazione Stay behind meglio nota come Gladio.
Vittime illustri. La malaria vanta un elenco di vittime illustri che ha pochi rivali fra le malattie infettive. Il primo e forse il più famoso che soccombe alle febbri è Alessandro il Macedone (323 a.C), anche se esistono varie ipotesi sulla causa del suo decesso a soli 33 anni sulle rive dell'Eufrate. La presenza dell'infezione nei dintorni di Roma, dove falcidia i pellegrini arrivati dalle consolari e dalla Francigena, ne fa una sterminatrice di papi, molti dei quali convinti dai medici che l'aglio e il vino siano rimedi efficace.
Muoiono Innocenzo III (1216), organizzatore della crociata contro catari e albigesi, Leone X de' Medici (1521), il papa delle indulgenze, di Martin Lutero e di Niccolò Machiavelli. Nel 1590 muoiono prima Sisto V, che aveva tentato una bonifica delle paludi pontine, e poi il suo successore Urbano VII, che conserva l'infelice record del pontificato più breve della storia (12 giorni).
Nel 1558 la terzana uccide Carlo V, monarca asburgico alla guida del Sacro Romano Impero.
Muore di malaria durante il suo esilio a Ravenna il più grande poeta italiano, Dante Alighieri (1321). Non lontano, a Mandriole, l'anofele che infesta il delta del Po e le valli di Comacchio uccide a 27 anni Anita Garibaldi (1849), la moglie brasiliana dell'Eroe dei due mondi che sta fuggendo dal disastro della Repubblica romana. È un dramma storico-sentimentale che segna l'epopea dell'unificazione d'Italia.
Sessant'anni fa, il 2 gennaio 1960, i giornali raccontano la tragedia di un altro eroe popolare. Si spegne in pochi giorni Fausto Coppi, il più grande ciclista italiano.
Il 13 dicembre 1959 il “campionissimo” è andato in Africa per correre il criterium dell'Alto Volta (oggi Burkina Faso). Coppi, che corre per una squadra diretta dall'amico-rivale Gino Bartali, ha 40 anni e ha già annunciato il ritiro a fine stagione.
Alla fine della gara, vinta da Jacques Anquetil, Coppi si ritira nella stanza d'albergo dove dorme con il compagno Raphäel Géminiani. Anche l'italofrancese contrae la malaria quella notte ma a Parigi se ne accorgono e lo ricoverano immediatamente. Coppi non accusa grandi sintomi fino a dopo Natale, quando è costretto a letto dalla febbre altissima.
Quando Géminiani si sveglia, dopo otto giorni di coma il 5 gennaio, il suo capitano è già morto.
La lotta continua. Cinque anni prima, nel 1955, mentre Coppi dà scandalo ai bigotti per la sua relazione adulterina con la “Dama Bianca”, l'Organizzazione mondiale della sanità (Oms-Who) lancia la campagna mondiale definitiva contro la malaria. Nel 1969 deve annunciare la rinuncia alla vittoria su scala globale ma nel 1970 dichiara la Sardegna libera dalla febbre delle paludi. Oggi la battaglia contro la malaria è tutt'altro che finita. Il morbo si è concentrato nelle zone più povere dell'Africa, con effetti disastrosi. I dati più aggiornati dell'Oms risalgono al 2018. I casi di malaria nel mondo sono stati 228 milioni contro 3,3 milioni di casi di Covid-19 a oggi. I morti causati dal Plasmodium sono 405 mila e il 2018 è andato quasi bene rispetto a punte di 600 mila morti annuali. Il 93% dei casi e il 94% dei decessi sono avvenuti in Africa. Al contrario di quanto accade con il Corona virus, il 67% dei morti (272 mila) sono bambini al di sotto di cinque anni. Dopo essersi immunizzata al Ddt, l'anofele ha mostrato capacità straordinarie di immunizzarsi ai farmaci. Il resto lo fa povertà.
1918 LA GRANDE PANDEMIA. Elena Fontanella il 25 aprile 2020 su Il Giornale.
11 novembre 1918. Riuniti all’interno di un vagone ferroviario i rappresentanti delle nazioni vincitrici siglano le condizioni di pace della Grande Guerra. In quei mesi l’Europa è già stretta nella morsa di un virus influenzale che di lì a poco avrebbe scatenato una pandemia universale. Il focolaio che nel 1918 ebbe luogo nella neutrale Spagna – da cui prese il nome – dimostrò fin da subito un potere invasivo mai visto prima causando tassi di mortalità impensabili. Dalla Spagna (che contò 8 milioni di morti) il virus si diffuse subito al fronte di guerra attraverso l’invio di animali da soma e da macello, propagandosi prima nelle trincee francesi, poi negli accampamenti militari sovraffollati. I soldati che lasciavano le linee nell’ultimo anno di guerra facilitò il diffondersi della pandemia alla popolazione civile. La velocità di diffusione del virus e l’intensità non permisero mai di valutare con precisione l’origine del contagio. Chi ritenne provenisse dalla Cina, chi da laboratori batteriologici attivi durante la guerra sul fronte tedesco, chi dai 9 mila soldati del campo americano di Funston in Kansas che, decimati dall’influenza, il 29 settembre raggiunsero ugualmente il porto di Brest in Francia a bordo del Leviathan. In ogni caso già nell’agosto del 1918 il virus era comparso pressoché simultaneamente in Europa, negli Stati Uniti e sulla costa occidentale dell’Africa sfruttando il contagio tra soldati, mentre in altre zone del mondo arrivò attraverso le imbarcazioni commerciali. In un solo mese, comunque, raggiunse i due terzi della popolazione del mondo uccidendo il 3% dei contagiati. Un quinto della popolazione di tutto il mondo fu colpita dalla malattia che si propagò in due ondate nel 1918 e nel 1919 con un tasso di mortalità tra lo 0,5 e l’1,2 % (circa 22 milioni di morti o forse molti di più vista la difficoltà di registare i morti in alcune parti del mondo). Si diffuse con maggior virulenza nei territori in cui non era mai comparsa una malattia influenzale: in USA moriva lo 0,5 % mentre a Samoa il 25% e interi villaggi di eschimesi in Alaska furono decimati. L’apice del contagio fu nel settembre del 1918: in Italia nel solo mese di settembre morirono 375 mila persone (Torino epicentro con 400 morti al giorno). Come oggi il numero di bare e luoghi di sepoltura non era sufficiente. Il lavoro già danneggiato dalla guerra si fermò. L’economia mondiale entrò in crisi. Il resto è storia. Anche se il virus è universalmente presente in natura con bassi tassi di mutazione, l’esperienza lasciò radicato un timore di attacco batteriologico che si protrasse fino alla Seconda Guerra Mondiale. Lo sviluppo su entrambi i fronti di laboratori epidemiologici usati come arma contro il nemico fecero prendere coscienza del potere dei virus. Dal 1946 – estendendo una precedente organizzazione militare per il controllo della malaria – fu creato ad Atlanta il Centro per la prevenzione e il controllo delle malattie (CDC) in stretta relazione con il timore post-bellico di un attacco biologico. Nel 1951, durante la Guerra Fredda, fu creato l’Epidemic Intelligence Service (Servizio segreto epidemiologico), una specie di CIA della medicina che formava medici e funzionari sotto il controllo del CDC assegnati a ospedali e dipartimenti sanitari americani per fronteggiare eventuali attacchi. Nel corso del XX secolo due epidemie su virus identificati impegnarono gli organismi mondiali sul rischio pandemia: l’H2N2 che uccise un migliaio di persone in Asia nel 1957 e l’H3N3 che nel 1968 colpì Hong Kong. Nel 1997 sempre Hong Kong si trovò a che fare con un nuovo virus influenzale di tipo H5N5 (influenza aviaria) che non corrispondeva a ceppi conosciuti. Nel novembre di quell’anno l’umanità si trovò nuovamente di fronte al rischio di rivivere la pandemia del 1918. L’episodio virale rimase circoscritto ma dimostrò il rischio che correva l’umanità.
L’enigma Spagnola: ne uccise 50 milioni e poi sparì nel nulla. Lanfranco Caminiti su Il Dubbio il 9 maggio 2020. L’INFLUENZA ARRIVÒ ALLA FI NE DELLA PRIMA GUERRA MONDIALE, COLPÌ I PIÙ GIOVANI E PIÙ SANI, PER I VIROLOGI E I BIOLOGI RIMANE UN MISTERO ASSOLUTO. In questo periodo, si fa spesso riferimento alla Sars (Severe Acute Respiratory Syndrome, tra il 2002 e il 2003) e alla Mers ( Middle East respiratory syndrome, tra il 2012 e il 2014), entrambe causate da un coronavirus, come questa pandemia che in realtà non ha ancora un suo nome proprio, ma solo l’individuazione dell’agente patogeno, il covid- 19 ( COronaVIrus Disease 19), e dall’associazione con la precedente Sars questa sarebbe la SARS- CoV- 2, e perciò dovremmo anche rinominare quella come SARS- CoV- 1.
Però, pure la Mers era una sindrome respiratoria acuta ( anzi, con un tasso di letalità fino a quasi il 50 percento – alcuni dicono del 65 percento – benché appunto geograficamente circoscritta e colpisse anche, ma non sempre, l’apparato digerente) mentre, per dire, la Sars 1 ce l‘ aveva del 10 percento. La nostra quindi, più propriamente, dovrebbe essere la SARS- CoV- 3. I nomi sono importanti. Per dire: l’aviaria, la mucca pazza, la suina, l’asiatica, la spagnola – questi sono nomi. Pur essendo un virologo di chiara fama ( oh, non è vero), come molti miei colleghi però nulla so con assoluta certezza riguardo il meccanismo della trasmissione – per la Sars 1 si presuppone, ripeto: si presuppone, un passaggio dal pipistrello agli zibetti e poi all’uomo e poi intra-umana, per la Mers il passaggio da pipistrelli a datteri e cammelli ( alcuni dicono i dromedari – magari è solo un problema di traduzione, dato che “camel” indica sia il cammello propriamente detto che il dromedario) e poi all’uomo e poi intra- umana, ma sono ipotesi – e non è stato sviluppato alcun vaccino né per l’una né per l’altra, e si è tentato eh ma senza successo. Per questo nostro virus c’è chi parla di una zoonosi tra pipistrello e serpente prima di saltare addosso all’uomo. La Sars si estinse da sola nel luglio del 2003, invece la Mers è ricomparsa in Corea nel 2015, provocando morti. Per la Mers, peraltro, si avanza l’ipotesi che fosse in circolazione da almeno sette- otto anni prima di assumere un carattere di forte virulenza. Ma la Mers contagiò solo 842 persone nel mondo e ne uccise 322. E la Sars 1 ne contagiò 8.465 e fece 801 morti. Si dice che proprio questi numeri piccoli non abbiano consentito la scoperta di un vaccino – troppi pochi riscontri, troppi pochi gli studi. Sarà. Ma qui ora siamo su altre “economie di scala”. Sarebbe piuttosto il caso di riflettere su quella che è stata la prima vera pandemia del XXI secolo, e cioè l’influenza suina ( Swine flu), sviluppatasi nel 2009, benché derivante da un virus H1N1, quello della “normale” influenza A – che dovrebbe, ripeto: dovrebbe, essere nata in un piccolo villaggio del Messico con un’alta concentrazione di allevamenti di maiali, dove avrebbe, ripeto: avrebbe, infettato un bambino e via così: ci furono più di un milione e mezzo di casi nel mondo ( soprattutto in America) e quasi ventimila morti. Secondo l’università di Pittsburgh il virus della Swine flu sarebbe una riedizione del virus del 1918 (in verità c’è chi dice che tutte le pandemie dell’influenza A, eccetto i virus dell’aviaria H5N1 and H7N7 discendano dal virus del 1918, inclusi H2N2 e H3N2 – anche se la comparsa dell’H2N2 responsabile dell’asiatica nel 1957 aveva “tolto dai radar” l’H1N1, almeno nella circolazione umana mentre sopravviveva nei maiali, ricomparso poi nel 1977). E ci accompagna ormai dagli anni settanta con regolarità. Non abbiamo un vaccino specifico, ma il vaccino contro l’influenza del 2010- 11 sembra funzionare. Vi inviterei perciò a questo punto a ragionare sull’unica pandemia con la quale possiamo riscontrare elementi storici – storici, non eziologici – comuni, che è la cosiddetta “spagnola” – ora è un secolo dalla sua esplosione – che qualcuno ha definito “la madre di tutte le pandemie”: 50 milioni di persone morte in tutto il mondo e almeno mezzo miliardo di contagiati – eravamo due miliardi, al tempo. La spagnola peraltro si chiamò così, come è noto, non perché ebbe origine in Spagna o perché lì ebbe particolare virulenza, ma perché la Spagna fu la prima nazione a dare notizie dettagliate del contagio e dell’epidemia ( anche il re Alfonso XIII ne fu colpito) non partecipando alla prima guerra mondiale, mentre tutte le altre nazioni si guardavano bene dall’informare temendo che potesse in qualche modo denunciare la propria debolezza ( possiamo dire che i ritardi nel comunicare sono una costante storica? possiamo dirlo) e così si pensò che l’origine fosse stata la Spagna. Come tutte le balordità spicce, rimase. Bene, cosa sappiamo della spagnola sulla quale si è misurato il fior fiore delle accademie scientifiche del mondo – a oltre un secolo? La risposta è questa di qua: « Many questions about its origins, its unusual epidemiologic features, and the basis of its pathogenicity remain unanswered » [ Jeffery K. Taubenberger ( Armed Forces Institute of Pathology, Rockville, Maryland, USA) and David M. Morens ( National Institutes of Health, Bethesda, Maryland, USA): 1918 Influenza: the Mother of All Pandemics]. Unanswered. Siamo senza risposte certe. La mattina del 4 marzo 1918 l’addetto al rancio Albert Gitchell si presentò nell’infermeria di Camp Funston, in Kansas, con mal di gola, febbre e mal di testa. All’ora di pranzo l’infermeria si trovò a gestire più di cento casi simili, e nelle settimane successive il numero di malati crebbe a tal punto che il capo ufficiale medico del campo dovette requisire un hangar per sistemarli tutti. A distanza di 100 anni dalla pandemia, non è assolutamente certo che Gitchell sia stato effettivamente il primo uomo a ammalarsi. C’è chi ritiene che l’infezione abbia avuto origine in America, nella contea di Haskell, altri in Francia, all’ospedale di Étaples, in Austria, altri ancora in Cina. Altri ancora che avesse viaggiato “dentro” un centinaio di migliaia di cinesi che arrivarono a lavorare dietro le linee del “fronte occidentale” ( possiamo dire che le ricerche sul “paziente zero” abbiano sempre una costante storica di natura geopolitica?). L’epidemia esplose più o meno simultaneamente in tre ondate in tre distinti distretti geografici ( Europa, America, Asia) e sia l’analisi storica che epidemiologica non permette con certezza di identificare l’origine geografica del virus e anche la mappatura del genoma del virus responsabile dell’epidemia del 1918 non lo colloca in un contesto geografico preciso. Le tre ondate – la prima del marzo 1918, la seconda, più fatale, dell’autunno, la terza nell’inverno 1918- 1919 – erano state precedute da influenze nel 1915 e 1916, che non produssero mortalità così gravi anche se furono molto estese. È possibile che il virus del 1918 fosse una “deviazione” dei virus precedenti? Il contro- argomento è che se così fosse – data l’estensione delle precedenti epidemie – molte persone sarebbero già state immuni del tutto o parzialmente. Così non fu. Ulteriori analisi ci dicono che la cosa curiosa è che sia gli umani che i suini furono colpiti contemporaneamente – Camp Funston, in Kansas, era in una località zeppa di allevamenti di maiali – e che il genoma lascia trasparire una somiglianza con le influenze aviarie. In breve, non si ha alcuna certezza sull’origine. Da dove arrivò quel virus? Ancora più sorprendente è la vicinanza delle ondate, una cosa senza precedenti nello sviluppo “normale” delle influenze, considerando anche che la prima esplosione accadde in un tempo sfavorevole ( primavera- estate) al contagio. Un’influenza che si sarebbe dovuta “spalmare” su due- tre anni, quindi tre influenze concentrate invece in 12 mesi. E poi: perché la prima ondata – non letale come la seconda, ma diffusissima – non creò immunità tale da resistere alla seconda e alla terza? Forse, il virus responsabile della seconda ondata era una mutazione del primo? Mistero. La cosa ancora più unica della pandemia del 1918 fu che colpì soprattutto, per mortalità, la fascia d’età tra i 20 e i 40 anni – giovani e adulti in piena forza vitale – quando l’andamento delle influenze ha in genere una forma a U, colpendo i più piccoli e i più anziani. Come è potuto accadere? Si è avanzata l’ipotesi che precedenti pandemie intorno al 1880 abbiano creato forme di immunità in chi era già nato, lasciando così “scoperti” quelli che erano nati negli anni successivi. Ma se fosse vero, come è possibile che un virus scompaia letteralmente per tre decenni e poi riappaia all’improvviso dopo più di trent’anni? Mistero. La riproduzione in laboratorio delle caratteristiche genetiche del virus responsabile della spagnola sorprendentemente risulta sensibilissimo ai normali farmaci da influenza. E allora, perché fu così letale? Quelle tre caratteristiche uniche – una particolare aggressività rispetto il tratto respiratorio ( con tempesta di citochine), la fascia di età particolarmente giovane e in salute, le ricorrenze di ondate così concentrate in un periodo abbastanza ravvicinato piuttosto che in due, tre anni – fanno della pandemia spagnola del 1918 davvero una storia “straordinaria”. Potrebbe ripresentarsi? Se accadesse, secondo calcoli e proiezioni, nonostante si sia molto più avanzati ( sic!) tecnicamente – ma il vaccino Pfeiffer che veniva inoculato non serviva assolutamente a nulla, benché intere schiere di medici fossero convinti della sua efficacia – farmacologicamente – è stabilito come certo che una parte dei decessi della spagnola è da attribuire all’abuso di aspirina, che veniva somministrato anche in dosi da un grammo l’ora, dose che ora sappiamo letale – e come capacità sanitaria ( ari- sic!), ci sarebbero cento milioni di morti. I dati di mortalità della spagnola sono impressionanti: solo in India, si stima che morirono circa 17 milioni di persone. Fu per le scarse condizioni igieniche? Non lo credo, credo piuttosto alle grandi concentrazioni umane – proprio come accadde per le trincee e gli ospedali militari da campo che si rilevarono luoghi d’ecatombe – e nel caso dell’India, dell’Iran, delle isole nel Pacifico o dell’Africa, è possibile pensare a una minore risposta immunitaria. Fu per le condizioni di regime alimentare, di povertà? Beh è difficile pensarlo, quando la curva dei decessi si stabilì in fascia d’età sana e vigorosa e soprattutto tra i militari che, di sicuro, godevano di razioni non proprio miserabili. Dopo la letale seconda ondata verso la fine del 1918, il numero di nuovi casi diminuì bruscamente, fino a quasi annullarsi. L’ipotesi più ragionevole – accantonando quello della migliore risposta medica nella prevenzione e cura, che non sta in piedi – è che il virus del 1918 abbia subito una mutazione rapida verso una forma meno letale, un evento comune nei virus patogeni, poiché gli ospiti dei ceppi più pericolosi tendono a estinguersi. Il virus aveva fatto troppi morti e rischiava di morire con noi. Che cosa possiamo imparare in termini storici, che ci torna ancora utile? La chiusura, il lockdown, il blocco totale funzionò dove il virus non era mai arrivato – all’isola di Sant’Elena, nelle Samoa americane, nel Rio delle Amazzoni. Ma dove il virus già circolava – e forse da anni – era una misura assolutamente inutile ( se non si sa quando tutto è cominciato, che senso ha chiudere le porte della casa quando l’assassino è già entrato?) I dispositivi sanitari hanno un ruolo relativo: il personale medico morì a iosa – e seguivano tutti le minime regole ancora oggi vigenti: lavarsi le mani, indossare mascherine e guanti, praticare una certa distanza. Non è assolutamente detto che arriveremo a produrre un vaccino – e probabilmente non ce ne sarà più bisogno al momento in cui si riuscisse. Non è possibile immaginare se il virus produrrà una seconda o una terza o una quarta ondata: paradossalmente, più gli impediamo di circolare più diventa aggressivo e sta in agguato. Anche l’immunità di gregge può essere una chimera – una volta raggiunta, niente impedisce al virus di mutare e tornare più aggressivo di prima, anche se a conti fatti è l’unica vera resistenza umana contro i virus. I virus sono più forti di noi: come ognuno sa, nel nostro codice genetico ci sono intere sequenze virali, “memoria” di terribili pandemie trascorse fin dall’alba dell’uomo. Quello su cui possiamo agire sono le strutture sanitarie, la cura degli uni verso gli altri, l’attenzione e la sensibilità all’ambiente e alla natura, di cui siamo parte integrante. Ma “la natura” non è la salvezza. La salvezza sta in una presenza responsabile dell’uomo dentro la natura. Di cui, anche i virus – e i loro diversi ospiti – fanno parte. Eradicare i virus è un po’ come pensare di eradicare l’umano.
Coronavirus, il precedente di San Francisco che gettò le mascherine e riaprì troppo presto dopo la “Spagnola”. Il Corriere della Sera il 19 aprile 2020. Quel 21 novembre del 1918 a San Francisco non lo hanno mai dimenticato. La Grande Guerra era terminata da una decina di giorni e tutti avevano una gran voglia di festeggiare. Alle dodici in punto, con il potente fischio della sirena di una nave, il sindaco James Rolph diede il segnale tanto atteso a tutta la popolazione della baia. La terribile influenza spagnola che aveva fatto meno vittime nella città californiana rispetto a qualsiasi altra metropoli degli Stati Uniti era passata. Fine delle restrizioni, delle chiusure, delle sospensioni di spettacoli e corse dei cavalli. Alle 12 in punto gli abitanti di San Francisco si affollarono in tutte le strade del centro per gettare via tutti assieme le mascherine che avevano portato per settimane. Si liberarono degli odiati presidi medici e iniziarono a ballare nelle strade. Una festa che non si vedeva da parecchio tempo, ma che era del tutto prematura, come si accorsero le autorità sanitarie nel giro di poche settimane. Alla fine dell’inverno, la città della baia risultò essere stata la più colpita dal micidiale morbo che in tutti gli Stati aveva fatto registrare quasi settecentomila morti. Il lockdown a San Francisco era stato quasi immediato, dopo il primo caso (importato da Chicago, pare) attorno al 20 settembre del 1918. Il 18 ottobre venivano mandati a casa gli alunni di tutte le scuole; furono chiusi tutti i locali pubblici, proibiti balli e qualsiasi assembramento. Tre giorni dopo arrivarono le mascherine che ben presto diventarono obbligatorie per tutti. La polizia faceva rispettare le regole con zelo maniacale. Perfino il sindaco Rolph, fotografato mentre assisteva a un incontro di boxe, fu multato dai suoi agenti: cinquanta dollari, cifra non indifferente per l’epoca.
Fino al fatidico 21 novembre, San Francisco aveva avuto 23.639 casi di influenza con 2.122 morti. E le autorità decisero a quel punto, visto il calo drastico di nuovi casi, di riaprire tutto. Scuole, teatri, ristoranti, l’ippodromo. Dopo le dodici, scrisse il San Francisco Chronicle, «i marciapiedi furono coperti dai relitti di un mese di torture», vale a dire le mascherine che tutti gettavano via, come segno della liberazione e della fine di un incubo. Ma l’euforia durò poco e già il 7 dicembre il sindaco fu costretto a dichiarare ufficialmente che l’epidemia era tornata. Questa volta però, la popolazione non accettò di buon grado le nuove restrizioni, come aveva fatto la prima volta con «spirito di guerra», come aveva scritto il Chronicle. Nacque perfino una «Lega anti-mascherine» che tentò di far abolire l’obbligo di indossare strisce di garza su naso e bocca. Una manifestazione pubblica contro le odiate protezioni vide scendere in piazza oltre duemila persone. In poche settimane il totale dei casi d’influenza salì a più di trentamila e i morti arrivarono a tremila. A conti fatti, quando a metà febbraio l’Health Board degli Stati Uniti pubblicò i dati nazionali, venne fuori che la città sul Pacifico aveva pagato il prezzo più alto dell’intero Paese.
Coronavirus, seconda ondata peggiore della prima? Il confronto con l'influenza spagnola. Le Iene News il 12 ottobre 2020. Con l’arrivo dell’autunno in tutta Europa è arrivata anche la seconda ondata di coronavirus: anche l’Italia, ultima tra i paesi del Vecchio continente, sta vedendo i suoi casi esplodere. Ma questa seconda ondata sarà peggiore della prima, come è stato per l’influenza spagnola? Ecco le similitudini e le differenze con la pandemia di cento anni fa. La seconda ondata della pandemia di coronavirus si rivelerà peggiore della prima? La domanda, di fronte alla crescita verticale dei contagi in tutta Europa, comincia a circolare insistentemente, insieme alla paura di ripiombare nell’incubo vissuto a marzo. E anche perché si cominciano a fare paragoni con la seconda ondata pandemica dell’influenza spagnola, che in pochi mesi uccise oltre cinquanta milioni di persone. Ma quali sono le similitudini, le differenze e le lezioni che possiamo imparare da quanto successo cento anni fa? Nel caso dell’influenza spagnola, come detto, la seconda ondata fu molto più grave della prima. Dopo una prima crescita nella primavera del 1918, con l’estate sembrò che il virus fosse sparito. Ma tra settembre e ottobre i casi esplosero improvvisamente, causando in tutto il mondo un numero di morti stimato tra i 50 e i 100 milioni dall’autunno di quell’anno fino alla fine della terza ondata pandemica nel 1920. Uno scenario che suona, per certi aspetti, simile come scadenze temporali e ovviamente molto diverso come numero di morti: per fortuna il coronavirus si è mostrato finora molto meno letale dell’influenza spagnola. I numeri sono così diversi da risultare difficili da comparare, ma il comportamento simile dei due virus è stato sottolineato anche dal direttore aggiunto dell’Oms Ranieri Guerra a fine giugno: la spagnola infatti “si comportò esattamente come il Covid, andò giù in estate e riprese ferocemente a settembre e ottobre, facendo 50 milioni di morti durante la seconda ondata”, ha detto Guerra il 27 giugno parlando della possibilità che ci fosse una seconda ondata. Seconda ondata che puntualmente è arrivata, prima dai nostri vicini come Spagna e Francia, e adesso anche in Italia. Un’importante lezione che poteva essere imparata e che invece sembra sia stata ignorata. Un’opinione non nostra: "È stato sottovalutato il fatto storico che tutte le pandemie hanno una seconda ondata, più pericolosa della prima". Queste parole, pesanti come macigni, sono state pronunciate da Walter Ricciardi, consulente del ministero della Salute per la pandemia del coronavirus. Resta comunque aperta una domanda: come nel caso della spagnola anche la seconda ondata di coronavirus sarà peggiore della prima? E’ ancora presto per poterlo dire, anche perché i numeri dei contagiati sono inevitabilmente influenzati dalla capacità di test: oggi siamo molto più pronti che a marzo, e se i nuovi positivi salgono rapidamente è anche perché siamo più attrezzati per scovarli. Tuttavia non bisogna sottovalutare la diffusione del virus: ieri sono stati registrati 5.456 nuovi casi. Il giorno record è stato il 21 marzo, con 6.557 positivi. Nell’ultima settimana, i nuovi casi sono stati 29.621 contro la settimana record del 22/28 marzo in cui se n’erano registrati 38.551. Cifre sempre più simili e che probabilmente sono destinate a essere superata, visto l’andamento ascendente della curva epidemica in questo periodo. Dobbiamo insomma aspettarci che in questa seconda ondata il numero di casi registrato sia ampiamente superiore a quello della prima ondata, anche se come detto gioca un ruolo chiave la migliorata capacità di scovare i contagiati. Per quanto riguarda il numero di decessi, invece, siamo fortunatamente molto lontani dai picchi della prima ondata: ieri se ne sono registrati 26, contro il triste record di 919 del 27 marzo. La scorsa settimana sono stati 180, contro i 5.303 registrati dal 22 al 28 marzo. Qui i numeri sono ancora lontanissimi, sebbene in crescita, a ulteriore testimonianza del fatto che oggi scoviamo molti più casi asintomatici o con pochi sintomi grazie alla migliore capacità di effettuare e analizzare i tamponi. Insomma, si può concludere che nella seconda ondata il numero di nuovi casi registrati probabilmente supererà - e non di poco - quello della prima. Esattamente come avvenuto, si stima, nella seconda ondata dell’influenza spagnola. Le vittime invece, se le strutture ospedaliere reggeranno il peso dei numeri crescenti e continueremo a rispettare il distanziamento sociale e l’uso delle mascherine, non dovrebbero tornare a toccare quei picchi. Nel caso della spagnola invece le vittime furono molte di più nella seconda ondata, anche a causa della scarsa preparazione sanitaria comparata a quella odierna e alle conseguenze della Prima guerra mondiale. Con un’ultima avvertenza: l’influenza spagnola ebbe anche una terza ondata, meno forte della seconda ma più forte della prima. In attesa dei vaccini, la raccomandazione è sempre la stessa: usare le mascherine, stare a distanza, lavare spesso le mani. E’ la nostra migliore arma per non dover tornare come a marzo. Con una nota di speranza: Ilaria Capua, direttrice dell’One Health Center of Excellence dell’Università della Florida, ha dichiarato al Corriere che entro un “paio d’anni presumibilmente saremo tornati a una normalità”. Teniamo duro.
Le Pandemie del Novecento e il Coronavirus. Carlo Franza su Il Giornale il 7 ,marzo 2020. Con la pestilenza del Coronavirus che ammorba il mondo, l’Europa e l’Italia, tutti parlano, tutti sanno, tutti hanno da dire la loro. Pochi guardano dentro la storia del passato per capirne di più. Proviamo a declinarne una breve storia. Anzitutto l’epidemia che è stata chiamata “la Spagnola”. Siamo al 1918, e dentro la Prima Guerra Mondiale. Con data 24 ottobre 1918 appariva sul “Il Corriere della Sera” del tempo il titolo “Circolare di Orlando contro le voci false ed esagerate sull’epidemia”; Orlando era il siciliano Vittorio Emanuele Orlando Presidente del Consiglio e Ministro dell’Interno. Il politico italiano nei mesi successivi presentava la grave situazione sanitaria nel Paese Italia che viveva anche gli ultimi mesi della Grande Guerra e intorno alle voci di una più larga e intensa manifestazione della forma morbosa epidemica che era apparsa da noi fin dalla primavera 1918 così annotava: “Si parlò di una malattia terribile, misteriosa, ignota nella sua causa e invincibile nei suoi effetti, e di fronte a qualche caso eccezionale di complicanze polmonari particolarmente gravi (…) si è voluto poi identificare l’affezione, così come in altri Paesi provati prima del nostro si era fatto, con la peste cinese (…). Ora si tratta di voci arbitrarie, assurde, frutto di incompetenza e di fantastica sovreccitazione – prosegue Orlando -. Le osservazioni cliniche come le indagini di laboratorio hanno escluso ed escludono, in modo assolutamente indubbio, l’origine esotica della malattia e la attribuiscono a quella forma morbosa che è conosciuta sotto il nome di “influenza” . Ecco cos’era quella pestilenza che fu la Spagnola. Scienziati e studiosi che ebbero modo di analizzare la pandemia nei tempi successivi, stabilirono che fu una forma virale con complicanze batteriche, notata già nell’estate del 1918 nel Mid-West americano (passava con facilità dalle persone ai suini), e presente già fin dalla primavera 1918 a Canton (oggi Guangzhou), in Manciuria e a Shanghai. La Spagnola infettò mezzo miliardo di persone, vale a dire ben un terzo dell’umanità. Impropriamente fu chiamata “spagnola”, anche se l’origine non avvenne in Spagna. E’ certo che avesse un tasso di riproduzione simile a quello del coronavirus – perché ogni contagiato la trasmetteva a altri due – ma in quegli anni non vi erano né antibiotici nè ossigenoterapia, e per di più l’Europa viveva gravissime difficoltà per via della terribile Guerra che l’aveva messa in ginocchio; la Pandemia della Spagnola fu la prima catastrofe della storia medica recente, perché morirono ben cento milioni di persone. L’Italia del tempo si mobilitò come potè. Sul Corriere della Sera di domenica 29 settembre 1918, a pagina due, compariva “il programma pratico del Governo per combattere la malattia attuale”: “È chiaro che un programma di misure d’igiene pubblica non può essere fissato e svolto in via razionale” se non risponde a due domande: “Qual è la natura della malattia infettiva che si è diffusa in Italia? Qual è la gravità reale che una tale epidemia presenta?”. Si nota che l’agente patogeno si trasmette “mediante le particelle di muco che vengono emesse coll’aria di espirazione durante il parlare e il tossire”. Stesse formulazioni che vanno a coincidere con quanto circola nell’Italia di oggi stretta dal Covid-19 detto Coronavirus. Ecco cosa si disse allora: “Si raccomanda di cautelarsi contro il pericolo di inquinarsi: converrà ch’essi (medici e infermieri, ndr) portino a quest’uopo una maschera di garza o qualche altro consimile mezzo di protezione”. Anche allora si raccomandò alla popolazione - certo come si potè - di non baciarsi, non dare la mano, non andare al cinema e tenersi a un metro gli uni dagli altri. E ancora, il governo chiedeva di “ridurre al minimum gli affollamenti in genere e i contatti dei sani coi malati (ad esempio nelle visite agli ospedali)”. Fu notato anche un interessante esperimento:” In un accampamento, dove l’epidemia infieriva, bastò ampliare il terreno occupato dalle truppe, e in questo modo diradare l’affollamento dei soldati, per veder subito la malattia scomparire del tutto”. Tutto questo avvenne nel 1918, quando i nostri nonni e bisnonni combattevano nelle trincee della Grande Guerra, ben descritte dal dall’illustre poeta Giuseppe Ungaretti.
Poi si arrivò alla Pandemia detta “Asiatica” del 1957. Data memorabile che ben ricordo, perché ne fui anch’io contagiato nell’ottobre del 1957 . In quell’anno le primissime televisioni erano entrate nelle case degli italiani. Ci fu il lancio dello Sputnik sovietico nello spazio e persino la nascita di Carosello. Ma in quell’anno ci fu anche una pandemia chiamata “Asiatica” che uccise più di un milione di persone, dopo averne contagiate fra 250 milioni e un miliardo nel mondo. A voler raffrontare le due pandemie, l’Asiatica e il Coronavirus di oggi, Covid-19 per ora è stato diagnosticato in 94 mila persone e ne ha uccise 3.220 (dati aggiornati al 4 marzo): l’Asiatica del ‘57 fu oltre trecento volte più letale, eppure pochi oggi sembrano serbarne il ricordo. Io certo lo ricordo bene. Il 17 aprile del 1957 sul “New York Time” compare giusto una notiziola dall’allora colonia britannica di Hong Kong: «La stampa popolare riferisce che circa 250 mila residenti hanno ricevuto delle cure. La popolazione della colonia è di circa 2,5 milioni. L’afflusso di 700 mila rifugiati dalla Cina comunista ha creato un pericolo costante di sovraffollamento. Migliaia di malati aspettano cure in lunghe file, molte donne portano sulle spalle bambini dallo sguardo vitreo». Anche “Il Corriere della Sera” del 20 settembre ‘57 parla della pandemia, in una pagina interna: “Ventidue morti in Inghilterra per l’influenza asiatica” e 250 mila persone colpite “in Germania occidentale” con “oltre seicento scuole chiuse nella sola Bassa Sassonia”. Allora il “Corriere dell’Informazione” la chiamò “la nuova spagnola”, e verso metà dicembre si rivelò “rincrudita a Roma”. Badate bene che l’epidemia dell’Asiatica non conquistò quasi mai le prime pagine dei giornali e la sola volta che quell’anno il “Corriere dell’Informazione” dedicò un titolo grande in prima a un virus, fu quando il Milan di Schiaffino – campione d’Italia a metà giugno – dovette andare “in quarantena” e rinviare varie partite. Ma quello fu “morbo giallo”, ovvero “epatite ittigerina” presa da tutta la squadra nella vasca da bagno di uno spogliatoio.
E ancora l’influenza di Hong Kong del ’68-’69. Anche la cosiddetta e successiva “influenza di Hong Kong” che si ebbe nel 1968-’69 (più di 250 milioni di contagiati, quasi un milione di morti nel mondo) non conquistò mai grandi spazi sui media. Era già andata così anche per la pandemia di poliomelite del 1952, che solo negli Stati Uniti infettò 58 mila persone e ne uccise tremiladuecento. Il 10 agosto del 1952 Il Corriere della Sera registrava con poche righe “duemila casi di poliomelite registrati quest’estate in Germania”; a settembre del ’52 scriveva la giornalista italiana Hedi A. Giusti da New York, che le famiglie colpite dalla drammatica paralisi dei bambini hanno “una tranquilla fiducia” grazie alla “meravigliosa certezza del popolo americano che nessuna precauzione sarà trascurata”.
La Pandemia A H1N1 detta “influenza suina” del 2009. La prima e finora unica pandemia influenzale del XXI secolo arriva nel 2009 quando arrivò e fu chiamata “influenza suina”, causata da un virus A H1N1. Si trattava di un virus con caratteristiche piuttosto uniche. Infatti, conteneva una combinazione di geni influenzali che non erano mai stati identificati nelle persone o negli animali. L’Iss ha sottolineato che “mentre la maggior parte dei casi di influenza pandemica sono stati lievi, a livello mondiale si stima che la pandemia ha causato tra i 100.000 e i 400.000 morti nel solo primo anno”.
Passano gli anni, passano i decenni, e le Pandemie ritornano a tambur battente, specie oggi che il mondo si è globalizzato. E’ possibile oggi che a seguito del Coronavirus la globalizzazione sarà ormai messa in quarantena, poi in soffitta. Ritorneremo a status precedenti. E forse sarà la nostra salvezza. Se ciò non avverrà Pandemie come il Coronavirus le avremo ogni tre-quattro anni. La politica, i sociologi, e gli scienziati dicano la loro in tal senso e si prendano le opportune misure, finchè si è in tempo. Carlo Franza
Storia dell’Asiatica, l’influenza che uccise i giovani. Paolo Guzzanti de Il Riformista il 6 Marzo 2020. Si crepava parecchio con l’Asiatica, un’influenza feroce che arrivò nel 1957 e che poi si ritirò, tornò a ondate e dopo una lunga immersione ebbe un sobbalzo nel 1969, ribattezzata col nome di Spaziale, visto che la Luna era appena stata conquistata, ma anche influenza di Hong Kong, per dire da dove veniva. Era, quello, un mondo più arcaico che antico e oggi occorrerebbe un documentario in bianco e nero per ricostruire in un grande set quell’atmosfera. Non c’era informazione. Si sapeva però che “quando Mao starnutisce l’Europa si ammala”. Mao, lo dico per i più giovani era il mitico presidente rivoluzionario cinese di cui mezzo mondo era pazzo, tanto che a quei tempi molti andavano in giro fingendo di leggere il suo “libretto rosso” contenente massime indecifrabili o di sconcertante banalità. Si crepava, dunque. Più di ventimila ci lasciarono la pelle con la prima ondata e in otto milioni si misero a letto con febbri altissime.
L’Asiatica sembrava molto esotica. Un tocco di magia, sempre cinese. Tutti i maschi facevano prima o poi battutine del genere: “Sono stato a letto con un’asiatica”, ma era un’amante che – diversamente da questa che imperversa adesso – attaccava e uccideva i giovani perché i più vecchi, sia nel 1957 che più tardi nel 1969, avevano nel loro sistema immunitario anticorpi ereditati dalle influenze precedenti e dalle generazioni precedenti, tutte comunque di origine suina o aviaria (pollame e anatre), tutte sbarcate dalla Cina e da Hong Kong, allora colonia britannica, o dal Sud Est asiatico. Le frontiere erano chiusissime. Nessuno andava in Cina perché prima dell’apertura provocata dal presidente americano Richard Nixon che andò a Pechino nel 1972, dopo aver inviato una squadra di giocatori di ping-pong, si contavano sulla punta delle dita i viaggiatori per la Cina. Io riuscii ad ottenere il visto per essere ammesso a un colloquio preliminare a Roma per andare a Pechino passando per Tirana (l’Albania di Enver Oxa era curiosamente un bastione cinese e gli albanesi di Calabria e Sicilia si sentirono subito maoisti) ma mi fu chiesto di tagliarmi la barba e io rifiutai, niente Cina. Allora esistevano i medici di famiglia che suonavano alla porta con una curiosa valigetta panciuta e ottocentesca, contenente un grande stetoscopio, il macchinario per prendere la pressione e un bollitore di alluminio in cui sterilizzare siringhe di vetro opaco e aghi d’acciaio che venivano usati più volte e che ti sfondavano la pelle del sedere. I medici sedevano ai piedi del letto e chiacchieravano, prendevano il caffè e poggiavano spesso il cappello sulla coperta, cosa che ha reso infausta quella circostanza: cappello sul letto, uguale medico in casa, uguale morte in agguato. Ancora, si moriva in casa. Oggi muoiono tutti in ospedale. Soli, abbandonati, tiriamo le cuoia al terzo piano e poi veniamo spediti col montacarichi nel seminterrato della morgue per una autopsia all’alba. Li ti aprono col trinciapollo, ti ricuciono con lo spago e torni a casa per le esequie. Allora, anche quei ventimila morti della vera Asiatica (prima ondata) morirono per lo più in casa. In genere, di polmonite. La polmonite è in genere causata da una bestia che si chiama “pneumococco” contro cui ci si può vaccinare, ma quando arriva quella virale, allora puoi soltanto pregare il tuo Dio o sostituti laici. Anche se gli antibiotici non servivano a nulla contro i virus, a quei tempi i medici erano molto generosi in antibiotici perché si sapeva che dove il virus apre il solco, batteri e bacilli avrebbero festeggiato. E poi, qualcosa bisognerà pur fare. Quell’influenza ammazzava con una percentuale sacrificale inferiore all’uno per cento. Quella che abbiamo adesso fra di noi è una divinità più esosa: esige il tre per cento, forse 3,4. Se sappiamo far di conto, ciò vuol dire che ogni milione contagiati ne pretende 34 mila in vestito d’abete, le borchie sono optional. L’Asiatica fece otto milioni di contagi e se dovessimo fare i confronti a parità di infettati, quella che gira adesso si porterebbe via un quarto di milione. C’è di buono che nessuno lo sa. C’è di cattivo che nessuno lo sa. Onestamente, nessuno sa molto, con precisione. Però tutti ci aggrappiamo alla storia e – orientalmente parlando – anche alla geografia: io ricordo, tu non c’eri e non sai, noi dovremmo ricordare. La pandemia delle pandemie fu la terrificante febbre detta Spagnola, che dal 1918 si portò via fra i 50 e i 100 milioni di persone nel mondo intero: più che nelle due guerre mondiali messe insieme. Mia madre, nata nel 1912 se la ricordava benissimo e mi raccontava degli intrugli magici che in ogni famiglia si illudevano di trovare l’antidoto: aglio a tonnellate, peperoncino, bevande bollenti, impiastri, purghe, digiuni, regimi di sola carne, di solo pesce, di solo formaggio, tutti all’aria aperta, tutti blindati al buio di una casa dalle finestre sbarrate. Panico e allegria allo stesso tempo. Dopo la grande Asiatica del 1957 ci fu la Asiatica-2, detta Hong Kong sul finire dei Sessanta, quando ancora la tv era in bianco e nero e tutto era – per poco – nelle venti e più sfumature di grigio. Non si percepiva l’epidemia e la parola pandemia era ignota. Un motivo c’era. L’uso dell’aereo nell’economia globale. La Spagnola impiegò mesi a diffondersi nel mondo, mentre ai nostri giorni ciò che accade in una lontana provincia cinese è subito in Europa e in America. Le compagnie aeree imbarcano miliardi di virus oltre che passeggeri. L’idea della grande pestilenza appartiene ad un passato remoto e fa parte della letteratura ma di fronte alle ondate influenzali che si sono scatenate su di noi (tutte invariabilmente nate in Cina per le contaminazioni tra i virus che abitano negli animali allevati e macellati in condizioni igieniche infernali) ci siamo addestrati a pensare che un flagello biblico come un’epidemia mondiale non sia possibile. Che sia uno scherzo. Una esagerazione. Capita spesso in questi giorni di leggere o udire: “Non è che un’influenza! Ma avete idea di quanta gente muore ogni anno di una semplice influenza?”. È vero. E quel che successe alla fine degli anni Cinquanta lo dimostra. Tuttavia, non è una gara. Il poeta Georges Brassens scrisse una canzone in cui diceva che se c’era una guerra che davvero a lui piaceva moltissimo, era quella del 1914-1918 perché mai carneficina fu più atroce e insensata. La nostra Asiatica di oltre sessanta anni fa, fu la nostra prima grande guerra e la prendemmo con filosofia. “Mamma, ho l’asiatica”. Oppure: “mamma ha l’Asiatica”. Tutti abbiamo avuto l’Asiatica. A casa. Sia chi ce la faceva, sia chi soccombeva, circondato da amici e parenti. E chi moriva, moriva alla vecchia maniera, come nel 1928 Italo Svevo le cui ultime parole ai figli e ai nipoti nell’enfasi dell’agonia, furono: «Fijòi, vardè come se mòr» (“Figli, guardate come si muore”). La morte come momento privato, eroico, perfino didattico. Non ricordo ospedali presi d’assalto nel 1957, quando sembrava che stesse per scoppiare la terza guerra mondiale, quando i carri armati sovietici avevano da poco fatto a polpette gli insorti ungheresi, gli anglofrancesi erano stati cacciati dall’ultima impresa colonialista a Suez e Nikita Krusciov sconvolgeva il mondo comunista con la sua relazione segreta al XX congresso del partito comunista sovietico rivelando i crimini di Stalin. Era un’epoca buia, disciplinata, militarizzata benché fossero da poco sbarcate due novità epocali: i blue jeans (col risvolto) e il Rock ‘n Roll che diventò subito la cura contro l’angoscia, contro il mal di vivere, contro la paura. C’era paura di tutto, e non si poteva avere paura di una banale, per quanto forte, influenza che ti lasciava annichilito, quasi stecchito, in piedi per miracolo: “Ha avuto l’asiatica”. Oh, diomio, ha bisogno di una cura ricostituente. L’Europa era comunista, esistenzialista, filoamericana, e antiamericana, fiuori dalla guerra, dentro la guerra. Tutto era serio e plumbeo, ai tempi dell’Asiatica. C’era Doris Day che faceva impazzire noi adolescenti maschi perché ballava e cantava in quel modo sensuale e c’era Marilyn e tutte le grandi donne dello schermo e gli uomini attori intemerati, gli eroi di allora: se un’influenza ti sdraiava a letto, tutto era ridotto di intensità, anche l’angoscia: vai con la camomilla e l’aspirina, borsa di giaccio o borsa dell’acqua calda, tanto erano sbagliate tutte e due. Ma non esisteva il concetto dell’isolamento e della quarantena. Il virus festeggiava vittorie su vittorie, ma veramente la promiscuità era tanto sciagurata quanto vitale. Si poteva curare chi stava male e poi ammalarsi. Non tutti, non sempre. Ma come cantava Frank Sinatra in My Way: “Regrets, just a few”, quasi nessun rimpianto. Preferiamo la sanità eccellente di oggi, se e quando c’è. E adoriamo la conoscenza di tutti i virus e il controllo su quel che accade. Ma non siamo nati ieri. Abbiamo dentro di noi, nel genoma e nella memoria remota, il ricordo delle battaglie mitologiche precedenti, delle sconfitte precedenti e dei virus precedenti. Nei pochi anni che passai studiando medicina imparai questa straordinaria verità: ognuno di noi, dal momento del suo concepimento e finché non viene al mondo, ricapitola tutto il passato della vita nella sua evoluzione. Le parole sono auliche: l’ontogenesi ricapitola la filogenesi. Ma il concetto è magnifico. Significa che non siamo i primi, non siamo i soli. In fondo, siamo quel tipo di eroe che piace agli americani: siamo i surviver, siamo quelli che ce l’hanno fatta, figli dei figli dei più tosti, dei più resistenti, dei più vitali. I Platters cantavano Only You e noi ballavamo sulla mattonella, le ragazze erano belle e scostanti e avevano gonne lunghe e scozzesi che facevano volteggiare ballando il rock. I virus ronzavano fra di noi, ma ci baciavamo lo stesso.
Coronavirus, così l'Istituto Luce raccontava agli Italiani un'epidemia arrivata da Hong Kong nel 1969. Repubblica Tv il 3 marzo 2020. "Una vera epidemia. Le strade, le fabbriche, gli uffici, i mercati sono mezzi vuoti": sembra un resoconto di quanto sta accadendo oggi in Italia per l'emergenza coronavirus, ma queste parole vengono da un servizio televisivo di oltre 50 anni fa. Nel 1969, infatti, una nuova influenza partita da Hong Kong colpì l'Europa e Italia. "Ha impiegato 18 mesi per arrivare in Italia ma ci ha colti del tutto impreparati", sono le parole di un video dell'Istituto Luce diffuso in quei mesi. Una differenza però c'è: i numeri elencati nel vecchio servizio sono molto più gravi di quelli odierni: "13 milioni di italiani a letto, 1 italiano su 4, e 5mila sono passati a miglior vita". Oggi questi numeri non sono stati raggiunti nemmeno su scala mondiale ma il video è diventato virale nelle chat in questi giorni, proprio per le analogie con la situazione attuale.
Influenza “spaziale”: l’epidemia che colpì l’Italia prima del Coronavirus. Cecilia Lidya Casadei il 02/03/2020 su Notizie.it. Prima del Coronavirus, l'influenza Asiatica H2H2 e quella "spaziale", sviluppatasi a Hong Kong, hanno fatto la storia. Il Coronavirus non è la prima epidemia asiatica sconosciuta che colpisce il nostro Paese. Nel 1969 il virus della cosiddetta influenza “spaziale” proveniente da Hong Kong, l’H3N2, afflisse 13 milioni di italiani.
L’influenza spaziale arriva in Italia. L’H3H2 causò 5mila morti. Fu la stampa a dare l’allarme, precisamente il Times di Londra, un anno prima rispetto all’arrivo del virus nel nostro Paese. La pandemia si diffuse inizialmente in Oriente con epidemie saltuarie di dimensioni contenute fino alla fine del 1968, per poi viaggiare verso gli Stati Uniti, dove il tasso di mortalità schizzò alle stelle. Per nostra fortuna non si registrarono gli stessi numeri in Europa, in Italia la principale causa di morta era attribuibile a polmonite e influenza.
Anticorpi dall’Asiatica. Ci furono tra i 750mila e i 2 milioni di morti, ma dalle stime si colloca fra le influenze virali con meno vittime nella storia dell’umanità. Il virus di Hong Kong aveva un antigene in comune con l’Asiatica del 1957: il neuraminidasi. Per questo motivo si pensò che il suo minore impatto sulla popolazione fosse attribuibile ad un’immunità acquisita nel tempo.
Ancora prima dell’epidemia da Hong Kong, nel 1957, c’è stata la H2N2 meglio conosciuta come influenza Asiatica. La popolazione non aveva sufficienti difese per contrastarla, tranne le persone con più di 70 anni, al contrario di quanto stia accadendo con il Coronavirus.
Polmonite come per il Coronavirus. Anche in questa occasione, furono principalmente le polmoniti virali a risultare fatali per chi contraesse il virus, i meno colpiti furono i soggetti sani. L’epidemia coinvolse circa 250mila persone nella sola Hong Kong. Dopo undici anni, l’H2N2 scomparve e venne sostituito dall’H3N2. Eppure, il Coronavirus che tanto ci spaventa ha fatto meno morti di epidemie importanti come SARS e MERS, che negli anni 2000 hanno seminato il panico a livello mondiale.
Dagospia il 2 marzo 2020. “QUANDO MAO STARNUTA IL MONDO SI AMMALA” – IL VIDEO STRACULT DAGLI ARCHIVI DELL’ISTITUTO LUCE (1970) SULL’INFLUENZA 'SPAZIALE' DI HONG KONG CHE COLPÌ L’ITALIA – A SENTIRE IL SERVIZIO DELL’EPOCA SEMBRA CHE FOSSE PEGGIO DEL CORONAVIRUS: “13 MILIONI DI ITALIANI A LETTO. E CINQUEMILA SONO PASSATI A MIGLIOR VITA” - “BISOGNA PREVENIRE, NON SOLTANTO REPRIMERE. STAREMO A VEDERE: FRA DUE ANNI, FRA TRE, IL GIROTONDO RICOMINCIA…”
Trascrizione: E adesso una domanda: Cosa ci ha portato il Natale? Le solite cose: festoni colorati, pioggia e influenza. Una vera epidemia: 13 milioni di italiani a letto, un italiano su 4. E cinquemila sono passati a miglior vita. Le strade, le fabbriche, gli uffici, i mercati, si sono mezzi vuotati. A riempirsi sono stati gli ospedali: doppi letti dunque, anche se le cliniche sono sempre le stesse. Quando Mao starnuta, dice un proverbio inglese coniato da poco, il mondo si ammala. Infatti l’epidemia di quest’inverno è nata a Hong Kong nel luglio del 1968, un anno e mezzo fa. Ha impiegato 18 mesi per arrivare in Italia ma in compenso ci ha colti del tutto impreparati. Adesso che è quasi passata, è risalita al nord, ha varcato le Alpi, possiamo fare il bilancio. Negativo, senz’altro. L’influenza non è pericolosa? E chi lo dice? Non bastano sciroppi e supposte, gocce e iniezioni che vengono dopo. Occorre fermare il virus prima che arrivi. Ma come? Col vaccino, che c’è: in qualche paese fuori d’Italia è stato distribuito, tenuto conto che il ceppo dell’infuenza è quasi sempre lo stesso. Prevenire insomma, non soltanto reprimere! Senza contare il pericolo di ricadute. Staremo a vedere: fra due anni, fra tre, il girotondo ricomincia. Pensiamoci in tempo…
Dalla terribile «spagnola» alla poliomelite del ‘52, le altre epidemie (che ci facevano meno paura). Pubblicato giovedì, 05 marzo 2020 su Corriere.it da Federico Fubini. Era la spagnola. Studi di decenni successivi avrebbero stabilito che fu una forma virale con complicanze batteriche, notata già nell’estate del 1918 nel Mid-West americano (passava dalle persone ai suini), ma già fin dalla primavera a Canton (oggi Guangzhou), in Manciuria e a Shanghai. Colpì mezzo miliardo di persone, un terzo dell’umanità. In Europa la si chiamò «spagnola» perché si credeva che l’origine fosse quella. Si stima che avesse un tasso di riproduzione simile a quello del coronavirus - ogni contagiato la trasmetteva a altri due - ma in assenza di antibiotici e ossigenoterapia, in un’Europa prostrata dalla guerra, fu il più grande olocausto nella storia medica: si stima abbia portato alla morte fra venti e cento milioni di persone. L’Italia corse ai ripari come poteva. Sul Corriere di domenica 29 settembre ‘18, sempre a pagina due, compariva «il programma pratico del Governo per combattere la malattia attuale». Si leggeva: «È chiaro che un programma di misure d’igiene pubblica non può essere fissato e svolto in via razionale» se non risponde a due domande: «Qual è la natura della malattia infettiva che si è diffusa in Italia? Qual è la gravità reale che una tale epidemia presenta?». Si nota che l’agente patogeno si trasmette «mediante le particelle di muco che vengono emesse coll’aria di espirazione durante il parlare e il tossire». Di qui un consiglio che suona familiare nell’Italia al tempo del Covid-19: «Si raccomanda di cautelarsi contro il pericolo di inquinarsi: converrà ch’essi (medici e infermieri, ndr) portino a quest’uopo una maschera di garza o qualche altro consimile mezzo di protezione». Plus ça change. Quanto poi alla popolazione in genere, anche qui le tecniche non sono molto cambiate. Oggi si consiglia di non baciarsi, non dare la mano, non andare al cinema e tenersi a un metro gli uni dagli altri. Allora agli italiani il governo chiedeva di «ridurre al minimum gli affollamenti in genere e i contatti dei sani coi malati (ad esempio nelle visite agli ospedali)». Si era notato infatti un interessante fenomeno: «In un accampamento, dove l’epidemia infieriva, bastò ampliare il terreno occupato dalle truppe, e in questo modo diradare l’affollamento dei soldati, per veder subito la malattia scomparire del tutto». Ma, appunto, correva il 1918. I padri, nonni e bisnonni degli italiani di oggi affondavano in trincee piene di fango e si stava consumando una catastrofe europea. Indimenticabile. Che dire invece del 1957? Di quell’anno oggi si ricordano il lancio dello Sputnik sovietico nello spazio e magari la nascita di Carosello. Ma ci fu anche una pandemia che uccise più di un milione di persone, dopo averne contagiate fra 250 milioni e un miliardo nel mondo. L’Asiatica. Per confronto, Covid-19 per ora è stato diagnosticato in 94 mila persone e ne ha uccise 3.220 (dati aggiornati al 4 marzo): l’Asiatica del ‘57 fu oltre trecento volte più letale, eppure pochi oggi sembrano serbarne il ricordo. Il 17 aprile di quell’anno sul New York Times compare giusto una notiziola dall’allora colonia britannica di Hong Kong: «La stampa popolare riferisce che circa 250 mila residenti hanno ricevuto delle cure. La popolazione della colonia è di circa 2,5 milioni. L’afflusso di 700 mila rifugiati dalla Cina comunista ha creato un pericolo costante di sovraffollamento. Migliaia di malati aspettano cure in lunghe file, molte donne portano sulle spalle bambini dallo sguardo vitreo». Anche il Corriere del 20 settembre ‘57 parla della pandemia, in una pagina interna: «Ventidue morti in Inghilterra per l’influenza asiatica» e 250 mila persone colpite «in Germania occidentale» con «oltre seicento scuole chiuse nella sola Bassa Sassonia». Allora il Corriere dell’Informazione la chiamò «la nuova spagnola», verso metà dicembre in verità «rincrudita a Roma». Ma appunto l’epidemia non conquistò quasi mai le prime pagine e la sola volta che quell’anno il Corriere dell’Informazione dedicò un titolo grande in prima a un virus, fu quando il Milan di Schiaffino - neo-laureato campione d’Italia a metà giugno - dovette andare «in quarantena» e rinviare varie partite. Ma quello era «morbo giallo», cioè «epatite ittigerina» presa da tutta la squadra nella vasca da bagno di uno spogliatoio. Del resto persino la cosiddetta e successiva «influenza di Hong Kong» del 1968-’69 (più di 250 milioni di contagiati, quasi un milione di morti nel mondo) non conquistò mai grandi spazi sui media. Era già andata così anche per la pandemia di poliomelite del 1952, che solo negli Stati Uniti infettò 58 mila persone e ne uccise tremiladuecento. Il 10 agosto il Corriere registra in un pezzetto di due frasi a proposito di «duemila casi di poliomelite registrati quest’estate in Germania». E a settembre scrive la collaboratrice Hedi A. Giusti da New York, senza enfasi, che le famiglie colpite dalla drammatica paralisi dei bambini hanno «una tranquilla fiducia» grazie alla «meravigliosa certezza del popolo americano che nessuna precauzione sarà trascurata». Forse erano tempi in cui il rapporto con l’infermità e la morte era diverso. Non regnava la pretesa di oggi che il corpo fosse indistruttibile, o giovanile almeno per sei decenni. Il deperimento umano e la fine non erano un tabù, uno sconcio da tenere privato e quasi segreto. Fu per questo forse che non facevano granché notizia decenni fa - e restano poco impresse nella memoria oggi – pandemie molte volte più spaventose del coronavirus. O forse c’era anche dell’altro, che oggi conta e allora non contava. Lasciamo stare il 1918. Ma quello degli anni ’50 o degli anni ‘60 un modo meno interconnesso, meno interdipendente, meno veloce, sistemato in un equilibrio meno precario, meno scricchiolante ghiaccio sottile di mercati finanziari gonfiati dal debito dei fondi d’investimento. Era dunque, almeno in questo, un mondo meno fragile e più capace di fare i conti con l’incertezza e cioè con il sale della vita. Ma di certo un domani, fra mezzo secolo, qualcuno leggerà negli archivi dei giornali del Covid-19. E scoprirà, come in tutti i casi precedenti, che alla fine il vaccino fu trovato.
Domenico Quirico per “la Stampa” il 2 marzo 2020. E se la Paura, questo immateriale potere, fosse in fondo un lusso, un lusso che solo noi, nel mondo della sicurezza, di favole pulite, terse, confidenti, amabili, possiamo permetterci? Insomma: nel contempo è maledizione e privilegio, che si insinua nelle pause in cui le nostre certezze, salute, Pil, frontiere aperte, per una improvvisa, insidiosa affezione respiratoria di massa, sembrano sfilarsi tra le dita. Affondano in dubbi, sconforti, afflizioni, lacrime, clamore di voci dispari. Così la Paura si fa universalmente visibile in giornate lombardo-venete di gente in quarantena e intristita, una nebbia sporca attorno alla vita quotidiana. Come per gli attentati: che ci portano a domicilio la guerra che noi non conosciamo, e soprattutto non vogliamo vedere. Abituati a specchiarci in un avvenire radioso, dove la Morte è sgradevole argomento di conversazione, da evitare nel ''bon ton'', e sulla sofferenza non indugiamo mai, ci sembra che il mondo si sia addirittura capovolto: per un virus. Ma appena la pressione atmosferica della modernità e della sicurezza scompare, in Africa per esempio, tutto diventa tragicamente più semplice. Il panico si fa appunto lusso, come gli ospedali asettici e attrezzati, i virologi, i vaccini che prima o poi si troveranno, le ambulanze, le quarantene precauzionali, il turismo, i supermercati da svuotare. Che loro non hanno. Se la sgrondano di dosso, gli uomini che vivono lì, perché non possono permettersela, la Paura. La sicurezza di sopravvivere, restar sani, non morire di fame o di kalashnikov e machete, nell' usura di quelle esistenze, nel mondo che percorro io, non è in dotazione. La Peste è permanente, come la vita, e la morte. Dopo una settimana di "peste'' nostrana, le frasi si confondono, i discorsi di politici, epidemiologi, catastrofisti tenaci e immarcescibili "candide'' sono ormai caricati a carta, esaurite anche le facezie sfiancate sulla amuchina, il lavarsi le mani e le mascherine; stenta anche la ricerca delle coincidenze, a costo di qualche sbandamento filologico, con i morbi ben scritti di Manzoni Tucidide Defoe Boccaccio e perfino la metafisica peste di Camus, una sorta di grottesco antidoto da letteratura. Allora è il momento di un viaggio concepito come esame di coscienza, nell' altro mondo che ci sta intorno. Solo così ci libereremo dalla Paura: che è fatta del guardate solo me, non distogliete lo sguardo, proibito evocare altre vittime. Per esempio: ho attraversato da poco il Sahel, dove quattro milioni di uomini, donne e bambini sono esposti alla denutrizione e alla immediata possibilità della carestia. Dietro c' è un micidiale impasto di insicurezza causata dalle guerre etniche e del fanatismo islamista che nelle zone rurali costringe contadini e allevatori a farsi profughi, abbandonando bestiame e campi; a cui si aggiunge la desertificazione. La fame, la più primitiva delle angosce, endemica, ricorrente a vampate, nei luoghi del mondo in cui la geografia simboleggia il travaglio della vita. Guardo negli occhi le file degli affamati che si allungano nei luoghi dove sperano di trovare cibo. Non c' è paura ma quel tanto di indomito fatalismo che entra nel sangue dei popoli abituati a strappare davvero la vita al nulla. Allora capisco quello che mi scrive un amico che vive in Niger replicando alla mia dettagliata descrizione del virus, delle vittime anziane, delle attività economiche impacciate: «Beati voi che avete solo il problema del coronavirus, qui non riusciamo nemmeno a contarli, i problemi...». Già: continenti interi dove la vita è appesa a fili insignificanti, un abisso quotidiano in cui si può precipitare senza avere l' impressione di ferirsi, un abisso madre, un precipizio di ombra antico come l' uomo e appunto la peste, un imbuto infinito in cui, se ci vivi, ti infili ogni giorno come per un viaggio qualsiasi. Il mondo delle maledizioni bibliche, fame guerre epidemie, dove un ospedale, quando c' è, ha un bacino di utenza di 350 mila persone; dove puoi vedere statistiche di bambini che muoiono di morbillo (nel terzo millennio!) o per il morso di un cane rognoso che come lui rovistava tra i rifiuti (non c' è l' antidoto contro la rabbia). Dove non usa che gli uomini piangano. E nessuno può aver paura. Un virus in più non fa crescere certo il loro affanno di tagliati fuori.
Guardare gli invisibili. Forse ci aiuterà, ad affrontare i nostri guai epidemici e avere meno paura, consultare le cifre della Sanità in Africa, che, purtroppo, non è quella dei villaggi vacanza e degli economisti che si fregano le mani per le cifre della Crescita del continente. Ma non si accorgono che la ricchezza aumenta, sì, ma va nelle mani di una quarantina di manigoldi, i presidenti, con cui facciamo affari. Si scopre che migliaia di persone muoiono ogni anno di colera, dengue, listeriosi, febbre di lassa. Che in Madagascar c' è stata una micidiale epidemia di peste, quella vera, davvero manzoniana. E c' è ebola: ricordate ebola nel 2014, la fiammata brutale di febbre che in Africa occidentale causò la morte ventimila persone? In Congo l' epidemia non è mai finita, sonnecchia, guizza, uccide. Dalla Nigeria al Sudan, dallo Zambia al Centrafrica, il timore di infettarsi, di morire, non è che un immenso fatale disturbo. La paura è una faccenda tra noi e noi; gli altri, quelli del terzo mondo, non compaiono nella fotografia. Forse guardarli ci aiuterà ad avere più coraggio.
Il Mes e i Malavoglia. Pier Francesco Borgia il 19 aprile 2020 su Il Giornale. Nei dilatati tempi casalinghi di questi giorni mi è capitato di riordinare alcuni scaffali della libreria. E tra le mani mi è finita una copia dei Malavoglia di Giovanni Verga. Non ricordavo di averla. Almeno non quell’edizione. Si tratta infatti di una vecchia edizione scolastica (Mondadori editore), curata da Romano Luperini. Incuriosito dal ritrovamento mi sono messo a rileggere il capolavoro del Verismo. E sono precipitato in fretta nella vita della famiglia Malavoglia. Non è una storia molto leggera. Non certo il modo più allegro di passare la quarantena. Però mi ha impressionato la sua attualità. E chissà se anche i ragazzi che lo stanno affrontando come compito scolastico vedono la singolare attualità del suo messaggio. Se non vado errato – i miei ricordi scolastici sono vaghi – lo si consigliava come modello esemplare di una poetica (il verismo) della quale l’autore catanese era un maestro riconosciuto. Interrogati bisognava soprattutto ricordare quelle caratteristiche che ne facevano un manifesto. In tempi di pandemia, però, non mi ha colpito tanto l’ideologia letteraria sottesa al testo. Piuttosto le coincidenze con la situazione che molti si trovano a vivere oggi. Fatta di dolore, morte, pandemia, tragedie annunciate, e sacrifici. Il lockdown è stata una vera tragedia economica per tante categorie produttive e per tanti lavoratori. E gli Stati, a iniziare dal nostro, già fanno i conti con i debiti futuri. I governi mettono in circolo denaro, gli interessi del quale poi si accumuleranno nel nostro debito pubblico. Insomma molti sopravviveranno grazie a queste misure economiche che poi tutti quanti saremo chiamati a pagare. Come non vedere nel naufragio della Provvidenza (la barca dei Malavoglia) una metafora del virus che sta assediando le nostre vite. Come non vedere nel debito contratto da padron ‘Ntoni un’allegoria del nostro destino. La famiglia dei Malavoglia si rimette ogni volta a capo chino a raccogliere le forze e i denari necessari per riscattare una sorte avversa. Lo fa con gli esempi nobili dello stesso capofamiglia, della Mena e di Alessi. L’usura di zio Crocifisso sembra quasi un inevitabile aspetto della vita economica del paese di Trezza. La sua implacabile legge è accettata istintivamente dallo stesso padron ‘Ntoni che in questo si rivela quasi un filosofo dell’economia di mercato. L’economia va avanti soltanto se c’è speculazione sembrano dire tutti, dal sensale Piedipapera, agli stessi protagonisti del contratto economico che porterà alla fine i Malavoglia fuori dalla vecchia casa del nespolo nel momento più duro della loro parabola. Che poi è anche quello che coincide – altra analogia con la nostra attualità – con la diffusione del colera nella Sicilia orientale negli stessi anni in cui è ambientato il romanzo. Un’epidemia che taglierà le gambe ai piccoli padroncini, ai piccoli imprenditori agricoli e a coloro che volevano fare del commercio una fonte di arricchimento. Malgrado ciò, la piccola formica dalla schiena piegata di padron ‘Ntoni riuscirà a riportare la famiglia (o meglio quel che ne rimane) nella casa avita. E il romanzo si chiude proprio nella corte dominata dal nespolo. Con il giovane ‘Ntoni che offre le spalle ai fratelli e se ne va via per l’ultima volta, per sempre. Perché, in fondo, ci sono giovani che non riescono a convivere con la regola del sacrificio, con la norma del mettere da parte giorno per giorno un “grano” alla volta nelle speranza di garantirsi un futuro meno incerto. Ci sono giovani, come ‘Ntoni e Lia che non accettano un destino già segnato ed è per quello che scappano nella grande città. A meravigliarmi non è poi soltanto la coincidenza con la nostra attualità. C’è quella lingua “grassa” e ricca che Verga si è studiato di riproporre tale e quale quella parlata dalle classi popolari nella Sicilia del XIX secolo. Ci sono meravigliose espressioni popolari e dialettali che sono come incastonate nel tessuto di un vigoroso italiano ottocentesco. Sono il vanto di padron ‘Ntoni. Attraverso di loro il vecchio pescatore mostra la forza della saggezza popolare, la forza di un buon senso che non disdegna un approccio animistico alla vita. Tra tutte, una sua espressione mi è rimasta impressa a fine lettura. “Lo sfortunato ha i giorni lunghi” dice a un certo punto padron ‘Ntoni. Come non dargli ragione, soprattutto in questi giorni.
Estate 1916: l’epidemia di poliomielite si abbatte su New York e parte la caccia all’italiano. Daniele Zaccaria su Il Dubbio il 21 aprile 2020. Si era sparsa la voce che la colpa fosse dei “macaroni”: di chi altri sennò? Stanno tutti ammassati nelle loro topaie di Little Italy ( che all’epoca non si chiamava ancora così), in otto, dodici, anche venti persone per appartamento, sono sporchi, indisciplinati, non si vogliono integrare, dice la gente. Il focolaio, poi, pare fosse proprio lì, tra le viuzze del misero quartiere che ospitava le migliaia di immigrati italiani sbarcati in America a cercar fortuna. Non ci vuole molto a diventare gli untori e il bersaglio della psicosi di massa. Come narrano le cronache si moltiplicano gli atti di razzismo, case marchiate con la vernice, insulti, aggressioni fisiche da parte di gruppi organizzati e qualche volta ci scappa pure il morto. Estate 1916: un’epidemia di poliomielite si abbatte su New York come un flagello, nessuno sa da dove venga quella malattia che si sta portando via migliaia di bambini, nessuno sa come curarla, le uniche misure messe in campo dalle autorità sono la quarantena, la chiusura dei luoghi pubblici e l’uso di disinfettanti chimici nelle strade. Fino ad allora l’unica ondata di polio che aveva colpito l’America risaliva a una ventina d’anni prima, appena un centinaio di casi nel Vermont. Vengono aperti reparti specializzati per isolare i malati ma non bastano, i medici possono solo tamponare gli effetti e sperare che i pazienti vincano da soli la battaglia contro il morbo. Se negli adulti la mortalità è molto bassa, per i bambini dagli uno ai dieci anni il decorso è quasi sempre fatale e chi riesce a salvarsi porterà per sempre i segni dell’infezione, il più delle volte una paralisi motoria. Il panico si diffonde rapidamente in città, gli ospedali sono travolti, la rete sanitaria di New York, la più avanzata e all’avanguardia di tutti gli Stati Uniti, collassa in pochi giorni, molte persone muoiono di altre patologie, in particolare crisi respiratorie, perché non ci sono più posti letto. La popolazione terrorizzata si affida ai rimedi casalinghi, come sempre in questi casi proliferano le leggende metropolitane e i ciarlatani. Centinaia di persone perdono la vita dopo aver assunto stricnina, un potente veleno che non si sa per quale motivo si pensava potesse fermare l’avanzata della polio. Gli stessi medici si affidano a tentativi casuali: «In molti passavano la giornata a sperimentare qualcosa, perché fare qualcosa è meglio di non fare niente, ma questo qualcosa poteva rivelarsi estremamente pericoloso», racconta Gareth Williams, autore di Paralysed with Fear: The Story of Polio. Si ipotizza che la causa siano gli stranieri ma nulla lo può confermare, anzi dev’essere proprio una falsa pista visto che l’epidemia è presente anche nei quartieri più ricchi Allora l’attenzione viene dirottata verso i prodotti animali o vegetali come il latte andato a male, lo zucchero, persino i mirtilli. Qualcuno suggerisce che il vettore dello strano male siano invece le mosche, e il sindaco John P. Mitchel ordina che ogni finestra venga munita di zanzariera e che rimanga chiusa per tutto il giorno. È un estate torrida con quel caldo continentale che ti prende alla gola e non ti lascia mai in pace: il calore alla fine ne ucciderà più della polio. Infine arriva il turno dei gatti e in due settimane si consuma un’autentica strage: circa 70mila felini vengono abbattuti con i metodi più brutali, la gran parte a colpi di bastone, le vie dalla metropoli sono sommerse dai cadaveri degli animali con evidenti conseguenze igieniche. Un massacro inutile, alimentato dalla fake news che le autorità avrebbero regalato dollaro per ogni gatto ucciso. C’è chi prova a rifugiarsi in campagna ma nel New Jersey, nel Connecticut, in Massachussett la popolazione si ribella e impedisce l’accesso alle seconde case “ From New York? Keep Going!” si può leggere nei pannelli affissi nelle cittadine di provincia. Insomma, quel virus mortifero sembrava invincibile e destinato a cambiare le abitudini e la vita sociale di milioni di americani per chissà quanti anni. Poi, verso metà settembre i casi di contagio precipitano misteriosamente e in qualche settimana la poliomielite scompare con la stessa rapidità con cui era apparsa, una caratteristica comune a molti virus, in particolare quelli più letali e meno contagiosi. Il vaccino contro la polio fu scoperto 40 anni più tardi, l’annuncio il 12 aprile del 1955 da parte virologo statunitense Jonas Salk. Due anni dopo Albert Bruce Sabin, un medico polacco naturalizzato americano sviluppa la versione orale del vaccino. Il lavoro dei due scienziati fu accelerato dalla seconda ondata di polio che nel 1944 uccise 3mila bambini sempre nell’area di York, un’epidemia che fa da sfondo alla trama di Nemesis, l’ultimo romanzo dello scrittore Phlip Roth, ambientato nell’hinterland di Newark: «Erano gli spaventosi numeri che certificavano l’avanzata di un’orribile malattia ed, equivalevano ai numeri dei morti, feriti e dispersi della vera guerra. Perché anche quella era una vera guerra, una guerra di annientamento, distruzione, massacro e dannazione, una guerra con tutti i mali della guerra: una guerra contro i bambini di Newark» Oggi la poliomielite è quasi del tutto debellata: rimane ancora acceso un focolaio in Pakistan e si registrano contagi nel vicino Afghanistan, ma si tratta di qualche decina di casi. Secondo l’Oms nei prossimi anni il virus sarà completamente eradicato dal pianeta e conoscerà lo stesso destino del terribile vaiolo.
Mirella Serri per “la Stampa” il 19 aprile 2020. A maggio del 1348 le strade di Parigi avevano un' aria spettrale: le case erano tutte sbarrate e grandi fuochi ardevano ovunque. La peste nera venuta dalla Cina stava decimando l' Europa. Gli studiosi della Sorbona, come il medico Guy de Chauliac, credettero di aver trovato l' origine della patologia: a causa della congiunzione astrale tra Saturno, Giove e Marte si erano diffusi miasmi tossici nell' atmosfera. Per disinfettare le città si accesero enormi falò, si sparsero per le vie e le piazze aceto, acqua di rose e profumi. Vennero anche preparate e distribuite ai medici e alla popolazione maschere imbevute di sostanze aromatiche che coprivano bocca e naso: erano le antenate dell' odierna mascherina, proprio quella che oggi siamo costretti dal coronavirus a usare quotidianamente. Anche i veneziani si attrezzarono per bloccare l' espansione del maledetto virus - era la yersinia pestis trasmessa dai ratti agli uomini per mezzo delle pulci, come si scoprì nel 1894 - e nominarono tre tutori della Salute pubblica incaricati di mettere in «quarantina», dicevano così in dialetto, gli equipaggi delle navi. La quarantena lagunare fu una delle prime, drastiche misure di controllo. A raccontarci l' avventura dei rimedi e delle barriere che furono erette nei momenti di grande difficoltà, molto prima dell' epoca della profilassi attraverso la vaccinazione di massa, è il ricco volume del medico ungherese Stefan Cunha Ujvari Storia delle epidemie (ed. Odoya). Una storia che oggi si propone più attuale che mai. I Greci non conoscevano la parola contagio ma durante la guerra del Peloponneso furono afflitti, come racconta Tucidide, da un morbo micidiale che contribuì a indebolire Atene. Pur inconsapevoli di quali fossero le vie di trasmissione del virus, portavano gli infetti fuori casa, in spazi riservati nei templi dedicati ad Asclepio, patrono della medicina. Mettevano così in atto la pratica dell' isolamento sociale, precauzione oggi ineludibile. E si affidavano anche alla figlia di Asclepio, Igea, che si occupava della prevenzione delle malattie e per la tutela della salute ordinava abluzioni e lavaggi (dal suo nome, la parola «igiene»). L' abitudine del lavacro preventivo si diffuse in Grecia e poi a Roma durante le pandemie ma venne completamente dimenticata nel periodo medievale (si dovette arrivare all' Ottocento e alla rivelazione del dottor Ignaz Semmelweis, il pioniere della teoria del lavaggio delle mani, per capirne scientificamente il ruolo essenziale nella difesa dalle epidemie). Ippocrate, considerato il padre della medicina, paragonò le infezioni spesso mortali all' invasione da parte degli epídemoi (da cui «epidemia»), individui che non abitavano nella città ma che, ospiti non graditi, vi sostavano e poi se ne andavano. Queste invasioni portavano malattie e Ippocrate raccomandava la pulizia e la bonifica degli ambienti malsani. Come faceva pure Galeno, medico di corte dell' imperatore Marco Aurelio morto per una pestilenza (forse si trattava di morbillo), che proponeva di «detergere» sempre le mani. L' uso dei guanti, oggi reputati fondamentali per arrestare la penetrazione del coronavirus, venne imposto nel Medioevo. Erano costretti a indossarli i malati di lebbra per preservare le persone sane dal temibile contatto. Dalla Cina arrivò invece la cosiddetta vaiolizzazione, che fu la prima forma di vaccino. Nel Celeste Impero si era soliti prendere le croste delle lesioni provocate dal vaiolo, triturarle e farle inalare ai bambini con una cannuccia di bambù: s' introducevano così negli organismi i virus indeboliti o morti che stimolavano il sistema immunitario. Il metodo della vaiolizzazione passò in Turchia, dove il virus veniva inoculato tramite piccole lesioni sulla pelle, e poi intorno al 1700 arrivò in Europa e fu molto apprezzato da Voltaire. Mentre gli studiosi della Royal Academy di Londra valutavano i pro e i contro, nel 1718 la moglie dell' ambasciatore inglese a Costantinpoli, Lady Mary Wortley Montagu, lo sperimentò con successo sui propri figli. Nel 1790 il dottor Edward Jenner nato a Berkley fece un ulteriore passo in avanti, utilizzando, per immunizzare i pazienti, il virus del vaiolo che proliferava sulla cute delle mucche (per questo fu chiamato vaccino): lo inoculò nel suo bambino che così sfuggì all' epidemia. Era iniziata l' era della prevenzione collettiva, che salvando il mondo da tante pandemie mandava in cantina i vecchi rimedi come le mascherine, il distanziamento sociale, la quarantena, l' uso dei guanti e così via. Che oggi tornano in auge come preziosi compagni salvavita.
Gianni Oliva per “il Fatto Quotidiano” il 14 aprile 2020. Esattamente un secolo fa il mondo usciva dalla più grave pandemia della storia, l'"influenza spagnola", che tra il 1918 e il 1920, in ondate successive, provocò un numero di morti calcolati con l' approssimazione di milioni (20 milioni? 30? certamente più di quanti caddero nelle trincee della Grande Guerra). La prima curiosità è che la denominazione "spagnola" non ha nulla a che vedere con il luogo di prima diffusione del contagio. Il virus compare per la prima volta nell' autunno 1917 in un campo di addestramento militare americano, Fort Riley, nel Kansas, dove sono concentrate 50 mila reclute in attesa di essere mandate a combattere in Europa: sono loro a importare il contagio nel vecchio Continente e a diffonderlo rapidamente per la grande concentrazione di uomini sui campi di battaglia. Dall' inizio del 1918 ci sono morti in Francia, negli Stati Uniti, in Austria, in Inghilterra, tutti vittime di un' influenza subdola, che provoca polmoniti fulminanti e colpisce una fascia di età relativamente giovane (in media sotto i 40 anni): in Italia il primo caso letale si registra a Sossano (Vicenza), all' inizio di settembre 1918. I giornali non riportano, però, nessuna notizia di quanto sta accadendo: la stampa è sottoposta alla censura di guerra e i governi non vogliono allarmare un' opinione pubblica già sufficientemente provata dal conflitto. Nel novembre 1918, quando si verificano alcuni casi a Madrid, i quotidiani spagnoli danno invece la notizia, perché la Spagna non è entrata in guerra e l' informazione non è censurata. Per qualche settimana, sono solo gli spagnoli a parlare del virus, dando la sensazione che tutto sia partito dalla penisola iberica: per questo nei mesi successivi, quando la pandemia diventa troppo evidente per poterla nascondere, i giornali di tutto il mondo cominciano a parlare di "influenza spagnola". La seconda curiosità riguarda le vittime e i contagiati illustri. Una delle prime vittime è il pittore Gustav Klimt, massimo esponente della "secessione viennese": colpito da ictus l' 11 gennaio 1918 al rientro da un viaggio in Romania, viene ricoverato a Vienna e lì si contagia, morendo il 6 febbraio a 56 anni per l' infezione polmonare provocata dalla "spagnola". In autunno è la volta del suo allievo Egon Schiele, 28 anni, già artista celebre e acclamato: muore il 31 ottobre, tre giorni dopo che l' influenza gli ha portato via la moglie, Edith Harms, incinta di sei mesi (gli ultimi schizzi di Schiele sono ritratti di Edith nel letto d' ospedale). Il 9 novembre viene trovato morto nel suo attico parigino il poeta Guillaume Apollinare, 41 anni, e a fare la scoperta è l'amico Giuseppe Ungaretti, andato ad annunciargli la resa dei tedeschi. Una delle ultime vittime è Max Weber, padre della sociologia moderna: muore a Monaco di Baviera nel giugno 1920, 56enne come Klimt. Probabilmente il contagio risale a qualche mese prima, quando a Parigi ha partecipato come delegato tedesco alla conferenza di Pace. In occasione delle trattative parigine si contagia un politico illustre, il presidente americano Thomas Woodrow Wilson, che riesce però a guarire (anche se, tornato a Washington dalla Francia, viene colpito da due ictus che di fatto lo esautorano dall' esercizio delle funzioni). Tra i guariti celebri ci sono i romanzieri americani Ernest Hemingway (che scopre di essere malato durante la navigazione verso New York, di rientro dalla guerra) e John Dos Passos , il futuro presidente Franklin Delano Roosevelt, l' appena ventenne Walt Disney, il romanziere praghese Frank Kafka (che avrà comunque i polmoni compromessi e morirà pochi anni dopo di tubercolosi), il sovrano Alfonso XIII di Spagna, e un personaggio legato alla successiva storia italiana, l' etiope Tafari Maconnen, che nel 1930 diventerà "negus neghesti" (imperatore) d' Etiopia col nome di Hailé Selassiè. Forse ammalatosi durante un viaggio in Europa, quando ha cercato appoggi internazionali per far accettare il suo Paese nella Società delle Nazioni, il futuro Negus viene curato da medici britannici che operano in Kenya e si salva. L' ultima curiosità riguarda le contromisure: cent' anni fa, come oggi, l' unica difesa è stata la quarantena. In molti Paesi è stata applicata senza rigore (gli Stati del 1918-20 non avevano comunque la forza per essere più incisivi): in Italia si è sconsigliato di viaggiare (ma i treni hanno continuato a funzionare), si è stabilito il coprifuoco nelle città dopo l' ora di chiusura dei locali (ma i locali sono stati lasciati aperti), si sono invitati i cittadini a evitare i contatti (ma il successo è stato dubbio, visto che nel maggio 1919 Mussolini tuona sul "Popolo d' Italia": "basta con questa sudicia abitudine della stretta di mano"). Scarso effetto: i morti italiani sono stati oltre 700 mila, qualche decina di migliaia in più dei caduti del Carso. L' unico paese al mondo senza vittime è stata una colonia francese, la Nuova Caledonia, in Oceania: mentre Paesi vicini come Nuova Zelanda e Australia sono stati contagiati, in Nuova Caledonia la diligenza di un funzionario coloniale ha imposto da subito una quarantena rigorosa e nessuno è stato portato via dalla "spagnola". Ricordiamocene. E se ne ricordino i "decisori" che allora hanno perso qualcuno (Friedrich Trump, "minore non accompagnato" emigrato dalla Germania, morì nel maggio 1918 nel Queens: aveva 49 anni, imprenditore di dubbia moralità e sicuro successo; era il nonno di Donald Trump).
L’encefalite letargica: ne uccise 5 milioni è poi sparì per sempre. Daniele Zaccaria su Il Dubbio il 21 marzo 2020. Il misterioso virus apparve nel 1916 ma fu ignorato per via dell’epidemia di influenza spagnola. Ancora oggi rimane uno dei più grandi enigmi medici del XX Secolo. «Sono come vulcani spenti» commentò sconsolato un medico che tentava di guarire quei malati ancora vivi ma sprofondati in uno stato di totale apatia e prostrazione. Erano stati colpiti dall’encefalite letargica, un virus misterioso che apparve in Europa e negli Stati Uniti intorno al 1916- 1917. Venne chiamata anche “malattia del sonno europeo”, in opposizione alla Trypanosomiasi africana, trasmessa dalla celebre mosca “tse- tse”. Il “paziente zero” è stato un sopravvissuto della battaglia di Verdun, ricoverato nel gennaio 1917 nella clinica Wagner- Jauregg di Vienna. I malati mantenevano un barlume di lucidità, si ricordavano chi fossero e dove fossero ricoverati, ma in pratica trascorrevano le loro giornate dormendo. Si svegliavano per brevi periodi solo se sollecitati dagli infermieri, avrebbero potuto morire di inedia nel sonno. La gran parte di loro non riuscì a sconfiggere il morbo che in pochi mesi compiva un decorso fatale. E anche chi sopravvisse restò per tutta la vita in uno stato di sopore e permanente astenia «simile a una statua». Alcuni di loro erano attraversati da continui tremori, altri ancora scivolarono verso la psicosi e la follia. La gestione dei traumi post- encefalici era tutt’altro che facile e fino agli anni 60 non si trovarono terapie efficaci per alleviare la vita dei malati. La piaga durò circa dieci anni, uccise 5 milioni di persone e poi scomparve per sempre. Mai più nessuna epidemia, nessun focolaio soltanto qualche caso isolato. L’encefalite letargica fu scoperta quasi contemporaneamente da due neurologi, il francese Jean- René Cruchet e l’austriaco Constantin von Economo e per questo nei manuali medici appare con il nome di Sindrome di von Economo- Cruchet. Entrambi descrivevano un «forte rigonfiamento delle pareti cerebrali che conduce a un profondo letargo». Il virus però venne pressoché ignorato dall’opinione pubblica ma anche dalla comunità scientifica perché dalle trincee della Prima guerra mondiale arrivò l’Influenza spagnola, un flagello che portò all’altro mondo cinquanta milioni di persone ( ma secondo alcuni esperti potrebbero essere state il doppio). La cause mediche della sindrome sono ancora incerte, avvolte da una nuvola di ipotesi e supposizioni: le più accreditate evocano un’origine autoimmune o comunque una reazione autoimmune a altre infezioni virali o batteriche, come per esempio l’influenza che si combina molto bene con le encefaliti. Si manifesta con una febbre molto alta che provoca in seguito cefalea, stati catatonici, l’inversione del ciclo sonno- veglia e persino la visione doppia nei casi più avanzati con l’inevitabile decorso verso la paralisi e il coma. Di sicuro diversi sintomi sono molto somiglianti a quelli provocati dal morbo di Parkinson, ma il rapporto tra le due patologie è tutto da stabilire. C’è anche chi ha supposto che la più celebre vittima dell’encefalite letargica fosse Adolf Hitler, che come è noto, negli ultimi anni di vita era percorso da bruschi tremori e aveva perso il controllo della mano sinistra; sarebbe stato in tal senso lo stato confusionale provocato dal morbo a spingerlo ad attaccacre la Russia nel 1941. Ma questa rimane poco più di una suggestione. Nel 2010 la Oxford University press pubblicò un lungo articolo consacrato all’encefalite letargica definendola «il più grande enigma o medico del 20esimo Secolo», aggiungendo che. sostanzialmente, le conoscenze odierne non sono molto diverse da quelle che la medicina aveva negli anni 30, concludendo che l’eziologia e gli agenti causali del virus sono «ancora del tutto oscuri». Gli epidemiologi, gli storici e anche gli scrittori si sono sbizzarriti nel ricercare la prima apparizione di questo misterioso virus. L’austriaca Laurie Winn Carlson ha avanzato una tesi affascinante: la malattia sarebbe nata in alcune comunità della Nuova Inghilterra intorno alla fine del 17esimo Secolo, il focolaio sarebbe stata la cittadina di Salem, teatro tra il 1692 e il 1693 nel più celebre processo alle “streghe” della storia americana, che portò all’esecuzione di 14 donne e sei uomini. Una psicosi collettiva che individuò nei comportamenti “bislacchi” di diverse giovani donne affette da mutismo, allucinazioni, crisi psicotiche una chiara testimonianza di stregoneria. Ecco cosa scrive Winn Carlson nel suo A fever of Salem: «Comparando i sintomi descritti dai coloni americani con quelli dei pazienti colpiti da enchephalitis lethargica all’inizio del 20esimo Secolo, una combinazione che accredita le ipotesi secondo cui la caccia alle streghe della Nuova Inghilterra fu una risposta ai comportamenti inesplicabili dovuti all’epidemia di encefalite». Uno dei lavori più noti sull’argomento e senza dubbio Risvegli del neuropsichiatra newyorkese Oliver Sacks che, alla metà degli anni 60 prese in cura alcuni pazienti vittime del virus nell’ospedale Beth Abraham del Bronx. La vicenda è raccontata anche dall’omonimo film interpretato da Robert De Niro e Robin Williams. Erano stati contagiati trenta anni prima e il loro stato vitale era poco più che vegetativo. Il dottor Sacks, oltre a utilizzare con profitto la musicoterapia, somministrò ai malati un farmaco che ebbe effetti davvero notevoli ( secondo alcuni «miracolosi» ), il L-Dopa ( o Levedopa), restituendo parzialmente alla vita quei “vulcani spenti”. Peraltro si tratta stesso che viene utilizzato per alleviare gli effetti del morbo di Parkinson, il che fornirebbe un’ulteriore prova della correlazione tra le due patologie. Un autore che si è interessato agli effetti dell’encefalite letargica è il drammaturgo britannico Harold Pinter ( premio Nobel per la letteratura nel 1985) che nel 1982 mise in scena la pièce teatraleA Kind of Alaska interpretata da un’intensa Judy Dench, liberamente tratta proprio dall’opera di Sacks. La pièce illumina la vita di Deborah, una donna affetta da encefalite letargica che si risveglia dopo 16 anni di coma, un risveglio brutale, non riconosce più il suo corpo, non riconosce più i suoi cari. Come le spiega il medico che l’ha curata: «La tua mente non è stata danneggiata, Era rimasta solo sospesa, aveva preso temporanea dimora in una specie di Alaska».
La malattia, la quarantena, i funerali solitari: la lettera del 1918 (che sembra scritta oggi). Pubblicato lunedì, 23 marzo 2020 su Corriere.it da Goffredo Buccini. «Carissima Adele». È una voce lontana, che però ci parla al cuore: «Io e mammà siamo scampati per molto poco alla morte e siamo restati sofferenti…». È l’eco delle nostre paure che torna dal passato: «Il giorno dopo papà era preso da tosse violenta e febbre, dopo qualche ora anche mammà aveva la febbre a 39…». È uno specchio molto distante eppure terribilmente prossimo dei nostri orrori quotidiani: «Dopo tre giorni si fece il funerale, tristissimo, senza accompagno, poiché non si poteva prevedere l’ora e perché mi avevano detto proibiti gli accompagni… dopo sette giorni io malfermo sulle gambe dovetti andare al Verano e avere lo strazio di cercare fra 40 o 50 feretri ammonticchiati quello da me adorato».
3 novembre 1918. A villa Giusti, Padova, si firma l’armistizio con Vienna che, dal giorno dopo, metterà fine alla Prima guerra mondiale, causa solo in Italia di più d’un milione di morti tra militari e civili. Da Roma un trentenne segnato nel corpo e nell’anima racconta alla sorella un’altra guerra, quella della loro famiglia e di tante altre famiglie italiane contro la febbre spagnola, la micidiale pandemia che tra il ’18 e il ’20 provocherà solo da noi 400 mila vittime. Lo fa con una lunga lettera (che qui riproduciamo) densa di lessico familiare ma anche di sgomento per quei momenti convulsi d’angoscia all’incalzare del morbo, così simili ai nostri un secolo dopo. «Il 9 o il 10 mi ammalai e presto mi aggravai. Papà corse dal medico e per fortuna, dati i tempi, ne trovò uno mediocre e carico di lavoro. Dopo due giorni, io cominciavo a vaneggiare, e povero papà alla mamma disse che pregava perché fosse sacrificata la sua vita invece che la mia».
Italo Libero Garibaldi La Torre. Nella lettera ad Adele quel giovane appena convalescente si firma «tuo affezionatissimo Italo». Ma Italo è tale solo in famiglia e il suo nome è una storia nella storia: è quello che suo padre, Paolo La Torre, professore di latino e greco a Roma immerso nelle passioni risorgimentali di quell’Italia, gli avrebbe voluto imporre alla nascita, nel 1889. «In realtà l’Italo della lettera avrebbe dovuto chiamarsi Italo Libero Garibaldi, ma il sacerdote che doveva battezzarlo si rifiutò di mettergli quel nome e nel sacramento gli impose quello del suo padrino, Michele, per l’appunto», spiega Augusto D’Angelo, il docente di Storia contemporanea del dipartimento di Scienze politiche della Sapienza che ha recuperato il carteggio attraverso una nipote di Michele, Antonella Palmieri. E forse davvero il destino di ciascuno è segnato dall’inizio. Perché Michele La Torre, già testimone involontario alla nascita delle divisioni profonde della nostra patria, attraverserà stagioni di segno assai dissimile, in una sorta di caleidoscopio della travagliata vicenda nazionale. «Sarebbe divenuto giurista di fama, esperto in diritto amministrativo e autore di testi di rilievo, consigliere di Stato nel 1935, iscritto al partito fascista e collaboratore del ‘Diritto razzista’ con posizioni antisemite; dopo il 25 Luglio collaboratore dell’ufficio legislativo del ministero degli Interni del governo Badoglio, nel ’53 candidato dc e nel ’58 del partito monarchico: sempre senza successo», spiega ancora il professor D’Angelo. Almeno tre o quattro vite in una, la lunga storia d’un italiano. Per noi è e resta l’Italo dei suoi trent’anni, il cronista dolente dello sconquasso che si abbatté nella sua casa romana in quello scorcio del 1918.
Caterina La Torre Satriani. Dopo il 10 ottobre, dunque, tutti sono già contagiati. Ma la madre Caterina, divorata dalla febbre, si alza per accudire lui e il padre. La quarantena che oggi sopportiamo con insofferenza era già imposta allora dal terrore, identica la solitudine dei reclusi. «In casa nostra nessuno, nessun amico, solo il portinaio cominciò a comprarci qualche medicina, sempre con ritardo. Intanto papà peggiorava, non parlava più ed aveva un affanno, quasi un rantolo». Allora come ora, non sembra esserci altra cura che la compassione: «Il medico ordinò a tutti noi iniezioni di olio canforato, e si trovò un infermiere che venisse a farle di tanto in tanto. Io ebbi la forza di scrivere un biglietto ad una signora mia amica, che per fortuna disinteressatamente venne con suo pericolo di vita, e per parecchi giorni e parecchie notti è stata al mio capezzale facendo anche qualche cosa per papà». Allora come ora, il morbo non riesce a spezzare l’unico autentico legame al mondo, l’amore della famiglia. «La mattina del 13 io mi sentivo presso alla fine, avevo dei periodi di coma in cui desideravo la morte e incrociavo le mani, quando di tratto in tratto avevo un risveglio di soprassalto con un colpo al cuore e chiedevo un cucchiaio di caffeina che per un minuto mi dava il senso della vita. In un momento di crisi essendovi stato un allarme per me, il mio povero adorabile papà ebbe la forza sovrumana di levarsi dal letto e venire avanti al mio, non potette dirmi una parola, né fare un gesto, ma le lagrime agli occhi erano eloquenti. Lo riaccompagnarono a letto e non si mosse più, non chiedeva ne voleva nulla». Infine, sentiamo su di noi lo strazio di Italo per il padre, lo stesso dei tanti figli che hanno visto scomparire i genitori dietro le porte di una terapia intensiva per non riabbracciarli mai più. «Il rantolo era divenuto continuo e forte ed io dalla stanza a lato lo sentivo e mi opprimeva nel mio vaneggiamento il cuore ed il cervello. Mammà stava al suo fianco a letto, ma più in sentimento gli domandò: ‘Ti senti male?’. Egli accennò solo di sì con la testa. Quel giorno il tempo fu orribile, diluviava, ed il medico non venne; ha detto dopo di essersi sentito male, ma non lo credo… Verso le 8 l’infelice ebbe un breve grido soffocato, destandosi dal letargo della notte, ed il rantolo cessò: l’avevamo perduto per sempre. Mammà venne trascinata da me, e fu molto forte, perché temeva molto per me. Io la sera avevo riacquistato la lucidità, e potetti dare le disposizioni per il funerale; ma quale disastro! Quei ladri lasciarono l’infelice salma per più di 48 ore senza una cassa, con noi sempre gravi vicino».
Paolo La Torre. L’abbandono del corpo alla camera mortuaria, poi la ricerca del padre nel cimitero romano del Verano tra decine di feretri «ammonticchiati»: un identico sgomento trasforma questi centodue anni nel sussulto d’un attimo, lo choc del corteo funebre di camion militari a Bergamo. Infine, e ce ne dovremo ricordare, la vita sempre rinasce, persino con le piccole vanità di cui siamo intessuti: «Intanto sappi che ora (proprio ora) mi hanno nominato ufficiale di sussistenza (non combattente) e ho messo la divisa. Il povero papà non ha potuto avere questa consolazione, né avere quell’altra di sentire l’attuale grande vittoria e la pace, che tanto lo avrebbero rallegrato». E la pace, sì, la pace sempre ritorna, sui campi di battaglia e tra noi: «Qui l’epidemia pare in diminuzione; ora, 100 decessi al giorno: al culmine erano 200». Così le ultime righe di Italo alla sorella ci appaiono di rivoluzionaria normalità, adesso come allora: «Mandaci tue notizie di tanto in tanto anche con cartolina; come farò io; e consoliamoci se almeno la nostra salute non sarà minacciata, avendo tutti dei doveri reciproci di mantenerci in salute. Intanto abbraccio te e Nino e bacio le bambine». Perché sì, nel mondo dopo l’orrore, restano sempre loro: i baci e i bambini.
Nel 2015 quasi 5mila morti per influenza, ma nessuno ne parlò. Aldo Torchiaro de Il Riformista il 27 Febbraio 2020. Salgono a dodici le vittime del Coronavirus, mentre i contagiati arrivano a 400. Risultano ricoverate 116 persone, altre 36 in terapia intensiva, 209 in isolamento domiciliare. Snoccioliamo il bilancio di questa guerra sanitaria davanti agli occhi di Beatrice Lorenzin. La parlamentare è giovane ma ne ha già viste tante. Lorenzin è stata tra i ministri della Salute più longevi, essendo rimasta in carica dal 28 aprile 2013 al 1º giugno 2018 prima nel Governo Letta e successivamente riconfermata sia nel Governo Renzi sia nel Governo Gentiloni. Ha passato indenne più di un virus, ma rimane contagiosa: la passione per la politica anima da vent’anni questa ragazza di Ostia, mezzosangue fiorentino e mezzo istriano, e le viene riconosciuta dai diversi compagni di viaggio. È per questo vissuto che può guardare al passato con qualche parametro di riferimento. Correva l’anno 2015 quando l’ondata “No vax” investì in pieno l’opinione pubblica. Lo shitstorming su Burioni, contro i virologi, è stato travolgente. E ha impedito persino il diritto di replica. «Nell’anno clou dell’ondata No Vax, l’Istituto Superiore di Sanità ha registrato un netto calo delle vaccinazioni su tutta la popolazione», riassume per Il Riformista l’ex ministro Lorenzin, che oggi siede sui banchi del Pd a Montecitorio. «L’esito fu drammatico. Ci furono in un solo anno 4650 vittime dell’influenza, perché i soggetti protetti dalla vaccinazione stagionale erano bruscamente calati. Normalmente gli anziani debilitati che purtroppo soccombono all’influenza, ogni anno, sono circa 1200-1400 nel nostro Paese. In quell’anno furono il quadruplo. Ma la cosa non destò affatto scompiglio, anzi. Non molti diedero peso a quei numeri, che invece a me colpirono e molto». E adesso siamo alla psicosi. «L’altro giorno sono stata al supermercato di quartiere, in vista di una serata con amici a casa mia. Ho riempito il carrello con decine di bottiglie e di snack», ci racconta. «L’esito è stato paradossale: una persona mi ha visto e ha iniziato a telefonare agli amici, dicendo che l’ex ministro della Salute, evidentemente al corrente di qualche verità nascosta, stava facendo provviste per la quarantena a casa. Ed è scoppiata una psicosi di quartiere, con tanti vicini di casa che si sono precipitati nello stesso supermercato per riempirsi i carrelli». Sorride. «se avessero guardato bene nel mio, avrebbero visto che avevo soprattutto bottiglie di Coca Cola e di vino per gli invitati della sera». E rivolge un appello a «rimanere informati, adottare le corrette misure di cautela, ma non cedere al panico, che non aiuta mai». Medesimo appello («Niente panico né psicosi», hanno rivolto ieri all’Italia l’Unione europea e l’Oms, nelle vesti della commissaria europea per la Salute Stella Kyriakides e del direttore dell’Oms Europa Hans Kluge, a Roma insieme alla direttrice dell’Ecdc (Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie) Andrea Ammon per fare il punto della situazione col ministro della Salute Roberto Speranza. «Nell’Unione europea siamo ancora in una fase di contenimento», ha spiegato Kyriakides, «vista la velocità con cui si evolve la situazione, bisogna essere pronti in tutta l’Unione ad affrontare questa situazione, anche perché abbiamo avuto un numero elevato di infezioni. E stiamo lavorando per un coordinamento». Coordinamento invocato anche dal ministro Speranza che ha detto: «il virus non ha frontiere». Kluge dell’Oms ha fatto il punto su cure e vaccini: «Il tasso di mortalità al 2%, ma è sceso all’1% in Cina», ha detto, sottolineando che «anche una sola persona che muore è una persona di troppo». Kluge ha spiegato che «tutt’oggi non c’è cura efficace per questo virus, abbiamo solo trial clinici con farmaci antivirali», mentre «per sviluppare un vaccino ci vuole circa un anno e mezzo». Infine ha evidenziato l’importanza di quello che sta facendo l’Italia: «Non sappiamo tutto del virus, tutto quello che verrà fatto in Italia sarà molto importante per l’Oms e il resto del mondo per aggiornare le proprie politiche».
Roberto D’Agostino per Vanity Fair il 2 marzo 2020. A giudicare dal turbine mediatico, il Coronavirus deve avere sviluppato, per motivi di competizione con il cancro, l'infarto, l'ictus, un senso delle pubbliche relazioni abnorme, capillare, da multinazionale del virus. Non c'è giorno, giornale e telegiornale che non lanci allarmi ed emergenze. Se ne vaneggia con apprensione, spavento, scandalo, moralismo, agitando cornetti rossi e mascherine bianche; enfatizzando titoli, inventando slogan, profetizzando centinaia di milioni di appestati. Si intervistano scienziati sinistri e medici con l'occhio a forma di bara, vescovi folli e politici che ragionano col didietro; gente che prova al pensiero di una epidemia quello che noi proviamo per un viaggio a Tahiti. Si accumulano cifre terrorizzanti, serial-tivù apocalittici e immaginari, eventi tragici, storie esemplari, pettegolezzi imbarazzanti, spot macabri, superstizioni, scemenze, volgarità, smarrimenti, paranoie. Il Coronavirus ha fatto evitare addirittura la crisi del governo Conte e messo mezza Italia in quarantena, correndo il rischio di distruggere un paese già in difficoltà economiche. E fioccano i dubbi più angosciosi: "E' vero che si può prenderlo anche in tram, come il digestivo Antonetto? Ho letto che il Coronavirus si manifesta con la tosse? Ho leccato un francobollo: devo fare il test del tampone?". Che un virus abbia un debole per il presenzialismo di massa negli ospedali, un evidente entusiasmo per la conquista di schiere sempre più folte di "ammalandi", e un certo acre gusto dell'orrore nel battere la concorrenza di disgrazie enormemente più fatali come "la fame nel mondo", la mortalità infantile, l'alcolismo e il cancro, è non solo comprensibile, ma professionalmente corretto. Tuttavia, chi non è medico, prete o giornalista, ma un semplice lettore "laico", prova un pesante senso di depressione. Perché, scriveva acutamente Susan Sontag, "La nostra è un'epoca in cui si persegue la salute, e che tuttavia crede solo nella realtà della malattia". E' vero, "denunciare il problema" è importante, lancia l'allarme, aiuta a riflettere sul mondo globalizzato, dove i germi di uno colpo di tosse in Cina te li ritrovi a due passi da Milano. E' vero, però, che dall'altro lato si crea un micidiale circolo vizioso tra emozione e sdegno come capita sempre quando le informazioni sono sovrabbondanti, eccesive e contraddittorie, a una fase di interesse, poi di irrazionale paura, seguirà certamente l'indifferenza, che, quella sì, potrebbe essere pericolosa come o più della insensata paura. Ma è giusto - considerato il modesto numero dei morti - continuare a dipingere il virus come la "peste del Duemila"? E' giusto creare un macabro circolo vizioso tra l'emozione e la paura del pubblico e la volontà della stampa e della televisione di assecondarle in omaggio alla tiratura e all'audience? Il numero dei malati e dei morti di Coronavirus è senza dubbio inferiore a quello dei morti di alcolismo o di incidenti d'auto. Ogni anno in Italia muoiono 11 mila persone di polmonite. Cioè 30 al giorno. Ma sono morti “silenziose”, a luci spente, che non destano l’attenzione dei media. La causa? I classici virus influenzali che direttamente o indirettamente, cioè per complicanze respiratorie o cardiovascolari, non sono poi così tanto meno insidiosi del Covid-19 E' evidente che il Coronavirus si trovi in un periodo di ciclo vitale, perché fa parte di quei virus che hanno dei periodi di esuberanza per entrare poi in uno stato di letargo. E' come la lebbra, la peste bubbonica, il cosiddetto "cancro dei cipressi" - una specie di ondata infettiva che, ogni 8O anni, elimina gli alberi più deboli. Sono malattie cicliche; quindi può essere che del Coronavirus ci fosse stata un'altra epidemia tre secoli fa, che veniva chiamata intorcimento delle budella oppure peste viperina. Nel corso della storia ci sono sempre state delle terribili pestilenze, alcune delle quali hanno avuto delle conseguenze esiziali per l'apparato politico. Si dice che l'epidemia che colpì il regno degli Antonini, nel secondo secolo a Roma, fosse l'arrivo del morbillo; invece, la natura della famosa peste nera, che si abbatté su Bisanzio e sul Medio Oriente nel sesto secolo, è ancora avvolta dal mistero. Insomma, se ne parla poco con esattezza scientifica, ma è vissuto come l'attesa del castigo dopo il delitto, una punizione morale come la peste che colpisce Don Rodrigo nei "Promessi Sposi" o il vaiolo di Madame Merteuil in "Les liasons dangereuses".
Da L. MAR. su La Stampa il 2 marzo 2020. La peggiore catastrofe del Novecento? «Se si chiede all' uomo della strada quale sia stata, indicherà la prima o la seconda guerra mondiale. E invece no, l' influenza spagnola fece molti più morti». A parlare è Laura Spinney (nata nel Regno Unito, ma vive a Parigi), autrice del libro 1918, l' influenza spagnola. La pandemia che cambiò il mondo, pubblicato in Italia da Marsilio (da questo mese anche come tascabile, pp. 348, 11). Il grosso di quella tragedia si consumò in appena un anno, a partire dalla primavera del 1918, con un totale di morti stimato tra i cinquanta e i cento milioni, mentre quelli della Grande guerra, che allora si stava concludendo, furono in tutto diciassette milioni. Il ricordo della Spagnola scatena paure ataviche in questi tempi di Coronavirus.
Perché aveva quel nome, ebbe origine in Spagna?
«No, assolutamente. In quel momento i principali Paesi combattevano la guerra e non volevano che l' annuncio di un' epidemia avesse riflessi negativi sul morale delle truppe. A lungo non si disse nulla. La Spagna, invece, era neutrale e già nella primavera del 1918 i giornali cominciarono a scriverne. Poi il re Alfonso XIII si ammalò e questo dette una certa visibilità alla malattia».
Ma allora dove s' iniziò la contaminazione?
«Sono trascorsi cent' anni e non si è individuato il paziente zero. Alcuni ricercatori vi lavorano ancora oggi. Ci sono tre ipotesi principali: in una base militare del Kansas, in un' altra britannica nel Nord della Francia (a Etaples). Oppure la Spagnola sarebbe arrivata dalla Cina, ma c' è il sospetto che quest ipotesi, affiorata già ai tempi, sia giustificata da una buona dose di razzismo».
Colpì proprio tutto il mondo?
«Si ammalò un terzo della popolazione del pianeta, come dire 500 milioni di persone. Furono pochissimi i territori che non furono interessati dalla contaminazione. Avveniva soprattutto attraverso le navi, quelle che trasportavano le truppe della Prima guerra mondiale e ancora di più quelle postali».
Quali aree furono risparmiate?
«Alcuni luoghi sperduti come l' isola di Sant' Elena, una nel delta del Rio delle Amazzoni e l' Antartide. E soprattutto l' Australia».
Come fece un Paese così grande a difendersi?
«Si resero conto che l' influenza si propagava verso di loro dall' emisfero Nord e applicarono una quarantena marittima rigorosa. Così evitarono la seconda ondata della Spagnola, la più terribile, a partire dall' agosto 1918 fino a novembre. Ma tolsero la quarantena troppo presto e così l' epidemia arrivò in Australia con la terza ondata, nei primi mesi del 1919. E provocò 12 mila morti».
È incredibile come la Spagnola, sconvolgente, sia stata dimenticata.
«È vero, ad esempio rispetto ai grandi conflitti. Ma una guerra è più facile da raccontare: ci sono i cattivi e i suoi eroi. Anche se, pure nel caso dell' influenza spagnola, gli eroi ci furono, i medici che s' impegnarono a combatterla».
Cosa dice il ricordo della Spagnola ai nostri tempi, quelli del Coronavirus?
«L' Oms non ha ancora dichiarato la pandemia, anche se resta possibile. In ogni caso il virus della Spagnola è di una famiglia diversa rispetto a quello del Covid-19, che invece fa parte dello stesso gruppo di quello della Sars. Diciamo che un virus può sempre avere un' evoluzione e mutare: cambiare e adattarsi. L' esempio della Spagnola è interessante. La prima ondata non fu così forte, simile a un' influenza stagionale particolarmente virulenta. Ma poi il virus mutò e la seconda ondata fu molto peggiore, terribile. Nel caso di un virus, bisogna sempre stare attenti all' evoluzione».
Cosa successe allora? Alla seconda ondata i medici erano più preparati?
«No, per niente. Anzi, inizialmente pensarono che non si trattasse dello stesso ceppo, dato che era molto più letale. In tanti la scambiarono per un' epidemia di tifo».
Diciamo comunque che oggi diversi centri di ricerca sono già al lavoro per arrivare a un vaccino anti-coronavirus.
«Sì, ma esiste anche un' avversione da parte di alcuni nei confronti della vaccinazione. Il fenomeno dei No Vax, tipico dei nostri tempi, sebbene minoritario, potrebbe comportare grossi problemi, nel caso il coronavirus diventasse una vera epidemia».
Oggi, rispetto alla Spagnola, l' informazione circola e questo è un bel vantaggio.
«Sì, sicuramente, grazie soprattutto a Internet. Il fatto che per l' influenza spagnola, almeno agli inizi, certi governi fecero finta di nulla e non presero le misure necessarie fu un errore madornale. Oggi, però, oltre all' informazione vera circolano anche le fake news. E la prima spesso è a pagamento, le seconde gratuite».
Morte sull'Acropoli: la peste ad Atene. Nel quinto secolo a. C. lo statista Pericle e il suo amico scultore Fidia furono le vittime più illustri di un'epidemia misteriosa che seminò strage intorno al Partenone da poco inaugurato. La morte di centomila cittadini dell'Attica segnò le sorti della guerra contro Sparta. Gianfranco Turano il 29 aprile 2020 su L'Espresso. Nel 430 avanti Cristo si combatte il secondo anno della guerra del Peloponneso. È la fase iniziale di una guerra feroce fra la democratica Atene e l'oligarchica Sparta, che spacca in due schieramenti la Grecia per 28 anni. È uno scontro di civiltà e di modelli politici. Nel 403, quando gli Ateniesi si arrendono, decenni di distruzioni mettono fine all'età dell'oro delle città-stato, della politica, della filosofia, delle arti. Nel 430 Atene è ancora all'apice della sua potenza. A guidarla è uno dei politici più geniali del mondo antico, Pericle di Santippo, discendente dalla nobile famiglia degli Alcmeonidi ma convertito al credo rivoluzionario della democrazia che prescrive uguaglianza di fronte alla legge per tutti i cittadini. Nella polis ateniese il sessantenne Pericle occupa la carica elettiva e collegiale di stratego e ha stabilito le linee guida della guerra contro Sparta. Le descrive il suo concittadino Tucidide. Il padre della storia moderna ha trent'anni nel 431-430 ed è inquadrato nell'esercito, costituito integralmente da cittadini e dagli alleati-tributari di Atene raccolti nella Lega delio-attica, un modello di tipo imperialistico che sarà grosso modo imitato secoli dopo dal Commonwealth britannico. La condotta bellica decisa da Pericle, che Tucidide ammira profondamente, è semplice. Atene, potenza marittima, non deve accettare lo scontro in campo aperto con gli opliti spartani che, in quel momento, sono la forza militare di terra più temibile del mondo conosciuto, come hanno imparato a loro spese i re di Persia qualche decennio prima al tempo della grande alleanza panellenica. Atene quindi abbandona l'interno dell'Attica alle forze di invasione peloponnesiache, guidate dal re spartano Archidamo di Zeuxidamo. Gli abitanti dell'entroterra attico (mesogheia) sono invitati a rifugiarsi in città dove sono protetti dalle Lunghe Mura, una fortificazione insuperabile realizzata cinquant'anni prima da Temistocle che unisce la città alta con il porto del Pireo (10 chilometri circa). La strategia di Pericle non si limita alla difensiva. Nel 431, mentre gli spartani devastano l'Attica, dal Pireo parte una spedizione navale che porta le stesse distruzioni a casa dell'avversario, nel Peloponneso. L'impossibilità di sopravvivere a lungo nella terra bruciata e la necessità di difendere le proprie città inducono gli spartani a ritirarsi alla fine della prima estate di conflitto (431) nei quartieri invernali di Corinto. Nell'estate del 430, però, l'invasione dell'Attica ricomincia. Pochi giorni dopo, nella città affollata di profughi, si diffonde un contagio che nessun medico riesce a comprendere o a curare e che presto riempie case e strade di morti. La descrizione del loimós, la pestilenza che si abbatte su Atene, occupa la parte centrale del secondo libro della storia della guerra del Peloponneso di Tucidide, appena dopo l'epitaffio che Pericle dedica ai morti del primo anno di battaglia e che lo statista trasforma in una straordinaria esaltazione del sistema democratico ateniese. L'origine del contagio è forse Lemno, isola egea alleata di Atene, o più probabilmente l'Africa. Di sicuro, la porta d'ingresso è il Pireo. Tucidide riporta, senza abbracciare la tesi, la voce che gli spartani avrebbero avvelenato i pozzi della zona portuale scatenando la guerra batteriologica. La paranoia dell'untore si presenta per la prima, ma non per l'ultima volta, fra gli ateniesi in guerra. La città non potrebbe essere in una situazione peggiore rispetto a un'epidemia. I suoi abitanti sono arrivati a circa 300 mila a causa dell'enorme afflusso di sfollati dalle campagne. I contadini che gli ateniesi di città prendono in giro per il loro accento occupano baracche e alloggi di fortuna in condizioni igieniche pessime. La trasformazione dei civili in soldati ha conseguenze pesanti per tutte le attività economiche e commerciali sulle quali Atene prosperava e che sono in piena recessione. I principali raccolti estivi, a incominciare dal grano, sono persi o distrutti dal nemico. La fuga dal focolaio dell'epidemia, una delle costanti storiche di ogni pestilenza, è resa impossibile dalla presenza dell'esercito invasore a breve distanza dalle Lunghe Mura. Non è un assedio in senso proprio anche perché gli Spartani vengono presto a sapere del morbo. Si tengono a debita distanza e preferiscono dedicarsi al saccheggio delle miniere di argento del Monte Laurio, circa cinquanta chilometri a sud di Atene. Per alleggerire la pressione Pericle ordina e spesso guida operazioni di disturbo. Una spedizione composta da quattromila opliti (fanteria pesante) e trecento cavalieri caricati su centocinquanta navi attacca senza successo Epidauro nel Peloponneso mentre un altro stratego, Agnone, assedia Potidea nella penisola Calcidica. Agnone ottiene la resa ma a carissimo prezzo. Le truppe di rinforzo arrivate da Atene portano il contagio che fa più strage del nemico uccidendo 1050 opliti, circa un quarto delle truppe. Di nuovo, bisogna sottolineare che i caduti sono tutti cittadini e che gli eserciti dell'epoca non prevedono la partecipazione dei mercenari. Quando le truppe ateniesi rientrano, gli spartani hanno abbandonato l'Attica dopo quaranta giorni di occupazione, pronti a una nuova invasione l'anno seguente. È troppo alto il rischio di rientrare nei quartieri invernali con la pestilenza al seguito.
Il mistero della peste. Il morbo che passa alla storia come la peste di Atene è un mistero della patologia. Le ipotesi degli studiosi sul loimós tucidideo riempiono volumi. Si è pensato alla peste bubbonica, al tifo petecchiale, alla salmonella enterica (febbre tifoide), al vaiolo, al morbillo, all'ergotismo sviluppato da granaglie infette, al cimurro, a malattie epizootiche varie, a febbri emorragiche di provenienza africana (Ebola, Lassa), all'influenza e, infine, a una combinazione fra alcune delle malattie elencate. Il motivo dell'incertezza è nella descrizione sintomatologica offerta da Tucidide che non solo è il padre della storia moderna con il suo metodo dell'autopsia (osservazione diretta dell'evento attraverso documenti e testimonianze) ma nel caso del loimós è egli stesso parte della ricostruzione autoptica poiché è un sopravvissuto del morbo (“io stesso ne fui affetto”). Purtroppo i sintomi che descrive sono così vasti e caotici da non rientrare con esattezza in nessun quadro clinico preciso. Si va dallo squilibrio mentale alla depressione, dalle emorragie alla diarrea, dalla cancrena all'amnesia. Altri sintomi distintivi, come i bubboni del batterio Yersinia pestis o come le macchie tipiche del vaiolo, sono invece assenti. Senza troppo addentrarsi nel dibattito scientifico ancora molto controverso, si possono segnalare un elemento archeologico e uno storico. Nel 1995 gli scavi delle fosse comuni nel quartiere ateniese del Ceramico, a nord dell'Acropoli, hanno consentito l'esame di alcuni cadaveri risalenti all'era del grande loimós. Gli esami delle gengive e dei denti hanno mostrato tracce compatibili con la salmonella enterica o la febbre tifoide, da non confondere con il tifo. Della letalità della Salmonella enterica si è già parlato nell'articolo sulla conquista delle Americhe dove l'epidemia di febbre tifoide, a metà del Cinquecento, fece milioni di morti fra i nativi. L'elemento storico che rende probabile l'origine africana del loimós, oltre alla ricostruzione dello stesso Tucidide, è la frequenza dei rapporti fra Atene e paesi come l'Egitto, la Libia, l'Etiopia che spediscono merci preziose introvabili in Europa. Nel 438, otto anni prima della peste, Fidia aveva realizzato e installato nella cella interna del Partenone la colossale statua crisoelefantina di Atena Parthenos combinando l'oro e l'avorio delle zanne degli elefanti. Due anni dopo (436), il genio della scultura e amico di Pericle diede il bis con la statua di Zeus a Olimpia. Le due statue, che non esistono più in originale, erano alte oltre 12 metri e hanno richiesto tonnellate di materiali contribuendo a intaccare pesantemente il tesoro delio-attico, in teoria cassa comune della Lega, in pratica deposito fiduciario degli alleati gestito da Atene e investito per le architetture religiose monumentali dell'Acropoli. Il legame degli ateniesi con il divino è contraddittorio ed estremistico come tutto in Atene. Tucidide il razionalista non prende in considerazione, se non per la cronaca, profezie, presagi, scongiuri e altre pratiche che per lui sono superstizioni. L'eclisse solare che molti ateniesi accolgono come annuncio di sventura viene scientificamente spiegata dal filosofo razionalista Anassagora, il precettore di Pericle che la cittadinanza ringrazierà, in modo molto tipico, con l'accusa di empietà e l'esilio. Fidia viene invece accusato di malversazione dei fondi statali e di blasfemia per essersi raffigurato sullo scudo di Atena. Assolto dalla corruzione, viene condannato per il secondo reato e muore in carcere nel 430, probabilmente vittima del morbo che non risparmia i prigionieri. Di fronte alla catastrofe gli Ateniesi non lasciano nulla di intentato per placare l'ira degli dei. Il governo della città decide una delle più grandi sanificazioni del mondo antico. Il luogo prescelto non è Atene, dove la situazione del contagio è disperata. La purificazione consigliata dall'oracolo di Delfi si svolge a Delo, l'isola delle Cicladi dove viene custodito il tesoro della Lega delio-attica. Prima di essere un simbolo politico, Delo ha un significato religioso. È sede del maggiore santuario panellenico dedicato al culto di Apollo, il dio che nel primo libro dell'Iliade scatena la sua ira sull'esercito acheo che assedia Troia e che ha mancato di rispetto al suo sacerdote Crise. Apollo, attraverso il suo arco letale, manda la pestilenza: “lanciò sugli Achei mala freccia, così gli uomini morivano gli uni sugli altri, volavano i dardi del dio da tutte le parti”. Secoli dopo, per sfuggire a un altro contagio, gli Ateniesi riesumano tutti i sepolti a Delo e li portano nell'isoletta vicina di Renea insieme agli ammalati. “Proclamarono”, scrive Tucidide (III, 104), “che da allora in poi nessuno morisse e nessuna donna partorisse a Delo”. Di qualunque patologia si trattasse, Tucidide non si limita a descriverne gli effetti corporei. La peste è presentata come un disgregatore formidabile del tessuto sociale, dei costumi e delle leggi. Lo scoraggiamento di fronte alla totale mancanza di una cura e alla mortalità elevatissima che colpisce i medici, i cittadini mostrano di non avere più “nessun timore degli dei o della legge umana”. Le infrazioni e i reati si moltiplicano perché nessuno si aspettava di vivere fino a rendere conto dei suoi misfatti e pagarne il fio”. Si allentano i rapporti di una società dove la dimensione pubblica era essenziale. “Per timore non volevano recarsi l'uno dall'altro, morivano abbandonati e molte case furono spopolate”. Alla mente razionale greca non sfugge il concetto che oggi è definito immunità anticorpale: “Il morbo non colpiva la stessa persona una seconda volta in modo mortale”. Quelli che sopravvivevano e acquisivano l'immunità “erano considerati felici dagli altri e loro stessi per la gioia del momento avevano la vana speranza di non essere più uccisi da nessun'altra malattia”. Ma la letalità rimane altissima. “Molti usavano metodi di sepoltura indecenti” prosegue Tucidide, “mentre un cadavere ardeva, vi gettavano sopra quello che portavano e se ne andavano”. I contagiati sembrano impazziti. Vengono presi da un tale bruciore interno che circolano nudi e si tuffano nell'acqua gelida. I morti abbandonati per strada vengono divorati da cani e uccelli che dopo poco spariscono, sterminati dalle tossine dei cadaveri infetti. Fiducia confermata. La peste del 430 sembra dare un colpo definitivo al potere di Pericle che si presenta in assemblea a perorare la sua linea bellicista contro chi vuole trovare un accordo di pace con gli spartani. Tucicide riporta anche questo discorso subito dopo avere raccontato la strage del morbo che uccide “come le pecore” (osper ta pròbata) almeno un terzo dei residenti in Atene e che si spegnerà soltanto nel 426. Pericle rischia di finire sotto processo e viene multato. “Poco dopo”, scrive Tucidide, “come di solito fa il popolo, lo rielessero stratego e gli affidarono tutti gli affari pubblici perché erano stati resi più miti per quanto riguarda le sciagure private”. Ma i lutti privati non hanno finito di colpire Pericle. Muoiono in successione sua sorella e i due figli legittimi Santippo e Paralo. Nel 429 lo stesso Pericle soccombe al contagio. Sopravvive alla pestilenza soltanto il suo terzo figlio, Pericle il giovane, che al tempo è un bambino di dieci anni. Lo statista lo ha avuto dalla sua compagna, l'etera Aspasia, dopo la separazione dalla moglie. Pericle junior ottiene la cittadinanza pur non essendo, come la legge prescrive, figlio di due ateniesi (Aspasia è di Mileto in Asia minore). Sopravviverà alla peste, crescerà nella città in guerra e diventerà navarco (ammiraglio). La sua vittoria alle Arginuse nel 406 costerà a lui e ad altri ufficiali un processo per avere abbandonato i naufraghi. Pericle il giovane sarà condannato a morte in uno degli episodi più sconcertanti nella storia della democrazia ateniese. Ma già vent'anni prima la morte di suo padre e la peste avevano indirizzato le sorti della guerra del Peloponneso. Prima di risentire parlare di democrazia nel mondo passeranno un paio di millenni.
Cosa può insegnarci la peste nera del ‘300 sulle conseguenze economiche globali di una pandemia. Adrian R. Bell, Andrew Prescott, Helen Lacey, The Conversation il 22 marzo 2020 su it.businessinsider.com. Le preoccupazioni suscitate dalla diffusione del nuovo coronavirus si sono tradotte in un rallentamento dell’economia. Le borse hanno accusato il colpo: il britannico FTSE 100 ha visto i suoi peggiori giorni di contrattazioni in molti anni e lo stesso è valso per il Dow Jones e S&P negli USA. I soldi devono andare da qualche parte e il prezzo dell’oro – considerato un prodotto sicuro in occasione di periodi estremi – ha raggiunto il livello massimo degli ultimi sette anni. Rileggere la storia può aiutarci a considerare gli effetti economici delle emergenze di salute pubblica e il modo migliore per affrontarle. Nel farlo, è importante ricordare che le pandemie del passato erano molto più letali del coronavirus, che ha un tasso di mortalità relativamente basso. Senza la medicina moderna e istituzioni quali l’Organizzazione mondiale della sanità, le popolazioni del passato erano molto più vulnerabili. Si è stimato che la Peste di Giustiniano del 541 abbia ucciso 25 milioni di persone e la Influenza spagnola del 1918 circa 50 milioni. Il peggior tasso di mortalità in assoluto nella storia è stato inflitto dalla Peste nera. Provocata da diverse forme di peste, durò dal 1348 al 1350, uccidendo in tutto il mondo tra i 75 e i 200 milioni di persone, e forse metà della popolazione inglese. Anche le conseguenze economiche furono gravi.
"Rabbia, antagonismo, creatività". Potrebbe sembrare controfattuale – e non dovrebbe comunque minimizzare la crisi psicologica ed emotiva causata dalla Peste nera – ma la maggioranza delle persone che sopravvissero godettero di standard di vita migliori. Prima della Peste nera, l’Inghilterra soffriva di grave sovrappopolazione. In seguito alla pandemia, la scarsità di manodopera portò a un aumento dei salari giornalieri dei lavoratori, che potevano lavorare dal miglior offerente. E la dieta dei lavoratori migliorò includendo più carne, pesce fresco, pane bianco e birra. Anche se i latifondisti faticavano a trovare contadini, le variazioni delle forme di conduzione migliorarono la produzione delle terre e la sua redditività. Ma il periodo seguente alla Peste nera fu, secondo lo storico dell’economia Christopher Dyer, un periodo di “agitazione, esaltazione, rabbia, antagonismo e creatività”. L’immediata reazione del governo fu di frenare la tendenza economica di domanda e offerta. Era la prima volta che un governo inglese cercava di microgestire l’economia. Lo Statuto dei lavoratori fu approvato nel 1351 nel tentativo di riportare i salari ai livelli precedenti l’epidema e di limitare la libertà di movimento dei lavoratori. Furono introdotte altre leggi per controllare il prezzo del cibo e addirittura per limitare il numero di donne che potevano indossare tessuti costosi. Ma questo tentativo di regolare il mercato non funzionò. L’applicazione della legislazione sul lavoro portò al suo aggiramento e a proteste. Sul lungo periodo, i salari reali aumentarono perché il livello della popolazione ristagnava a causa dei periodici focolai di peste. I proprietari terrieri faticarono a venire a patti con i cambiamenti nel mercato fondiario derivanti dalla perdita di popolazione. In seguito alla Peste nera si verificò una migrazione di massa, dato che le persone approfittarono delle opportunità di spostarsi in terre migliori o d’intraprendere attività commerciali nelle città. La maggior parte dei latifondisti fu costretta a offrire patti più vantaggiosi affinché i contadini si occupassero delle loro terre. Emerse una nuova classe media di uomini (praticamente sempre uomini). Si trattava di persone che non erano nate tra i proprietari terrieri ma che riuscivano a guadagnare abbastanza ricchezza in eccedenza da acquistare appezzamenti di terreno. Ricerche recenti hanno mostrato come la proprietà dei terreni si aprì alle speculazioni di mercato. Il drammatico cambiamento nella popolazione causato dalla Peste nera portò anche a un’esplosione nella mobilità sociale. I tentativi del governo di limitare questi sviluppi seguirono e provocarono a loro volta tensioni e risentimento. Nel contempo, l’Inghilterra era in guerra contro la Francia e aveva bisogno di grandi eserciti per le sue campagne d’oltremare. Questi necessitavano sovvenzioni e provocarono in Inghilterra una maggiore tassazione su una popolazione diminuita. Il parlamento del giovane Riccardo II escogitò l’innovativa idea di un’imposta punitiva sulle persone, il testatico, nel 1377, 1379 e 1380, portando direttamente a disordini sociali che sfociarono nella Rivolta dei contadini del 1381. Questa rivolta, la più grande mai vista in Inghilterra, fu una diretta conseguenza dei periodici focolai di peste e dei tentativi da parte del governo di rafforzare il controllo sull’economia e perseguire le proprie ambizioni internazionali. I ribelli affermavano di essere gravemente oppressi e che i propri signori li “trattavano come bestie”.
Lezioni per oggi. Anche se la Peste nera fu davvero molto diversa dal coronavirus che si sta diffondendo oggi, ci sono alcune importanti lezioni da trarre per la futura crescita economica. Primo, i governi devono fare molta attenzione a gestire le ricadute economiche. Mantenere lo status quo per gli interessi acquisiti può innescare disordini e volatilità politica. Secondo, restringere la libertà di movimento può provocare una reazione violenta. Per quanto tempo la nostra moderna e mobile società acconsentirà alla quarantena, anche se per un bene maggiore? Inoltre, non dovremmo sottovalutare la reazione psicologica impulsiva. La Peste nera vide un amento di aggressioni antisemite e xenofobe. La paura e il sospetto verso gli stranieri cambiarono i modelli commerciali. Col volgere al termine dell’attuale emergenza di salute pubblica ci saranno vincitori e sconfitti da un punto di vista economico. Nel contesto della Peste nera, le élite cercarono di rafforzare il proprio potere, ma il cambiamento della popolazione sul lungo periodo impose un certo riequilibrio a vantaggio dei lavoratori, sia in termini di salari e mobilità, sia nell’apertura di nuovi mercati per la terra (la principale fonte di ricchezza dell’epoca) a nuovi investitori. Il declino della popolazione incoraggiò anche l’immigrazione, pur se per lavori poco qualificati o malpagati. Sono tutte lezioni che rafforzano la necessità di reazioni misurate e attentamente studiate da parte dei governi attuali. Questo articolo è tradotto da The Conversastion.
L’oracolo Manzoni. Gigi Brandonisio su odysseo.it l'8 Aprile 2020. La letteratura è finzione e, come tale, menzogna. Tuttavia, attraverso la menzogna, essa indaga a fondo l’animo umano evidenziandone alcune inclinazioni che sembrano non patire il passare del tempo. In queste settimane, in cui l’epidemia monopolizza l’informazione, non sono mancati continui riferimenti a testi letterari incentrati sul tema, come il Decameron di Boccaccio o La peste di Albert Camus. Ma è nei Promessi Sposi di Alessandro Manzoni, in particolare nei capitoli trentuno e trentadue dedicati alla peste, che si possono rilevare una serie di interessanti analogie con l’esperienza attuale che sorprendono non tanto per la similitudine dei fatti quanto dei comportamenti umani. Manzoni racconta la peste del XVII secolo a Milano. La peste arriva in Lombardia con le bande alemanne, in perfetta analogia con il presunto arrivo dalla Germania del primo caso di contagio da Covid-19, per poi diffondersi: invase e spopolò buona parte d’Italia. Scorrendo le pagine del romanzo si scopre che il morbo viene dai più inizialmente sottovalutato e scambiato per un male di stagione senza che vengano adottati gli opportuni provvedimenti di contenimento. Tra i pochi che si accorgono della gravità dell’infezione c’è il protofisico Lodovico Settala, stimato esperto in materia, una sorta di Roberto Burioni ante litteam. Come Burioni, che per tempo si era affrettato a dire “meglio sopravvalutare il problema che sottovalutarlo”, anche Settala prova a far capire alle autorità la gravità della situazione ma nessuno lo ascolta. Come allora anche oggi si è parlato di una banale influenza. Il tempo passa e i contagi aumentano in un clima di totale menefreghismo che non può non rimandare la memoria alle sciagurate immagini della campagna #milanononsiferma con i vari Zingaretti, Salvini e Sala immortalati in pose non propriamente inneggianti al distanziamento sociale. A secoli di distanza i governanti peccano dunque nuovamente di superbia, contribuendo in maniera decisiva alla diffusione del virus: incentivano gli assembramenti invece di vietarli, nel vano tentativo di inseguire ill mito dell’eterno profitto, commettendo un tragico errore al pari del racconto manzoniano quando il governatore Ambrogio Spinola organizza pubblici festeggiamenti per la nascita del principe Carlo, figlio del re Filippo IV infischiandosene del pericolo, come se non gli fosse stato parlato di nulla. Manzoni sottolinea come le autorità sanitarie e politiche di Milano mostrassero un’incredibile negligenza nell’applicare le minime misure di prevenzione per evitare che il contagio si propagasse alla città, al punto che la grida che imponeva il cordone sanitario non fu emanata che il 29 novembre, oltre un mese dopo i primi casi riconosciuti, quando ormai la peste era già entrata a Milano. Un film che sembra essersi ripetuto anche nell’epidemia (oramai pandemia) del Covid-19, con una serie di repliche anche a livello internazionale. A dirla tutta, Manzoni annota con sorpresa anche il comportamento dei cittadini che, soprattutto nei luoghi in cui il contagio non è ancora arrivato, appaiono per nulla spaventati, perpetrando comportamenti tutt’altro che avveduti, nonostante le notizie della vicina pestilenza e domandandosi incredulo: chi non crederebbe che vi si suscitasse un movimento generale, un desiderio di precauzioni bene o male intese, almeno una sterile inquietudine? Sembra di ascoltare l’ormai ultra noto Burioni che blasta la gente: “Ho la sensazione che molta, troppa gente non abbia capito con che cosa abbiamo a che fare. Forse alcuni messaggi troppo tranquillizzanti hanno causato un gravissimo danno inducendo tanti cittadini a sottovalutare il problema. Non va bene, non va bene, non va bene. La gente in questo momento deve stare a casa”. Le misure restrittive, pur tardive, infine arrivano per entrambe le epidemie ma il contagio appare inarrestabile. Le persone fuggono in campagna (oggi al sud) per sfuggire alla pestilenza che avanza inesorabile; le vittime giornaliere sono oltre cinquecento come quelle comunicate nel quotidiano bollettino pomeridiano a reti quasi unificate; i posti nei lazzaretti non bastano e occorre costruirne di nuovi come oggi è necessario costruire nuovi ospedali e nuovi reparti di terapia intensiva; non ci sono medici a sufficienza e se ne cercano altri proprio come avvenuto con la call del Dipartimento di Protezione Civile per medici e infermieri; le fosse comuni non bastano più per seppellire i morti e se ne scavano di nuove proprio come il forno crematorio di Bergamo non riesce a smaltire i cadaveri costringendo l’esercito a trasportare in altre città le bare da cremare, con l’immagine dei mezzi militari in fila, in silenziosa processione che si trasforma nell’immagine della tragedia. L’epidemia porta con sé anche numerosi esempi di carità cristiana ed esempi di malvagità. Tra i primi rientrano sicuramente i parroci, preti e cappuccini, che, in assenza di medici, si distinguono per l’infaticabile lavoro nei lazzaretti al capezzale degli ammalati pagando un prezzo altissimo: più di sessanta parrochi morirono di contagio. Numeri che impressionano perché pressoché identici non solo a quelli dei medici scomparsi a causa del Covid-19 ma, anche, ai sacerdoti deceduti e rimasti a guidare le proprie comunità. Ma la paura genera sospetto e il popolo spaventato, in un periodo pieno zeppo di superstizioni come il seicento, cerca i colpevoli del contagio, gli untori. Si moltiplicano gli episodi di malvagità e di violenza gratuita come nel caso, descritto nel romanzo, dei tre francesi malmenati per aver accarezzato in modo sospetto il marmo di una delle pareti del Duomo e che fa perfettamente il paio con i numerosi episodi di violenza registrati nelle scorse settimane nei confronti di cittadini di origine cinese accusati di essere portatori, e quindi untori, del virus. Ancora, nel racconto della pestilenza seicentesca non meno assurde e fantastiche sono le teorie riguardanti la responsabilità delle stelle comete o dei pianeti come Saturno e Giove, nello scoppio dell’epidemia, o circa i veleni, gli unguenti, le pozioni e stregonerie varie che si possono usare per diffondere il morbo e che ben si possono paragonare con le odierne fake news che circolano incontrollate, facendo disinformazione sull’origine del virus e la sua presunta creazione in laboratorio, sui motivi economici della sua diffusione, sull’efficacia dell’aglio per tenerlo lontano, sull’efficacia della vitamina C, della vitamina D, delle bevande calde e chi più ne ha più ne metta. Una vera e propria infodemia in grado di generare solo confusione. Il gioco delle analogie – perché di questo si tratta, un gioco – potrebbe essere ancora lungo oppure rovesciarsi per analizzare le tante differenze che, per ovvie ragioni, sussistono tra le due vicende. Ma, affinché tutte queste parole non rimangano un mero esercizio di stile, occorre puntualizzare che il gioco vale la candela solo se si impara che siamo fatti di memoria labile e ballerina. Mai come oggi ci sentiamo fragili, soli ed esposti alle intemperie che la vita ci riserva. L’invisibile ammanta di incertezza il futuro. Bisognerà ricordare tutti gli errori, le paure e le analogie col passato con lo stesso spirito con cui si istituiscono le giornate della memoria o del ricordo: affinché gli anticorpi siano già pronti al primo segnale di malattia.
Vengono da Manzoni le nuove sindromi psico-caratteriali da Coronavirus. Hanno i nomi dei personaggi dei Promessi Sposi perché è il più grande romanzo italiano e in esso riconosciamo noi stessi e le persone che ci stanno attorno. Stefano Albertini su lavocedinewyork.com il 31 Marzo 2020. Questo divertimento letterario mi ha distratto dalla tragica cronaca quotidiana di un assedio sempre più vicino, mi ha fatto rileggere alcune delle pagine più belle del romanzo e mi ha convinto sempre di più della grandezza di Manzoni non solo nel produrre la prosa più alta della nostra letteratura moderna, ma anche nell’analizzare le pieghe più recondite dell’animo umano. Oggi non parlerò di Coronavirus. Di questi tempi, anche le soubrettes dicono la loro sul virus, la sua genesi e le sue cure; quindi io mi asterrò. Vi parlerò invece di sindromi che secondo la definizione del Dizionario della Salute sono “complessi di sintomi che si presentano associati in modo da configurare un quadro [morboso] caratteristico”. Le sindromi che vi presenterò sono di tipo psicologico o caratteriale e le ho visto svilupparsi in maniera esponenziale in queste settimane. Le ho chiamate col nome dei personaggi dei Promessi Sposi perché è il più grande romanzo italiano e in esso riconosciamo noi stessi e tante delle persone che ci stanno vicino. Sono sicuro che anche voi diagnosticherete una o più di queste sindromi a voi stessi e ai vostri parenti e amici. Se me ne sono dimenticata qualcuna, fatemelo sapere e verrà aggiunta al nostro manuale. Avvertenza: il presente testo non ha alcun valore scientifico. Si tratta di un divertissment da clausura ed è il risultato di una collaborazione tra l’autore, una consulente letteraria, manzoniana sfegatata (Bianca Mussini), e un brillante grafico creativo (Francesco Maria Mussini).
Sindrome di don Ferrante. Il pedante con le fette di salame sugli occhi che ha letto molti libri, ma ha imparato poco della realtà. L’uomo a cui una cultura libresca fa da schermo e impedisce di vedere le cose come sono. Don Ferrante è un personaggio secondario, ma Manzoni ci tiene a descrivere dettagliatamente la sua fine. Con l’avvicinarsi della pestilenza, don Ferrante, deride i suoi contemporanei preoccupati e facendosi forte dell’autorità di Aristotele sostiene che non essendo la peste né sostanza, né accidente, essa non esiste e così che “non prese nessuna precauzione contro la peste; gli s’attaccò; andò a letto, a morire, come un eroe di Metastasio, prendendosela con le stelle.” (cap. 37) Gli individui affetti da sindrome di don Ferrante, detti anche negazionisti, erano quelli che, soprattutto agli inizi dell’epidemia di Coronavirus sostenevano che si trattasse di comune influenza o che fosse frutto di una gigantesca montatura mediatica. Gli affetti da questa sindrome sono rimasti pochi, ma rimangono molto agguerriti.
Sindrome di don Rodrigo. Di don Rodrigo, il cattivo del romanzo, Manzoni ci dice che, durante la pestilenza, passava il tempo con “amici soliti a straviziare insieme, per passar la malinconia di quel tempo” (cap. 33). È il gaudente impenitente che esorcizza la paura con il vino e la crapula. Sono severamente affetti da sindrome di don Rodrigo i fighetti milanesi che hanno affollato i navigli nelle precedenti settimane e i dabben giovani che hanno riempito le piazze e i bar di tutta Italia sbevazzando spritz e aperitivi, spiattellattondoli su Instagram, fino a quando non è stato espressamente proibito dalle autorità, anche se era stato già vivamente sconsigliato dai sanitari. Non si sa se per effettiva guarigione degli individui affetti o come conseguenza delle misure restrittive, ma fortunatamente la sindrome di don Rodrigo è quasi scomparsa oggi in Italia.
Archetipo di fra Cristoforo. Quella di fra Cristoforo non è una sindrome e non è una patologia, è piuttosto un archetipo, cioè un modello, un esemplare. Il personaggio manzoniano, forse basato su un personaggio storico realmente esistito (fra Cristoforo Picenardi da Cremona), rappresenta la dignità, il coraggio, l’eroismo cristiano. Dopo una giovinezza di agi conclusa da un duello per futili motivi in cui uccide l’avversario, Ludovico si fa frate cappuccino e dedica la sua intera vita ad aiutare, confortare, sostenere i poveri che incontra sul suo cammino. Morirà prendendosi cura degli appestati del lazzaretto di Milano. Senza ironia e senza retorica, direi che fra Cristoforo rappresenta il modello per tutte le infermiere, gli infermieri, gli operatori sanitari e i medici che stanno facendo fronte all’epidemia di Coronavirus con turni massacranti, settimane di isolamento volontario e un livello di rischio altissimo nonostante le misure di protezione. A loro va la nostra ammirazione e la nostra gratitudine. E Manzoni sarebbe d’accordo.
Sindrome di Don Abbondio. Il curato fifone è l’ecclesiastico che sta agli antipodi di fra Cristoforo. Il suo rifiuto di celebrare il matrimonio tra Renzo e Lucia, per paura di rappresaglie da parte di don Rodrigo, è l’inizio di tutte le disavventure della giovane coppia. La paura è la condizione esistenziale di don Abbondio: ha paura delle minacce dei bravi, ha paura dell’ira di Renzo, ha paura del rimprovero del Cardinale, ha paura del contagio della peste. Le sue paure si trasformano spesso in fobia, “pauraccia” la chiama Manzoni. La paura di per sé è una reazione normale e umana ad un pericolo imminente, ed è spesso indispensabile per far scattare l’istinto di sopravvivenza. Per fare un esempio di oggi, se la paura del contagio da coronavirus ci spinge a stare in casa, è saggia consigliera e va ascoltata. Ma la “pauraccia” (o fobia) di don Abbondio lo spinge a prendere decisioni egoistiche e irrazionali, che spesso comportano conseguenze disastrose per gli altri. Gli effetti da sindrome di don Abbondio nell’attuale situazione di emergenza possono essere identificati tra gli accumulatori compulsivi (hoarders) che ritroviamo in fila nei supermercati coi carrelli straripanti di carta igienica e bottiglie d’acqua, due generi che non hanno nessun legame specifico con l’epidemia da coronavirus. Tutti ormai sanno, anche gli affetti da sindrome di don Abbondio, che dissenteria e diarrea sono sintomi del colera, ma non del Covid19, e tutti sappiamo che l’acqua delle città italiane è controllatissima, sicura, spesso buona da bere e può tranquillamente sostituire quella in bottiglia. Le pauracce e le fobie ,però, a differenza della paura, causano comportamenti egoistici che danneggiano gli altri. Come il pavido rifiuto di don Abbondio di celebrare il matrimonio è la causa diretta di tutte le sventure dei fidanzati, l’accumulazione insensata di merce nei supermercati fa sì che gli altri ne restino completamente sprovvisti.
Sindrome di Perpetua. La domestica di don Abbondio è diventata così famosa da aver dato il suo nome ad una professione. È una donna del popolo, saggia e dotata di grande buon senso, le piace chiacchierare e dare pareri mai richiesti e raramente ascoltati. È una variante della sindrome di Cassandra che è stata identificata dagli psicologi come un comportamento ossessivo maniacale che porta a prevedere sempre per il futuro eventi disastrosi sia per sé che per gli altri (attenzione, questa è una sindrome vera e studiata, non inventata da me). La Cassandra del mito era una principessa troiana così bella che il dio Apollo si innamorò di lei e le donò la capacità di profetizzare il futuro. Indispettito dal suo rifiuto, Apollo non le tolse il dono che le aveva già fatto, ma la condannò a non essere creduta. Cassandra avvertì i suoi concittadini che il cavallo di legno era pieno di soldati greci e, come si sa, il loro rifiuto di ascoltarla ebbe come conseguenza ultima la distruzione di Troia. Perpetua è una donna umile, non profetizza, ma è in grado di prevedere cosa succederà e di suggerire come evitarlo con consigli basati su ragionamenti semplici e diretti. Ma il destino della principessa troiana e della domestica lombarda è lo stesso: non essere credute e ascoltate. Perpetua spiega esattamente al suo ‘padrone’ cosa dovrebbe fare dopo le minacce di don Rodrigo: rivolgersi al suo Cardinale Arcivescovo che sta sempre dalla parte degli umili e sa come tenere a bada i prepotenti. Sono oggi affetti da sindrome di Perpetua tutti gli individui – non specialisti di virologia, infettivologia etc.- che fin dalle prime notizie sulla diffusione del coronavirus annunciavano scenari apocalittici, simili a quelli che, purtroppo, abbiamo sotto i nostri occhi. La realtà ha finito col dar loro ragione ancor prima di quanto pensassero e adesso possono cavarsi la soddisfazione di fare screenshots delle loro profezie e di ripetere soddisfatti “l’avevo detto io”.
Sindrome di Gertrude. La Gertrude dei Promessi Sposi è basata sulla storia vera di una nobile ragazza di Monza costretta dal padre a farsi monaca di clausura per non disperdere il patrimonio avito. Finirà col violare tutti i suoi voti e col rendersi complice di delitti raccapriccianti per i quali sarà condannata e punita. Mai come in queste settimane di clausura forzata, tutti possiamo solidarizzare con Gertrude perché ci sentiamo, come lei “destinati a struggerci in un lento martirio” e anche noi invidiamo “in certi momenti qualunque donna [o uomo], in qualunque condizione, con qualunque coscienza, [che] potesse liberamente godersi nel mondo” (cap. X). La sindrome di Gertrude è, in questo periodo di isolamento imposto per legge, largamente diffusa tra la popolazione, ma si manifesta con diversi gradi di gravità a seconda dell’indole e dello stile di vita al quale i soggetti sono abituati. I casi più acuti si registrano tra joggers, ciclisti e sportivi di tutti i tipi che entrano in una sorta di crisi d’astinenza dovuta al mancato rilascio di endorfine, normalmente stimolato dall’esercizio. Oltre all’irrequietezza e al nervosismo (vedi sindrome del Leone in Gabbia), gli individui colpiti in maniera più acuta dalla sindrome di Gertrude sono particolarmente insofferenti di quanti danno segno di essersi adattati tranquillamente alla clausura. Parafrasando Manzoni: l’apparenza di pietà e di contentezza dei ‘reclusi felici’ suona ai “gertrudiani” come un rimprovero dell’inquietudine e dei loro portamenti bisbetici; ed essi non lasciano sfuggire occasione di deriderli dietro le spalle come pinzocheri, di morderli come ipocriti (cfr. cap. X).
Sindrome del Conte Zio (o del Padre Provinciale). Due personaggi secondari dei Promessi Sposi, ai quali, però, Manzoni affida uno dei dialoghi più riusciti e memorabili, al centro del capitolo XIX. Durante il colloquio, il Conte, zio di don Rodrigo, chiede al Padre Provinciale dei Cappuccini di trasferire fra Cristoforo lontano dal convento di Pescarenico per evitare che il rancore del signorotto nei confronti del frate, che ha protetto e aiutato a fuggire Renzo, Lucia ed Agnese, possa degenerare in un conflitto pericoloso sia per l’ordine religioso che per la nobile famiglia. Con le consuete pennellate essenziali, Manzoni descrive così il loro confronto: “Due potestà, due canizie, due esperienze consumate si trovavano a fronte.” E la conclusione, leggendaria, del loro dialogo è tutta racchiusa in due verbi, ripetuti a chiasmo per rendere il messaggio ancora più chiaro e memorabile: “Sopire, troncare, padre molto reverendo: troncare, sopire.”, Sono affetti da Sindrome del Conte Zio (o del Padre Provinciale) i politici di qualunque partito e nazionalità che, una volta avvisati da scienziati di ogni disciplina sul potenziale devastante del Coronavirus hanno pensato solo a “troncare e sopire” per paura delle reazioni dei mercati, della produttività industriale dei loro paesi o per semplice sfiducia nella scienza. Tra i casi più gravi a livello mondiale, vale la pena ricordare il Premier Britannico Boris Johnson che nella conferenza stampa del 13 febbraio, pur riconoscendo la gravità della pandemia (a quel punto già classificata come tale dall’Organizzazione Mondiale della Sanità) decise di non prendere misure drastiche e si affidò alla cosiddetta “immunità di gregge”, criticando e quasi irridendo i paesi che avevano deciso diversamente. Anche l’inquilino della Casa Bianca, è stato seriamente affetto dalla sindrome a partire da gennaio quando, in risposta alla domanda di un giornalista, rispose che sul fronte Coronavirus era “tutto sotto controllo”. La sindrome si riacutizzò durante un comizio a Charleston, il 28 febbraio, dove Trump dichiarò che il Coronavirus non era altro che l’ennesima truffa (hoax) ordita dai Democratici per sconfiggerlo. Entrambi i leader gemelli stanno dando segni di superamento della Sindrome del Conte Zio (o del Padre Provinciale. Il contagio subito da Johnson stesso e l’impressionante numero di vittime negli Stati Uniti per Trump, sembrano averli fatti ricredere sull’opportunità di rispondere all’emergenza planetaria col troncare e il sopire. Anche se I Promessi Sposi offrirebbero spunto per la definizione di altre sindromi; si pensi ad Azzeccagarbugli, ai governanti inetti…, io mi fermerei qui. Questo divertimento letterario, diventato piccola impresa di famiglia, mi ha distratto dalla tragica cronaca quotidiana di un assedio che sembra farsi sempre più vicino, mi ha fatto rileggere alcune delle pagine immortali del romanzo e mi ha convinto sempre di più della grandezza multiforme di Manzoni non solo nel produrre la prosa più alta ed elegante della nostra letteratura moderna, ma anche nell’analizzare le pieghe più recondite dell’animo umano.
Stefano Albertini. Sono nato a Bozzolo, in provincia di Mantova 53 anni fa. Mi sono laureato in lettere a Parma per poi passare dall'altra parte dell'oceano dove ho conseguito un Master all'Università della Virginia e un Ph.D. a Stanford. Dal 1994 insegno alla New York University e dal 1998 dirigo la Casa Italiana Zerilli Marimò dello stesso ateneo. Alla Casa io e la mia squadra organizziamo un centinaio di eventi all'anno tra mostre, conferenze, concerti e spettacoli teatrali. La mia passione (di famiglia) rimane però l'insegnamento: ho creato un corso sulla rappresentazione cinematografica della storia italiana e uno, molto seguito, su Machiavelli. D'estate dirigo il programma di NYU a Firenze, ma continuo ad avere un rapporto stretto e viscerale col mio paese di origine e l'anno scorso ho fondato l'Accademia del dialetto bozzolese proprio per contribuire a conservarne e trasmettere la cultura.
Aldo Cazzullo per il “Corriere della Sera” l'8 aprile 2020. Per il Sabato santo, la Curia di Torino terrà un' ostensione della Sindone in diretta tv mondiale. Tradizionalmente, il Lino veniva esposto per invocare la fine delle epidemie. Ma nel 1630, l' anno della peste manzoniana, i Savoia e il sindaco Giovanni Francesco Bellezia concordarono di tenere la Sindone nel Duomo, per evitare assembramenti in piazza che avrebbero esteso il contagio. Solo alcuni privilegiati - forse antenati di coloro che oggi riescono a fare tampone e cura virale in casa - poterono venerarla. Non è noto, ma non è escluso che alla popolazione sia stato raccomandato di lavarsi spesso le mani, cantando per due volte un ritornello augurale. Il morbo infuriò, raggiunse il picco, defluì. La vita riprese. Quasi quattro secoli dopo, i provvedimenti che l' Italia ha preso contro la pandemia Covid-19 sono gli stessi. In sintesi: non uscire, aspettare, eventualmente pregare. Tutto giusto. Ma non basta. Perché nel frattempo la tecnologia e la ricerca ci hanno resi molto diversi da come eravamo nel Seicento. Perché non usarle? Ci sarà tempo per verificare meriti e responsabilità. È evidente che sono stati commessi errori: non prepararsi all' arrivo del virus, non predisporre scorte di mascherine, non proteggere medici e infermieri, lasciare che molti ospedali diventassero focolai, non fare della Val Seriana una zona rossa. Va riconosciuto che l' Italia è stato il primo Paese occidentale a chiudere, ed è riuscita a evitare il contagio di massa al Sud. Ma ora occorre fare di più. Molto di più. Non basta ripetere che bisogna stare a casa e promettere denaro a tutti, ritoccando la cifra ogni giorno; occorre creare le condizioni per ricominciare a vivere e a lavorare. Il modello è evidente: le nazioni che meglio hanno frenato il virus e organizzato la ripresa. Non solo Corea del Sud e Giappone; anche la Germania. I tedeschi fanno quasi centomila tamponi al giorno, isolano i positivi, distinguono le fasce d' età e le aree geografiche da proteggere con maggiore attenzione; e fanno ripartire la macchina produttiva - mai spenta del tutto - affidandola a chi non può trasmettere il Covid-19. L' Italia di oggi non è la Germania, d' accordo. Ma non è neppure l' Italia del Seicento, dei monatti e di don Ferrante che va a letto a morire «prendendosela con le stelle». Le cose da fare non sono facili, però sono ineludibili: uno screening di massa, con un test rapido come potrebbe essere la ricerca di anticorpi nel sangue; un' app che consenta di tracciare i positivi; misure per proteggere gli anziani; e la ripartenza della produzione, garantendo la sicurezza dei lavoratori. Non sono cose che si fanno in pochi giorni; vanno programmate per tempo, e quindi bisogna cominciare a predisporle subito, con un piano operativo che coinvolga istituzioni pubbliche, laboratori privati da riconvertire ai test sulla pandemia, hotel da requisire per la quarantena dei positivi senza sintomi o con sintomi lievi e delle persone dimesse ma ancora in grado di trasmettere il virus. Qualcuno si è già mosso: fuori dall' ospedale di Cinisello Balsamo, per fare un solo esempio, il tampone si fa in auto; sono pratiche che devono diventare di uso comune. Gli italiani, con rare eccezioni, si sono comportati bene. Siamo consapevoli che non torneremo subito alla normalità. Il telelavoro continuerà. Fino a settembre le lezioni probabilmente proseguiranno on line (va dato atto agli insegnanti e a molti studenti di non essersi fermati). Sarà un' estate strana. Eviteremo gli assembramenti: concerti, spettacoli, stadi aperti purtroppo non saranno per domani. Ma il lavoro deve riprendere. Finanziamenti e prestiti sono importanti, però servono a rilanciare la produzione, non a sostituirla. Molti imprenditori e manager denunciano che le loro fabbriche in Italia sono le uniche a restare chiuse, mentre quelle dello stesso gruppo in Francia, Germania, Inghilterra funzionano regolarmente. Così si perdono quote di mercato e si creano disoccupati. Occorre affrontare l' emergenza immediata, certo; ma l' inedia, se oggi inevitabile, domani può diventare mortale. Non dobbiamo avere fretta di ripartire tra pochi giorni; ma non possiamo pensare di avere davanti a noi un orizzonte infinito, illudendoci che la Bce possa stampare soldi per tutti.
DAGOREPORT il 7 aprile 2020. Vedere il capo della Protezione civile che con un certo rigorismo calvinistico-sadico annuncia che staremo in quarantena anche il primo maggio, o sentire (chi li ascolta, veramente, ancora?) l’assembramento dei virologi in televisione (proiettati alla ribalta dall’epidemia) che discettano, porta a un’amara riflessione. Fossi in loro sarei più cauto, non mostrerei tanta orgogliosa presenza perché – e mettiamoci anche il mondo della comunicazione – due tra i primi grandi sconfitti del Coronavirus sono proprio loro: la protezione civile e la scienza medico-virologica. “State a casa”, “Stare a casa” è una doverosa scelta assunta da una politica poliziesca in vista del minor danno per tutti, ma viene assunta perché né la medicina né la Protezione civile hanno saputo offrire una benché minima risposta alternativa. Di virus - abbiamo visto - parlò Bill Gates cinque anni fa. Di Coronavirus (i coronavirus, in generale, si studiano da sempre) si sa dall’esplosione in Cina…Gómez Suárez de Figueroa y Córdoba, conosciuto come il Gran Duca di Feria, governava Milano nel 1631. Viene citato dal Manzoni nel Capitolo I de “I promessi sposi” come autore della grida del 6 ottobre 1627 con la quali si bandivano da Milano i "bravi", l'ultima che precedette l'inizio del romanzo. Prima di lui, dal 20 settembre 1630 all’aprile 1631 governatore spagnolo di Milano fu Don Alvaro II de Bazán, marchese di Santa Cruz: sono quei nobili spagnoli che vediamo con pizzetto e gorgiera nei quadri alla Van Dyck o alla Velazquez. Ebbene, se andiamo a leggere le loro grida assunte dal Capitano di Città Ambrogio Spinola e altri sotto i loro governatorati – al netto della caccia all’untore - sono uguali all’oggi: “vietati assembramenti”, vietato lasciare le abitazioni, “si fa divieto..” ecc ecc. Nei lazzaretti, anziché i ventilatori (ne abbiamo pochi) si usavano i ventagli e le lenzuola a profusione per separare i malati e far aria. Anziché le mascherine (ne avevamo poche) i fazzoletti. Le capre per assicurarsi il latte. Sugli stanziamenti erano meno complicati: miniere d’oro e nuove conquiste, possibili (noi il Mes). Per ragguagliarsi su queste cose basta leggere Alessandro Tadino, Raguaglio dell'origine et giornali successi della gran peste contagiosa, venefica, & malefica seguita nella Città di Milano (1648) o il canonico il Ripamonti che nel 1640 stampò la cronaca Iosephi Ripamontii canonici Scalensis chronistae vrbis Mediolani De peste quae fuit anno 1630. Qui si parla di esternare “il desiderio di restare a casa”, “ma che ciascuno stia in casa e si guardi” (ovvero riguardi); anche allora c’erano case dove venivano “distribuiti alimenti”: tutto il resto è Giangiacomo Mora e Colonna Infame (questo ce lo stiamo risparmiando, per ora). Ebbene, visto che gli italiani sono stati a casa, come mostrano i dati sul Covid-19 del Community Mobility Report di Google (-94% di individui nei negozi e nei locali, -90% nei parchi e -85% negli alimentari o nelle farmacie) tanta baldanza di Protettori civili e virologi è inappropriata. Se la politica è ferma alle grida del Seicento è anche per responsabilità loro, che non hanno saputo offrire nulla di diverso. Tantissima buona volontà, una caterva di sacrifici sino alla morte da parte di medici e infermieri… ma le tanto celebrate “magnifiche sorti e progressive” della scienza e dell’organizzazione tecnologica e sociale dove sono? Le capacità “previsionali” delle scienze? La ricerca sarà anche poco finanziata, ma 500 anni non sono pochi – e si evitino trovato stile tra donne allo Spallanzani hanno scoperto… come fatto dal ministro Speranza. Se la Protezione civile non è pronta a mappare, seguire, tamponare, lo accettiamo – ma Borrelli eviti quel sadico bollettino. Se i virologi non hanno messo a punto l’antidoto, ne hanno idea di come curare i malati se non attaccandoli all’ossigeno, dobbiamo prenderne atto, ma evitino le comparsate televisive. Gli unici autorizzati a parlare sarebbero gli ingegneri: nel ‘600 si usavano i ventagli adesso, almeno, i respiratori. Ma al netto dell’ingegneria il resto è uguale. Salvo le chiese chiuse mentre allora i preti e San Carlo andavano tra gli appestati. Molti apparati, Protezione civile, centro mondiale della sanità, centro parziale, grandi aziende ecc. ecc… vivono da decenni di slogan, di fuffa spacciata per cosa vera. E scarsi avanzamenti.
La peste di Londra del 1665: l'indagine dell'inviato speciale Daniel Defoe-L'autore di Robinson Crusoe ha scritto un libro-inchiesta sulla pestilenza che ha ucciso almeno centomila persone nella sola capitale britannica. Una storia di eroismi e di sovrani in fuga, di decreti tardivi e di concorrenza sleale fra paesi europei. Gianfranco Turano l'1 aprile 2020 su L'Espresso. “In verità l'infezione non si diffondeva tanto per via dei malati quanto per via dei sani, o meglio delle persone apparentemente sane. I malati erano riconosciuti per tali, stavano nei loro letti e ognuno aveva modo di guardarsi da loro. Ma molte altre persone avevano preso il contagio e lo maturavano nel sangue senza mostrarlo in alcun modo, e anzi senza saperlo essi stessi. Queste persone recavano morte ovunque con il loro respiro, e la davano a ogni persona che incontravano, la lasciavano in agguato, per il sudore delle mani, su ogni oggetto che toccavano... Questo fatto dimostra come in tempo di peste non ci si possa fidare delle apparenze, e come la gente possa effettivamente avere la peste senza saperlo, per cui non serve isolare i malati, e chiudere le case in cui qualcuno si è ammalto, se non si rinchiudono del pari tutte le persone che il malato stesso ha avuto occasione di avvicinare prima di accorgersi della propria malattia”. Nel 1722 Daniel Defoe, romanziere autore di Robinson Crusoe e Moll Flanders, polemista, agente segreto, pubblica A journal of the plague year, il diario dell'anno della peste che ha colpito Londra e parte dell'Inghilterra tra la fine del 1664 e l'inizio del 1666, concentrando la sua furia nel 1665 e provocando non meno di 100 mila morti nella sola capitale (400 mila abitanti) senza contare i borghi periferici. Ecco la cronaca dei fatti.
Nel 1664 sono passati 34 anni dalla peste di Milano e oltre sessanta dall'epidemia che ha colpito la corte di re Giacomo I Stuart nel 1603. Defoe, nato a Londra il 6 maggio 1660, ha appena quattro anni quando scoppia il contagio. Nel libro si serve di un personaggio fittizio, di mestiere sellaio, per esporre, insieme agli episodi della vita quotidiana, statistiche scrupolosamente documentate attraverso gli archivi anagrafici delle parrocchie. L'Inghilterra vive gli anni della restaurazione monarchica dopo la rivoluzione di Oliver Cromwell. La capitale inglese si è riempita di reduci di guerra che si sono dati ai commerci. La città è sovraffollata, piena di mescite e trattorie dove i londinesi si rifanno dalle rigidità del puritanesimo rivoluzionario. Lo sfarzo della Corte ha provocato un'onda consumistica che ha attirato nella cintura della capitale centomila artigiani tessili per la sola produzione di nastri. Le premesse sono pessime. In più nel 1663 Amsterdam e Rotterdam vengono colpite dal morbo e Londra ha scambi commerciali quotidiani con l'Olanda.
Già a settembre del 1664 c'è una riunione segreta del governo per affrontare l'ipotesi di un contagio.Vengono approntati provvedimenti di emergenza in accordo con le autorità locali ossia il Lord Mayor, i suoi due sceriffi e il consiglio degli Aldermen. Alcuni di loro ricordano l'epidemia, meno grave, del 1656.
A novembre del 1664 due francesi muoiono a Long Acre nel West End, non lontano dalla riva del Tamigi, nella casa della famiglia che li ospita. È quasi certo che muoiano di peste ma in quanto stranieri non vengono registrati.
Nella notte tra il 20 e il 21 dicembre 1664 il paziente 1 muore in una casa privata, sempre a Long Acre. Defoe accredita l'opinione che il morbo sia arrivato con un carico di seta importata dall'Oriente fino in Olanda e da lì spedita a Londra. I bollettini non segnalano morti di peste per sette settimane, fino al 9 febbraio 1665. Il secondo decesso, o presunto secondo, avviene nella stessa casa del primo. Poi nulla per altre nove settimane. Il 22 aprile, due morti. Da lì la pestilenza prende velocità. Si sposta dalla zona occidentale verso oriente e verso sud, fino a investire la City. Questi intervalli così lunghi sono definiti da Defoe “una frode”. Lo scrittore lo dimostra approfondendo la sua inchiesta sui documenti delle varie parrocchie che, al tempo, scandivano i distretti londinesi. Anno su anno, prova che il numero di morti settimanali in tutta la città (300 in media) aumenta fino a quattro o cinque volte e che anche a luglio e agosto 1665, con l'epidemia in pieno sviluppo, oltre ai decessi per peste ci sono impennate gigantesche fra i morti di altre patologie (colica, febbre viscerale, febbre ordinaria, vecchiaia e febbre purpurea, la più affine alla peste bubbonica). Per non subire la quarantena “molte famiglie riuscivano col denaro a fare registrare i loro morti di peste come morti di altre malattie”.
Nella settimana dal 2 all'8 maggio c'è il primo morto nella City, il cuore della capitale, in Bearbinder Lane. La seconda settimana di maggio i morti di peste registrati sono solo tre. L'ultima di maggio salgono di poco, a diciassette. Il Lord Mayor, sir John Lawrence, ordina un'inchiesta sui numeri, palesemente fasulli. Intanto, decine di migliaia di persone abbandonano la città sull'esempio di re Carlo II, figlio di Carlo I, il primo monarca decapitato della storia durante la rivoluzione (1649). Mentre la famiglia reale è rinchiusa a Oxford, nella capitale si muore per strada. Gli scappati finiscono a vivere in condizioni seminomadi, in attendamenti di fortuna dentro le foreste, o vagando di paese in paese accolti dalla crescente ostilità di chi teme, non a torto, che i profughi siano i portatori della morte nera.
A giugno “la truffa” dei numeri non può più continuare. L'esplosione della malattia ha investito i quartieri da ovest a est. Risparmia il Southwark sulla riva sud del Tamigi, ma ancora per poco tempo. Si diffonde la notizia che il governo vuole il lockdown della città. La voce non sarà confermata da un provvedimento del resto impraticabile. Ci sono pochissime truppe in città. Il grosso ha seguito il re a Oxford. Ma a fine giugno vengono finalmente applicate le misure discusse nella riunione segreta di nove mesi prima. Vengono nominati gli ispettori che dovranno sapere chi sono i malati, dove sono e decidono dell'isolamento. Chi rifiuta la carica di ispettore va in carcere. Le case isolate sono soggette a due guardiani divisi in turni (dalle 6 alle 22 e dalle 22 alle 6) che hanno ordine di non lasciare uscire o entrare nessuno, esclusi gli autorizzati. Fra gli autorizzati ci sono le visitatrici, che decretano la causa della morte con la supervisione dei medici, gli infermieri che effettuano assistenza a domicilio e i cerusici che fanno visite a casa oppure nell'unico lazzaretto cittadino a Bunhill fields, un buco con 300 posti di capienza. Le case dove la peste ha ucciso vengono dipinte con una croce rossa alta 30 centimetri e con la scritta: Signore, abbi pietà di noi. I funerali si possono fare tra il tramonto e l'alba, anche se presto i riti diventeranno impossibili per la quantità di deceduti che finiranno in fosse comuni. Una delle più grandi, vicina al cimitero di Aldgate, accoglierà 1114 corpi. L'immondizia viene ritirata ogni giorno. Vietato l'accattonaggio e gli animali come gatti, piccioni, conigli, maiali, nei confini della City. I cani randagi vengono eliminati. Si chiudono locali pubblici e bettole, mentre i forni e i mercati dove i contadini portano a vendere i prodotti della campagna restano aperti. Per pagare si buttano le monete in un secchio pieno di aceto. Non ci sarà mai penuria di alimenti. Il pane mantiene il prezzo precedente all'epidemia salvo un minimo aumento. Ma ci saranno molte vittime sia nei forni, dove si poteva portare e cuocere il pane impastato in casa, sia fra i piccoli commercianti che, nel loro andirivieni, distribuiscono il contagio nei borghi fuori città. Il contraccolpo sull'occupazione è micidiale. Tutti gli operai del manifatturiero vengono licenziati. Restano senza lavoro facchini, barcaioli, carrettieri, edili, marinai. Le “persone di qualità” buttano sul lastrico la servitù e si trasferiscono a vivere sulle chiatte ancorate in mezzo al Tamigi in una fila di chilometrica verso Greenwich e Woolwich. Solo in parte i mestieri dell'emergenza compensano la perdita di posti. Ma sono mestieri ad alto rischio perché a contatto diretto con il morbo o con i reclusi ai domiciliari che tentano di corrompere i guardiani per fuggire e, quando non ci riescono, spesso li picchiano o li ammazzano. Fra i mestieri non autorizzati della peste aumentano di numero gli astrologi, gli indovini, i venditori di rimedi infallibili, di filtri e di amuleti. Gli angoli delle strade sono tappezzati di avvisi dove si pubblicizzano pillole, pozioni, antidoti, cordiali e persino “vera acqua per la peste”. Prosperano gli pseudoscienziati, locali e importati come il medico olandese che l'anno prima ha guarito innumerevoli persone nel suo paese o come la gentildonna italiana che ha un metodo segreto applicato durante la peste di Napoli (il colera in realtà) “per la quale perirono ogni giorno ventimila persone”. Diventa popolare il predicatore Solomon Eagle che si aggira seminudo per la città con un pentolino di carbone acceso sulla testa per tenere lontano il morbo. I ciarlatani contribuiscono allo sterminio. Secondo i bollettini, dall'8 agosto al 10 ottobre ci sono 49705 morti di peste su 59870 di altre cause che pure sono spesso legate alla peste. Centinaia di neonati muoiono insieme alle madri perché non hanno assistenza. Il ricorso massiccio alle sepolture nelle fosse comuni, secondo Defoe, abbassa la contabilità reale. Nella seconda metà di settembre, quando il contagio tocca il picco delle vittime in una sola settimana (8297), il dottor Heath spiega al protagonista che il morbo sta perdendo forza rispetto alla fine di agosto. Allora uccideva in due o tre giorni. A settembre in otto o dieci. Prima guariva uno su cinque. Adesso tre su cinque. Il dottor Heath indovina la tendenza. L'ultima settimana di settembre fa segnare duemila decessi in meno e il calo continua per tutto ottobre. Alla buona novella, i londinesi che erano scappati fuori città e quelli che vivevano segregati si abbandonano all'entusiasmo. “Ognuno diventò di punto in bianco coraggioso e, messa da parte ogni precauzione, cominciò a frequentare le persone infette, e a mangiare e bere con loro, visitarle nelle case, e persino penetrare nelle camere dove giacevano a letto i malati ancora gravi”. Riaprono le botteghe, si ricomincia a fare affari e torna la folla in piazza e nei locali. Il ritorno di fiamma del contagio investe con violenza la città in novembre (+400 morti la prima settimana). Le autorità tentano di impedire il rientro dei profughi dal resto del paese, dove intanto sono scoppiati altri focolai (Norwich, Lincoln, Colchester) ma devono desistere. I commerci hanno la meglio su ogni altra considerazione sia per questioni di sopravvivenza elementare, non del tutto garantita dalla Casa Reale che redistribuisce ai vivi i beni dei morti e dalla carità delle parrocchie, sia per questioni macroeconomiche.
I vicini europei stanno sfruttando senza pietà il vantaggio competitivo dei mesi di pestilenza. “Il nostro commercio ne risentì le conseguenze fino a molto tempo dopo la peste, specie per via dei fiamminghi e degli olandesi i quali, approfittando della situazione, ci soppiantarono quasi ovunque anche comprando le nostre manifatture nelle città inglesi risparmiate dall'epidemia, e dall'Olanda e le Fiandre poi trasportandole in Italia e Spagna come prodotti loro”. Nonostante le imprudenze, il morbo riprende a declinare. A febbraio 1666 è finita e solo “la gente di qualità” mantiene le famiglie nelle residenze di campagna fino alla primavera. Londra può tornare a vivere.
Nota. Le citazioni del libro di Defoe sono tratte dalla traduzione di Elio Vittorini del 1940 (La peste di Londra, Bombiani.
La peste di Milano: inchiesta su un caso di cronaca di 400 anni fa. Negazionismo della cittadinanza, ritardi della politica, provvedimenti contraddittori, caccia all'untore straniero. Ecco perché dal flagello del 1629-1630, ricostruito dalle testimonianze storiche, i meccanismi sono rimasti gli stessi. Gianfranco Turano il 24 marzo 2020 su L'Espresso. Lo scopo dell'inchiesta che segue è raccontare un fatto di cronaca di 390 anni fa. Il risultato dell'inchiesta è che lo sviluppo psicoevolutivo dell'essere umano, a differenza della scienza e della tecnologia, non avviene per anni o secoli ma attraverso le ere della filogenesi (decine di migliaia di anni). L'evento è la peste di Milano del 1629-1630, come raccontato dagli storiografi Ripamonti, Lampugnano e Tadino, da Manzoni e da altri che per lo più oggi sono fermate della metropolitana o strade. La risposta dei cittadini, delle istituzioni e della comunità internazionale non è diversa, negli schemi di fondo, da quella data al Cov-Sars-2. Ma ecco il racconto.
A settembre 1629, in piena Guerra dei Trent'anni (1618-1648), i lanzichenecchi di Albrecht von Wallenstein e le truppe di Rambaldo di Collalto scendono in Italia attraverso la Valtellina e la zona del lago di Lecco per sostenere la causa del Sacro Romano Impero, alleato con la Spagna e con i Savoia nella guerra di successione di Mantova e Monferrato. Gli avversari sono la Francia e la Repubblica Serenissima.
Il 20 ottobre 1629 Lodovico Settala segnala al Tribunale della sanità di Milano che fra il lecchese e la bergamasca, nel corridoio dove sono passati i soldati, vengono segnalati presunti casi di peste. Settala è il protofisico ossia, in termini moderni, il presidente dell'Ordine dei medici. È nato nel 1552 e ha 77 anni. Quando ne aveva 24, già medico, ha vissuto la pestilenza dell'anno 1576. Ha quindi esperienza teorica e di campo. Avvertito da Settala, il Tribunale della sanità spedisce un commissario – figura radicata nella storia italiana – a indagare, accompagnato a un medico di Como. I due si fanno abbindolare dal negazionismo locale che attribuisce i decessi alle febbri autunnali e al paludismo o malaria.
Il 30 ottobre, appena dieci giorni dopo l'ispezione, i casi si sono moltiplicati al punto tale che le autorità decidono di controllare gli ingressi entro le mura di Milano, una delle città più popolate nell'Europa del tempo, sviluppatissima nei commerci, con residenti calcolati fra 200 e 250 mila. I responsabili della sanità redigono una grida per affrontare l'emergenza. Ma il decreto non viene pubblicato per le esitazioni di chi teme conseguenze economiche e le misure restano lettera morta per quasi un mese.
Il 14 novembre i magistrati di sanità fanno un passo in più ed espongono la gravità della situazione al governatore Ambrogio Spinola, rappresentante della corona di Spagna e veterano della guerra delle Fiandre. Il genovese Spinola è impegnato nell'assedio di Casale Monferrato e non solo non presta troppa attenzione al contagio ma peggiora la situazione attivamente.
Il 18 novembre, infatti, il governatore ordina grandi celebrazioni pubbliche per la nascita del primogenito di Filippo IV di Spagna, il principe Carlo. Decine di migliaia di milanesi scendono in strada a festeggiare.
Il 29 novembre, quando finalmente è pubblicata la grida del 30 ottobre, la peste è già in città. Secondo il Tadino, medico prima che storiografo, si individua anche il paziente 1. È un soldato italiano dal nome incerto che combatte con l'esercito spagnolo. Morto lui, vengono bruciati il suo letto e i suoi vestiti. I suoi parenti vengono spediti in quarantena al Lazzaretto che sorge all'incirca dov'è oggi la via omonima, una parallela di corso Buenos Aires nei pressi di Porta Venezia, l'antica Porta orientale. Le misure di legge sembrano portare qualche esito e l'inverno passa con danni limitati. Le basse temperature dell'inverno lombardo potrebbero essere state meno favorevoli al contagio dato che la peste nelle sue varie forme (bubbonica, setticemica e polmonare) è causata dal batterio Yersinia pestis. Il morbo è diffuso dal ratto, portatore spesso asintomatico. Pulci o zanzare, che d'inverno sopravvivono con maggiore difficoltà, lo trasferiscono all'uomo. Ma c'è un altro fattore. Nei mesi fra la fine del 1629 e l'inizio del 1630 si è diffuso un senso di omertà da parte di chi ha un parente malato o moribondo e preferisce non denunciarlo per evitare quarantene, sequestri, blocco dell'attività. Per chi ancora non ha conosciuto direttamente il morbo, consigli e divieti delle autorità sanitarie sono interpretati come limitazioni alla libertà civile e alle necessità lavorative, quando non come vessazioni insensate. I medici Alessandro Tadino e Senatore Settala, figlio del protofisico, vengono insultati per strada. Settala senior, riconosciuto mentre circola per la città con una portantina, viene preso a pietrate e si salva di giustezza perché i servitori riescono a infilarsi nel portone di un amico del dottore. Mentre il contagio cresce e il Lazzaretto supera la sua capienza massima di duemila posti (arriverà a sedicimila), si celebrano le festività di Pasqua (31 marzo 1630) come se niente fosse. Ad aprile la situazione continua a peggiorare.
Durante la Pentecoste, in una bella domenica di maggio scelta dai milanesi per una scampagnata fuori Porta orientale nei pressi del cimitero di San Gregorio e dunque del Lazzaretto (stampa accanto), i magistrati cittadini organizzano una messinscena terrificante per scuotere le coscienze. Fanno sfilare una carretta carica dei corpi nudi di un'intera famiglia sterminata dal morbo nella notte. La paura, invece di prendere la strada dell'ammaestramento, si incammina verso la superstizione.
Il 17 maggio si sparge voce che qualcuno abbia unto gli assiti del Duomo con materiali venefici. Le panche vengono portate fuori e lavate. È l'inizio della caccia all'untore, approvata in qualche modo dalla grida del tribunale della sanità del 19 maggio che impone di segnalare chiunque abbia un comportamento sospetto. Nei giorni successivi i momenti di tensione e di violenza si moltiplicano. Un vecchio che spolvera con il mantello la panca della chiesa viene trascinato fuori e massacrato di botte sotto gli occhi dello storico Giuseppe Ripamonti. È testimoniato oltre ogni ragionevole dubbio che i muri vengono effettivamente imbrattati con una materia giallognola. Non si saprà se questo luridume viene sparso da agenti di poteri stranieri o da semplici imbecilli in vena di scherzi. Dalla Spagna si denunciano quattro untori francesi che vagherebbero per un'Europa già molto internazionale, a diffondere il morbo come forma di guerra chimica. Un gruppetto di francesi viene identificato per strada a Milano. Si salvano per miracolo dal linciaggio e, per un miracolo ancora maggiore, vengono assolti dalle accuse.
L'11 giugno, dopo giorni di pressioni da parte dell'autorità temporale che vuole offrire conforto alla popolazione, l'arcivescovo Federico Borromeo mette da parte le sue perplessità e accetta di guidare una processione alla quale partecipano decine di migliaia di fedeli di ogni classe sociale. Il corteo parte all'alba dal Duomo con il feretro di San Carlo Borromeo, cugino di Federico. La reliquia viene portata in giro per tutti i quartieri della città, con fermate nelle piazze principali. La diffusione del contagio dopo la processione nella calca estiva è devastante. Due secoli dopo persino il fanatico cattolico Manzoni, devoto di San Carlo Borromeo e ammiratore di Federico, faticherà a trovare scusanti per il suo amato cardinale. Poiché però San Carlo non può essere colpevole e monsignor Federico nemmeno, la furia collettiva si accanisce ancora di più contro gli untori.
Il 21 giugno poco prima dell'alba, nel quartiere della Vetra de' Cittadini, l'attuale zona San Lorenzo-Porta Ticinese, “una donnicciola chiamata Caterina Rosa, trovandosi per disgrazia a una finestra” (Manzoni, Storia della colonna infame) vede un uomo che strofina qualcosa contro i muri e denuncia il fatto. L'individuo sospetto sarà trovato in poco tempo. È Guglielmo Piazza, da circa un mese eletto commissario della sanità. È l'untore ideale proprio perché appartiene alla schiera dei vessatori, coloro che spediscono la gente a morire al lazzaretto. Viene torturato. Non resiste. Denuncia come complice e produttore del veleno il barbiere Giangiacomo Mora, più altri. Settimane di interrogatori feroci e confessioni estorte porteranno all'identificazione come mandante di don Juan Cayetano de Padilla. Grazie ai suoi mezzi, l'hidalgo spagnolo sarà l'unico a salvarsi da un'esecuzione capitale di indimenticabile atrocità. Unknown-1Con sentenza del 27 luglio Mora e Piazza vengono “messi su un carro, condotti al luogo del supplizio, tanagliati con ferro rovente per la strada; tagliata loro la mano destra; spezzata l'ossa con la rota, e in quella intrecciati vivi, e alzati da terra; dopo sei ore, scannati; bruciati i cadaveri, e le ceneri buttate nel fiume; demolita la casa del Mora; sullo spazio di quella, eretta una colonna che si chiamasse infame; proibito in perpetuo di fabbricare in quel luogo”. Secondo i censimenti dell'epoca, alla fine della pestilenza Milano conta 64 mila abitanti da 200-250 mila. Tre su quattro sono morti di peste. Fra loro, come sembra altamente probabile, anche il governatore Spinola (settembre 1630).
Di quanto raccontato, a distanza di quattro secoli, sono cambiate le technicalities. La tortura è vietata, come la pena di morte. La peste è un fattore di contagio presente (fra 1000 e 3000 casi all'anno secondo l'Oms) ma controllato grazie agli antibiotici e alla profilassi dopo l'ultima epidemia a fine Ottocento iniziata in Cina e conclusa con 12 milioni di morti. La risposta psicologica al morbo invece segue le solite fasi.
1. Negazionismo assoluto. Secondo Manzoni (I promessi sposi, cap. XXXI), chi metteva in guardia “veniva accolto con beffe incredule, con disprezzo iracondo”. Insomma, è solo un'influenza.
2. Inizia a circolare la paura, sotto traccia. Timore dei provvedimenti delle autorità sanitarie da parte “della Nobiltà, delli Mercanti, della plebe”. Le nuove norme, che obbligano a cambiare comportamento, sono identificate a costrizioni inutili.
3. Con l'avanzare del contagio il negazionismo retrocede ma ancora combatte con quella che Manzoni chiama “trufferia di parole”. Il lavoro di mistificazione e falsificazione arriva a produrre neologismi: “febbri maligne” e “febbri pestilenti”. Si incomincia però a comprendere che il contagio non è limitato a una categoria di popolazione. In questo caso, i poveri.
4. Non si può più negare la realtà. Allora, in una situazione di panico generalizzato, si cerca di falsificare il nesso causa-effetto. Colpa dei francesi, degli alemanni, degli spagnoli. Infine, colpa degli untori. L'untore può essere chiunque, allora come oggi. Un alemanno, un cinese, un vecchio. Tutti ma non noi.
E poi cominciò la caccia all’untore. Bernardo Valli su L'Espresso il 29 febbraio 2020. Nessun paragone tra il coronavirus e la peste del 1630. Ma rileggere i due capitoli dei Promessi Sposi dedicati all’epidemia può essere lo stesso utile. La sensazione di vulnerabilità di fronte al virus, mentre scrivo ancora senza un antidoto, crea una profonda angoscia in tanti angoli del pianeta. L’alimentano i media non certo avari di notizie sui danni provocati dal killer inafferabile. Nei laboratori gli danno la caccia cercando un vaccino. Nell’attesa che lo si trovi, il virus evaso dalla provincia cinese di Hubei, miete vittime anche vicino a noi. Risparmio la morale che si può trarre dall’immunità di cui gode (per ora) il coronavirus. Un’immunità che è una beffa per la scienza del XXI secolo: una minaccia micidiale, sia per gli individui, sia per l’economia mondiale. Mi guardo bene dal paragonare quel che accade oggi a quel che accadde quattro secoli fa e che Alessandro Manzoni ha descritto nel suo romanzo. I fatti di questi giorni sono definiti un’infezione diffusa oppure una grave crisi sanitaria. C’è chi azzarda, forzando al momento la realtà, anche l’espressione epidemia. Dimenticando cosa indicò quella parola. L’epidemia storica, raccontata in particolare in due capitoli, il XXXI e il XXXII, dei Promessi Sposi, culminò nel 1630. Non ho resistito alla tentazione di rileggere quelle pagine, una cronaca anche letterariamente esemplare: «S’era trovato qualche cadavere nelle case, qualcheduno nella strada. Poco dopo, in questo e in quel paese, cominciarono ad ammalarsi, a morire, con segni sconosciuti alla più parte de’ viventi». Manzoni racconta due secoli dopo la strage basandosi su “Ragguaglio” di Alessandro Tadino, allora membro del Tribunale di Sanità, e su quel che aveva lasciato di scritto il protofisico Lodovico Settala. I cronisti dell’epoca si danno da fare per individuare il soldato che entrando a Milano con uno zaino pieno di abiti comperati o rubati ai mercenari tedeschi ha contribuito a diffondere il contagio mortale. Si sarebbe trattato di Pietro Antonio Lovalo che alloggiava presso dei parenti vicino a Porta Orientale, e che morì dopo tre giorni di forte febbre all’ospedale. Avendogli scoperto il bubbone sintomo della peste sotto un’ ascella, i medici fecero bruciare tutto quello che aveva con sé. Secondo il sacerdote Giuseppe Ripamonti fu invece un certo Pier Paolo Locati, di Chiavenna, a portare il virus della peste a Milano. Tadino e Ripamonti non sono d’accordo neppure sulle date di ingresso dei due in città. La controversia sull’origine dell’epidemia non è mai stata risolta. Come adesso, nei nostri giorni, per il coronavirus, così secoli fa regnò l’incertezza sul portatore del contagio. Oggi si sa il luogo di partenza del coronavirus, si ritiene venga da Wuhan, nell’Hubei, la provincia cinese più colpita. Nel ’600 il contagio fu portato in Lombardia dai lanzichenecchi, dalle truppe tedesche mercenarie di Albrecht von Wallenstein, arrivate in Italia dalla Valtellina e dirette a Mantova, dove era in corso la lotta per la successione tra Francia e Spagna. Un tempo i portatori di virus erano i soldati. Oggi sono civili pacifici, turisti, commercianti, tecnici. Il virus adesso viaggia in aereo o su un piroscafo. Le due situazioni non sono ovviamente paragonabili: sarebbe un’imperdonabile forzatura. La rilettura del Manzoni è puramente letteraria. Le incertezze iniziali sul pericolo incombente durarono a lungo. Alessandro Tadino, dopo una visita in Valsassine, informò il governatore Ambrogio Spinola del rischio che tra i lanzichenecchi in arrivo ci fossero molti appestati. La risposta fu che «le preoccupazioni della guerra erano più pressanti». Pochi giorni dopo, nonostante l’annunciato pericolo, con grande partecipazione popolare fu festeggiata la nascita del primogenito di Filippo IV, re di Spagna. Dal mese di marzo dell’anno successivo, nel 1630, la peste cominciò a mietere sempre più vittime. In maggio il caldo estese il contagio al punto che il lazzaretto non era più in grado di accogliere ammalati. Il ritmo delle morti a Milano era di quaranta al giorno. Il tribunale ordinava di bruciare tutto ciò che poteva essere fonte di contagio; sequestrava le abitazioni; relegava intere famiglie nel lazzaretto. Credendo si trattasse di abusi delle autorità la gente insultava Alessandro Tadino e Senatore Settala, incaricati di arginare la peste. La paura provocata dall’aumentare delle vittime fece nascere tra la gente la convinzione che alcuni uomini spargessero apposta unguenti venefici. E cominciò così la caccia agli untori. Nulla di tutto questo accade oggi. Ma le assurde aggressioni ai cinesi non sono mancate. La tristezza dell’argomento è stata compensata dalla rilettura delle chiare pagine di Alessandro Manzoni. È stato un salto a ritroso nella storia irripetibile mentre viviamo un presente inquietante.
Il colera di Napoli al tempo dei Borboni. Nel 1836-37 la capitale del Regno delle due Sicilia viene investita da un'epidemia che farà oltre trentamila morti. Fra questi, il maggiore poeta italiano dell'Ottocento, Giacomo Leopardi. Gianfranco Turano il 06 aprile 2020 su L'Espresso. Il 1836 a Napoli si presenta come anno fausto. Il 16 gennaio re Ferdinando II annuncia alla plebe e ai signori la nascita del primogenito, che gli succederà sul trono di Borbone con il nome di Francesco II e il vezzeggiativo, o dispregiativo, popolare di Franceschiello. I festeggiamenti in città e nelle province del Regno delle due Sicilie diventano un proseguimento del Natale, anche se un'ombra si è allungata da mesi sugli Stati dell'Italia. È il colera, un batterio gram-negativo che attacca l'intestino e, attraverso la dissenteria, porta alla morte per disidratazione o insufficienza cardio-respiratoria. Il colera ha iniziato la sua marcia di conquista e di distruzione anni prima. È apparso in India nel 1817, come morbo endemico del basso Gange, ed è subito diventato il “morbo della rivoluzione commerciale” e della colonizzazione (10 mila morti fra le truppe britanniche). Mercanti inglesi e le prime navi a vapore hanno sparso il Vibrio cholerae prima in Asia, poi in Russia. Dalla città commerciale per eccellenza dell'impero zarista, Nižny Novogorod, il colera investe Danzica, la Germania, la Francia. Parigi e Marsiglia subiscono perdite nell'ordine di 22 morti ogni mille abitanti. A Bordeaux il tasso di letalità arriva al 70%. Città che vivono di commerci come Venezia, Livorno e Genova esitano a intervenire per non danneggiare i traffici a vantaggio della concorrenza. L'autore di Robinson Crusoe ha scritto un libro-inchiesta sulla pestilenza che ha ucciso almeno centomila persone nella sola capitale britannica. Una storia di eroismi e di sovrani in fuga, di decreti tardivi e di concorrenza sleale fra paesi europei. Ma la preoccupazione è tale che già nell'agosto del 1835, quando l'epidemia sta devastando il Regno di Sardegna di Carlo Alberto, il governo di re Ferdinando emette un decreto dove si prevedono i regolamenti e le contromisure da adottare in caso di esplosione della malattia. Il provvedimento principale è il cordone sanitario al confine nord con lo Stato Pontificio. Il supremo magistrato di salute impone la quarantena alle navi provenienti da zone a rischio e si riserva di chiedere a chi sbarca una certificazione sanitaria. Napoli ha caratteristiche e debolezze ben note alla dirigenza borbonica che pure non si è data troppo da fare per trovare rimedi. La città è una delle più popolate d'Europa con 357 mila abitanti. Ma rete fognaria e acquedotti sono quelli del Seicento. I collettori principali scorrono in mare ma la costruzione della via Marina per ordine di re Carlo III nel 1740 crea uno sbarramento che favorisce il ristagno della cloaca massima. Dei due acquedotti cittadini (Bolla e Carmignano), il Bolla scorre quasi in superficie da Monte Somma a Poggioreale attraverso la città antica (Tribunali, Mezzocannone, Forcella, S. Biagio) e viene mantenuto dalla corporazione pubblica dei fontanieri. Il Carmignano scorre più profondo ed è curato dalla corporazione dei pozzari. Perdite nelle falde potabili e infiltrazioni dai pozzi neri non collegati alla rete fognaria principale sono innumerevoli. Il Carmignano – si scoprirà troppo tardi – passa sotto il cimitero di S. Maria del pianto dove sono stati sepolti gli appestati del 1656 e dove i nobili seppelliranno i loro morti di colera. Il blocco del confine terrestre non basta. La malattia entra in città dall'ingresso più ovvio. Il quartiere Porto è il primo a essere colpito e un soldato in servizio alla dogana, Gennaro Maggi, è indicato come paziente uno, senza certezze. Il medico e storiografo irpino Salvatore De Renzi, nella sua relazione al governo del 1837, accusa il contrabbando già florido e segnala la comparsa di una strana epidemia nelle Puglie portata a Napoli da un barbiere di Lecce. Un medico barese che parla di colera viene punito, come il dottor Li di Wuhan. La prima fase dell'epidemia inizia il 2 ottobre 1836 e dura 158 giorni fino all'8 marzo dell'anno successivo. Dopo un mese in cui la città si illude di averla scampata, il colera torna molto più forte il 13 aprile. La seconda fase dura 195 giorni fino al 24 ottobre 1837 con un totale ufficiale di 13810 decessi su 21784 casi e una letalità del 63,3%. All'inizio il morbo è accolto con il solito atteggiamento negazionista-minimalista. I morti sono soprattutto fra i ceti popolari e non è una sorpresa, visto come vivono. Nei primi giorni i ricchi, per vie corruttive, nascondono i loro morti di colera e falsificano le cause del decesso in modo da evitare le restrizioni di sanità pubblica che hanno vietato le sepolture nelle cappelle gentilizie e nei cimiteri delle chiese. La responsabilità del contagio è attribuita alla spazzatura, ai suoi miasmi e alla scarsa circolazione dell'aria fra i vicoli dei Quartieri spagnoli, a via Foria o al porto. Quindi i benestanti non corrono rischi. È un'illusione. Un medico inglese, John Snow, seguito dal collega italiano Filippo Pacini, scopritore del vibrione, intuiranno che il veicolo principale è l'acqua contaminata dalle feci.
La teoria delle due razze. In effetti il colera, come le pestilenze del Trecento e del Seicento, inizia la sua corsa fra i “bassi” abitati dal popolo ma non si fermerà di fonte ai palazzi dei magnati che anzi saranno i più colpiti nella seconda durissima fase del contagio. Detto questo, la spaccatura di classe nella Napoli dei Borboni è una delle più clamorose d'Europa. « Chi viene straniero fra noi e vede il nostro popolo ed i suoi costumi», scrive De Renzi nel 1848, «non crede di osservare ceto civile e plebe, ma sospetta due razze diverse di uomini: tanto la miseria e l'abbandono ha abbrutito gran parte degli abitanti... Senza tetto e senza vestito, molti confidano più nella clemenza del clima che nella pietà ο nella giustizia degli uomini; e coloro che possono ricoverarsi tra quattro mura disputano agli animali il luogo di ricovero, e gli animali de' ricchi sono spesso più fortunati. Le case de' poveri sono tutte al livello delle strade e molte sottoposte ad esse ne ricevono l'umidità, le immondizie, lo spruzzo del fango, e la polvere. In un angolo il focolaio, in un altro il deposito delle impurità, due logore sedie ο una pietra per sedere, quattro tavole con uno strame di paglia che chiamano letto, una volta ο quattro travi affumicate, nere, minaccianti ruina, costituiscono queste tane che covrono genitori e fìgli di ogni età, accovacciati sul terreno, costretti a tenere aperto l'uscio per riconoscere il giorno, e ad uscir sulla strada per vedere il sole. Tutte le funzioni della vita di molti esseri ad umana figura si compiono in questo breve ricinto. Lauta imbandigione è per essi un poco d'erba mal cotta e peggio condita con poco nero pane, e talora qualche frutto acerbo ο guasto».
Le terapie. I dati dei decessi divisi per classe sociale mostrano che il morbo colpisce di più i benestanti del popolo. Le spiegazioni date sono varie. Una dipende dalle difficoltà dei due acquedotti a rifornire le zone alte della città come Posillipo, Capodimonte, Vomero, S.Elmo, già allora preferite dalle classi superiori. In realtà, date le infiltrazioni e l'inquinamento delle acque pubbliche, spesso si ricorreva a pozzi privati ancora più a rischio oppure al trasporto da parte di acquaioli. Altri hanno ipotizzato che proprio le condizioni igieniche della città bassa avessero, alla lunga, fortificato chi riusciva a sopravvivere alla mortalità infantile elevatissima. Ma il vero e paradossale vantaggio del popolo era l'impossibilità di pagarsi cure e rimedi che, senza proteggere o guarire, spesso procuravano danni. Chi poteva permetterselo faceva largo uso di oppiacei, di purghe e di ossido di zinco. Spesso era il colpo di grazia. Le istituzioni organizzano sette ospedali. Ma i malati possono scegliere di farsi curare a casa. I funerali vennero ammessi solo di notte e lo Stato organizzò panifici a prezzi calmierati per evitare la carestia. A vigilare sull'applicazione delle ordinanze, re Ferdinando mette il suo ministro della Polizia, Francesco Saverio Del Carretto.
Lo sbirro e il poeta. Del Carretto è una delle figure più interessanti dell'epoca. Nato a Barletta nel 1777 ha una vita parallela con il suo quasi coetaneo e collega francese Eugène-François Vidocq, nato nel 1775. Anche Del Carretto, prima di diventare il superpoliziotto del Regno borbonico, si è trovato in difficoltà con la giustizia. Mentre Vidocq ha un passato da criminale comune, il pugliese è stato un delinquente politico. Durante i Moti liberali del 1820-1821, viene arrestato in quanto carbonaro. Dopo essersi riconvertito ai principi della restaurazione monarchica, sosterrà che la sua appartenenza alla carboneria era una messinscena. Come Vidocq, anche Del Carretto si era infiltrato per meglio denunciare le reti rivoluzionarie, dettando un metodo che sarà molto praticato nei secoli a venire. È proprio Del Carretto ad arrestare nel 1832 un giovane avvocato napoletano, Antonio Ranieri, che sarà espulso dal Regno in quanto liberale. Ranieri otterrà il permesso di rimpatrio un anno dopo. Glielo dà il re al termine di un colloquio personale a quattr'occhi, secondo quanto sostiene lo stesso Ranieri che pure non apparteneva a una famiglia fra le più in vista del Regno e che, come si vedrà, si prendeva frequenti libertà con i dati del reale. Il liberale pentito, a meno che non fosse un infiltrato anche lui mandato in giro per l'Italia a frequentare i circoli rivoluzionari e i mazziniani della Giovine Italia, torna a Napoli il 2 ottobre 1833 insieme a un amico di Recanati, un curioso personaggio che ha deciso di condividere con Ranieri una lunga avventura in giro per l'Italia.
L'amico è Giacomo Leopardi. La vicenda di Leopardi a Napoli ha riempito i libri di storia ed è stata raccontata al cinema di recente da Mario Martone (Il giovane favoloso con Elio Germano, 2014). Ma la fine del poeta, che muore il 14 giugno 1837, resta un mistero. È noto che Leopardi e Ranieri abbandonano Napoli durante la prima fase dell'epidemia, nel 1836. Vanno a Torre del Greco, località di villeggiatura per i signori, in una residenza dove lo scrittore marchigiano scrive la Ginestra, uno dei suoi poemi immortali. Nell'illusione che il contagio sia al termine, a febbraio 1837 i due amici tornano in città nel palazzo dove si sono trasferiti nel 1835 in vico del Pero 2, a monte del Museo nazionale. Il ritorno di fiamma del colera li blocca in casa. Il loro conoscente Francesco De Sanctis, il maggiore critico letterario italiano dell'Ottocento che al tempo ha vent'anni, ricorda quei giorni con poche parole: «La vita pubblica sospesa. Le scuole, le botteghe deserte». Il 14 giugno, nel racconto di Ranieri, il contino Leopardi si abbandona a uno dei suoi frequenti stravizi alimentari. Ingurgita un chilo di confetti di Sulmona, una cioccolata, si ingozza di brodo caldo, poi ci mette sopra un paio di granite ghiacciate. Poche ore dopo è morto. Il medico certifica l'idropisia polmonare (liquido nei polmoni) come causa del decesso. L'amico Ranieri, a quanto egli stesso sostiene, riesce a eludere la sorveglianza strettissima della polizia borbonica nel modo più semplice. Si mette d'accordo con il ministro Del Carretto in persona e fa seppellire il poeta nella chiesa di San Vitale a Piedigrotta. Considerando una certa tendenza immaginifica di Ranieri, la tesi alternativa è che Leopardi sia morto di colera e che il suo corpo sia finito, come imponevano le ordinanze di pubblica sanità, nella gigantesca fossa comune allestita alle Fontanelle, un ex cava di tufo a Poggioreale. Nel giugno del 1900, quando viene riesumato il feretro a San Vitale, nella cassa si trovano poche ossa secondarie e due femori troppo lunghi per essere compatibili con la statura del poeta. Niente cranio, né colonna vertebrale. Nel 1939 Benito Mussolini sposta la presunta reliquia nel Parco virgiliano a Mergellina.
Rivolta in Sicilia. Poco più di un mese dopo la morte del poeta, il ministro Del Carretto viene spedito d'urgenza in Sicilia che ha abbandonato la cordonatura sanitaria applicata nella prima fase ed è stata colpita dalla seconda ondata. Del Carretto deve reprimere i moti di piazza scatenati, a quanto pare, dalla propaganda liberale che accusa i Borboni di avere diffuso il colera per piegare il popolo. Il 16 luglio a Siracusa, dove il morbo infierisce, c'è una sollevazione che porta all'assassinio dell'Intendente, del capo della polizia locale e di altri rappresentanti del potere. Del Carretto agisce come aveva fatto anni prima nella repressione del brigantaggio in Calabria citeriore. Arresta e fucila centinaia di persone. A ottobre del 1837 il peggio è passato, anche se non per molto. Napoli conoscerà altre quattro epidemie di colera nell'Ottocento, prima e dopo l'Unità d'Italia: 1854-55, 1865, 1873 e 1884, quando finalmente si mette mano al sistema fognario che risaliva al viceré don Pedro de Toledo (XVI secolo). Nel 1836-37 lil colera raggiunge i livelli delle grandi pestilenze del Trecento e del Seicento. Nella prima fase muoiono 5669 persone su 10361 (letalità del 54,7%). Nella seconda, i decessi sono 13810 su 21784 malati (letalità del 63,3%). Ma è un calcolo minimo che esclude migliaia di vittime. De Renzi parla di oltre 30 mila morti.
Conclusioni. Oggi il Vibrio cholerae è tornato a essere una malattia per poveri. Ci si ammala nelle zone meno sviluppate del mondo e si muore nell'ordine di decine di migliaia di persone l'anno, come accade nello Yemen investito dalla guerra. A Napoli il colera si è ripresentato in tempi recenti. È accaduto nel 1973 con un bilancio finale di 24 morti e 278 casi tra Ferragosto e la prima metà di ottobre. Imputato principale, i frutti di mare pescati in un Golfo avvelenato dagli scarichi.
Nota. La maggior parte delle notizie di questo post sono tratte dai lavori storici sul colera a Napoli di Annalucia Forti Messina.
Quando Bari fu colpita nel 1836 dall’epidemia di colera. Vittorio Polito il 31 marzo 2020 su Il Giornale Di Puglia. Com’è noto per epidemia si intende la manifestazione collettiva di una malattia che rapidamente si diffonde, per contagio, fino a colpire un gran numero di individui in poco tempo. In questi giorni, con le notizie che ci pervengono per il coronavirus o Covid-19, stiamo aggiornando le nostre conoscenze in materia. Ma vediamo, con l’aiuto dello storico Vito Antonio Melchiorre (1922-2010), che succedeva a Bari circa due secoli fa. Nel 1836 una epidemia di colera si manifestò a Bari e si annotarono 1290 casi di infezione e 238 decessi e, mentre sembrava attenuarsi il contagio entro dicembre, nel giugno 1837 riprese alla grande, causando altre 854 infezioni e 138 nuovi decessi. Considerando che Bari allora contava appena 26.000 abitanti, le autorità si preoccuparono non poco e negli atti si legge “…di provvedere intorno ai mezzi come accorrere in aiuto ai poveri infermi, e ciò per umanità, e perché la malattia dominante venisse debellata al più presto…”. Per reperire il danaro occorrente si utilizzarono i fondi destinati a soccorrere i poveri in caso di nevicate, quelle per la costruzione di un faro nel porto, di una chiesa e di un giardino pubblico, per un importo pari a 1100 ducati. Furono acquistati letti, biancheria e vitto e ingaggiati 24 spazzini (gli attuali operatori ecologici), e 6 carretti per la pulizia delle strade per evitare “maligne influenze atmosferiche tanto nocive alla pubblica salute”. Furono istituiti comitati presieduti da parroci e composti da “uomini buoni e caritatevoli”, i quali fecero affiggere sulla porta di ogni chiesa un elenco di medici e farmacisti, ai quali la popolazione si poteva rivolgere presentando un biglietto firmato dal parroco o da uno dei membri del comitato e, in caso d’urgenza, anche senza alcun messaggio. Nel 1873 un’altra infezione di colera si manifestò nel Mezzogiorno, minacciando anche Bari ed il prefetto costituì una commissione di 8 membri, presieduta da tale Beniamino Scavo, finalizzata ad accertare le condizioni igieniche della città che non risultarono proprio in regola. Si rilevarono così irregolarità al cimitero, luridume e infrazioni di ogni genere nei mercati, le osterie vendevano vini sofisticati con aggiunta di acqua, carbonati alcalini o calcarei e sostanze coloranti. Furono anche controllati 39 pizzicagnoli (il salumiere di oggi), di cui: 13 furono definiti mediocri, 6 cattivi, 6 pessimi e 14 passabili, 14 cantine, mentre in 5 abitazioni si smerciavano carni di cavallo, asini e muli, macellati senza alcun accertamento sanitario. Anche nelle 21 scuole furono riscontrate gravi irregolarità con servizi igienici inesistenti o sostituiti da recipienti di creta (?), per cui gli alunni erano costretti ad uscire da scuola per deporre sulla pubblica via feci e urine. La situazione apparve subito disastrosa e la commissione propose di preparare grandi quantità di solfato di ferro e di cloruro di calce, intensificare la vigilanza sanitaria e isolare gli eventuali casi di colera con cautele e disinfezioni, proprio come si sta facendo oggi con la pandemia del coronavirus. Bari, nel 1873, non fu interessata dal colera.
L'AMARCORD E IL CORONAVIRUS. Puglia, quando arrivò il colera nel 1973 il Nord ci sbeffeggiò. Senza i social poche «fake news». E nessuno contro l’Africa. Ugo Sbisà il 25 Febbraio 2020 su La Gazzetta del Mezzogiorno. La psicosi generata dalla diffusione del coronavirus e soprattutto i provvedimenti amministrativi di chiusura che, al Nord e in diverse regioni, stanno riguardando molti luoghi pubblici, risvegliano nella memoria di chi li ha vissuti il ricordo dell’epidemia di colera che nel 1973, insieme con Napoli, mise a dura prova anche Bari. Era all’incirca la fine di agosto quando si verificarono i primi casi in città e per molti si trattò di una vera e propria doccia fredda: l’ultima epidemia di colera a Bari risaliva infatti al 1837, mentre la città si era «salvata» da una nuova ondata che aveva riguardato l’intero meridione nel 1873. In altre parole, il colera sembrava un male confinato all’Ottocento e sopravviveva nella memoria degli anziani o, tutt’al più, in quella dei lettori di romanzi di ambientazione esotica. Questo spiega perché i primi casi colsero alla sprovvista le strutture sanitarie e le farmacie, prive dei farmaci necessari per la prevenzione e la cura della malattia. Ma - e questo è decisamente peggio - la diffusione del vibrione era tradizionalmente associata alle cattive condizioni igieniche e questo favorì la circolazione di notizie non sempre veritiere diffuse soprattutto dagli inviati di certa stampa del Nord che, in particolare nel descrivere le condizioni di vita di Bari vecchia, calcarono sin troppo la mano, raccontando di miasmi insopportabili e soprattutto di topi che, al calar del sole, diventavano i padroni incontrastati dei vicoli e persino delle abitazioni...Esagerazioni a parte, l’amministrazione comunale - all’epoca guidata dal democristiano Nicola Vernola - intervenne prontamente disponendo la chiusura di tutti i locali pubblici, cosicché, in quel caldo scampolo d’estate, i baresi dovettero rassegnarsi a trascorrere le serate in casa, dividendosi tra il televisore (con la sola scelta tra Raiuno e Raidue) o rispolverando con grande anticipo sul Natale i giochi di carte e di società. Fuori casa nessuno avrebbe mai rischiato di bere persino un semplice bicchiere d’acqua, meno che mai se di rubinetto. Cinema, teatri, ristoranti erano tutti rigorosamente chiusi e lo stesso Vernola, anni dopo, ricordò divertito di essere stato chiamato da un allarmatissimo Aldo Moro pochi giorni dopo lo scoppio dell’epidemia: i due avevano pranzato assieme la settimana precedente e Vernola, da buon barese, aveva consumato delle cozze crude. Di qui la preoccupazione dello statista salentino che il primo cittadino potesse aver contratto la malattia. Ovviamente, la cautela non si fermò ai luoghi di svago, ma riguardò anche l’inaugurazione della Fiera del Levante e persino le scuole, tant’è che quell’anno 1973-74 s’iniziò con oltre un mese di ritardo. E furono forse gli studenti gli unici che, con una punta di incoscienza, guardarono al vibrione con una certa simpatia. I più fortunati di loro ripararono con le madri nelle case estive, considerate più «sicure» perché lontane dal focolaio d’infezione. La situazione cominciò a normalizzarsi con l’arrivo del vaccino in grande quantità, che coincise anche con un lento ritorno alla normalità. L’emergenza era durata all’incirca un paio di mesi, ma soprattutto - sebbene il colera fosse un male curabile con rimedi noti e non un virus ancora in attesa di antidoti - era stata affrontata senza psicosi. Merito di una ferma ed efficace gestione sanitaria - si distinse, fra i tanti, il prof. Nicola Simonetti - e amministrativa, ma soprattutto anche di una più «sana» informazione. Quarantasette anni fa, internet era pura fantascienza e in loco le notizie o le raccomandazioni circolavano solo sulla carta stampata, in radio e in televisione, ma sempre dopo essere state accuratamente valutate e verificate. In altre parole, l’epoca delle fake news era di là da venire e il mondo della politica non si azzardava minimamente a strumentalizzare le emergenze per attaccare i propri avversari. Un ultimo aspetto: fermo restando che la città di allora era forse meno pulita di quella di oggi, alla fine il focolaio dell’infezione venne identificato a Napoli in una importante partita di cozze arrivata sui mercati del Sud dal Nordafrica; il caldo e una certa disinvoltura igienica delle zone colpite avevano fatto il resto. Ma nessuno se la prese col Nordafrica...
1865-1866: Il colera in Manduria nelle cronache dell’epoca. Gianfranco Mele il 29 Febbraio 2020 su La Voce di Maruggio. Nel 1865 appare per la prima volta il colera a Manduria, che si caratterizza proprio come epicentro della diffusione nella nostra zona. In quel caso, fu individuato come “paziente zero” un tal Giuseppe Piccione che secondo alcune fonti aveva contratto il morbo mentre lavorava al porto di Brindisi, secondo altre, poi ritenute più attendibili, ad Ancona, da dove era passato mentre da militare faceva ritorno da Bologna. L’emergenza colera si protrae dalla fine di luglio agli inizi di ottobre del 1865. La seconda diffusione parte nel 1886 da Latiano e Francavilla Fontana, nel giugno di quell’anno raggiunge Uggiano Montefusco e si riaffaccia su Manduria. E’ subito polemica in merito alla gestione politica e sanitaria dell’epidemia, alcuni giornali attaccano l’amministrazione comunale manduriana tacciandola non solo di incapacità ma anche di opportunismo in quanto i componenti della giunta municipale intera si sarebbero rifugiati in campagna con le loro famiglie, disinteressandosi della situazione in città e pensando esclusivamente a salvaguardare la propria salute. Analizzeremo qui cronache ed editoriali di alcuni giornali dell’epoca, mentre per una sintesi storica e ulteriori dettagli rimando all’articolo di Pio Capogrosso (facilmente rintracciabile sul web) che riporto qui in bibliografia.
Il Cittadino Leccese del 19 agosto 1865 apre con un editoriale piuttosto polemico, accusando la politica di tacere ed esortando gli amministratori della Provincia a ricorrere ai necessari mezzi di prevenzione della diffusione del contagio. L’articolo prosegue con la pubblicazione di una nota del 1837, anno in cui già si propagava tragicamente il colera nella provincia di Bari, ma non raggiunse la Terra d’Otranto grazie, sostiene l’editoriale, all’intervento del Duca di Monteiasi, all’epoca Intendente della Provincia di Lecce, che impose un “rigoroso e completo isolamento a tutto il territorio del Leccese”. Il Duca aveva sospeso commerci con la provincia di Bari e respinto sulla frontiera i cittadini provenienti dal barese. Contro questi provvedimenti si era espresso l’Intendente di Bari, il quale “mosse lagnanze al Real Governo”: il Duca rispose così fornendo al Governo tutte le spiegazioni dei suoi drastici provvedimenti. L’editoriale del Cittadino Leccese ripropone così le note del Duca rivolte al Ministro dell’Interno di Re Ferdinando, perchè siano di esempio, sostiene, agli attuali amministratori della Provincia di Lecce che dovrebbero seguire le orme di quel predecessore, ed esortando quindi a mettere in funzione un efficace sistema d’isolamento che emuli i provvedimenti adottati 30 anni prima dal Duca. Nella lettera al Ministro, il Duca difende il suo operato e giustifica la sua scelta di isolare le persone provenienti dalla zona infetta, non ammettendole “sul territorio sano”. Il Duca conclude la sua lettera ribadendo alcuni principi secondo lui necessari a prevenire la diffusione del colera, ovvero l’isolamento dei singoli casi verificatisi nei paesi colpiti, l’isolamento dei “paesi infetti dai sani”, l’obbligo di viaggiare sempre accompagnati da un certificato sanitario, la necessità che medici ed autorità comunali dei singoli paesi segnalino casi dei quali sono venuti a conoscenza. Dopo la lettera del Duca di Monteiasi, il Cittadino Leccese pubblica una lettera di un Professore in Medicina, un carteggio tra il prof. Tommasi e il prof. Turchi, nel quale il Tommasi espone al collega i suoi punti di vista sulla questione: la riporto qui appresso, suddivisa in 3 ritagli. Il 25 agosto del 1865 Il Cittadino Leccese riporta in prima pagina la notizia di nuovi casi di colera in Manduria, fornendo alcune cifre: dal 24 luglio al 23 agosto i casi “sommano 26, de’ quali 14 hanno soccombuto, ed uno si è lasciato tuttavia in istato grave”. Con una nota a piè di pagina poi viene specificato che alla data del 24 anche quel paziente grave è morto. In sostanza, si riportano le dichiarazioni contenute in un bollettino sanitario firmate da Raffaele D’Arpe, Emilio Perillo e Domenico Corallo, componenti di una commissione istituita dal Consiglio Sanitario Provinciale per monitorare la diffusione del morbo. Il 2 settembre dalle pagine di quello stesso giornale viene dato un aggiornamento del numero dei morti: 16 il 31 Agosto, 13 l’1 Settembre e altri 13 il 2 settembre. La paura dilaga, e chi può fugge via da Manduria o nelle proprie residenze di campagna: qui, il giornale attacca l’amministrazione di essersi dileguata pensando a sé, insieme ai ricchi proprietari e alla Congregazione della Carità, per cui in paese son rimasti solo i poveri. Due terzi della popolazione son fuggiti, dichiara il giornale, e un terzo è rimasto abbandonato, “senza aiuti di sorta e in preda alla più desolante disperazione”. Il 9 settembre 1865 sempre su Il cittadino leccese viene pubblicato un altro bollettino sanitario firmato da D’Arpe, Perillo e Corallo. Era già la terza volta che questa commissione si recava in Manduria, prestando il suo apporto all’opera di Professori medici giunti da Firenze (Pellegrino Levi e Dante Borgi), da Napoli (Giarnieri, Ungaro), che coadiuvavano il Professore tarantino Ricciardi e il leccese Ambrogio Rizzo. Erano rientrati anche, a dar man forte all’equipe sanitaria, i medici locali Caputi e Ponno che si erano “assentati per qualche giorno in seguito di sciagure domestiche”. Nel Convento degli ex Carmelitani era stato installato un ospedale per i malati di colera, nel quale alla visita della commissione erano ricoverati 11 pazienti, dei quali 3 in gravissime condizioni. Percorrendo il paese di Manduria alla ricerca di tutti gli altri contagiati, i componenti della commissione provinciale contavano a quella data 50 persone “attaccate” dal colera nei giorni precedenti: di questi 50, per 8 persone la prognosi era che “non poteano dichiararsi fuori ogni pericolo, comechè in lodevole reazione e senza gravi determinazioni secondarie”, mentre i restanti 42 erano stati dichiarati “in lodevole stato di risoluzione morbosa da non lasciare ulteriore timore”. La commissione aveva poi individuato 3 soggetti in situazione di algidismo ovvero in una condizione tipica dei contagiati da colera e alcune altre malattie infettive, che consiste in abbassamento della temperatura superficiale (ipotemia), e in sintomatologia da collasso circolatorio periferico. “Pochi altri”, riferisce la commissione, sono stati trovati inoltre “in istato d’incipiente colerino”. Dopo la visita ai pazienti, i 3 commissari si recano al palazzo municipale, e partecipano, assieme ai Professori, ad una adunanza presieduta dal Sotto Prefetto con l’assistenza del Sindaco Tarantini Maggi e di due Assessori. Si conviene che il colera-morbus costituisce ancora una preoccupazione per la comunità, nonostante gli attacchi gravi siano diminuiti nel numero, ma “non così i lievi ed i colerini che vedevansi ancor molto diffusi, e ne’ quali campeggiava facilmente qualche altra complicanza morbosa sia di elmintiasi, sia reumatico-gastrica, e molto più spesso ancora di febbre endemica palustre”. Si convenì quindi al termine di quella discussione, che nessun medico doveva abbandonare il campo, e che anzi il servizio di cure e vigilanza fosse meglio organizzato attraverso l’assegnazione di una contrada “a ciascun professore sanitario, per esercitarvi il suo ministero”. Così, i dottori Levi e Borgi furono assegnati all’Ospedale, mentre Rizzo, Caputi, Ponno e Giarnieri furono assegnati ciascuno a uno dei 4 rioni in cui era stato diviso il paese. Ogni mattina ciascun medico doveva redigere un dettagliato rapporto nominativo dei casi osservati e trattati nel corso delle precorse 24 ore, con la indicazione inoltre dei morti nei rispettivi quartieri e nell’ospedale: il rapporto doveva essere spedito prima di mezzogiorno all’ Ufficio Sanitario che a sua volta lo avrebbe trasmesso via telegrafo alla Prefettura. In quella adunanza, si discusse inoltre delle misure precauzionali, anche coattive, per contenere la diffusione del contagio: “Coordinato in tal guisa questo servizio, abbiamo inteso il bisogno tuttavia d’inculcare che in ogni casa ove manifestasi il morbo si fosse energicamente accorsi co’ mezzi disinfettanti a norma delle avvertenze inviate dal Consiglio Superiore di Sanità, obbligando le famiglie possidenti alla spesa necessaria, o supplendovi il Municipio, in difetto. Essendoci poi pervenuto a conoscenza che molte case, ove sono avvenute morti per colèra, siano rimaste chiuse per rapido allontanamento ed abbandono degl’individui superstiti, così, per espurgarsi siffatte abitazioni prima che le famiglie vi ritornassero, abbiamo disposto di farsi invito a quegl’individui a mandar prontamente persone per l’apertura di que’ locali onde essere disinfettati, ed in mancanza si fossero adoperati i modi di legge per essere aperti con la forza nell’unico scopo di praticarvi lo espurgo”. Particolare attenzione si dedicò alla questione della tumulazione dei cadaveri dei colerosi: “Parimenti abbiamo data facoltà al Sindaco di far seppellire da ora innanzi i cadaveri de’ colerosi nel novello camposanto per inumazione già apprestato, e colle precauzioni a norma de’ Regolamenti Sanitari, e da noi, nelle precedenti visite fatte col signor Prefetto, caldamente raccomandati – A quei tumuli poi dell’antico cimitero, nei quali sinora sono stati seppelliti i cadaveri de’ colerosi, contro quanto si era disposto fin dal primo apparire del morbo, si fosse portata oggi almeno tutta l’attenzione possibile nello scopo di chiuderli ermeticamente, condizionarli con strati di calce viva, e non riaprirsi se non dopo lo elasso di lunghi anni, se pure non debba completamente smettersi quel camposanto a tombe”. La relazione si conclude con una serie di note che riportiamo di sotto, nel ritaglio giornalistico di cui pubblichiamo foto. I rapporti sul Colera a Manduria vengono pubblicati anche sulla rivista medico-divulgativa L’Imparziale, a firma di quel Prof. Pellegrino che operò in Manduria. Sempre sul giornale Il Cittadino leccese, invece, viene pubblicata una lettera del savese Giuseppe Mancini che tratta della solidarietà offerta da parte della vicina comunità savese alla città di Manduria.
1865-1866: IL COLERA IN MANDURIA NELLE CRONACHE DELL’EPOCA. Gianfranco Mele 13 Marzo 2020 su La Voce di Maruggio. Come si è detto nel precedente scritto, la seconda diffusione di colera in zona parte nel 1886 da Latiano e Francavilla Fontana, e nel giugno di quell’anno raggiunge Uggiano Montefusco e si riaffaccia su Manduria. Da “La Sentinella” del 26 luglio 1886 perviene la notizia che “ormai il colera ha invaso tutto il paese e comincia a serpeggiare anche nelle campagne”. Come nell’anno precedente, notabili, imprenditori, politici e amministratori vengono accusati di essersi defilati e aver pensato esclusivamente ai propri interessi e alla protezione della propria salute e di quella dei loro familiari, e di aver provocato con questo loro atteggiamento anche gravi ripercussioni nell’economia della cittadina e nella salute stessa degli abitanti: “… al primo annuncio di colera il paese rimase spopolato ed abbandonato. L’abbandono si riferisce alla condotta tenuta dai signori del luogo, che tosto si ritrassero nelle loro non ridenti ville, avvalorando col loro contegno la paura dalla quale il popolo era invaso. Per la loro partenza si produsse subito il più completo ristagno nel commercio e nei lavori – e tutti quelli che per tal modo vivevano, oggi muoiono di fame. E questo oltre al dare origine ad una vera e propria questione sociale che da un momento all’altro può presentarsi come un problema di ordine pubblico, produce anche il disastroso effetto di preparare il terreno all’epidemia con l’indebolire gli organismi”. Lo scritto, non firmato, prosegue con pesanti accuse all’ amministrazione comunale: “E c’è di peggio. Vi dirò in breve che qui è scappato via tutto l’intero Municipio. Il sindaco ha fatto quello che poteva, e si è ritirato solo quando la sua salute gli impediva di continuare. Gli assessori ed i consiglieri abbandonarono precipitosamente i loro posti, perchè avevano troppo lavorato durante il periodo elettorale, ed erano stanchi”. In un crescendo polemico e con taglio sarcastico, un assessore viene accusato di aver addirittura negato e occultato la diffusione del colera : “Vittima del dovere rimase solo fino a pochi giorni fa l’ avvocato Preite, ed il dovere consisteva nel dover ricevere il suo amico Lo Re che passava di qui dopo aver accompagnato il ministro Grimaldi. Senonchè egli assicurò al suo amico che non vi era colera e che quindi era inutile che egli si occupasse a visitare gli ammalati. Il Lo Re partì, e la mattina dopo fece fagotto anche l’assessore Preite colla famiglia, poiché in paese non ci era colera, e l’opera sua era inutile!” Proseguono nello scritto le accuse all’assessore contrapponendo la strafottenza e la irresponsabilità di quest’ultimo al comportamento prodigo e diligente di un Onorevole, che l’assessore stesso giunge persino a tentare di depistare: “Due volte l’ On. D’Ayala ha visitato questo paese – ed aggiungerò, il lazzaretto di questo paese. Sempre fu largo di soccorsi ed incoraggiamenti, e le case dei colerosi è stato buono a trovarle da solo, dopo che il mentovato assessore gli ebbe detto anche a lui che a Manduria non ci era colera”. Ci sono invece parole di lode per il consigliere comunale Orazio Schiavoni, uno dei pochi, a detta dell’articolista, a non aver abbandonato il paese e ad essersi prodigato per i suoi concittadini, e per l’ avvocato Carmelo Schiavoni “venuto subito qui per mettere a disposizione le sue forze per gli infelici: egli ha organizzato le cucine economiche, che nelle presenti circostanze risolvono il problema più grave”. Vengono lodati anche l’ex capoguardia Giovanni Tarentini per essersi prestato al servizio dei suoi compaesani, Giuseppe Gigli che “ha appeso al muro la sua cetra”, le monache della carità che sono appena in sei, e che si prodigano e si sacrificano prestando la loro opera presso l’ospedale, presso il lazzaretto, lavorando nelle cucine economiche, prestando soccorso a domicilio agli ammalati. Una critica viene rivolta invece ai preti del paese che “fanno un servizio buono…quanto inutile e forse dannoso”. Parole aspre vengono rivolte alla Congregazione di Carità, alla Pretura e ancora a politici e amministratori: “E’ doloroso lo sciopero completo della Congregazione di Carità e della Pretura. Aspettiamo fidenti che il Governo metta la mano vigorosamente in tanto sfacelo, e mandi a casa tutte le nullità, che venute su negli ultimi anni, si erano impadronite del Comune per poi abbandonarlo quando lo starci era dovere”. Non vengono risparmiati neanche i medici, tacciati di incapacità: “I medici non sono tutti all’altezza della posizione. E’ stato necessario far venire da Lecce il giovane dottor Sellitto, il quale ha contribuito efficacemente a riordinare il servizio”. Lo scritto si chiude evidenziando che l’epidemia è in crescita e insieme ad essa la miseria, che le risorse sono limitate, così come i mezzi, e che perciò occorrono aiuti con urgenza, soprattutto di tipo economico. Il suddetto giornale ospita anche uno scritto di Giovanni Giannone da Pulsano, che evidenzia come anche in Pulsano il colera ha fatto diverse vittime, e che solo nelle ultime 24 ore dalla spedizione della lettera al giornale (datata 19 luglio) son morte ben 4 persone. Un terzo articolo, sempre su La Sentinella del 26 luglio 1886, fornisce aggiornamenti epidemiologici. Viene fatto il punto della situazione alla data del 24 luglio, ovvero a distanza di un mese circa dalla ricomparsa in Manduria della nuova ondata di colera: “ Il colera non dirò che è cresciuto, ma si è mantenuto finora stazionario, di quella stazionarietà che può da un momento all’altro diventare il punto di partenza di un triste progresso. Tanto più che si manifesta un fatto che noi paventavamo e che potrà sensibilmente aggravare la nostra posizione. Parlo cioè del colera che comparisce nelle campagne. Si sono già avuti quattro casi di colera in campagna. E se tutti i rifugiati in campagna si riversassero in paese, qui sarebbe certo un’epidemia intensissima. Per ora i morti non hanno oltrepassato mai il numero di dieci nella giornata. Abbiamo avuto perfino 34 casi in un giorno; ma i morti non sono stati più di dieci”. L’articolo prosegue con una aspra critica ai medici del paese, tacciati di disorganizzazione, indisciplina e poca voglia di lavorare, mentre si loda l’operato di due medici forestieri, il già citato dottor Sellitto da Lecce e il dottor Tempesta da Napoli (riporto qui di sotto uno stralcio): Si loda l’operato della Prefettura che ha permesso di organizzare la mensa, e quello di alcuni notabili del paese, ma continuano nell’articolo le critiche rivolte alla amministrazione e alla organizzazione selettiva dei soccorsi: Le critiche alla amministrazione proseguono feroci, con palesi accuse di “indegnità e incapacità” nella gestione dell’emergenza: “Ci è in paese solo un consigliere, Orazio Schiavoni, che con infaticabile energia sostiene sulle sue spalle il peso dell’amministrazione intera, oltre all’accudire a tutto quant’altro interessa il paese. Ed egli è mai possibile che le autorità si intestino a tenere in piedi un Consiglio Comunale ed un organismo amministrativo che ha dato tale e tanta prova di indegnità e di incapacità? O si aspetta forse che il colera finisca per attendere il ritorno dei signori consiglieri, che ricominceranno ad occuparsi di due guardie campestri, e di un maestro comunale, come hanno fatto per due lunghi anni, senza avere un pensiero per tutto ciò che non sia bassa vendetta di partito, solo sentimento del quale può dirsi siano capaci le loro anime di imbecilli?” Un quarto ed ultimo articolo, sempre nel numero 6 del 26 luglio 1866 de “la Sentinella”, firmato da “un veterano” (la maggior parte dei corrispondenti si firmano con pseudonimi) fa invece il punto della situazione a Francavilla Fontana: si apre evidenziando che il numero dei casi è diminuito ma l’intensità del morbo è cresciuta. Qui, si loda l’operato dei medici francavillesi, del clero e delle suore di carità; una critica è rivolta invece al presidente della Croce Rossa, e ad un assessore che, a dire dell’articolista, “dal primo infierire del colera, vergognosamente si mise in salvo, dimostrando chiaramente così come la sola ambizione volgare fa stare certuni a posti che non son degni di assumere”. Si dà notizia, inoltre, di uno scongiurato pericolo di sciopero dei becchini che avrebbe potuto causare seri danni: grazie al delegato di P.S., lo sciopero viene revocato. Il ritaglio completo dell’articolo, qui a seguire. Ovviamente, ieri come oggi, una imparzialità della stampa rispetto alla politica non esisteva, e di conseguenza non esisteva imparzialità nel registrare fatti di cronaca e di vita sociale: così, se La Sentinella appare inequivocabilmente essere a sostegno dei partiti che caratterizzano l’opposizione all’amministrazione manduriana dell’epoca, dalle colonne de La Voce del Popolo si levano critiche feroci proprio a coloro che scrivono su La Sentinella, accusati di scrivere demagogicamente e affatto disinteressatamente e imparzialmente intorno alla questione colera. Cronisti e corrispondenti locali de “La Sentinella” si firmano con pseudonimi del tipo “un Camerata”, “il Caporale”, “l’ Uffiziale”, “un Veterano”, ecc. . L’articolo del 15 agosto 1886 de “la Voce del Popolo”, giornale ideologicamente contrapposto a “La Sentinella”, ha per titolo proprio “la Sentinella ed il colera a Manduria” e consiste in un duro e polemico attacco a quel giornale, ai suoi cronisti e corrispondenti ed al modo in cui trattano la questione colera a Manduria. Gli articolisti sono tacciati di accusare ingiustamente l’amministrazione e “le persone più rispettabili del paese”. Qui di sotto, un ritaglio. L’articolo de La Voce del Popolo, anche qui firmato con uno pseudonimo, “Veritas”, prosegue attaccando il corrispondente de “La Sentinella” che si firma “L’Uffiziale”, accusato di demagogia, di tirare acqua al mulino del suo partito e di diffondere perciò notizie non veritiere e infamanti; di stravolgere i fatti, perchè aspira a candidature, e persino di essere un ubriacone (“tu rimani in mezzo al colera – ed anche in mezzo alle bottiglie di cognac”). Così, l’ “Uffiziale” viene qui accusato di screditare i medici suoi concittadini, specie se sono medici non aderenti al suo partito, e di far finta di non vedere invece il comportamento biasimevole dei seguaci della sua corrente politica. Qui, insomma, ogni accusa partita dalle cronache de La Sentinella viene ribaltata e vengono screditati i personaggi che La Sentinella invece aveva lodato. A seguire, il ritaglio che tratta di questi argomenti (l’articolista de “la Voce del Popolo”, “Veritas”, si sta rivolgendo direttamente a “l’ Uffiziale” de “La Sentinella”): Comparando i pur diversi e opposti resoconti “de “La Sentinella” e “La Voce del Popolo”), ciò che sembra emergere è che omissioni e “fughe” di personale politico, amministrativo e sanitario ve ne sono state in ogni caso, solo che ciascuno dei due giornali dà risalto più alle inadempienze dei personaggi appartenenti alla fazione politica degli avversari che a quella propria. Ad ogni modo, per “la Voce del Popolo” tutti coloro che “la Sentinella” attacca come pavidi e irresponsabili sono invece “generosi e coraggiosi”: L’articolo de “La Voce del Popolo” si chiude con un duro attacco personale al corrispondente manduriano de “La Sentinella”.
Era l’anno 1928, a Maruggio c’era la tubercolosi. Tonino Filomena l'1 Marzo 2020 su La Voce di Manduria. Il dottor Pietro Saponaro (1899-1980), la cui memoria è ancora viva nella nostra comunità, arrivò a Maruggio nel settembre 1928 per prepararsi a sostituire il vecchio ufficiale sanitario del paese, Emanuele Macchia. Don Pietro o “medico dei poveri” (così veniva indicato dai miei concittadini) si rese subito conto che la popolazione più povera aveva urgente bisogno di cure a causa della diffusione della tubercolosi. Questa malattia infettiva, considerata grave e mortale fino alla metà del secolo scorso, divenuta oggi più facilmente diagnosticabile e curabile, si diffondeva (così come il coronavirus) per via aerea attraverso goccioline di saliva emesse con la tosse secca. Oggi come allora la maggior parte delle infezioni risulta essere asintomatica e se non trattata per tempo, può uccidere più del 50% delle persone infette. Il nostro bravo Don Pietro non si perse d’animo e dopo alcune settimane (22 novembre) scrisse al Prefetto di Taranto: «In questo Comune» – si legge nella lettera in mio possesso – «è in atto una non lieve percentuale di casi di tubercolosi. Varie sono le circostanze che determinano in questo paese l’attecchimento ed il divulgarsi dell’infezione in parola. Prima fra queste la condizione climatica, per la quale predominante nella stagione invernale i freddi umidi, gli organismi, in parte minorati dalla malaria che fino a qualche anno fa ha funestato questa popolazione […]. Altro fattore di non secondaria importanza è il pericolo del contagio […]. I tubercolotici sono in giro continuamente in paese, frequentando attualmente pubblici esercizi, caffè, osterie ecc. Ne consegue che dappertutto tossiscono e sputano […]. I rimedi? – Vari – necessari per tutti però! In via generale si deve prevenire la tubercolosi – isolare l’ammalato […]. Ai bambini nati da genitore tubercolotico […] s’impone per essi la vaccinazione […]. Dette vaccinazioni conferiranno al piccolo organismo, così come per il vaiuolo, uno stato di raffrettarietà all’infezione […]. Tutto ciò prima che il bambino […] venga inviato in appositi luoghi, quali: colonie, scuole all’aperto, avviamento professionale ecc… […]. Son sicuro, in un lontano domani saranno attuate dal governo fattivissimo di Benito Mussolini, il quale saprà portare anche in questo campo l’Italia al primo posto di civiltà e di progresso.» Il “medico dei poveri” (vedi foto, anno 1969) sconfisse la tubercolosi nel giro di pochi mesi, salvando così centinaia di bambini maruggesi, figli di genitori tubercolotici. Il 12 dicembre 1928 fu nominato medico condotto di Maruggio e Ufficiale Sanitario del Comune, percependo uno stipendio annuo lordo di 11.000 lire. Il 20 dicembre dello stesso anno la Speciale Commissione Provinciale Antitubercolare lo iscrive d’ufficio “per conseguiti meriti”. Grazie Don Pietro. Maruggio ti è grata! Eternamente. Tonino Filomena
Roberto Burioni, il precedente del 1.300 e l'evoluzione del morbo: cosa dobbiamo aspettarci adesso. Renato Farina su Libero Quotidiano il 13 marzo 2020. Il libro è crudele, spietato. Somiglia al virus. Non ha lieto fine. Ma indica una strategia efficace per salvarci, l' unica basata sulla scienza e non sulla scemenza. Quarantena. Con un solo aggettivo qualificativo a caratterizzarla: assoluta. Quarantena assoluta! Isolamento sociale con il silicone. Non si sconfigge con i decreti (era ora! Ce ne vorrebbero di drastici) ma con l' autocoscienza che dice: chiusi, tappati in casa. Altrimenti il prossimo passo sarebbe il coprifuoco. Fermiamoci prima, ma bisogna farlo tutti. Lì sta oggi l' unica speranza. La scienza, allo stato attuale delle conoscenze, non consente illusioni. Il vaccino? Arriverà tra diversi anni. Medicinali efficaci? Non se ne conoscono, se siamo fortunati qualcosa si troverà, ma non è detto. Paura? Il libro consente di controllarla con la ragione, aiutandoci a guardare in faccia il nemico, ne segnala il limite. Il Covid-19 non è immortale. Ha bisogno di noi per sopravvivere. Dunque si tratta di sottrarsi ad esso. Se non trova gente in cui infilarsi, da parassita qual è muore, o se il suo diffondersi diventa sporadico per sopravvivere è costretto a farsi debole, sta lì a covare, ma forse, per quando proverà a riprendere in mano il bazooka, avremo creato la corazza del vaccino. Roberto Burioni, con la collaborazione di un altro illustre scienziato della materia, il professore Luigi Lopalco, ha scritto "Virus, la grande sfida. Dal coronavirus alla peste: come la scienza può salvare l' umanità" (Rizzoli, pag. 240, 15 euro, in formato elettronico a 7 euro). Dimentichiamo le polemiche idiote contro di lui, tese a squalificarlo. Se si scalda con gli ignoranti o i minimizzatori, una ragione l' ha. Lui sa! Sa tutto quello che si sa, e sa tutto quello che del Covid-19 ancora non si sa. Ecco, non si sa chi sia il paziente zero che ha portato in Europa questo virus. Forse è una manager cinese che è stata in Germania? Probabilmente è lei. E qui la prima cosa da sapere. Ha superato tranquillamente ogni controllo. Stava benone. La misurazione della temperatura in aeroporto non è servita a nulla. Perché in lei il virus c' era, eccome, si trasmette come una bomba a tempo, quietamente, innocentemente, da chi ha un bel colorito e si sente sicuro, a un anziano pallido come me. Se non si capisce questo, siamo condannati. Burioni, con una scrittura facile e brillante, si immedesima con la bestia, perché conoscerla è l' unico modo per affrontarla. Descrive il proprio lavoro di epidemiologo come quello di «un detective a caccia del serial killer». Una volta trovatolo, lo esamina da vicino. Eccolo al microscopio. Questa bestia è mille volte più piccola di una capocchia di spillo, ma ha ambizioni gigantesche. Si chiama Coronavirus perché ha proprio una corona in testa come i re. Ha il progetto di dominare la famiglia umana penetrando corpi indifesi e insinuandosi in cellule inermi. Le trasforma in solide scatole dove alloggia da parassita. Le spezza dopo dieci-dodici giorni e nel frattempo si moltiplica, in modo imperfetto, ridicolo. Se lo bevono tutti. Ha successo. È il format Paperissima. Il Corona ha la genialità di Antonio Ricci. Fa satira sulla nostra pelle. «Ha preso quello che viene gettato via», provini malriusciti. Ha un' astuzia straordinariamente idiota (ossimoro, dice Burioni). Perché? La scienza lo spiega con Darwin. È l' ultimo prodotto della evoluzione dei virus. Il Covid-19 appartiene alla tipologia del suo antenato (2002-2003), che ha generato l' epidemia da Sars, ma quello era un diavolo onesto. Diventava contagioso dal momento in cui si esprimeva con sintomi seri. Questa nuova bestia ha imparato la lezione. Ha certo una letalità (tasso di morti sul totale dei contagiati) molto più bassa del predecessore. Forse si assesterà sull' 1 per cento dei contagiati, prevede Burioni. Nulla a che vedere con l' 8 per cento abbondante che si registra oggi in Lombardia. Ma il dato è alto perché probabilmente in tanti si sono presi la malattia in modo lieve. E se la stanno curando in casa. Ma non è che l' 1 per cento tranquillizzi. In Italia vorrebbe dire, basandoci sul numero di quanti prendono mediamente la "solita" influenza, 60mila morti. Burioni risale all' indietro. Racconta quella che pose fine all' impero romano e ci introdusse al Medioevo. Passa poi alla peste nera, che nella prima metà del 1300 sterminò un terzo della popolazione europea, 23.840.000 di persone. E segnò il confine con il Rinascimento. Ogni pandemia coincide con un cambio d' epoca. Anche questa attuale, scrive l' autore. Vedremo quale. Fermiamoci un istante però. La peste nera che devastò Firenze (1348, centomila morti) smussò la propria falce a Milano: dove uccise appena il 15 per cento dei residenti, perché qui governanti avveduti chiusero quasi per tempo la città. Una lezione che resta valida. La quarantena fu inventata invece a Venezia. Le navi venivano bloccate in porto. Come capitò ai nostri bisnonni per la "spagnola" (cento milioni di morti: per fortuna oggi abbiamo i respiratori) il nostro organismo è totalmente indifeso davanti al nuovo Corona. Il quale si diffonde con la stessa metodologia dell' incendio nei boschi. Un fulmine. Un albero arde. Ne incendia due, due ne infiammano quattro, che diventano sedici e via. Con questo ritmo brucia la foresta. A meno che arrivi la pioggia, che frena, mitiga l' espansione. E la pioggia non è quella meteorologica: si chiama isolamento. Separazione. Fine dei contatti sociali. Ecco, questo impone il libro di Burioni, utile quasi come un vaccino. Quarantena assoluta! Mi ripeto? Me ne frego. Il tempo si è abbreviato e non c' è spazio per alcuna illusione. Il Corona è la malattia X il cui arrivo si temeva da anni. Essa è giunta tra noi.
Coronavirus, l’epidemia di vaiolo che la Jugoslavia e l’Europa sconfissero nel 1972. Pubblicato giovedì, 12 marzo 2020 su Corriere.it da Francesca Battistini. “Messe in quarantena 430 persone che hanno avuto contatti col primo infetto”. “L’ordine tassativo è di limitare al minimo gli spostamenti all’interno delle zone di contagio”. “Le manifestazioni sportive sono vietate fino a nuovo ordine”. “Ridotti al minimo tutti i riti religiosi”. “La popolazione è invitata a evitare assembramenti”. “Un’intera regione è stata posta in isolamento”. “La polizia di frontiera controlla sulle entrate e sulle uscite”. “Numerosi turisti hanno disdetto le prenotazioni”… Vi dice qualcosa? Niente è più inedito dei giornali di ieri e scorrere quelli di cinquant’anni fa, oggi, ha un che di già letto. Nel 1970, prima che arrivasse l’inverno, una famigliola afgana scese dalle montagne di Herat infestate dal vaiolo endemico. Prese un camion, andò a pregare l’Ottavo Sciita a Mashhad e, quando se ne tornò a casa, centinaia d’infetti erano già in giro. Si volava meno, a quei tempi. E ci vollero quasi due anni, prima che il vaiolo sorvolasse il continente, arrivasse in Jugoslavia e scatenasse l’ultima, grande, ormai dimenticata epidemia d’Europa prima del coronavirus. Accadde tra febbraio e marzo, anche allora. Nel 1972. Un’emergenza totale. E anche quella volta partì tutto dall’Asia, in una catena del contagio casuale e inarrestabile: prima i devoti iraniani contagiati dalla famigliola afgana, che s’erano sparsi fra l’Iraq, la Siria e la Mecca; poi un imam albanese del Kosovo, che era rientrato da un pellegrinaggio alla Kaaba; quindi un insegnante di scuola, che i primi di febbraio aveva sfiorato l’imam per le strade di Djakovica; di lì, nessun medico che aveva capito cosa fosse quella strana febbre a 40 con le pustole, e una quarantina di persone che era stata colpita… Negli anni ’70, l’Europa pensava d’aver debellato il vaiolo il vaiolo da quasi mezzo secolo. Pensava. La prima notizia sui giornali dell’epoca fu una breve impaginata fra l’annuncio d’una visita di Nixon nell’Iran dello Scià, le discussioni sul Nobel per la letteratura assegnato a Solgenitsin, i reportage di guerra dal Vietnam. Per un po’, le autorità d’oltrecortina si comportarono come i cinesi lo scorso autunno: nascosero quella che consideravano una vergogna – poteva un paradiso del socialismo diventare un inferno del vaiolo? – e sul Corriere della Sera, nella vicina e non ancora preoccupata Italia, i primi asettici titoletti a due colonne comparvero solo il 24 marzo, di taglio basso e a pagina 5: “Vaiolo, anche a Belgrado vaccinazione obbligatoria” (con la tranquillizzante dichiarazione del governo jugoslavo sul fatto che “non vi sono motivi di allarme”). Presto, si capì il disastro. Quanto bastò, in pochi giorni, a portare la notizia sulle prime pagine e a raccontare delle migliaia di jugoslavi finiti in terapia. I fratelli socialisti di Bulgaria, Romania e Ungheria chiusero subito i confini. In Germania e in Austria, dove si scoprì che era passato un emigrato kosovaro infetto, misero in isolamento decine di persone. Israele bloccò il flusso delle comitive di Pasqua. L’Italia introdusse l’obbligo di presentare un certificato di vaccinazione, aprendo uffici d’igiene volanti al confine di Trieste, con lunghe code di frontalieri pronti a farsi siringare: in poche ore, diecimila dosi di vaccino inviate dal ministero della Sanità andarono esaurite. A Venezia e ad Ancona, i cargo jugoslavi vennero tenuti in rada per giorni, in attesa di controlli. Un falso allarme in Sardegna provocò ore di panico. Ai traghetti in arrivo a Bari, furono imposte regole rigide per lo sbarco dei passeggeri, compresa la vaccinazione a bordo. Lo Jugovirus fu preso in tempo. C’era il vaccino, e questo fece la differenza. Non c’erano i No Vax, e questo aiutò. Ma soprattutto ci fu la risposta del maresciallo Tito, appena proclamato per la sesta volta presidente unico e ancora impegnato nella repressione d’ogni dissidente, una reazione che nei numeri fu degna degli epigoni cinesi. Un pugno di ferro in un guanto di lattice: due settimane dopo aver individuato i pazienti uno e due, il regime impose la legge marziale. Cordoni sanitari, blocchi stradali, alberghi requisiti per le quarantene. Agli infetti, sigillati in ospedali militari, furono somministrate dosi da cavallo di penicillina, tetraciclina, gammaglobuline. E in quattordici giorni, in una situazione di totale emergenza, venne organizzata una delle più gigantesche campagne per la prevenzione “last minute” che si fossero mai viste: dal Kosovo alla Serbia, dalla Macedonia al Montenegro, dalla Bosnia alla Croazia e alla Slovenia, 18 milioni di jugoslavi - una media d’un milione 300mila al giorno - furono messi in fila e vaccinati. Funzionò. Il 21 aprile, fu risolto l’ultimo caso d’uno svizzero appena rientrato da Belgrado e l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) dichiarò spenta la fiammata di vaiolo: in due mesi, la Jugoslavia era riuscita a tamponare un’epidemia che stava risvegliando le memorie angosciose di centinaia di milioni di morti, d’una malattia antichissima e globale che nella storia non ha risparmiato gli imperatori cinesi e quelli inca, i faraoni dell’Egitto e gli zar, baffone Stalin e il pellerossa Toro Seduto, Mozart e George Washington. Abbiamo sconfitto un nemico che avrebbe potuto annientarci”, annunciò Tito: la sua battaglia finale, tre anni prima di morire. Un focolaio di vaiolo rimase acceso nel Corno d’Africa finché, anno 1977, non venne diagnosticato l’ultimo paziente in Somalia, con l’eradicazione totale del virus dalla faccia della Terra. In una risoluzione mondiale, fu proclamata la vittoria: “L’Oms dichiara solennemente che il mondo e le sue popolazioni hanno conquistato la libertà dal vaiolo”. Dissero proprio così: libertà. Quella dal maledetto coronavirus, che tutti stiamo aspettando.
La peste a Firenze, Boccaccio annuncia nel Decameron il nostro presente. Pubblicato domenica, 15 marzo 2020 su Corriere.it da Paolo Di Stefano. Con la peste nera del 1348, Giovanni Boccaccio vede morire a Firenze la matrigna Bice, lo zio Vanni e suo padre Boccaccino, restando solo con Iacopo, il fratello minore, di otto o nove anni. Se ne vanno anche alcuni suoi cari amici: i poeti Matteo Frescobaldi e Franceschino degli Albizzi e lo storico Giovanni Villani. La «mortifera pestilenza» (che Boccaccio non chiama mai «peste» ma solo con delle perifrasi) diventa la cornice del Decameron, il suo capolavoro, la cui stesura sarebbe cominciata in quello stesso anno per concludersi nel 1350. Secondo quanto si legge nella cornice del libro, Boccaccio ha assistito allo spettacolo della peste: «Il che, se dagli occhi di molti e da’ miei non fosse stato veduto…». I cronisti raccontano che l’epidemia, scatenata da un focolaio orientale e dilagata nelle città portuali europee, sarebbe approdata a Firenze, già afflitta da una profonda crisi economica e politica, in primavera per dileguarsi in ottobre-novembre. Nell’arco di cinque anni, dal 1347 al 1352, la pandemia si estese dal Mediterraneo alla Scandinavia e ai Balcani, uccidendo almeno un terzo della popolazione europea. Come tutti sappiamo, nell’Introduzione alla prima giornata, Boccaccio dà conto dell’«orrido cominciamento» su cui si fonda il libro e che funge da pretesto per giungere al «bellissimo piano e dilettevole» delle novelle: un’«onesta brigata» di dieci giovani (sette ragazze e tre ragazzi) fugge dalla città per riparare in una villa di campagna, dove per trascorrere il tempo e farsi compagnia, per dieci giorni, ciascuno racconterà una novella al giorno. Il Decameron ha un duplice scopo: l’intrattenimento piacevole e la morale, ma intanto Boccaccio racconta con precisione, da testimone oculare, le condizioni della città. Che, non appena si rivela la minaccia e non avendo effetto alcun provvedimento umano, viene ripulita di tutte le sue «immondizie» e chiusa: «vietato l’entrarvi dentro a ciascuno infermo». Avrebbero capito ben presto, come ci insegna oggi il Covid-19, che le dogane comunque non fermano i virus. Vengono resi pubblici «molti consigli» utili a conservare la sanità ed evitare il contagio, ma neppure le preghiere e le processioni danno i risultati sperati. In primavera la peste «orribilmente cominciò i suoi dolorosi effetti, e in miracolosa maniera, a dimostrare». Dove il «miracolosa» sta per straordinaria. Non è difficile constatare che passano i secoli ma le reazioni e le misure sono sempre quelle. I sintomi mortali sono diversi da quelli orientali: non sangue da naso, ma «gavoccioli», rigonfiamenti sotto l’inguine e sotto le ascelle, alcuni cresciuti come mele di media grandezza, altri come uova. I bubboni cominciano poi a moltiplicarsi manifestandosi in ogni parte del corpo e cominciando a «permutare in macchie nere e livide». Intanto tutti i cittadini diventano medici e scienziati: ognuno dice la sua e ognuno fa come vuole, visto che i consigli dei «medicanti» non portavano gran profitto. E quando descrive il contagio della peste nera 1348, Boccaccio potrebbe parlare del Coronavirus 2020: «E fu questa pestilenza di maggior forza per ciò che essa dagli infermi di quella per lo comunicare insieme s’avventava a’ sani, non altrimenti che faccia il fuoco a le cose secche o unte quando molto gli sono avvicinate». Ma nel «comunicare», cioè nel diffondersi della contaminazione, si manifesta un male ancora maggiore. Prosegue Boccaccio: «ché non solamente il parlare o l’usare cogli infermi dava a’ sani infermità o cagione di comune morte, ma ancora il toccare i panni o qualunque altra cosa da quegli infermi stata tocca o adoperata pareva seco quella cotale infermità transportare». Niente amuchina? Niente amuchina. Non si parla di disinfettanti. Ma la metafora del fuoco (dell’«appiccarsi da uno a altro») è eterna: l’immagine dei fiammiferi che circola su WhatsApp in questi giorni lo dimostra. Una scenetta cittadina raccapricciante è quella dei due maiali che, girando per strada, si avventano sugli stracci infettati di un malato e nel giro di poche ore, tra contorsioni indicibili, cadono in terra morti. La paura suggerisce di «schifare gli infermi»? Non basta, e così qualcuno comincia a pensare di aggirare il flagello cambiando abitudine e comportamenti: vivere con moderazione e rinunciare alle cose superflue e magari, senza nessun decreto governativo, radunarsi in piccoli gruppi e decidere di ritirarsi in casa: «e fatta lor piccola brigata, da ogni altra separati viveano, in quelle case ricogliendosi e racchiudendosi, dove niuno infermo fosse e da viver meglio, dilicatissimi cibi e ottimi vini temperatissimamente usando e ogni lussuria fuggendo, senza lasciarsi parlare a alcuno o volere di fuori, di morte o d’infermi, alcuna novella sentire…». Dunque ritirarsi nelle proprie dimore a televisori spenti per non sentire le cattive notizie, evitando gli eccessi ma concedendosi qualche moderato piacere di gola e qualche canto in comune. Altri invece esageravano, convinti che gozzovigliare e godersela ridendo e divertendosi in compagnia fosse il modo migliore per vincere il male: in pratica ignorandolo. Chi pensasse che la movida, gli assembramenti serali in barba al coronavirus, lo shopping sfrenato, gli happy hour, i pub pieni degli ultimi week end fossero un’esclusiva demente del nostro tempo sovreccitato, legga il Decameron. Troverà esattamente nel 1348 ciò che la tv trasmetteva sabato scorso: «il giorno e la notte ora a quella taverna ora a quella altra andando, bevendo senza modo e senza misura…». Tante analogie. E qualche fortunata differenza se è vero, come racconta Boccaccio, che la peste nera condusse a una tale disperazione e a un tale spavento che le donne abbandonavano gli uomini malati al loro destino e viceversa i mariti abbandonavano le mogli, il fratello abbandonava il fratello, la sorella abbandonava la sorella, lo zio il nipote, persino i genitori abbandonavano i figlio quasi che non fossero loro. Ciò che rimase fu la carità di pochi e la cupidigia dei servitori che speravano di spillare gli ultimi «salari» ai loro padroni. Quando la «ferocità della pistolenza» cominciò a crescere, persino i funerali presero a scarseggiare: non lacrime, non preti, non ceri. Ci si curava degli esseri umani che morivano esattamente come ci si sarebbe curati delle capre, perché quello era ormai divenuto «il naturale corso delle cose».
Quando Leonardo vide la peste a Milano, e immaginò una città diversa. M. Alessandra Filippi il 10 marzo 2020 su Vanity Fair. Nel 1484 Leonardo è a Milano da circa tre anni quando scoppia quella che verrà ricordata come «l'epidemia magna». Un'esperienza che forse suggerì al genio umanista la sua visione di una nuova «città aperta», disperdendo la «tanta concentrazione di popolo, che a similitudine di capre l’uno addosso all’altro stanno». Nel 1484 Leonardo è a Milano da circa tre anni. A parte un contratto stipulato il 25 aprile del 1483 per eseguire la celebre Vergine delle Rocce, di lui si hanno pochissime notizie. I documenti tacciono. Quel che è di lui fra il 1481 e il 1485 ancora oggi resta avvolto nel mistero. Tuttavia, è proprio quella data, quel 1484 che potrebbe aiutarci a svelare l’enigma e fare luce su una storia che se non fosse vera, sembrerebbe uscita da un romanzo di Dan Brown. Quell’anno a Milano scoppia una peste in confronto alla quale quella del 1576 del Borromeo e del 1630 Manzoni sono bazzecole. Leonardo è a Milano e vede tutto. Nella mente va meditando e elucubrando soluzioni che certamente trascrive. Sennonché quei benedetti fogli, se mai sono esistiti, sono spariti e nei documenti storici nulla e nessuno si curò di trascriverli o registrarli. Eppure proprio quella peste sarà la ragione che in città porterà, nel 1489 alla costruzione del complesso del Lazzaretto fuori Porta Venezia. Una struttura allora fra le più moderne e avanzate d’Europa, progettata da Lazzaro Palazzi, architetto autodidatta di origini svizzere che si era fatto le ossa nella Fabbrica del Duomo iniziando come semplice scalpellino, finendo col diventare Mastro Ingegnere. Simile a una fortezza con tanto di mura, con un fossato lungo tutto il perimetro volto a isolarlo e allo stesso tempo garantire l’afflusso di acqua corrente alimentata dalla Martesana, all’interno, lungo gli snelli loggiati che correvano su tre lati – il quarto, quello occidentale, rimase incompiuto – si aprivano 288 ampie camere destinate al ricovero di singoli malati. Quadrate con volta a botte, erano provviste di doppie finestre, una sul muro esterno, l’altra verso il portico, un pagliericcio che veniva cambiato ogni giorno, un grande camino e una latrina con porta e sfiatatoio, ricavata nello spessore del muro e con scarico diretto nel fossato. Parte degli ambienti erano anche destinati a ospitare l’infermeria, i convalescenti, i depositi di medicinali le spezie e i Frati Cappuccini che dentro il Lazzaretto per secoli hanno prestato la loro opera a costo della vita. Ora, noi sappiamo che non c’è campo in cui Leonardo non si sia cimentato, sempre raggiungendo vette eccelse. Perché non pensare dunque che proprio in quella struttura così all’avanguardia e ingegnosamente concepita intorno all’acqua e sofisticati sistemi idraulici e igienici non ci sia il suo zampino? Un’ipotesi per nulla stravagante e che potrebbe essere supportata proprio da quegli studi sull’ampliamento di Milano ai quali Leonardo si dedica, in modo non organico e sistematico com’era suo costume, fino al 1499. In uno dei fogli del Codice Atlantico conservato all’Ambrosiana, databile al 1493, è riportata la pianta della città, la cui espansione è concepita in modo aperto – e nella quale si riconoscono tutti i canali e «il vero mezo di Milano», piazza san Sepolcro – con la prima veduta prospettica a volo d’uccello che si conosca nella storia dell’arte e dell’architettura. Unitamente ad un altro schizzo, contenente indicazioni più dettagliate circa i dieci nuovi quartieri da edificare intorno alla cerchia della Fossa Interna, prova l’estrema modernità della visione che andava maturando. Nei suoi appunti evidenzia anche la questione igienica – alla fine del XV secolo dentro le mura vivevano oltre 100 mila abitanti – mettendo in guardia dall’ammassare un numero elevato di persone in spazi ristretti: «Trarrai di dieci città cinquemila case con trentamila abitazioni, e disgregherai tanta concentrazione di popolo, che a similitudine di capre l’uno addosso all’altro stanno, empiendo ogni parte di fetore: si fanno semenza di pestilente morte». Quella che lui immagina non è una città utopica o ideale, ma un programma concreto, attuabile, politicamente illuminato e lungimirante. Sarà la mancanza di fondi e la sconfitta del Moro a farlo rimanere solo un sogno, precorritore di norme urbanistiche che saranno adottate solo quattrocento anni dopo.
—–DA SAPERE. La lebbra e la peste, importate dall’Oriente e in particolare dall’india, flagellarono periodicamente l’Europa dall’antichità fino almeno a tutto il XVII secolo. Alla lebbra dobbiamo il termine di «Lazzaretto», che deriva dal lebbroso di nome Lazzaro, citato per nome da Gesù nella parabola riportata nel Vangelo di San Luca. È così che Lazzaro divenne sinonimo di lebbroso e i lebbrosari divennero lazzaretti. Tutto il resto è storia che il Manzoni ha narrato molto bene nei suoi Promessi Sposi, in quei capitoli XXXI e XXXII, la cui lettura in questi giorni è tanto consigliata e che possono esser ben riassunti in questo fulmineo e icastico passaggio: «In principio dunque non peste, assolutamente no, per nessun conto: proibito anche di proferire il vocabolo. Poi, febbri pestilenziali: l’idea s’ammette per isbieco in un aggettivo. Poi non vera peste; vale a dire peste sì, ma in un certo senso; non peste proprio; ma una cosa alla quale non si trovasse un altro nome. Finalmente, peste sanza dubbio e senza contrasto: ma già ci s’è attaccata un’altra idea, l’idea del venefizio e del malefizio, la quale altera e confonde l’idea espressa dalla parola che non è più da mandare indietro. Non è, credo necessario d’esser molto versato nella storia delle idee e delle parole per vedere che molte hanno fatto un simile corso (…). Si potrebbe però, tanto nelle cose piccole, come nelle grandi, evitare, in gran parte, quel corso così lungo e così storto, prendendo il metodo proposto da tanto tempo, d’osservare, ascoltare, paragonare, pensare prima di parlare. Ma parlare, questa cosa così sola, è talmente più facile di tutte quelle altre insieme, che anche noi, dico noi uomini, in generale, siamo un po’ da compatire». Quanto al Lazzaretto di Porta Venezia che copriva l’area compresa fra corso Buenos Aires, via San Gregorio, via Lazzaretto, via Vittorio Veneto, sopravvissuto a tutto venne sacrificato per soddisfare il famelico appetito degli speculatori edilizi: nel 1881 venne venduto dall’Ospedale Maggiore alla Banca di Credito Italiano per la somma di 1.803.609 lire. Demolito a partire dalla primavera del 1882, al suo posto venne costruito un intero quartiere destinato al ceto medio piccolo. Di lui, oltre alla chiesetta di San Carlo, recentemente restaurata grazie all’intervento della Fondazione Rocca e incastonata nell’isola pedonale di Largo Bellintani, sopravvive solo un breve tratto in via di San Gregorio – cinque stanze rimaste invariate dal tempo della loro fondazione-, dal 1970 sede della Chiesa Ortodossa Greca, dedicata ai Santi Nicola e Ambrogio al Lazzaretto. Un luogo di grande suggestione e spiritualità dove fra un intenso profumo d’incenso, tripudi di fiori in primavera, esili candele che illuminano icone dorate e variopinte rivive l’antica vocazione all’accoglienza di questo luogo. Un’ultima curiosità: tutte le vie sorte sulle rovine del «quadrilatero della salute» hanno un profondo legame con lui. Ludovico Settala, medico e studioso, si prodigò sia nella Peste di Carlo che in quella manzoniana del 1630 e fu membro del Tribunale della Sanità. Alessandro Tadino, medico e Conservatore del Tribunale della Sanità, durante la peste manzoniana fu incaricato della sanità pubblica; il suo volume Raguaglio dell’origine at giornali della gran peste, uscito nel 1648, è stato una delle fonti per il Romanzo dei Promessi sposi. Fra Paolo Bellintani, direttore del Lazzaretto per volere di San Carlo Borromeo dal settembre 1576 all’ottobre del 1577, scrisse il Dialogo della peste, nel quale è vividamente riportata la sua esperienza e i modi in cui venivano curati i malati. Lazzaro Palazzi fu, come abbiamo visto, il progettista e primo responsabile del cantiere del Lazzaretto. A Lecco si trova Villa Manzoni dove Alessandro trascorse l’infanzia, l’adolescenza e la prima giovinezza. L’unico in apparenza fuori tema è Panfilo Castaldi, anche lui medico ma anche maestro nell’arte della stampa che importò a Milano pubblicando nel 1471 il primo libro stampato di Milano, De verborum significazione, di Pompeo Festo. In questa via si trova l’Antica Farmacia del Lazzaretto la cui licenza risale al 1750. Fondata in un luogo evocativo e deputato alla cura degli insanabili, diventata celebre grazie al leggendario “Amaro Medicinale Giuliani”, che da queste vetrine viene lanciato sul mercato nel 1889!
Queste e altre storie potete trovarle nell’ultimo libro di Manuela Alessandra Filippi – autrice di questo articolo – Milano nascosta. Dalle pietre romane alla città che sale, pubblicato da Hoepli, reperibile in tutte le librerie e ordinabile online. Nata a Bruxelles e cresciuta fra Torino e Roma, Alessandra è storica dell’arte, heritage manager, autrice e storyteller. Nel 2010 ha fondato Città nascosta Milano, premio Dama d’Argento nel 2012, alla guida della quale ha contribuito a ripensare il modo di visitare la città. Al capoluogo lombardo ha dedicato tre pubblicazioni ed è ormai considerata un autorevole punto di riferimento per la storia di Milano.
L'apocalisse che è in noi dal Manzoni agli zombie. Alessandro Gnocchi, Sabato 01/02/2020, su Il Giornale. L'apocalisse ha spesso preso le sembianze della epidemia e del contagio inarrestabile. L'arte, in tutte le sue espressioni, riflette il nostro timore di essere spazzati via da un morbo incurabile, che ci trasforma e ci uccide. La natura o la mano imperscrutabile di Dio si abbatte sull'umanità. Saremo capaci di reagire? Per un italiano, l'epidemia più famosa è la peste nei Promessi sposi di Alessandro Manzoni. Lo scrittore ricostruisce il flagello che travolse Milano nel 1630-1631. Ne escono pagine insuperabili, in cui Manzoni mostra come l'apocalisse sia assecondata dal sonno della ragione. La caccia all'untore, la superstizione, le processioni fuori luogo, la vigliaccheria, i tribunali ingiusti, i politici pavidi: Manzoni srotola davanti ai nostri occhi il campionario del lato oscuro dell'anima. Ma ci sono anche i gesti generosi, il sacrificio dei giusti, l'abnegazione dei santi. I capitoli sono il XXXI e il XXXII ma la scena più forte è all'inizio del XXXIII. Don Rodrigo si sveglia dopo una notte agitata e scopre di essersi ammalato. La sua alterigia è annullata: «Insieme si sentiva al cuore una palpitazione violenta, affannosa, negli orecchi un ronzìo, un fischìo continuo, un fuoco di dentro, una gravezza in tutte le membra, peggio di quando era andato a letto. Esitò qualche momento, prima di guardar la parte dove aveva il dolore; finalmente la scoprì, ci diede un'occhiata paurosa; e vide un sozzo bubbone d'un livido paonazzo. L'uomo si vide perduto: il terror della morte l'invase, e, con un senso per avventura più forte, il terrore di diventar preda de' monatti, d'esser portato, buttato al lazzeretto». La peste del Manzoni è l'epidemia più famosa. Ma certo non è l'unica. Prima, c'è la peste nera di Boccaccio, il Decameron nasce come «distrazione» mondana nella Firenze devastata dal male nel 1348. Un gruppo di giovani fugge in campagna nell'attesa che la strage finisca e per ricrearsi (e ricreare l'umanità) si intrattiene raccontando novelle. Celebre è anche la peste dell'omonimo romanzo di Albert Camus. Questa volte la morte si presenta alle porte della città algerina di Orano, in un imprecisato aprile degli anni Quaranta. La metafora è scoperta. La peste è innanzi tutto morale. L'elenco sarebbe infinito. Segnaliamo, a testimonianza di un interesse costante della letteratura per questo tema, il recentissimo Happy Hour (Bur) di Ferruccio Parazzoli. Siamo a Milano, ai giorni nostri, e impazza una inspiegabile epidemia di suicidi. All'aggravarsi del morbo, la città è messa in quarantena. Per il cinema, la pandemia, cioè un'epidemia su territori vastissimi, è quasi un luogo comune. Il contagio avviene con violenza, si parte dagli zombie degli anni Trenta (L'isola degli zombies) e si arriva agli zombie di The Walking Dead passanto per gli zombie anni Settanta, avidi di carne umana e critici del consumismo (L'alba dei morti viventi di George Romero). Anche i virus hanno avuto gloria cinematografica: ci sono le febbri mortali di Contagion, L'esercito delle dodici scimmie, I sopravvissuti (celebre serie tv del 1975). Poi c'è il virus del vampirismo che si diffonde tra le pagine di un classico del genere, Io sono leggenda (Fanucci) di Richard Matheson, passato più volte dalle librerie alle sale cinematografiche. La peste è al centro di molti affreschi e dipinti. Tra i più famosi, in Italia, c'è il Trionfo della Morte, un affresco quattrocentesco staccato e conservato nella Galleria regionale di Palazzo Abatellis a Palermo. Ci sono poi Mattia Preti, Tanzio da Varallo, Gros e moltissimi altri. Al Louvre di Parigi è invece esposta La peste di Azoth dipinta da Nicolas Poussin nel 1631. Illustra la peste peggiore, quella del libro di Samuele, nel quale Dio, dopo aver accusato i Filistei di aver rubato l'Arca dell'Alleanza, invia come punizione la piaga appunto biblica.
Camillo Langone per “il Giornale” il 2 marzo 2020. Ex malo bonum: la famosa epidemia fa male all'economia, oltre che alla salute dei contagiati, ma fa bene alla letteratura. Sia perché quarantene e chiusure di locali favoriscono l'apertura di qualche libro in più, sia perché ci ribadisce la sempiterna attualità di Manzoni e Boccaccio. Tornano buoni i ricordi scolastici e risuscita la parola untore mentre i più volenterosi non si accontentano delle citazioni, riprendono in mano i Promessi sposi e riscoprono il significato di classico: «Un autore che resiste al tempo e genera influenze» (definizione del poeta Giuseppe Conte). L'ho fatto anch'io, mi sono goduto i capitoli XXXI e XXXII, i più centrati sulla peste, e ho sentito il respiro della grande letteratura. Secondo Gómez-Dávila «appartengono alla letteratura tutti i libri che si possono leggere due volte»: con Manzoni le riletture potrebbero diventare duemila e sempre se ne ricaverebbe qualcosa di nuovo, di utile e di bello. È contenuta proprio in queste pagine una delle frasi preferite da noi che non idolatriamo la democrazia, parole valide nelle emergenze di ogni epoca: «Il buon senso c'era; ma se ne stava nascosto, per paura del senso comune». E il Boccaccio? Il Decamerone viene letto molto meno innanzitutto perché molto meno leggibile. Ma se la prosa del Trecento è lontana dall'italiano di oggi, la psiche del Trecento ci è vicinissima: sette secoli passati invano, da vari punti di vista. Io posso dirlo perché, sopravvivendo a periodi lunghissimi, facendomi largo nel groviglio di subordinate, il Boccaccio pestilenziale me lo sono riletto l'altra notte e ci ho trovato l'Italia del Coronavirus, a volte tale e quale. «Non valendo alcun senno né umano provvedimento». Contro la peste nera del 1348 il povero Gonfaloniere di Giustizia del Comune di Firenze certamente si prodigò: come il povero Presidente del Consiglio dei Ministri della Repubblica Italiana, poco o nulla risolse. «Purgata la città da oficiali sopra ciò ordinati, e vietato l'entrarvi dentro a ciascuno infermo». Come oggi a Codogno e Vo' Euganeo, anche a Firenze adottarono quarantene e posti di blocco: c'è solo da sperare che i risultati siano migliori. «A cura delle quali infermità né consiglio di medico, né virtù di medicina alcuna, pareva che valesse o facesse profitto». In 7 secoli la medicina ha fatto passi da gigante: tranne che nel campo degli antivirali, verrebbe da dire. «E tutti quasi, ad un fine tiravano assai crudele: ciò era di schifare e di fuggire gl' infermi e le lor cose». Di fronte al pericolo del contagio siamo ancora più crudeli (o più scemi) di allora: in certi posti (vedi Ischia) vengono schifate categorie di cittadini in perfetta salute, basta che provengano da Nord. «Altri affermavano il bere assai e il godere, e l'andar cantando attorno e sollazzando, e il sodisfare d' ogni cosa allo appetito che si potesse, e di ciò che avveniva ridersi e beffarsi, esser medicina certissima a tanto male». Il bere assai era la consolazione dei fiorentini del '300 e dei monatti del '600 e continua a esserla: Maurizio Milani mi scrive dalla sua Codogno paventando l'esaurimento delle scorte di Gutturnio mentre dai bar dei Colli Euganei giungono immagini di gagliardi avventori che combattono il virus a spritz. «Andavano attorno, portando nelle mani chi fiori, chi erbe odorifere, e chi diverse maniere di spezierie, quella al naso ponendosi spesso». Oggi invece ci sono le mascherine: peccato che quelle chirurgiche di garza azzurrina, le più comuni, siano efficaci contro i batteri e il coronavirus sia per l'appunto un virus. Illusione per illusione, al tempo del Boccaccio erano più poetici (oltre che, più erotici). «Assai e uomini e donne abbandonarono la propria città, le proprie case, i lor luoghi e i lor parenti e le lor cose, e cercarono l' altrui o almeno il lor contado». Nei giorni scorsi è stato rilevato un fenomeno curioso, il frettoloso ritorno al Sud, a cercare «il lor contado», di tanti giovani meridionali iscritti alle università del Nord: come se il morbo fosse un'esclusiva padana e i confini dell' antico Regno delle Due Sicilie (il fiume Tronto, le coste sicule...) fossero invalicabili ai microrganismi. «Né altra cosa alcuna ci udiamo, se non: I cotali sono morti, e Gli altrettali sono per morire». Oggi è uguale, da giorni su qualunque schermo mi cada lo sguardo la prima cosa che vedo è il numero dei morti e dei contagiati. Ansa come ansia, un lugubre stillicidio, un bollettino di guerra. «Vogliamo e comandiamo che niuna novella, altro che lieta, ci rechi di fuori». La qui virgolettata volontà di Pampinea, una delle sette giovani donne che si alternano ai tre uomini nella narrazione boccacciana, vorrei che fosse legge anche oggi, anche qui. Anch' io d' ora in poi voglio sentire soltanto buone notizie, o almeno leggere soltanto buoni libri. Come i nostri insuperabili classici.
Elena Stancanelli per ''La Stampa'' il 25 febbraio 2020. Le epidemie producono ottima letteratura. Da Tucidide a Boccaccio, da Manzoni a Camus, il contagio è propizio, fecondo di storie e di pensieri. Per tante ragioni e la prima è la paura. Il bisogno di addomesticare i mostri, la natura, l' inconoscibile, l' altro è il fondamento di tutta l' arte e la sua ragione di esistere. Rischiara il buio, trasforma in fiaba la malattia e il dolore. Quando abbiamo paura ci rifugiamo nell' immaginazione, e ci stringiamo gli uni agli altri per darci conforto. Raccogliamo gli amici, i familiari, quelli che sono come noi. Ci contiamo, ci rassicuriamo, ridiamo per sdrammatizzare o ci diamo consigli sbagliati, contraddittori, oggi una cosa domani un' altra. Fuori c' è il male, dentro c' è il bene. I sani contro gli appestati, come i novellatori del Decameron, asserragliati nella villa fuori dalla Firenze in cui imperversa il morbo, che per per tenere a freno la paura si raccontano storie d' amore. Nelle nostre vite la paura ha un ruolo marginale, la paura vera, quella di non riuscire a sopravvivere. Nessuno nel villaggio globale esce di casa temendo l' assalto di una bestia feroce, o il colpo d' arma del nemico, o l' accidente naturale fatale tipo scoppio del vulcano, terremoto, tsunami. Le nostre città sono abbastanza sicure. Generalmente usciamo con la noia di un' altra giornata di lavoro o di qualche incombenza, raramente con la curiosità di un incontro, o il desiderio semplice di abbracciare qualcuno a cui vogliamo bene. Sentimenti medi, niente che faccia tremare il cuore. Il virus spariglia. È una scossa, da quando si è presentato spavaldo anche nel nostro Paese, ha acceso le nostre giornate. Ognuno reagisce come sa. I depressi, come ha insegnato Lars Von Trier in Melancholia, sono quelli che reagiscono meglio. Per loro la fine è sempre un sollievo, accolgono gli altri con efficienza nell' emergenza, che loro conoscono come un sentimento endemico. I razionalisti vacillano e si appellano a Burioni, si lavano furiosamente le mani mille volte al giorno e borbottano riferimenti alla letteratura distopica che profetizzava apocalissi. Qualcuno avrebbe preferito l' onda finale, altri si accontentano della fine del mondo che ci sarebbe toccata, un po' miserabile, poco eroica, per niente spettacolare. Quasi nessuno resta indifferente. Nessuno dice «Corona chi?», come si fa per ostentare superiorità rispetto agli accidenti del mondo che vengono a disturbare il nostro olimpico distacco dalla volgare quotidianità. Il virus fa paura, più o meno a tutti. Perché è misterioso, lo è persino per i medici che stanno iniziando a studiarlo adesso. Figuriamoci per noi, che non capiamo niente e prendiamo gli antibiotici anche se persino digitando «antibiotici» su Google c' è scritto «farmaci utilizzati per trattare le infezioni batteriche che non hanno alcuna efficacia contro le infezioni virali». Ma noi li prendiamo lo stesso, perché se i medici ci hanno spiegato che non bisogna curarsi su Internet, perché allora in questo caso dovremmo dargli retta? Perché ce lo stanno dicendo anche i medici in tutti i modi. Vabbè, e se avessero torto anche loro? E poi cosa diavolo è un virus? Come si diffonde, che danni procura, quanto vive, da dove esce e dove entra. È una cosa invisibile, si muove in modo non tracciabile, deflagra nei nostri corpi, ci annienta o ci grazia a seconda di chissà cosa. Si presta alle interpretazioni, produce leggende e ancora ci stiamo domandando perché l' epidemia produca ottima letteratura?! Oltre al fatto che l' epidemia inventa l' antagonista. Il nemico, l' avversario, motore necessario a ogni narrazione. Sia esso il topo, come nella Peste di Camus, o qualsiasi altro untore possibile. Delle epidemie ci siamo sempre accusati gli uni con gli altri, cristiani contro ebrei, uomini contro donne, indigeni contro stranieri. Soprattutto stranieri, perché il contagio arriva da fuori, per caso o per dolo - le coperte infettate dal virus del vaiolo, offerte in dono ai nativi americani dai conquistadores europei - e uccide senza pietà. Purtroppo stavolta la malattia viene dalla Cina. E i cinesi sono passati di moda. Se solo il coronavirus fosse arrivato cinque, sei anni fa avrebbe trovato terreno fertilissimo. Erano gli anni in cui si diceva che i cinesi non morivano mai, unica spiegazione al fatto che nessuno avesse mai visto un funerale cinese in Italia, o una lapide in un cimitero. Vanno avanti e indietro dal loro al nostro Paese scambiando carte d' identità, dentro casse da morto, si diceva. Ma la lista dei nemici ciclicamente si aggiorna, nuove priorità, altri tiramenti. Adesso, per dire, ci sarebbe stato benissimo un virus dal Mali, dalla Somalia, dal Sud Sudan. Con un bel marchio africano e un battesimo su un barcone. Peccato, dovremo accontentarci di campagne diffamatorie contro gli involtini primavera, di inveire contro la scarsa igiene delle estetiste dalle quali ci affollavamo fino a ieri perché più economiche. Almeno fin quando il virus non avrà acquisito la cittadinanza italiana, andando a occupare sedili nella metropolitana, mettendosi in fila alla Posta nascosto in un corpo identico al nostro. Allora sarà guerra di tutti contro tutti, persino degli amici, persino dei parenti finiremmo per dubitare. La zia che ti tossisce in faccia, il fidanzato che si sente debole, il figlio che starnutisce a tavola e si pulisce il naso con le dita con cui poi afferra il mignon alle fragole sul vassoio. Ma sarà quello il momento nel quale finalmente scriveremo, tutti quanti, il Grande Romanzo Italiano.
Sifilide, l'epidemia razzista venuta dalle Americhe. Dal Nuovo Mondo un Nuovo Morbo arriva con i marinai di Colombo. Si trasmette per via sessuale e farà subito cinque milioni di vittime. Gli untori di volta in volta saranno gli ebrei, gli italiani, i francesi, i cristiani. Storia della malattia che ha ucciso re, filosofi e artisti. L'Espresso il 21 aprile 2020. La sifilide è la malattia xenofoba per eccellenza. Per i francesi era il male italiano o napoletano o inglese. Per gli italiani era il mal francese. Per gli olandesi era spagnolo, per i russi polacco e per i turchi, genericamente cristiano. La tesi sull'origine americana del Treponema pallidum, che ebbe subito grande popolarità, conteneva un ulteriore elemento etico-razziale. La sifilide essendo legata alla trasmissione sessuale era caratteristica di popoli dai costumi sfrenati. In primo luogo, dei nativi. Uno dei sostenitori più autorevoli di questa teoria è stato l'eroe eponimo del Nuovo Mondo, Amerigo Vespucci. Altri diffusori della malattia erano gli schiavi africani, considerati alla stregua di selvaggi. Infine c'erano gli ebrei che nel marzo dello stesso 1492 dello sbarco colombiano a Hispaniola (l'isola oggi divisa fra Haiti e Santo Domingo) subivano il decreto di espulsione da parte della regina di Spagna Isabella la Cattolica. Il 1492 è l'inizio di una diaspora verso oriente che porterà gli ebrei a raccogliersi nei campi profughi alle porte di Roma. Da lì papa Alessandro VI Borgia, spagnolo obbligato dall'espansione francese a mantenere rapporti stretti con le corone unite di Castiglia e di Aragona, li allontanerà ancora verso i domini del sultano turco, che garantiva libertà di culto. Nasce in quegli anni una nuova figura di untore ideale, sia etico sia clinico. È il marrano ossia l'ebreo che si è convertito al cristianesimo per sfuggire alla persecuzione e che continua a celebrare la legge mosaica di nascosto. Il marrano diventa così un eretico e merita la morte con le sentenze dei tribunali dell'Inquisizione introdotti dai re cattolici di Spagna. Ma diventa anche untore, secondo lo storico Sigismondo dei Conti da Foligno. Ecco la storia dei primi anni in cui l'Europa fece i conti con una nuova epidemia.
La cronologia della prima ondata di sifilide in Europa è abbastanza precisa.
Intorno al 1493, alcuni uomini d'armi membri della prima spedizione colombiana decidono di non seguire il navigatore genovese nei suoi viaggi successivi e tornano a inquadrarsi negli eserciti. Si sta preparando la Prima guerra d'Italia. Il re francese Carlo VIII di Valois comprende che la penisola, divisa fra piccoli stati e un Sud sotto influenza della corona di Spagna, può essere il terreno ideale per affrontare i rivali di Madrid.
Nel 1493-1494 corre la peste in Italia. I trentamila uomini dell'esercito francese si muovono verso le Alpi con un ampio seguito di prostitute per il conforto e l'igiene dei soldati. La scelta si rivela catastrofica. Il guazzabuglio di mercenari spagnoli, svizzeri, dalmati e francesi diventa un amplificatore della malattia che i medici, a prima vista, faticano a identificare e chiamano lue. Assomiglia al vaiolo per le lesioni cutanee e dell'equivoco resta traccia nei dizionari (vérole/variole in francese, great pox/small pox in inglese). Altri pensano a una nuova forma di lebbra. Tutti la confondono con un'altra malattia sessuale molto diffusa, la gonorrea.
Nell'estate del 1494 l'armata di Carlo VIII arriva a Susa e poi ad Asti. Qui il sovrano incontra Ludovico Sforza detto il Moro e il suocero Ercole II d'Este che si recano a omaggiare il re con un seguito di cortigiane. Carlo VIII sembra apprezzare. Fatto sta che pochi giorni dopo si ammala in forma leggera di quello che viene diagnosticato come vaiolo a causa degli sfoghi cutanei ma è, probabilmente, sifilide.
L'attraversamento dell'Italia avviene per tappe, fra scontri e massacri. All'inizio dell'inverno i francesi arrivano alle porte di Napoli, dove dal gennaio 1495 regna Ferdinando II d'Aragona detto Ferrandino, cugino di Ferdinando il Cattolico re di Spagna. Nel rispetto di una grande tradizione italiana, Ferrandino vede la mala parata e taglia la corda prima verso Ischia e poi, per maggiore sicurezza, si imbarca per Messina.
Il 22 febbraio 1495 i francesi entrano a Napoli. La sifilide si diffonde in città con velocità e violenza. I medici rimangono inorriditi di fronte alle devastazioni che il batterio – appartenente alla famiglia dei gram-negativi come quello della peste - procura alla cute, ai muscoli, alle cartilagini. La sifilide fa letteralmente a pezzi i corpi, fra dolori atroci. L'epidemia, com'è chiaro, non aumenta la popolarità dell'invasore. A Napoli i sudditi fedeli agli Aragona rendono la vita difficile a Carlo VIII. Nel resto d'Italia gli spagnoli stanno organizzando una Lega antifrancese che minaccia di tagliare fuori e prendere in una sacca l'esercito di occupazione, odiato per la sua brutalità e per il disprezzo del codice cavalleresco. Scandalizza l'abitudine, tipica dei temibili mercenari svizzeri, di uccidere sul posto i cavalieri disarcionati che, nella consuetudine medievale, venivano fatti prigionieri e liberati dietro pagamento di riscatto.
Il 31 marzo 1495 viene costituita la Lega antifrancese. Partecipano Venezia, Milano, papa Alessandro, la Spagna, l'Inghilterra e gli Asburgo.
Il 30 maggio del 1495, dopo appena tre mesi di occupazione, i francesi abbandonano Napoli per iniziare la loro anabasi verso le Alpi. Lasciano un presidio di alcune migliaia di uomini che fanno rotta verso Sud dove gli spagnoli si sono riorganizzati sotto la guida del “Gran Capitán” Gonzalo Fernández de Córdoba e che sconfiggeranno i francesi nella battaglia di Seminara del 28 giugno 1495.
Otto giorni dopo, il 6 luglio 1495, la Lega italo-spagnola ferma i francesi a Nord sul fiume Taro. La battaglia di Fornovo è breve e cruentissima. In un'ora di scontri muoiono tremila soldati. Non è chiaro chi sia il vincitore ma, per il momento, i francesi se ne vanno dall'Italia. La sifilide, invece, resta e prospera. Il medico della Serenissima Cumano riesce a osservarla durante la guerra. “Diversi uomini d’arme e fantaccini avevano delle pustole su tutta la faccia e su tutto il corpo. Esse assomigliavano a dei grani di miglio, e di solito comparivano sotto il prepuzio, o sulla parte esterna o sopra il glande, accompagnate da leggero prurito. Dopo pochi giorni i malati erano ridotti allo stremo dai dolori che sentivano nelle braccia, nelle gambe e nei piedi e da un’eruzione di grandi pustole che duravano un anno o più se non venivano curate.”
Nel 1496 il Treponema pallidum infierisce, oltre che a Napoli, a Ferrara, Pisa, Bologna e a Firenze dove le truppe di Carlo VIII hanno fatto tappa l'anno prima. Con la diffusione globale dell'epidemia l'elemento razzista sfuma e si sposta alla sfera morale. Non più un gruppo etnico ma una professione diventa la fabbrica dell'epidemia. Le prostitute, che subivano condizioni di vita e di igiene terrificanti, sono individuate come responsabili del contagio. Gli Stati prendono provvedimenti. Inizia una politica del confinamento che, con un anacronismo, si potrebbe chiamare dei quartieri a luci rosse. La Serenissima rastrella le meretrici e le isola a Rialto. I provveditori della Sanità di Venezia danno inoltre l'esempio con l'organizzazione dell'Ospedale agli Incurabili dove sulla Fondamenta delle Zattere, lungo il canale della Giudecca. Ci finiscono, oltre alle meretrici, quelli che non hanno il denaro per pagarsi un medico e un'assistenza in casa. A Venezia, curiosamente, la sifilide diventerà la malattia di un'altra arte, quella dei vetrai che, passandosi l'uno con l'altro la cannula per soffiare il vetro, si trasmettono il contagio.
Nel 1530 il Treponema pallidum trova il suo nome attuale nel poema scientifico in esametri latini che il medico e astronomo veronese Girolamo Fracastoro dedica a Pietro Bembo con il titolo Syphilis sive de morbo gallico. Oltre che xenofoba, la sifilide è la prima epidemia mediatica. A febbraio del 1453 l'orafo di Magonza Johannes Gutenberg ha iniziato a sviluppare la tecnica della stampa. In pochi decenni l'invenzione si diffonde in tutta Europa e, quando la sifilide arriva, viene subito pubblicata una grande quantità di saggi e studi scientifici dedicati al contagio dagli epidemiologi dell'epoca. Già nel 1496 i tedeschi Sebastian Brant e Joseph Grunpeck pubblicano i loro trattati. Nel 1497 è lo spagnolo Gaspar Torella, medico alla corte di papa Alessandro, a stampare il suo rapporto con le prime indicazioni farmacologiche. Da allora, e per secoli, la sifilide viene curata con il mercurio, secondo le raccomandazioni dello stesso Torella e dell'alchimista e patologo svizzero Teofrasto Paracelso. Solo nell'Ottocento si passa a sostanze non meno tossiche, come l'arsenico e il cianuro finché nel 1943 si adotta la cura a base della penicillina scoperta da Alexander Fleming quindici anni prima. Le teorie sull'origine della sifilide sono tre: americana, europea e mista. La prima è quella già descritta prima. La seconda sostiene che il morbo esisteva in Europa fin dalla civiltà greco-latina, confuso con altri dalla sintomatologia simile. La terza conferma la seconda ma aggiunge che il batterio di importazione americana aveva ben altra carica contagiosa. La migliore descrizione della catena della lue è comica e si trova nel Candido di Voltaire. Narra il filosofo ottimista Pangloss: «Pasquetta doveva questo “regalo” a un dottissimo frate francescano che era risalito alla fonte, perché l'aveva avuto da una contessa, che l'aveva ricevuto da un capitano di cavalleria, che lo doveva a una marchesa, che l'aveva ricevuto da un paggio, che l'aveva ricevuto da un gesuita il quale, da novizio, l'aveva avuto direttamente da un compagno di Cristoforo Colombo». Per evitare la trasmissione, viene inventata la capote anglaise, il preservativo fabbricato con l'intestino tenue della pecora. Ma la sifilide, sia pure in diminuzione dopo la fiammata terribile di fine Quattrocento, continua a fare vittime eccellenti.
Fra i regnanti, colpisce Francesco I, che regna sulla Francia dal 1515 al 1547. Ma è fra gli artisti, categoria dalla vita sregolata per eccellenza, che il morbo fa i danni maggiori. È probabile che ne muoia, esattamente 500 anni fa, Raffaello Sanzio, censurato dallo storico Vasari per i suoi “eccessi amorosi”. Nella stessa linea di comportamento c'è Guy de Maupassant, uno dei più grandi scrittori di racconti di sempre. Allievo e protetto di Flaubert, che anche lui aveva contratto il morbo in forma più lieve come era capitato a Baudelaire, a Daudet e a Verlaine, l'autore di Bel ami e dell'Horla prende la sifilide a 27 anni. La malattia arriva al terzo stadio, quello che colpisce il nervo ottico e sconvolge l'equilibrio neurologico. Maupassant finisce in un istituto psichiatrico e muore a 42 anni. La sifilide ucciderà anche il genio del teatro comico Georges Feydeau e Theo Van Gogh, morto in una casa di cura sei mesi dopo il suicidio del fratello Vincent. Anche Toulouse-Lautrec sarà ucciso dal Treponema, mentre è incerto se sia vittima diretta della sifilide il filosofo tedesco Nietzsche che certamente muore pazzo. Fra i musicisti la malattia ha preso Donizetti, Paganini e due fra i massimi esponenti del romanticismo, Schubert e Schumann, in un'età in cui vigeva la massima separazione fra sessi al di fuori del matrimonio. Tra i probabili morti di sifilide ci sono anche Vladimir Ilič Uljanov detto Lenin e Alphonse Gabriel “Al” Capone. Infine, una delle grandi leggende del mal francese nasce nell'Inghilterra vittoriana in un periodo di massima persecuzione dell'istinto sessuale, come imparò a sue spese Oscar Wilde, altra vittima illustre del Treponema pallidum.
Tra la fine di agosto e l'inizio di novembre del 1888 Londra viene sconvolta da una serie di delitti feroci che hanno come vittime donne, per lo più prostitute del quartiere di Whitechapel. È la breve ma sanguinaria epopea di Jack lo squartatore, un soprannome che non ha mai incontrato una figura reale. Nelle infinite teorie sull'identità del serial killer c'è quella cospirazionista. Scotland yard era arrivata a scoprire l'assassino. Era un membro molto altolocato della famiglia reale che aveva contratto la sifilide da una prostituta e che avrebbe trascorso le ultime notti prima di morire a vendicarsi a caso, nel buio delle stradine londinesi.
La malattia ha avuto una recrudescenza di recente. L'Oms-Who considera che nel 1999 ci sono stati 12 milioni di casi «more than 90% of them in developing countries, with a rapidly increasing number of cases in eastern Europe. Recent outbreaks have been reported in several cities in Europe and North America among men who have sex with men».
Nota. Fra i vari testi si consiglia quello di Eugenia Tognotti, L'altra faccia di Venere. La sifilide dalla prima età moderna all'avvento dell'Aids (XV-XX sec.) Franco Angeli, 2006. Più in breve, il saggio storico del pediatra Antonio Semprini.
Il vaiolo alla conquista delle Americhe. Nel 1519 gli spagnoli di Cortés e de Alvarado sbarcano in Messico. Poche centinaia di uomini riusciranno ad abbattere l'impero azteca grazie alle armi da fuoco. E all'epidemia che ucciderà milioni di nativi. Gianfrancesco Turano su L'Espresso il 14 aprile 2020. La conquista delle Americhe è la più grande guerra batteriologica della storia. Dal secondo viaggio di Cristoforo Colombo (1493), gli europei portano nel Nuovo Mondo una lista di morbi infinita: vaiolo, morbillo, peste, influenza, salmonella, scarlattina, varicella. Il saldo dei morti dopo mezzo secolo è altissimo. Da una popolazione stimata fra i 15 e i 25 milioni, esclusa l'America meridionale, nel 1550 i sopravvissuti sono tre milioni. I primi a cadere sono gli indigeni del Caribe, dove sbarcano le tre caravelle. Gli altri seguiranno la stessa sorte lungo il cammino da nord a sud degli spagnoli. Gli imperi aztechi, maya, inca crolleranno più per le epidemie che per i cannoni di bronzo e per le lotte interne. Questa inchiesta vecchio stile parla delle epidemie fra gli aztechi.
1517-1518. L'imperatore azteco Motecuhzoma II viene informato dell'arrivo di bizzarri stranieri nelle isole del Caribe e sulla costa messicana. Gli uomini della prima invasione, guidata da Hernán Cortés e Juan de Grijalva, cavalcano ignoti animali a quattro zampe, hanno la barba e usano bastoni che sputano fuoco. L'imperatore è un uomo mediocre e superstizioso, poco amato dal popolo Méxica, come gli aztechi chiamano se stessi. Si convince che, secondo una serie di profezie e di prodigi interpretati dai sacerdoti, potrebbe trattarsi del ritorno messianico sulla terra del dio-uccello Quetzalcóatl, raffigurato nei riti con una maschera barbuta.
18 febbraio 1520. Dopo i buoni risultati della prima esplorazione, Hernán Cortés parte da Cuba alla guida di una spedizione militare in forze. Con i suoi ufficiali Pedro de Alvarado, Francisco de Montejo, il cronista Bernal Díaz del Castillo, ci sono undici navi, seicento uomini, sedici cavalli, dieci cannoni e altra artiglieria di piccolo calibro. In un paio di settimane la flotta tocca la costa messicana dello Yucatán. Qui gli spagnoli prendono a bordo Jerónimo de Aguilar che ha fatto naufragio in una spedizione del 1511 insieme a Gonzalo Guerrero. De Aguilar è stato ben accolto dagli indigeni, ha preso moglie e ha imparato la lingua maya. La flotta continua a fare piccolo cabotaggio verso nord e, in una tappa successiva, prende a bordo venti schiave. Fra loro c'è una figura determinante per il successo dell'impresa. È Malinche o Malintsin in lingua locale. Malinche (qui sopra nel dipinto di Diego De Rivera) parla sia il maya, sia il náhuatl, la lingua degli aztechi. Diventerà interprete e consigliera influente traducendo dal náhuatl al maya con De Aguilar che, a sua volta, riferisce in castigliano a Cortés.
22 aprile 1520. Nel giorno di Venerdì Santo di cinquecento anni fa gli spagnoli sbarcano a Veracruz. Da lì iniziano una lunga marcia verso l'altipiano vulcanico che li porterà a Tenochtitlán, l'attuale Città del Messico, capitale dell'impero. Le reazioni degli americani al passaggio degli stranieri sono per lo più amichevoli. Non così quelle degli spagnoli che non esitano a uccidere quando non vedono esaudite le loro richieste. Motecuhzoma, ancora convinto della natura divina degli ospiti, spedisce incontro agli spagnoli ambasciatori carichi di doni, oro e gemme. Gli inviati dell'imperatore tornano a Tenochtitlán sbalorditi. In particolare, sono colpiti da Pedro de Alvarado che per la sua corporatura robusta e i capelli rossi viene soprannominato Tonatiuh, uno dei nomi riservati al Sole, divinità suprema. La vista delle ricchezze dà alla testa degli spagnoli che raddoppiano gli sforzi per arrivare alla meta. I figli del Sole non riescono a capire che stanno subendo un'invasione, come faranno qualche anno dopo le popolazioni maya che daranno subito battaglia. Eppure non sono né ingenui né angelici né arretrati. Il loro livello culturale è elevatissimo. Primeggiano in architettura, letteratura e astronomia. La capitale è una metropoli di 200 mila abitanti che arrivano a 1,5 milioni, se si contano i sobborghi. Amministrano con una fitta rete burocratica un impero di trentotto province che occupa la gran parte del Messico attuale e arriva fino al Chiapas e al Guatemala, dove inizia la terra dei Maya. In un secolo di espansione i prescelti del dio della guerra Huitzilopochtli hanno assoggettato con durezza i popoli vicini, che li odiano. Impongono tributi e mantengono l'ordine manu militari. Praticano torture efferate. Ma quello che più terrorizza gli spagnoli è il ricorso ai sacrifici umani. Cortés comprende che con le sue scarse forze a disposizione una politica delle alleanze è indispensabile.
Nell'autunno del 1519 gli spagnoli sono alle porte di Tenochtitlán in territorio Tlaxcala, uno dei principati indipendenti minacciati dagli aztechi, e stringono un patto con loro dopo avere fatto lo stesso con i Totonacas di Veracruz.
8 novembre 1519. La spedizione di Cortés e De Alvarado arriva alla capitale. Il presunto dio e l'imperatore si incontrano con grandi cerimoniali e si parlano grazie alla traduzione di Malinche. Ma diventa subito chiaro chi comanda.
Cortés chiede a Motecuhzoma II di vietare i sacrifici umani e di esporre effigi di Cristo e della Vergine nei luoghi di culto. In breve, l'imperatore méxica diventa un prigioniero insieme al fratello minore Cuitláhauac e al resto della corte. Intanto a Cuba l'adelantado Diego Velázquez de Cuéllar, rappresentante della Corona di Spagna, decide di punire l'eccessiva autonomia di Cortés. Una spedizione agli ordini di Pánfilo de Narváez salpa per arrestare il conquistatore. Cortés parte da Tenochtitlán per affrontare la flotta in arrivo da Santiago. Nella capitale rimane de Alvarado con soli ottanta uomini. L'ambizioso “Tonatiuh” coglie l'occasione. Da un pezzo i suoi rapporti con Cortés sono peggiorati e, in sua assenza, decide il colpo di mano.
22 maggio 1520. Mentre gli aztechi sono raccolti in preghiera al Tempio Maggiore per la festa di Tóxatl, “Tonatiuh” irrompe con i suoi soldati e gli alleati indigeni. È un massacro fra i più efferati della storia coloniale. I totonacas e i tlaxcaltechi infieriscono su uomini, donne e bambini per vendicare quelli della loro gente ai quali i sacerdoti méxica hanno strappato il cuore. Ci sono centinaia di morti. Gli spagnoli finiscono sotto l'assedio della folla. Gli aztechi hanno compreso che gli stranieri non sono dei ma popolocas, barbari venuti a distruggerli. In quel mese di maggio c'è però un fatto che passa inosservato rispetto alla strage e ai dissidi interni fra conquistatori spagnoli. A Veracruz, sulla costa, muore di vaiolo uno schiavo nero. È l'inizio dell'epidemia. Quando Cortés rientra a Tenochtitlán dopo avere sconfitto la flotta di de Narváez, la situazione è ancora molto delicata. De Alvarado convince Motecuhzoma, che ormai veste i panni del collaborazionista, a mostrarsi al suo popolo per rabbonirlo.
29 giugno 1520. L'imperatore si affaccia alla terrazza del suo palazzo e si rivolge alla folla. Chiede concordia e pace con l'invasore. I méxica reagiscono con una sassaiola. Motecuhzoma viene colpito e morirà di lì a poco. Con Motecuhzoma in agonia, gli spagnoli decidono di rimettere in libertà il fratello Cuitláhauac. Al successore al trono viene affidato lo stesso compito: calmare i sudditi. Cuitláhauac si impegna solennemente. Appena libero, il primo guerriero anticoloniale delle Americhe si mette alla testa dell'esercito di liberazione. Gli spagnoli scappano. Abbandonano la capitale e si dirigono verso ovest, a Tacuba, che oggi è nella cintura urbana della capitale. Sono carichi di tutto l'oro e dei preziosi che sono riusciti a rubare. Il peso della refurtiva rallenta la marcia. 30 giugno-1 luglio 1520. Gli spagnoli la chiamano la Noche triste. Le truppe di Cuitláhauac, pare avvertite da una vecchia uscita a raccogliere acqua, attaccano via terra e con le canoe nel canale dei Toltechi. Per gli europei è una disfatta. Perdono la metà degli uomini. I tesori trafugati finiscono sott'acqua. De Alvarado si salva e inizia una peregrinazione che durerà quasi un anno, fra mille pericoli in un territorio diventato ostile, finché gli spagnoli riusciranno a raggiungere le terre degli alleati tlaxcaltechi.
7 settembre 1520. Il vincitore Cuitláhauac è consacrato Huey tlatoani (grande oratore cioè imperatore). Tutti gli spagnoli presi prigionieri nella “notte triste” vengono sacrificati al dio Sole. Sarà un regno di pochi mesi.
25 novembre 1520. Cuitláhauac muore di vaiolo (“malattia contagiosa di origine virale che nel 30% dei casi risulta fatale”, scrive l'Istituto superiore di sanità). L'epidemia ormai sta devastando il Messico. La lunga incubazione del vaiolo (10-14 giorni) e la stessa caccia agli invasori hanno lasciato circolare persone ancora senza sintomi a distribuire il contagio dovunque.
Sul trono sale Cuahutémoc, cugino di Cuitláhauac, che subirà la sconfitta definitiva, e la morte per garrota, il 13 agosto 1521 quando Cortés rientrerà vincitore a Tenochtitlán con i suoi 80 mila alleati. Ma gli abitanti delle Americhe continueranno a morire.
A fine 1523 “Tonatiuh” de Alvarado porterà guerra e malattia fra i Maya. Un anno dopo, alla fine del 1524, Francisco Pizarro e Diego de Almagro si spingeranno oltre Panama in cerca dell'Eldorado peruviano e alla conquista dell'impero degli Inca. Per spiegare l'enorme letalità delle malattie europee sugli americani gli epidemiologi concordano su una sorta di verginità immunologica dei popoli cosiddetti indigeni. In particolare, la vicinanza con animali domestici era sostanzialmente sconosciuta nel Nuovo Mondo dove l'allevamento non era praticato e gli animali erano lasciati al pascolo libero. Non solo esistevano meno possibilità per la zoonosi, il passaggio di specie di virus e batteri, ma gli americani adulti non avevano avuto la possibilità di immunizzarsi contraendo malattie come il morbillo in età infantile, cosa che accadeva agli europei. Altre malattie che derivano dal contatto con gli animali sono la peste (insetti, ratti), lo stesso morbillo (cani), l'influenza (maiali o uccelli) fino all'Hiv (scimmie) e al Cov-Sars-2 (pipistrelli). Un altro elemento scatenante furono i viaggi per mare dei coloni europei, spesso accompagnati dai loro animali domestici. Le prime traversate avvenivano in condizioni igieniche disastrose che spesso trasformavano le navi in bombe batteriologiche ambulanti, come si sa dalle stragi di schiavi trasportati dall'Africa alle Americhe.
Non bastando il vaiolo, nel 1545-1550 un'epidemia di salmonella enterica (cocolitzi in náhuatl) devasta l'attuale stato messicano dell'Oaxaca. Muoiono a milioni. Solo qualche anno fa gli esami condotti sui resti nei cimiteri hanno consentito di chiarire la natura del contagio. Non è invece certo che sia di origine americana, come si è sostenuto, la sifilide che gli inglesi chiamavano great pox per distinguerla proprio dal vaiolo (small pox).
Pochi giorni prima che Cortés partisse per conquistare il Messico, il 6 aprile 1520 muore Raffaello Sanzio, probabilmente di sifilide che circolava in Europa almeno da un paio di decenni e si diceva fosse stata portata a Napoli dai francesi. Per trovare una cura al flagello del vaiolo bisogna aspettare secoli. Nel 1796 il dottor Edward Jenner immunizza un garzone di stalla inoculandogli il vaiolo preso dalle piaghe di una mucca ma il morbo continua a provocare decine di milioni di vittime in tutto il mondo. La malattia è stata eradicata solo nel secolo scorso con vaccinazioni di massa.
Nota. Come riferimento bibliografico si cita Il rovescio della conquista dello storico e antropologo messicano Miguel León Portilla (1964, in edizione Adelphi 1974).
· Coronavirus, ufficiale per l’Oms: è pandemia.
Maurizio Bettini per “la Repubblica” il 30 agosto 2020. (…) "Pandemia" è una parola greca, composta da "pan" che significa "tutto" e "demia" da "demos", il "popolo", ad indicare qualcosa che riguarda appunto l'intero popolo. I Greci però non usarono mai "pandemia" nel significato medico che le diamo noi moderni. A creare questa parola furono gli scienziati europei a partire dalla fine del XVIII secolo, ricalcandola sul modello di "epidemia", un termine già usato negli scritti di Ippocrate (IV a. c.) per indicare il rapido diffondersi di una malattia contagiosa. I Greci dunque non conobbero la "pandemia"? In verità, è a questo punto che cominciano le sorprese. Se infatti gli abitanti dell'Ellade non conobbero la "pandemia" in senso medico, fecero però largo uso dell'aggettivo "pandemos", ossia "relativo a tutto il popolo", riferendolo però a una sfera lontanissima dalla malattia, dal contagio e dalla morte: quella occupata dalla dea Afrodite, da Eros e dall'amore che queste divinità suscitano attorno a loro. Davvero una bella differenza. Il culto di Afrodite Pandemos, l'Afrodite di tutto il popolo, è testimoniato in molte città, da Atene a Tebe, a Megalopoli, a Naucrati e così via. Pausania, il viaggiatore che nel II secolo d. c. visitò un'Ellade divenuta ormai serbatoio di memorie, racconta che il grande Scopas avrebbe scolpito la dea a cavallo di un capro: particolare che ha ovviamente suscitato molte speculazioni posteriori, e anche molte riprese iconografiche. Ma fu soprattutto Platone, nel Simposio , a dare nuovo e imperituro impulso all'Afrodite Pandemos e all'Eros Pandemos che l'accompagna. E però anche a giocare ad entrambi uno scherzo imbarazzante. Il dialogo ha per tema l'amore, e uno dei partecipanti, di nome Pausania, prende partito dal fatto che Esiodo - l'autore della Teogonia , ossia il racconto relativo all'origine delle singole divinità - attribuisce due nascite differenti ad Afrodite: una prima volta, infatti, la definisce nata da Urano, allorché i genitali del dio, recisi dalla lama del figlio Crono, caddero nella spuma del mare; una seconda volta invece la dice figlia di Zeus e Dione. Il Pausania del Simposio , cioè Platone, prende tutto ciò come prova del fatto che di Afroditi ne esistono in realtà due, non una: la prima, detta Urania, che assieme ad Eros Uranio ispira l'amore puro, spirituale, quello che nasce fra un adulto e un giovinetto animati entrambi da nobili sentimenti; e una seconda, detta appunto Afrodite Pandemos, che con Eros Pandemos ispira invece l'amore «di tutto il popolo», appunto, quello comune, che mira più al corpo che all'anima, ed è diffuso soprattutto fra coloro che amano le donne e non i fanciulli. Questo perché l'Afrodite Pandemos, essendo nata da un maschio e da una femmina, ha in sé i caratteri di entrambi i sessi, quindi favorisce l'amore eterosessuale; mentre l'Afrodite Urania, nata dal solo padre, partecipa unicamente della natura maschile. Insomma, povera Afrodite Pandemos, Pausania relega il suo amore a un rango inferiore, che farà presto a diventare semplicemente "volgare". E questo nonostante che il medico Erissimaco, intervenendo nel dialogo subito dopo Pausania, cerchi di rimettere un po' le cose a posto: sostenendo l'idea che in realtà tutti gli amori sono buoni, sia quelli "uranici" che quelli "pandemici", è solo una questione di temperanza. L'importante infatti è rivolgere il proprio amore, di qualunque tipo, solo verso chi lo merita e di farlo in modo "kosmios" "ordinato", come si dice in greco: una bellissima parola. Ma questo non è bastato a redimere l'Afrodite Pandemos, che nel tempo si è sempre più identificata con l'immagine dell'amore piattamente sensuale, volgare, perfino con la pratica della prostituzione. (…) A cose fatte, non si può far a meno di riconoscere che questa scissione fra le due Afroditi - quella Urania spirituale, quella Pandemos materiale e volgare - ha finito semplicemente per fare del male a uomini e donne. Interpretati i due Eros come "amore celeste" l'uno e "amore carnale" l'altro, le cose hanno preso infatti una piega che certo Pausania, e Platone dietro di lui, difficilmente avrebbero potuto immaginare. In questo modo infatti per secoli ci si è sforzati di tener separate due componenti dell'amore che la natura, se ne esiste una, aveva invece concepito indissolubili. Ma si sa, l'evoluzione delle rappresentazioni culturali, specie quando sono in gioco sentimenti così importanti come l'amore, non si può mai prevedere. Auguriamoci solo che l'Afrodite Pandemos, se non altro per riscattare l'onore del proprio nome, sostituisca la pandemia di Covid con un'epidemia d'amore, ristabilendo così un po' di ordine e di felicità sul nostro tormentato pianeta.
Elena Dusi per repubblica.it il 4 marzo 2020. Massimo Clementi tiene il virus fra le mani. «Ora sono più ottimista», dice dopo aver messo in gabbia (cioè in provetta) uno degli esseri viventi più sfuggenti del pianeta. Il professore di microbiologia dell’università San Raffaele di Milano ha guidato l’isolamento del coronavirus da due pazienti ricoverati sabato. E ora lo guarda, ben chiuso in un vetrino di laboratorio. «Lo teniamo a contatto con delle cellule, che lui usa per replicarsi. Ci mette 48 ore a distruggerle tutte». Lo stesso fa in un polmone. «Ma noi useremo il campione per mettere a punto farmaci e vaccini».
Nato tre mesi fa. Il coronavirus arrivato fra noi è un neonato, ha tre mesi. A novembre circolava solo tra i pipistrelli, disturbandoli al più con un raffreddore. È minuscolo: bisogna metterne in fila quasi un milione per arrivare a un millimetro. Viaggia cavalcando goccioline del respiro grandi 5 micron e adora giocare a nascondino: secondo l’Imperial College di Londra per ogni caso che tracciamo ce ne sono due che guariscono da soli e probabilmente non scopriremo mai. Da buon neonato, ama distruggere: più di 3.100 vittime e 5 trilioni di dollari in Borsa.
Un organismo mai visto. La paura è figlia dell’incertezza. «È un virus nuovo anche per la scienza - conferma Paolo Bonanni, professore di Igiene all’università di Firenze. «Ci sembrano secoli, ma è fra noi da pochissimo». Molte domande che ci poniamo, semplicemente non hanno risposta. «Ci muoviamo su un terreno senza mappe» ha detto il direttore dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, Tedros Adhanom Ghebreyesus: «Questo virus non è la Sars né l’influenza. È un virus unico, con caratteristiche uniche». Ogni nuovo microrganismo che dall’animale salta all’uomo e vi si adatta è una roulette russa. «Può essere poco contagioso e molto letale come la Sars – spiega Bonanni – o molto contagioso e poco letale, come il coronavirus di oggi». Ma non è regola di cui fidarsi. »Nulla vieta che possa spuntarne uno nuovo, molto contagioso e molto letale». Il coronavirus della Mers, 34% di mortalità, che arrivò dai dromedari nel 2012 in medio oriente, si avvicinava alla combinazione ferale. «La nostra fortuna è che si sia diffuso nel deserto», dice Clementi.
Colpire per sopravvivere. Contagiare è una necessità per i microbi. «Fuori dagli organismi sopravvivono poco, qualche ora» spiega Clementi. E dal punto di vista di un virus, nulla è più vicino all’idea di paradiso terrestre del mondo di oggi: miliardi di individui, metà dei quali stretti nelle città, abituati a raggiungere l’altro capo del mondo in una manciata di ore. «La contagiosità - spiega Alberta Azzi, microbiologa dell’università di Firenze - dipende dalla capacità del virus di penetrare nelle cellule. È come se alcuni avessero chiavi migliori di altri». Questa facoltà si esprime con un numero, R0 o tasso di replicazione: il numero di persone contagiate da ciascun infettato. «Sembra che per il nuovo coronavirus sia 2,5-3» spiega Bonanni. «L’influenza varia con gli anni, ma possiamo collocarlo fra 1 e 1,5. Il morbillo arriva a 15-20». Il numero può essere compresso dalle misure di contenimento. Solo quando scenderà sotto a 1 l’epidemia si contrarrà.
L’effetto prateria. «Il tasso di replicazione dipende dal virus, ma anche dall’ospite» spiega Bonanni. «Di fronte a un germe nuovo, il nostro organismo non ha difese immunitarie» aggiunge Azzi. È una prateria davanti alla cavalcata degli unni. Le prime porte ad aprirsi sono le vie aeree superiori, con tosse e raffreddore. E fin qui nessuna sorpresa: molti coronavirus causano raffreddori. «Questo, in più, colonizza i polmoni in profondità, nella parte più nobile e delicata» dice Bonanni. Dopo i 5 giorni medi di incubazione, ne passano altri 5-7 con sintomi simili all’influenza. Dopo – nella quota di malati più gravi – compare la difficoltà di respirazione: affanno e fame d’aria da affrontare subito in ospedale.
Il raffreddore di Dante. Continuerà almeno fino all’arrivo del caldo. Quando forse – non esiste certezza – le temperature alte freneranno i contagi. E poi? «L’influenza d’estate migra nell’emisfero sud, poi torna» spiega Azzi. Se anche il coronavirus seguisse l’esempio, non ripartiremmo comunque da zero. «Il sistema immunitario impara a difendersi» secondo le regole del l’eterna lotta tra uomini e virus. «La pandemia del 2009 non è mai scomparsa» prosegue la virologa di Firenze. «Non ne sentiamo parlare perché non siamo più naïf e non causa malattie gravi. Anche la Spagnola è stata devastante solo nel 1918. Poi è rimasta, senza causare troppi danni, fino al 1957. Infine è scomparsa». Alcuni coronavirus risalgono addirittura al 1200. «Studiandone il genoma capiamo quando sono arrivati fra noi» dice Clementi. «E chissà se anche all’epoca di Dante c’era così tanto spavento, per quel virus completamente nuovo».
Gian Antonio Stella per il “Corriere della Sera” il 26 febbraio 2020. Giovedì 12 febbraio, mentre il mondo intero parlava del numero dei morti per il coronavirus, saliti quel giorno in Cina a 1.115, un' Ansa destinata a esser ignorata diceva che l' epidemia di Ebola in Congo si stava affievolendo tanto che l' Oms «potrebbe decidere di revocare lo status di Emergenza Internazionale». Certo, c' erano stati tre casi appena la settimana prima, c' erano da aspettare 42 giorni a «zero casi» per respirare di sollievo e «un singolo caso può riaccendere l' epidemia». Ma perché non esser ottimisti? A margine, l' Oms ricordava che al 9 febbraio l' epidemia, iniziata il 1° agosto 2018, aveva fatto in un anno e mezzo 2.249 morti. In una parte solo del Congo, le province di Nord Kivu e Ituri. Senza un millesimo dei titoli nell' ultimo mese dedicati alla polmonite di Wuhan. Che ci tocca. E parliamo solo dell' ultima epidemia di Ebola. Una delle tante scatenate dal 1976 da quel virus che nella variante «Zebov» è arrivato ad avere negli anni una mortalità nel 93%. Per capirci: se a oggi le persone uccise in Cina dal coronavirus sono state 2.584 su un miliardo e mezzo di abitanti, nella sola epidemia di Ebola del 2014 la Guinea (12 milioni di abitanti) contò 2.543 morti, la Sierra Leone (meno di 8 milioni) ben 3.956 di cui 221 medici e operatori sanitari, la Liberia (meno di 5 milioni) addirittura 4.809. I rapporti delle Ong che da anni affrontano queste sfide temerarie dicono tutto. Scriveva Aristotele ad Alessandro Magno: «Con i Greci comportati da stratego, con i barbari da padrone, e curati degli uni come di amici e familiari mentre gli altri trattali come animali o piante». Una tesi da prendere con le pinze e collocare in quel contesto storico. Quasi due millenni e mezzo dopo, però, il confronto fra l' allarme che dalla Cina ha investito direttamente noi occidentali, europei, italiani, veneti e lombardi, e l' assai minore apprensione per la sorte degli africani attaccati dall' Ebola, ci ricorda che troppo spesso, anche per noi, gli uomini non sono tutti uguali. Per carità, l' etnocentrismo è antico come il mondo. E fino a un certo punto è comprensibile: chi ci è più vicino ci è più caro. Ovvio. Ma il disinteresse totale per ciò che non ci tocca.
Paolo Russo per “la Stampa” il 6 marzo 2020. L'Organizzazione mondiale della sanità è pronta a pronunciare la parola fino ad oggi impronunciabile: pandemia. Che significa dire ai singoli Stati di fare un passo indietro ed eseguire i piani dell' Oms per impedire che il virus dilaghi. Misure che possono andare dallo stop alle attività produttive ai limiti alla circolazione anche via terra e che potrebbero essere applicate in primis nel nostro Paese, che ha il maggior numero di casi dopo Cina e Corea del Sud. Il primo a rompere il tabù, definendo quella attuale una pandemia era stato il ministro della salute tedesco. Ma anche gli esperti dell' Oms sanno che oramai si è già passati a quella che la stessa organizzazione definisce «fase sei», equivalente al «periodo pandemico». Al quale, secondo il loro stesso schema di classificazione delle epidemie, corrispondono misure per minimizzarne l' impatto e non più per bloccare la diffusione del virus, ritenuta oramai inevitabile. Una strategia pensata per impedire impennate di contagi, che mandino sotto stress i servizi sanitari. Entro 7, massimo 10 giorni, dalla sede di Ginevra l'Oms proclamerà lo «stato pandemico». «Il tempo di avere dati consolidati anche dall' Africa e dall' America Latina», spiega Walter Ricciardi, dell'executive board dell'organizzazione. Del resto per i Centri statunitensi per la prevenzione e il controllo delle malattie (Cdc) il Covid-19 presenta già due dei criteri per definirsi pandemia: si diffonde tra le persone e può essere mortale. Il terzo, la sua «diffusione su scala mondiale», sarà appunto raggiunto a breve, quando arriveranno dati certi sui primi focolai africani e sudamericani. Attualmente per l'Oms ci troviamo comunque nella fase 5, quella di «allerta pandemica», nella quale la risposta è quella che gli epidemiologi definiscono di «contenimento», quando si può ancora isolare una persona colpita e poi tracciare e mettere in quarantena i suoi contatti. «Ma stiamo già passando alla fase successiva di "mitigazione", ossia quella di riduzione del danno visto che non posso più bloccare la diffusione del virus», spiega Ricciardi. In pratica la strategia che l' Oms contempla in caso di pandemia. «Con la dichiarazione dello stato pandemico l'Oms può mandare i suoi operatori in loco, come fanno i caschi blu dell'Onu», ma soprattutto «può chiedere ai singoli Paesi di adottare misure di mitigamento, come il fermo di alcune attività o dei trasporti anche via terra». Non c'è obbligo, «ma il non rispetto delle disposizioni equivarrebbe alla mancata applicazione di norme internazionali, che implica l' applicazione di sanzioni». I vertici dell' Oms non pensano però a una strategia univoca «ma ad una agilità di approccio come quella che abbiamo visto in Cina, dove a Wuahn si sono adottate misure di mitigazione, mentre nelle altre aree del Paese si è adottata una strategia di contenimento», spiega Bruce Aylward, braccio destro del direttore generale dell' Oms. Insomma le misure anche in caso di pandemia non saranno generalizzate, ma commisurate al livello di diffusione del virus. Il problema è capire di quanto rosso si tingerà la mappa dei contagi.
L’Oms dichiara la pandemia e Francia, Spagna e Germania tremano. Paolo Mauri su Inside Over il 12 marzo 2020. Alla fine, come ampiamente preventivato, ma soprattutto prima del 15 marzo, termine complottista passato il quale i “pandemic bond” non avrebbero causato perdite milionarie alle banche, l’Oms, l’Organizzazione Mondiale della Sanità, ha dichiarato la pandemia per il dilagare dell’infezione da coronavirus Covid-19. Dal punto di vista strettamente medico, per un Paese come l’Italia, non cambierà molto. Abbiamo già avuto modo di dire, in un precedente approfondimento, che le misure prese da noi per contenere la diffusione nazionale ed internazionale del contagio e per minimizzarne l’impatto, condividendo immediatamente tutti i dati epidemiologici (nuovi casi, morti, guariti) con l’Oms e gli enti di altre nazioni o sovranazionali come l’Ecdc, l’European Centre for Disease Prevention and Control, sono già quelle di una fase pandemica in buona sostanza. Semmai, se l’Oms dovesse ritenerlo opportuno, si potrebbe andare verso un irrigidimento dei divieti di libera circolazione (sospendendo il trasporto via terra ad esempio) o la chiusura di attività non essenziali, ma queste, ad onor del vero, sono tutte ipotesi che le regioni del Nord più colpite dall’epidemia stanno considerando di prendere, anche in forza del decreto legge numero 13 che concede ampio margine di azione agli enti locali da parte dello Stato limitatamente a questo ambito. L’Organizzazione Mondiale della Sanità, che funziona come una sorta di Onu, dovrebbe quindi inviare i propri “Caschi Blu”, ovvero esperti epidemiologici, nei Paesi in cui il virus si sta diffondendo per trovare le soluzioni migliori, caso per caso, affinché possa essere contenuto. Qui cominciano i guai, ma non per noi. Lo stesso Walter Ricciardi, consulente del ministro della Salute e facente parte dell’ufficio esecutivo dell’Oms, in una recente intervista a Le Scienze ha sollevato preoccupazione per la situazione di Francia e Germania. Secondo l’esperto si prevede che “l’infezione si espanderà anche negli altri Paesi, come Germania e Francia, che seguiranno l’iter italiano” aggiungendo che anche il Regno Unito potrebbe incappare in una “situazione intermedia fra questi due scenari” mentre per gli Stati Uniti “sarà una catastrofe, perché lì il virus sta avanzando incontrastato. Di fatto lì non lo testano neanche, trattandosi di un sistema che non ha grandi risorse di sanità pubblica” e sembra che sia stata proprio questa dinamica, unita all’espandersi dei contagi in quasi tutto il Centro e Sudamerica a far dichiarare la pandemia. Qualcosa però, nel conteggio dei casi di Francia, Spagna e Germania, non torna: secondo uno studio statistico apparso su Medium i casi dovrebbero essere molti di più. La Francia, che dichiarava al momento in cui scriviamo circa 2200 infetti, teoricamente dovrebbe averne tra i 24mila e i 140mila ovvero uno o due ordini di grandezza superiori rispetto alle osservazioni. Lo stesso ragionamento è valido anche per la Spagna, che ha un numero di casi simile (2200), e la Germania (1900). Lo studio ci ricorda anche che, con lo stesso numero di casi di Stati Uniti, Francia, Germania e Spagna, la regione di Wuhan era già in lockdown cioè in quarantena totale. Proprio per questo, l’arrivo degli esperti dell’Oms, o comunque la gestione diretta di quella che finalmente ora è diventata una pandemia, potrebbe generare non pochi guai dalle parti di Berlino, Madrid o Parigi. Al di là di quello che per il momento è solo un mero sospetto – ma come diceva qualcuno molto più saggio di chi scrive, a pensare male si fa peccato ma raramente si sbaglia – ovvero di un conteggio dei casi “drogato” da parte di Francia, Germania e Spagna che verrebbe alla luce con tutte le conseguenze diplomatiche del caso, l’introduzione improvvisa di aree di quarantena, sul modello di quella italiana o addirittura più coercitive, potrebbe essere mal assorbita non solo dalla popolazione ma da parte dell’intero sistema economico/industriale di quei Paesi, venutisi a trovare improvvisamente da una situazione di seminormalità ad un blocco totale senza aver effettuato tutti quei dolorosi ma necessari passaggi che ha intrapreso l’Italia in questi giorni. Sebbene lo stesso Ricciardi sostenga che in Italia si sia in qualche modo sovrastimato il numero di decessi, l’esperto dell’Oms ha apertamente affermato che in Germania o in Francia “capita che accertino che alcune persone siano morte per altre cause pur essendo infette da coronavirus”. Seguendo il medesimo principio potremmo, forse un po’ malignamente, pensare che tra gli 40mila casi di “influenza” improvvisamente palesatisi in Germania in due settimane all’inizio di febbraio che ne hanno raddoppiato il numero dall’inizio della stagione , vi siano parecchi casi di Covid-19, e forse la supervisione dell’Oms aiuterà a chiarire una volta per tutte anche questo punto.
L'Organizzazione mondiale della sanità: "Il Coronavirus è una pandemia". "Un nuovo virus che si diffonde in tutto il mondo e contro il quale la maggioranza degli uomini non ha difese immunitarie, ma non siamo alla sua mercè insieme si può battere". Ora l'Oms potrà emanare direttive e inviare équipe nelle nazioni più colpite come fatto in Cina, Italia e Iran. Elena Dusi l'11 marzo 2020 su La Repubblica. “Un nuovo virus che si diffonde in tutto il mondo e contro il quale la maggioranza degli uomini non ha difese immunitarie”. Questa è la definizione di pandemia, secondo l’Organizzazione Mondiale della Salute. E questo ufficialmente è da ora il coronavirus: non più un'epidemia confinata ad alcune zone geografiche, ma diffusa in tutto il pianeta. L’Organizzazione di Ginevra lo ha dichiarato ammettendo un’evidenza che era sotto agli occhi da giorni: i contagi sono diffusi in ogni continente a eccezione dell’Antartide. I paesi colpiti sono 114 su un totale di 193, soprattutto nell’emisfero nord. Da quando è comparso, a dicembre 2019, il coronavirus ha causato oltre 118 mila contagi e 4.200 vittime. Ora l’Oms avrà la facoltà di emanare direttive e inviare équipe nelle nazioni più colpite (nel rispetto della sovranità), come ha già fatto in Cina, Italia e Iran. Potrà anche prendere nuove misure (in parte lo sta già facendo) per fluidificare l’invio ai paesi più colpiti di presidi sanitari, come ad esempio le mascherine. La dichiarazione di pandemia spetta al direttore generale dell’Oms. Non esistono criteri oggettivi. Nel 2009 l’allora direttrice Margaret Chan fu accusata di averla dichiarata troppo presto, di fronte a una malattia (l’influenza suina) considerata poco grave. Oggi il direttore Tedros Adhanom Ghebreyesus ha aspettato fino all’ultimo, conscio degli effetti psicologici, più che pratici di una mossa simile. “Siamo profondamente preoccupati per la diffusione e la severità della malattia e per l’allarmante livello di inazione” di alcuni paesi, ha però ammesso mercoledì. “Per questo abbiamo deciso che Covid-19 può essere caratterizzato come una pandemia”. La parola “potrebbe suggerire che non possiamo fare più nulla per contenere il virus” ha aggiunto il direttore. “Questo non è vero. Siamo impegnati in una lotta che può essere vinta se facciamo le cose giuste”. A convincere l’Oms è stata la curva crescente non più in un numero limitato di paesi (Cina fino a qualche giorno fa, oggi Italia, Iran e Corea del Sud), ma nell’intera Europa e in un’America che – tra dichiarazioni al limite dell’irresponsabile del presidente Donald Trump e difficoltà tecniche nel distribuire ed effettuare i test – non sembra preparata ad affrontare un’eventuale ondata di contagi. “Ci sono Paesi che non stanno facendo abbastanza per arginare l’epidemia” aveva già avvertito una settimana fa Ghebreyesus. La dichiarazione di pandemia oggi servirà all’Oms anche per avere una voce più forte nei confronti dei Paesi “inadempienti”: fra loro gli Stati Uniti. “Ci aspettiamo un aumento del numero dei casi, delle morti e dei Paesi colpiti” ha spiegato Ghebreyesus. “La definizione di pandemia non cambia la valutazione dell’Oms sulla gravità della situazione. Non cambia quel che l’Oms sta facendo, né quel che i Paesi dovrebbero fare”. Allo stesso tempo, ha aggiunto “questa non è solo una crisi sanitaria, è una crisi che toccherà ogni settore, e richiede che ogni individuo sia coinvolto nella lotta”. L’Oms, ancor prima della dichiarazione di pandemia, aveva inviato i suoi esperti in Cina, Italia e Iran per incontrare medici ed epidemiologi, analizzare le statistiche e valutare la situazione degli ospedali. Solo l’Iran ha reagito in ritardo e con trasparenza incompleta all’arrivo del contagio. I governi di Pechino e Roma sono intervenuti con più decisione e si sono guadagnati le lodi di Ginevra. “Sosteniamo l’azione intrapresa dall’Italia” aveva dichiarato l’Oms tre giorni fa, dopo due settimane di visite e ispezioni. “Le vostre misure ci serviranno da lezione per affrontare l’epidemia anche negli altri Paesi”. La dichiarazione di pandemia non avrà effetti concreti sull’organizzazione dei nostri ospedali o sulla risposta italiana al coronavirus, già molto decisa. “Il messaggio finale – ha concluso Ghebreyesus – è che non siamo alla mercè del virus. Il grande vantaggio che abbiamo è che le nostre decisioni, a livello di governi, attori economici, comunità, famiglie e individui è che tutti noi possiamo influenzare la traiettoria dell’epidemia. La regola del gioco è mai darsi per vinti”.
Coronavirus, ufficiale per l’Oms: è pandemia. Pubblicato mercoledì, 11 marzo 2020 su Corriere.it da Laura Cuppini. Pandemia. La parola che circolava da giorni adesso si può pronunciare «apertis verbis». Il direttore dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) Tedros Adhanom Ghebreyesus, nel briefing da Ginevra, ha scandito: «Abbiamo valutato che Covid-19 può essere caratterizzato come una situazione pandemica». Che si caratterizza con «aumentata e prolungata trasmissione del virus nella popolazione generale», in cui si ritiene «virtualmente inevitabile la comparsa di casi in tutto il mondo». L’Oms aveva dichiarato una pandemia l’ultima volta nel 2009, quando l’influenza H1N1 (la cosiddetta «suina») colpì centinaia di migliaia di persone, con un numero molto importante di vittime. Questa però è una situazione del tutto nuova: si tratta della prima pandemia causata da un coronavirus. «Pandemia non è una parola da usare con leggerezza o negligenza. È una parola che, se usata in modo improprio, può causare paura irragionevole o accettazione ingiustificata che la lotta è finita, portando a sofferenze e morte inutili — ha aggiunto Ghebreyesus —. Descrivere la situazione come una pandemia non cambia la valutazione sulla minaccia rappresentata da questo coronavirus. Non cambia ciò che l’Oms sta facendo e non cambia ciò che i Paesi dovrebbero fare». L’Organizzazione mondiale della sanità — ha concluso — «è profondamente preoccupata sia dai livelli allarmanti di diffusione e gravità, sia dai livelli allarmanti di inazione. Nelle ultime due settimane il numero dei Paesi fuori dalla Cina che sono stati colpiti dal coronavirus è triplicato, siamo a oltre 118mila casi in 114 Paesi e oltre 4mila persone decedute». «Nei prossimi mesi — ha affermato ancora il direttore generale dell’Oms — ci aspettiamo di vedere i numeri di casi, di morti e il numero di Paesi affetti salire ancora di piu». Dei 118mila casi di Covid-19 segnalati a livello globale, oltre il 90% dei casi si trova in quattro Paesi (tra cui l’Italia) e due di questi, Cina e Corea del Sud, hanno registrato una significativa riduzione dei contagi. «Ottantuno Paesi non hanno segnalato alcun caso di Covid-19 e 57 hanno riportato 10 episodi o meno — ha detto Ghebreyesus —. Non possiamo dirlo abbastanza forte, abbastanza chiaramente o abbastanza spesso: tutti i Paesi possono ancora cambiare il corso di questa pandemia». E arriva poi il ringraziamento ai Paesi in prima linea che, secondo l’Oms, stanno quantomeno facendo il possibile: «Siamo grati per le misure che sono state prese in Iran, Italia e Corea del Sud per rallentare il virus e controllare l’epidemia. Siamo consapevoli che queste misure sono pesanti dal punto di vista sociale ed economico, come lo è stato per la Cina».
Professor Vineis, che cosa comporta la definizione di pandemia da parte dell’Oms?
«Significa che l’epidemia si sta generalizzando a gran parte del mondo — risponde Paolo Vineis, professore ordinario di Epidemiologia Ambientale presso l’Imperial College di Londra e responsabile dell’Unità di Epidemiologia Molecolare ed Esposomica presso l’Italian Institute for Genomic Medicine – IIGM (Torino) —. La definizione di pandemia è “un’epidemia che si verifica a livello mondiale, supera i confini nazionali e coinvolge un numero di persone molto elevato”. Se teniamo conto del ritardo con cui l’epidemia inizia in altri paesi (Regno Unito, Stati Uniti, Germania, Francia), le curve di crescita sono essenzialmente le stesse del nostro Paese. Cioè l’epidemia si espande in essi con una velocità simile a quella dell’Italia, o almeno così pare al momento. Questo comporta necessariamente l’adozione di misure drastiche anche altrove. Alcuni Paesi rischiano seriamente di essere troppo in ritardo. Mi auguro che questa tragedia sia uno stimolo per riconsiderare anche il ruolo dei Servizi sanitari nazionali; è molto probabile che la pandemia non mieterà moltissime vittime solo in Paesi poveri, ma negli stessi Stati Uniti. Inoltre, il superamento dei confini nazionali mostra che mai come in questo momento il sovranismo è inadeguato».
Potrebbe comportare misure ancora più stringenti nei Paesi colpiti?
«Più stringenti di quelle italiane non credo. Certo la Cina ha affrontato molto radicalmente il problema, per fortuna. Ma si tratta di uno Stato autoritario. In Italia e probabilmente negli altri Paesi europei bisogna contare sul senso di responsabilità di ciascuno. Mi riferisco in particolare ai giovani, che forse si sentono più protetti ma possono grandemente contribuire, con i loro stili di vita, a diffondere l’epidemia alle fasce più vulnerabili».
L’Oms verifica che le misure decise dai singoli Governi vengano rispettate?
«L’Oms può certamente verificare l’efficacia delle politiche e produrre linee-guida e raccomandazioni, oltre che coordinare, come ha fatto con successo in passato per molto malattie infettive. Non può però imporre politiche agli Stati».
Quali sono le sue previsioni per il prossimo futuro per l’Italia, e in particolare la Lombardia?
«Non mi sento assolutamente in grado di fare previsioni. Ci sono ancora troppe incertezze per poter dire quando l’epidemia inizierà a essere contenuta. Temo che sia questione di settimane, piuttosto che di giorni».
Secondo la definizione dell’Oms, una pandemia (pandemic in inglese) è «la diffusione mondiale di una nuova malattia», in almeno due continenti, con una sostenuta trasmissione da uomo a uomo. Si verifica quando un virus influenzale emerge e si diffonde globalmente e la maggior parte delle persone non ha immunità. Generalmente le pandemie del passato (tutte di tipo influenzale) hanno avuto origine da malattie che colpiscono animali. La dichiarazione di pandemia implica che ogni Paese metta a punto un «Piano pandemico» e che lo aggiorni costantemente sulla base delle linee guida dell’Oms. I piani pandemici possono prevedere misure per riorganizzare i posti letto negli ospedali, comprese le strutture di terapia intensiva, e percorsi per alleggerire le strutture di pronto soccorso; altri provvedimenti possono riguardare i numeri del personale sanitario. L’acquisto di farmaci e la messa a punto e la produzione su larga scala di un vaccino possono diventare prioritarie, così come l’organizzazione delle campagne di vaccinazione. L’Oms ha più volte rilevato come ci sia ora una maggiore consapevolezza del fatto che prepararsi a una pandemia richieda il coinvolgimento non solo del settore sanitario, ma della società nella sua interezza. «Noi quello che dovevamo fare lo stiamo facendo, lo stato di pandemia non ci cambia molto, avendo avuto tra i primi un’epidemia dentro casa. È un invito agli Stati membri a intervenire in maniera molto, ma molto più restrittiva — è stato il commento del direttore del Dipartimento malattie infettive dell’Istituto superiore di sanità, Giovanni Rezza —. L’Oms forse puntualizza che diversi Stati hanno fatto poco per arginare il virus; l’Italia se l’è trovato in Lombardia con il picco influenzale in corso e poteva fare poco. La Cina ha fatto molto, Corea e Giappone anche, in altri Paesi la situazione è sfuggita di mano, come in Iran dove ci sono molti casi a Teheran. Forse anche una reazione da parte della Ue più decisa sarebbe stata auspicabile». «Ormai è una sfida globale, che va affrontata con la massima decisione» ha aggiunto Walter Ricciardi, componente italiano del comitato esecutivo dell’Organizzazione mondiale della sanità e consulente del Ministero della Salute per Sars-CoV-2. «Eravamo sull’orlo del precipizio, ora siamo alla pandemia. Come andrà dipenderà da noi — conferma Fabrizio Pregliasco, virologo dell’Università di Milano —. I Paesi del mondo dovranno essere ancor più netti e stringenti nell’attuare le misure per contrastare la diffusione ulteriore di Covid-19. Servirà un lavoro corale e integrato a livello internazionale, con l’Oms “chiave” per diffondere buone pratiche e per l’interscambio di protocolli. E l’esperienza di chi già sta combattendo o ha combattuto il virus, come la Cina e l’Italia, si rivelerà preziosa». Le pandemie del passato (tutte influenzali, quindi differenti dall’attuale) si sono verificate a intervalli di tempo imprevedibili: negli ultimi cento anni si ricordano quelle del 1918 (Spagnola, virus A, sottotipo H1N1), 1957 (Asiatica, virus A, sottotipo H2N2) e 1968 (Hong Kong, virus A, sottotipo H3N2). La più severa, nel 1918, ha provocato almeno 20 milioni di morti.
Katia Riccardi per repubblica.it l'11 marzo 2020. Il coronavirus continua a macchiare il mondo. Negli Stati Uniti sono stati confermati 31 morti per Covid-19 mentre i dati della Johns Hopkins University parlano di 1.025 casi confermati con nuovi contagi in Florida e Michigan. Il primato spetta allo Stato di Washington con 279 casi, seguito dalla California con 178 e da New York con 173. Salta anche ad aprile il festival di Coachella, uno dei principali eventi musicali dell'anno negli Stati Uniti che si svolge nel deserto del Nevada.
Lezione da casa per gli studenti di Harvard. L'università di Harvard inizia le lezioni virtuali a causa dell'emergenza e sta chiedendo agli studenti di trasferirsi dai loro dormitori per cinque giorni entro il 15 marzo, secondo quanto comunicato dalla portavoce dell'università Rachael Dane. Il tentativo di "de-densificare la nostra comunità", ha detto Dane alla Cnn. Tutti i corsi accademici continueranno a svolgersi in remoto, ha aggiunto. Qualsiasi incontro nel campus dopo il 23 marzo sarà virtuale. Martedì scorso il direttore di Harvard Lawrence Bacow aveva già annunciato che l'università sarebbe passata alle lezioni online entro il 23 marzo, il primo giorno dopo le vacanze di primavera. Ora agli studenti è stato chiesto di non tornare al campus di Cambridge, nel Massachusetts, dopo le vacanze di primavera "per proteggere la salute" della comunità. Gli studenti che devono rimanere nel campus frequenteranno le lezioni in remoto. "Per i nostri studenti, so che sarà difficile lasciare gli amici e le lezioni. Lo stiamo facendo non solo per proteggerli ma anche per proteggere altri membri della nostra comunità che potrebbero essere più vulnerabili a questa malattia", ha aggiunto Bacow.
L'Australia vieta gli ingressi agli italiani. L'Australia vieta l'ingresso ai viaggiatori in arrivo dall'Italia . Il divieto è stato annunciato dal premier Scott Morrison.
Quarantena per passeggeri traghetto diretto a Tunisi. I 268 passeggeri a bordo del traghetto di una compagnia italiana proveniente da Palermo, arrivato ieri al porto di La Goulette di Tunisi, sono stati posti in isolamento domiciliare e verranno monitorati secondo le nuove norme sanitarie. Lo ha detto la direttrice generale dell'Osservatorio nazionale delle malattie nuove ed emergenti, Nissaf Ben Alaya.
La Francia si prepara al peggio. In Francia il Governo si sta preparando ad un'accelerazione dell'epidemia. Al momento l’Esecutivo esclude misure di contenimento drastiche come in Italia, e sta cercando di trovare una risposta al grave rallentamento economico. "Stiamo prendendo le misure appropriate. Oggi, non è necessario prendere decisioni di questo tipo" ma "se domani o dopodomani ci fosse motivo di farlo, lo spiegheremo e forse li prenderemmo ", ha detto Emmanuel Macron. Per il direttore generale della salute, Jérôme Salomon, "la transizione allo stadio 3 dovrebbe avvenire nei prossimi giorni". L'ultimo rapporto ufficiale, martedì sera, ha riportato i 33 morti (contro il 25 lunedì) su 1.784 casi confermati. 86 pazienti sono in terapia intensiva. Tutti i defunti sono adulti e 23 di loro avevano più di 75 anni. "Siamo all'inizio di questa epidemia", ha dichiarato Emmanuel Macron, mentre il più grande aumento dei casi confermati - 372 in 24 ore - è stato segnalato martedì sera. "Stiamo vivendo una crisi eccezionale", ha insistito. Se "dall'80 all'85% delle forme rimane benigno", ha ricordato Jérôme Salmon, "permangono molte incertezze scientifiche su questo virus", a differenza di quella "dell'influenza che conosciamo da 100 anni" - e che fa 10mila morti ciascuno anno medio nel paese.
Regno Unito, positiva ministra Salute. In Inghilterra il ministero della Salute ha anche dichiarato che il numero di persone che si sono dimostrate positive al virus è salito a 373 da 319. Positiva anche la ministra per la Salute Nadine Dorries.
In Cina altri 22 morti, in totale oltre 80mila casi. La Cina ha registrato oggi altri 22 morti. Complessivamente ci sono stati 3158 decessi su un totale mondiale di 4mila. Leggermente aumentato anche il numero di nuovi infetti: i casi odierni sono 24. Complessivamente i cinesi contaminati dal coronavirus sono stati 80.778 su un totale mondiale di oltre 117mila casi.
Corea del Sud casi di nuovo in aumento. La Corea del Sud ha registrato 242 nuovi casi interrompendo il trend al ribasso intrapreso da almeno cinque giorni (131 annunciati ieri, 248 domenica, 367 sabato, 438 venerdì e 518 giovedì). Secondo gli aggiornamenti del Korea Centers for Disease Control and Prevention (Kcdc), le infezioni totali sono salite a 7.755. A preoccupare, malgrado alcuni elementi positivi, è l'andamento delle infezioni a Daegu e a Seul, dove da ultimo un call center è diventato un focolaio del virus.
Tokyo commemora Fukushima. Commemorazioni limitate in Giappone per il nono anniversario della catastrofe di Fukushima a causa dell'espansione del coronavirus. Alle 14:46 locali (le 6:46 in Italia), il premier Shinzo Abe ha rilasciato un messaggio dalla sua residenza mentre le sirene suonavano lungo i litorali del Tokoku, sul versante nord orientale del Paese, luogo del triplice disastro. Intanto Il parco Disneyland di Tokyo e il parco Tokyo DisneySea prorogheranno la chiusura fino a inizio aprile.
Panama e Indonesia, primo morto. Un primo contagio in Turchia. Un uomo di 64 anni che aveva contratto il virus è morto a Panama, è il primo decesso dovuto a Covid-19 registrato in America Centrale, ha annunciato il ministro della sanità panamense Rosario Turner. Turner ha confermato che un totale di otto persone sono state infettate dal virus nel paese. Uno di loro "è in terapia intensiva, un altro purtroppo è morto", ha detto il ministro in una conferenza stampa nella capitale Panama. La vittima soffriva anche di diabete, le altre sette persone positive hanno tra i 29 e i 59 anni e sei di loro hanno viaggiato all'estero, in particolare in Francia, Spagna, Stati Uniti e Cuba. Anche l'Indonesia ha registrato il suo primo decesso per coronavirus. Si tratta di una donna straniera di 53 anni, scrive la Bbc. Il Paese ha altri 26 casi confermati. Primo caso di infezione da coronavirus in Turchia. La conferma è arrivata dal ministro della Sanità, Fahrettin Koca.
La Libia tra i pochi Paesi non contagiati. Dalla Libia arriva invece una buona notizia: il Paese nordafricano non è stato contagiato. Gli esperti collegano la Libia senza virus agli scarsi arrivi di stranieri e con il solo aeroporto di Tripoli funzionante.
Classifica contagi coronavirus nel mondo: contagi, morti e guarigioni. Italia seconda dietro la Cina. Stefano Villa l'11 Marzo 2020 su Oasport.it. L’emergenza coronavirus è divampata in tutto il mondo, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha dichiarato la pandemia: la malattia si sta diffondendo rapidamente, non ci sono vaccini, le difese immunitarie della popolazione globale non conoscono questo virus che continua a mietere vittime. La Cina è il Paese col maggior numero di casi: 80790, di cui 3158 morti ma i numeri sono in fortissimo calo negli ultimi giorni a dimostrazione che nel Paese asiatico le misure restrittive hanno avuto effetto. L’Italia è la seconda Nazione per numero di casi con 12462 (addirittura 2313 nelle ultime 24 ore) con un totale di 827 morti (196 nell’ultimo giorno). L’Iran segue in terza posizione (9000), poi Corea del Sud (7755), Francia (2281), Spagna (2222), Germania (1908) e USA (1109). Di seguito la classifica dei contagi di coronavirus nel mondo.
CLASSIFICA CONTAGI CORONAVIRUS NEL MONDO (PRIMI 20 PAESI):
1. Cina 80.790 (3158 morti)
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2. Italia 12.462 (827 morti)
3. Iran 9000 (354 morti)
4. Corea del Sud 7755 (60 morti)
5. Francia 2281 (48 morti)
6. Spagna 2222 (54 morti)
7. Germania 1908 (3 morti)
8. USA 1109 (31 morti)
9. Nave Diamond Princess 696 (7 morti)
10. Svizzera 652 (4 morti)
11. Giappone 639 (15 morti)
12. Norvegia 598 (0 morti)
13. Olanda 503 (5 morti)
14. Svezia 500 (1 morti)
15. Gran Bretagna 456 (6 morti)
16. Danimarca 442 (0 morti)
17. Belgio 314 (3 morti)
18. Qatar 262 (0 morti)
19. Austria 246 (0 morti)
20. Bahrain 195 (0 morti)
Dagospia il 9 marzo 2020. Dall’account twitter di Henrik Enderlein, Professore di Economia politica, direttore del “Jacques Delors Centre”, presidente della “Hertie School”. Coronavirus: l'epidemia in Italia è davvero “così diversa” dall'epidemia in Germania (come suggerito da molti)? Per quello che vale, guardate questi numeri. Impressionante.
IL CONFRONTO DEI CONTAGI TRA ITALIA E GERMANIA
Andamento dei contagi in Italia
25 febbraio: 229
26 febbraio: 374
27 febbraio: 528
28 febbraio: 650
29 febbraio: 888
Andamento dei contagi in Germania
4 marzo: 240
5 marzo: 349
6 marzo: 534
7 marzo: 684
8 marzo: 847
Mille contagi ma nessun morto: mistero sul virus in Germania. Aumentano i casi di coronavirus in Germania, ma secondo i dati diffusi dal governo tedesco i morti nel Paese da cui è partita l'epidemia in Europa sarebbero ancora pari a zero. Alessandra Benignetti, Lunedì 09/03/2020, su Il Giornale. Salgono in modo esponenziale i casi di coronavirus in Germania. Ma se in Italia cresce proporzionalmente anche il numero dei decessi collegati al Covid-19, nel Paese di Angela Merkel non ci sarebbero ancora vittime. O meglio, l’unico ad aver perso la vita dopo essere stato contagiato dal virus cinese è un cittadino tedesco di 60 anni in vacanza in Egitto. L’uomo era arrivato ad Hurgada, famosa località balneare sul Mar Rosso, da Luxor. Era risultato positivo ai test e venerdì scorso era stato ricoverato con febbre alta. A stroncarlo, domenica, è stata un'insufficienza respiratoria causata da una grave polmonite. Lo sfortunato turista è per ora l’unico morto da coronavirus confermato dal governo tedesco, mentre il numero dei decessi in tutta Europa continua a salire. Secondo i dati registrati dall’Oms in Europa, ad esempio, nei Paesi Bassi, con 265 casi confermati, ci sarebbero già 3 vittime. In Francia, con 1.116 contagi i morti sarebbero 19 e in Spagna su 589 casi accertati i decessi ad oggi sono stati 10. Sul territorio tedesco, invece, non ci sarebbero ancora vittime. Eppure il numero degli infettati oggi è arrivato a 1.112. Oltre duecento in più rispetto alla giornata di ieri. Cifre che, denuncia la delegazione di Fratelli d’Italia al Parlamento Europeo, potrebbero essere a ribasso, visto che lo scorso 20 febbraio alcune emittenti televisive tedesche parlavano del raddoppio dei casi di influenza nel giro di pochi mesi: da 40mila di inizio stagione ad 80mila, in meno di due settimane. Come è possibile che proprio il Paese da cui sarebbe partita l’epidemia che sta mettendo in ginocchio l’Europa sia rimasto immune dalle conseguenze del virus asiatico? "Il sospetto è che anche in Germania ci si ammali e si muoia di Covid-19, ma che le autorità non lo sappiano o meglio non lo dicano", spiega Carlo Fidanza, eurodeputato del partito di Giorgia Meloni. Assieme ai colleghi Fitto, Berlato, Fiocchi, Procaccini e Stancanelli, ha presentato un’interrogazione al Parlamento di Strasburgo, per chiedere che la Commissione intervenga per fare luce sul numero effettivo di contagi e decessi provocati dalla super-polmonite che da Wuhan si è diffusa anche nel Vecchio Continente. Secondo i deputati di Fdi finora in Germania e in altri Paesi europei non è stato messo in atto "un vero e proprio protocollo per eseguire i tamponi necessari a riconoscere l’infezione da Covid-19 in tutti i pazienti potenzialmente a rischio". "I dati relativi alle persone affette da coronavirus risalenti a circa un mese orsono – si legge nel documento visionato da ilGiornale.it - mostrano come i casi riconosciuti siano stati all’epoca maggiormente concentrati in Francia e Germania, ben prima che in Italia". "È strano, quindi, che il nostro Paese ora sia tra i primi al mondo per contagi e decessi", puntualizza Fidanza. "Anche alla luce del fatto – prosegue – che in alcune nazioni, come ad esempio la Spagna, i tamponi post-mortem abbiano dimostrato come alcune persone classificate come vittime di normale influenza, in realtà fossero decedute a causa del virus". "Sembrano essere mancate, ad eccezione dell’Italia, un’azione di controllo diffusa e una puntuale verifica delle cause di morte dei pazienti”, è la conclusione degli eurodeputati di FdI, che ora chiedono alla Commissione di "coordinare un’azione di verifica, anche post-mortem, sulle cause dei decessi delle ultime settimane nei 27 Stati Membri". "L’Europa dovrebbe verificare che i tamponi vengano eseguiti in maniera sufficiente, sistematica e adeguata ovunque, non solo nel nostro Paese", prosegue il parlamentare europeo sentito dal Giornale.it. Un appello, quello ad attivare un protocollo unico europeo per stabilire il reale numero dei casi, che verrà messo nero su bianco nelle risoluzioni sull’emergenza coronavirus che verranno votate nei prossimi giorni a Bruxelles.
Perché in Corea del Sud ci sono (relativamente) così pochi morti di Coronavirus? Pubblicato mercoledì, 11 marzo 2020 su Corriere.it da Sandro Orlando. Fino a martedì 10 marzo la Corea del Sud aveva registrato 7.755 casi di contagio da coronavirus, ma solo 60 morti. A confronto l’Italia, che alla stessa data aveva 10.149 pazienti infetti, presentava un numero di decessi più di dieci volte superiore (631). Come si spiega questa differenza? L’Asia Times ha cercato di trovare una risposta a questo enigma, incontrando alcuni esponenti del governo impegnati nella gestione dell’emergenza sanitaria. Il primo dato che colpisce è l’elevato numero di test diagnostici effettuati, 20 mila al giorno. Con esiti in tempi rapidi, dalle 6 alle 24 ore; costi contenuti, l’equivalente di 120 euro, per la metà coperti dalla mutua; e 500 cliniche in tutto il Paese dove effettuare i tamponi, 40 delle quali con un contatto minimo tra pazienti ed operatori sanitari. Per i pazienti positivi il test è peraltro gratuito, «quindi non c’è motivo, per i casi sospetti, di nascondere i sintomi», osserva il vicedirettore generale del centro sudcoreano per il controllo e la prevenzione della malattia (Kcdc) Kwon Jun-book. A differenza della Cina – poi imitata dall’Italia –, che ha adottato una strategia della «Grande muraglia» isolando intere regioni, la Corea del Sud ha avuto un approccio apparentemente più liberale, evitando di chiudere anche la città più colpita Daegu, uno dei focolai dell’infezione. Piuttosto che sulle zone rosse, il governo ha puntato su un modello di test diffusi, partecipazione pubblica e informazione aperta, facendo affidamento anche sull’estrema disciplina della popolazione sucoreana. Perché i dati di ogni paziente infetto, con i relativi spostamenti negli ultimi 14 giorni – tracciati da cellulari, carte di credito, circuiti di videocamere ecc. – sono stati pubblicati su appositi siti, in modo da consentire di ricostruire la rete di contatti avuti, e quindi di possibili contagi. Questa strategia ha sollevato problemi di privacy, ma ha consentito di informare le persone potenzialmente a rischio, spingendole a sottoporsi ad un test. I malati sono stati sottoposti per lo più a una quarantena in casa, con l’aiuto però di un medico a distanza, mentre solo per i casi gravi si è proceduto al ricovero, grazie alla capacità di triage sviluppata dai Pronto soccorso già nel 2015, con l’epidemia di Mers, la sindrome respiratoria del Medio Oriente. Ma è stata probabilmente la rapidità della diagnosi a tener finora basso il tasso di mortalità, che in Corea del Sud è dello 0,77%, contro una media globale del 3,4%. Perché il trattamento precoce dell’infezione da Covid-19 è l’antidoto più efficace contro ogni rischio di complicazioni. Un’altra caratteristica che ha contribuito a contenere i decessi è stato il fatto che a contagiarsi qui sono state per lo più le donne, con meno di 40 anni: cioè quella parte della popolazione che sta rispondendo meglio all’epidemia. La Corea del Sud ha un’età media di circa 82 anni, molto simile a quella italiana, ma in Italia il Coronavirus ha colpito soprattutto i maschi (e ucciso soprattutto maschi con una età media di oltre 80 anni).
Da adnkronos.com l'11 marzo 2020. Primo caso di infezione da coronavirus in Turchia. La conferma è arrivata dal ministro della Sanità, Fahrettin Koca, che ha precisato che "la persona in questione, colpita dal coronavirus in Europa", è ora in quarantena. "E' in buone condizioni - ha aggiunto il ministro in dichiarazioni riportate dall'agenzia ufficiale Anadolu - e tutti i suoi familiari e le persone che sono entrate in contatto con questa persona sono sotto sorveglianza sanitaria". Koca non ha aggiunto altri dettagli sul caso.
Marta Serafini per corriere.it l'11 marzo 2020. Mentre i giornali di mezzo mondo titolano sull’Italia in lock-down, e mentre sono 3,800 le vittime in tutto il mondo, 111 mila i contagiati in 105 Paesi diversi, ci sono Stati che ancora si dichiarano “Covid-19 free”. Che, tradotto, significa che questi Paesi stanno affermando di non avere casi di Coronavirus al loro interno. Secondo una mappa pubblicata da Al Jazeera, basata su informazioni mondiali e sui dati dell’Organizzazione mondiale della Sanità e aggiornata a oggi, gli Stati che restano “bianchi” non sono pochi. Tuttavia da ricordare come la stessa Oms non abbia ancora dichiarato ufficialmente la pandemia, nonostante ieri il direttore Tedros Ghebreyesus, abbia detto che «la minaccia di una pandemia sta diventando molto reale». Il caso più eclatante è la Turchia. Da quando è iniziata la crisi, Ankara non ha fornito alcun dato sull’epidemia. Inoltre non sono previste particolari misure contenitive all’interno, nonostante il Paese sia molto vicino all’Iran, teatro di uno dei focolai più grossi e sia confinante con Stati fragili. Certo il sistema sanitario turco è sicuramente più strutturato di quello dei suoi vicini e la Turkish Airlines — una delle compagnie aeree più utilizzate al mondo — nei giorni scorsi ha sospeso i voli con l’Italia. Tuttavia un passeggero francese in viaggio da Londra a Singapore su un volo della Turkish è risultato positivo. E secondo quanto dichiarato dal ministro della salute turco Fahrettin Koca, giovedì tutto l’equipaggio è stato messo in quarantena per 14 giorni. Sempre lo stesso Koca rivolgendosi ai giornalisti nella capitale Ankara dopo una riunione del consiglio sulla minaccia del coronavirus, ieri ha dichiarato che il Ministero della Sanità e il resto del governo hanno adottato tutte le misure per impedire l’ingresso del coronavirus in Turchia. Koca ha esortato i cittadini turchi che vivono all’estero ad adottare misure di protezione. “I turchi che vivono all’estero, in particolare quelli che vivono in Europa, non dovrebbero uscire se non necessario”, ha detto il ministro. Koca ha anche esortato i cittadini turchi, in particolare quelli di ritorno dai viaggi all’estero, a mettersi in quarantena a casa per 14 giorni. “Quelli con malattie croniche e quelli di età pari o superiore a 50 anni non dovrebbero uscire se non in caso di necessità”, ha specificato. “Se hanno bisogno di uscire devono indossare una maschera e se hanno sintomi influenzali dovrebbero consultare la struttura sanitaria più vicina. ”Koca ha poi affermato che finora 2000 pazienti sono stati testati ma tutti sono negativi. “Se il coronavirus raggiunge la Turchia, sarà probabilmente trasportato da passeggeri che viaggiano dall’estero. I casi possono essere visti [eventualmente] in Turchia, ma è nelle nostre mani impedirne la diffusione ”, ha affermato. “Se non avessimo chiuso il nostro confine con l’Iran, circa 50.000 persone alla settimana avrebbero potuto entrare in Turchia”, ha aggiunto, riferendosi alla chiusura delle frontiere il mese scorso. Nella stessa occasione ha poi ribadito che se l’Iran avesse messo in quarantena le città di pellegrinaggio di Qom e Mashhad, il virus non si sarebbe diffuso così lontano. Koca ha anche criticato l’Europa per non aver preso le misure quando il virus mortale si è diffuso in Italia. Come dire, insomma, che la “colpa” è degli altri. La Turchia non è l’unico Paese a dichiararsi immune. Sulla mappa resta bianca anche la Corea del Nord che, come noto, è un uno dei regimi più oppressivi del pianeta. Difficile anche qui immaginare che il virus non sia entrato, sebbene si parli di uno Stato le cui frontiere sono particolarmente chiuse. Tuttavia da tempo il regime di Kim Jong-un ha aperto ai viaggi organizzati sotto il controllo del regime dunque è impensabile che anche qui il virus non sia arrivato, tanto più che la Corea del Nord è anch’essa relativamente vicina a Paesi dove il numero di contagi è stato particolarmente elevato. Sempre in Asia fanno eccezione gli “Stan”, ossia Turkmenistan, Uzbekistan, Kirghizistan e Tagikistan. Anche in questo caso stiamo parlando per lo più di Paesi che retti da governi autoritari ma che non sono del tutto chiusi al mondo esterno. Andando avanti a scorrere la mappa un’altra zona che resta bianca è la Groenlandia. In questo caso possibile spiegarlo con il bassissimo numero di abitanti (56.171) e la scarsa densità di abitanti per chilometro quadrato (una delle più basse del mondo, appena 0,027 abitanti per km²). Ma può anche essere dovuto all’assenza di controlli sanitari, se si considera che il Queen Ingrid’s Hospital di Nuuk con i suoi 156 letti è il più grande di tutta l’aerea. Mancano poi all’appello molti Stati africani. E non si registrano casi in Yemen - già colpito da un’epidemia di colera che ha visto 2 milioni di casi sospetti in meno di 3 anni. Inoltre negli ultimi tre mesi sono decedute almeno 270 persone a causa del virus H1N1. Nel 2019 quasi 6600 persone ne sono risultati infette, inclusi 1600 casi negli ultimi due mesi. E paura anche per la Dengue che ha ucciso 78 giovani sotto i 16 anni. Il tutto in un teatro di guerra in corso da cinque anni. “Covid-19 free” sarebbe anche la Siria, anch’essa teatro di una guerra che proprio oggi entra nel suo decimo anno e Paese dove molte strutture ospedaliere sono state colpite. Tuttavia se le fonti governative non dichiarano alcun caso, l’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani voce dell’opposizione, ha scritto che secondo fonti mediche che hanno chiesto di rimanere anonime, ci sono centinaia di casi di contagio e decine di casi di decessi in 4 province siriane. Intanto i voli da Damasco a Baghdad e Teheran sono stati sospesi. I medici contattati dall’Osservatorio sostengono che i contagi sono stati originati da familiari di miliziani iraniani operanti in Siria, che sono arrivati in visita nel paese. Le province colpite sono Damasco, Tartous, Ladhiqia e Homs. (ha collaborato Farid Adly)
Da dire.it l'11 marzo 2020. “Ho utilizzato una chiave ironica perchè sdrammatizzare è importante, ma bisogna allo stesso tempo far capire che non si tratta di un gioco“. Commenta così il regista e attore pornografico, Rocco Siffredi, intervistato dall’agenzia Dire in merito a un tweet diffuso oggi in cui, unendosi a molti artisti, esorta a suo modo le persone a rimanere a casa per evitare ulteriori contagi da Coronavirus. Rocco Siffredi, intanto, fa sapere che l’industria del porno non si è fermata. “Ed è assurdo- dice- che non abbia ancora avuto uno stop. Da circa due mesi, cioè da quando è iniziata questa emergenza, io non giro più. Ma l’industria del porno non ha fatto lo stesso, stranamente. Non si è fermata l’Europa in generale, non si sono fermate Budapest, Praga, Parigi. Tutti gli attori continuano a girare”. D’altronde succede sempre così, racconta Siffredi all’agenzia Dire, quando “iniziano ad uscire i primi casi positivi al Coronavirus diventano tutti isterici, ma prima sembra che il problema non ci riguardi. Questa è la verità”. Il regista e attore pornografico non vuole però fare un appello, per “il semplice motivo che ho capito che funziona così. È assurdo- sottolinea- ma funziona così. La stessa cosa mi chiedo per l’Ungheria, dove abito: perchè ci mettono così tanto a bloccare le scuole e a bloccare tutto come sta succedendo in Italia? Mi aspettavo che anche gli altri Paesi assumessero misure simili, prendendo insegnamento dall’Italia, visto che ci sta passando e che almeno fino ad oggi ci sta rimettendo l’osso del collo. Le persone stanno prendendo il problema troppo alla leggera, poi accade che la sanità non funziona. E lasciamo perdere quella ungherese… Mi domando: perchè bisogna sempre aspettare che uno ci sbatta la testa? L’essere umano è così”, conclude Rocco Siffredi.
Ecco perché la Russia sembra immune dal coronavirus. Paolo Mauri su Inside Over il 12 marzo 2020. L’epidemia di coronavirus Covid-19 che si sta diffondendo a macchia d’olio in Europa e nel mondo sembra aver per il momento graziato un Paese che fa da ponte tra Asia e Vecchio Continente: la Russia. Ad oggi i casi di Covid-19 riportati da quando il contagio si è diffuso sono 20, e di questi solo tre hanno avuto bisogno di ricovero ospedaliero. Praticamente un’isola felice, anzi, un continente felice date le dimensioni del Paese. Merito del caso? Assolutamente no. La Russia da quando è cominciata l’esplosione della malattia in Cina, ha messo in atto tutta una serie di provvedimenti via via più stringenti ma immediatamente efficaci e soprattutto tempestivi.
Da subito, a partire dal 31 gennaio, i viaggi d’affari delle compagnie russe in Cina sono stati temporaneamente sospesi, mentre parallelamente venivano diffusi i primi avvertimenti rivolti a cambiare le abitudini dei cittadini, tipo quella di abbracciarsi e baciarsi. Non proprio come da noi, dove negli stessi giorni la preoccupazione di alcune parti politiche e di alcuni membri del governo erano rivolte al razzismo verso la comunità cinese.
Il 2 febbraio vengono sospesi i collegamenti ferroviari con la Cina compresa la tratta Mosca-Pechino mentre il 3 si prende la decisione di bloccare temporaneamente tutti i viaggiatori ivi provenienti.
Il 6 il Cremlino emana una disposizione per cominciare a registrare la temperatura corporea delle persone che prendono parte ad eventi pubblici mentre il 20 comincia il divieto di ingresso sul territorio della Federazione per tutti i cittadini cinesi e parallelamente vengono istituite delle zone di quarantena per i viaggiatori entrati prima dell’inizio della chiusura della frontiera con la Cina.
Il 27 febbraio i viaggi turistici in Italia, Iran e Corea del Sud vengono sospesi mentre il 28 Mosca sospende i visti di ingresso per i cittadini iraniani. Parallelamente a tutti i viaggiatori provenienti dai suddetti Paesi viene impedito l’ingresso in Russia.
Il 2 marzo nelle scuole dell’area di Mosca viene vietato di tenere corsi di nuoto per prevenire la possibile diffusione del contagio, mentre il 3 nella metropolitana della capitale cominciano i controlli casuali delle temperatura corporea dei passeggeri.
Il 4 marzo viene deciso di interrompere le esportazioni di mascherine, guanti, bendaggi e tute protettive, mentre il 5 l’International Economic Forum di S.Pietroburgo viene cancellato. Via via le maggiori compagnie aeree – Aeroflot e Pobeda – sospendono i collegamenti con i Paesi maggiormente colpiti dal virus.
Il 6 Mosca estende l’obbligo di quarantena per chiunque arrivi da Spagna, Francia, Italia, Germania oltre che dalla Cina, Iran e Corea del Sud. Il 10 l’autorità nazionale per i consumatori raccomanda di effettuare i propri acquisti evitando l’ora di punta e di non prendere i mezzi pubblici o frequentare i grandi centri commerciali.
L’11 marzo viene varato un decreto che vieta gli eventi pubblici con più di 5mila spettatori sino al 10 aprile. Tale provvedimenti comprende manifestazioni sportive, di intrattenimento, pubbliche o altri eventi di massa.
Insomma la Russia ha tempestivamente varato provvedimenti anche molto restrittivi nei riguardi degli stranieri e di chi si è trovato nei Paesi in cui si è sviluppato il contagio, e col passare del tempo ha varato disposizioni per il controllo dello stato di salute della popolazione che in Occidente abbiamo visto solo negli aeroporti, e a volte nemmeno in quelli.
Certamente la Russia nel contenimento dei viaggiatori, almeno di quelli provenienti da Occidente, è stata facilitata anche dal regime sanzionatorio che, purtroppo, ha ridotto di molto i viaggi d’affari, però non bisogna dimenticare che proprio le sanzioni hanno spinto Mosca verso la culla di Covid-19, la Cina, e che Mosca, blindandone i confini che corrono per 4200 chilometri attraverso le sue steppe e istituendo quasi subito dei veri e propri “villaggi di quarantena” come quello a ridosso della città di confine di Blagovechtchensk, sul fiume Amur, ha potuto contenere la diffusione del contagio. La battaglia si è giocata lungo i confini, ovvero gli stessi confini – fisici o aeroportuali – che alcuni propagatori degli ideali globalisti sostengono che non esistano proprio in forza della diffusione del virus: nella regione dell’Amur, oltre ad aver sbarrato i ponti che la collegano con la Cina, i controlli sono serratissimi e i bus che hanno rimpatriato i cittadini russi sono stati messi sotto scorta armata. I medici negli ospedali, inoltre, ricevono la lista di tutti coloro che sono entrati nel Paese ed è stato organizzato un servizio di visite casalinghe. Ovviamente non è tutto oro quello che luccica, e anche in Russia, in quelle regioni di confine con la Cina, nei primi giorni si sono viste scene di assalto alle farmacie per accaparrarsi le mascherine, che però ben presto sono state abbandonate dai russi che ormai non le utilizzano più, proprio grazie alla sensazione di sicurezza data dalle misure prese dal governo.
Le sette potrebbero favorire la pandemia in America. Emanuel Pietrobon su Inside Over l'11 marzo 2020. In Brasile non si può ancora parlare di situazione epidemica, sebbene i casi ufficialmente accertati stiano aumentando di giorno in giorno. L’ultima stima disponibile, del 9 marzo, riferisce di 893 casi sospetti, ma quelli confermati sono soltanto 34, concentrati nella regione di San Paolo. Le caratteristiche del virus, che è estremamente volatile, hanno reso possibile che si espandesse da Wuhan al resto del mondo in poco meno di un mese, perciò la sottovalutazione della sua pericolosità potrebbe far scivolare il gigante sudamericano nel baratro. E in questo contesto ricco di incognite, rischi ed incertezze, un ruolo fondamentale lo stanno giocando, e lo giocheranno, le sette cristiane, proprio come in Corea del Sud.
La risposta delle sette al Covid-19. Porto Alegre, primo marzo. I leader della “Cattedrale Globale dello Spirito Santo”, popolarmente nota come la “Casa dei Miracoli”, organizzano un evento a porte chiuse, ossia per i soli fedeli, teso a dimostrare come combattere il coronavirus con la fede. L’evento viene ampiamente pubblicizzato attraverso manifesti, affissi per le strade, e il nome scelto è molto emblematico: “O poder de Deus contra o coronavirus“, che letteralmente significa “Il potere di Dio contro il coronavirus”. I leader della Casa dei Miracoli, gli auto-proclamati profeti Silvio e Maria Ribeiro, promettono di rendere i fedeli immuni al Covid-19 attraverso un olio speciale, da loro santificato, che verrà dato loro nel corso dell’evento. La segretezza tipica delle sette impedisce alle autorità di venire a conoscenza di ulteriori dettagli, di cosa sia accaduto effettivamente quella sera, se la coppia di presunti profeti abbia domandato ai fedeli, come si presume, del denaro in cambio del vaccino divino. Il ministero pubblico dello stato di Rio Grande do Sul apre un’indagine a carico della coppia, per verificare l’esistenza dei presupporti per procedere alla formalizzazione delle accuse di truffa e abuso della credulità popolare, ma anche per mandare un chiaro segnale al panorama nazionale delle sette evangeliche, che sono ormai le vere protagoniste della scena religiosa brasiliana e sono note per l’organizzazione di controverse messe di guarigione destinate ad ogni tipo di ammalato e portatore di handicap. Sul caso, infatti, è intervenuto anche il ministero della Salute, invitando la popolazione a non cedere alla tentazione di affidarsi alle cure miracolose offerte dai curanderos e dai pastori-profeti che stanno spopolando nel paese. Il rischio che le sette si trasformino in veicoli dell’epidemia è molto forte: è accaduto in Spagna, è accaduto in Francia, ed è accaduto in Corea del Sud.
Il precedente sudcoreano. La Corea del Sud è, attualmente, il paese più colpito dal Covid-19, insieme a Cina, Italia e Iran, ma ciò che la rende unica è il modo in cui l’epidemia è esplosa. Fra il 9 ed il 16 febbraio, la cosiddetta “paziente 31“, partecipa a due funzioni celebrate dal movimento religioso di cui fa parte, la Chiesa di Gesù Shincehonji, decidendo di sottoporsi ad un test diagnostico soltanto con il peggiorare del suo quadro clinico. Quando arriva il responso di positività è troppo tardi: in pochi giorni il numero dei contagiati aumenta nell’ordine delle migliaia, la maggior parte di loro sono seguaci della chiesa di Shincheonji o persone venute a contatto con essi, e nell’intero paese appaiono focolai epidemici. La situazione viene ulteriormente complicata dall’elevato livello di segretezza che caratterizza la setta: i fedeli fanno il voto del silenzio nel momento di entrare a farvi parte, e lo stesso governo, infatti, non dispone di numeri ufficiali, i membri potrebbero essere fra i 250mila e i 500mila, e partecipano attivamente alla vita comunitaria della chiesa, che nel paese poggia su una rete di 1.100 strutture per l’esercizio del culto.
· La Temperatura Corporea.
Da ilmessaggero.it il 14 gennaio 2020. L'assunto che la temperatura normale per un corpo è 37 gradi era vero nel diciannovesimo secolo, quando è stato formulato, ma da allora il corpo umano si è raffreddato, tanto che quella di riferimento è mezzo grado più bassa. Lo afferma uno studio della Stanford University pubblicato dalla rivista eLife. A determinare il valore di 37 gradi era stato nel 1851 il medico tedesco Carl Reinhold August Wunderlich, che si era basato su una serie di misurazioni soprattutto a soldati. I ricercatori americani hanno analizzato tre distinti set di dati sulla temperatura corporea, uno ricavato da veterani dell'esercito con misure prese negli anni tra il 1862 e il 1930, uno risalente agli anni '70 e uno più recente, tra il 2007 e il 2017, per un totale di quasi 700mila misure.
· L’Influenza.
Da "105.net" il 19 febbraio 2020. Con la stagione fredda arrivano anche i malanni. Tosse, raffreddore, febbre: sono moltissimi gli italiani che cadono nella morsa dell'influenza. Prima di ricorrere alla chimica per alleviare i sintomi, ci sono tanti rimedi naturali che possono aiutarci a superare questi momenti di malattia. Una bella spremuta di arance può essere utile per avere un maggiore apporto di vitamina C e guarire più in fretta. Ma non solo, la scienza ci indica un altro rimedio molto piacevole... ma molto, molto piacevole. Secondo uno studio di Manfred Schedlowski, condotto in Svizzera, fare l'amore sarebbe il metodo naturale perfetto per superare l'influenza. Esatto: una bella giornata passata sotto le lenzuola con il proprio partner e addio raffreddore. Il ricercatore ha eseguito dei test su alcune coppie malate e ha visto che il sesso li aiuterebbe a guarire in una percentuale pari al 60%. Fare se facciamo l'amore durante gli stati febbrili, aumenta la produzione di linfociti T, utili per "aggredire e curare" le cellule affette dai virus. Insomma, l'amore è la risposta a tutto... anche all'influenza!
Che cos’è l’influenza stagionale. Agi 20 febbraio 2020. "L’influenza rappresenta un serio problema di sanità pubblica e una rilevante fonte di costi diretti e indiretti per la gestione dei casi e delle complicanze della malattia e l’attuazione delle misure di controllo", ha scritto il Ministero della Salute nel rapporto “Prevenzione e controllo dell’influenza: raccomandazioni per la stagione 2018-2019”. "È tra le poche malattie infettive che di fatto ogni uomo sperimenta più volte nel corso della propria esistenza indipendentemente dallo stile di vita, dall’età e dal luogo in cui vive". Da un punto di vista clinico, come spiega Epicentro (il portale dell’epidemiologia dell’Istituto superiore di sanità), l’influenza "è una malattia respiratoria acuta causata da virus influenzali". È definita "stagionale" perché si presenta generalmente durante il periodo invernale. Dal 1933 – data del primo isolamento – sono stati individuati quattro tipi di virus influenzali (A, B, C e D, tutti della famiglia Orthomixoviridae), ma sappiamo con certezza che solo i primi tre possono colpire gli esseri umani. Tra questi, quelli di tipo A e B sono ritenuti i responsabili dei sintomi – come febbre, mal di testa, mal di gola e tosse – della classica influenza (i virus di tipo C generano al più un raffreddore). Per comprendere l’epidemiologia dell’influenza stagionale bisogna sottolineare un aspetto centrale. Tutti i virus influenzali hanno una "marcata tendenza" a variare, spiega l’Iss, "cioè ad acquisire cambiamenti nelle proteine di superficie che permettono loro di aggirare la barriera costituita dalla immunità presente nella popolazione che in passato ha subito l’infezione influenzale". In parole povere: questi virus mutano in modo da evitare che gli anticorpi creati dalle precedenti versioni del virus siano ancora efficaci. Questa peculiarità ha due conseguenze dirette: da un lato la composizione dei vaccini influenzali va aggiornata ogni anno; dall’altro è fondamentale l’attività di sorveglianza per monitorare stagionalmente la diffusione della malattia e le sue caratteristiche, come il numero dei contagiati.
Quanti sono i contagiati. Ogni stagione invernale, InfluNet (il sistema nazionale di sorveglianza epidemiologica e virologica dell’influenza, coordinato dal Ministero della Salute con la collaborazione dell’Iss) pubblica settimanalmente sul suo sito i risultati del monitoraggio a partire dalla settimana n. 42 di un anno (metà ottobre) alla settimana n. 17 dell’anno seguente (fine aprile). In base ai dati più aggiornati, dal 14 ottobre 2019 al 9 febbraio 2020 – dunque a quasi i due terzi del periodo monitorato – il numero di casi simil-influenzali è stato di 5.018.000 (il rapporto completo è consultabile nel link in fondo alla pagina). Ad oggi le regioni maggiormente colpite sono la Val D’Aosta, l’Umbria, le Marche, il Lazio, l’Abruzzo, il Molise e la Basilicata. Il picco stagionale è stato raggiunto nella quinta settimana del 2020.
Al termine della stagione influenzale 2018-2019, i casi erano stati 8.104.000, tra il 2017 e il 2018 8.677.000 e tra il 2016 e il 2017 5.441.000. Questi numeri ci danno un’idea della portata del fenomeno, ma non riguardano tutti i reali casi di contagio. "Si sottolinea che l’incidenza dell'influenza è spesso sottostimata poiché la malattia può essere confusa con altre malattie virali e molte persone con sindrome simil-influenzale non cercano assistenza medica", ha scritto il Ministero della Salute nelle sue raccomandazioni. Secondo i dati dell’Iss, è possibile dire che ogni anno le sindromi simil-influenzali coinvolgono circa il 9 per cento dell’intera popolazione italiana, "con un minimo del 4 per cento, osservato nella stagione 2005-06, e un massimo del 15 per cento registrato nella stagione 2017-18". Le fasce più colpite della popolazione sono quelle in età pediatrica (0-4 anni e 5-14 anni) e con 65 anni e oltre. Secondo il Ministero della Salute, che riporta i dati del Centro europeo per il controllo delle malattie (Ecdc), ogni anno in Europa si stimano circa 50 milioni di casi sintomatici di influenza, e fino a un miliardo nel mondo, secondo dati dell’Oms.
Ma quante sono le morti in Italia causate dall’influenza stagionale? I numeri sui morti: "In Italia i virus influenzali causano direttamente all’incirca 300-400 morti ogni anno, con circa 200 morti per polmonite virale primaria", ha spiegato a Pagella Politica Fabrizio Pregliasco, virologo e ricercatore all’Università degli Studi di Milano. "A seconda delle stime dei diversi studi, vanno poi aggiunti tra le 4 mila e le 10 mila morti “indirette”, dovute a complicanze polmonari o cardiovascolari, legate all’influenza". I virus influenzali possono infatti creare delle complicazioni – soprattutto in adulti e bambini con malattie gravi, persone con più di 65 anni, donne in gravidanza e alcune categorie professionali, come gli operatori sanitari – che aumentano il rischio di morte. "L’influenza fa crescere la temperatura corporea, aumenta la gittata cardiaca, rende più difficile la respirazione, e gli studi mostrano che questo, per esempio, ha una correlazione con un rischio di infarto maggiore", ha spiegato a Pagella Politica Pregliasco. "Chi respira già male può prendersi la polmonite per colpa dell’influenza, per esempio quella batterica secondaria". In generale, spiega l’Iss, si stima comunque che il tasso di letalità dell’influenza stagionale (ossia il rapporto tra morti e contagiati) sia inferiore all’uno per mille.
Il confronto con il COVID-19. Possiamo quindi dire che l’influenza stagionale è più pericolosa del nuovo coronavirus (ora chiamato SARS-CoV-2, che causa la malattia ribattezzata dall’Oms COVID-19), considerato che solo in Italia i morti per la prima sono ogni stagione più alti di quelli registrati finora in Cina a causa del secondo? A livello generale la risposta, che come vedremo si basa per ora su dati provvisori, è “no”. Per quanto riguarda l’Italia, invece, la risposta è positiva. "L’influenza stagionale, in questo momento in Italia, è un problema ed è l’unico problema che c’è perché il nuovo coronavirus non ce lo abbiamo", ha sottolineato Pregliasco. Ma questo dipende dal fatto che in Italia non si è diffuso il nuovo coronavirus. Se guardiamo ai numeri, provvisori, le cose cambiano. Abbiamo visto nell’introduzione che su oltre 73.300 contagiati da SARS-CoV-2, i morti per COVID-19 sono stati 1.870. Questo lascerebbe suggerire che il tasso di letalità del nuovo coronavirus sia del 2,5 per cento circa, dunque 25 volte più alto di quello dell’influenza. Tuttavia è ancora decisamente troppo presto per trarre conclusioni in proposito. I dati alla base di questo calcolo sono infatti non definitivi e, secondo gli esperti, probabilmente incompleti. "Si parla di numeri altamente provvisori", ha sottolineato ancora Pregliasco. "Per esempio, in Cina non abbiamo l’esatto valore del denominatore, ossia dei contagiati, che potrebbero essere molti di più. Quella che si ha adesso sulla mortalità è quasi sicuramente una sovrastima". Insomma non si può escludere che il tasso di letalità del coronavirus, alla fine, non sia poco più alto da quello di una comune influenza stagionale. La differenza però è che mentre il primo non è diffuso in Italia – ci sono solo pochissimi casi e attentamente monitorati – la seconda sì. Ad oggi, dunque, il nuovo coronavirus in Italia non è pericoloso, e come spiega l’Iss, sebbene i sintomi lievi del COVID-19 siano molto simili a quelli dell’influenza stagionale, nel nostro Paese non c’è bisogno di fare allarmismo. Anche se la situazione resta grave e come tale va affrontata a livello internazionale, per quanto riguarda il controllo e la prevenzione, in Italia sintomi come febbre e tosse sono attribuibili nella stragrande maggioranza dei casi all’influenza, e nella restante parte ad altre malattie. "Il problema che pone il nuovo coronavirus è di tipo potenziale perché uno scenario possibile per il futuro è quello pandemico – ha sottolineato Pregliasco – in cui venga contagiata una buona parte della popolazione". Ma questo, appunto, è una eventualità, evitabile se per esempio si riuscirà a contenere il contagio, concentrato attualmente in Cina.
Conclusione. Secondo le stime del Ministero della Salute e dell’Istituto superiore della sanità, in Italia ogni anno circa il 9 cento della popolazione è colpito da sindromi simil-influenzali, con un numero di morti che oscilla tra i 300 e i 400 decessi diretti dovuti all’influenza, e tra i 4 mila e i 10 mila decessi tra chi sviluppa complicanze gravi a causa dei virus influenzali. Il tasso di letalità (ossia il rapporto tra morti e contagiati) si attesterebbe quindi intorno allo 0,1 per cento (l’uno per mille), mentre un discorso diverso vale per il nuovo coronavirus, che ad oggi non è presente in Italia. Per quanto ne sappiamo finora, i dati sul SARS-CoV-2 ci dicono che il suo tasso di letalità potrebbe aggirarsi intorno al 2,5 per cento, ma è ancora troppo presto per avere conclusioni epidemiologiche solide, dal momento che non è soprattutto chiaro quanti effettivamente siano i contagiati totali. Potrebbe infatti esserci un numero molto elevato di persone che non si sono recate negli ospedali, avendo accusato solo dei sintomi lievi e facendo affidamento a rimedi tradizionali, soprattutto nelle prime fasi di diffusione del virus. Ad oggi, in Italia la pericolosità del nuovo coronavirus è comunque solo potenziale, mentre quella dell’influenza stagionale (seppure con numeri sulla letalità più bassi) è reale. Per questo motivo, soprattutto per le categorie più a rischio, sono raccomandate le vaccinazioni.
Influenza, quasi tre milioni di casi. È possibile vaccinarsi fino a fine gennaio: dopo gli otto milioni di malati della stagione scorsa gli esperti insistono nel raccomandare la protezione, soprattutto, ma non solo, per le categorie a rischio. Laura Cuppini il 15 gennaio 2020 su Il Corriere della Sera.
Picco in arrivo. Brusco aumento dei casi di influenza, soprattutto nei giovani, adulti e anziani. Tra il 6 e il 12 gennaio i contagi sono stati 374mila, per un totale, da metà ottobre, di circa 2.268.000 persone a letto, con 6,2 casi per mille assistiti (bollettino di sorveglianza Influnet, a cura dell’Istituto Superiore di Sanità). Il numero dei colpiti si avvicina così a 3 milioni di casi. Nei bambini sotto i 5 anni incidenza pari a 10,7 casi per mille assistiti: alta ma non in aumento rispetto alla scorsa settimana, come accade invece per le altre categorie. Piemonte, Lombardia, Liguria, Umbria, e Lazio sono fra le regioni più colpite. Il bollettino FluNews, che monitora i casi gravi, indica che dall’inizio della sorveglianza 20 persone sono state ricoverate in terapia intensiva, per lo più persone anziane o con altre malattie croniche. Di questi, 4 sono deceduti. Intanto, dopo il lieve calo dovuto alla chiusura delle scuole nelle feste natalizie, il numero dei contagi continua a salire velocemente e, come riporta il bollettino dell’Iss, «l’andamento dell’epidemia è simile a quello della stagione 2018-19». Il picco deve ancora arrivare: l’anno scorso si era verificato tra la fine di gennaio e l’inizio di febbraio. «Ci attendiamo maggiori difficoltà dopo metà gennaio - spiega Salvatore Manca, presidente della Società italiana della medicina di emergenza-urgenza -. Ricordiamo che è sconsigliato andare al Pronto Soccorso per una febbre a 39-40 gradi, se non associata a gravi difficoltà respiratorie». Di pari passo con i contagi crescono le complicanze che richiedono il ricovero in terapia intensiva. «C’è un rapporto stretto e poco noto tra influenza e malattie del cuore - osserva Ciro Indolfi, presidente della Società Italiana di Cardiologia -. L’influenza può scatenare un infarto del miocardio, sia perché rappresenta uno stress per il cuore, sia perché aumenta l’infiammazione scatenando una serie di eventi che possono portare all’occlusione di una coronaria». Il Ministero della Salute consiglia la vaccinazione in tutti i soggetti sopra i 65 anni o con malattie come asma e cardiopatie: è possibile vaccinarsi fino a fine gennaio e la protezione si attiva 10 giorni dopo l’iniezione.
La dieta anti-freddo. Contro il freddo (e il rischio influenza), oppure per chi è già malato, la Coldiretti ha messo a punto una dieta ad hoc. Aumentare le calorie, iniziando la mattina con latte, miele o marmellata e portando poi a tavola zuppe, verdure, legumi e frutta. Un regime alimentare che aiuta a rafforzare, con l’apporto di vitamine, le difese immunitarie. Oltre a frutta e verdura, ricche di antiossidanti, nella dieta non devono mancare latte, uova e alimenti ricchi di elementi probiotici: yogurt e formaggi, come il parmigiano. L’aglio contiene una sostanza, l’allicina, particolarmente attiva nella prevenzione. Fondamentale assumere verdure di stagione, soprattutto quelle ricche di vitamina A (spinaci, cicoria, zucca, ravanelli, zucchine, carote, broccoletti), perché danno il giusto quantitativo di sali minerali e vitamine antiossidanti che sono di grande aiuto per combattere le conseguenze dello stress. Ottimi anche cipolle e aglio, possibilmente crudi, per le loro proprietà antibatteriche. Via libera ai piatti a base di legumi (fagioli, ceci, piselli, lenticchie, fave secche), perché contengono ferro e sono ricchi di fibre che migliorano la funzionalità intestinale. Per la frutta, di grande importanza per il contenuto di vitamina C è il consumo di frutta di stagione come kiwi, clementine e arance.
Malattia banale? Solo quattro italiani su cento, tra gli over 50, hanno paura dell’influenza. Ritenuta una malattia banale, non lo è affatto: nella stagione scorsa (2018-19) ci sono stati 800 casi di pazienti con complicanze gravi e 200 decessi. Di influenza e dei suoi possibili effetti si è parlato al Corriere della Sera, in occasione di un incontro aperto al pubblico con alcuni tra i massimi esperti del settore. La campagna vaccinale è attiva e l’auspicio è che la copertura possa superare il 53% dello scorso anno (dato relativo agli ultra 65enni).
Ci fidiamo del vaccino? Da una recente indagine Censis-Sanofi Pasteur tra i connazionali con più di 50 anni sembra che nei confronti del vaccino ci sia ancora una certa esitazione: a fronte del 32,7% che afferma di fidarsi molto, infatti, il 53,2% si fida «abbastanza», mentre il 14,1% poco o per niente. Eppure molti (53%) sanno che l’influenza può diventare una malattia grave negli anziani e nei malati cronici.
Bambini e anziani. «Si tratta di una patologia a basso rischio specifico, ma può causare complicanze serie in soggetti fragili, bambini piccoli e over 65» ha sottolineato Fabrizio Pregliasco, virologo dell’Università degli Studi di Milano e direttore sanitario dell’Istituto Ortopedico Galeazzi, tra i relatori dell’incontro. «La scorsa stagione è stata pesante, con otto milioni di contagi (il 13,6% della popolazione) - ha aggiunto Antonino Bella, responsabile della rete InfluNet dell’Istituto superiore di sanità -. Sono stati colpiti soprattutto i bambini sotto i 5 anni (37%) e “solo” il 6% di ultra 65enni, che però sono i soggetti con maggiori e più gravi complicanze». L’antibiotico, ormai è noto, è del tutto inutile contro l’influenza di origine virale.
Categorie a rischio. Il contagio avviene in modo facile e rapido, per via respiratoria, e il vaccino rappresenta l’unico modo per proteggersi. La campagna del Ministero della Salute offre l’iniezione gratuitamente alle cosiddette «categorie a rischio»: persone dai 65 anni in su, malati cronici, donne in gravidanza, operatori sanitari e insegnanti.
Polmonite e infarto. «Il virus dell’influenza è aggressivo - ha affermato Francesco Blasi, direttore del reparto di Pneumologia all’Ospedale Maggiore Policlinico di Milano -. Può evolvere in polmonite, sia virale che batterica (quando si associa a stafilococco aureo o pneumococco). E ricordiamo che la polmonite ha un tasso di mortalità elevato: del 10 per cento, se trattata in ospedale; del 50 per cento, se richiede il ricovero in Terapia intensiva. Non solo: l’influenza è associata a un aumento del rischio cardiovascolare, in particolare di infarto miocardico e aritmie maggiori. Ogni anno il picco influenzale è seguito da un picco di infarti».
Formare uno «scudo». Chi è maggiormente esposto alla probabilità di sviluppare forme gravi? «Le persone con diabete, malattie croniche respiratorie (asma, broncopneumopatia cronica ostruttiva), insufficienza renale - ha detto Blasi -, ma anche gli obesi e i soggetti denutriti. Le donne incinte hanno un rischio aumentato di infezioni e vanno protette (anche per tutelare il bambino), così come gli anziani, il cui sistema immunitario è indebolito a causa dell’età. Non solo: negli ultra 65enni il vaccino risulta meno efficace che negli altri soggetti, dunque il suggerimento è che si immunizzino anche i componenti della famiglia. Stesso discorso vale per i bambini piccoli: genitori, fratelli, zii e nonni dovrebbero formare uno scudo, vaccinandosi».
Come vaccinarsi. I l virus dell’influenza non si replica restando uguale a se stesso. Ogni anno ci troviamo di fronte a mutazioni nella struttura del patogeno, che possono risultare molto «efficaci» nel contagiare un alto numero di persone. Il vaccino viene «costruito» in base ai virus circolanti nell’altro emisfero, dove l’influenza arriva sei mesi prima. Cosa può fare chi vuole evitare di ammalarsi? «Rivolgersi al medico di base - spiega Gabriella Levato della Federazione Italiana Medici di Medicina Generale -. In Lombardia il 75% dei medici di famiglia aderisce alla campagna di prevenzione. Negli altri casi bisogna recarsi al centro vaccinale più vicino e prendere un appuntamento. Chi non rientra nelle categorie a rischio può acquistare il vaccino in farmacia e farselo somministrare da un medico».
Fare l’amore, il miglior rimedio per combattere l’influenza: lo dice la scienza. Laura Pellegrini 25/02/2020 su Notizie.it. Fare l’amore, il miglior rimedio per combattere l’influenza: lo dice la scienza. La scienza non ha alcun dubbio. secondo un recente studio, infatti, per combattere l’influenza stagionale il rimedio migliore è fare l’amore. Uno studio svizzero condotto dal professore Manfred Schedlowski,rivela appunto che un momento trascorso sotto le coperte con il proprio partner allevia fino al 60% i sintomi influenzali. Un rimedio naturale e del tutto piacevole che può aiutare milioni di italiani che ogni anno devono fare i conti con l’influenza. Fare l’amore aiuta a combattere l’influenza: secondo uno studio condotto in Svizzera, infatti, passare del tempo in intimità con il partner è il rimedio naturale più efficace contro i malanni di stagione. Manfred Schedlowsky, il ricercatore che si è occupato di effettuare la ricerca ha scoperto che fare l’amore permette di ridurre fino al 60% il malessere influenzale. Inoltre, è qualcosa a cui tutti gli esseri umani non possono rinunciare e che porta grande piacere. Fare l’amore, insomma, fa bene sempre, anche quando la temperatura corporea denota uno stato febbrile. L’atto in sé aumenterebbe – secondo gli studi scientifici – la produzione di cellule T (o linfociti T), in grado di combattere le cellule affette dal virus. In questo modo aiuterebbe il fisico a superare i momenti di malattia e il malessere influenzale. Sotto le lenzuola, dunque, le alte temperature corporee e la febbre posso essere combattute con dei momenti di intimità da trascorrere con il partner. Nulla di meglio per combattere l’influenza.
"Sono stati tutti requisiti". La verità (nascosta) sui vaccini antinfluenzali. L'autunno caldo del Covid. A due settimane della campagna anti-influenzale i vaccini sono introvabili in farmacia. Giuseppe De Lorenzo e Andrea Indini, Mercoledì 16/09/2020 su Il Giornale. “Non possiamo dire né quando arriva né se arriva”. “Ancora niente”. “Non ne sappiamo nulla”. “Mistero della fede”. A due settimane dall’inizio della campagna anti-influenzale, il grande assente è proprio il vaccino. Da ogni parte governo, ministri e esperti suggeriscono di proteggersi dalla classica influenza per evitare spiacevoli incastri col Covid-19. Ma nelle reti di vendita delle farmacie non è possibile ancora prenotarlo. “Dicevano di iniziare a ottobre, ma la produzione è stata tutta ritirata dalla parte pubblica e non ci hanno ancora mandato le dosi - sussurra un farmacista milanese - E questo non è l’anno giusto per arrivare in ritardo”. Due giorni fa la Conferenza Stato-Regioni ha raggiunto un accordo per l’acquisto di 17 milioni di dosi contro i 10 milioni dell’anno scorso. L’obiettivo è quello di alleviare il sovraccarico negli ospedali e evitare i “sintomi confondenti”, impedendo così che milioni di persone chiedano un tampone per poi scoprire che la febbre è colpa della banale influenza. Il ministro Speranza lo disse a luglio: “Quest’anno sarà più importante rispetto agli altri” visto che “i sintomi del coronavirus sono simili”. Lo dimostra la cronaca dei tragici giorni di marzo. E la drammatica storia di Giovanni, ancora mai raccontata e contenuta nel “Libro nero del Coronavirus. Retroscena e segreti della pandemia che ha sconvolto l’Italia” (edito da Historica Edizioni e in uscita a inizio ottobre). A metà febbraio, a Codogno, Giovanni inizia ad accusare i primi mal di testa. Due giorni dopo arriva la febbre e decide di farsi visitare dal medico di base. “Ho fatto l’anti influenzale”, gli fa notare. Ma il dottore gli spiega che anche altri pazienti si sono presentati in ambulatorio e che, pur avendo fatto il vaccino contro l’influenza, presentano gli stessi sintomi. Nessuno in quel momento pensa al Covid. Possibile che l’antidoto non abbia funzionato? Pochi giorni dopo Giovanni si aggrava. E muore. Oggi però le cose sono cambiate. I medici di base sanno che il Covid circola. Ecco perché vaccinarsi può diventare utile: se una persona che ha fatto l’anti influenzale si presenta con gli stessi sintomi, allora sarà più facile sospettare l’infezione da coronavirus. Per questo il ministero della Salute ha deciso di ampliare la platea di chi lo riceverà gratuitamente: tutti gli over 60 (e non 65, come in passato), persone con determinate patologie e lavoratori essenziali come medici e forze dell’ordine. Il problema è che la paura delle Regioni di restare senza vaccini per i soggetti fragili rischia di tagliare fuori i milioni di persone che non rientrano in queste categorie. Che ad oggi non solo non possono ottenere il vaccino gratis, ma non riescono nemmeno a comprarlo. Delle 17 milioni di dosi accaparrate dalle Regioni, infatti, solo 250mila (l’1,5%) sono state riservate alle farmacie e quindi saranno acquistabili dai privati. “Se fate i conti - ci dice una dottoressa - fanno si e no 13 fiale a farmacia”. Certo molto dipenderà dalle scelte delle singole Regioni, che potrebbero aumentare la quota per i privati. Ma siamo comunque lontani dai livelli del passato. “Noi solito ne ordinavamo 200 a inizio stagione - raccontano a Cernusco sul Naviglio - ma ora le regioni hanno preso tutte le fiale: è ridicolo”. Provare a prenotarle neppure a parlarne: nessuno può vendere merce che non ha in magazzino. Secondo i conti di Federico Gelli, presidente di Fondazione Italia in Salute, il fabbisogno “abituale di antinfluenzale acquistate dai cittadini in farmacia è di 800mila dosi”. Il triplo di quelle attualmente disponibili, anche se ti Federfarma, Fofi e Assofarm stimano la richiesta post-Covid addirittura tra 1,2 e 1,5 milioni. Il risultato sarà una battaglia all’ultimo sangue tra lavoratori, bambini, ragazzi. Le scuole chiedono ai genitori di vaccinare i figli. Pediatri e medici di famiglia consigliano lo stesso. E i lavoratori vorrebbero proteggersi per evitare la sovrapposizione diagnostica (e inutili quarantene). Ma come fare? “Lei provi a chiamare ogni giorno - suggeriscono le farmacie ai clienti - non possiamo garantire nulla, ma sa come funziona: chi prima arriva, meglio alloggia”. Gli effetti sono paradossali: nell’anno del Covid, infatti, non solo potrebbe non aumentare il numero di persone vaccinate (come auspicabile), ma ad oggi le farmacie non riuscirebbero neppure a soddisfare le richieste di chi normalmente si vaccina. “È incoerente sensibilizzare i cittadini verso una buona pratica e poi non consentire di seguirla", dice il presidente di Farmacieunite, Franco Gariboldi Muschietti. Come dargli torto? Intanto l’autunno si avvicina. Il ministero aveva chiesto di anticipare all'inizio di ottobre tutte le procedure. Ma il tempo stringe, sia per chi riceverà il vaccino gratis dalle Asl sia per tutti gli altri. Alcuni genitori, sentiti dal Giornale.it, assicurano di aver chiesto informazioni ai pediatri senza ricevere risposta. “Non li hanno dati neppure a loro e neanche loro sanno nulla”, spiegano nelle farmacie. “La situazione è allarmante. Siamo in un limbo e questo ci fa arrabbiare. In un anno particolare come questo, dovevano essere più rapidi”. Senza contare, peraltro, che la concentrazione delle dosi nella mani delle Asl rischia di rallentare i tempi. “Ci saranno code interminabili - dice una farmacista a Milano - Non sarebbe stato meglio sfruttare le 16mila farmacie sparse in tutta Italia?”. Il Lazio ci sta pensando, e ha chiesto al Cts se può far somministrare il vaccino direttamente dai farmacisti. Ma un po’ ovunque gli addetti ai lavori restano scettici: “Magari qualcosa cambierà, ma io ne dubito". Aspetta e spera.
Milena Gabanelli il 15 settembre 2020 su Il Corriere della Sera. Dai resoconti dei bollettini che da marzo ci aggiornano sul numero di contagi, ricoveri e morti, abbiamo capito che durante i mesi estivi la situazione è diventata meno grave. I dati del Sistema di sorveglianza sulla mortalità giornaliera ce lo confermano: se tra il 25 e il 31 marzo 2020, nel momento più drammatico, in 19 città-tipo del Nord Italia morivano al giorno in media 280 persone (contro le 130 dello stesso periodo dei 5 anni precedenti), quest’estate ci siamo riallineati alle statistiche del mese di luglio: 110 decessi giornalieri. Per il momento, dunque, non c’è più quella che, in gergo tecnico, viene definita «mortalità in eccesso», che confronta il totale dei deceduti fra presente e passato, non solo quelli con il tampone positivo. Quindi, al di là dello scontro tra gli scienziati più prudenti e altri che sostengono che la fase epidemica da Covid-19 è praticamente finita, qual è oggi il reale impatto del virus nel nostro Paese? Dopo avere esaminato decine di statistiche degli ultimi mesi (bollettini della Protezione civile, tabelle Istat, studi scientifici internazionali, analisi dell’Istituto superiore di Sanità e del ministero della Salute), ecco tutti i numeri che fotografano quanto colpisce il Covid-19, e quali sono le differenze con l’influenza in arrivo nella stagione autunno-inverno.
Le probabilità di morte: da marzo a oggi. Il primo dato riguarda la probabilità di morte per i pazienti che finiscono ricoverati in ospedale, quindi i più gravi tra quelli infetti: tra marzo-aprile è stata del 28,9%, tra maggio e giugno del 15,3%, tra luglio e agosto del 4,9%. La mortalità degli ospedalizzati per Covid, quindi, decresce nel tempo. Le spiegazioni sono molteplici: l’età media dei casi più bassa (34 anni contro gli oltre 60 di inizio epidemia), ospedali non sotto stress, ricoveri tempestivi che consentono ai pazienti di arrivare in ospedale in migliori condizioni e di iniziare subito anche i trattamenti, conoscenze sulle cure più avanzate.
Le differenze con l’influenza. Possiamo in questo momento considerare il virus come una normale influenza? Dopo il disastro che è successo la risposta è no, ma poiché c’è ancora chi non ritiene indispensabile indossare la mascherina ed evitare assembramenti, il confronto può essere utile. Partiamo dai sintomi, quelli più diffusi sono simili: febbre, tosse, respiro corto, dolore ai muscoli, stanchezza, disturbi gastrointestinali quali la diarrea. Invece perdita del gusto e dell’olfatto indirizzano verso il Covid. Tempi di incubazione: per l’influenza è più breve, da uno a cinque giorni, contro una media di quattro-cinque per il Covid. Statisticamente ogni infetto contagia al massimo 2 persone, il Covid fino a 3,8. L’influenza dura fra 3 e 5 giorni e durante l’intera stagione finisce in ospedale tra l’1 e il 2% degli ammalati. Il Covid dura mediamente da una a due settimane e solo nel periodo di picco (marzo e aprile) è stato ricoverato fra il 15 e 20% dei contagiati. Le conseguenze del coronavirus sui pazienti dimessi sui polmoni, sistema nervoso, cuore, apparato circolatorio, possono trascinarsi per mesi.
L’incidenza sulla popolazione a confronto. L’ influenza colpisce il 10% della popolazione italiana, con 6 milioni di casi. Il numero di decessi è mediamente di 8.000 ogni anno, ma varia a seconda della virulenza stagionale: se è molto forte, come è successo nel 2015 e 2017, i morti sono stati 24.000. Il calcolo per il Covid-19 è più complesso, poiché il numero di decessi dei bollettini ufficiali calcolano soltanto i pazienti sui quali è stato eseguito un tampone. Occorre quindi considerare l’eccesso di mortalità, che tra marzo e aprile è di 45.186 morti (variando in modo rilevante da città a città). Un numero che comprende anche gli effetti collaterali, ovvero i decessi di chi non ha potuto curarsi in tempo perché gli ospedali erano pieni.
Come il Covid ha colpito le città. In quanti hanno contratto il Covid, invece, è ancora oggi difficile stabilirlo con certezza: nei mesi più difficili dell’epidemia i tamponi sono stati eseguiti solo ai ricoverati, e tranne l’ormai nota eccezione di Vo’ Euganeo, in quei mesi non erano considerati gli asintomatici, e spesso neppure chi aveva sintomi, perché restava a casa. I risultati dell’Istat su 65 mila test sierologici, eseguiti tra il 25 maggio e il 15 giugno per capire quanti italiani sarebbero stati colpiti dal virus, parlano di quasi 1,5 milioni di italiani infettati (2,5%). Invece l’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi), che prende in considerazione i risultati di test sierologici eseguiti su larga scala a livello europeo, arriva a stimare 3,9 milioni di infetti in Italia (6,5%). Una differenza che la dice lunga sulla difficoltà di avere numeri certi in materia di Coronavirus. In ogni caso, partendo da questi dati, e messi a confronto con quelli dell’influenza, si ha un quadro chiaro sulla mortalità e la letalità del virus. La mortalità dell’influenza (percentuale di decessi sul totale della popolazione), è dello 0,01- 0,04% contro lo 0,07% del Covid. La letalità (percentuale di decessi sul numero degli infetti) è dello 0,1%-0,4% dell’influenza contro l’1-3% del Covid. Detto con parole più semplici: sulla base delle stime dei mesi clou dell’epidemia, il Coronavirus è stato dieci volte più letale dell’influenza. Significa che senza nessun intervento, puntando all’immunità di gregge, ovvero fino all’l’80% della popolazione contagiata, i morti sarebbero stati ad oggi 700.000 in più. Il calcolo è realizzato utilizzando le stime più al ribasso, con una letalità all’1%: ci saremmo dovuti attendere 556.000 morti dirette a cui si sarebbero aggiunte circa 150.000 morti indirette causate da mancanza di posti nelle Terapie intensive ed effetti collaterali. Se consideriamo che ogni anno, in Italia, per tutte le cause, ci sono circa 600-650.000 decessi, è facile comprendere che senza misure di contenimento, la mortalità generale sarebbe più che raddoppiata. Quei mesi pesantissimi sono alle spalle, ma nessuno è in grado di prevedere il conto che ci presenterà la prossima stagione con la sacrosanta ripartenza di tutte le attività. Dipenderà dai comportamenti di ciascuno di noi. Più resteranno prudenti (mascherine e distanziamento fisico), e più l’incubo sarà gestibile. L’Rt, che misura quante persone contagia un infetto, sta risalendo sopra l’1, e stanno tornando a crescere anche i ricoveri nelle terapie intensive seppure in modo non ancora allarmante. Il ministero della Salute raccomanda dai 65 anni in su, e per le categorie a rischio, di vaccinarsi contro l’influenza, che non tutela dal Covid, ma consente di non confondere i sintomi: in caso di febbre sai che devi correre a fare il tampone. Inoltre, evita ad una buona fetta di quel 1-2% (che equivalgono a circa 100.000 persone) di non finire in ospedale, lasciando così liberi i posti agli ammalati di Covid.
· La Sars-Cov.
Sars e Covid-19: come mai sono così diversi? Mauro Indelicato su Inside Over il 14 maggio 2020. Il 2003 viene ricordato per diversi eventi, tanto di cronaca quanto di altro genere. Ad esempio, questo è stato l’anno della guerra degli Usa contro Saddam Hussein, con il conflitto iniziato il 19 marzo 2003 e con le statue del rais iracheno abbattute a Baghdad il 9 aprile successivo. Il 28 maggio invece, tutti gli italiani erano incollati davanti allo schermo per seguire la prima finale di Champions tra due squadre di Serie A, che all’Old Trafford di Manchester vedeva contrapposte Milan e Juventus. Eppure, anche nel 2003 si è andati molto vicini a quanto oggi sta caratterizzando il 2020: una pandemia causata da coronavirus. Nei primi mesi di quell’anno è apparso un incubo che per diverso tempo ha attanagliato i timori anche degli italiani: quello spauracchio si è materializzato con il nome di Sars. Tutto il mondo ha tremato: dall’estremo oriente fino alle Americhe, passando per l’Europa, la popolazione mondiale ha vissuto con lo spettro di ritrovarsi dinnanzi alla prima grande infezione del nuovo secolo. Così però non è stato ed il termine Sars è riemerso solo di recente, quando quei maledetti incubi del 2003 si sono materializzati nei mesi scorsi.
Cos’è la Sars. Con questo termine è stata identificata una malattia che colpisce soprattutto l’apparato respiratorio. Infatti, Sars è acronimo di Severe acute respiratory syndrome, ossia sindrome respiratoria acuta grave ed indica i casi più gravi di polmonite atipica riscontrata nei pazienti infettati da un particolare coronavirus. Quest’ultimo è stato scoperto nel 2003 ed è stato denominato Sars-Cov: la diffusione del morbo ha provocato un’epidemia che, come detto in precedenza, nel giro di pochi mesi ha fatto precipitare il mondo nel timore di subire una delle più gravi pandemie.
Il virus in questione fa parte della famiglia dei coronavirus, denominati così in quanto al microscopio l’aspetto del loro corpo centrale si presenta proprio con la forma di una corona. L’origine è ancora oggi incerta, anche se nel corso degli anni ha preso sempre più quota l’ipotesi che il Sars-Cov abbia fatto il salto dall’animale all’uomo dai pipistrelli. Nel 2017, dunque 14 anni dopo la fine dell’epidemia, ricercatori cinesi hanno rintracciato questo coronavirus in alcuni pipistrelli appartenenti a delle specie comunemente note come “ferri di cavallo”. Sempre secondo lo studio cinese, a fare da vettori intermediari per la trasmissione del Sars-Cov sarebbero stati gli zibetti. Anche per questo motivo, è possibile rintracciare diverse somiglianze tra il Sars-Cov ed il Sars-Cov2, ossia il coronavirus apparso nel 2019 e che nel 2020 è stato responsabile dell’avvio della pandemia attualmente in corso.
L’origine cinese dell’epidemia di Sars del 2003. E proprio come 17 anni dopo, i primi allarmi relativi al nuovo coronavirus sono arrivati dalla Cina. A cambiare, rispetto all’epidemia del 2019-2020, è la provincia origine del primo focolaio infettivo: se il Sars-Cov2 si è iniziato a diffondere infatti dall’Hubei e, in particolare, dalla metropoli di Wuhan, il virus Sars-Cov ha avuto come origine invece la provincia del Gaungdong. Infatti, nel novembre del 2002 un agricoltore è stato ricoverato per una grave forma di polmonite presso il primo ospedale della città di Foshan. L’uomo è morto poco dopo il suo approdo in ospedale, tuttavia in un primo momento non è stata effettuata alcuna diagnosi. Non si capiva il motivo di una così grave forma di polmonite, da qui i primi sospetti della presenza di un nuovo virus. Il governo di Pechino, informato dalle autorità provinciali, non ha però fatto scattare alcun allarme. Una prima notizia della presenza di un possibile focolaio di un nuovo coronavirus, si è avuta il 27 novembre 2002. In particolare, il Global Outbreak and Alert Response Network dell’Oms ha segnalato quel giorno alcuni report provenienti dalla Cina, in cui per l’appunto si parlava di un importante aumento di casi di polmonite atipica, segno di possibili focolai attivi di un nuovo virus in alcune province del Paese asiatico. Per questo la stessa Oms ha chiesto, tra il 5 e l’11 dicembre 2002, chiarimenti alle autorità di Pechino. Il governo cinese però ha inizialmente dichiarato di avere la situazione sotto controllo, non riconoscendo subito ufficialmente la presenza di un’epidemia causata da un virus fino ad allora sconosciuto. Soltanto il 21 gennaio 2003, in base alle poche informazioni trapelate, si è potuto redarre un primo report in inglese. In esso si parlava di una sindrome respiratoria acuta, individuata con l’acronimo di Sars. Soltanto il 10 febbraio 2003 le autorità di Pechino hanno confermato la presenza del nuovo coronavirus, riferendo al contempo che il picco nel Guandong era già stato superato con 305 casi accertati e 5 decessi. Poco dopo le cifre sono state riviste al rialzo: nella provincia da dove è partito il primo focolaio di Sars, i contagiati sono stati almeno 806 ed i morti 34.
L’episodio dell’hotel Metropolitan di Hong Kong. Quando però la Cina ha iniziato ad ammettere la presenza di un nuovo virus, i focolai avevano iniziato ad espandersi anche oltre la provincia del Guandong. Nella vicina Hong Kong, a febbraio l’incubo Sars si è materializzato per via dello sviluppo dell’infezione all’interno di un albergo. In particolare, un medico del Guandong ha alloggiato nella stanza 911 dell’Hotel Metropolitan, assieme alla moglie. Quando è arrivato ad Hong Kong il medico, di nome Liu Jianlun, stava già male. Probabilmente era rimasto contagiato in uno degli ospedali della sua provincia in cui lavorava. Il 22 febbraio si è quindi recato presso uno dei nosocomi di Hong Kong e per via di una crisi respiratoria è stato posto in terapia intensiva. Il medico è in seguito deceduto il 4 marzo. Durante il suo soggiorno nella metropoli cinese, Liu Jianlun potrebbe aver infettato diverse persone. Da quel momento in poi infatti, le autorità di Hong Kong hanno iniziato a riscontrare molti casi di polmonite atipica, riconducibili al nuovo virus la cui presenza era oramai stata conclamata. All’interno dell’hotel Metropolitan di Hong Kong alloggiava tra gli altri anche Kwan Sui-Chu, una donna di origini sudcoreane residente a Toronto. Una volta tornata in Canada il 23 febbraio 2003, ha iniziato ad avvertire malesseri e problemi respiratori. Ricoverata in ospedale, la paziente è deceduta il 13 marzo 2003. Successivamente, i test effettuati hanno confermato la presenza del nuovo virus e la donna è quindi risultata la Paziente 1 in Canada. Da allora, il Paese nordamericano è entrato nell’incubo dell’epidemia, con diversi casi accertati e con diversi pazienti ricoverati in quelle settimane nei vari ospedali di Toronto. Al Metropolitan di Hong Kong, ha alloggiato a febbraio anche Johnny Chen. Cittadino sino – americano, l’uomo il 26 febbraio ha raggiunto per lavoro Hanoi, capitale del Vietnam. Avvertiti i primi malesseri, l’uomo è stato ricoverato all’interno dell’ospedale francese della città vietnamita. Johnny Chen per la gravità della situazione, è stato trasferito in terapia intensiva ad Hong Kong, lì dove poi è deceduto il 13 marzo. Il suo caso però, è stato determinante per l’individuazione della nuova malattia.
L’intuito di Carlo Urbani. Tra l’equipe medica che ha soccorso Johnny Chen ad Hanoi, vi era anche il medico italiano Carlo Urbani. Da anni impegnato in Vietnam e profondo conoscitore della realtà locale, Urbani ha trascorso buona parte della sua carriera anche ad insegnare alle popolazioni dei Paesi più poveri come combattere le infezioni. Nel suo curriculum, figura anche la presenza del suo ruolo di presidente dell’associazione Medici Senza Frontiere. Urbani, nel momento del ricovero di Chen, ha intuito di trovarsi difronte ad una nuova malattia provocata da un agente patogeno fino ad allora sconosciuto. Di Sars, come detto in precedenza, si è iniziato a parlare internazionalmente a gennaio ed il governo cinese ha ammesso la presenza di un nuovo virus il 10 febbraio, dunque ancora non tutti erano preparati alla possibilità di ritrovarsi dinnanzi a questa nuova e grave situazione. Carlo Urbani ha prima lanciato l’allarme all’Oms, successivamente ha convinto le autorità vietnamite ad adottare speciali protocolli per evitare la diffusione dell’epidemia. Misure quali il distanziamento e l’isolamento delle persone infettate, sono quindi state approvate dal locale governo. Da quel momento in poi, in caso di sospetti di Sars si utilizzerà a livello internazionale il protocollo ideato da Urbani. Carlo Urbani l’11 marzo, quando l’Oms si preparava a decretare lo stato d’allerta, era in volo da Hanoi a Bangkok. All’interno dell’aereo, il medico italiano ha avvertito problemi respiratori intuendo dunque di aver contratto anch’egli il nuovo virus. A bordo del mezzo Urbani è riuscito a contattare i suoi colleghi a Bangkok, predisponendo tutte le misure necessarie per il soccorso e l’immediato isolamento. Il medico che per primo al mondo ha lanciato l’allarme per il nuovo virus, è purtroppo deceduto in seguito il 29 marzo. Da allora in poi, il protocollo da lui ideato è diventato quello applicato sempre in caso di epidemia.
12 marzo 2003: l’Oms lancia l’allerta globale. A seguito dei primi casi riscontrati in Vietnam, ad Hong Kong ed in Canada, così come di quanto dichiarato dalle autorità cinesi circa la situazione nel Guandong, il 12 marzo 2003 l’Oms ha dichiarato lo stato d’allerta generale a livello globale. In particolare, l’organizzazione ha valutato con apprensione le notizie riguardanti le prime morti riscontrate per via della malattia, la quale ha avuto come filo comune nei casi fino ad allora noti la presenza di gravi difficoltà respiratorie dovute ad una polmonite atipica. Da quel momento in poi, sono stati sconsigliati viaggi verso le zone interessate mentre laboratori di tutto il mondo hanno iniziato a studiare il nuovo virus e la nuova malattia da esso generato. Il pericolo, in quel marzo del 2003, era soprattutto legato alla possibilità che l’epidemia partita dal Guandong potesse trasformarsi in una vera e propria pandemia.
L’attenzione mediatica verso la Sars. L’allerta lanciata dall’Oms ha indubbiamente acceso i riflettori sul nuovo virus. E questo nonostante il concomitante inizio della guerra in Iraq. Televisioni di tutto il mondo hanno iniziato a parlare della presenza della Sars, evidenziando come essa fosse oramai diffusa in diversi Paesi. Le morti dei Pazienti 1 del Vietnam e del Canada così come, poco dopo, del medico italiano Carlo Urbani, hanno poi dato l’impressione di un’elevata letalità. Secondo i primi dati arrivati nel mese di marzo del 2003, la mortalità avrebbe riguardato almeno il 10% delle persone colpite dal virus. Una percentuale di gran lunga superiore rispetto alle malattie influenzali stagionali. Sotto il profilo mediatico, una svolta la si è avuta il 9 aprile 2003. Quel giorno infatti, sono accaduti due fatti che hanno, da quel momento in poi, determinato una costante attenzione verso il nuovo virus. Da un lato infatti, le truppe americane hanno conquistato Baghdad e di conseguenza la guerra in Iraq ha iniziato ad interessare sempre meno. Dall’altro lato, un mormone americano docente dell’Università di Shenzhen, James Earl Salisbury, è morto a causa della Sars presso l’ospedale di Hong Kong. Un evento quest’ultimo che ha scosso l’opinione pubblica negli Usa e portato diversi network ad occuparsi del caso. Il governo cinese, dopo il decesso di Salisbury, ha iniziato anche a svelare maggiori dettagli sulle dinamiche dell’epidemia. A contribuire anche ad una maggiore visibilità mediatica del virus, ha contribuito anche l’epidemia sviluppatasi a Toronto. Ha infatti destato scalpore la rapida diffusione della Sars nella metropoli canadese, lì dove il sistema sanitario è sempre stato descritto come tra i più efficienti a livello globale.
16 aprile 2003: identificato il virus Sars. Su spinta anche della pressione mediatica, in tutto il mondo è partita la corsa alle ricerche sul nuovo virus. E questo sia per produrre un vaccino e sia per arrivare a comprendere la natura del coronavirus. Dopo diverse ricerche effettuate in numerosi laboratori di diversi Paesi, il 16 aprile l’Oms ha ufficialmente dato un nome al nuovo virus. Essendo quest’ultimo ritenuto responsabile della Sars, il morbo è stato chiamato virus Sars-Cov.
La Sars in Italia. Il nostro Paese ha vissuto sotto il profilo mediatico l’attenzione verso lo sviluppo del nuovo virus riscontrato in Cina. E questo anche in considerazione del fatto che il primo medico a lanciare l’allarme è stato Carlo Urbani: il suo decesso ha contribuito a far destare maggiore allarme all’interno dell’opinione pubblica italiana. La paura nella popolazione è arrivata soprattutto a metà aprile, quando una donna a causa di complicazioni respiratorie è deceduta a Napoli dopo essere ritornata dalla Thailandia. Nonostante quest’ultimo Paese non fosse iscritto tra quelli più a rischio, l’episodio ha generato timori e panico in tutto lo stivale. Successivamente però, è stato dimostrato che la vittima è venuta a mancare per altri motivi. Complessivamente, l’Italia ha avuto 4 casi di Sars. Il Paziente 1 è stato un imprenditore rientrato nel nostro Paese il 14 marzo. Italiano era anche il Paziente 2, mentre gli altri due contagiati erano cinesi rientrati dal loro Paese alcune settimane dopo l’esplosione dell’epidemia. Nessuno dei 4 è risultato seriamente ammalato e bisognoso di specifiche cure. Dunque, l’Italia è stata soltanto sfiorata dall’emergenza sanitaria globale. Per via però degli allarmi dell’Oms e dell’attenzione mediatica, anche il nostro governo, all’epoca presieduto da Silvio Berlusconi e con Girolamo Sirchia quale ministro della Sanità, ha nominato una task force insediatasi il 17 aprile 2003.
Le misure prese in Italia contro la Sars. In generale è stata l’intera Europa a risultare poco colpita dal virus. Il maggior numero di casi si è registrato in Germania, con 9 persone contagiate. In Francia invece si è contata l’unica vittima di Sars in tutto il vecchio continente. In tutti i Paesi europei sono state intraprese diverse misure, tra cui il filtraggio aeroportuale con controlli accurati per coloro che arrivavano dalle nazioni considerate più a rischio. In Italia, come si legge nel rapporto finale dell’Istituto Superiore di Sanità, sono stati quattro gli obiettivi portati a termine volti a prevenire il contagio: “1) identificare e isolare immediatamente i casi di SARS, sospetti o probabili al momento del loro arrivo in Italia (filtro aeroportuale); 2) identificare e isolare immediatamente i casi di SARS, sospetti o probabili che si manifestano in soggetti provenienti da aree affette nei 10 giorni successivi al loro arrivo in Italia – si legge nel documento – 3) porre sotto sorveglianza i contatti dei casi di SARS; 4) fornire indicazioni per la prevenzione e controllo della SARS in ambito ospedaliero”. Non sono stati quindi bloccati i voli da e per la Cina, così come anche per gli altri Paesi a rischio. Al contrario, si è proceduto a verificare lo stato di salute di coloro che arrivavano. Questo è stato importante, ha sottolineato l’Iss, per via del “rinforzo informativo fornito nell’atto dello screening clinico all’arrivo”. Un punto quindi visto tra quelli essenziali per la prevenzione del virus in Italia: “Il nostro Paese- si legge ancora nella relazione dell’Iss – ha dato grande importanza al filtro aeroportuale, consistente in uno screening clinico dei passeggeri in arrivo da aree infette, informazioni sulla possibilità di comparsa di sintomi, identificazione e sorveglianza sanitaria dei passeggeri dei voli sui quali erano presenti persone affette da SARS”. Una valutazione positiva è stata fatta anche in riferimento alle procedure di isolamento delle persone risultate infette: “Le procedure di isolamento adottate nei centri clinici che hanno ricoverato casi probabili di SARS sembrano aver funzionato – hanno scritto i vertici dell’Iss – non essendosi verificati casi secondari di trasmissione dell’infezione ad operatori sanitari”. Nella relazione finale, l’Istituto Superiore di Sanità non ha sottovalutato il fattore fortuna: “L’Italia – si legge nel documento – come gli altri Paesi europei è stata innanzitutto fortunata. A differenza di quanto accaduto in Canada, non sono arrivati casi prima della fatidica data dell’allarme globale”.
La fine dell’epidemia. Aprile e maggio sono stati i mesi in cui il virus è stato maggiormente sotto l’attenzione mediatica, tanto da oscurare ed offuscare lo stesso immediato dopoguerra iracheno. In tutto il mondo si aspettava, da un momento all’altro, lo scoppio di una pandemia. In Cina il Partito Comunista ha iniziato la rimozione di tutti i dirigenti locali e nazionali ritenuti responsabili dei ritardi della comunicazione e di una cattiva gestione dell’emergenza sanitaria. Nel frattempo sia all’interno della Cina continentale, che ad Hong Kong e Taiwan sono state prese misure quali la chiusura delle scuole e di alcune fabbriche. Stessa situazione anche in Vietnam e nelle zone del Canada più colpite dal virus. Tuttavia, è proprio tra fine aprile e maggio che le curve epidemiologiche hanno iniziato a virare verso il basso: in tutti i Paesi raggiunti da diversi casi di Sars, il numero dei contagi è apparso drasticamente diminuito. L’Oms il 28 aprile ha dichiarato il Vietnam primo Paese ad aver arrestato l’epidemia del nuovo virus. Il 24 maggio Hong Kong ha vissuto il suo primo giorno dopo mesi senza la registrazione di nuovi contagi. Sempre a fine maggio anche la provincia cinese focolaio del virus, ossia il Guandong, ha fatto registrare il più basso numero di contagiati dall’inizio dell’anno. Il 31 maggio Singapore, altro Paese colpito, è stato rimosso dall’elenco delle aree più a rischio. In Canada nella città di Toronto i focolai sono apparsi oramai ristretti e controllati a partire da metà giugno. Con la rimozione, avvenuta il 5 luglio 2003, di Taiwan tra le aree più pericolose, l’Oms ha dichiarato cessato l’allarme a livello globale. La Sars era di fatto scomparsa, anche se la stessa organizzazione ammoniva circa la comparsa di una seconda ondata in autunno. Alcuni casi, dopo l’estate, sono apparsi sempre nel Guandong a partire da dicembre, anche se con numeri non in grado di destare ulteriori allarmi. Il 18 maggio 2004, l’Oms ha dichiarato la Cina completamente libera dal virus Sars. Il morbo era stato di fatto debellato ancor prima del vaccino.
Il bilancio finale dell’epidemia. Dal novembre 2002 al maggio 2004, sono stati complessivamente riscontrati 8.096 casi di Sars. Di questi, 5.327 soltanto in Cina. Il Paese asiatico è stato anche quello dove sono stati registrati più morti: 349 dei 774 complessivi a livello globale. Dati a cui bisogna aggiungere i 1.755 casi di Sars riscontrati ad Hong Kong e le 299 vittime registrate sempre all’interno dell’ex colonia britannica. Taiwan invece ha dovuto fare i conti con 346 contagiati e 73 vittime. Al di fuori dell’estremo oriente, è stato il Canada il Paese più colpito con le 256 persone contagiate nell’area di Toronto e, tra queste, le vittime sono state 43. Il Vietnam ha pianto 5 morti sui 63 contagiati: il governo di Hanoi ha pubblicamente tributato al medico italiano Carlo Urbani il merito di aver evitato, grazie all’allarme lanciato, ha evitato una possibile strage all’interno del Paese asiatico. Il tasso di mortalità della Sars, nel bilancio finale, è risultato del 9.6%.
· Glossario del nuovo Coronavirus.
Frammenti dal volume “Breve storia del corpo umano” di Bill Bryson, edito da Guanda (pagi-ne 479, €17,00), raccolti da Giorgio Dell’Arti per “la Repubblica”.
«Un virus è una brutta notizia avvolta in una proteina» (premio Nobel britannico Peter Medawar).
Herpes. Il virus dell' herpes dura da centinaia di milioni di anni e infetta ogni sorta di animale. Anche le ostriche.
Tossina. Il termine virus, in latino tossina, risale al 1900. A scoprirlo il botanico olandese Martinus Beijerinck. Studiando alcune piante di tabacco scovò questo misterioso agente infettivo addirittura più piccolo dei batteri. Dapprima lo chiamò contagium vivum fluidum. Delle centinaia di migliaia di virus solo 586 infettano i mammiferi, e di questi solo 263 infettano gli umani. In media un litro di acqua marina ne contiene fino a cento miliardi. Messi in fila coprirebbero dieci milioni di anni luce.
Influenza. Il virus dell' influenza può sopravvivere sulle banconote due settimane e mezzo se accompagnato da una minuscola goccia di muco. Senza, ha solo poche ore di vita.
Viso. In media un adulto si tocca il viso sedici volte l' ora.
Acqua. Litri d' acqua che un uomo di settanta chili perde al giorno stando fermo: 1,5. Litri d' acqua che si possono perdere camminando per un giorno sotto al solleone: 12.
Microbi. In un centimetro quadrato di pelle si contano circa centomila microbi.
Infezioni. Ogni anno circa due milioni di americani contraggono una grave infezione in ospedale. In novantamila muoiono.
Mani. «La principale difficoltà consiste nel convincere i medici come me a fare l' unica cosa in grado di impedire la diffusione delle infezioni: lavarsi le mani» ( Atul Gawande).
Sapone. Per disinfettare per bene le mani dopo un esame medico bisogna lavarle con acqua e sapone per almeno un minuto. Il problema dei saponi antibatterici è che oltre a estirpare i microbi cattivi della pelle uccidono anche quelli buoni. Lo stesso vale per i disinfettanti delle mani.
Prurito. Studi hanno dimostrato che il sollievo più prolungato è dato dal grattarsi la schiena, mentre il più piacevole dal grattarsi le caviglie.
Azoto. L' 80 per cento dell' aria che respiriamo è azoto.
Enzimi. Gli esseri umani producono venti enzimi digestivi, i batteri arrivano a diecimila.
Batterio. Un batterio pesa in media un trilionesimo di una banconota da un dollaro e non vive più di venti minuti. Nel corpo umano ce ne sono diversi trilioni di 40.000 specie: 900 nelle narici, 800 all' interno delle guance, 1.300 sulle gengive e 36.000 nel tratto gastro-intestinale. All' inizio del 2019 uno studio condotto dal Wellcome Sanger Institute su appena venti persone ha scoperto 105 specie nuove di microbi intestinali di cui non ci si aspettava l' esistenza.
Magro. Chi è magro ha più microbi intestinali di chi è grasso.
Vitamine. Senza microbi la vita umana non sarebbe possibile. Forniscono il 10 per cento circa delle calorie scomponendo alimenti che altrimenti il corpo umano non potrebbe assorbire. Nel farlo estraggono sostanze nutritive benefiche come l' acido folico e le vitamine B2 e B12.
Escherichia coli. L' Escherichia coli è in grado di riprodursi 72 volte in 24 ore. Se vivesse più a lungo, in meno di due giorni un batterio single sarebbe capace di generare una prole che supera il peso della Terra. In tre giorni supererebbe la massa dell' universo osservabile.
Batteri. Abbiamo circa ventimila geni nostri e circa venti milioni di geni batterici: «In questo senso siamo fatti per il 99 per cento di batteri e per un 1 per cento scarso di noi stessi».
Bacio. In un bacio appassionato un miliardo di batteri passa da una bocca all' altra insieme a 0,7 milligrammi di proteine, 0,45 milligrammi di sale, 0,7 microgrammi di grassi e 0,2 microgrammi di composti organici. Per lo più frammenti di cibo. In meno di 24 ore però il profilo microbico viene ripristinato. Morte con la maggior parte dei microbi conviviamo pacificamente. tuttavia ce ne sono 1.415 che ci uccidono e sono responsabili di un terzo delle morti di tutto il pianeta
Glossario del nuovo Coronavirus. L'Istituto Superiore di Sanità pubblica un breve glossario con alcune parole dell'epidemia. Cosa si intende per epidemia? quando parliamo di pandemia? Queste alcune delle definizioni principali per orientarci in un momento di emergenza.
Epidemia. Con il termine epidemia si intende la manifestazione frequente e localizzata – ma limitata nel tempo – di una malattia infettiva, con una trasmissione diffusa del virus. L’epidemia si verifica quando un soggetto ammalato contagia più di una persona e il numero dei casi di malattia aumenta rapidamente in breve tempo. L’infezione si diffonde, dunque, in una popolazione costituita da un numero sufficiente di soggetti suscettibili.
Focolaio epidemico. Si parla di focolaio epidemico quando una malattia infettiva provoca un aumento nel numero di casi rispetto a quanto atteso all’interno di una comunità o di una regione ben circoscritta. Per individuare l’origine di un focolaio è necessario attivare un’indagine epidemiologica dell’infezione tracciando una mappa degli spostamenti delle persone colpite.
Letalità e mortalità. In medicina con il termine letalità ci si riferisce al numero di morti sul numero di malati di una certa malattia entro un tempo specificato. La letalità è una misura della gravità di una malattia e si usa in particolar modo per le malattie infettive acute. La mortalità, che spesso viene erroneamente confusa con la letalità, è concettualmente differente e porta a risultati molto diversi, in quanto mette a rapporto il numero di morti per una determinata malattia (o addirittura per tutte le cause) sul totale della popolazione media presente nello stesso periodo di osservazione. Di conseguenza, esistono malattie che pur avendo una letalità altissima hanno una mortalità insignificante, in quanto poco frequenti nella popolazione totale. Per il COVID-19 siamo di fronte a un fenomeno a discreta letalità e, attualmente, a bassissima mortalità. La distinzione tra tasso di letalità e tasso di mortalità è sostanziale sia per fare chiarezza sull’impatto nella popolazione, sia per decidere azioni di sanità pubblica. Da questa distinzione si può comprendere quanto sia importante contenere la diffusione del contagio: se aumentassero i contagiati ci sarebbero più casi “letali”.
Pandemia. La pandemia è la diffusione di un agente infettivo in più continenti o comunque in vaste aree del mondo. La fase pandemica è caratterizzata da una trasmissione alla maggior parte della popolazione. Al momento secondo l’OMS COVID-19 è una pandemia.
Quarantena. È un periodo di isolamento e di osservazione di durata variabile che viene richiesta per persone che potrebbero portare con sé germi responsabili di malattie infettive. L’origine del termine quarantena si riferisce alla durata originaria di quaranta giorni, che in passato si applicava rigorosamente soprattutto a chi proveniva dal mare. Oggi, il tempo indicato per la quarantena varia a seconda delle varie malattie infettive, in particolare relativamente al periodo d’incubazione identificato per quella malattia infettiva. Per il coronavirus la misura della quarantena è stata fissata a giorni quattordici, e si applica agli individui che abbiano avuto contatti stretti con casi confermati di COVID-19 (Ordinanza del Ministro della Salute, Gazzetta Ufficiale 22 febbraio 2020, immediatamente in vigore).
Sensibilità e specificità. La sensibilità e la specificità sono due criteri utilizzati per valutare la capacità che ha un test diagnostico o di screening di individuare correttamente coloro che hanno la malattia ricercata e coloro che invece ne sono privi.
La sensibilità di un test è la sua capacità di identificare correttamente gli individui malati. In termini di probabilità, la sensibilità è la probabilità che un malato vero risulti positivo al test, e quindi viene indicata come la proporzione di veri malati che risultano positivi al test. Che un test abbia un'alta sensibilità non è però sufficiente: un buon test deve anche identificare come positivi soltanto quelli che hanno la malattia; è necessario, cioè, che fra i test risultati positivi siano inclusi il minor numero possibile di coloro che non hanno la malattia (falsi positivi).Da questa osservazione deriva il concetto di specificità.
La specificità di un test è la sua capacità di identificare correttamente i soggetti che non hanno la malattia. In termini di probabilità, la specificità è la probabilità che un individuo veramente senza la malattia risulti negativo al test, quindi è la proporzione di persone con la malattia che risultano negativi al test.
Soggetto “asintomatico”. È un soggetto che, nonostante sia affetto da una malattia, non presenta alcun sintomo apparente. Una malattia può rimanere asintomatica per periodi brevi o lunghi; alcune malattie possono rimanere asintomatiche per sempre. La presenza di pazienti asintomatici affetti da coronavirus sembra possibile anche nel caso del SARS-CoV-2, tuttavia, secondo l’OMS, le persone sintomatiche sono attualmente la causa più frequente di diffusione del virus.
Fonte Istituto Superiore di Sanità. Nuovo coronavirus. Le parole dell'epidemia, 11 marzo 2020
L'alfabeto del Covid 19 dalla A alla Z: la pandemia e il pandemonio. Un'analisi dettagliata di tutto quello che è accaduto in questi mesi di dura lotta al virus. Marisa Ingrosso il 24 Giugno 2020 su La Gazzetta del Mezzogiorno.
A - Annalisa - Il 20 febbraio, l’anestesista Annalisa Malara, cremonese di 38 anni, si rende conto che il giovane paziente arrivato in rianimazione si aggrava di ora in ora. «Era una banale polmonite, eppure tutte le terapie risultavano inutili. Mattia stava morendo», racconterà ai giornali. La dottoressa dell’ospedale di Codogno è la prima a capire che no, non è un’influenza e neppure una banale polmonite, è Coronavirus. Quella diagnosi, se errata, poteva costarle caro. Invece aveva ragione lei, Mattia Maestri è il «Paziente n. 1» del virus. Il ragazzo si salva e quella diagnosi costringe le autorità a dichiarare la «zona rossa» per i comuni del basso Lodigiano.
B - Bambini - Da giovedì 5 marzo (inizialmente solo fino a metà mese, in realtà, fino alla fine dell’anno scolastico), le scuole italiane sono chiuse. L’obiettivo era proteggere docenti, operatori e famiglie. Bisognava evitare che i bambini – che, si è scoperto, possono essere vettori della malattia, pur rimanendone vittima soltanto in rari casi – si ammalassero in classe diffondendo il contagio a casa. Quel grembiulino che, ogni mattina, rendeva tutti uniformi, coprendo ogni percepibile disparità, finisce nell’armadio e sui più piccoli piomba, per intero, il peso del divario socioeconomico. Da quel giorno molti, soprattutto al Sud, non hanno potuto (non hanno potuto!) seguire le lezioni online. A loro il virus ha strappato maestre e compagni di banco, assistenti sociali e calci al pallone in strada, la scuola è finita e ciò non ha portato alcuna gioia. Oggi, che la scuola è finita per tutti, quelle lacune meriterebbero campi estivi sì ma didattici, mirati e gratuiti, per aiutarli a recuperare, in sicurezza. I bambini meriterebbero un reale censimento delle necessità tecnologiche, cui rispondere concretamente, con connettività e computer omaggio. Abbiamo un autunno cupo dinanzi e loro che, per proteggere gli adulti, hanno pagato il prezzo dell’emergenza, non devono pagare anche quello dell’insipienza dei grandi.
C - Coronavirus - Mentre avanzava seminando morte e gettando nel panico gli scienziati del globo per le sue caratteristiche peculiari, nuovissime, questo maledetto killer ha cambiato nome, ufficialmente, almeno tre volte. All’inizio, per tutti era il «Coronavirus cinese». Poi però la Cina protestò (si rischiava lo stigma) e allora fu chiamato, provvisoriamente, «2019-nCoV». Soltanto a febbraio, dopo lunga consultazione, il «battezzatore» ufficiale dei virus, l’International committee on taxonomy of viruses, cioè il Comitato internazionale per la tassonomia dei virus (fondato nel 1966), deliberò: il nuovo Coronavirus si chiama «Sars-CoV-2» e la malattia che causa è il «CoViD-19», acronimo di Co (corona), Vi (virus), D («disease», cioè malattia) e 19 (l’anno di identificazione del virus).
D - Droplet - Grazie all’Istituto superiore di Sanità (Iss) gli italiani scoprono che «le principali modalità di trasmissione del Sars-CoV-2 sono attraverso droplet e per contatto». Per «droplet» s’intendono le goccioline di saliva piccole, piccolissime e microscopiche che emettiamo, normalmente, quando parliamo. Questa «nuvoletta» è considerata pericolosa se viene da una persona infetta a distanza ravvicinata o, peggio ancora, quando viene sparata a gran velocità da un colpo di tosse o da uno starnuto. Ecco perché tra le misure di prevenzione troviamo: l’igiene delle mani; evitare di toccare occhi, naso e bocca con le mani; tossire o starnutire all’interno del gomito o di un fazzoletto monouso; indossare la mascherina chirurgica ed evitare contatti ravvicinati mantenendo la distanza di almeno un metro dalle altre persone.
E - Emergenza - È il 30 gennaio quando l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) dichiara il focolaio internazionale di CoViD-19 un’«emergenza di sanità pubblica di rilevanza internazionale». Quel giorno il Governo italiano (tra mille polemiche) interrompe i collegamenti con la Cina dopo aver scoperto i primi due casi confermati di contagio. Sono due turisti cinesi. Vengono ricoverati presso il Centro di riferimento Lazzaro Spallanzani di Roma in regime di isolamento (vi resteranno 49 giorni, prima di poter tornare in patria, guariti). In quel momento i casi in Europa sono cinque in Francia, uno in Finlandia e quattro in Germania. In totale nel mondo sono 7.818, di cui 7.736 in Cina. Il 31 gennaio il Consiglio dei ministri dichiara lo stato di emergenza sanitaria. Inizialmente, il termine del periodo di emergenza è fissato al 31 di luglio. Poi, con l’evolversi della pandemia, il termine viene prorogato: l’emergenza finirà a gennaio 2021, se tutto va bene.
F - Fuorisede - Giacca e pantofole, seduti nel tinello di casa, migliaia di italiani hanno discusso la tesi di laurea on-line. Moltissimi gli studenti del Sud che, alla prima finestra utile (e anche prima talvolta, gettando nel panico sanitario le comunità locali) hanno lasciato Milano, Torino e Roma per far ritorno alle loro regioni di origine. Le tecnologie hanno dimostrato, quindi, che si può fare, si può vivere, consumare, arricchire il Sud, studiando al Nord da remoto. Viste le incognite sulla seconda ondata di contagi, prevista per l’autunno, ci si chiede per quali motivi gli atenei del Nord (e tantomeno quelli del Mezzogiorno) non abbiano deciso di copiare la gloriosa Università di Cambridge (al quinto posto nel ranking mondiale 2020) che, lo scorso maggio, ha avvisato studenti e docenti: non ci saranno lezioni ed esami in presenza fino all’estate 2021. Iniziativa civile e rispettosa. Così ci si organizza e, per esempio, non si spendono soldi per la casa fuorisede.
G - Giovanni - Giovanni Grasso è il portavoce del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Coltissimo, fedelissimo e schivo, dirige l’Ufficio stampa del Quirinale dal 13 febbraio 2015. Il suo nome rimarrà impresso nella mente di tutti per quel «Eh Giovanni, non vado dal barbiere neanch’io…», che il Capo dello Stato gli dice mentre si accinge a registrare un messaggio alla nazione. Per un errore dell’Ufficio stampa, quel fuori onda viene trasmesso il 27 di marzo e gli italiani, straziati, impauriti, chiusi in casa, scoprono che anche l’«italiano numero uno» condivide le stesse privazioni. In un secondo, il Palazzo non è più inviolabile e siderale. Si soffre tutti, tutti insieme.
H - Hacker - È l’1 aprile e gli italiani, in massa, provano a collegarsi al sito dell’Inps per accedere ai servizi previsti dal Cura Italia come il bonus baby-sitter, il congedo parentale e l'indennità di 600 euro per gli autonomi. Il sito va lento – dicono i testimoni –, s’incanta e, a volte, ti pianta in asso. Inps su Twitter getta subito acqua sul fuoco: «Stiamo lavorando a una pronta risoluzione». Ma i guai, anziché diminuire, peggiorano. Utenti denunciano di essere stati dirottati sulle pagine Inps di altri utenti con dati super-sensibili, dalla posizione fiscale alla Pec, in bella mostra. L’Autorità garante della privacy apre un’inchiesta e parla di fatto «gravissimo». In questo pasticcio assoluto, il presidente dell’Inps, Pasquale Tridico, prima spiega che con la mole di domande che arrivano «gli intasamenti sono inevitabili», poi al Tg1 cambia versione: sono stati gli hacker. La spiegazione, suggestiva, viene fatta propria anche dal presidente Conte, ma viene presto polverizzata da numerosi esperti e messa alla berlina sul web e sui maggiori quotidiani, senza pietà.
I - Immuni - Il pugliese Pierluigi Lopalco, epidemiologo dell’Università di Pisa, nelle passate settimane si è speso molto per convincere gli indecisi dell’utilità di scaricare l’App di tracciamento Immuni. Scelto dal governatore Michele Emiliano come responsabile del coordinamento emergenze epidemiologiche della sua regione d’origine, proprio in Puglia al professore è toccato gestire il primo «inciampo» del software: una 63enne barese è stata messa in isolamento per giorni, in seguito a un messaggio dell’App, salvo poi risultare negativa al tampone. «Nel caso della signora siamo affranti», ha detto Lopalco, spiegando che «questo è un momento di rodaggio» per Immuni.
J - Junhua - Li Junhua è, dalla scorsa estate, l’ambasciatore straordinario e plenipotenziario della Repubblica Popolare a Roma. Classe 1962, è originario del Guandong (Canton), ovvero dell’area della Cina che a gennaio è già la più colpita dal nuovo Coronavirus, subito dopo Whuan. È lui il referente italiano per sbloccare i rimpatrio dei connazionali che si trovano in Cina, è lui che favorisce l’arrivo di Dpi da Pechino accompagnadoli con dolci messaggi di amicizia («La Cina sempre con voi») ed è sempre lui a smentire con forza l’accusa americana che il suo Paese abbia nascosto l’epidemia («Accusa infondata e che cela secondi fini e malizia»).
K - Fattore K - Il 19 maggio, la rivista «Science» pubblica l’articolo del corrispondente tedesco Kai Kupferschmidt in cui si avanza un’ipotesi che sgretola la centralità del «fattore Ro» e integra la teoria delle tre T (testare, tracciare, trattare) che servirebbe a «spegnere» il contagio. Secondo le rilevazioni scientifiche, infatti, i contagiati non sarebbero uniformemente contagiosi, ci sarebbero persone super-contagiose e altre che non lo sono affatto. Per individuare questi maxi-untori, quindi, bisognerebbe sviluppare anche l’indice di dispersione K che misura quanto una malattia si presenta in piccoli gruppi (i cluster). Tre studi indicano proprio che il 10% dei positivi causa l’80% delle infezioni, con una diffusione (K) che sarebbe pari a 0,1, mentre nel caso della Sars è 0,16. Più basso è K e più alta è la trasmissibilità nel gruppo. Alla luce di ciò, il tasso di contagiosità del Coronavirus (Ro) non sarebbe 2, come si crede, bensì 3 (nel caso del maxi-untori) e fino a zero per quelli che, pur positivi, non sono contagiosi.
L - Lombardia - Dalla superprivatizzazione di una sanità «fiore all’occhiello», alla precipitosa «esportazione» dei malati a causa dell’esaurimento dei posti nelle terapie intensive, dal «no» alle zone rosse al «perché non avete chiuso tutto?»; i messaggi della politica e l’urlo della realtà hanno intessuto una trama cupa e nodosa in Lombardia, che sarà arduo dipanare (anche per la magistratura). Di certo c’è poco. Anche le cifre sono fallaci. I casi registrati sono ufficialmente quasi 93mila e i decessi oltre 16.500, ma sono numeri errati per difetto. Nessuno sa: da quanto tempo il virus circolava (forse da novembre?), quanti si sono ammalati (da 5 a 10 volte più dei censiti?), e quanti sono spirati, magari in casa e senza il bene di un tampone. L’unica evidenza sulla quale tutti sarebbero d’accordo è che la rete dei medici di base, la prima schiera di fanti sul fronte pandemico, era «tarlata», con ampi lembi di territorio scoperti e con professionisti impreparati e sforniti di protezioni adeguate. E hanno pagato caro. Si calcola che i sanitari lombardi ammalatisi e morti per via del virus superino il 40% del totale nazionale (dati Inail).
M - Meltdown - Non bastano scampoli di tessuti e buona volontà. Per fare delle mascherine chirurgiche serve il «meltdown», il velo di tessuto non tessuto che si trova tra i due strati esterni. La crisi sanitaria ci ha fatto scoprire che ormai in Italia è rimasto un solo produttore, a Padova, di questo film di polipropilene riciclabile filtrante e caricato elettrostaticamente. Così, nonostante dall'inizio dell'epidemia in questa fabbrichetta abbiano lavorato 24 ore su 24, e nonostante gli incentivi pubblici per far rinascere una filiera che era stata spazzata via dalla globalizzazione, ancora oggi la produzione di mascherine made in Italy è all’incaglio.
N - N‘ndrangheta - Per la ‘ndrangheta il Coronavirus è stato una tripla benedizione. Come denunciò il procuratore della Repubblica di Catanzaro, Nicola Gratteri, la mancanza di liquidità finirà con l’ingrassare gli usurai mafiosi che, nel giro di pochi mesi, diverranno i veri pupari delle attività economiche degli usurati, attività ottime per riciclare soldi sporchi. Già oggi, trattandosi di una delle organizzazioni più solvibili al mondo, pare che – sempre stando a Gratteri - pezzi nobili del brand Italia stiano finendo nelle fauci dei criminali, attraverso un intrico di società e Fondi di facciata. Poi ci sono gli appalti, le forniture… una pacchia. A tutto ciò si deve aggiungere l’insperato cadeau giunto grazie al (misterioso) cortocircuito interno a ministero della Giustizia, Dap e magistrati di sorveglianza. All’esito di rivolte carcerarie a orologeria, che hanno interessato contemporaneamente istituti di pena da Nord a Sud, con 14 morti, evasi, agenti feriti e danni per milioni, boss di primo piano sono stati «premiati», sono stati scarcerati. Tra i primi beneficati c’è stato Vincenzino Iannazzo ritenuto capocosca dell’omonima consorteria di Lamezia Terme, con una condanna in appello a 14 anni e 6 mesi. Seppure in isolamento, lascia la cella per il rischio contagio anche Rocco Santo Filippone, considerato il referente della ‘ndrangheta nel periodo della Trattativa Stato-mafia. È a processo con Giuseppe Graviano, sono accusati di essere i mandanti degli attentati del ‘93-‘94 che, in Calabria, costarono la vita agli appuntati Vincenzo Garofalo e Antonino Fava, uccisi a 31 e 36 anni.
O - Ospedali - Nel momento più nero, intonavano «Strada facendo» (all’ospedale di Biella), per farsi coraggio. O si aprivano in un commovente «Nel blu dipinto di blu» (all’ospedale di Desenzano del Garda), stringendo forte le mani del paziente, quasi a trattenerlo lì e non farlo volare via. Note contro la paura, mentre il virus dilagava, sottraeva spazio a ogni padiglione. Mancavano medici e infermieri e posti in terapia intensiva. Si allestivano tende per il triage esterno, percorsi protetti al pronto soccorso, nascevano reparti nei luoghi più impensabili, come in Fiera, a Milano. Tornavano in corsia i pensionati, arrivavano i tirocinanti. Dal Sud, a decine, partivano per il Nord. Il Paese era in guerra, una guerra sanitaria che costringeva a scelte estreme, belliche, come attaccare all’ossigeno chi ha più possibilità di farcela. Oggi che questa prima battaglia cruenta sembra vinta, i reparti Covid vengono chiusi, con sollievo. Cambia anche la colonna sonora. Medici, infermieri e Oss cantano «We are the champions», come al Fazzi di Lecce o all’ospedale di Lanzo. Hanno ragione da vendere: sono loro i nostri campioni!
P - Purtroppo - «Purtroppo non c’è tempo. I numeri ci dicono di una crescita importante dei contagi, dei ricoveri in terapia intensiva e dei decessi». Con queste parole, la sera del 9 marzo, il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, annuncia agli italiani che (con 463 vittime accertate) il Paese si deve fermare. Dal 10 marzo quindi «non ci saranno più “zona rossa” o “zona 1 e zone 2” – dice Conte - ci sarà solo l’Italia zona protetta». Il giorno dopo l’Organizzazione mondiale della sanità dichiarerà la «pandemia». L’Italia resterà in «quarantena» fino al 3 aprile, poi fino al 13. E poi ancora aperture limitate ad alcuni codici Ateco e confini regionali «blindati», autocertificazioni che durano meno di una falena e multe salate. Il «lockdown», di fatto, si protrae fino al 18 maggio e soltanto dalle ore 0.01 del 3 giugno sarà possibile spostarsi, senza limitazioni, tra le regioni e saranno possibili, senza quarantena, i viaggi da e per i Paesi Ue. Dal 15 giugno possono riaprire, con limitazioni di capienza e distanza, cinema e teatri.
Q - Quarantena - Anche la quarantena è mutata nel tempo. All’inizio di questo incubo collettivo era di due tipi, con sorveglianza attiva (come per gli italiani che, rientrati in Italia da Wuhan, sono stati posti in isolamento al Celio) o in permanenza fiduciaria domiciliare. In entrambi i casi durava 14 giorni. Un convivente positivo e tutto il nucleo familiare finiva in quarantena, segnalato all’Asl e alla Forza pubblica. Se qualcuno faceva il furbo e violava il «divieto assoluto di mobilità» rischiava di andare davanti al giudice, come minimo, per aver violato l’articolo 650 del Codice penale («Inosservanza dei provvedimenti dell’autorità»). Inoltre, per riconquistare la libertà, in caso di pregressa accertata positività, erano necessari due tamponi negativi a distanza di oltre 24 ore. Oggi, invece, l’Oms aggiorna le linee guida: la quarantena può essere di 10 giorni ed è sufficiente non avere sintomi della malattia per tre giorni consecutivi per poter riprendere la propria vita normale, per complessivi 13 giorni.
R - Rsa - Al di là delle mille inchieste che, sperabilmente, faranno chiarezza su ogni singola, eventuale, responsabilità, una cosa è certa: il sistema sanitario nazionale nelle sue declinazioni di pubblico, privato e pubblico-privato, non è riuscito a difendere le vittime predilette del Sars-CoV-2, gli anziani e gli anziani malati. Chiusi nelle Residenze sanitarie assistenziali (Rsa), senza possibilità di fuga, il virus li ha scovati e sterminati. Lì, alla data del 1° febbraio 2020, c’erano almeno 97.521 residenti, 2.056 in Puglia (dati Iss). I decessi, in un mese, sono stati complessivamente 9.154, di questi 680 erano positivi al tampone e 3.092 avevano sintomi compatibili. Quasi 4mila esseri umani in 30 giorni, una strage. Fatto gravissimo, la malattia ha continuato a imperversare anche un mese dopo l’inizio del «lockdown». Per il presidente dell’Istituto superiore di Sanità (Iss), Silvio Brusaferro, tra l’1 e il 23 aprile, il 44,1% delle infezioni si sono verificate nelle Rsa italiane.
S - ScienzStar - Il Coronavirus non soltanto ha aperto i microfoni alla Scienza, ha proprio creato una nuova categoria di star gli «scienzstar». Su tutti i media, a ogni ora, espertoni (veri e, a volte, farlocchi) hanno detto la loro, spesso pagati, talvolta no, talaltra per presentare un loro nuovo imperdibile libro-best-seller. Addirittura, in Italia, la debolezza della Politica, li ha messi nelle condizioni di operare in surroga, finendo per affidargli la responsabilità di scelte che la Politica pareva solo controfirmare. Al netto di tutta questa fenomenologia, due cose buone - tra le altre per carità - sono certamente accadute. Gli italiani hanno scoperto che a illuminare di speranza il buio pesto, sono per lo più dei «cervelli» precari, sottopagati. Sono cruciali, fondamentali, ma - come denunciò il direttore dello Spallanzani, Giuseppe Ippolito - a loro lo Stato destina poche «briciole». E gli italiani hanno scoperto un'altra cosa, che il vocabolario della Scienza è infarcito di forse, eventualmente, è un’ipotesi, circa, non è detto, febbre sì, febbre no, febbre a 39, a 38, a 37 e mezzo chiamate il 112. In breve, hanno scoperto che la Scienza non è dogma, bensì dubbio. E che è in evoluzione continua, muta, proprio come i virus che studia.
T - Trump - Dopo aver minimizzato la minaccia Covid, schiacciato dall’impatto devastante della malattia negli Stati Uniti, il 21 marzo scorso il presidente Donald Trump twitta al mondo la lieta novella: l’idrossiclorochina può essere il più grande fattore di successo contro il virus. La Casa Bianca conferma poi che Trump ha assunto, sotto controllo medico costante, idrossiclorochina per due settimane, al fine di prevenire il contagio. Inevitabilmente, schizzano le quotazioni di questo antimalarico prodotto da Sanofi, assieme al suo «cugino», la clorochina, prodotto da Bayer in Pakistan. Anche l’Italia cerca di procurarsene e accetta il dono in compresse di clorochina delle Forze armate pakistane e di Bayer Italia. «La Gazzetta», però, scopre che questi farmaci sono stati distribuiti agli ospedali senza previa ispezione dell’impianto pakistano da parte delle Istituzioni Ue, italiane o americane e senza un test chimico-fisico dell’Agenzia italiana del farmaco. Dopo la nostra inchiesta, la Puglia decide, per precauzione, di sospendere l’uso del medicinale. Intanto, «The Lancet» pubblica uno studio secondo cui idrossiclorochina e clorochina farebbero più male che bene ai pazienti Covid, li ucciderebbe causando gravi danni cardiaci. Conclusioni cui arriva anche l’ente di controllo americano (Food and drug administration) che le mette al bando.
U - Università - Ora che l’anno accademico-Covid 2019-2020 sta finendo, la Svimez informa che, a settembre, 9.500 ragazzi non potranno iscriversi all’Università. Di questi, ben 6.300 sarebbero meridionali. I genitori non potranno pagare, contemporaneamente, tasse e libri e spostamenti e rinunciare all’apporto economico che potrebbe venire dai lavoretti che i loro ragazzi potrebbero trovare. Se accadesse sarebbe una sciagura nella sciagura. Per evitare al Paese di rinunciare ai «cervelli» potenziali e ai meritevoli poveri di avere un futuro mutilato, la parola spetta alla politica, anche regionale. Per esempio, oggi ai nuclei familiari con un Isee entro i 40mila euro è concesso il bonus vacanza. Molto bene, così si aiutano famiglie e Turismo. Ma se in quelle famiglie c’è un giovane che si è diplomato col massimo dei voti perché, non concedergli un «bonus università» che copra tutto? Aiutare i giovani migliori non è un atto di altruismo, è un investimento per il nostro Paese.
V - Veneto - Ufficialmente, il primo morto di Coronavirus in Italia si è registrato a Vo’ Euganeo, in provincia di Padova, il 21 febbraio. Si chiamava Adriano Trevisan e aveva 77 anni. In realtà, l’autopsia, effettuata su richiesta della procura di Padova il 26 aprile, ha stabilito che sono stati i suoi tanti acciacchi a ucciderlo, non il virus. Ma quel decesso e il test risultato positivo ha comunque cambiato il corso della storia del Veneto. Subito dopo la morte di Trevisan, lì arrivò l’ordinanza di lockdown totale, firmata dal governatore Luca Zaia e dal ministro della Salute, Roberto Speranza, e non soltanto a Vo’ (dove i casi sono poi rimasti contenuti a 66) ma in tutta la regione i tamponi sono stati fatti a raffica, anche in presenza di un sospetto, di un colpo di tosse. Forse è anche per questo che il Veneto, ancora oggi, può vantare di aver limitato il diffondersi del contagio molto meglio di quanto fatto nella vicina Lombardia. Andrea Crisanti, il virologo direttore dell’Unità complessa diagnostica di microbiologia della Asl di Padova, dice: «Noi il virus non l'abbiamo aspettato, lo siamo andati a cercare facendo tamponi a tappeto». Al netto delle successive polemiche Crisanti-Zaia sulla paternità delle strategie sui tamponi, il risultato di questo buon amministrare ha un profilo politico, il governatore affronta le prossime elezioni regionali con un consenso del 60% e – anche se l’interessato smentisce – lancia la prima, seria, Opa sulla Lega a guida Salvini.
W - Wuhan - Wuhan, capoluogo della provincia dell’Hubei, passerà alla storia come l’epicentro del virus che ha sconvolto il mondo. Per mesi si è ritenuto che lì, nel mercato del pesce, tra dicembre 2019 e gennaio 2020, vi sia stato il salto di specie animale-uomo di questo nuovo Coronavirus. Taluni scienziati hanno anche tratteggiato l’ipotetico momento ics, l’istante in cui un pipistrello, della razza «ferro di cavallo», vivo e infetto, viene macellato da un essere umano che, avendo un taglio sulla mano, si contagia. In realtà, nessun campione animale prelevato nel mercato è risultato positivo al Coronavirus. Quindi, le autorità cinesi hanno avanzato un’altra ipotesi: un «Paziente zero» (che ha contratto la malattia sì da un animale, ma altrove), giunto a Wuhan nel novembre del 2019. Nella città super-umida (è alla confluenza del Fiume Azzurro e del Fiume Han) e che il 18 gennaio riuniva 40 mila famiglie per vincere il Guinness dei primati per il più grande banchetto di massa, il virus ha trovato le condizioni ottimali per diffondersi. Ed è stata strage. C’è però anche una terza ipotesi, sempre negata da Pechino, ovvero quella secondo cui questo nuovo Coronavirus sarebbe «fuggito» dall’Istituto di virologia di Wuhan, dotato di un laboratorio di livello di biosicurezza 4.
X - Xuejie - «Marito mio, ci vedi dal Paradiso? L’ultimo regalo che mi hai fatto è nato oggi», con queste parole struggenti, il 12 giugno scorso, Fu Xuejie annuncia al mondo di aver dato alla luce, in un ospedale di Wuhan, il secondo figlio dell’uomo che aveva sposato e che era morto di Coronavirus, mentre era incinta. Li Wenliang, questo il nome del marito, è il medico che in Cina, per primo, denunciò la diffusione di un virus simile alla Sars. Pagò quella sua illuminata intuizione con l’ostracismo della dittatura cinese, fu incriminato per aver «diffuso false informazioni su Internet». Era il mese di dicembre. Se l’avessero ascoltato, il mondo intero avrebbe avuto un mese di anticipo per prevenire l’apocalisse. Pechino riabiliterà post mortem il dottore-eroe conferendogli una memoria al merito, ma quello della signora Xuejie è un nome che va ricordato, non soltanto per la sua storia individuale, bensì perché lei rappresenta idealmente tutte le vedove, gli orfani, i parenti e gli amici più cari dei medici e degli infermieri vittime della pandemia e di sistemi di governo che, pur con tutti i distinguo del caso, non hanno saputo, potuto e talvolta voluto, proteggerli.
Y - Cromosoma Y - L’assenza del cromosoma Y e il gruppo sanguigno zero, questi sarebbero i fattori di protezione dai sintomi più severi della malattia su cui si apposta l’attenzione degli scienziati. L’ipotesi è che il virus avrebbe realmente anche una diversa manifestazione in base al sesso. Gli studi sono ancora in corso ma l’idea che si son fatti i ricercatori è che l’uomo sarebbe penalizzato per la presenza del cromosoma Y. Infatti la donna che ha due cromosomi X, cioè uno in più rispetto all’uomo, godrebbe del fatto che molti dei geni legati all’immunità si trovano proprio sui cromosomi X. In pratica, le donne avrebbero il doppio delle risorse positive rispetto agli uomini. Senza contare che, mentre il testosterone (l’ormone sessuale maschile), è un immunosoppressore, gli estrogeni sono considerati immunostimolanti.
Z - Zain - La zeta, «zain» nell’alfabeto ebraico, è una lettera potente. È una lettera-porta, giacché nel punto in cui termina la sua corsa un ciclo si chiude e uno si apre, ed è una lettera-guerriera, nata da antichissimi segni, come rappresentazione di una freccia che penetra la carne o di una folgore. E c’è solo un’immagine che merita la zeta perché «è» la zeta. Quella di un uomo anziano circondato da una selva di fulmini che, in un cupo imbrunire, sotto una pioggia scrosciante, si lascia alle spalle le spessa mura vaticane e affronta l’enormità vertiginosa di una Piazza San Pietro completamente vuota. Il Papa prega, da solo, sul sagrato della Basilica. È il 27 marzo, nove giorni prima le foto dei camion dell’Esercito giunti a Bergamo per movimentare le salme hanno sconvolto l’Italia. Francesco chiede aiuto a Maria: «Benedici il mondo, dona salute ai corpi e conforto ai cuori, non lasciarci in balia della tempesta». «Le nostre vite – dice - sono tessute e sostenute da persone comuni – solitamente dimenticate – che non compaiono nei titoli dei giornali e delle riviste né nelle grandi passerelle dell’ultimo show ma, senza dubbio, stanno scrivendo oggi gli avvenimenti decisivi della nostra storia: medici, infermieri e infermiere, addetti dei supermercati, addetti alle pulizie, badanti, trasportatori, forze dell’ordine, volontari, sacerdoti, religiose e tanti ma tanti altri che hanno compreso che nessuno si salva da solo».
· Covid-19. Che cos’è il coronavirus.
"Profezia" da incubo sul Covid: "È come la Spagnola..." Ad Agorà il direttore aggiunto dell’Oms, Ranieri Guerra, ha spiegato che l’epidemia di coronavirus ha analogie con la Spagnola che devastò il mondo un secolo fa. Gabriele Laganà, Venerdì 26/06/2020 su Il Giornale. Anche se ci sono segnali positivi, l’emergenza sanitaria legata al coronavirus non può dirsi definitivamente conclusa. È quanto ha riferito nel corso del programma Agorà su Rai 3 Ranieri Guerra, direttore aggiunto dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms), che così è tornato sul documento firmato da 10 esperti dal titolo "Sars-CoV-2 in Italia oggi e Covid-19” nel quale si parla sostanzialmente di "emergenza finita". Gli scienziati che si sono autodefiniti "scientificamente indipendenti", avevano indicato dell’esistenza di "pochi sintomi" e sostenuto che chi contrae oggi il coronavirus correrebbe un basso rischio di aggravarsi anche perché il virus avrebbe una carica virale più debole. L’esperto, però, invita ad essere più cauti perché se è vero che l’epidemia "si sta comportando come avevamo ipotizzato", il paragone "è con la Spagnola che si comportò esattamente come il Covid: andò giù in estate e riprese ferocemente a settembre e ottobre, facendo 50 milioni di morti durante la seconda ondata". Uno scenario da incubo quello paventato da Guerra che, ovviamente, si spera non si materializzi. Il direttore aggiunto dell’Oms ha anche parlato dei nuovi focolai, ricordando quelli già registrati a Bologna e Mondragone. In questo caso, però, si è dichiarato ben più rassicurante: "Non c’è preoccupazione perché è tutto ampiamente atteso. Entrambi i focolai sono stati identificati immediatamente e circoscritti, quindi il sistema messo in atto tiene. È inevitabile ci siano focolai in giro per l’Italia e per l’Europa". Il direttore aggiunto dell’Oms ha voluto ampliare il suo discorso soffermandosi sulla categoria dei cosiddetti "debolmente positivi": "Non entro nelle classificazioni e definizioni artificiose che colleghi insigni di varie discipline possono fare. Guardo i fatti e i fatti dicono che il genoma del virus è ancora lo stesso e i fatti dicono che l'andamento di una epidemia come questa è ampiamente previsto e prevedibile. C'è una discesa che coincide con l'estate". Guerra, infine, sottolinea l’importanza di seguire le indicazioni delle autorità e di prestare sempre la massima precauzione. "È vero che le terapie intensive si sono svuotate- ha spiegato- ma si sono svuotate come previsto che accadesse e non vogliamo si riempiano di nuovo in autunno. Tutte le precauzioni che stiamo prendendo hanno l'obiettivo di circoscrivere la circolazione del virus quando questa riprenderà".
Da corrieredellosport.it il 27 giugno 2020. Acceso scontro sui social network tra Massimo Clementi, virologo dell’università Vita-Salute San Raffaele di Milano, e Ranieri Guerra, direttore aggiunto dell’Oms e membro del comitato tecnico scientifico che sta affiancando il governo italiano nella lotta al Coronavirus: “Avete sentito Ricciardi e avete letto Guerra? Fate le vostre conclusioni per favore. Io qui non posso dire di più”, il post di Clementi, che contestava il parallelismo fatto dai colleghi tra la possibile seconda ondata di contagio da Coronavirus e quanto accaduto con l’influenza spagnola, poco più di un secolo fa. Guerra replica negando l’addebito: “Basta aprire la pagina di Agorà e ascoltare. No? Troppo difficile per alcuni immagino”. E Clementi esplode: “Sei un saccente. Non puoi insultare chi parla con te. Ma chi ti credi di essere?”. Dura la risposta di Guerra: "Io sono nessuno. Lei che insulta invece è qualcuno da cui guardarsi. Torni nelle fogne". Clementi, a questo punto, minaccia una denuncia: "Sei troppo nervoso. Di quanto hai appena scritto risponderai legalmente. Posso accettare questo commento da un membro dell'Oms? Premetto che non lo ho insultato, ma gli ho chiesto ragione di un comportamento irriguardoso verso una signora. Se la filosofia della commissione tecnico scientifica Cts è quella di Ranieri Guerra ce lo facciano sapere per favore".
Galli risponde a Guerra: «Seconda ondata come la Spagnola? Non siamo nel 1918. Ma attenti ai nuovi focolai». Giovanni Ruggiero su Open il 27 giugno 2020. Il primario dell’ospedale Sacco di Milano è scettico su un ritorno della pandemia in autunno paragonabile alla prima ondata. L’attenzione però non può calare fino ad allora, soprattutto alla luce dei recenti focolai scoppiati in varie parti d’Italia. Su un dato sono d’accordo il primario dell’ospedale Sacco di Milano, Massimo Galli, e il direttore aggiunto dell’Oms, Ranieri Guerra: la pandemia di Coronavirus non è affatto finita. Ma sul timore di una seconda ondata per il prossimo autunno paragonabile a quella della Spagnola, Galli è molto meno drastico del collega. Galli ha spiegato quanto il virus stia dimostrando di «serpeggiare dall’emisfero settentrionale a quello meridionale, e viceversa». Potrebbe essere questo aspetto ad aumentare i rischi di un ripresa dei casi a settembre: «ma non necessariamente con una seconda ondata e con le conseguenze della Spagnola, non siamo nel 1918». L’attenzione non può che restare alta, soprattutto alla luce dei nuovi focolai scoppiati in Italia. Situazioni che devono «preoccupare quanto basta», dice Galli che sottolinea il lato positivo proprio nell’aver individuato quei focolai: «Aver trovato questi 10 focolai può essere l’espressione della capacità affinata di fare interventi a livello territoriale – dice il professore – e accorgersi di fenomeni come questi prima che sia troppo tardi». La loro stessa presenza , comunque, dice una cosa su tutte: «La storia non è finita».
Tutti gli errori dell’Oms sul Covid-19. Federico Giuliani il 28 giugno 2020 su Inside Over. Sulla gestione della pandemia di Covid da parte dell’Organizzazione mondiale della Sanità abbiamo già scritto e detto molto. Tra la fine di dicembre e l’inizio di gennaio, quando il Sars-Cov-2 iniziava a mietere vittime nell’epicentro di Wuhan, l’Oms ha agito con estrema lentezza e titubanza. Anziché indagare subito sulle origini del misterioso virus, se necessario incalzando anche il governo cinese, l’istituto specializzato dell’Onu per la salute ha perso giorni preziosi senza alzare un dito. Altre settimane sono passate prima che il direttore generale dell’Oms, Tedros Adhanom Ghebreyesus, si decidesse a dichiarare la pandemia in seguito alla diffusione su scala globale del Sars-CoV-2. Da quel momento in poi l’organizzazione con sede a Ginevra ha inanellato una gaffe dietro l’altra. Sia chiaro: il virus che sta mettendo in ginocchio il mondo intero è inedito, ancora sconosciuto e quindi imprevedibile. Questo non giustifica tuttavia il comportamento approssimativo tenuto dall’Oms durante le varie conferenze stampa. Le istruzioni sanitarie fornite ai vari governi non sono mai state (e non lo sono tutt’ora) precise. Due sono gli esempi emblematici: l’uso della mascherina e le linee guida sui tamponi.
Mesi di gaffe. Per quanto riguarda le mascherine, inizialmente sembrava che indossarle potesse servire a stroncare la catena del contagio. In un secondo momento (siamo a inizio giugno, quindi dopo almeno tre mesi dallo scoppio della pandemia in Occidente) l’istruzione dell’Oms ha rivisto le indicazioni fornite, invitando a indossare i dispositivi di protezione individuale nei luoghi pubblici e non più solo da operatori sanitari, malati di Covid e chi li assiste. Non solo: un ruspante Ghebreyesus dichiarava inoltre che le mascherine, da sole, non bastano “a proteggere contro il nuovo coronavirus”. Paradossale anche l’inversione a U sui tamponi. Da pochi giorni l’Oms non raccomanda più il doppio tampone negativo per certificare la guarigine da Covid e liberare i malati dalla quarantena. Bastano tre giorni senza sintomi. E questo vale indipendentemente dalla gravità dell’infezione. Detto altrimenti, non è più richiesto il doppio tampone negativo per certificare la fine della malattia.
Le dichiarazioni di Guerra. Eppure l’Oms, al netto di tutti i misteri ancora da svelare sul Covid, dovrebbe essere un organo autorevole e come tale dovrebbe comunicare con il mondo intero. Che dire delle parole rilasciate ad Agorà, su Raitre, da Ranieri Guerra, vice direttore delle iniziative strategiche dell’Oms? L’andamento della pandemia “è previsto e prevedibile, si sta comportando come avevamo pensato. La Spagnola ebbe un’evoluzione dello stesso tipo andò giù in estate per riprendersi ferocemente a settembre e ottobre, facendo 50 milioni di morti durante la seconda ondata. È quello che dobbiamo evitare”. Alla luce delle poche certezze che abbiamo in mano – e considerando i numerosi buchi nell’acqua dell’Oms – ha senso spaventare i cittadini profetizzando scenari aleatori? Nel frattempo, sul web, Guerra è stato protagonista di uno scambio di battute piuttosto animato con il virologo dell’università Vita-Salute San Raffaele di Milano Massimo Clementi. Tutto nasce da un commento a un post dello stesso Clementi, nel quale una lettrice sottolineava come Guerra avesse smentito di aver paragonato, intervenendo ad Agorà, la possibile seconda ondata di Covid a quella, che ci fu, della Spagnola. L’esperto Oms ha replicato seccamente: “Basta aprire la pagina di Agorà e ascoltare. No?? Troppo difficile per alcuni immagino”. Al che è intervenuto Clementi: “Ranieri Guerra sei un saccente. Non puoi insultare chi parla con te. Ma chi ti credi di essere? Ripeto, chi ti credi di essere?”. Durissima la replica di Guerra: “Io non sono nessuno. Lei che insulta invece è qualcuno…da cui guardarsi. Torni nelle fogne”. Al che, Clementi ha chiuso così: “Ranieri Guerra sei troppo nervoso. Di quanto hai appena scritto risponderai legalmente”. Al netto di chi ha torto o ragione, possono l’Oms e i suoi membri commettere simili leggerezze comunicative in un momento di massima tensione?
Il bestiario. Gianfrancesco Turano il 25 marzo 2020 su L'Espresso. E le bestie? Tigri abbandonate a se stesse al Safari Park di Pombia (No) sul lago Maggiore che non possono consumare i loro 5 kg di carne quotidiana. Animali da cortile e alveari dispersi nelle tenute di campagna con il proprietario che non può provvedere a vitto e manutenzione. Cani con il Corona virus buttati fuori casa nemmeno fossero un anziano genitore, come ha denunciato Angelo Borrelli giorni fa contro l'evidenza scientifica. La pandemia è un evento curioso perché è la vittoria dell'infinitamente piccolo (la bestia Cov-Sars-2) sull'infinitamente grande.Non è la prima volta nel regno animale ma potrà essere utile riversare qui alcune informazioni prese da un amico, grandissimo clinico e migliore diagnostico. Se l'ho capito io, possono capirlo anche gli animali da cortile. La Bestia Corona è una struttura a catena Rna, più semplice della catena Dna degli animali più evoluti. Il virus viaggia nell'ambiente con una carica contagiosa che si abbatte con la distanza. Per bucare il sistema immunitario e attecchire ha bisogno di alte concentrazioni. A oltre un metro continua a vivere ma è meno nocivo. Importante per la prevenzione, sebbene banale, è capire che il virus non ha energia cinetica propria. Non vi sale dall'asfalto sulle scarpe e da lì fino al naso. Deve essere trasportato. Lasciato a se stesso, muore con tempi variabili da ore a giorni. Il Corona non è neanche un polline. Il vento, che in Padania è un semisconosciuto, non diffonde il Cov-Sars-2, al contrario. Cresce invece il consenso scientifico sull'aiuto a sopravvivere che gli offrono le polveri sottili e che alcuni cronisti amici del medico di cui sopra avevano intuito con un occhio alla carta geografica delle aree più inquinate del globo. Una volta entrato in casa altrui, il Cov-Sars-2 si infila nella cellula perché ha il corredo genetico per riprodursi, ossia possiede il Fine di ogni forma di vita, ma non ha gli strumenti per farlo. Deve perciò sfruttare l'energia interna alla cellula per moltiplicarsi. Entra uno, escono in cento, e così via. Il perché del virus è quindi lo stesso di qualunque animale: nutrirsi per moltiplicarsi. In modo contro intuitivo, l'infinitamente piccolo e semplice è il predatore. L'infinitamente complesso è la preda. Qui subentra il parere scientifico di un altro clinico amico del medico che è amico di quel cronista. La trasmissibilità di un virus è di norma inversamente proporzionale alla sua letalità. Esempio: Ebola è molto più mortale del Corona (tasso medio di mortalità del 50% con punte fino al 90%) ma si diffonde più difficilmente. Il motivo è sempre la sopravvivenza. Un leone sa che, se consuma tutte le gazzelle, non solo morirà di fame ma presto diventerà l'ultimo leone. Ecco quindi l'ipotesi di lavoro. Il virus entra nelle cellule sfruttando determinati recettori. Più recettori sono espressi sulla membrana cellulare, maggiore è la penetrazione virale. L'espressività è dovuta a: 1)caratteristiche genetiche delle popolazioni (più o meno responsive); 2)inquinamento ambientale che aumenta l'espressività dei ricettori; 3)sesso, se l'espressività del ricettore è legata in parte al cromosoma Y; 4)con l'età aumenta l'espressione del ricettore. Altra cosa da capire è se il portatore sano del Cov-Sars-2 abbia una resistenza derivata da contatti con altri tipi di Corona oppure se il portatore sano sia egli stesso un'astuzia del virus (di Madre Natura). Un accordo simile si è visto fra il batterio della peste e il ratto che lo diffonde senza troppi danni per la sua specie. Resta il fatto che i residenti dell'Italia del nord hanno mostrato una debolezza immunitaria senza uguali, finora, al mondo (13,6% di tasso di mortalità in Lombardia in crescita costante). Non è da escludere che una causa sia la loro esposizione a un tasso di polveri sottili elevatissimo, colpevole già in tempi normali di una strage che i politici nascondono semplicemente alzando i parametri. Quello che sconcerta i clinici è l'enormità della casistica e dello spettro sintomatologico offerto dal Cov-Sars-2. C'è l'asintomatico, il paucisintomatico e così via fino all'esito letale. L'impatto di queste incertezze si vede sulla farmacologia. Per mancanza di tempo, non si è ancora messa a punto una cura come si è fatto, dopo anni e milioni di morti, per un altro virus tragicamente noto, l'Hiv, con la sua degenerazione patologica nell'Aids. A questo proposito, c'è una buona notizia. Due settimane fa è stata annunciata la guarigione dal virus Hiv del cosiddetto “Paziente inglese”, Adam Castillejo. Dall'inizio ufficiale dell'Aids (1981), è solo il secondo. Fa impressione. Ma di Aids, si sa, morivano gli altri. I gay, i trasfusi e, soprattutto, gli africani. Lutti. A proposito di africani, ieri il Covid-19 si è preso Manu Dibango. Ricordiamolo con un classicissimo del funk-jazz anni Settanta. Negli anni Ottanta questo pezzo diede origine a una lite giudiziaria per plagio fra il sassofonista camerunese e Michael Jackson che riprese il chorus di“Soul Makossa” in “Wanna be startin' somethin'”. MJ finì per scusarsi. Versò una somma a titolo transattivo e si dedicò a copiare Al Bano. Perse anche con lui. Ci deve essere una morale in questa storia, da qualche parte. Sport. Mollano persino i giapponesi. Hanno capito che ai Giochi estivi si sarebbero presentati solo loro e gli atleti del Caro Leader Kim Jong Un. Anche le Olimpiadi, come gli Europei di calcio, diventano dispare dopo circa tre millenni. Non male, per una semplice influenza. Cifre. Curva di nuovo in salita per la Lombardia ieri. Lo ha annunciato l'assessore Gallera dopo un'introduzione nella quale si lamentava delle critiche del giorno precedente. Forse anche delle nostre. Noi, che all'assessore Gallera vogliamo bene sinceramente, continuiamo il servizio di osservazione, l'esercizio di critica e mandiamo un augurio di prontissima guarigione a Guido Bertolaso perché – lo si è detto e lo si ripete – siamo tutti sullo stesso fronte. Purtroppo il nemico resiste. La Lombardia, dopo diversi giorni, torna sopra il 50% rispetto al totale Italia sia dei positivi (1942 su 3612) sia dei morti (402 su 743).
Il bollettino Iss del 24 marzo, aggiornato al 23, segue la tendenza verso il ringiovanimento di positivi e deceduti già segnalata qui giorni fa. Sotto i 69 anni la letalità sale al 15,1% (era il 14% al 19 marzo e il 10% al 12 marzo). Tra i positivi, per la prima volta, la fascia 50-59 anni raggiunge il primo posto (19,5% del totale) alla pari con quelli di 70-79 anni. Intanto torna alla normalità la provincia cinese di Hubei. Wuhan riapre l'8 aprile.
L’ultima scoperta sul Sars-CoV-2: circolava nei pipistrelli da decenni. Federico Giuliani il 4 agosto 2020 su Inside Over. Più passa il tempo e più il puzzle coronavirus prende forma. Sia chiaro: i misteri sul Sars-CoV-2 sono ancora tantissimi, a cominciare dalla sua esatta origine. Come, quando e dove: nessuno, al momento, ha risposte certe. Sul tavolo della scienza ci sono ipotesi, supposizioni, teorie, ma ben poche certezze. L’ultima scoperta potrebbe aiutare la comunità scientifica a fugare altri dubbi. I ricercatori guidati da Maciej Boni del Center for Infectious Disease Dynamics della Pensylvania State University hanno pubblicato un brillante studio su Nature Microbiology. L’assunto base è che il nuovo coronavirus sembrerebbe aver circolato per decenni all’interno degli organismi dei pipistrelli, senza che nessuno se ne fosse mai accorto. Già, perché il mondo intero ha imparato a conoscere il virus soltanto alla fine del 2019, dopo che la città cinese di Wuhan, nella provincia dello Hubei, è stata travolta da inspiegabili casi di polmoniti atipiche. Che la prima apparizione del Sars-CoV-2 non coincidesse con la sua prima apparizione nell’epicentro cinese è un argomento sollevato da Tom Jefferson, medico presso il Center for Evidence-Based Medicine del Dipartimento di Scienze della salute delle cure primarie di Nuffied. Per Jefferson il nuovo coronavirus potrebbe essere rimasto inattivo in tutto il mondo per diversi anni, prima di diffondersi tra il dicembre 2019 e il gennaio 2020 grazie a nuove condizioni ambientali favorevoli.
L’origine, gli altri virus e i pipistrelli. Per certi versi la scoperta del team di Boni avalla e completa l’ipotesi di Jefferson. I ricercatori americani sostengono che l’origine più plausibile dell’agente patogeno sia da ricercare nei pipistrelli a ferro di cavallo. Al di là delle indiscrezioni sulla presunta fuoriuscita del virus da un laboratorio cinese – voci fin qui non confermate da evidenze scientifiche – l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha inviato i suoi esperti in Cina per cercare di ricostruire le origini del Sars-CoV-2. Come ha sottolineato Bloomberg, tracciare il lignaggio del virus è fondamentale per separare le persone potenzialmente contagiabili dall’ospite dello stesso patogeno, così da evitare nuove crisi sanitarie. Da questo punto di vista studiare i pipistrelli è di primaria importanza, visto che altri virus, contenuti in questi animaletti notturni, potrebbero presto fare il salto di specie e diventare una minaccia per l’essere umano. Ne sono convinti gli scienziati, che hanno tuttavia fatto capire come sia difficile “identificare virus potenzialmente in grado di causare gravi epidemie umane prima che emergano”. Ecco perché, ha suggerito Boni, è necessario creare quanto prima “una rete globale di sistemi di sorveglianza delle malattie umane” capace di agire “in tempo reale”.
L’ultima scoperta sul Sars-CoV-2. Tornando alla scoperta del team americano, Boni e i suoi sono riusciti a ricostruire l’evoluzione del virus tracciando la sua storia di ricombinazione. Tra le altre cose, è emerso che molto probabilmente i pangolini non sono stati ospiti del virus, anche se gli stessi potrebbero aver avuto un ruolo nella trasmissione dell’agente patogeno all’essere umano. Ma soprattutto lo studio, consultabile online e intitolato Evolutionary origins of the SARS-CoV-2 sarbecovirus lineage responsible for the COVID-19 pandemic, offre uno spunto interessante. Utilizzando le informazioni relative alle mutazioni del virus, gli scienziati sono risaliti indietro nel tempo seguendo l'”orologio molecolare” del patogeno. Ebbene, molto probabilmente, il virus circolava nei pipistrelli già dagli anni ’60 o ’70 del secolo scorso, o addirittura anche prima. Soltanto in un secondo momento, grazie a una situazione favorevole, l’attuale virus si sarebbe “staccato” dal suo omologo e avrebbe iniziato a diffondersi tra gli uomini.
L'origine, le mutazioni e la fine: tutti i misteri sul coronavirus. I ricercatori di tutto il mondo stanno studiando il nuovo coronavirus, per conoscerne ogni suo aspetto. Ma ci sono ancora molte zone oscure, che rendono il Sars-CoV-2 uno sconosciuto sotto diversi punti di vista. Francesca Bernasconi, Sabato 09/05/2020 su Il Giornale. È stato studiato e analizzato da tutti i punti di vista, dall'origine alla modalità di diffusione. Ma il nuovo coronavirus, colpevole della pandemia che ha messo il mondo il ginocchio, rimane in parte ancora un mistero. Nonostante le numerose ricerche, infatti, la sua provenienza è ancora incerta e le previsioni sulla fine dell'emergenza discordanti.
Da dove viene il nuovo coronavirus? Secondo i principali virologi, l'origine del nuovo coronavirus è naturale. Il Sars-CoV-2, infatti, deriva da un patogeno presente nei pipistrelli, mammiferi considerati "serbatoi virali", perché in grado di veicolare diversi virus. Non è chiaro, però, come abbia fatto il virus a passare dal pipistrello all'uomo. Secondo i ricercatori, i primi contagi si sarebbero verificati nel "wet market" di Wuhan, dove vengono venduti animali vivi, che vengono macellati sul posto. Una delle ipotesi è che il Sars-CoV-2 sia passato direttamente dal pipistrello all'uomo, venuti in contatto direttamente. Secondo altri esperti, invece, ci sarebbe un animale "untore" intermedio che, dopo essere stato infettato dal pipistrello, avrebbe trasmesso a sua volta il virus all'uomo. Sotto la lente di ingrandimento era finito il pangolino, un piccolo mammifero ricoperto di squame, accusato di essere l'anello di collegamento tra il pipistrello e l'uomo. Uno studio effettuato da Nature e pubblicato ieri suggerisce che il nuovo coronavirus sia somigliante al 96% ad un virus trovato in una grotta nello Yunnan, in Cina, dove opera un gruppo di ricercatori che analizzano i patogeni dei pipistrelli. Ma questo virus avrebbe una caratteristica non irrilevante: non può infettare l'uomo. Il sospetto dei ricercatori è che l'antenato del coronavirus si sia separato tra i 40 e i 70 anni fa dalla famiglia di quello presente nel pipistrello, passando ad altri animali, prima di arrivare all'uomo. Un'altra ipotesi sull'origine del virus è quella legata a un presunto errore di laboratorio. Dall'inizio della pandemia è finito sotto accusa il Wuhan National Biosafety Laboratory, in cui vengono studiati patogeni pericolosi. Di recente, a gettare nuovi dubbi sull'errore umano è stato Mike Pompeo, il segretario di stato americano, che ha rivelato di avere "prove enormi a sostegno della teoria secondo cui il coronavirus abbiamo avuto origine in un laboratorio di virologia di Wuhan, non in un vicino mercato di animali selvatici". Affermazioni simili erano state fatte anche dal presidente Usa Donald Trump. Ma i maggiori esperti non hanno dubbi sull'origine naturale. Dopo le dichiarazioni di Trump e Pompeo, l'Organizzazione mondiale della sanità ha ribadito che "è probabile che il virus abbia avuto origine nei pipistrelli. Tutte le prove disponibili suggeriscono che il virus ha un'origine animale e non è stato manipolato o costruito in un laboratorio".
Come si diffonde. Il virus respiratorio si diffonde principalmente da persona a persona a causa delle goccioline di saliva, emesse con un colpo di tosse, con uno starnuto o parlando. Il contagio può avvenire anche tramite "le mani contaminate (non ancora lavate)", se si toccano bocca, naso o occhi. Queste goccioline sono troppo pesanti per restare in aria a lungo e cadono quasi subito, andando a posarsi sulle superfici circostanti. Alcuni studi, infatti, hanno dimostrato la presenza del virus anche sulle superfici, ma la sopravvivenza del virus anche in queste condizioni è incerta e su questo punto gli esperti sono divisi. Inoltre, uno studio pubblicato sul New England Journal of Medicine aveva sottolineato la sopravvivenza del virus nell'aria per tre ore, portando gli scienziati ad ipotizzare un possibile contagio, in caso di alcune procedure in ambito sanitario. Ma in questo caso, molto dipende dalla concentrazione del virus nell'aria, che determina la possibilità o meno di infezione. Quello che è certo, dal punto di vista della trasmissione, è che il principale canale di contagio è rappresentato dalle "goccioline del respiro delle persone infette", come riporta il Ministero della Salute. In rari casi, il contagio può avvenire anche tramite la contaminazione fecale. Ma sembrano esserci ancora diversi dubbi sulle modalità di trasmissione del Covid-19: per questo, specifica il Ministero, "studi sono in corso per comprendere meglio" come si trasmette il virus.
"Il Sars-CoV-2 muta". Il Sars-CoV-2 "sta continuando a mutare". Lo ha spiegato ad AdnKronos Massimo Ciccozzi, responsabile dell'Unità di statistica medica ed epidemiologia molecolare dell'Università Campus Bio-Medico nell'audizione in corso alla Commissione Igiene e Sanità del Senato. Secondo uno studio (in attesa di revisione) condotto dai ricercatori dell'Università di Zhejiang, il nuovo coronavirus sarebbe mutato in almeno 30 diversi ceppi. Gli scienziati sostengono che il Sars-CoV-2 sia cambiato per superare la resistenza del sistema immunitario nelle diverse popolazioni. "La preoccupazione è che, di mutazione in mutazione, possa peggiorare non tanto la contagiosità, quanto la letalità di questa malattia- aveva avvisato l'esperto- ma dai nostri dati preliminari questo non si evince". E infatti, ieri Ciccozzi ha riferito che "il virus di Covid-19 sta perendo potenza". Nonostante il minor numero di decessi, dovuti "sicuramente alle terapie ma anche alla perdita di potenza del virus", da questo punto di vista, gli scienziati devono ancora approfondire molte cose, per capire in che direzione stia andando l'evoluzione del Sars-CoV-2.
Lo scoglio dell'immunità. Saranno i test sierologici a dire se una persona ha sviluppato gli anticorpi per il Sars-CoV-2. L'esame, infatti, rileverà la presenza nel sangue di Immunoglobuline M (IgM), che si manifestano nella prima fase dell'infezione e scompaiono velocemente, e di Immunoglobuline G (IgG), prodotte dopo 14 giorni e con una vita più lunga. La presenza di IgM indica un'infezione in corso, mentre quella di IgG potrebbe indicare che la persona ha contratto il Covid-19, ma è già guarita. Il problema, però, è legato alla durata dell'immunità concessa dagli eventuali anticorpi. Per quanto tempo un paziente, che ha già sconfitto il Covid-19, può sentirsi al sicuro, senza correre il rischio di essere infettato nuovamente? Per il momento, gli esperti non possono rispondere a questa domanda, perché l'immunità andrà monitorata del tempo. Ma Gianni Rezza, direttore del dipartimento di Malattie infettive dell'Istituto superiore di sanità, aveva affermato: "Sull’immunità e su quanto sia protettiva e duratura ancora c’è da studiare, penso che per analogia probabilmente lo sia, una volta superata la malattia, ma non abbiamo sufficiente follow up per dirlo con sicurezza".
Quando finirà la pandemia? In questi mesi si sono diffuse diverse previsioni sulla fine dell'epidemia da nuovo coronavirus. Ma la sua durata resta un mistero. Uno studio del Center for Infectious Disease Research and Policy dell’Università del Minnesota, ha stimato la fine dell'epidemia nei prossimi 18-24 mesi. Secondo gli esperti, infatti, il Covid-19 dovrebbe smettere di circolare quanto il 60-70% della popolazione avrà contratto il virus, sviluppando gli anticorpi. Perché questo succeda, la pandemia potrebbe seguire tre strade diverse. Prima possibilità: alla pandemia della primavera 2020 potrebbero seguire diverse ondate minori ripetute, per un perioso di uno o due anni. Il secondo scenario disegnato dagli esperti prevede una seconda ondata in autunno o in inverno di quest'anno, seguita da ritorni più lievi nel 2021, mentre la terza ipotesi prevede il susseguirsi di contagi in modo lento e senza uno schema preciso. Inizialmente, i virologi sostenevano la possibilità che il Covid-19 si attenuasse con l'arrivo dell'estate, grazie all'aumento delle temperature. Su questo punto, però, i pareri degli esperti sono molto discordanti e ancora non è chiaro se il caldo possa essere d'aiuto contro il nuovo coronavirus. Infine, c'è chi sostiene che il virus non ci abbandonerà mai. È la tesi di un gruppo di scienziati dell'Istituto di Biologia patogena dell'Accademia cinese delle scienze mediche: "In Cina si riscontrano ancora moltissimi casi di persone che contraggono il virus in maniera asintomatica, nonostante l'epidemia sia sotto controllo- hanno spiegato- Questo apre lo scenario di una malattia con cui la specie umana dovrà convivere a lungo". Il Covid-19 potrebbe continuare a circolare, seguendo il modello stagionale, come fa l'influenza. Nonostante i molteplici studi sull'argomento, sono ancora numerose le ombre intorno al nuovo coronavirus e, per arrivare a una conoscenza completa del Sars-CoV-2 servirà ancora del tempo, dato che si tratta di un virus completamente nuovo.
Coronavirus, genoma individuato nel liquido peritoneale. Antonino Paviglianiti il 6 maggio 2020 su Notizie.it. Coronavirus, genoma del virus individuato nel liquido peritoneale. La scoperta in un paziente all'ospedale di Pisa: è il primo caso al mondo. Genoma da coronavirus individuato nel liquido peritoneale. Una scoperta importante che può dare un contributo significativi agli studi riguardo alla diffusione del coronavirus, della sua eliminazione e dei rischi di contaminazione. Una scoperta fatta a Pisa che, a quanto risulta dai dati pubblicati finora, avviene per la prima volta al mondo in Toscana. Ricercatori e medici delle strutture di Chirurgia d’urgenza (Federico Coccolini, Dario Tartaglia, Adolfo Puglisi e Massimo Chiarugi), Virologia (Mauro Pistello), Microbiologia batteriologica (Cesira Giordano) e Medicina d’urgenza e Pronto soccorso dell’Azienda ospedaliero-universitaria di Pisa (Marianna Lodato) hanno identificato – per la prima volta al mondo, in base ai dati di letteratura ad ora pubblicati – il genoma del virus Sars-Cov-2 in un campione di liquido peritoneale, prelevato durante un intervento chirurgico per patologia addominale acuta non perforativa su un paziente affetto da sintomi respiratori per infezione da Coronavirus. La scoperta del genoma da Coronavirus nel liquido peritoneale evidenzia come sia importante comprendere come il virus abbia raggiunto la cavità peritoneale, qual è il significato clinico di averlo trovato in quella sede e attrezzare gli operatori sanitari con la massima protezione anche per la chirurgia addominale. Il chirurgo Massimo Chiarugi spiega che adesso saranno necessari: “Approfondimenti scientifici per individuare attraverso quale via il virus ha raggiunto la cavità peritoneale e da qui comprendere se sia necessario individuare diverse modalità di cura, ma il nostro caso è rilevante soprattutto per informare la comunità scientifica dei rischi di infezione che potrebbero correre gli operatori sanitari non adeguatamente provvisti di dispositivi di protezione individuale”. Il medico specifica come: “Gli interventi all’addome espongono gli operatori a rischi derivanti anche dall’uso di strumenti come bisturi o elettrobisturi che ha contatto con i liquidi potrebbero determinare quell’effetto droplet indicato in letteratura medica come principale vettore di infezione”. Il report del caso è in corso pubblicazione sulla prestigiosa rivista di chirurgia Annals of Surgery per l’interesse scientifico che riveste in relazione alle vie di diffusione, eliminazione del virus e rischi di contaminazione, tutti argomenti oggetto di grande attenzione da parte della comunità scientifica internazionale.
Mariella Bussolati per "it.businessinsider.com" il 30 aprile 2020. Il coronavirus non è uno solo. Come fanno anche altri virus continua a mutare, producendo diversi risultati, per esempio la diversa severità dell’infezione nei Paesi che ne sono stati colpiti. E’ questo il risultato di una ricerca appena pubblicata da Li Lanjuan, una dei più stimati ricercatori cinesi. E’ grazie alla sua analisi e ai suoi consigli se Wuhan è stata chiusa in una notte per cercare di contenere il virus. Secondo i risultati dello studio il Sars CoV 2 è stato capace di mutare 33 volte da quando è apparso in Cina nel dicembre 2019. La parola mutazione mette spesso paura. Nell’immaginario che dipende anche dai racconti di fantascienza, si pensa sempre porti a qualcosa di molto più potente e mortale. In realtà questo genere di cambiamenti sono pare del ciclo naturale di vita di qualsiasi organismo, e in particolare di quelli più piccoli e ancora di più di quelli formati da una sola stringa di Rna, come il Covid-19. La maggior parte di queste variazioni sono mortali per il virus stesso, perché se non sono utili vengono eliminate. Nathan Grubaugh, un ricercatore del Dipartimento di Epidemiologia della Yale University (Usa), ha scritto su Nature un articolo intitolato Perché non dovremmo preoccuparci delle mutazioni che avvengono durante una epidemia. Grubaugh fa notare che un virus, per diventare più letale, deve cambiare molti tratti genetici contemporaneamente, un’operazione che gli riesce difficile fare in un lasso di tempo così limitato. Forse la sua nocività non peggiora, ma Li Lanjuan ha scoperto che i cambiamenti riguardano aspetti così rari che finora non erano stati studiati e che possono influire sulla infettività. In particolare possono produrre effetti diversi sulle cellule e la carica virale. Alcuni sono effettivamente più pericolosi di altri. Per esempio una varietà particolarmente aggressiva ha dimostrato di essere capace di generare una carica virale 270 volte più alta di altre verietà, e di uccidere le cellule più velocemente. In particolare ceppi più aggressivi sono stati riscontrati in Europa e a New York, che hanno avuto tassi di mortalità simili, mentre altri più leggeri hanno infettato altre parti degli Stati Uniti, come per esempio lo stato di Washington. Proprio quello proveniente da quest’area era quello diffusosi sulla nave da crociera Gran Princess. Altri generi hanno colpito la California. La pandemia insomma può avere tassi di infezione e letalità diversi da Paese a Paese, e questa potrebbe essere una spiegazione delle differenze, sebbene la mortalità dipenda anche da fattori come età, condizioni di salute e perfino il gruppo sanguigno. Chi ha il gruppo A è più sensibile, chi ha lo 0 meno. Questo avviene perché ci possono essere cambiamenti funzionali nella proteina spike, quella attraverso cui viene attaccata la cellula. Per verificare questi meccanismi sono state infettate cellule con i diversi tipi e ne è stato analizzato l’effetto. Secondo Lanjuan individuare la mutazione locale potrebbe aiutare meglio nell’azione contro il virus. Le medicine che si stanno sperimentando infatti sono molto importanti, così come lo è la ricerca dei vaccini. Ma è evidente che se le possibili forme del virus cambiano, dovrebbero essere efficaci per tutte, altrimenti si corre il rischio di un fallimento. Altre ricerche sulle mutazioni sono state compiute al Campus Biomedico di Roma. Domenico Benvenuto, studente e ricercatore al 6 anno di medicina, il primo a individuare la struttura del coronavirus, e Massimo Cicozzi, docente di statistica medica ed epidemiologia, hanno stabilito che una sequenza che regola l’autofagia, dunque la possibilità di contagiare, assente in Cina, è risultata invece presente poi in America ed Europa. Un’altra ricerca effettuata con Robert Gallo riguarda invece la polimerasi, l’enzima necessario per la replicazione. Sono state individuate 8 mutazioni, alcune prevalenti in Europa, altre presenti esclusivamente in Nord America. Dai dati sembrerebbe che il virus stia diventando meno efficiente lasciando dunque supporre che stia perdendo di potenza. E’ solo una ipotesi, ma di sicuro per un patogeno non è utile uccidere tutti i propri ospiti, mentre potrebbe trovare più conveniente trasformarsi diventando meno letale.
Coronavirus, scienziati americani individuano ceppo più contagioso. Lavinia Nocelli il 06/05/2020 su Notizie.it. In Nuovo Messico, un gruppo di scienziati del laboratorio di Los Alamos ha individuato un ceppo di Coronavirus più contagioso. Coronavirus, un laboratorio di Los Alamos, in Nuovo Messico, individua un ceppo più contagioso. Un secondo virus che si diffonderebbe più velocemente rendendo le persone più vulnerabili al contagio. In Nuovo Messico è stato individuato un nuovo ceppo di Coronavirus. A fare questa scoperta gli scienziati del Los Alamos National Laboratory, uno dei più vasti istituti multidisciplinari del mondo che si occupa di chimica, fisica, ingegneria, biologia e sviluppo di armamenti nucleari. Questo nuovo ceppo, ora predominante nel mondo, sembra essere più contagioso di quelli che si sono diffusi all’inizio dell’epidemia da Covid-19: 33 pagine di studio, rilanciate dal Los Angeles Times e pubblicate recentemente su BioRxiv, un sito utilizzato dai ricercatori per condividere i lavori prima d’essere sottoposti a revisione paritario, ovvero prima di essere validati dalla comunità scientifica. Quest’ultimo nuovo ceppo, mutato, sarebbe apparso in Europa a febbraio, migrando verso la costa orientale degli Stati Uniti e nel resto del mondo da metà marzo.
Allarme dagli scienziati. Tale rapporto è basato su un’analisi computazionale di oltre 6mila sequenze di Coronavirus da tutto il mondo e raccolte dalla Global Initiative for Sharing All Influenza Data, organizzazione tedesca pubblica-privata. Gli scienziati americani hanno dunque lanciato l’allarme, poiché oltre a diffondersi più velocemente, questo nuovo ceppo virale sembrerebbe rendere le persone più vulnerabili a un secondo contagio. Il gruppo avrebbe individuato circa nuove 14 mutazioni del virus, sottolineando come per ora il nuovo ceppo non sembrerebbe più letale di quello originale, anche se i pazienti sembrerebbero avere cariche virali più alte. Per ora l’University of Sheffield, che collabora con il laboratorio di Los Alamos insieme alla Duke University, da un’analisi su 447 avrebbe mostrato come il tasso di ricovero ospedaliero sia lo stesso.
Quello che sappiamo (e che ancora non sappiamo) sul coronavirus. A due mesi dall'inizio dell'emergenza i medici hanno iniziato a prendere confidenza con il nuovo coronavirus. Ma le zone d'ombra sono ancora tante. Federico Giuliani, Venerdì 17/04/2020 su Il Giornale. Quando un paio di mesi fa il Covid-19 iniziava a manifestarsi anche in Europa, la maggior parte dei governi ripeteva che tutto era sotto controllo. Molti esperti sostenevano che non aveva alcun senso preoccuparsi, perché il nuovo coronavirus non sarebbe stato nient'altro che una banale influenza. Eppure le immagini provenienti da Wuhan, epicentro mondiale del contagio, raccontavano una specie di apocalisse: strade deserte, persone chiuse in casa per settimane, ospedali traboccanti di pazienti e tanti morti, probabilmente più dei dati ufficiali riportati nei bollettini quotidiani dell'Organizzazione mondiale della sanità (Oms). Ben presto anche l'Italia si è risvegliata in quell'incubo lontano migliaia di chilometri. Oggi, a due mesi dall'inizio dell'emergenza, i medici hanno iniziato a prendere confidenza con il virus. I ricercatori hanno messo in fila alcune certezze, anche se le zone d'ombra sono ancora tantissime. Ad esempio non sappiamo se i pazienti guariti potranno nuovamente reinfettarsi, né quanto tempo è necessario per far sì che gli stessi negativizzati non siano più contagiosi. Abbiamo tuttavia imparato subito che per limitare i contagi è fondamentale non toccarsi naso, occhi e bocca, lavarsi spesso le mani e tenersi a distanza di sicurezza dalle altre persone. Non solo quelle che presentano sintomi, quali tosse o febbre, ma anche da chi apparentemente sembra sano. Già, perché a complicare il quadro ci sono anche gli asintomatici, ovvero persone infette che non presentano sintomi ma che possono contagiare gli altri.
Familiarizzare con il nuovo coronavirus. Nel frattempo i medici hanno familiarizzato con le dinamiche del virus. Il suo meccanismo d'azione varia da caso a caso. Alcuni pazienti mostrano sintomi lievi. Anzi: molti non sanno neppure di essere contagiati, ed è proprio per questo motivo che gli esperti ritengono che i casi reali siano di molto superiori a quelli elencati ogni giorno dalla Protezione civile. Altri pazienti, purtroppo, devono invece fare i conti con reazioni più complesse. Come sottolinea al quotidiano La Stampa il direttore dell'Unità Operativa Complessa Malattie Infettive Epatologia dello Spallanzani di Roma, Gianpiero D'Offizi, gli organismi di alcuni pazienti reagiscono al virus attivando una risposta immunitaria incontrollata. La stessa che causa danni non solo all'apparato polmonare, ma anche a reni, fegato e cuore (infarti). Talvolta le infezioni possono causare anche danni alle strutture del sistema nervoso centrale (encefaliti ed encefalopatie) e provocare sintomi quali cefalea e parestesie.
Lesioni multiorgano e cure. Possiamo dunque affermare che il nuovo coronavirus produce lesioni multiorgano. Certo, bisogna anche ricordare che un numero considerevole di pazienti contagiati sono in grado di eliminare l'infezione senza sviluppare sintomi.
Capitolo cure. L'uso di anticoagulanti, come l'eparina, potrebbe indebolire il nuovo coronavirus, ma per avere certezze sono necessari ulteriori studi. Incognite sull'uso degli antiinfiammatori. ''Un recente studio cinese – ha spiegato D'Offizi - ha posto particolare rilevanza all'effetto benefico dello steroide, che avrebbe ridotto nettamente la mortalità da Covid-19. Tuttavia, questi benefici possono essere compensati da effetti avversi, ovvero da una persistenza dell’infezione''.
Il coronavirus è già mutato 33 volte da quando è apparso in Cina nel dicembre 2019. Ecco le possibili conseguenze. Mariella Bussolati il 27 aprile 2020 su it.businessinsider.com. Ricerche sul Covid-19 all'Imperial College School of Medicine (ICSM) di Londra. Tolga Akmen/AFP via Getty Images. Il coronavirus non è uno solo. Come fanno anche altri virus continua a mutare, producendo diversi risultati, per esempio la diversa severità dell’infezione nei Paesi che ne sono stati colpiti. E’ questo il risultato di una ricerca appena pubblicata da Li Lanjuan, una dei più stimati ricercatori cinesi. E’ grazie alla sua analisi e ai suoi consigli se Wuhan è stata chiusa in una notte per cercare di contenere il virus. Secondo i risultati dello studio il Sars CoV 2 è stato capace di mutare 33 volte da quando è apparso in Cina nel dicembre 2019. La parola mutazione mette spesso paura. Nell’immaginario che dipende anche dai racconti di fantascienza, si pensa sempre porti a qualcosa di molto più potente e mortale. In realtà questo genere di cambiamenti sono pare del ciclo naturale di vita di qualsiasi organismo, e in particolare di quelli più piccoli e ancora di più di quelli formati da una sola stringa di Rna, come il Covid-19. La maggior parte di queste variazioni sono mortali per il virus stesso, perché se non sono utili vengono eliminate. Nathan Grubaugh, un ricercatore del Dipartimento di Epidemiologia della Yale University (Usa), ha scritto su Nature un articolo intitolato Perché non dovremmo preoccuparci delle mutazioni che avvengono durante una epidemia. Grubaugh fa notare che un virus, per diventare più letale, deve cambiare molti tratti genetici contemporaneamente, un’operazione che gli riesce difficile fare in un lasso di tempo così limitato. Forse la sua nocività non peggiora, ma Li Lanjuan ha scoperto che i cambiamenti riguardano aspetti così rari che finora non erano stati studiati e che possono influire sulla infettività. In particolare possono produrre effetti diversi sulle cellule e la carica virale. Alcuni sono effettivamente più pericolosi di altri. Per esempio una varietà particolarmente aggressiva ha dimostrato di essere capace di generare una carica virale 270 volte più alta di altre varietà, e di uccidere le cellule più velocemente. In particolare ceppi più aggressivi sono stati riscontrati in Europa e a New York, che hanno avuto tassi di mortalità simili, mentre altri più leggeri hanno infettato altre parti degli Stati Uniti, come per esempio lo stato di Washington. Proprio quello proveniente da quest’area era quello diffusosi sulla nave da crociera Gran Princess. Altri generi hanno colpito la California. La pandemia insomma può avere tassi di infezione e letalità diversi da Paese a Paese, e questa potrebbe essere una spiegazione delle differenze, sebbene la mortalità dipenda anche da fattori come età, condizioni di salute e perfino il gruppo sanguigno. Chi ha il gruppo A è più sensibile, chi ha lo 0 meno. Questo avviene perché ci possono essere cambiamenti funzionali nella proteina spike, quella attraverso cui viene attaccata la cellula. Per verificare questi meccanismi sono state infettate cellule con i diversi tipi e ne è stato analizzato l’effetto. Secondo Lanjuan individuare la mutazione locale potrebbe aiutare meglio nell’azione contro il virus. Le medicine che si stanno sperimentando infatti sono molto importanti, così come lo è la ricerca dei vaccini. Ma è evidente che se le possibili forme del virus cambiano, dovrebbero essere efficaci per tutte, altrimenti si corre il rischio di un fallimento. Altre ricerche sulle mutazioni sono state compiute al Campus Biomedico di Roma. Domenico Benvenuto, studente e ricercatore al 6 anno di medicina, il primo a individuare la struttura del coronavirus, e Massimo Cicozzi, docente di statistica medica ed epidemiologia, hanno stabilito che una sequenza che regola l’autofagia, dunque la possibilità di contagiare, assente in Cina, è risultata invece presente poi in America ed Europa. Un’altra ricerca effettuata con Robert Gallo riguarda invece la polimerasi, l’enzima necessario per la replicazione. Sono state individuate 8 mutazioni, alcune prevalenti in Europa, altre presenti esclusivamente in Nord America. Dai dati sembrerebbe che il virus stia diventando meno efficiente lasciando dunque supporre che stia perdendo di potenza. E’ solo una ipotesi, ma di sicuro per un patogeno non è utile uccidere tutti i propri ospiti, mentre potrebbe trovare più conveniente trasformarsi diventando meno letale.
Il coronavirus è un serial killer: in Italia uccide più di tumori e infarti. In solo un mese il Covid ha provocato quasi 11 mila morti. Analizzando gli ultimi dati sulla mortalità dell'Istat, il virus oggi sembra il patogeno più pericoloso in circolazione. In Lombardia ha ammazzato tredici volte in più del cancro ai polmoni, e sei volte in più di ischemie e ictus. E causato il doppio di decessi di tutti i carcinomi maligni messi insieme. Emiliano Fittipaldi il 30 marzo 2020 su L'Espresso. Altro che poco più di un'influenza. In Italia il coronavirus è, oggi, la malattia più mortale che esista in circolazione. Un killer spietato che uccide più di qualsiasi tumore maligno. Più pericoloso di infarti, ischemie e altre malattie cardiovascolari. Tutte patologie che - da sempre – sono in cima alle classifiche annuali dell'Istat sulle cause di mortalità nel nostro Paese. Confrontando i morti per Covid-19 dell'ultimo mese segnalati dalla Protezione civile con i registri del nostro istituto di statistica in un qualsiasi anno normale "senza Covid", è evidente che il nuovo agente patogeno ha effetti sulla salute pubblica devastanti, e che come assassino seriale non ha rivali. Il confronto con le altre malattie è impressionante già a livello nazionale. Ma diventa ancor più marcato in Lombardia e nelle provincie di Bergamo e Brescia, quelle più colpite da Covid. Se la regione più ricca d'Italia ha contato dal 29 febbraio al 29 marzo ben 6.390 morti provocati dal virus importato da Wuhan, nel 2017 (anno degli ultimi dati Istat disponibili per ogni singola causa) in Lombardia in un mese sono deceduti in media per ogni tipo di tumore, compresi i più letali, "appena" 2.640 persone. Meno della metà delle vittime provocate dal coronavirus. Il reale tasso di letalità è ancora impossibile da stabilire, dal momento che non sappiamo quante persone sono state finora infettate (esistono ipotesi scientifiche molto diverse che spostano il range tra lo 0,2 e il 4 per cento, a secondo del denominatore finale). Ma è certo che in Italia a causa del Covid 19 sono morte ufficialmente in trenta giorni quasi 11 mila persone. "Per" o "con" il coronavirus è una distinzione – come vedremo – senza molto senso. Il professore Roberto Burioni l'ha definita addirittura una «criminale minimizzazione». A squadernare le tabelle storiche dell'Istat sulla mortalità generale e le sue varie cause, e confrontandole con i numeri drammatici del marzo 2020 relativi ai decessi causati dal nuovo agente patogeno, sembra che l'ordinario del San Raffaele abbia ragione.
PEGGIO DI CANCRI E INFARTI. Andiamo con ordine, partendo dal confronto dei dati nazionali dei decessi da Covid con quelli di altre malattie a cause varie, incidenti compresi. Questo mese, il primo dell'epidemia da coronavirus, SarsCoV2 ha ucciso in Italia 10.779 soggetti. Nel 2017, in media ogni mese tutti i tumori maligni messi insieme hanno causato un numero di decessi quasi equivalente, circa 14 mila persone. Ma andando a indagare le singole patologie, non c'è partita. Il Covid ha ucciso quattro volte di più rispetto a quanto in un mese normale fanno i tumori maligni della trachea, dei bronchi e dei polmoni (2.825, in tutto il 2017 ne morirono 33 mila italiani), e sette volte in più di quanto provocato dal cancro al colon e al retto. In genere in Italia in trenta giorni muoiono di malattie cerebrovascolari poco più di 5.000 persone, e di patologie respiratorie (asma, malattie croniche varie) in media circa 4.400. Molto meno del Covid 19. La polmonite classica, è vero, ha fatto nel 2017 fa poco più di 13 mila morti. Ma dividendo quel numero per dodici, fa poco più di mille decessi al mese. Cifra dieci volte minore rispetto ai casi mortali di polmonite interstiziale bilaterale da coronavirus. Anche altre malattie serial killer dei nostri tempi, come le patologie «ischemiche del cuore» e «l'infarto miocardico acuto», sembrano uccidere molto meno del nuovo virus: secondo le tabelle sulla mortalità divisa per cause ogni mese in media hanno provocato rispettivamente la metà e un quarto dei morti provocati dal morbo diffusosi in tutto il mondo. Qualcuno che spinge per tornare subito al lavoro e a scuola segnala che ogni anno ci sono accidenti di ogni tipo che fanno strage di italiani, aggiungendo «che non per questo il Paese si blocca». In realtà i registri dell'istituto di statistica segnalano che di incidenti (automobilistici, domestici, avvelenamento accidentale) muoiono in media 1.700 italiani al mese. Un numero molto più basso di quello che potrebbe causare un Covid lasciato senza briglie.
IL VIRUS È LETALE. MA QUANTO? Oggi non è ancora possibile individuare con precisione il "tasso di letalità" del Covid (cioè la percentuale dei decessi rispetto al numero totale degli infettati). E, con esattezza, non è calcolabile nemmeno quello legato alla "mortalità". Quest'ultimo dato (che spesso viene erroneamente confuso con il primo) mette a rapporto il numero di morti per una determinata malattia con il totale della popolazione media. «Esistono malattie che pur avendo una letalità altissima hanno una mortalità insignificante, in quanto poco frequenti nella popolazione totale», scrive il ministero della Salute. Per il Covid-19 siamo di fronte a un fenomeno che in Italia ha una letalità più che discreta, e che per ora è a bassa mortalità. Ma se l'epidemia non fosse contenuta (come il governo sta provando a fare attraverso il lockdown), i dati ufficiali di marzo sul numero di morti assoluti evidenziano che a fine pandemia il tasso di mortalità potrebbe schizzare alle stelle. Ovviamente la speranza è che il blocco delle attività, e una ripresa effettuata con gradualità e mezzi adeguati per il distanziamento sociale e la protezione individuale, possa alla fine abbassare letalità e la mortalità di casi Covid-19. Mentre è certo che la mortalità per altre cause continuerà a mietere nuove vittime senza interruzione, per tutto l’anno. Bisognerà infine capire quale sarà l’impatto dell’allenamento del servizio sanitario routinario in particolare su diagnosi precoce, controllo e prevenzione delle patologie tradizionali. In alcuni paesi africani alcuni studi hanno calcolato che lo spostamento repentino di risorse sanitarie sull'emergenza Ebola ha causato più morti in più di altre patologie mal curate dell'epidemia stessa.
INCUBO LOMBARDIA. Detto questo, i dati della Lombardia, territorio dove il virus ha probabilmente circolato liberamente per settimane prima di essere individuato a Codogno, chiarisce ancor di più quanto il Covid è pericoloso. Il confronto tra decessi da coronavirus e i dati storici delle vecchie malattie rilevate dall'Istat negli anni passati è sconcertante. Il coronavirus ha ucciso in Lombardia in un mese 6.360 persone. In un mese normale del 2017, analizzando i dati Istat divisi per regione, sono morti in media per tutti i tumori maligni "solo" 2640 persone. Di questi, 250 per cancro al colon e al retto, 195 per un tumore difficile come quello del pancreas, 494 circa ogni mese per i carcinomi della trachea e dei polmoni. Le polmoniti uccidono in genere 211 lombardi al mese, il coronavirus questo marzo ne ha ammazzati 30 volte tanto. «Non si possono calcolare tutti i morti con precedenti patologie come decessi da coronavirus, prima o poi sarebbero morti lo stesso», sostiene qualcuno. Al netto del cinismo, difficile – dati alla mano – essere d'accordo con il ragionamento minimalista. Anche perché il numero reali dei defunti da coronavirus, nelle zone più infettate, potrebbe essere assai maggiore di quello ufficiale. Dal momento che (come raccontato da medici e politici locali come il sindaco di Bergamo Giorgio Gori) molti muoiono ormai a casa, e vengono seppelliti senza essere tamponati. E dunque esclusi dalle statistiche finali sulla Sars-CoV 2. Infine, grazie a un articolo di Youtrend che ha svelato le cifre dei decessi lombardi divise per provincia (i dati ancora segreti sono stati confermati a chi scrive dalla Regione Lombardia), è possibile fare un raffronto tra ieri e oggi anche nelle per singole città lombarde. Ebbene, nel 2017, tabelle Istat alla mano, nel bergamasco in media ogni in trenta giorni sono morte in tutto 860 persone. Si sono avuti in media mensile circa 280 decessi per tutti i tumori maligni messi insieme, 49 morti per cancro ai polmoni, 37 per infarti al miocardio, 82 per ischemie del cuore. E circa 18 per polmoniti tradizionali. Nella provincia di Bergamo, invece, nel marzo 2020 sono morti solo a causa del virus in poco meno di un mese oltre mille persone. Un dato abnorme. Un trend simile si è registrato a Brescia e dintorni, che hanno superato i mille decessi il 26 marzo. È vero, dunque, che a Bergamo la nuova malattia Covid 19 ha ucciso rispetto alle malattie e altre cause tradizionali un numero «esponenziale» di uomini e donne, come denunciato da uno studio dell'Eco di Bergamo e da Gori. Idem a Crema, a Brescia, nel lodigiano. Quanto sarà il tasso di mortalità del patogeno in queste zone ad ora impossibile prevedere. Non lo sappiamo ancora. Sappiamo però che i primi confronti con i dati storici spiegano che il coronavirus è un serial killer. Uno dei peggiori mai conosciuti. Altro che semplice influenza.
Che cos’è il coronavirus. Federico Giuliani su Inside Over il 25 febbraio 2020. All’origine dell’epidemia di polmonite che ha messo in ginocchio la Cina e allertato il mondo intero c’è il virus ribattezzato 2019 novel coronavirus, abbreviato nella dicitura 2019-n-Cov o Covid-19. La malattia è stata identificata per la prima volta nella città di Wuhan alla fine del dicembre 2019. In poche settimane decine e decine di persone sono state contagiate in tutto il Paese, mentre altre sono morte. Il misterioso morbo si è diffuso anche all’estero creando una psicosi collettiva.
L’origine del coronavirus. Il focolaio del nuovo coronavirus, almeno secondo quanto si sa fino ad ora, è stata rintracciata a Wuhan, una megalopoli di 11 milioni di abitanti situata nella provincia dello Hubei, nella Cina centrale. L’origine esatta è stata localizzata nel mercato ittico di Huanan – adesso chiuso – dove si vendevano, tra le altre cose, anche le carni di animali selvatici. I primi casi sono comparsi al termine dello scorso anno. Molti dei primi pazienti che avevano manifestato i sintomi dell’infezione avevano lavorato o visitato come clienti proprio il mercato all’ingrosso della città, in cui si potevano acquistare pesce, frutti di mare ma anche animali da allevamento, pollame e serpenti. A finire sotto la lente d’ingrandimento per la diffusione del nuovo coronavirus è finita una specialità della cucina di Wuhan: la zuppa di pipistrello della frutta. Per alcuni esperti potrebbe essere l’ipotetico intermediario sconosciuto della patologia fra uomo e virus. In altre parole, gli scienziati ritengono che gli ospiti naturali del coronavirus possano essere i pipistrelli, ma che tra loro e gli umani possa esistere un veicolo. Due le opzioni: la citata zuppa oppure i serpenti.
Il virus. L’agente patogeno è un coronavirus della famiglia a cui appartengono anche quello della Sars (la sindrome respiratoria acuta severa ) e la Mers (la sindrome respiratoria del M.O.). Il nome deriva dalle particolari punte a forma di corona presenti sulla superficie del virus. I coronavirus sono comuni in moltissime specie di animali anche se, in alcuni rari casi, possono effettuare una mutazione e infettare l’uomo, per poi diffondersi nella popolazione. Quando parliamo di un “nuovo coronavirus” intendiamo dire che siamo di fronte a un nuovo ceppo di coronavirus che non è mai stato identificato nell’uomo. Fino a oggi conoscevamo sei tipi di coronavirus umani, a cui si è aggiunto l’ultimo arrivato da Wuhan. Ecco la lista completa: 229E (coronavirus alpha), NL63 (coronavirus alpha), OC43 (coronavirus beta), HKU1 (coronavirus beta), e poi i più celebri, MERS-CoV (il coronavirus beta che causa la Middle East respiratory syndrome), SARS-CoV (il coronavirus beta che causa la Severe acute respiratory syndrome) e infine 2019 Nuovo coronavirus (2019-nCoV).
Sintomi e diagnosi. Proprio come altre malattie respiratorie, l’infezione da nuovo coronavirus può causare sintomi lievi oppure più severi, quali polmonite e difficoltà respiratorie. Raramente può essere fatale. Ricordiamo che le persone più suscettibili alle forme gravi sono gli anziani e quelle con malattie preesistenti, quali diabete e malattie cardiache. Il periodo di incubazione, cioè il lasso di tempo che intercorre fra il contagio e lo sviluppo dei sintomi clinici, varia tra i due e gli undici giorni, fino ad un massimo di 14 giorni. In caso di sospetto di Coronavirus è necessario effettuare esami di laboratorio per confermare la diagnosi.
Come avviene il contagio. I coronavirus umani si trasmettono da una persona infetta a un’altra mediante colpi di tosse, saliva, starnuti o attraverso contatti diretti. Un esempio? Stringere la mano a un paziente infetto e portarsela alle mucose. È rischioso anche toccare un oggetto o una superficie contaminati dal virus e poi portarsi le mani, non lavate, su naso, occhi o bocca.
Come si cura. Al momento non esistono vaccini per prevenire il nuovo coronavirus. Esiste tuttavia un test per identificarlo. Chi contrae la malattia viene trattenuto in isolamento negli ospedali o in casa per evitare il contagio. I sintomi generici sono trattati con i farmaci contro dolore e febbre o antibiotici. I medici consigliano ai pazienti infetti di bere molti liquidi e riposarsi.
Accorgimenti utili. Si possono seguire alcuni consigli per evitare di correre rischi e ridurre notevolmente l’eventualità di contrarre un virus del genere. Innanzitutto è fondamentale lavarsi spesso le mani con acqua e sapone o con soluzioni alcoliche per almeno una ventina di secondi. Meglio starnutire o tossire in un fazzoletto, girare con una mascherina e gettare sempre i fazzoletti utilizzati in un cestino chiuso; non toccare naso, occhi e bocca con mani sporche; ridurre al minimo i contatti ravvicinati con persone infette. Attenzione anche al cibo: evitare carne cruda o poco cotta così come frutta e verdura non lavata e bevande non imbottigliate. Stando alle indicazioni del ministero della Salute italiana, le malattie respiratorie non si trasmettono con gli alimenti, che comunque devono essere manipolati rispettando le buone pratiche igieniche ed evitando il contatto fra alimenti crudi e cotti. Sono tuttavia in corso vari studi per comprendere meglio le modalità di trasmissione del virus.
La diffusione del virus. Appare pressoché impossibile aggiornare in tempo reale le vittime e i contagi. Ci limitiamo a dire che il virus ha ormai contagiato l’intera e Cina e si è diffuso ben oltre la muraglia. L’Organizzazione mondiale della sanità ha registrato casi praticamente in tutto il mondo, dall’Europa agli Stati Uniti passando, ovviamente, per l’Asia, continente nel quale è collocato il focolaio principale. Oltre alla Cina, stando ai dati di wolrdometers.info, i Paesi più colpiti sono Corea del Sud (oltre 800 contagi e 8 morti), Italia (oltre 200 e 6 decessi) e Giappone (più di 150 e 1 vittima). Situazioni complicate anche a Singapore (90), Hong Kong (79 infettati e 2 morti) e Iran (61 contagiati e 12 morti).
L'identikit delle vittime. Dando uno sguardo ai dati anagrafici delle vittime colpite, la maggior parte di loro rientra nella categoria degli anziani o di pazienti con patologie pregresse, come il diabete e morbo di Parkinson.
Una ricerca condotta dai Centers for diseases control cinesi (Ccdc) su circa 44mila persone contagiate ha evidenziato che la maggior parte dei pazienti deceduti (il 14,8%) aveva più di 80 anni. La percentuale di decessi nella fascia compresa tra i 70 e i 79 anni è invece pari all’8%; da 60 a 69 si scende al 3,6%; da 50 a 59 all’1,3%; da 40 a 49 allo 0,4%; da 30 a 19 allo 0,2%.
Il coronavirus adesso ha un nome. L'Oms lo ha chiamato Covid-19, un termine coniato per evitare riferimenti a zone specifiche, animali o gruppi di persone. Agi 11 febbraio 2020. Ha un nome ora il nuovo coronavirus che spaventa il mondo. A un mese esatto dall'annuncio della prima vittima a Wuhan, l'11 gennaio scorso, l'organizzazione ha finalmente dato un nome alla nuova malattia: si chiama Covid-19, dove "co" sta per coronavirus, "vi" per virus e "d" per "disease", malattia. "Abbiamo dovuto trovare un nome che non si riferisse a una zona geografica, a un animale a un individuo o a un gruppo di persone e che fosse anche pronunciabile e riferito alla malattia", ha spiegato il direttore generale dell'Organizzazione Mondiale della Sanita' (Oms), Tedros Adhanom Ghebreyesus, in conferenza stampa a Ginevra. "Avere un nome significa evitare altri nomi che possano essere inaccurati o stigmatizzanti", ha proseguito Ghebreyesus, "e ci dà anche un format standard da usare per ogni futura epidemia di coronavirus". In passato, alcuni virus hanno infatti preso il nome dal luogo o da una regione in cui sono stati identificati per la prima volta: è il caso del Mers, che sta per Sindrome respiratoria del Medio Oriente, nel 2012; il virus Ebola è stato così denominato da un fiume nella Repubblica Democratica del Congo; la malattia di Lyme prende il nome da una città del Connecticut. Tuttavia, nel 2015 l'Organizzazione mondiale per la Sanità (Oms) ha pubblicato una nuova guida, esortando gli scienziati a evitare nomi che potrebbero causare inutili effetti negativi su nazioni, in questo caso la Cina, economie e persone. "I termini che dovrebbero essere evitati nei nomi delle malattie includono aree geografiche (ad es. Sindrome respiratoria mediorientale, influenza spagnola, febbre della Rift Valley), nomi di persone (ad esempio Malattia di Creutzfeldt-Jakob, malattia di Chagas), specie di animali o alimenti (ad esempio influenza suina, influenza aviaria), riferimenti culturali, di popolazione, industriali o professionali (ad esempio legionari) e termini che incitano alla paura indebita (termini quali sconosciuta, fatale, epidemia)", si legge nelle linee guida. Secondo l'Oms, al contrario, "il nome di una malattia dovrebbe consistere in termini descrittivi generici, in base ai sintomi, a coloro che colpisce, alla sua gravità o stagionalità".
Come funziona e perché è pericoloso il coronavirus? Paolo Mauri su Inside Over the world il 5 marzo 2020. Come funzionano i virus? Sono esseri viventi? Perché il coronavirus Covid-19 è pericoloso? Esiste un solo ceppo virale? Queste ed altre domande stanno rimbalzando in questi giorni sul web per cercare di conoscere, e quindi esorcizzare, il coronavirus la cui epidemia si sta diffondendo a macchia d’olio nel mondo. Partiamo dall’ultima domanda, che è anche quella di maggiore attualità proprio a causa della scoperta del primo contagio uomo-uomo avvenuto in Europa, in Germania, a gennaio di quest’anno, come abbiamo avuto già modo di dirvi in un articolo precedente. Uno studio cinese pubblicato oggi sulla National Science Review ha confermato quello che gli specialisti sospettavano da tempo, ovvero che ci troviamo davanti a due ceppi di coronavirus. Nel riassunto dell’articolo scientifico si legge che, analizzando la sequenza genetica, è stato notato come il virus Sars-CoV-2 (il Covid-19) differisca rispetto a quelli dei pipistrelli (Sarsr-CoV e RaTG13) di una percentuale maggiore rispetto a quanto originariamente scoperto: dal 4 al 17%. Questo significa che il virus è mutato naturalmente attraverso una serie di ricombinazioni. Andando più nello specifico si legge che le analisi del genoma di Covid-19, il virus umano, hanno individuato due ceppi distinti (designati L ed S) che si comportano in modo diverso ed hanno anche una diffusione diversa stante il numero di contagiati al momento della ricerca. Il ceppo L è quello più ricorrente, col 70% dei casi, rispetto a quello S, ritenuto essere quello primitivo da cui si è originato, ed è anche quello più aggressivo e dalla più rapida diffusione (elevata trasmissibilità). L’intervento dell’uomo, si legge, nelle prime fasi dello scoppio dell’epidemia nella provincia cinese di Hubei ha imposto una selezione artificiale dei virus, contenendo maggiormente la diffusione del ceppo più aggressivo. Sul fronte opposto il virus tipo S, è possibile che sia risultato più frequente nella casistica – non solo cinese – proprio a causa delle sue caratteristiche di minore aggressività, e quindi aver subito una più blanda pressione selettiva. Le mutazioni sono pericolose? Per rispondere a questa domanda ci viene in aiuto la biologia di base. Leggiamo nei testi che i virus sono in continua evoluzione, con l’emergere di nuove caratteristiche genetiche (mutazioni, ma non solo) e la loro stabilizzazione nella popolazione. Le nuove caratteristiche sorgono casualmente, durante la replicazione del genoma, che è il “libretto di istruzioni” per gli esseri viventi. Se il cambiamento non altera la capacità replicative del virus, si potrà trasmettere alla progenie virale e stabilizzare nella popolazione. Le mutazioni però solo raramente sono vantaggiose: molto più spesso sono letali, deleterie o indifferenti per il virus. I virus a Rna, come i coronavirus di cui Covid-19 fa parte, hanno una frequenza di mutazioni molto alta e persino i virus più semplici generano moltissime mutazioni. Ma cosa sono i virus? I virus non sono esseri viventi in senso stretto, non sono né organismi eucarioti né procarioti. Per esistere in natura devono essere infettanti e per le loro caratteristiche devono utilizzare i meccanismi della cellula ospite per produrre i propri componenti (mRna virali, proteine e copie identiche del genoma). Sono totalmente dipendenti da una cellula vivente per la loro replicazione tanto che vengono definiti organismi parassiti endocellulari obbligati. Alcuni codificano propri enzimi, ma non sono capaci di riprodurre da soli le informazioni contenute nei loro genomi. Non hanno sistemi per la produzione di energia, e devono usare l’energia della cellula parassitata. I virus sono quindi “vivi”? Dipende dalla definizione di vita. I virus sono metabolicamente inerti, non respirano, non si muovono, non crescono, non reagiscono all’ambiente, ma si riproducono, possono adattarsi all’ospite e all’interno delle cellule sono metabolicamente attivi. Il virus, per “vivere” ovvero per riprodursi e diffondersi, deve utilizzare il metabolismo delle cellule ospitanti – in questo caso le nostre – per sintetizzare proteine virali e replicare il proprio acido nucleico. Il virus così entra in competizione con i moltissimi geni presenti nelle cellule: per avere il sopravvento, deve bloccare le sintesi macromolecolari della cellula (sia Dna che proteine), quindi, in parole povere, va a “sovvertire” l’ordine genetico ed il funzionamento di una cellula ospitante. Un virus quindi, una volta che si realizzano le condizioni infettanti, entra nel nostro organismo, penetra nella cellula bersaglio – che possono essere diverse a seconda del virus e nel caso di Covid-19 si tratta di quelle polmonari – si riproduce generando altri “virioni” che escono dalla cellula ospite e ne contagiano altre. Questo ovviamente produce delle lesioni alle cellule che possono essere più o meno mortali per le stesse. Da qui l’insorgere della fenomenologia della malattia. Va considerato che non è bene per il virus distruggere il suo ospite, anzi spesso le malattie sono una conseguenza (non voluta dal virus) che deriva da come il virus ha risolto i suoi tre problemi esistenziali ovvero riproduzione, trasmissione ed evasione dalla cellula infetta. Esistono infatti molte forme virali che, pur essendo presenti in un organismo, non danno manifestazioni della loro presenza se non in particolari casi, come per l’herpes. Sia l’ospite che il virus tendono infatti ad un vantaggio riproduttivo: l’ospite sviluppa difese, il virus subisce continue modifiche. La selezione naturale favorisce i virus con scarso potere patogeno (= che non eliminano l’ospite) e infatti molte infezioni virali sono asintomatiche. La patogenicità, ovvero la capacità di causare una malattia, di Covid-19 però, sebbene esistano casi confermati di “portatori sani” come appunto quello del primo caso in Germania, è comunque non indifferente, anche se la sua virulenza, come abbiamo avuto modo di dire in un altro articolo dove abbiamo smentito che si tratti di un’arma batteriologica, è relativamente bassa. Possiamo quindi ipotizzare che un virus come Covid-19 sia in grado di mutare per cercare di non uccidere chi lo ospita? Difficile dirlo. Bisogna però considerare che un virus non è un organismo complesso e quindi non è in grado di decidere cosa sia meglio per lui, e abbiamo già visto che le mutazioni sono raramente favorevoli per la sua sopravvivenza: il ceppo L, quello più virulento, originato da una mutazione del ceppo S, è quello destinato a sparire più rapidamente. Secondariamente poi occorre considerare che un virus non si basa solo sulla sopravvivenza dell’ospite, ma anche sulla capacità di diffondersi, quindi sulla trasmissibilità, che abbiamo visto è abbastanza elevata per Covid-19. Abbiamo cercato di dare quelle che sono delle nozioni di base di virologia, integrate a quello che sappiamo di questo virus, ma rimandiamo agli esperti ogni ulteriore considerazione epidemiologica.
Ricostruite le mutazioni del coronavirus. "Non diventa più aggressivo". La scoperta è emersa durante uno studio coordinato da Massimo Ciccozzi, direttore dell'unità di statistica medica ed epidemiologia molecolare dell'università Campus biomedico di Roma. Andrea Pegoraro, Lunedì 02/03/2020 su Il Giornale. Il coronavirus non diventa più aggressivo, pur continuando a cambiare per sopravvivere. La scoperta è emersa durante uno studio coordinato da Massimo Ciccozzi, direttore dell'unità di statistica medica ed epidemiologia molecolare dell'università Campus biomedico di Roma, in cui sono state ricostruite le mutazioni del Covid-19, da quando è cominciato ad oggi. La ricerca verrà pubblicata nei prossimi giorni e potrebbe essere utile per arrivare a un vaccino.
Lo studio. Ciccozzi fa una premessa e spiega che nell’indagine si fa riferimento alla Sars del 2002-2003, cioè l’ultima epidemia da coronavirus che abbiamo avuto. Come riferisce Il Messaggero, il team guidato dall’epidemiologo molecolare ha scoperto che il Covid-19 ha avuto due mutazioni fino a questo momento. La prima variazione lo rende più contagioso della Sars, mentre la seconda lo rende meno letale. Per capire meglio quanto detto, basti pensare che il tasso di mortalità del coronavirus è intorno al 3% e quello della Sars è invece del 9,8%. Ciccozzi spiega che una delle prime preoccupazioni era di doverlo fermare perché cambia aspetto. Ma varia perché deve in qualche modo scappare dalla risposta immunologica dell’ospite. Nonostante il Covid-19 sia meno pericoloso della Sars, non si può sapere se in futuro possa subire nuove mutazioni che lo renderanno più aggressivo. Intanto, però questa scoperta apre degli scenari rassicuranti. A questo proposito, il gruppo di Ciccozzi ha esaminato le sequenze del virus, quelle cinesi e qualche sequenze europea. L’epidemiologo molecolare evidenzia che la ricerca voleva analizzare se nel corso del tempo fosse cambiato qualcosa. Ed ha scoperto che il virus ha fatto qualche variazione ma di lieve entità. In termini prtici, non ci sono state mutazioni deleterie per noi durante un mese e mezzo di epidemia. Ciccozzi anticipa che insieme all’ospedale Sacco ha intenzione di mettere insieme tutte le sequenze cinesi e italiane per capire se è cambiato qualcosa. Inoltre, il team di ricercatori vuole datare l’epidemia nel nostro Paese. Gli scienziati del Campus biomedico hanno quindi identificato il punto esatto in cui è cominciato il Covid-19 in Cina. La prima persona si è infettata a metà dicembre, mentre la data della prima infezione italiana si potrebbe collocare tre-quattro settimane prima della scoperta del cosiddetto “paziente 1”. Nel frattempo ci sono possibilità di arrivare a un vaccino. Ciccozzi sottolinea che una parte del virus non cambia mai ed è conservata. Proprio quest’ultima potrebbe essere usata come vaccino.
Un virus intelligente ma ora bisogna scoprire tutti i suoi punti deboli. Il Coronavirus venuto dalla Cina è molto scaltro: produce sintomi lievi e i contagiati si muovono liberamente. Così si propaga. Elena Dusi il 28 febbraio 2020 su La Repubblica. Ci sono virus stupidi e virus intelligenti. I primi, come Ebola, uccidono rapidamente i loro ospiti. I secondi li colpiscono con sintomi lievi. Fanno sì che continuino a viaggiare, lavorare e andare in vacanza, nonostante un po’ di brividi e naso chiuso. Che tornino a casa la sera in famiglia, non disdicano quella cena con gli amici prenotata tempo fa o si lancino nell’impresa sportiva per cui si erano tanto allenati.
Veloce e furbo. Ecco, il nuovo coronavirus venuto dalla Cina è particolarmente intelligente. L’80% dei contagiati ha sintomi blandi, quasi inesistenti. Ma che sarà mai, ci dicevamo, non uccide certo come gli altri coronavirus di Sars e Mers. Perché preoccuparsi tanto, è solo un’influenza o poco più. E lui intanto, non visto dai radar, viaggiava. E andando veloce, ovviava alla letalità piuttosto bassa (3% contro il 10% della Sars e il 34% della Mers). Fino a triturare, con la sua costanza, i record di vittime dei ben più cattivi coronavirus fratelli.
L’epidemia dei giorni di festa. L’epidemia ha preoccupato fin dall’inizio le autorità di Wuhan. Il 30 dicembre è stato lanciato l’allarme all’Organizzazione Mondiale per la Sanità. Ma le misure di prevenzione sono state prese a rilento. Wuhan ha aspettato il 23-24 gennaio per imporre un cordone sanitario. La decisione è entrata in vigore 8 ore dopo l’annuncio, dando modo a chi non gradiva la reclusione di cambiare città. Né è stato cancellato il banchetto da guinness per 10 mila famiglie, il 7 febbraio, per festeggiare il capodanno. Solo a feste concluse è stato vietato di vendere selvaggina viva. Da allora – a dimostrazione delle dimensioni di questo mercato – le autorità hanno chiuso 20 mila allevamenti di porcospini, cinghiali, civette delle palme, pavoni. In vendita c’erano anche coccodrilli, serpenti, tigri, pangolini e, come sappiamo, pipistrelli.
I ritardi e le imprudenze. La preoccupazione ha spinto anche la nave da crociera Diamond Princess ad attraccare nel porto giapponese di Yokohama il 3 febbraio. Ma con calma, solo a partire dal 5 febbraio, si è stabilito di chiudere tutti nelle loro cabine. Nel frattempo, per due giorni, balli, gare e lezioni di ginnastica sono andati avanti. Non sempre, possiamo dire oggi, siamo stati all’altezza dell’intelligenza del virus. Il 20 febbraio, con il mondo sull’orlo di una pandemia, i contagi a quota 75 mila e i morti a 2 mila, Macao, il regno dei casinò, ha deciso di rimettere in moto le roulette. Vietato assembrarsi attorno ai tavoli e fare puntate senza mascherine. Ma solo il futuro ci dirà chi ha vinto la scommessa.
Il tallone d’Achille del virus. La partita, per noi umani, non è certo persa. È vero che non abbiamo medicine per prevenire o curare Covid-19, la malattia da coronavirus. Ma per quanto furbo, anche il microrganismo ha i suoi punti deboli. Si trasmette con le goccioline di tosse e starnuti, ma solo con quelle più grandi, sopra ai 5 micron, incapaci di allontanarsi più di 1,5-2 metri dalla persona contagiosa e di persistere nell’aria oltre pochi secondi. Si è calcolato che ogni persona ammalata ne infetti altre 2,5-3, mentre il morbillo può arrivare a 15, grazie alla sua capacità di cavalcare le goccioline dal respiro più piccole di 5 micron, di restare sospeso nell’aria e di viaggiare con le correnti, allontanandosi anche di parecchi metri.
Ossigeno per guarire. Il punto di forza del coronavirus – colpire l’ospite nell’80% dei casi con sintomi lievi – è anche la sua debolezza. Solo il 5% dei contagiati sviluppa una polmonite seria. In assenza di altre malattie, al netto di complicanze, anche i malati gravi hanno buone chance di guarigione, se aiutati con l’ossigeno, il ricovero in terapia intensiva e una buona assistenza. Tutto dipende dal sistema sanitario di un paese e dalla sua capacità di reggere il peso di un gran numero di contagi. A Wuhan, nelle fasi più acute, gli ospedali hanno faticato a fare fronte al dilagare di Covid-19 e la mortalità è arrivata al 3%. Nel resto del mondo, dove i pochi malati sono stati presi in cura con tutte le attenzioni, si è rimasti allo 0,7%.
I bambini si salveranno. Il coronavirus ha la caratteristica piuttosto misteriosa di risparmiare i bambini, o di colpirli in modo lieve. Solo l’1% dei contagiati ha meno di 10 anni. La prima volta che si parlò di contagio asintomatico, a gennaio, fu proprio a proposito di un ragazzino di 10 anni di Shenzhen, rimasto sano in una famiglia tempestata dai contagi dopo la visita a un parente all’ospedale di Wuhan. I genitori, preoccupati, vollero che fosse sottoposto al test nonostante la sua buona salute. E lui in effetti è risultato positivo, come una sorta di portatore sano, a confortarci che in uno scenario totalmente da fantascienza in cui il coronavirus ci sterminasse tutti, resterebbero i bambini a popolare un mondo nuovo.
Gli scenari futuri. È molto più probabile che al coronavirus sopravviveremo (almeno a questo, in attesa che arrivi il prossimo). Ma davanti a noi abbiamo scenari differenti. Non sappiamo quanto i contagi siano diffusi nel mondo. I test per diagnosticare la malattia sono costosi, laboriosi e richiedono tecnologie complesse. Wuhan, nella fase calda dell’epidemia, non è riuscita a seguire l’onda montante dei contagi con i kit diagnostici che aveva a disposizione, e ha dovuto cambiare criterio di conteggio dei malati, inserendo nella lista chi mostrava segni di polmonite alla tac.
L’anello più debole della catena. Paesi popolosi come l’Indonesia o un continente ricco di traffici con la Cina come l’Africa hanno registrato un numero così basso di casi da risultare sospetto. L’Organizzazione mondiale della sanità ricorda che di fronte a questa epidemia “siamo forti quanto è forte l’anello più debole della nostra catena”. E che paesi dal sistema sanitario zoppicante potrebbero essere travolti da un’ondata di ammalati che si è rivelata difficile da gestire perfino per un paese organizzato come la Cina. Non sappiamo poi se questo coronavirus ha un andamento stagionale ed è destinato a eclissarsi con la primavera.
In attesa del vaccino. Nel lungo periodo – le stime variano da uno a tre anni – dovremmo mettere a punto un vaccino. Forse ci salverà dal ticchettio di morti e contagi. O forse farà la fine del vaccino della Sars, riposto su uno scaffale per mancanza di malati. Il virus, dopo aver spadroneggiato nel mondo per più di un anno, se ne andò come era venuto. Lasciando ferite e paura. Ma non abbastanza da indurci a prevenire oggi la nuova epidemia. E qui sta forse il nostro limite, nella gara di intelligenza senza tempo fra uomini e virus.
La nuova mutazione del Covid-19 a Londra. Andrea Walton su Inside Over il 20 dicembre 2020. La variante del virus Sars-Cov-2 che si è diffusa nell’Inghilterra sudorientale e nella città di Londra ha sconvolto i piani natalizi fatti dall’esecutivo di Boris Johnson. La versione mutata è molto più contagiosa (fino al 70 per cento in più) di quella presente nel Regno Unito e costituisce una minaccia da affrontare nel più breve tempo possibile. La variante è stata individuata per la la prima volta nel mese di settembre nell’Inghilterra sudorientale. Le contee dell’Inghilterra orientale, sudorientale e la città di Londra subiranno restrizioni molto dure a partire da questa domenica ed entreranno, di fatto, in lockdown. Queste aree verranno incluse nel Tier 4, il livello più alto di allarme tra quelli in cui sono suddivise le contee dell’Inghilterra ed i residenti, salvo alcuni casi specifici, non potranno uscire dalle proprie abitazioni. I negozi non essenziali, le palestre ed i luoghi di svago dovranno chiudere, non si potrà incontrare più di una persona non convivente ed unicamente all’aperto ed in un luogo pubblico, i cittadini dovranno lavorare da casa a meno che ciò non sia impossibile e non si potrà uscire ed entrare da queste aree.
La variante della discordia. La comparsa della nuova variante può spaventare ma non bisogna dimenticare che, anche nel recente passato, ci sono state altre mutazioni del Covid-19. Tra queste c’è quella comparsa tra i visoni in Danimarca, che ha portato all’abbattimento di milioni di questi animali. Questa mutazione ha suscitato una forte preoccupazione perché gli anticorpi delle persone guarite non sembravano in grado di neutralizzare in maniera efficace questa variante. I virus varianti, che come suggerisce il nome divergono da quelli in circolazione in precedenza, sono però del tutto comuni nel corso di una pandemia e la maggior parte delle mutazioni subite da un virus tende, inevitabilmente, ad autoestinguersi. “Nulla sembra suggerire”, come riferito dal Ministro della Salute inglese Matt Hancock (e riportato dall’Huffington Post) , “che la variante possa essere responsabile di forme più severe di Covid-19 o che possa essere resistente ai vaccini“. Secondo Emma Hodcroft, esperta di genetica virale presso l’Università di Berna, il nuovo ceppo avrebbe tre mutazioni nella proteina spike che il coronavirus utilizza per entrare nelle cellule umane e la scienziata rassicura sul fatto che “Non c’è nulla che suggerisca che la variante abbia maggiori probabilità di causare malattie gravi, e l’ultimo quadro clinico dice che è altamente improbabile che questa mutazione non possa rispondere a un vaccino“. Non è però da escludere che la velocità con cui si è propagata la seconda ondata pandemica in Europa possa essere dovuta proprio ad una mutazione e tra le principali indiziate c’è la 20A.EU1, individuata ad ottobre e diffusa dai lavoratori agricoli spagnoli in gran parte del Vecchio Continente. La variante D614G è invece, al momento, l’unica che ha influenzato in maniera significativa il comportamento del coronavirus e ne ha aumentato la capacità di trasmissione.
Il futuro può rivelarsi complesso. Alcuni scienziati sembrano, però, decisamente allarmati da quanto sta accadendo nel Regno Unito. Giorgio Gilestro, neurobiologo e professore associato dell’Imperial College di Londra, ha dichiarato che “più che una variante, si tratta di una famiglia di varianti con una cosa in comune e che sono probabilmente tentativi riusciti del ceppo virale di scappare dagli anticorpi di chi ha sviluppato immunità e sono immuni, ad esempio, alle terapia al plasma”. Gilestro chiarisce come “Questi sono ceppi che si sono sviluppati per pressione evolutiva” e ciò “vuol dire che appena un numero sufficiente di persone inizia ad avere anticorpi contro il virus per immunità acquisita direttamente o per via vaccinale, nuovi ceppi emergono”. Gilestro conclude la sua spiegazione affermando che “Vista la contagiosità, visto il numero di immigrati Ee a Londra, visto il periodo (Natale), temo che sia ormai scontato che questa variante si diffonderà velocemente nel resto d’Europa”. Le parole del neurobiologo potrebbero rivelarsi profetiche, per lo meno per ciò che riguarda la diffusione del virus in Europa. I Paesi Bassi hanno annunciato la sospensione di tutti i voli con il Regno Unito sino al primo gennaio dopo aver scoperto un caso della nuova variante britannica del coronavirus nel proprio territorio nazionale. La variante britannica potrebbe essere già presente in diverse nazioni europee ed è persino possibile che il forte aumento di casi registrato nelle ultime settimane in Europa (ed anche in alcune regioni italiane come il Veneto) possa esservi legato. I governi europei rischiano, proprio come accaduto nel mese di febbraio quando si riteneva che il Covid-19 non fosse presente in Europa ma ancora confinato in Asia, di agire con ritardo eccessivo e quando il danno è ormai stato compiuto.
"Hanno taciuto per tre mesi...". Il virus mutato e i sospetti su Londra. Dai primi di dicembre la circolazione fuori controllo nel Sud Est dell'Inghilterra. E Ricciardi inchioda Johnson: "Sapeva da settembre". Perché lo ha tirato fuori soltanto ora? Andrea Indini, Lunedì 21/12/2020 su Il Giornale. Sembra un brutto film già visto. Prima l'allarme: identificata a Londra una variante più contagiosa del Covid-19. Quindi, la decisione del ministro degli Esteri Luigi Di Maio di chiudere tutti i voli provenienti dall'Inghilterra (ma solo quelli provenienti dall'Inghilterra e non quelli in arrivo dall'Olanda e dalla Danimarca nonostante ne sia certa la circolazione in quei Paesi). Poi la doccia fredda (dopo pochissime ore): la mutazione è già presente in Italia, i medici dell’ospedale militare del Celio hanno sequenziato il genoma della nuova versione in una paziente. Infine il solito dibattito tra virologi che si dividono tra chi crede che non inciderà sull'efficacia del vaccino e chi invece teme che potrebbe metterlo a rischio.
La nuova variante del Covid-19. Questa mattina, intervenuto a Buongiorno su SkyTg24, il presidente del Consiglio superiore di sanità (Css), Franco Locatelli, si è congratulato con il governo per aver sbarrato la strada ai voli inglesi "in modo straordinariamente tempestivo". Ma è stato davvero così? La decisione, come sappiamo, è arrivata ieri pomeriggio dopo che nelle ultime ore Boris Johnson aveva optato per un nuovo lockdown totale al fine di frenare la nuova variante del Covid-19. "Non è possibile ignorare la velocità di trasmissione della nuova variante - aveva spiegato il primo ministro - quando il virus cambia il suo metodo di attacco, dobbiamo cambiare il nostro metodo di difesa". Che in Inghilterra circolasse una nuova forma di coronavirus molto più aggressiva, lo si sapeva da mesi. In un grafico pubblicato ieri dall'European Centre for Disease Prevention and Control (Ecdc) si vede molto bene l'impennata di ottobre. Tuttavia è stato solo dai primi di dicembre ad accendere l'interesse di Downing Street. Perché? Lo scorso 14 dicembre il segretario alla Salute Matt Hancock aveva ammesso che già una sessantina di autorità locali avevano registrato infezioni da Covid-19 causate da questa nuova variante. Non solo. In quell'occasione Hancock aveva anche fatto sapere che non solo gli scienziati del laboratorio di Porton Down si erano già messi a fare nuovi, dettagliati studi ma che il dossier era stato inviato in modo tempestivo all'Organizzazione mondiale della Sanità (Oms). Interrogato sull'argomento lo stesso giorno, durante una conferenza stampa a Ginevra, Mike Ryan, capo delle operazioni di emergenza dell'Oms, aveva messo le mani avanti spiegando che "sono state segnalate molte varianti diverse di coronavirus". Quella inglese, quindi, era solo una in più da monitorare. "Ora la questione è - puntualizzava Ryan in quelle ore - è diffusa a livello internazionale? Rende il virus più serio? Interferisce con farmaci e vaccini? Al momento non abbiamo informazioni in questo senso - concludeva - dunque è importante studiare questa variante, per capire se è significativa".
I silenzi di Boris Johnson. La notizia era circolata anche sulla stampa italiana. Il 14 dicembre ne aveva dato conto anche ilGiornale.it spiegando che l'area maggiormente colpita era quella del Sud-Est (due giorni dopo verrà infatti sottoposta a restrizioni più rigide, quelle di livello 3) e che aveva contagiato almeno un migliaio di persone. "Ad oggi non ci sono prove che si comporti in modo diverso dalle altre già note", spiegava Maria Van Kerkhove dell'Oms rassicurando che la pratica era stata affidata al Virus Evolution Working Group all'interno del più ampio studio delle mutazioni scoperte nei visoni in diverse parti del mondo. Capitolo chiuso. Fino al 19 dicembre quando Johnson aveva indetto una riunione d'emergenza con il suo gabinetto. A preoccuparlo erano state le conclusioni a cui era giunto il New and Emerging Respiratory Virus Threats Advisory Group (Nervtag) dopo aver analizzato i dati dei modelli preliminari della nuova variante e i tassi di incidenza in rapido aumento nel Sud-Est. Le misure erano state immediatamente alzate dal "livello 3" a "livello 4", prevedendo una "zona super-rossa" per limitare anche le riunioni di famiglia. Da quel momento la notizia ha ripreso a circolare anche sulla stampa italiana e a suscitare un qualche interesse del governo Conte. Quello che, però, Johnson non ha detto in quella riunione d'urgenza è che, come rivelato da Walter Ricciardi in una intervista al Messaggero, era a conoscenza di questa minaccia da almeno tre mesi. "Ciò che mi fa arrabbiare è che gli inglesi sapevano già da settembre che era in circolazione questa variante", denuncia il consigliere del ministro della Salute Roberto Speranza. "Hanno taciuto, non ci hanno avvertito...". Secondo il virologo Andrea Crisanti, la versione britannica del Covid-19 "è apparsa in Spagna" la scorsa estate e "da lì, probabilmente a causa dei flussi turistici, si è spostata in Gran Bretagna". Nessuno, però, ancora sa dirci perché si è diffusa in modo diverso.
Le misure tardive dell'Italia. In Europa il primo Stato a sospendere i voli dall'Inghilterra è stato l'Olanda. La decisione è arrivata sabato mattina. Nelle stesse ore il Belgio faceva lo stesso fermando anche i collegamenti ferroviari con la Gran Bretagna. Era però già tardi: oltre che nel Regno Unito la variante ormai circolava in Australia, Danimarca e Olanda. Per questo quando ieri mattina Di Maio ha deciso di sospendere solo i voli provenienti dall'Inghilterra, la misura è apparsa tardiva e inutile. Esattamente come era stato quando lo scorso gennaio aveva deciso di bloccare gli aerei provenienti da Wuhan senza pensare, come ricostruito nel Libro nero del coronavirus (clicca qui), che i cittadini cinesi potessero fare scalo in altri Paesi e quindi arrivare in Italia in altro modo. "Chiudere i voli con il Regno Unito è una buona mossa se lo fanno tutti gli altri Paesi - fa, infatti, notare Ricciardi nell'intervista al Messaggero - se lo fa solo uno non serve, bisogna farlo in tutta Europa". Non solo. Scoperto già il primo paziente contagiato dalla variante inglese viene da chiedersi quante possano essere le persone già arrivate in Italia dai Paesi indicati dall'Oms come luoghi di incubazione del Covid 19 "mutato". Secondo una stima del Giornale, abbiamo a che fare con circa 45mila possibili "untori". Non pochi vista la velocità con cui si diffonde il nuovo virus. Ma il punto non è questo o per lo meno non è solo questo: se si sapeva già mesi dell'esistenza di una variante più contagiosa, perché si è deciso di intervenire soltanto adesso? Ora tutti a cercare la stessa variante in Italia. Appena ci si sono messi hanno subito trovato un caso. "Più si cerca, più si trova", spiega Crisanti all'agenzia Agi facendo notare che "l'Inghilterra è il Paese in cui si fanno più sequenziamenti al mondo". Tutta la baraonda delle ultime ore, insomma, risulta parecchio difficile da spiegarsi. Anche perché la nuova mutazione (una delle tante) non solo non è più virulenta ma non inficerà nemmeno gli effetti del vaccino.
Coronavirus, Gianluca Veneziani contro i sinistri: "Mangiavano involtini cinesi e ora processano Londra". Gianluca Veneziani Libero Quotidiano il 23 dicembre 2020. Deve essere la nuova forma di politicamente corretto, che potremmo definire geopoliticamente corretto: se l'epidemia arriva da Wuhan, guai a parlare di «virus cinese» e ad addossare responsabilità alla Cina; se invece una sua mutazione attecchisce in Gran Bretagna, non si fa che parlare di «variante inglese» e di quanto essa sia contagiosa. Che dio stramaledica gli inglesi, perché ci hanno mandato la versione aggiornata, 2.0, del Corona, chissà se per negligenza della Corona. Si vede che ai britannici non abbiamo ancora perdonato la Brexit, lo smacco insopportabile di aver lasciato ciò che resta dell'Unione europea; o si vede che, da quando al comando c'è Boris Johnson, che di Trump ricorda le politiche oltreché il taglio dei capelli, delle popolazioni d'Oltremanica si può dire peste e corna. Fatto sta che, non appena si è scoperto che una forma mutata del virus dilagava a Londra e dintorni, tutti in Europa, e soprattutto in Italia, si sono preoccupati non solo di chiudere le frontiere alla Gran Bretagna, come ragionevole, ma anche di sottolineare l'inglesità di questa variante. Evidentemente, per poter girare il mondo, il virus ha imparato l'inglese con accento british Basti vedere i titoli dei giornaloni e dei media mainstream. Ieri il Tg1 delle 13.30 apriva con queste parole: «Covid, la variante inglese del virus è in Italia». Il Corriere della Sera teneva a specificare sotto il titolo ansiogeno «Virus cambiato» che il riferimento era alla «variante inglese»; e poi, sul sito, ripresentava in modo ossessivo l'espressione «variante inglese» nei titoli del pezzo di apertura e di due video. Faceva lo stesso Repubblica, ribadendo in modo seriale che si trattava della «variante inglese». E che dire degli esperti, o presunti tali. Walter Ricciardi, il consigliere del ministro della Salute Speranza, colui che l'altro giorno ha riconosciuto il fallimento della nostra gestione di contrasto alla pandemia, ieri ha gettato la croce addosso alla Gran Bretagna: «Purtroppo», ha tuonato, «il governo inglese ha avvertito tardi della variante del coronavirus e questo non è bello». Massì, dagli contro agli inglesi, per far dimenticare responsabilità altrui Anche il coro dei virologi da salotto tv non può fare a meno di sottolineare che la variante speaks English. Massimo Galli rileva: «Questa variante è in Gran Bretagna dal 20-21 settembre. Temo che da Oltremanica ne sia passata un bel po' da allora»; Giovanni Rezza parla di una variante che «sta circolando a Londra e nel sud-est dell'Inghilterra»; Franco Locatelli di «mutazioni segnalate in Gran Bretagna». Chissà perché nessuno ricorda che questa variante è stata individuata anche in Danimarca, Australia e Olanda, come ha reso noto l'Oms. Del resto, non c'era stata un'indicazione così puntuale di "nazionalità" quando si trattava di definire il ceppo originario del Corona. L'unico ad aver parlato di «virus cinese» era stato Trump, ma per questa ragione era stato accusato di xenofobia, tra gli altri dal Corriere che aveva scritto di un aumento degli «episodi di razzismo contro gli asioamericani», come conseguenza della sua strategia comunicativa. Ora invece additare i britannici di essere scellerati propagatori di virus non è discriminazione, ma forma di legittima difesa. Della serie: insulta la Perfida Albione, ma lascia stare il Dragone.
Covid, che cos’è la «variante sudafricana» e cosa sappiamo delle mutazioni. Silvia Turin e Paola De Carolis su Il Corriere della Sera il 24/12/2020.
Che cos’è la variante sudafricana del SARS-CoV-2? È chiamata «501.V2» ed è stata rilevata in quasi 200 campioni raccolti da oltre 50 diverse strutture sanitarie in Sudafrica, dove è stata identificata per la prima volta nella Nelson Mandela Bay. Sembra che sia responsabile della seconda ondata nel Paese. Sono due varianti nate separatamente, ma condividono la stessa mutazione, la «N501Y», nella proteina spike(quella che il virus usa per attaccare le cellule umane).
Quali sono le caratteristiche di queste varianti? Sono simili. Avrebbero maggior potere di diffondere il virus. Nel caso di quella britannica, gli scienziati hanno stimato potrebbe arrivare al 50-70% in più di capacità di trasmissione (anche nei bambini). Anche il virus sequenziato in Sudafrica sarebbe molto contagioso e associato a una maggiore carica virale. Servono ulteriori ricerche perché il nesso tra facilità di trasmissione e le varianti presenti nei due territori potrebbe anche essere casuale.
Il virus sarà più letale? Non sembra che entrambe le varianti possano causare malattia più grave.
Cosa sono le varianti? È normale che un virus, quando si replica milioni di volte, in alcuni casi faccia quelli che possiamo definire, con un paragone, «errori di battitura». I virus che utilizzano l’RNA come materiale genetico, come SARS-CoV-2, sono vulnerabili alle mutazioni, ma il più delle volte queste non sono importanti.
Ci sono altre varianti significative di SARS-CoV-2? Le mutazioni mappate sono già più di 12mila, ma solo pochissime sono rilevanti. Tra queste, quella che distingue il virus di Wuhan da quello che si è diffuso in Europa lo scorso inverno: la mutazione «D614G», diventata dominante in tutto il mondo, con capacità di trasmissione fino a dieci volte maggiore rispetto all’originario lignaggio cinese.
L’efficacia del vaccino è in pericolo? È considerato altamente improbabile che i vaccini progettati finora possano avere difficoltà per questo tipo di mutazioni. Le case farmaceutiche, comunque, hanno iniziato i test di controllo e gli scienziati della University of Texas Medical Branch hanno trovato (ma sono studi preliminari) che gli anticorpi che neutralizzano il ceppo più comune del virus hanno neutralizzato anche ceppi con la mutazione «N501Y».
Dobbiamo preoccuparci? SARS-CoV-2 è un virus che muta relativamente poco, ma dato che è pandemico, le variazioni si moltiplicano milioni di volte e non solo nell’uomo, visto che il Covid-19 può infettare anche i mammiferi (come si è visto nel caso dei visoni) e ritornare all’uomo in forme differenti. È quindi di primaria importanza limitarne la diffusione arrivando all’immunità di gregge.
Come si identificano le varianti del coronavirus? Occorrono sequenze genomiche: esami di laboratorio complessi che non vengono eseguiti spesso, basti pensare che gli Stati Uniti hanno sequenziato solo 51mila test sui 18 milioni di casi di coronavirus mappati, mentre il Regno Unito mira a sequenziarne 10mila a settimana. Dopo l’allarme lanciato dalla Gran Bretagna, i Paesi stanno moltiplicando gli sforzi per i sequenziamenti e così si moltiplicano le segnalazioni, ma non sono esami di routine.
Come contrastare la diffusione delle varianti? Sappiamo già come agire: cercando di limitare i contagi come abbiamo sempre fatto, anzi, con maggiore attenzione, ora che sappiamo che ci sono forme del virus particolarmente «efficienti».
Il virus è mutato anche in Italia. Ecco le sue varianti. Scoperte in Italia 13 varianti più contagiose del ceppo originiario di Wuhan che circolano già dalla fine della scorsa primavera. "Hanno agito come serbatoi nascosti, poi sono esplose in autunno". Alessandro Ferro, Mercoledì 23/12/2020 su Il Giornale. Come tutti i virus, anche il Covid cambia e si adatta: quelli che vediamo oggi non saranno nè i primi nè gli ultimi perché continuerà a mutare, parola di virologo. Oltre a quella inglese di cui tanto si parla, nel nostro Paese sono già presenti ben 13 varianti rispetto al virus originale partito da Wuhan, in Cina, che ha dato origine alla pandemia mondiale che viviamo ogni giorno sulla nostra pelle. È questo il risultato di uno studio italiano, appena pubblicato su MedRxiv ed inviato alla rivista scientifica più prestigiosa al mondo, Nature, durato alcuni mesi e giunto alla sua conclusione soltanto pochi giorni fa: il lavoro è stato coordinato dal Prof. Massimo Ciccozzi, epidemiologo dell'Università Campus Bio-Medico di Roma e Davide Zella dell’Institute of Human Virology di Baltimore, negli Stati Uniti.
Cosa dice lo studio. "Presentiamo prove di una diffusione virale prolungata tra cluster sporadici che hanno agito come 'serbatoi nascosti' durante l'estate 2020. I modelli matematici mostrano come una maggiore mobilità tra i residenti abbia catalizzato la coalescenza di tali cluster, aumentando così il numero di infezioni e dando inizio ad una nuova ondata epidemica", si legge nell'introduzione allo studio. In pratica, le mutazioni del virus in Italia erano già iniziate in primavera, tra marzo ed aprile, per palesarsi dopo il periodo estivo con la ripresa dei contagi e l'inizio della "seconda ondata". Inizialmente, come avvenuto in Inghilterra, queste varianti sono rimaste nascoste facendo coalescenza, si sono allargate e mescolate fra di loro per poi mostrarsi, in tutta la loro forza, con le ondate di ottobre e novembre. Da sottolineare che, tutte queste varianti sarebbero "nostrane" e non importate dall'estero.
"Mutazione avvenuta mesi fa". Se le varianti italiane del virus circolano già dalla primavera-estate, perché non ne siamo venuti a conoscenza prima? "Perché nessuno le aveva scoperte prima di noi, siamo i primi", ha detto in esclusiva per ilgiornale.it il Prof. Massimo Ciccozzi, Responsabile di epidemiologia al Campus Bio-Medico di Roma e coordinatore dello studio che abbiamo intercettato per farci spiegare quanto è stato scoperto. "A settembre e ottobre dovevamo esserne sicuri ed abbiamo ripetuto le analisi più volte. Tutte quante hanno la mutazione DG614 che ha reso il virus molto più contagioso rispetto al ceppo originario di Wuhan, la letalità invece non è cambiata. Il virus è semplicemente mutato, a marzo-aprile già c'erano queste varianti, noi le abbiamo identificate a luglio e pubblicate adesso. Ma già c'erano, sono nate tra la primavera e l'estate". Ognuna delle 13 mutazioni differisce l'una dall'altra per minimi aspetti ma "non hanno dato nè un vantaggio nè uno svantaggio al virus: sono 13 copie diverse del virus ma tutte, comunque, possiedono la mutazione che ha reso il virus più contagioso", sottolinea l'epidemiologo.
La variante inglese è in Italia. Covid, cosa ci aspetta adesso. Estate stabile, poi nuova impennata. Dopo un periodo chiamato di "recessione pandemica" con pochissimi casi rilevati tra giugno e agosto, una nuova ondata epidemica ha colpito il Paese in maniera maggiore rispetto al passato. Con l'aumento delle infezioni e dei ricoveri a settembre, una nuova impennata si è registrata nuovamente a metà ottobre: lo studio sottolinea come "il virus stava circolando in modo criptico tra i cluster di trasmissione non rilevati". Durante questo periodo, covavano migliaia di infezioni lievi o asintomatiche tra serbatoi non rilevati (nascosti) che hanno preceduto ciascuna fase di crescita esponenziale di ciascuna ondata epidemica.
"Serbatoi nascosti esplosi a settembre". "Il virus muta in continuazione perché si vuole adattare a noi, non bisogna avere paura. È vero, fa anche mutazioni che favoriscono il virus stesso come per la variante inglese che dicono sia molto più contagiosa anche se non ho prove di laboratorio a sostegno di questa tesi", ha detto Ciccozzi. "Avevamo già teorizzato a marzo che la 'DG614' (variazione del virus nella proteina Spike, ndr) dava più contagiosità e le prove in laboratorio ce lo hanno confermato": in pratica, a prescindere dalla variante inglese, in Italia abbiamo già sperimentato una intensa seconda ondata a causa di una maggiore infettività del virus. I cluster italiani. Il prof. ci spiega come, questi serbatoi nascosti, siano stati individuati ad agosto e tutto sia esploso a settembre quando è ricominciato il movimento della popolazione con la gente che è tornata dalle vacanze, si è ricominciati ad andare a lavoro e si sono riaperte le scuole, oltre a migliaia di persone sui mezzi pubblici. "Tutto questo ha contribuito a far esplodere questa seconda fase, io la chiamo 'epidemiologia a cluster' che ha portato quel grande numero di persone ad essere infettate". Lo studio riporta come i risultati dell'analisi dei cluster indicano il mantenimento delle trasmissioni a livello locale promosse da catene di trasmissione relativamente piccole durante i mesi in cui sono stati segnalati pochi casi e fino all'inizio della seconda ondata. Questa osservazione suggerisce che la recrudescenza dell'epidemia è stata associata ad un allentamento delle misure di blocco che ha portato ad una maggiore trasmissione locale rispetto al numero di reintroduzioni del virus nel Paese. Questo scenario è supportato anche da indagini che mostrano una significativa riduzione del numero di turisti stranieri (circa -65,9%), ma un aumento, seppur modesto (+1,1%), del turismo interno durante la stagione estiva dopo l'allentamento delle restrizioni ai viaggi interregionali.
Il cambiamento del virus. Ma si può dire che la nostra seconda ondata sia dovuta anche a piccole mutazioni del virus nostrano? "Si, con i nostri modelli matematici abbiamo proprio scoperto questo: è partita da questi serbatoi nascosti. È come se avessi un grande camino dove ho acceso un fuoco che poi è finito lasciando tanta cenere, ma sotto la cenere c'era ancora un po' di brace di cui non ci siamo accorti e, se si rimette il legno sopra, il fuoco riparte. Sono questi i serbatoi nascosti", ci ha spiegato Ciccozzi. Nello studio viene sottolineato come la mutazione D614G è stata associata ad una "maggiore infettività e trasmissibilità ma senza effetti sugli esiti di gravità della malattia sebbene alcuni di questi risultati siano stati recentemente messi in dubbio": di fatto, non si sa con certezza se queste piccole mutazioni abbiano anche inciso, o no, sulla mortalità degli ultimi mesi. Differenze tra prima e seconda ondata. Mentre la prima ondata epidemica in Italia è stata causata delle introduzioni del virus dall'esterno che ha portato grandi cluster di trasmissione in concomitanza con un elevato numero di infezioni, la seconda è dovuta a quei serbatoi nascosti di cui abbiamo parlato prima. "ll nostro modello matematico basato su agenti ricapitola questo fenomeno, supportando ulteriormente l'ipotesi che i piccoli cluster osservati durante l'estate si sono fusi in seguito all'aumento della mobilità e alla riduzione delle misure di allontanamento sociale che, a sua volta, ha fornito la 'scintilla' per l'improvviso aumento delle infezioni osservato alla fine dell'estate portanto alla successiva seconda ondata di crescita esponenziale", riporta lo studio italiano.
Vaccino a rischio? Milioni di dosi di vaccino stanno per essere smistate in Europa e Stati Uniti ma la preoccupazione, adesso, è che quanto fatto finora possa crollare come un castello di sabbia se queste varianti avranno la meglio. Sarà davvero così? "No, la proteina Spike che è stata fatta per i vaccini è estremamente conservata. Vale sia per queste 13 varianti e dovrebbe valere anche per quella inglese, che stiamo monitorando e sorvegliando", rassicura il prof.Ciccozzi. L'unica cosa da fare, in attesa di vaccinarci, è mantenere invariato il nostro stile di vita fatto di distanziamento, mascherine e tutto quanto fin'adesso. "Purtroppo ci accompagneranno ancora per un bel po' fino a quando questo virus non farà altre mutazioni che lo faranno adattare a noi ed al nostro sistema immunitario perché la maggior parte di queste sono indotte dal sistema immunitario. Queste mutazioni, con il vaccino che arriverà a breve, ci faranno vincere questa battaglia", conclude l'epidemiologo.
· Il Coronavirus. L’origine del Virus.
Il Cigno Infetto. Diego Martone l'11 marzo 2020 su Il Giornale. Abbiamo familiarizzato con il concetto del Cigno Nero che ha reso Nassim Nicholas Taleb celebre dopo l’attentato alle Torri Gemelle. Ebbene nel caso del Corona Virus Covid-19 l’autore afferma che non ci troviamo di fonte al Cigno Nero, ovvero all’inaspettato, che una volta verificatosi trova una spiegazione “razionale” a tutti evidenti (ma retroattivamente) e cambia in modo irreversibile il comportamento degli uomini. Perchè afferma questo? Perchè la comunità scientifica da alcuni anni descriveva un possibile contagio mondiale, da oggi (11/3/20) ufficialmente diventato Pandemia. E allora chiamiamolo Cigno Infetto. Un evento che seppur previsto e forse in qualche misura prevedibile nella sua evoluzione di questi mesi, una volta che si è innestato, diviene un cambio di paradigma nel vivere quotidiano. Mi spingo oltre: siamo alla fine della società dei consumi e si entra nella nuova società dei limiti. L’idea che sta emergendo è quella infatti di un profondo cambiamento nella percezione di alcuni importanti elementi:
il nostro prossimo può essere un rischio: la distanza diviene un elemento di sicurezza, la vicinanza di pericolo;
il digitale diviene il mondo “sicuro”: al di là dei virus che possono colpire i nostri file, la salute non è immediatamente intaccabile;
l’asimmetria nelle misure di sicurezza costituisce più di un’assenza di coordinamento: l’impegno di molti può essere vanificato dall’indifferenza di pochi (siano essi stati che persone);
le fonti autorevoli e la professionalità tornano alla ribalta quali elementi strategici per affrontare le emergenze.
Oltre a queste riflessioni (che non pretendono di essere esaustive) si intravvede una quotidianità futura profondamente mutata, con quella che ho definito come la nuova società dei limiti. Il senso è presto detto: attraversare il futuro non sarà più vivere pensando solo di consumare risorse, rapporti, distanze e giornate con soluzioni a quasi tutto, soprattutto in relazione alle proprie disponibilità economiche. Attraversare il futuro significherà invece immergersi in una realtà che farà i conti con limiti di risorse (energetiche e alimentari su tutti), rapporti (con valutazioni di rischi collegati alla salute e alla dinamica distanza/vicinanza), distanze (viaggi di medio e lunga gittata) e giornate (con una nuova redistribuzione del tempo anche in relazione alle nuove abitudini collegate allo smart working). La sfida che inizia negli anni venti assomiglia (ma in modo amplificato) a quanto accadde all’inizio degli anni zero, quando un attentato terroristico minò per sempre delle certezze che parevano immutabili e introdusse una serie di novità che ora diamo quasi per scontate e che scoloriscono le vecchie abitudini (si pensi solo ai controlli prima di prendere un aereo). D’ora in avanti, per esempio, oltre al metal detector avremo per sempre un health detector?
Dalla rassegna stampa di ''Epr Comunicazione'' il 22 dicembre 2020. Dal pangolino ai pipistrelli, ai controversi esperimenti di laboratorio, "Le Monde" ha cercato di rintracciare le origini dell'epidemia, responsabile di oltre un milione e mezzo di morti in tutto il mondo. Animali esotici in gabbia, "mercati umidi" cinesi: all'inizio del 2020, immagini impressionanti viaggiano in tutto il mondo e imprimono nella mente delle persone il probabile sfondo della nascita del Covid-19. Un pangolino malato, un pipistrello di passaggio, una ricombinazione di due coronavirus e un affollato mercato, dove uomini e animali vivono fianco a fianco nella promiscuità: a Wuhan, si ritiene che questo cocktail esplosivo abbia prodotto un virus formidabile e straordinariamente ben adattato alla specie umana, la SARS-CoV-2, responsabile di oltre un milione e mezzo di morti e della più grave crisi sanitaria mondiale da oltre un secolo. Ma a quasi un anno di distanza, questo scenario appare sempre più fragile, se non obsoleto. A mano a mano che le spiegazioni fornite già nel mese di febbraio sono scosse da nuovi dati, le autorità cinesi avanzano ipotesi giudicate molto improbabili dagli esperti. In particolare, l'idea di una contaminazione importata dall'estero in Cina attraverso prodotti surgelati viene suggerita, o addirittura promossa dall'autunno da media statali. Così come un possibile arrivo della malattia in Cina attraverso i Giochi Militari Mondiali, organizzati nell'ottobre 2019 a Wuhan. Alcuni media ufficiali cinesi hanno anche diffuso sui social media, all'inizio di settembre, un video che evoca «200 misteriosi laboratori di biosicurezza messi in atto dall'esercito americano in tutto il mondo», probabilmente hanno lasciato sfuggire il nuovo coronavirus. Manovre che rispondono alle provocazioni di Donald Trump, il quale ha assicurato a più riprese, senza dettagliarle, di avere prove del coinvolgimento di un laboratorio cinese nella diffusione della malattia. Cosa sappiamo con certezza? “Attualmente, i lavori di filogenetica, condotti sulla storia evolutiva del SARS-Cov-2 nell'ambito del progetto collaborativo Nextstrain, indicano che il virus che circola oggi in tutti i continenti è originario di un ceppo apparso in Asia, molto probabilmente nella regione di Wuhan, probabilmente nel novembre 2019”, dice la genetista Virginie Courtier (CNRS), ricercatrice presso l'Istituto Jacques-Monod. Ad oggi, sembra essere accertato che il serbatoio naturale del nuovo coronavirus è una specie di pipistrello il cui raggio d'azione copre la Cina meridionale o l'India. Ma il possibile ospite intermedio - l'animale che si ritiene abbia agito come "trampolino di lancio" biologico per l'uomo - non si trova da nessuna parte. Nulla oggi incrimina il pangolino o qualsiasi altra specie... Per quanto riguarda il mercato di Wuhan, anche se può aver avuto un ruolo nella diffusione del virus, non è più considerato a priori come il punto di partenza dell'epidemia.
Esperti internazionali cooptati da Pechino. La questione del passaggio dalla SARS-CoV-2 all'uomo rimane aperta. "Ad oggi, tutte le ipotesi sono ammissibili per spiegare la comparsa del nuovo coronavirus", dice il virologo belga Etienne Decroly (CNRS). "Che si tratti di trasmissione all'uomo attraverso meccanismi naturali di trasferimento e adattamento, o di un incidente di laboratorio. È assolutamente necessario riuscire a disfarsi della cospirazione che la circonda, in modo che si possa esaminare scientificamente ciascuno degli elementi in questione, senza pregiudizi." Un esame condotto dall'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS). All'inizio di dicembre, l'istituzione delle Nazioni Unite ha annunciato la costituzione di un gruppo di una decina di esperti internazionali incaricati di indagare sull'emergenza della malattia. Composto da specialisti di sanità pubblica, virologi, epidemiologi e zoologi, il gruppo deve partire per la Cina a breve per lavorare sul campo. Ma più il tempo passa, più le probabilità di trovare qualcosa diminuiscono. "Arrivare sul posto quasi un anno dopo l'inizio dell'epidemia riduce notevolmente le possibilità di trovare risposte", spiega un ex quadro dell'OMS. "Tanto più che è illusorio cercare il paziente zero di una malattia di cui buona parte dei casi sono contagiosi pur essendo asintomatici." Non sarà l'unico ostacolo. Secondo le informazioni del New York Times, le autorità cinesi hanno negoziato i termini dell'inchiesta con l'organizzazione delle Nazioni Unite, a scapito dell'indipendenza della perizia. Non solo gli esperti - anche se stimati - sono stati cooptati da Pechino ma, secondo i documenti citati dal quotidiano americano e che Le Monde ha potuto consultare, il loro lavoro «si baserà (...) sulle informazioni esistenti e completerà, piuttosto che duplicare, gli sforzi in corso o esistenti». Non saranno quindi giustificati a riprodurre le analisi di alcuni dati, ma a volte dovranno accontentarsi di lavori già condotti sotto l'egida di Pechino. Non è la prima volta che l'OMS ingoia un rospo. A metà febbraio, la prima missione internazionale inviata dall'organizzazione delle Nazioni Unite, composta da esperti cinesi e stranieri, non era inizialmente nemmeno autorizzata a recarsi nell'Hubei. Solo tre membri occidentali della missione avevano finalmente potuto trascorrere qualche ora nella regione, alla periferia di Wuhan, senza poter effettivamente indagare.
Il mercato, un probabile amplificatore. Molto rapidamente dopo l'inizio dell'epidemia, alcuni ricercatori cinesi pubblicano dati epidemiologici nella letteratura scientifica internazionale. Un giro di forza. Il 29 gennaio, il team di George Gao, scienziato di fama mondiale e capo del Centro per il controllo e la prevenzione delle malattie (CDC) cinese, pubblica sul New England Journal of Medicine un primo studio di vasta portata, che raccoglie i primi 426 casi umani della nuova polmonite atipica. Di questi circa 400 pazienti, più della metà erano legati al mercato. Cifre che sembrano suggerire un ruolo maggiore di quest'ultimo ma, come hanno presto notato numerosi osservatori, quattro dei primi cinque casi registrati, anteriori alla metà di dicembre, non frequentavano il famoso mercato. E oggi, nelle sue rare dichiarazioni pubbliche, George Gao relativizza il ruolo del mercato nell'epidemia, che potrebbe essere stato un amplificatore della nuova malattia piuttosto che il suo punto di partenza. Quanto alle analisi effettuate su campioni prelevati dai banchi, esse non sono ancora state oggetto di pubblicazioni nella letteratura scientifica. Il 22 gennaio, secondo le prime informazioni divulgate dal CDC cinese, «nonostante una campagna di test intensivi, nessun animale del mercato è stato finora identificato come possibile fonte di infezione». Il CDC precisava inoltre che «15 campioni ambientali raccolti nell'ala ovest del mercato sono stati controllati positivamente [alla SARS-Cov-2] mediante test RT-PCR e analisi di sequenze genetiche». In un primo tempo non sono stati forniti dettagli sulla natura di tali campioni. Dati più precisi sul mercato di Wuhan - una vasta area con più di 650 bancarelle e quasi 1.200 dipendenti - sono stati forniti all'OMS solo alcune settimane dopo dalle autorità cinesi. Una dozzina di venditori di animali selvatici vivi erano presenti al mercato alla fine di dicembre, secondo una nota di luglio dell'organizzazione delle Nazioni Unite. Essi "commerciavano in particolare scoiattoli, volpi, procioni, cinghiali, salamandre giganti, ricci e cervi sika". Al mercato si commerciavano anche animali da fattoria, sia selvatici che domestici, "compresi serpenti, rane, quaglie, ratti del bambù, conigli, coccodrilli e tassi". Non si parla di pipistrelli o pangolini. E su oltre 330 campioni raccolti da diversi animali presenti sul mercato, nessuno è risultato positivo alla SARS-CoV-2. Lo stesso promemoria assicura che su quasi 850 campioni raccolti dalle fognature, circa 60 sono risultati positivi. Non è possibile sapere con certezza se questi effluenti provengano dall'uomo o dagli animali. In ogni caso, finora non c'è nulla che permetta di identificare le specie animali presenti sul mercato che potrebbero aver contaminato chiatte o dipendenti. Questa assenza è un vero e proprio rompicapo. Durante l'epidemia di SARS-CoV-1 del 2002, la specie sospettata di aver agito da intermediario tra i pipistrelli e l'uomo – la civetta delle palme - è stata identificata nel giro di pochi mesi. Analogamente, tracce di MERS-CoV (il coronavirus responsabile di diverse centinaia di casi di polmonite grave nella penisola arabica) sono state rilevate sui cammelli già nella primavera del 2013, mentre il primo caso umano è stato rilevato solo nell'autunno precedente. In questo caso non è possibile rilevare il SARS-Cov-2 in nessun animale. Ora, secondo la teoria dominante (e contestata da alcuni) dello «straripamento zoonotico» (zoonotic spillover), l'introduzione di una malattia virale in una popolazione di animali che condividono determinate caratteristiche con l'uomo e che vivono a contatto con l'uomo favorisce il superamento della barriera di specie e la trasmissibilità tra gli esseri umani. Qui, nessuna intensa circolazione del nuovo coronavirus nella fauna o negli allevamenti ha potuto essere messa in evidenza finora - ad eccezione di quelli contaminati da esseri umani, come i visoni d'allevamento in Europa.
Il pangolino, colpevole ideale. Questo vuoto doveva solo essere colmato. "Quando tutti si aspettano che ci sia un ospite intermedio, il minimo indizio, anche molto fragile, che finalmente è stato trovato è suscettibile di provocare l'eccitazione", dice Roger Frutos, ricercatore (CIRAD) e specialista in ecologia dei virus. "È esattamente quello che è successo con questa storia del pangolino: è esplosa. Tutti hanno iniziato a ripetere che avevamo finalmente trovato questo ospite intermedio, e qualcosa di probabilmente sbagliato è diventata certezza". Il 7 febbraio, prima di qualsiasi pubblicazione scientifica formale, la South China Agricultural University di Guangzhou ha annunciato in una conferenza stampa di aver trovato sequenze del gene del coronavirus su pangolini simili al 99% a quelle della SARS-CoV-2. La scoperta di uno zibetto infetto potrebbe rappresentare un imbarazzo per Pechino, poiché le autorità cinesi si sono impegnate, dopo l'epidemia di SARS-CoV-1, a controllare l'allevamento di questi piccoli carnivori, che sono in grado di trasferire rapidamente i virus all'uomo. L'annuncio è stato trasmesso - in modo interrogativo - dalla rivista Nature. Qualche giorno dopo, tre squadre cinesi postano sul sito di prepubblicazione biorxiv e sottopongono a prestigiose riviste - Current Biology, PLOS Pathogens, Nature - analisi di sequenze genetiche prelevate da pangolini malati: sono stati rilevati coronavirus che condividono analogie con il SARS-Cov-2. In particolare, la proteina Spike (o spicola) dei coronavirus rilevati su questi strani animali assomiglia molto a quella del nuovo coronavirus umano. Ben presto, l'eco dato a queste scoperte supera di gran lunga la loro reale portata. Mentre gli articoli di ricerca pubblicati qualche settimana dopo sono molto prudenti nell'interpretazione di questi risultati e non pretendono di aver scoperto il colpevole, l'idea che si potrebbe finalmente aver trovato l'ospite intermedio si è già diffusa ad alta velocità. Nei media, ma anche nella letteratura scientifica. Portati dal prestigio delle riviste che li pubblicano, i tre studi chiave sull'argomento sono menzionati complessivamente più di 400 volte nelle settimane successive alla loro pubblicazione. Un tasso di citazione considerevole. Nella ricerca del trampolino biologico grazie al quale il SARS-Cov-2 avrebbe potuto transitare dal pipistrello all'essere umano, il Pangolin è ormai il colpevole ideale. “Queste speculazioni si basano su analisi bioinformatiche, in particolare a partire da sequenze genetiche già presenti nelle banche dati”, protesta Roger Frutos. “Il modo in cui sono stati comunicati questi studi ha lasciato intendere che si sono appena scoperti elementi nuovi. La realtà è che queste analisi sono state fatte su pangolini provenienti dalla Malesia, sequestrati molto tempo fa dalle dogane, a quasi mille chilometri da Wuhan! Questi pangolini non sono mai entrati in Cina.” Inoltre, questi tre studi chiave sono tutti basati sugli stessi prelievi, effettuati sulla stessa partita di pangolini sequestrati tra marzo e luglio 2019 dai doganieri del Guangdong. E questo senza che la provenienza dei dati utilizzati sia sempre chiaramente precisata dai ricercatori, come hanno notato due biologi, Alina Chan (Broad Institute, MIT) e Shing Hei Zhan (università della Columbia Britannica) in una prepubblicazione. E senza che i dati grezzi fossero resi pubblici. Interrogate, le riviste Nature e PLOS Pathogens affermano di rivedere gli studi che hanno pubblicato sull'argomento, per rispondere alle domande sollevate.
Un errore di segnalazione. Il dibattito è vivace. Il virologo Edward Holmes (Università di Sydney), autore di un quarto studio pubblicato a marzo, sempre su Nature, ritiene che "il sospetto che le sequenze siano false non è solo stupido ma anche offensivo". Per il biologo australiano, la quasi identità di alcune sequenze di coronavirus pangolino con quelle della SARS-CoV-2 rende il piccolo mammifero candidato al ruolo di intermediario. “Tanto più che anche altri di questi pangolini, sequestrati dalla dogana di Guangxi, sembrano essere stati contaminati. Inoltre – ricorda - la prima pubblicazione su questo coronavirus pangolino "risale a prima della pandemia". "Oggi, tuttavia", ci assicura Etienne Decroly, "la maggior parte degli specialisti ritiene che il pangolino non sia probabilmente l'ospite intermedio" della SARS-CoV-2. "La situazione più probabile per favorire il passaggio di un virus pipistrello all'uomo è quando c'è una circolazione prolungata e perenne dell'agente patogeno in un ospite intermedio", spiega il virologo francese Meriadeg Le Gouil (Università di Caen), specialista in patogeni chirotteriani e la loro circolazione. "In genere, questo è ciò che abbiamo visto con il virus Nipah in Malesia negli anni '90. Gli allevamenti di maiali sono stati allestiti in piantagioni di mango frequentate da pipistrelli portatori del virus. I maiali erano cronicamente esposti a escrementi di pipistrello, e dopo alcuni anni sono comparsi casi di Nipah negli esseri umani." “È difficile prevedere una tale configurazione nel caso del piccolo mammifero in scala e del pipistrello in questione", aggiunge Frutos. "La specie di pangolino in questione vive nelle foreste del Sudest asiatico e la sua estensione geografica non si sovrappone nemmeno a quella della specie di pipistrello che porta il cugino più vicino della SARS-CoV-2", spiega il ricercatore francese. I veterinari malesiani volevano scoprirlo con certezza: hanno esaminato campioni prelevati da 334 pangolini sequestrati dalla loro dogana tra agosto 2009 e marzo 2019 e non hanno trovato alcuna traccia di coronavirus. Il loro lavoro, pubblicato a novembre sulla rivista EcoHealth, suggerisce che i pangolini potrebbero essere stati contaminati sporadicamente, forse dall'uomo, durante il trasporto in cattività. Di conseguenza, la SARS-CoV-2 non si trova da nessuna parte in natura. Ma l'assenza di prove non è una prova di assenza: identificare formalmente gli ospiti naturali di un virus può essere molto più complicato che cercare un ago in un pagliaio.
La storia dimenticata dei minatori del Mojiang. Prima di procedere, è necessario fare un passo indietro. Il 25 aprile 2012 un uomo di 42 anni è ricoverato all'ospedale di Kunming, la grande città della provincia dello Yunnan, a circa 1.500 km a sud-ovest di Wuhan. È soggetto a tosse persistente da due settimane, soffre di febbre alta e soprattutto di un'insufficienza respiratoria che si aggrava. Il giorno successivo, altri tre pazienti, di età compresa tra i 32 e i 63 anni, con sintomi simili, sono ammessi nello stesso istituto. Il giorno dopo, un uomo di 45 anni vi è a sua volta ricoverato. Un sesto, 30 anni, li raggiunge una settimana più tardi. Tutti condividono più o meno gli stessi sintomi di polmonite grave. Le loro scansioni toraciche indicano un danno bilaterale ai polmoni, con opacità di vetro smerigliato, che oggi sono riconosciute come relativamente caratteristiche del Covid-19, anche se non specifiche. Tre di loro mostrano segni di trombosi, un'ostruzione dei vasi lì ancora abbastanza tipico delle complicazioni di Covid-19. Tutti hanno in comune il fatto di aver lavorato in una miniera abbandonata a Tongguan, nel canton Mojiang. Una miniera popolata da diverse colonie di Romulani - detti «pipistrelli ferro di cavallo» - dove i sei uomini hanno trascorso fino a due settimane a raschiare le gallerie del guano dei mammiferi volanti. Tre di loro muoiono in ospedale, dopo rispettivamente dodici, quarantotto e centonove giorni di ricovero. I due più giovani ne sopravvivono dopo un soggiorno di meno di una settimana, mentre un altro, di 46 anni, uscirà dall'ospedale di Kunming solo quattro mesi dopo il suo ricovero. Nella primavera del 2020, la storia dimenticata dei minatori di Mojiang riemerge sui social network. Su Twitter, un account anonimo trova una tesi di master, pubblicata sulla piattaforma ufficiale cinese per la pubblicazione di tesi di laurea - tesi e master. Il testo, scritto in cinese da un certo Li Xu, fornisce una grande quantità di dettagli sulla malattia dei sei uomini. Era ben noto ed era stato brevemente riportato dalla stampa scientifica: alla fine di marzo 2014, la rivista Science aveva riportato la storia, menzionando la scoperta, sui ratti che vivevano nella stessa miniera, di un nuovo paramixovirus (MojV), un virus di una famiglia diversa dai coronavirus. Ma fino ad allora non era stata pubblicata alcuna descrizione precisa dei sei casi clinici nella letteratura scientifica internazionale. E nella primavera del 2020, quando la tesi di Li Xu sarà diffusa sui social network, la somiglianza tra i sintomi dei sei minatori di Mojiang e quelli di Covid-19 è di grande interesse per alcuni scienziati. In particolare, due microbiologi indiani, Monali Rahalkar (Agharkar Research Institute) e Rahul Bahulikar (BAIF Research Foundation), analizzeranno la tesi di laurea, che sarà pubblicata in ottobre sulla rivista Frontiers in Public Health. La malattia dei minatori di Mojiang, dicono, potrebbe fornire "importanti indizi sulle origini della CoV-2 SARS". Quale legame può esserci tra la malattia dei minatori di Mojiang nel 2012 e Covid-19? Come potrebbe un salto nel tempo di quasi un decennio, con una deviazione di 1.500 km, far luce sulle origini del nuovo coronavirus? Una storia degna di un giallo.
Un nuovo virus... e il suo gemello.
Il 23 gennaio, i ricercatori del Wuhan Institute of Virology (WIV) hanno pubblicato un articolo intitolato "Scoperta di un nuovo coronavirus associato alla recente epidemia di polmonite negli esseri umani e alla sua potenziale origine nei pipistrelli" su un sito di pre-pubblicazione. Essi presentano il virus geneticamente più vicino alla SARS-CoV-2, che chiamano "RaTG13", e pubblicano il genoma del nuovo arrivato, che è il 96,2% identico al virus responsabile di Covid-19. L'unica informazione sull'origine del RaTG13 è che è stato rilevato nella provincia dello Yunnan su un pipistrello a ferro di cavallo della specie Rhinolophus affinis. La vicinanza genetica tra i due virus indica che la SARS-CoV-2 deriva da un coronavirus del rinolophus. Ma dove è stato raccolto esattamente il RaTG13? In quale contesto? I ricercatori della WIV non specificano. "Alcuni di noi sono rimasti sorpresi dalla mancanza di informazioni fornite dagli autori su un virus la cui origine è così cruciale per comprendere l'origine dell'epidemia!" dice Etienne Decroly. Tuttavia, con alcuni emendamenti, lo studio è stato accettato dalla rivista Nature, che lo ha pubblicato il 3 febbraio. Senza ulteriori dettagli sulle circostanze della scoperta di questo nuovo coronavirus.
Sei settimane dopo la pubblicazione dei ricercatori della WIV, Rossana Segreto, biologa dell'Università di Innsbruck (Austria), sta cercando corrispondenze tra il genoma del nuovo arrivato e altre sequenze genetiche pubblicate su GenBank, il principale database pubblico di sequenze genetiche. Sorpresa: scopre che RaTG13 ha un gemello.
Il 16 marzo la biologa austriaca ha pubblicato un breve commento su un forum di virologia, spiegando che un piccolo pezzo di genoma, a lungo presente nel database, corrispondeva esattamente a una parte del RaTG13. Il gemello, all'epoca chiamato "RaBtCoV/4991", era stato pubblicato dai ricercatori della WIV sulla rivista Virologica Sinica nel 2016. Questo avveniva quattro anni prima di essere presentato al mondo sotto un altro nome. La pubblicazione afferma che proviene da una campagna di campionamento effettuata nel 2013 in una miniera in disuso nel Mojiang Township. Dove, nel 2012, i sei minatori si erano ammalati. Tuttavia, ricorda un ricercatore francese che ha lavorato con i virologi di Wuhan, il team del WIV non è l'unico in Cina ad essersi interessato alla miniera di Mojiang: anche un laboratorio di Pechino ha inviato lì i suoi cacciatori di virus per raccogliere e portare campioni.
A luglio, in un'intervista alla rivista Science, il virologo Shi Zhengli, responsabile del laboratorio di alta sicurezza P4 del WIV, mette fine agli interrogatori. Ha confermato che il RaTG13 era RaBtCoV/4991, preso da un pipistrello a ferro di cavallo nella miniera in disuso dello Yunnan. Ciò non significa tuttavia che il problema sia stato completamente risolto. In un'altra intervista con Scientific American, la virologa di Wuhan afferma che la polmonite nei minatori di Mojiang è stata causata da un'infezione fungina. Monali Rahalkar e Rahul Bahulikar non sono convinti da questa spiegazione: "Le memorie di Li Xu concludono che la polmonite dei minatori è stata causata da un virus di pipistrello di tipo SARS-CoV", scrivono.
Una conclusione tanto più credibile ai loro occhi in quanto il lavoro dello studente specifica che la diagnosi era stata fatta da uno dei più rinomati pneumologi cinesi, Zhong Nanshan, che è stato consultato per l'occasione dai medici dello Yunnan e oggi chiamato ad assistere le autorità di Pechino nella gestione di Covid-19. Soprattutto, una tesi di dottorato citata dai due ricercatori indiani - realizzata sotto la direzione di George Gao e difesa nel 2016 - ripercorre brevemente la storia dei minatori di Mojiang, assicurando che quattro di loro avevano anticorpi neutralizzanti (IgG) contro la SARS di tipo coronavirus.
Nove tipi di coronavirus della SARS. Tuttavia, è attualmente impossibile determinare con certezza le cause della malattia di Mojiang. "Contrarre un coronavirus del pipistrello in tali condizioni può non essere impossibile, ma sembra improbabile", dice Meriadeg Le Gouil. "Si tratta di virus fragili, che persistono solo per un tempo molto breve nel guano." Il dubbio persiste. "La coincidenza tra la malattia del 2012 tra i minatori di Mojiang, le successive campagne di campionamento e la scoperta del più vicino virus del SARS-Cov-2 in questa stessa miniera giustificano un'indagine più approfondita”, scrivono i due ricercatori indiani. "Ottenere i dati, così come la storia completa di questo incidente, sarebbe inestimabile nel contesto della pandemia attuale." Pressati dalle domande, i ricercatori del WIV cominciarono a rispondere. Su richiesta della rivista Nature, il 17 novembre, più di nove mesi dopo la pubblicazione della prima edizione, hanno pubblicato un chiarimento sulle condizioni in cui è stato raccolto il RaTG13. Dopo l'incidente dei minatori di Mojiang, hanno scritto: "sospettavamo un'infezione virale". “Tra il 2012 e il 2015, il nostro gruppo ha campionato i pipistrelli una o due volte l'anno in questa grotta e ha raccolto un totale di 1.322 campioni", hanno continuato. "In questi campioni abbiamo rilevato 293 coronavirus molto diversi tra loro, di cui 284 classificati come alfa-coronavirus e 9 come beta-coronavirus (...), questi ultimi tutti correlati a coronavirus di tipo SARS." È uno di questi nove virus, hanno aggiunto i ricercatori della WIV, che è stato rinominato RaTG13 per riflettere le specie da cui è stato raccolto (Rhinolophus affinis), la città di raccolta (Tongguan) e l'anno di raccolta, il 2013. I ricercatori osservano che il RaTG13 sarebbe stato completamente sequenziato nel 2018. Per quanto riguarda i minatori, il laboratorio di Wuhan avrebbe ricevuto 13 campioni di sangue da quattro di loro, tra luglio e ottobre 2012. Secondo loro, non è stata rilevata alcuna traccia della SARS, un'affermazione che contraddice la tesi del 2016 supervisionata da George Gao, che Le Monde ha potuto consultare. I ricercatori di Wuhan specificano anche che hanno ripetuto le loro analisi nel 2020, su campioni conservati dopo l'incidente, con lo stesso risultato: nessuna infezione virale di tipo SARS. Tuttavia, la precisione pubblicata dai ricercatori del WIV suscita la sorpresa di alcuni loro pari. “Ci sono quindi in questo laboratorio virologico altri otto coronavirus non pubblicati di tipo SARS, raccolti in questa miniera”, esclama Etienne Decroly. “Salvo errore, nessuno lo sapeva!” Questo apre una nuova domanda che diversi scienziati intervistati da Le Monde si pongono: dove sono le sequenze virali inedite della WIV? "Nell'ultimo decennio, centinaia, persino migliaia di sequenze di agenti patogeni della fauna selvatica sono state raccolte, ma non necessariamente pubblicate", dice la biologa molecolare Alina Chan (Broad Institute, MIT). "Ad esempio, abbiamo appreso che il RaTG13 è stato sequenziato nel 2017 e nel 2018, ma non è stato pubblicato fino al 2020. Dove sono state memorizzate queste sequenze negli ultimi anni? Era solo su un database privato del WIV?".
Un database mancante. A maggio, un account Twitter, anonimo e da allora cancellato, può fornire un elemento di risposta. Questo fugace sconosciuto pubblica un link ad una pagina web archiviata che descrive un database compilato nel 2019 dai ricercatori del WIV. La pagina in questione è un breve articolo dei virologi di Wuhan, originariamente pubblicato sul sito web della rivista China Science Data (Csdata.org), da cui sembra essere stato rimosso. I virologi di Wuhan spiegano che il loro database include "campioni e dati sui patogeni virali accumulati dal [loro] gruppo di ricerca per un lungo periodo di tempo 'aggiunti' ai dati pubblicati dalle autorità internazionali”. In totale sono elencati 22.257 campioni. L'autenticità del breve articolo non è in dubbio: è identificato da un DOI (digital object identifier), un identificatore unico associato ad ogni testo pubblicato su una rivista scientifica. I DOI sono emessi da un'organizzazione internazionale, la International DOI Foundation (IDF), che mantiene la directory di riferimento che associa ciascuno di questi identificatori alla posizione Web dell'articolo corrispondente. Una ricerca in questa directory indica che l'identificativo dell'articolo (10.11922/csdata.2019.0018.zh) è stato effettivamente registrato e che indica una pagina del sito web China Science Data che non può essere trovata. Non solo l'articolo in questione è scomparso, ma i due URL su cui si suppone si trovi il database sono vuoti. Il presidente del comitato di redazione della rivista è stato contattato e non ha risposto alle nostre richieste, così come i ricercatori della WIV. La mancata segnalazione dell'episodio di Mojiang da parte del Wuhan Institute, la chiusura offline del suo database senza spiegazioni, il rifiuto di divulgare i quaderni di laboratorio dei suoi ricercatori e le analisi contraddittorie sulla malattia dei minatori: tutto questo alimenta le domande di alcuni scienziati. Tra i numerosi ricercatori interrogati da Le Monde sulla loro convinzione circa l'origine della SARS-CoV-2, la maggioranza ritiene tuttavia che un "evento zoonotico" rimanga l'ipotesi più probabile. "È possibile, ad esempio, che il virus sia stato trasmesso agli esseri umani ben prima del novembre 2019 e che abbia circolato tranquillamente nella popolazione senza essere notato", spiega la genetista Virginie Courtier. "Avrebbe potuto adattarsi agli esseri umani e diventare più virulento dopo una mutazione naturale che si è verificata a Wuhan nel novembre 2019. In ogni caso, sembra improbabile che sia stato sintetizzato in laboratorio perché le sue sequenze genetiche non si trovano nei database disponibili." Insomma, è difficile costruire un gioco Lego se non si hanno i pezzi...
Un capolavoro intrigante. Molte teorie fantasiose e affermazioni non verificabili su una presunta costruzione del virus si sono propagate dall'inizio della pandemia. In Francia, il premio Nobel Luc Montagnier ha persino sostenuto, sulla base di una pubblicazione preliminare che è stata poi ritratta, che la SARS-CoV-2 portava con sé sequenze di HIV inserite intenzionalmente. Negli Stati Uniti, un ricercatore cinese di Hong Kong, Li-Meng Yan, ha anche aumentato la speculazione e gli interventi mediatici, con il supporto dei parenti di Donald Trump, assicurando, ad esempio, che il nuovo coronavirus era stato deliberatamente sintetizzato per essere un'arma biologica. Tuttavia, dice Etienne Decroly, "sebbene gli studi filogenetici escludano l'inserimento di frammenti di HIV nella SARS-CoV-2, l'idea che la pandemia possa essere il risultato di un incidente di laboratorio non può essere respinta e deve essere presa seriamente in considerazione". Marion Koopman (Università Erasmus di Rotterdam), membro del gruppo di esperti dell'OMS, non dice altro che: "Tutto è sul tavolo", ha dichiarato alla fine di novembre alla rivista Nature. Perché il nuovo coronavirus sta infiammando ogni sorta di teoria? In parte perché si distingue per una caratteristica di grande interesse per gli scienziati e per la quale c'è un consenso generale sulla realtà. Una delle proteine dell'involucro del virus, chiamata "Spike", ha una notevole affinità per il recettore ACE2 sulla superficie delle cellule umane. Si attacca facilmente ad esso. "Dobbiamo pensare a questa proteina come a una chiave e al recettore cellulare come a un lucchetto", dice Bruno Canard, ricercatore (CNRS) dell'Università di Aix-Marseille e specialista in coronavirus. Nel caso della SARS-CoV-2, la chiave virale si inserisce perfettamente nella serratura cellulare umana. Ma è dotato di una sorta di fermo di sicurezza che gli impedisce di girare e quindi di sbloccare la porta della cella. "In questo virus, la chiusura di sicurezza può essere spezzata da una proteina umana chiamata ‘furino’. Chiamiamo questa funzione "sito di scissione del furino"", spiega il virologo. “Il furino fa scattare il fermo di sicurezza, in modo che la chiave possa girare nella serratura.” L'infettività del virus, la sua capacità di attaccare organi diversi e di infettare una varietà di specie, è in particolare conferita da questo famoso sito di scissione dei furini (SCF), che Etienne Decroly e i ricercatori del team "Repliche virali: struttura, meccanismo e drug-design", dell'Università di Aix-Marseille, sono stati i primi a dettagliare. Questo CFS è una caratteristica unica: nessun altro virus conosciuto di tipo SARS ce l'ha. Molti scienziati vedono in questa singolarità solo un effetto evolutivo: al di fuori della famiglia dei tipi di SARS, altri virus hanno questo tipo di chiave master. Altri ricercatori, in minoranza, non esitano a proporre ipotesi alternative, alcune delle quali sono state pubblicate su riviste scientifiche, suggerendo che le caratteristiche della SARS-CoV-2 e il suo adattamento all'uomo possono essere il risultato dei cosiddetti esperimenti di "guadagno di funzione" e di un incidente di laboratorio. Pubblicato alla fine di agosto dalla rivista BioEssays, un articolo di due biologi americani, Karl e Dan Sirotkin, che discutono in questa direzione, è da alcune settimane l'articolo più consultato sul sito web della rivista. "Questo articolo di Sirotkin è un'ipotesi", avverte il microbiologo e immunologo Arturo Casadevall, professore alla Johns-Hopkins University. "Non ho problemi a pubblicare ipotesi scientifiche, ma non sono convinto dalle loro argomentazioni."
Scenari di fantascienza... realistici. Questi esperimenti di "guadagno di funzione " consistono nel forzare l'evoluzione di un virus ripetendo le infezioni su animali da laboratorio, o colture cellulari. Tali esperimenti sono stati condotti in collaborazione con la WIV e pubblicati, ad esempio, nel novembre 2015 sulla rivista Nature Medicine. Il loro obiettivo è quello di comprendere meglio la natura delle modificazioni molecolari che aumentano la trasmissibilità e la patogenicità dei virus, e persino la loro capacità di superare la barriera delle specie. L'interesse è reale, ma lo sono anche i rischi. Tale lavoro è stato al centro di un intenso dibattito all'interno della comunità scientifica nei primi mesi del 2010; è stato oggetto di una moratoria tra il 2014 e il 2017, a seguito della pubblicazione di un controverso lavoro sui virus influenzali con potenziale pandemico, descritto dalla stampa come "Frankenvirus". Tra gli esperimenti simili a cui la WIV ha partecipato, alcuni hanno ricevuto finanziamenti dal National Institutes of Health (NIH) degli Stati Uniti. Le Monde ha richiesto l'accesso alla loro documentazione in materia all'NIH ai sensi della legge sull'accesso ai documenti amministrativi. Il NIH si è rifiutato, sostenendo che era in corso un'indagine. L'errore di manipolazione e l'uscita di un agente patogeno dal laboratorio non sono solo scenari di fantascienza, ricorda Etienne Decroly. “Nei mesi e negli anni successivi all'epidemia dovuta al SARS-Cov, il virus è uscito quattro volte da diversi laboratori dove era stato studiato”, spiega il ricercatore. “Ogni volta la catena di contaminazione ha potuto essere interrotta, ma questo virus era più facilmente controllabile.” Il fatto è inoltre poco noto al pubblico, ma esistono precedenti. In particolare, la pandemia di influenza A (H1N1) del 1977 è stata causata da un errore di manipolazione umana, come concorda l'intera comunità scientifica competente. Rimane un dibattito sulla natura dell'errore in questione (fuga accidentale da un laboratorio, test vaccinale fallito...) ma il genoma del virus di tipo H1N1 che circolava quell'anno, identico a quello che circolava decenni prima, non lascia alcun dubbio sul fatto che aveva trascorso molto tempo nel congelatore di un laboratorio - unico meccanismo che potrebbe aver interrotto il ritmo delle mutazioni genetiche. Il genoma del SARS-Cov-2 contiene informazioni sufficienti per risolvere la questione? “Il virus è verosimilmente un mosaico di diversi frammenti genetici aventi origini diverse, come i nostri genomi, che sono un mosaico di entrambi i nostri genitori: questo aspetto moltiplica evidentemente l'indagine sulle sue origini”, spiega il biologo Guillaume Achaz, professore all'Università di Parigi e specialista di dinamica dei genomi e di evoluzione molecolare. “Esistono mezzi per analizzare i tassi di diversi tipi di mutazioni verificatesi in una regione del genoma, e si potrebbe così vedere se la parte del genoma del SARS-Cov-2 che ha permesso la trasmissione all'uomo ha subito una pressione di selezione più forte del previsto. Con un piccolo gruppo di altri scienziati, cercheremo di trovare i mezzi materiali e umani per lavorare seriamente sulla questione.” Secondo il signor Achaz, un anno di lavoro fornirebbe le prime indicazioni. "Non riusciremo mai a trovare una prova definitiva, ma avremo almeno una sorta di indice di singolarità", dice.
Un esperto designato dall'OMS in conflitto di interessi. Nel frattempo, nonostante la mancanza di prove, il dibattito nella comunità accademica è sempre più acceso. "Sono stupito dalle posizioni autorevoli che alcuni colleghi stanno assumendo, affettando questa polemica in un modo o nell'altro", dice Bruno Canard. "A volte vedo colleghi a livelli molto alti, per i quali nutro un grande rispetto, che forgiano le loro opinioni senza guardare veramente i temi, senza essersi presi il tempo di leggere la letteratura." Tra le prime dichiarazioni chiare che hanno contribuito a formare l'opinione scientifica fin dall'inizio della crisi c'è stato un editoriale pubblicato il 19 febbraio dalla prestigiosa rivista The Lancet. Ventisette eminenti scienziati si sono fatti carico della causa contro la cospirazione prevalente intorno alle possibili origini della SARS-CoV-2. "Siamo determinati a condannare con forza le teorie cospirative che suggeriscono che Covid-19 non ha un'origine naturale", scrivono. "Gli scienziati di diversi paesi hanno pubblicato e analizzato i genomi dell'agente causale, la SARS-CoV-2, e concludono in modo schiacciante che questo coronavirus ha origine da animali selvatici come molti altri agenti patogeni emergenti." Il ricercatore designato come primo autore e «autore corrispondente» (corrispondeing author, in inglese) - che si suppone abbia redatto la prima versione del testo, secondo le regole dell'edizione scientifica - è il microbiologico Charles Calisher, Professore emerito alla Colorado State University. Ma, secondo le corrispondenze ottenute dall'ONG US Right to Know (USRTK), in virtù della legge americana sull'accesso ai dati, il testo in questione è stato in realtà redatto dallo zoologo Peter Daszak, che appare solo più avanti nell'ordine degli autori (gli anglosassoni parlano di authorship). Peter Daszak ha redatto il primo progetto del testo e lo ha portato alla pubblicazione, conferma Mr. Calisher, in un'e-mail Le Monde. “Gli autori sono stati elencati alfabeticamente. Peter, e non io, è l'‘autore corrispondente’.” Tuttavia, Daszak presenta un conflitto di interessi: è presidente dell'ONG EcoHealth Alliance, ed è anche uno stretto collaboratore degli scienziati della WIV, con i quali ha pubblicato una ventina di studi negli ultimi 15 anni. L'ONG da lui presieduta beneficia anche di sovvenzioni dell'American National Institutes of Health (NIH), che gli permettono di finanziare il lavoro dei laboratori all'estero, e in particolare quello della WIV, sui coronavirus dei pipistrelli. Nonostante gli stretti legami con l'Istituto Wuhan, il signor Daszak - che non ha risposto alle nostre richieste - è membro del gruppo di esperti dell'OMS che indaga sull'origine della SARS-CoV-2 e della commissione istituita da The Lancet per lavorare su questo tema. Una situazione che irrita alcuni scienziati. Tanto più che i legami del sig. Daszak con la WIV non sono sempre dichiarati. Il Lancet's op-ed del 19 febbraio pubblicato sul Lancet menzionava che i ventisette firmatari non avevano alcun conflitto di interessi. Come la maggior parte di loro, il signor Calisher, erroneamente identificato come l'autore principale del testo, non aveva alcun conflitto di interessi. Ma ha compreso il testo come la maggior parte dei suoi lettori? Quando gli è stato chiesto se oggi avrebbe firmato la stessa dichiarazione, ha risposto in modo sorprendente: "Sì, la firmerei. Non ho visto alcuna prova che confermi definitivamente l'origine del virus, in una direzione o nell'altra.”
Bruno Vespa e la figuraccia sul pipistrello. Mediaset il 21 dicembre 2020. La gaffe di Bruno Vespa che si è fatto correggere da un bambino di 13 anni durante il programma "Da noi, a ruota libera" è diventata virale. Galeotto fu un pipistrello, che il giornalista inserisce erroneamente tra gli uccelli, beccandosi la lezione dal ragazzino esperto di ornitologia.
«I pipistrelli sono mammiferi, non uccelli», 13enne corregge Bruno Vespa. Ansa il 21 dicembre 2020. «I pipistrelli sono mammiferi, non uccelli», 13enne corregge Bruno Vespa Il giovane ornitologo Francesco Barberini «riprende» il giornalista in diretta Tv.
Michela Tamburrino per “La Stampa” il 22 dicembre 2020. Una tenuta del video temprata dalla consuetudine e la facilità di linguaggio da consumato oratore. Con questa grinta che non lascia spazio all'improvvisazione, Francesco Barberini ha corretto uno sfondone di Bruno Vespa sui pipistrelli, scappato nel corso della trasmissione domenicale Da noi... a ruota libera. E Bruno Vespa non solo non ha avuto niente da ridire, anzi, ha sorriso benevolo e si è congratulato. Sarà perché Francesco Barberini ha pubblicato cinque libri scientifici sull'argomento e dunque è un'autorità in materia. Sarà soprattutto perché Barberini ha 13 anni, frequenta la terza media, ha i capelli lunghi trattenuti in una coda e la voce ancora infantile. Quando apre bocca è lapidario, un pozzo di scienza in tema uccelli e animali considerati scomparsi come i dinosauri, passione nella passione.
Francesco, dove vivi?
«Sono nato a Perugia ma abito ad Acquapendente, in campagna. Condizione perfetta per fare birdwatching».
Altra passione?
«Sì, al servizio dell'ornitologia. Durante il lockdown ho rivalutato il mio territorio, ho trovato 110 specie diverse di uccelli solo nel mio giardino. E poi questo prolungato isolamento ci ha fatto riflettere sullo sviluppo positivo delle attività umane più silenziose».
Perciò niente sport rumorosi comuni tra i tuoi coetanei, niente calcio?
«No, ma pratico il karate. Sono un ragazzo come tutti gli altri. Ho solo passioni forse differenti dagli altri».
Ti sei imbarazzato nel correggere Bruno Vespa?
«Non ho pensato che stavo correggendo Vespa. Il mio lavoro è divulgare. I pipistrelli sono mammiferi e se sento dire che sono uccelli non posso tacere».
Sei figlio unico, hai amici?
«Certo che ho degli amici, studio con loro, pratico sport e non parlo delle mie passioni per non creare disagio».
Andrai molto bene a scuola no?
«Mi piace studiare e vado bene anche perché così mi posso permettere delle assenze durante l'anno per viaggiare e fare conferenze».
Conferenze?
«Da quando avevo 7 anni vado a parlare dei miei studi. Nelle università e nelle scuole, agli adulti e anche ai ragazzi. Con i miei coetanei diventano delle chiacchierate. Spiego che i dinosauri non sono come li descrive Jurassic Park. Invece erano coloratissimi, piumati e molto intelligenti. E che alla caduta dell'asteroide non sopravvissero le specie più forti ma quelle che sapevano adattarsi meglio. La pandemia ci ha fatto capire che siamo vulnerabili e che la salvezza sta nell'essere un tutt'uno con l'ambiente».
Ma quando è nata la passione per i dinosauri e affini?
«A due anni e mezzo. Ero nel lettone con mamma e papà e guardavo in tv un documentario sul popolo migratore. Così mi sono innamorato degli uccelli. Ho imparato a leggere e a scrivere prima di andare a scuola proprio per soddisfare la mia curiosità».
Da grande che vuoi fare, lo studioso o il divulgatore?
«Voglio continuare a fare quello che faccio ora. Essere scienziato sul campo è affascinante, ti porta a scoperte importanti. Divulgare è altrettanto utile. Noi divulgatori aiutiamo gli scienziati a far capire quello che è giusto la gente sappia. Ne parlavo con Piero Angela, al quale mi unisce la passione scientifica».
L'ornitologo di 13 anni che ha corretto Vespa: "I pipistrelli sono mammiferi, ma non volevo rimproverarlo". Viola Giannoli su La Repubblica il 22 dicembre 2020. "Non mi sono mai specializzato sui pipistrelli, però che siano mammiferi lo sanno tutti. Ma la precisazione a Bruno Vespa non è stato un rimprovero, ma una frase di istinto". Francesco Barberini ha 13 anni, ma parla come un divulgatore scientifico d'esperienza. Voce e faccia da ragazzino, "come tutti gli altri" ripete spesso, ma già una carriera fatta di passione, studio, conferenze nelle scuole e nelle università e cinque libri. L'ultimo, edito da Salani e da poco in libreria, si intitola "Che fine hanno fatto i dinosauri?". Due giorni fa nella trasmissione "Da noi...a ruota libera" ha rettificato una imprecisione di Bruno Vespa che aveva definito i pistrelli uccelli, anziché mammiferi.
Insomma Francesco, non ti sei intimidito a correggere Vespa in diretta tv?
"Il mio lavoro è la divulgazione scientifica, cioè cercare di far capire e trasmettere informazioni giuste nel campo della scienza. In quel momento non ho pensato che avevo Vespa davanti e quindi ho solo, tranquillamente, cercato di spiegare una verità. Sono abituato a stare in pubblico e il mio non è stato un rimprovero. Vespa ha sorriso, non si è nemmeno arrabbiato...".
Dopo i dinosauri, ora sono i pipistrelli la tua passione?
"In verità non li ho mai studiati in maniera approfondita. Ma mi piace la natura in generale e sono molto curioso quindi quando trovo una informazione cerco di assimilarla. E poi il fatto che i pipistrelli siano mammiferi non è una scoperta!".
Come è nata la tua passione per la natura?
"La prima passione sono stati gli uccelli. Quando avevo due anni e mezzo, ero nel lettone con mamma e papà, e ho visto un film documentario che si intitola "Il popolo migratore": mi ha aperto gli occhi su un mondo nuovo. Poi, fin da piccolissimo, ho avuto una passione anche per i dinosauri come tanti bambini della mia stessa età. Volevo sapere sempre più cose e col tempo, facendomi leggere libri e storie dai miei genitori, ho capito che molte informazioni che pensiamo di avere non sono vere e ce ne sono molte altre che non sappiamo. Ma queste non sono due passioni differenti, perché come scrivo nel mio libro i dinosauri sono ancora tra noi e sono proprio gli uccelli".
Quanto tempo dedichi ai tuoi interessi?
"Sono un ragazzo come gli altri, vado a scuola, ho degli amici, faccio karate. Poi il tempo libero lo dedico all'approfondimento e al birdwatching che per me non è un'attività da fare ogni tanto ma uno stile di vita: se sono in camera mia e passa un uccello, corro alla finestra per cercare di identificarlo".
Che vuoi fare da grande?
"Mi piacerebbe continuare quel che faccio già ora nel campo dell’ornitologia. Ci sono modi diversi di fare scienziato: da campo, da laboratorio. E poi c’è anche il divulgatore scientifico che è una figura molto importante. Le scoperte scientifiche non arrivano presto alla conoscenza di tutte le persone e invece a me piacerebbe raccontarle e trasmetterle. Non è semplice: bisogna conoscere bene un argomento, avere la passione per assimilare le informazioni, trarre le conclusioni e spiegarle in maniera semplice ma scientifica. Senza passione non si va da nessuna parte: per questo invito sempre le persone, adulti e ragazzi, a coltivarla".
Hai un mito a cui ti ispiri?
"Ammiro molto Piero Angela. Ci siamo conosciuti, ormai possiamo dire che siamo amici".
Con il Covid, le limitazioni ai viaggi e alla scoperta, la tua vita e la tua attività sono cambiate?
"Al netto di tutto il male e il dolore, questo periodo ci è servito per farci riflettere. Siamo vulnerabili, come gli animali dipendiamo da altri esseri viventi, non siamo padroni della terra. In natura non vince l'animale più forte ma quello che si sa adattare meglio. A me sono mancate le lezioni in presenza ma ho continuato a fare conferenze online. E mi sono mancati i viaggi che ti aprono la mente. Però è stata anche l'occasione per riscoprire le aree verdi e le passeggiate vicino casa che magari snobbavamo ma sono importanti dal punto di vista della biodiversità. Per rispettare la natura bisogna viverla".
DAGONEWS l'1 aprile 2020. Un documentario che mostra un ricercatore cinese che cattura pipistrelli all’intero di una grotta alimenta una delle tante teorie cospirazioniste secondo la quale il coronavirus ha avuto origine nel laboratorio di Wuhan ed è dunque una creazione umana. Al momento non è ancora chiara la fonte esatta del virus anche se gli scienziati credono abbia avuto origine in pipistrelli e pangolini. Le autorità sanitarie cinesi hanno in precedenza affermato che probabilmente gli esseri umani hanno contratto l'agente patogeno dagli animali venduti in un mercato di Wuhan, ma al momento non c’è certezza. Ecco perché il video di sette minuti con Tian Junhua, riaccende gli animi di chi vede la mano dell’uomo nella nascita e nella diffusione del virus. Le immagini, prodotte da “China Science Communication”, sono state pubblicate a dicembre, poche settimane prima dell'epidemia a Wuhan. Tian, 40enne padre di due figli e tecnico al CDC di Wuhan, trascorre giorni interminabili in caverne umide e buie per catturare pipistrelli: «Lavoro nel campo della raccolta e della classificazione di campioni di virus. Tra tutte le creature conosciute, i pipistrelli portano vari virus. Si possono trovare la maggior parte dei virus responsabili di malattie umane in loro. Mentre lavoro sento la paura delle infezioni e la paura di perdersi. A causa della paura, faccio ogni passo con estrema cautela. Più mi sento spaventato, più eseguo ogni dettaglio con cura. Perché il processo con cui trovi i virus e il modo in cui sei esposto è facile». Il ricercatore ha visitato dozzine di grotte nell'Hubei e ha studiato più di 300 vettori di virus negli ultimi 10 anni circa. «Spero che questi campioni di virus vengano conservati solo per la ricerca scientifica e che non verranno mai utilizzati nella vita reale». Ed è questa affermazione a scatenare le speculazioni sull’origine del virus. Un articolo del Washington Times afferma che il documentario mostra che Tian e i suoi colleghi "sono impegnati nella manipolazione casuale di pipistrelli contenenti virus mortali", citando un rapporto dello Wuhan Evening News nel 2017, in cui si raccontava come Tian una volta fosse entrato in contatto con l'urina di pipistrello dopo aver dimenticato di indossare una tuta protettiva. Dopo il fatto l’uomo si mise in auto-quarantena per 14 giorni, ma l’evento viene collegato all’epidemia di SARS-CoV-2. Un anonimo politico americano di cui il Washington Time non rivela il nome, ha espresso le sue preoccupazioni: «Tian vive e lavora al CDC di Wuhan, a poche centinaia di metri dal mercato di Huanan. Fa parte del piccolo team di Wuhan che negli ultimi anni ha contribuito all'ossessione della Cina per la ricerca e la ricerca di virus». È l’ultima teoria sulla nascita del virus dopo quella che vuole che il Covid-19 sia “scappato” al Wuhan Institute of Virology. Teorie alimentate dallo scetticismo sul governo cinese e sulla trasparenza con cui hanno trattato e dato le informazioni sulla pandemia. Ma c’è anche chi lega la creazione del virus agli Stati Uniti e chi sostiene che il virus sia stato portato a Wuhan dall’esercito americano. Fino a quando i ricercatori navigheranno a vista, ci sarà sempre terreno fertile per una nuova tesi complottista.
Mara Magistroni per "wired.it" il 29 maggio 2020. Quando e dove è avvenuto lo spillover, il salto di specie, del nuovo coronavirus Sars-Cov-2? A cavallo tra dicembre 2019 e gennaio 2020 al mercato del pesce di Wuhan, verrebbe da rispondere. Se questa finora era considerata l’ipotesi più probabile, ora anche i Centers for Disease Control and Prevention cinesi (Ccdc) dichiarano di nutrire seri dubbi: non ci sono prove (anzi), anche se è comunque probabile che il wet market sia stato il primo punto di super diffusione del patogeno.
Il wet market è stato una vittima. Dopo la segnalazione dello scoppio dell’epidemia all’Organizzazione mondiale della sanità (31 dicembre), il mercato di Huanan è stato chiuso dal primo gennaio. Sono partite le indagini ma oggi si scopre che nessun campione prelevato dal wet market è risultato positivo al coronavirus. Insomma lì non c’erano animali (né pipistrelli né pangolini o altro) infetti. Pertanto lo spillover non può essere avvenuto qui: il mercato del pesce di Wuhan, ha dichiarato al Wall Street Journal il direttore dei Ccdc Gao Fu, è stata una vittima del coronavirus.
Discrepanze. Dei dubbi, d’altra parte, c’erano stati fin da subito. Molte delle prime persone a cui è stata diagnosticata la misteriosa polmonite (che poi abbiamo purtroppo imparato a conoscere come Covid-19) avevano avuto forti legami con il mercato di Huanan, ma alcuni non c’entravano proprio nulla. Lo aveva già sottolineato una ricerca pubblicata a gennaio su Lancet, che non era riuscita a collegare al mercato del pesce di Wuhan 13 dei 41 casi originari e che dunque proponeva che il paziente zero si fosse contagiato altrove all’inizio di dicembre mostrando i sintomi dopo circa una settimana. E un altro studio lo aveva ribadito su Nature ad aprile. Il South China Morning Post, che riferisce di aver esaminato i documenti governativi, anticipa ulteriormente lo spillover: il paziente zero (forse un uomo di 55 anni della provincia di Hubei, ma l’identità non è confermata) si sarebbe infettato il 17 novembre 2019.
Super diffusione. Alla luce dei nuovi dati, secondo gli esperti è più probabile che il wet market di Wuhan sia stato il primo luogo in cui Sars-Cov-2 ha trovato le condizioni ottimali (tanta gente che interagisce in spazi stretti) per diffondersi in modo massiccio, dove una persona malata ha infettato (involontariamente, è ovvio) un numero stranamente molto alto di persone.
Allora il virus è uscito da un laboratorio? Non c’è dubbio che qualcuno utilizzerà queste informazioni per ribadire che il nuovo coronavirus sia scappato dal Wuhan Institute of Virology. Ma non c’è nessuna prova a sostegno di questa teoria: dall’istituto confermano di non aver mai posseduto un coronavirus con quel genoma e di attuare rigidissime misure di sicurezza per evitare incidenti. Ricordando che ricercatori sia cinesi sia occidentali hanno escluso l’origine sintetica di Sars-Cov-2 sulla base dell’analisi delle sequenze, non resta che continuare a cercare tra i coronavirus dei pipistrelli asiatici.
Covid-19 naturale o da laboratorio? Il mistero che divide gli esperti. Il mistero sull'origine del virus fa discutere gli esperti. Il dubbio della fuga dal laboratorio di Wuhan. Ma la maggior parte degli scienziati concorda sulla provenienza naturale. Francesca Bernasconi, Martedì 12/05/2020 su Il Giornale. Da dove arriva il nuovo coronavirus? La colpa è del pipistrello o dell'uomo? È intorno a queste domande che si è sviluppato il mistero sull'origine del Covid-19, che ha colpito oltre 4 milioni di persone in tutto il mondo. Quasi tutti gli scienziati sono concordi nel ritenere che il virus abbia un'origine naturale, ma qualche voce fuori dal coro c'è, anche se la possibilità di una creazione in laboratorio sembra infondata. Tra le due posizioni, prende posto anche una "via di mezzo": il virus naturale potrebbe essere uscito da un laboratorio.
I dubbi sull'origine del Covid-19. In questi mesi sono tre le teorie su cui hanno dibattuto virologi e scienziati, circa l'origine del Covid-19. L'ipotesi più accreditata è che si tratti di un virus presente nei pipistrelli e che abbia fatto il "salto di specie", probabilmente grazie ad un animale "untore" intermedio. Sotto la lente di ingrandimento era finito il pangolino, un piccolo mammifero squamato, considerato portatore del Sars-CoV-2. Ma uno studio su Nature aveva sottolineato la somiglianza al 96% tra il nuovo virus e quello trovato in una grotta di pipistrelli in Cina. Il virus in questione, però, non avrebbe le capacità per infettare l'uomo. Per questo, è possibile che l'antenato del Sars-CoV-2 si sia separato dalla famiglia di quello del pipistrello tra i 40 e i 70 anni fa, passando ad altri animali, a conferma della provenienza naturale. Una seconda teoria, invece, sostiene che il nuovo coronavirus sia frutto di una creazione da laboratorio. E nell'occhio del ciclone è finito, fin dall'inizio della pandemia, il l Wuhan National Biosafety Laboratory, dove vengono studiati diversi agenti patogeni. C'è anche chi sostiene la possibilità di una via di mezzo: un virus naturale potrebbe essere uscito dal laboratorio a causa di una falla nella sicurezza.
"Il virus è stato manipolato". "Dico una cosa che farà arrabbiare qualcuno: se il virus perde forza vuol dire che è artificiale". L'ultima dichiarazione circa l'origine del nuovo coronavirus arriva dal presidente della Regione Veneto, Luca Zaia, che ieri ha spiegato: "Un virus non perde forza con questa velocità, se perde forza allora probabilmente potrebbe essere di natura artificiale. Si è scritto tanto di questo virus, se se ne va tanto velocemente secondo me c'è qualcosa di mezzo di artificiale". Nel corso di un punto stampa in diretta su Facebook, Zaia ha specificato: "Non lo dico io, ma sono scenari del mondo scientifico", ha riferito il governatore, citando Luc Montagnier, premio Nobel per la Medicina nel 2008, che "ha sequenziato il virus e quello del pipistrello per il 98% ha la sequenza giusta, poi ha delle microsequenze che sono una copia di quello dell'Aids". Infatti, ad aprile 2020, Montagnier aveva dichiarato, parlando all'emittente francese C News: "Siamo arrivati alla conclusione che c'è stata una manipolazione su questo virus, per una parte, non dico per la totalità". Secondo il premio Nobel, al nuovo coronavirus, che arriva dal pipistrello "hanno aggiunto delle sequenze di Hiv, il virus dell'Aids. Non è un processo naturale, è un lavoro di biologi molecolari molto minuzioso, un lavoro da orologiaio". Ma, se fosse vero, quale sarebbe lo scopo degli scienziati che hanno creato il Sars-CoV-2? A detta di Montagnier, "l'obiettivo non è chiaro, non accuso nessuno", ma una delle possibilità "è che forse hanno voluto fare, chi sia stato non si sa, un vaccino contro l'Aids. Dunque, hanno preso delle piccole sequenze di virus e le hanno installate nella sequenza più grande del coronavirus". Questa teoria, in realtà, è stata smentita dalla maggior parte degli esperti, che la ritengono infondata, sostenendo che il Sars-CoV-2 sia arrivato all'uomo da un animale. Inoltre, negli ultimi anni, Montagnier non è nuovo alla presa di posizioni controverse in ambito scientifico, dall'opposizione all'uso dei vaccini, all'utilizzo terapeutico della papaya, fino alla convinzione che per curare l'Hiv servano migliori misure igieniche e un corretto schema nutrizionale.
Il laboratorio di Wuhan. Anche se non si tratta di un virus artificiale, il Covid-19 potrebbe comunque essere il risultato di un errore di laboratorio. Per questo, fin da subito era finito sotto i riflettori l'Istituto di virologia di Wuhan, un centro di massima sicurezza in cui vengono studiati i virus più pericolosi, quelli cioè per cui non esiste ancora un vaccino. Come aveva ricordato il Corriere della Sera, il laboratorio era stato creato con l'appoggio della Francia dopo le epidemie della Sars e dell'Aviaria, nei primi anni Duemila. Il laboratorio venne completato nel 2015, ma nessuno dei 50 ricercatori francesi che avrebbero dovuto affiancare i cinesi sono mai partiti. Il laboratorio di Wuhan deve garantire un livello di biosicurezza P4, cioè il più elevato, data la presenza di patogeni pericolosi. A gettare nuovi dubbi sul laboratorio di Wuhan, sospettato già dall'inizio della pandemia, è stato il segretario Usa Mike Pompeo, che ha rivelato di possedere "prove enormi a sostegno della teoria secondo cui il coronavirus abbia avuto origine in un laboratorio di virologia di Wuhan, non in un vicino mercato di animali selvatici". Della stessa idea era anche il presidente americano Donald Trump, che aveva parlato di "prove" sull'ipotesi della fuga dal laboratorio. Ma anche su questo punto, sono diversi i pareri contrari arrivate da virologi e tecnici. "Dal nostro punto di vista, questo rimane speculativo- ha dichiarato il capo delle emergenze dell'Organizzazione mondiale della sanità (Oms), Michael Ryan, rispondendo a Pompeo-Ma come qualsiasi organizzazione che si basa su prove, saremmo pronti a ricevere qualsiasi informazione sull'origine del virus". Stando a quanto si sa fino ad ora, però, sembra che il virus sia di origine animale: "C'è un legame con i pipistrelli- ha detto Maria Van Kerkhove, responsabile tecnico dell'Oms per la lotta al coronavirus- Questo succede per molti di questi patogeni zoonotici". "Altamente improbabile" l'incidente da laboratorio anche per le Five Eyes, i servizi di intelligence dei Paesi anglofoni, secondo quanto riporta la Cnn. "Crediamo sia altamente improbabile che si sia trattato di un incidente", avrebbero dichiarato alla Cnn dei funzionari della diplomazia occidentale a conoscenza dei dati di una valutazione dell'intelligence. "È altamente probabile che sia avvenuto per via naturale e che l'infezione che ha colpito gli esseri umani venisse da una interazione in natura tra esseri umani e animali". Tuttavia, secondo una terza fonte citata dalla Cnn ci sarebbe ancora la possibilità che il Sars-CoV-2 sia stato creato in laboratorio. Lo stesso Istituto di virologia di Wuhan si è difeso dalle accuse, rivendicando l'elevato livello di sicurezza della struttura. "Abbiamo adottato una serie di misure per garantire che nessun virus possa uscire dal nostro laboratorio", ha detto Yuan Zhiming, direttore del Laboratorio nazionale di biosicurezza di Wuhan.
"Il virus è naturale". La maggior parte degli esperti è convinta che il nuovo coronavirus sia naturale. Lo avevano già dichiarato i maggiori virologi italiani a fine marzo, che si erano trovati d'accordo nell'affermare la provenienza del Covid-19 dal pipistrello. E ora, dopo i nuovi dubbi gettati da Pompeo sulla fuga dal laboratorio, gli scienziati tornano a ribadire la convinzione di un virus completamente naturale, anche se ancora non ci sono certezze. "Non si può escludere in modo totale l'origine artificiale o la perdita per un errore di laboratorio, ma i dati ad oggi disponibili propendono per un'origine naturale del coronavirus Sars-CoV-2", ha sottolineato ad AdnKronos Salute il virologo dell'Università degli Studi di Milano, Fabrizio Pregliasco. Dello stesso parere anche il direttore del Dipartimento malattie infettive dell'Iss, Giovanni Rezza, che ha precisato l'assenza di "evidenze scientifiche" che dimostrino che il Sars-CoV-2 sia uscito da un laboratorio. "Per ora, noi sappiamo che questo virus è molto simile ad un virus che si trova nei pipistrelli quindi pensiamo che l'ipotesi più accreditata sia quella del salto di specie dopodiché se un giorno porteranno delle prove verranno valutate", ha detto Rezza. Anche il virologo della task force della Casa Bianca, Anthony Fauci, ha ribadito l'origine naturale del virus, nonostante le dichiarazioni di Trump e Pompeo: "Se si guarda all'evoluzione del virus nei pipistrelli e a cosa c'è là fuori adesso, le prove scientifiche vanno fortemente nella direzione che il virus non avrebbe potuto essere manipolato artificialmente o intenzionalmente", ha dichiarato Fauci. "L'evoluzione graduale nel tempo indica che il virus si è evoluto nella natura e ha poi fatto il salto di specie", ha aggiunto. "Tutte le prove disponibili suggeriscono che il virus che provoca Covid-19 abbia una fonte zoonotica. E tutte le prove disponibili ad oggi suggeriscono che il virus ha un'origine animale naturale e non è un virus manipolato o costruito in laboratorio", ha ribadito ad Adnkronos Salute un portavoce dell'Ufficio per l'Europa dell'Oms. Per questo, ha aggiunto il portavoce, l'Organizzazione intende lavorare "per identificare la fonte animale del virus", il cosiddetto ospite intermedio, che avrebbe preso il virus dal pipistrello per poi trasmetterlo all'uomo. "Tutte le prove disponibili ad oggi suggeriscono che il virus ha un'origine animale naturale e non è un virus manipolato o costruito- ha concluso Oms Europa- Molti ricercatori sono stati in grado di esaminare le caratteristiche genomiche del virus e hanno scoperto che i dati non supportano il fatto che si tratti di un patogeno di laboratorio". Nonostante la convinzione della maggior parte degli scienziati di una genesi naturale, l'origine del Sars-CoV-2 rimane ancora un mistero, costruito su sospetti di fughe dal laboratorio e creazione artificiale, ipotesi improbabili, ma che non possono essere esclude del tutto. "Francamente - ha precisato l'Alto Rappresentante dell'Ue per gli Affari Esteri Josep Borrell- penso che noi, dall'Europa, dovremmo richiedere un approccio scientifico per capire meglio l'origine e per essere in grado di prevenire la prossima pandemia. Questa non sarà l'ultima".
“Vi spiego quali sono i segreti di un laboratorio”. Francesco Boezi su Inside Over il 10 maggio 2020. Il Covid-19 ha contribuito a far sì che anche i media iniziassero ad occuparsi di laboratori in maniera certosina. Il laboratorio di Wuhan, soprattutto, è divenuto uno dei centri d’interesse del mondo. Tra teorie complottiste ed accuse provenienti pure dalle alte sfere statunitensi – si vedano le dichiarazioni di Donald Trump e quelle di Mike Pompeo – , quel centro studi è stato posto sotto la luce dei riflettori da mesi. Ma come funziona un laboratorio? E come operano quelli italiani? Il professor Tommaso Beccari è un professore di Biochimica della Università degli Studi di Perugia, ma è anche il tesoriere della società internazionale di biotecnologie, cioè l’EBTNA (European Biotechnology Thematic Network Association). Lo abbiamo intervistato per comprendere qualcosa in più sui laboratori e sui loro dintorni.
Professore, si fa un gran parlare dei laboratori. Ma non ne sappiamo molto. Quali sono le caratteristiche essenziali di un laboratorio?
«Le caratteristiche dei laboratori di ricerca dipendono dalla specifica tematica trattata. I laboratori sono dotati di strumenti diversi a seconda della ricerca scientifica. Molti laboratori, tuttavia, hanno apparecchiature in comune. Se si lavora con colture cellulari, per esempio, è necessario allestire un opportuno laboratorio che consente di lavorare in condizioni di sterilità e in sicurezza. Un’attrezzatura più sofisticata e costosa è necessaria invece nel caso si lavori con virus. Come quando si studia il Covid-19».
Che tipi di esperimenti vengono svolti?
«Molti esperimenti sono condotti in vivo, su animali, in particolare su topi su e ratti. In questi casi, l’Università è dotata di uno stabulario, che è comune a tutti i ricercatori, in cui vengono effettuati tutti gli esperimenti. Lo stabulario necessita di personale altamente specializzato. Esistono costi di gestione piuttosto elevati. Le grandi apparecchiature come il microscopio elettronico sono confinate in specifici laboratori. Queste tecnologie vengono utilizzate con l’aiuto di personale specializzato. I ricercatori all’interno dell’Università possono interagire e cooperare mettendo a sistema competenze diverse che sono fondamentali per ottenere risultati scientifici importanti».
Quali sono i rischi legati alla ricerca in laboratorio?
«I principali rischi di un laboratorio possono essere di natura chimica o biologica. Questi rischi possono essere ridotti o del tutto eliminati: devono essere osservate delle opportune norme di sicurezza. Le principali norme di carattere generale da osservare nei laboratori che utilizzano sostanze chimiche e biologiche riguardano sia le persone strutturate, ossia i ricercatori ed il personale tecnico, sia dottorandi di ricerca, sia i borsisti e gli studenti che stanno svolgendo una tesi di natura sperimentale».
E la sicurezza?
«Ogni laboratorio ha un responsabile alla sicurezza che deve verificare lo stato della strumentazione utilizzata. La stessa figura deve controllare che gli operatori, quando necessario, siano dotati degli opportuni mezzi di protezione: occhiali, maschere trasparenti e guanti. Poi bisogna che il personale che frequenta il laboratorio sia al corrente dei rischi relati alle sostanze ed ai campioni che utilizza. Il rischio biologico è principalmente legato all’utilizzo di batteri, virus, lieviti, muffe, parassiti e colture cellulari. Il rischio biologico si può avere anche con l’utilizzo di organismi geneticamente modificati ed animali di laboratorio. Per quanto riguarda le sostanze chimiche, il rischio aumenta se si utilizzano composti radioattivi».
Che cos’è il livello di bio-sicurezza?
«Gli agenti biologici sono stati classificati secondo un criterio di pericolosità in quattro diversi gruppi: 1,2,3, e 4. Al livello 1 appartengono agenti biologici che non costituiscono nessun rischio individuale e collettivo. Al livello 4 appartengono agenti biologici come il Covid19 che presentano un elevato rischio individuale e collettivo. Per la sperimentazione su organismi che appartengono al gruppo 4 è necessario il permesso da parte del Ministero della Sanità. Per la sperimentazione vengono utilizzate opportune cabine di sicurezza microbiologiche (comunemente definite Biohazard ) divise in tre classi: I,II e III. La classe III è utilizzata per patogeni appartenenti ai gruppi 3 e 4. Le cabine di classe III garantiscono protezione totale per l’ambiente e l’operatore. E sono ermeticamente chiuse. Queste cabine sono poco diffuse, ma sono presenti in centri di ricerca altamente specializzati. Ai vari gruppi di rischio devono corrispondere in laboratorio adeguati livelli di sicurezza (Biosafety Level, BSL 1-4). Per la manipolazione di un agente biologico del livello 4, è necessaria un’autorizzazione da parte del Ministero del Lavoro, della Salute e delle Politiche Sociali, su parere dell’lstituto Superiore di Sanità».
In relazione al Covid-19, cosa ci dice sull’ipotesi che sia un virus da laboratorio?
«Partendo dl presupposto che con i progressi fatti dall’ingegneria genetica in questi ultimi anni nulla può essere escluso, sarebbe meglio attenersi solo alle evidenze scientifiche fin qui pubblicate. In particolare, farei riferimento al lavoro pubblicato su Nature Medicine dal prof. Christian Andersen. Poi esiste un lavoro pubblicato in Italia dal dr. Matteo Bertelli. Quello a cui ho partecipato anche io. Entrambi le pubblicazioni giungono alla conclusione, mediante però due approcci scientifici diversi, che la probabilità che il virus Covid-19 sia stato generato in laboratorio è minima. Su questo argomento purtroppo c’è troppa politica. Solo attraverso altri studi scientifici si potrà arrivare a una definitiva conclusione».
Qual è l’incidenza degli incidenti da laboratorio? Accadono spesso o sono rari? Può farci degli esempi?
«Per quanto riguarda questo aspetto, posso parlare della mia esperienza, che riguarda i nostri laboratori di biochimica, biologia molecolare e biologia cellulare. I laboratori della nostra sezione del Dipartimento di Scienze Farmaceutiche, della Università degli Studi di Perugia, sono stati e sono frequentati da un gran numero di studenti in tesi sperimentale. Posso affermare che non si è mai verificato un incidente. I ricercatori ed il personale tecnico universitario conoscono bene i rischi legati al tipo di ricerca svolta. Sanno pure come evitarli. Gli studenti vengono sempre seguiti attentamente durante la fase di apprendimento degli esperimenti che devono effettuare. Posso anche dichiarare che non sono mai venuto a sapere di incidenti avvenuti all’interno del nostro dipartimento».
Qual è lo stato della ricerca italiana? I nostri laboratori funzionano?
«Si può dire che lo stato della ricerca italiana è molto buono. In specie se valutato in termini di numero di pubblicazioni e citazioni scientifiche e tenendo conto degli investimenti pubblici. Questi sono più bassi rispetto ad altri paesi europei. Un punto a sfavore della ricerca italiana è il ridotto utilizzo dei fondi europei. Un fattore che pone la nostra ricerca dietro a numerosi paesi. A questo fine, è necessario che le Università aumentino per numero e qualità il personale dedicato alla presentazioni di progetti europei. Diviene necessario pure un maggiore sforzo da parte dei ricercatori italiani».
Quali sono prospettive per la biotecnologia italiana, anche in relazione al Covid-19?
«Le biotecnologie e lo sviluppo delle sue applicazioni avranno un peso notevole sulla crescita dell’economia nazionale e mondiale, contribuendo al miglioramento della salute pubblica e della protezione dell’ambiente. Le biotecnologie in ambito farmaceutico e sanitario possono portare allo sviluppo di farmaci avanzati, terapie, vaccini e nuovi metodi diagnostici. Si tratta di un settore su cui è necessario investire moltissimo. Dipende anche dal sinergismo fra pubblico e privato. L’industria biotecnologica in Italia continua a crescere, come dimostrano gli indicatori economici, ma non cresce come quella di altri paesi. l maggior investimento è quello in campo biomedico seguito da quello industriale ed ambientale. In minore misura, si investe in quello agricolo e veterinario».
C’è un buon raccordo con le università?
«Credo che le Università possano giocare in Italia un ruolo fondamentale nello sviluppo delle biotecnologie. Ora come ora, esistono numerosi corsi di laurea in biotecnologie in tutte le università italiane. Molti di questi corsi sono anche in lingua inglese. Il che può richiamare studenti talentuosi da paesi stranieri. Mi sembra necessario che lo Stato aiuti con incentivi economici. Serve anche meno burocrazia. Penso ai giovani laureati che intendono creare una piccola azienda biotecnologica. Il Covid-19 ha mostrato che la biotecnologia italiana è in prima linea per cercare di sviluppare strategie terapeutiche. Allo stesso tempo, il Covid-19 ha dimostrato quanto è importante per un paese investire in conoscenza ed in innovazione».
Chi sono (e cosa fanno) i cacciatori di Coronavirus. Roberto Vivaldelli su Inside Over il 29 aprile 2020. Dobbiamo temere nuove epidemie da coronavirus? L’allarme è stato lanciato nei giorni scorsi dagli scienziati di Predict. Come riporta Business Insider, negli ultimi dieci anni Predict ha studiato le caverne, le feci, gli organi e l’habitat di più di 15 mila pipistrelli, arrivando a trovare più di 500 coronavirus sino a prima sconosciuti, cinque dei quali potrebbero, nei prossimi anni, fare il salto di specie e arrivare all’uomo. Le ricerche sino ad ora si concentrano in Sud Est Asiatico, Cina e Kenya. Ma come operano questi questi “cacciatori di virus”? Come racconta la Cnn in un reportage, prima di entrare nella grotta, il piccolo gruppo di scienziati indossa indumenti ignifughi, maschere per il viso e guanti spessi per coprire ogni centimetro della loro pelle. Il contatto con escrementi di pipistrello o urina potrebbe esporli ad alcuni dei virus più letali sconosciuti del mondo. Dotati di fari, posizionano le reti all’ingresso della caverne. Da lì attendono il tramonto, quando migliaia di pipistrelli volano fuori dalle grotte, in cerca di cibo, e finiscono direttamente nelle loro reti. Gli scienziati raccolgono le reti e mettono con cura i pipistrelli a dormire con un leggero anestetico, prima di estrarre delicatamente il sangue. “Effettuiamo anche tamponi orali e fecali e raccogliamo escrementi”, afferma Peter Daszak di EcoHealth Alliance, una ong americana specializzata nella rilevazione di nuovi virus e prevenzione delle pandemie.
Predict, il progetto di Usaid. EcoHealth Alliance, in realtà, fa parte di una “rete” più grande la cui punta dell’iceberg è Predict, centro di ricerca guidato dall’Università della California Davis, Smithsonian Institution, Wildlife Conservation Society e la società privata californiana Metabiota. Si tratta di un progetto supportato dal governo statunitense che rientra nel programma Emerging Pandemic Threats (Ept) dell’Usaid, l’agenzia del governo americano per l’aiuto alla cooperazione e allo sviluppo, avviato nel 2009 per rafforzare la capacità globale di rilevamento e scoperta di virus con potenziale pandemico. Tra questi, anche i coronavirus. “Predict – si legge sul sito web – ha dato un contributo significativo al rafforzamento della sorveglianza globale e delle capacità diagnostiche sui virus”. Lavorando con partner in oltre 30 Paesi del mondo, Predict “sta continuando a costruire piattaforme per identificare e monitorare i patogeni zoonotici o quelli che possono trasmessi da animali a persone”. Utilizzando l’approccio One Health, il progetto “sta studiando i comportamenti, le pratiche e i fattori ecologici e biologici che determinano la trasmissione e la diffusione delle malattie”. Di recente, una scoperta importante è stata fatta in Birmania, dove opera una squadra appartenente alla Smithsonian Institution. “Finora siamo stati in grado di identificare sei nuovi coronavirus in Myanmar”, afferma Suzan Murray, a capo del Programma di salute globale della Smithsonian Institution. Secondo gli autori della ricerca, non ci sarebbe correlazione né con la Sars né con il Covid-19. “Queste sono aree con una rilevante biodiversità della fauna selvatica, una popolazione umana in crescita che invade l’habitat naturale, una grande quantità di bestiame, elementi che determinano un alto potenziale di diffusione di virus tra le specie”, spiega alla Cnn Dawn Zimmerman, che guida alcune delle spedizioni di campionamento dei virus della Smithsonian Institution.
Predict e il centro di virologia di Wuhan. Secondo il Los Angeles Times, due mesi prima che il Covid-19 scoppiasse a Wuhan, in Cina, l’amministrazione Trump tagliava i finanziamenti a Predict per oltre 200 milioni di dollari. Come riporta la stessa testata americana, Predict ha “formato e supportato il personale di 60 laboratori stranieri, incluso il laboratorio di Wuhan”. Il lavoro sul campo è cessato quando a settembre sono finiti i finanziamenti e le organizzazioni che hanno lavorato al programma hanno licenziato dozzine di scienziati e analisti. Anche a Wuhan, dove tutto ha avuto origine.
Laboratorio Wuhan: “Pure invenzioni contro di noi”. Il Dubbio il 24 maggio 2020. Il laboratorio della citta’ della Cina interna sostiene che sta lavorando su tre ceppi di coronavirus provenienti dai pipistrelli, ma nessuno di questi sarebbe il virus noto come Sars-CoV-2. Il laboratorio di Wuhan, al centro dei sospetti statunitensi sull’origine del coronavirus responsabile dell’attuale pandemia di Covid-19, respinge come “pura invenzione” le accuse mosse nei suoi confronti. Il laboratorio della citta’ della Cina interna sostiene che sta lavorando su tre ceppi di coronavirus provenienti dai pipistrelli, ma nessuno di questi sarebbe il virus noto come Sars-CoV-2. “Il nostro istituto ha ricevuto il primo campione clinico della polmonite sconosciuta il 30 dicembre scorso”, ha dichiarato davanti alle telecamere dell’emittente televisiva statale cinese Cgtn, direttrice del Wuhan Institute of Virology, Wang Yanyi. “Dopo che abbiamo controllato il patogeno all’interno del campione, abbiamo scoperto che conteneva un nuovo coronavirus, che e’ ora chiamato Sars-Cov-2. Non eravamo a conoscenza, ne’ abbiamo mai incontrato o ricercato o tenuto il virus. Infatti come chiunque altro, non sapevamo nemmeno che esistesse. Come avrebbe potuto essere uscito dal nostro laboratorio, quando non lo abbiamo mai avuto?”, ha proseguito l’immunologa. In anni di ricerche con Shi Zhengli, la virologa che ha studiato i coronavirus dai pipistrelli, indicati spesso come i portatori del nuovo coronavirus, ha proseguito la direttrice del laboratorio di Wuhan, “Abbiamo isolato e ottenuto alcuni coronavirus dai pipistrelli. Ora abbiamo tre ceppi vivi. Uno di loro ha la più alta somiglianza, 96%, con il virus della Sars, ma la più alta somiglianza con il Sars-Cov-2 raggiunge solamente il 79,8%”.
Coronavirus, il laboratorio di Wuhan è nato con un accordo con la Francia? Laura Pellegrini il 22/04/2020 su Notizie.it. Il laboratorio cinese di Wuhan è nato grazie a un accordo con la Francia? Emergono ombre e dubbi sul caso: le ipotesi. Scoppia ancora il caso sul laboratorio di Wuhan e sulla sua nascita: spunta anche l’ipotesi di un possibile accordo con la Francia. Soltanto poco tempo prima, i cinesi erano stati accusati di aver lasciato scappare il coronavirus proprio da quel laboratorio, ma l’Oms aveva prontamente smentito questa tesi. In seguito, il Washington Post aveva diffuso un particolare: in merito a un viaggio di alcuni esperti americani, la Casa Bianca era stata avvisata del pericolo, ma non aveva agito in alcun modo. L’allarme Usa era arrivato ben prima dello scoppio dell’epidemia. Ora, in assenza di certezze, si inizia a pensare a un laboratorio nato dall’asse “franco-cinese”. Il Corriere della Sera ha ricostruito e descritto quello che potrebbe essere considerato il legame della Francia nella nascita del laboratorio cinese di Wuhan. Pare infatti che nell’anno in cui scoppiò la Sars (2003) si iniziò a instaurare un legame fra i due Paesi. Un anno dopo, infatti, nel 2004 l’allora leader cinese, Hu Jintao, si avvicina al capo di Stato francese Jacques Chirac: entrambi premono sull’avvicinamento tra Europa e Cina. Nell’accordo tra Parigi e Pechino c’è l’intento di sconfiggere insieme tutte le epidemia emergenti. A tale scopo viene realizzato il laboratorio P4. Grazie a mix di finanziamenti locali e tecnologia e con la collaborazione di esperti francesi, il laboratorio P4 sorge a Wuhan, epicentro del focolaio cinese di coronavirus. Il cantiere termina nel 2015, mentre il laboratorio entra in funzione nel 2018, anno in cui avviene la prima visita del presidente Macron in Cina. Ma perché si scelse proprio Wuhan?Per motivi storici: la cittadina cinese, infatti, nell’Ottocento era sede della concessione francese. Inoltre a quell’epoca ospitava moltissime filiere d’oltralpe, come Renault, Peugeot, L’Oréal ed Eurocopter. Mentre Chirac e Raffarin.
Stefano Montefiori per corriere.it il 21 aprile 2020. «Sono felice di trovarmi a Wuhan, che alcuni chiamano ”la piccola Francia” di Cina, cuore della cooperazione franco-cinese», diceva il primo ministro Bernard Cazeneuve nel 2017, alla fine della presidenza Hollande. L’accordo celebrato in quell’occasione prevedeva l’arrivo a Wuhan di 50 scienziati francesi nell’arco di cinque anni, ma tre anni dopo nessuno è mai entrato nel laboratorio P4 - consegnato praticamente chiavi in mano dai francesi - nella ”piccola Francia” di Cina. Negli ultimi giorni l’attenzione è tornata a concentrarsi sul laboratorio di Wuhan dopo che il Washington Post ha ricordato come nel 2018 il personale dell’ambasciata americana in Cina allertò Washington sulle carenze di sicurezza nel laboratorio. Il segretario di Stato americano Mike Pompeo invoca un’inchiesta, il presidente Emmanuel Macron dice che in Cina «sicuramente sono accadute cose che non sappiamo» e anche la cancelliera Merkel richiama la Cina a una maggiore trasparenza. Per adesso, molte teorie di complotto e nessuna prova sul fatto che il Covid-19 possa essere sfuggito al laboratorio di Wuhan. Le preoccupazioni sulla sicurezza accompagnano il laboratorio di Wuhan dalla nascita, frutto della cooperazione tra Cina e Francia. Nel 2003 la Sars colpisce la Cina e le autorità di Pechino vogliono migliorare la loro capacità di contrasto delle epidemie. Nel 2004 il presidente Hu Jintao trova aiuto nel capo di Stato francese Jacques Chirac e nel suo premier Jean-Jacques Raffarin, grandi fautori di un’apertura europea verso la Cina. I due Paesi decidono di combattere insieme le malattie emergenti, per esempio l’influenza aviaria, e il perno di questa nuova collaborazione è la costruzione in Cina, con finanziamenti locali e tecnologia ed esperti francesi, di un laboratorio P4 per lo studio di virus altamente patogeni, di classe 4 (la più alta per grado di pericolosità). La metropoli della provincia dell’Hubei appare la scelta naturale, perché sede nell’Ottocento della concessione francese e da allora cuore della collaborazione economica franco-cinese: a Wuhan ci sono filiali di marchi francesi come Peugeot, Renault, Eurocopter, L’Oréal, Pernod-Ricard e molti altri. L’idea di affidare alla Cina un laboratorio P4 desta però perplessità presso gli scienziati e gli specialisti al ministero degli Affari esteri. Per ragioni politiche, legate al trasferimento di tecnologie sensibili, e di sicurezza pubblica. «Un laboratorio P4 è come una bomba atomica batteriologica», ha detto una fonte al Figaro. Virus estremamente pericolosi come l’Ebola vengono manipolati e trattati e le misure di sicurezza devono essere seguite alla lettera, secondo procedure talvolta mutuate da quelli in uso nei sommergibili nucleari. Il timore è che, una volta entrato in funzione, il laboratorio di Wuhan possa funzionare al di là di qualsiasi controllo francese. Il cantiere viene terminato nel 2015 e l’entrata in funzione risale al 2018, in occasione della prima visita in Cina del neo-presidente Emmanuel Macron. Ma, come previsto, la collaborazione franco-cinese è durata finché c’era da costruire il P4. Una volta realizzato, i francesi vengono di fatto estromessi dall’attività e dal controllo. I 50 ricercatori francesi previsti dall’accordo non sono mai partiti, e il laboratorio P4 di Wuhan lavora in totale autonomia, senza le verifiche e la tutela francese prevista inizialmente dall’intesa Chirac-Hu Jintao.
Che cos’è il laboratorio di Wuhan e cosa c’entra con il virus. Federico Giuliani su Inside Over the world il 9 aprile 2020. Sulle origini del nuovo coronavirus aleggia ancora una fitta nebbia. La comunità scientifica sostiene che il Covid-19 sia stato provocato da una zoonosi, cioè da un salto di specie. A causa di alcune condizioni ambientali, questo agente patogeno avrebbe abbandonato il proprio “serbatoio”, un animale ancora ignoto, per trasmettersi all’essere umano. Qui il nostro virus si sarebbe adattato all’organismo umano prima di diffondersi nel mondo intero. L’ipotesi poggia su valide fondamenta anche se mancano alcuni pezzi fondamentali del puzzle. Intanto, come accennato, non conosciamo l’identità dell’animale selvatico dal quale sarebbe partito il contagio. Una volta individuato il “colpevole”, sarebbe poi interessante scoprire come il virus è riuscito a penetrare al suo interno ma, soprattutto, accertarsi sulla modalità di trasmissione dal serbatoio all’uomo. Quello che gli scienziati hanno subito escluso è che il Covid-19 possa trattarsi di un’arma batteriologica. No, il virus che ha letteralmente messo in quarantena mezzo mondo (3,9 miliardi di persone) non è stato preparato a tavolino per scatenare il panico. In sottofondo, anche se pochi ricercatori portano avanti una pista del genere, c’è sempre l’ombra del laboratorio di Wuhan.
Il laboratorio misterioso e il mercato. Wuhan è la città cinese epicentro del contagio. Il laboratorio a cui facciamo riferimento è il National Biosafety Laboratory, situato a circa 16 chilometri dal mercato ittico di Huanan, il ground zero dell’epidemia (poi diventata pandemia globale). Come sottolinea Asia Times, il laboratorio è una cellula dell’Istituto di Virologia dell’Accademia cinese delle scienze ed effettua ricerche sui virus che fanno parte della famiglia dei coronavirus. Il mercato, invece, è un vivace bazar che, prima della sua chiusura forzata, vendeva animali, selvatici e non, di ogni tipo: dai serpenti ai procioni, dai cervi agli istrici. Le bestiole erano spesso tenute in gabbie strette e sovraffollate: l’habitat perfetto per consentire la proliferazione di virus e infezioni. Un rapporto intitolato “The Prestige, Sensible Questions on the Wuhan Lab” e pubblicato da Horizon Advisory prova a fare chiarezza: “La coincidenza (la vicinanza tra il mercato epicentro del contagio e il laboratorio ndr) è notevole. Certo, ciò non significa che Covid-19 provenisse dal laboratorio di Wuhan. Ma il silenzio globale su questa coincidenza è emblematica”. La struttura imputata di essere coinvolta nell’epidemia, scrive Asia Times, ha negato ogni accusa: da quelle mura non è uscito, neanche per sbaglio, nessun agente ad alto rischio biologico.
Gli avvertimenti mai ascoltati. In ogni caso del laboratorio conosciamo davvero poco. Sappiamo però che la struttura è autorizzata a lavorare con i patogeni e i batteri più pericolosi del mondo. L’istituto da 40 milioni di dollari è stato classificato come una delle unità virologiche più sicure al mondo, nonché conforme ai criteri Bsl-4 (massimo livello di biocontenimento). Ma torniamo al rapporto citato da Horizon Advisory. Nel paper si fa presente che qualche anno fa Pechino, in mancanza delle necessarie capacità tecnologiche, ha cercato e trovato il supporto dell’Institut Pasteur e della Fondazione Merieux per fare “un salto senza precedenti” e poter “ospitare uno dei laboratori” migliori al mondo. L’inaugurazione del laboratorio risale al 2017 e già allora la rivista Nature esplicava i rischi della possibile fuga di agenti patogeni mortali. “L’esperienza della formazione del personale sulla biosicurezza di laboratorio – affermava l’anno scorso un Libro Bianco citato da Horizon – è relativamente scarso. Il personale di formazione è insufficiente e i problemi di formazione richiedono un miglioramento urgente”. Parole che, rilette oggi, fanno venire la pelle d’oca. La scienza saprà comunque dare risposta a ogni nostro quesito.
Il Virus è nato in Laboratorio? Francesco Boezi su Inside Over il 28 maggio 2020. Medical Intelligence: forse questa branca della nostra intelligence non è troppo conosciuta dai più ma, indagando a fondo su quali meccanismi di prevenzione e di diffusione delle informazioni si innescano nel momento in cui un virus emergente fa la sua comparsa, si apprende subito di come questa attività assuma un’importanza centrale per la tutela della salute pubblica. E qualcosa, in termini di Medical Intelligence, è scattato per forza anche in relazione al Sars-Cov2. Ma quando e come l’esecutivo italiano ha avuto contezza del fatto che il nuovo coronavirus potesse essere pericoloso per la tenuta del nostro sistema economico-sociale? Questa domanda, inutile girarci troppo attorno, circola ormai da mesi. Tra rimpalli di accuse e smentite, le analisi si riducono per lo più a ciò che è possibile fare: procedere per ipotesi ed astrazioni. Ma il Medical Intelligente fa parte di un ambito molto complesso, che deve essere analizzato, partendo da esperienze in grado di raccontare con dovizia di particolari il funzionamento alla base del servizio in oggetto. Per questo, abbiamo voluto intervistare il dottor Marco Cannavicci, uno psichiatra, ora ausiliario, che ha prestato servizio per quarant’anni come ufficiale medico. Si è occupato, per la parte della formazione, del personale d’intelligence impegnato in attività Unit su teatri operativi. Nell’ambito di questa collaborazione con i centri di formazione, Cannavicci ha partecipato alla creazione ed all’allestimento del servizio di Medical Intelligence. Un’esperienza che risale a 15 anni fa. Già al Ministero della Difesa sino al 2017, Cannavicci sottolinea subito come il servizio svolga un ruolo fondamentale: “Un conto è mandare i nostri nella ex Jugoslavia, dove gli ospedali c’erano, un altro è inviare i militari in Afghanistan: lì di sanitario non c’era nulla, significa che bisogna portare un intero ospedale…”.
Dottor Cannavicci, che cos’è il Medical Intelligence?
«Medical Intelligence è un servizio nato negli Stati Uniti per coniugare le necessità d’intelligence, di rischio sanitario, di sicurezze del personale e di sicurezza sanitaria, che ha avuto la sua massima espansione in relazione delle minacce di bio-terrorismo. La Fbi, negli States, ha creato una rete di sorveglianza dei pronto soccorsi per possibili minacce da infezioni derivanti da germi o da sostanze tossiche. I pronto soccorsi dovevano segnalare ogni anomalia che si verificava e che poteva essere collegata ad una malattia infettiva poco conosciuta o sconosciuta. Erano i tempi dell’antrace. In quel frangente temporale, è nata in maniera molto organizzata. Anche noi ci siamo confrontati con le minacce di bio-terrorismo. Anche noi abbiamo dovuto allestire una rete nazionale tramite i pronto soccorsi per i rischi infettivi. Una rete che fa capo allo Spallanzani di Roma. Facciamo un esempio: le immagini, le informazioni relative ad una lesione della pelle che, in qualche modo, potevano far supporre un quadro da malattia infettiva sconosciuta o poco conosciuta, venivano immediatamente trasferite allo Spallanzani per una valutazione clinica. Il fine era quello di cercare di capire la fonte dell’eventuale infezione il prima possibile».
E poi?
«Poi, per quanto riguarda le missioni all’estero, è sorta la necessità di proteggere il nostro personale da tutte le possibili fonti d’infezioni presenti in loco. Soprattutto perché, quando si cambia clima, quando si cambia ambiente, si è esposti a tutta una serie di germi nuovi, da cui il nostro organismo non è protetto. Da questo punto di vista, le esperienze in Somalia, in Iraq, in Afghanistan ed in Libano, sono state molto istruttive per quel che riguarda la protezione sanitaria del nostro personale. Naturalmente, tutte queste informazioni dovevano ricollegarsi ad una rete internazionale, per cui c’è uno scambio continuo. Per fortuna, questa rete internazionale è basata prevalentemente su fonti aperte. La prima fonte è il bollettino epidemiologico mensile dell’Oms, dove vengono riportati, da tutto il mondo, tutti i casi di malattia infettiva. Non solo il tipo di malattia infettiva, ma anche il numero di persone coinvolte. A seconda della malattia infettiva ed in base al tipo di rapporto che si ha con la popolazione colpita, possono essere constatati i rischi di una trasmissione per il nostro territorio. C’è un’altra fonte di informazioni molto utili, che è il bollettino del Centro per la prevenzione e il controllo delle malattie di Atlanta, dove danno vita ad un bollettino periodico epidemiologico su tutte le malattie infettive che vengono diagnosticate a livello planetario. Da queste fonti noi apprendiamo, da ogni Paese, qual è lo stato dell’arte delle infezioni. Possiamo dunque prevedere che tipo di rischio sanitario corriamo. Faccio un esempio: dall’Africa potrebbe arrivare un batterio tubercolare che potrebbe resistere alle nostre terapie anti-tubercolari. Oppure dall’Asia potrebbe provenire varianti della polio o del vaiolo (sembra che abbiano effettivamente attecchito in quei luoghi) a cui la nostra popolazione non è vaccinata. Una sorveglianza di questo tipo, a livello globale, è molto utile».
Altri focus specifici?
«Poi c’è il discorso che riguarda il Mediterraneo. Il Mediterraneo è molto importante per noi. Mi ricordo che le prime valutazioni furono fatte sull’ipotesi di diffusione in Italia del West Nile virus, ossia del virus del Nilo, che è portatore, tramite le zanzare, di encefaliti molto gravi. Quel servizio – il Medical Intelligence – è nato per fornire sia in ambito militare sia in ambito civile, e dunque al decisore politico in genere ed al ministero della Salute nello specifico, ogni informazione relativa a diffusione, rischi, impatto e possibili protezioni da utilizzare dove non è possibile procedere con una profilassi vaccinale».
Che cosa sono le “sentinelle”?
«Le sentinelle sono i sensori distribuiti nel territorio per valutare la presenza di una possibile malattia infettiva sconosciuta. Per cui, quando si presenta in un pronto soccorso una persona che ha delle manifestazioni cliniche non inquadrabili in una malattia infettiva conosciuta, beh, quello allora è un evento che fa scattare un allarme: il soggetto, con buone probabilità, è portatore di un germe che non abbiamo identificato. Avere tutte queste sentinelle significa poter contare su un allarme immediato per cercare di bloccare la diffusione di quel virus il prima possibile. La sentinella è quella che segnala, per esempio, la presenza di un’intossicazione anomala oppure segni dermatologici di bruciature da contatto con sostanze chimiche particolari. Quello potrebbe essere il segnale di una persona che sta trattando sostanze chimiche o poco conosciute o sconosciute. Bisogna capire dunque a che scopo: per inquinare o per bio-terrorismo? La rete di sentinelle è fondamentale. A dare l’allarme, potrebbe anche essere un medico di pronto soccorso o un medico di base che incontra un paziente con un paziente con una patologia compatibile con un rischio sanitario. Ecco, la sentinella può far in modo che scatti subito una sorveglianza. Altrimenti, se aspettiamo che si diffonda, noi potremmo capire troppo tardi cosa sta accadendo. E anziché fermare un’epidemiologia a dieci, quindici, venti casi, potremmo comprendere quello che succede dopo mille casi. L’intenzione del servizio è arrivare ad arginare il fenomeno il prima possibile».
Il Sars-Cov2 è ancora oggetto di questioni irrisolte. Sembrerebbe che il governo avesse da tempo un piano di chiusura… Come funziona? Il Medical Intelligence avvisa il governo? Quali sono le procedure previste per la filiera?
«La filiera prevede anzitutto che il servizio di Medical Intelligence sia allertato, a livello locale o a livello internazionale, da alcuni rapporti, che provengono da altri Paesi, da altri servizi o da osservazioni fatte in loco. Dunque, il Medical Intelligence intercetta un rischio sanitario. E, acquisite le informazioni, viene valutato il rischio sanitario, che va studiato anche mediante delle vere e proprie analisi: si deve circoscrivere cosa comporta questo rischio sanitario in termini di diffusione ed in relazione all’impatto con la popolazione. Quindi il Medical Intelligence stila, una volta raccolte ed analizzate queste informazioni, un rapporto che il direttore del servizio trasmette al suo referente, che è o direttamente il presidente del Consiglio o il delegato della presidenza ai servizi ed alla sicurezza. Una volta che il presidente del Consiglio riceve il rapporto, il presidente del Consiglio valuta il da farsi. Probabilmente, il Pdc ne parlerà con i ministri interessati. Questi valuteranno le informazioni sul piano politico, che abbiamo visto essere state sicuramente molto più prudenti o molto più “leggere” di quello che, in realtà, i rapporti contenevano. Perché tutti i servizi, non solo quello italiano, hanno fornito al loro referente politico la fotografia della situazione attuale e quella inerente al rischio, a che cosa si va incontro.Tutti hanno fornito delle soluzioni di contenimento. Come abbiamo visto, sia negli States, sia in Francia, sia in Inghilterra ma anche in Italia, le prime risposte sono state contraddistinte da grande prudenza: non allarmare la popolazione. Non hanno colto la reale portata dell’infezione. Tutte queste prudenze sono state superate dalla realtà dei fatti. Anche se noi ci dicevamo “andrà tutto bene”, abbiamo visto, con 30 mila morti, come non sia andato tutto bene. Così come non è andato tutto bene dal punto di vista economico: alcuni settori sono stati messi in ginocchio e, con buone probabilità, non riapriranno. Quello che si voleva minimizzare è stato smentito, e le responsabilità su questo, dirette, indirette, volute o non volute, sono politiche».
Sulla base della sua esperienza, come si muove il Medical Intelligence in relazione a situazioni come quella odierna?
«Il Medical Intelligence è un servizio creato per l’emergenza, per l’urgenza e per l’allarme. Non appena si hanno informazioni consistenti e validate, queste vengono diffuse. Qui finisce il compito del servizio. I compiti dei servizi non sono quelli di agire, ma d’ informare. Ogni giorno, i presidenti, compreso quello degli Stati Uniti, vengono informati sulla situazione in atto. Queste autorità vengono in possesso di rapporti urgenti e molto sintetici sulla situazione che è in atto. Quando la informazione viene riportata al committente politico, il compito finisce. Tutto quello che succede dopo è del politico. Quello che posso immaginare, sulla base delle esperienze precedenti, è che le informazioni sono state sempre tempestive e puntuali. L’uso delle informazioni è stato spesso difficoltoso, e soprattutto c’è stata le negligenza di non capire con tempestività cosa stesse succedendo».
Non so se ha letto il “rapporto Raoult” del 2003. La cosiddetta scienza ufficiale boccia alcune teorie alla stregua di complottismi ma, prescindendo da questo elemento, ha avuto la sensazione, come professionista che si è occupato di Medical Intelligence, che questo specifico ambito potesse divenire attuale in breve tempo? Si parla spesso pure di “guerra batteriologica”…
«Tutto “il complottismo” deriva dal fatto che il laboratorio di Wuhan è un laboratorio di massima sicurezza di bio-contenimento. Si tratta di un laboratorio dove si fa ingegneria genetica e in cui viene operata una sperimentazione scientifica su virus ad alta contagiosità e ad alta letalità. Questa coincidenza ha dato vita a tutte le teorie complottiste ma, se andiamo a vedere il virus in sé, confrontandolo con i requisiti di un’arma biologica, con quelli di un’arma da bio-terorrismo o con quelli di un’arma di altro tipo, notiamo che questo virus non si presta ad essere un’arma biologica, perché non è sufficientemente contagioso e letale. L’arma biologica ideale è l’Ebola: altamente contagiosa ed altamente mortale. Questo virus non risponde ai requisiti richiesti per un’arma biologica».
Un’arma da bio-terrorismo?
«Questo virus non corrisponde neppure ai requisiti richiesti per un’arma da bio-terrorismo. Questo virus non è stato studiato e non è stato utilizzato per scopi di questo tipo: ne esistono altri molto più efficienti e molto più efficaci».
Potrebbe essere stato sfruttato il fatto di creare problemi economici come arma di guerra ibrida?
«Noi oggi sappiamo che la guerra ibrida è una guerra condotta in modo non convenzionale, sul piano dell’informazione e sul piano dell’economia. Forse questo, in corso d’opera, è divenuto uno scopo utile, ma non era quello iniziale. Attorno al virus sono emersi molti attacchi ed accuse: come di norma accade ogni volta che si diffonde un virus. C’è la corsa a creare colpevoli e responsabili, ma questo fa parte della disinformazione. C’è un’altra possibilità relativa alla diffusione di un virus, una possibilità che è prevista: si chiama evento ROTA, dove ROTA sta per release other than attack, cioè rilascio dell’agente in maniera alternativa a forme di attacco. Questo prevede un incidente all’interno di una struttura di bio-contenimento, dove avviene una diffusione accidentale per via della perdita del controllo sull’agente batteriologico o virale che sia. In altri casi, è accaduto. Non si arriva a livello globale di pandemia com’è avvenuto in questo caso, ma è un evento previsto. Diciamo che, sommare questi due indizi, ossia il focolaio nella città dov’è presente un centro BSL4 e l’esistenza della possibilità di un evento ROTA, contribuiscono a dare spazio alle successive teorie. Quello che sappiamo, prescindendo dalle teorie, è che c’è una corsa da parte della Russia, della Cina e degli Stati Uniti a sfruttare questo virus per scopi economici: incidere sulle borse, incidere sul valore delle monete, incidere sull’economia. Il politico, dove vede spazi per poter intervenire, lo fa. E lo spazio in questo caso si è creato».
Dal punto di vista prospettico, lei pensa che il Medical Intelligence, visto quello che è successo, sia destinato ad essere potenziato?
«Sicuramente il servizio sarà ampliato, soprattutto cercando di avere come consulenti dei referenti scientifici adeguati. Un servizio non è fatto di scienziati. Un servizio deve poter contare sui contatti con gli scienziati, con persone che sanno leggere determinate situazioni. Verrà potenziato soprattutto perché il politico, e soprattutto in Italia, ha capito una cosa: utilizzando il rischio di una minaccia infettiva si può avere un controllo del territorio e della popolazione mai visto prima. In questi mesi, noi ci siamo confrontati con una riduzione dei nostri diritti civili e delle nostre libertà personali che mai era accaduta, nemmeno ai tempi degli anni di piombo del terrorismo. Questo ha fatto capire al politico che, dietro al rischio di una minaccia sanitaria, lui può imporre alla popolazione qualsiasi ristrettezza. Quello che sta aumentando, anche con le app e con le comunicazioni, è il controllo sulla popolazione. Un controllo che, partendo per scopi sanitari, si allarga su tutto il resto. E questo è un aspetto che per il politico può essere molto importante. Ogni volta che ci sarà una minaccia di tipo sanitario, imporre queste restrizioni alla popolazione si rivelerà sempre più accettato e sempre più condiviso. Noi abbiamo perso le nostre libertà personali per un motivo valido, e nessuno ha protestato. Però il rischio di un incremento eccessivo del controllo dello Stato sulle persone c’è».
Riusciamo ad immaginare come andrebbero le cose in caso di emersione di quello che potremmo chiamare “Covid-20”?
«Parliamo anzitutto di questo virus: il SarsCov2 non è debellato. Non è molto diffuso, ma sul territorio c’è. Abbinato a questo fattore, siamo consapevoli di come oltre il 90% della popolazione non sia immune e non sia dunque protetta. I rischi di focolai e di esplosioni di contagi persistono. Bisogna tenerne conto. Il monitoraggio del rispetto delle misure di sicurezza non può essere ridotto. Ci sono anche tante altre cose di questo virus che non conosciamo: non sappiamo se muta, se varia, se cambia e se modifica certe sue caratteristiche di tipo biologico. Per cui potrebbe passare ad attaccare altri organi, così come potrebbe passare ad altre forme di contagio e ad altre forme lesive per il corpo umano. Le cose sono migliorate da quando abbiamo capito che il virus attacca non i polmoni ed il respiro, ma la circolazione ed i vasi sanguigni. La persona non muore perché non respira, ma perché il sangue si coagula e non respira più. Ma questo è stato capito in corso d’opera. E sempre in corso d’opera potremmo capire altro. Siccome è possibile che questo virus cambi, la sorveglianza sanitaria, sia quella pubblica sia quella d’intelligence, non può venire meno: tutti i dati che vengono forniti mediante le linee epidemiologiche arrivano anche al servizio di Medical Intelligence, dove vengono fatte ulteriori analisi ed ulteriori valutazioni. Mentre il Ministero della Salute sta cercando di capire quello che succede, con le terapie più efficaci, il Medical Intelligence cercherà di capire quello che succederà, producendo scenari. Prima si interviene e meglio è. Quando si parla di salute non possiamo aspettare che l’evento accada. Noi, come si dice in aeronautica, dobbiamo essere davanti l’aereo. Fare in modo, stando davanti l’aereo, di capire quello che succederà prima che accada».
La virologa Gismondo: "Ecco tutti i misteri sul coronavirus". "Nessuno può pretendere né mai saprà la verità”, sottolinea la direttrice del laboratorio di microbiologia dell’ospedale Sacco di Milano. Andrea Pegoraro, Martedì 31/03/2020 su Il Giornale. Da dove è arrivato il coronavirus? Virus naturale o costruito in laboratorio? “Nessuno può pretendere né mai saprà la verità”, sottolinea Maria Rita Gismondo, direttrice del laboratorio di microbiologia dell’ospedale Sacco di Milano. La virologa analizza la possibile origine dell’epidemia e come si è sviluppata, ma i dubbi comunque rimangono.
Origine del Covid-19. La virologa spiega che “l'ipotesi del complotto ha assunto un profilo ufficiale”, in quanto un funzionario governativo cinese ha accusato gli Stati Uniti di averlo portato in modo involontario durante i Giochi internazionali dei militari di Wuhan a novembre del 2019. Gismondo evidenzia poi che uno studio del Kusuma School of Biological Sciences dell’università di Delhi “ha evidenziato strane evidenze di inserti in coronavirus di proteine di Hiv” ma la ricerca 2è stata stranamente ritirata due giorni dopo la pubblicazione”. Una recente pubblicazione sulla rivista Nature ha invece avuto maggiore successo, almeno secondo quanto riportato dalla dottoressa. Nello studio si dimostra come il Covid-19 possa essere di origine naturale. “Comunque la si voglia pensare - ha precisato Gismondo - non esiste una proprietà transitiva che affermi virus naturale = virus non diffuso volontariamente o scappato dal laboratorio”.
Storia del virus. Su Il Fatto Quotidiano, la virologa ripercorre poi la storia del coronavirus. Le riviste scientifiche The Lancet e Nature hanno scritto che l’infezione ha iniziato a diffondersi nella primi metà di dicembre dello scorso anno. In quell’occasione si erano verificati 41 casi di polmonite a Wuhan, capitale della provincia dello Hubei in Cina. Questa polmonite non aveva una causa chiara.
“Si era detto che probabilmente - ha proseguito la dottoressa -, visti gli usi di macellazione e di vendita di diversi animali in questi tipici mercati cinesi, come era avvenuto per il coronavirus della Sars, anche per questo nuovo virus l'origine fosse stata un mercato "umido" (mercati dove si vende e si macella ogni tipo di animale domestico e selvatico) della città di Wuhan”. La virologa precisa però che si è presto verificato come il primo caso registrato fosse una persona che non era andata al mercato ittico di Wuhan. E riporta quanto scritto su The Lancet, che fa risalire il primo caso al 1° dicembre: “Nessuno dei suoi familiari ha sviluppato febbre né altri sintomi respiratori” e inoltre "non ci sono legami epidemiologici fra il primo paziente e gli altri casi". Infine, una ricerca cinese dell'ospedale Jin Yin-tan di Wuhan ha studiato i primi 41 casi e ha scoperto che 27 individui, pari al 66%, erano stati al mercato a partire dal 10 dicembre, gli altri no. Le risposte agli interrogativi della Gismondo in questo momento non ci sono. Ma di fatto l'ipotesi al momento più accreditata nel mondo scientifico è che il virus sia di origine naturale.
Le accuse reciproche tra Usa e Cina sulla diffusione del virus. Michele Crudelini su Inside Over il 30 marzo 2020. La diffusione del coronavirus in tutto il mondo ha tutt’altro che sopito le tensioni geopolitiche tra Stati Uniti e Cina che, oggi, riemergono più forti di prima. A sentire le fonti ufficiali dei due Paesi, sembra che la vicenda del coronavirus, più che un’emergenza sanitaria globale, si debba invece interpretare come la più grande spy story del secolo. Entrambe le amministrazioni sono infatti certe della colpevolezza e dell’intenzionalità rispetto alla diffusione del virus da parte di uno dei due Stati. Da Washington si accusa Pechino e viceversa.
Le accuse cinesi contro Washington. Aveva iniziato il 13 marzo scorso il portavoce del Ministro degli Esteri cinese, Zhao Lijian, che attraverso il suo account Twitter aveva pubblicato il video di un’audizione svoltasi alla Camera dei Rappresentanti americana, durante la quale il direttore dei Centri per la prevenzione e il controllo delle malattie ammetteva che alcuni pazienti americani deceduti per influenza, prima dello scoppio della pandemia, erano già risultati positivi al Covid19. Nel rilanciare questo video il portavoce cinese accusava quindi gli Stati Uniti di aver volutamente occultato questi dati, contribuendo alla diffusione del virus. Un impianto accusatorio che sembra essere ormai entrato a far parte della normale narrativa in Cina dove tra voci interne e notizie trapelate dai giornali, il virus, secondo al vulgata, sarebbe stato portato in Cina dai miliari americani che hanno partecipato ai giochi mondiali militari di Wuhan nel novembre del 2019. Se non stupiscono più di tanto simili tesi da parte di un Governo, quello cinese, non nuovo alla retorica del cospirazionismo occidentale, suscitano invece più perplessità le analoghe accuse fatte dagli Stati Uniti.
Il “virus cinese” secondo Trump. Nelle ultime settimane si è infatti registrato un radicale cambio del registro linguistico americano, in particolare nelle sue istituzioni più alte. Non solo il Segretario Generale Mike Pompeo, ma anche il Presidente Donald Trump, hanno infatti iniziato a descrivere il “coronavirus”, come “virus cinese”, o “virus di Wuhan”. Una precisa scelta dialettica che ha l’obiettivo di connotare non solo la provenienza geografica del virus, ma anche la “colpa” della sua diffusione. “La Cina ha provocato questa peste nel mondo e devono esserci delle conseguenze”, ha poi detto il tycoon durante un’intervista rilasciata per Fox News. A questo cambio di vocabolario sembrano poi essersi accompagnate una serie di misure restrittive nei confronti dei cinesi. Secondo quanto riportato infatti dal New York Times lo scorso 26 marzo, l’amministrazione Trump starebbe prendendo in serie considerazione l’ipotesi di espellere un folto gruppo di diplomatici e giornalisti cinesi. Il motivo? Gli Stati Uniti intendono così rispondere ad un’analoga mossa intrapresa da Pechino, che avrebbe già espulso circa 13 giornalisti americani dal Paese. Quella che era una semplice guerra commerciale sembra quindi essere passata ad un livello ulteriore, trasformandosi in una guerra di spionaggio tra due Paesi che si accusano reciprocamente. Sulle responsabilità, se davvero esistono, circa la diffusione del coronavirus probabilmente nessuno saprà mai nulla, tenendo conto dell’impianto accusatorio decisamente debole di entrambi i Paesi. Quel che è certo è che il conflitto, finora commerciale, tra Stati Uniti e Cina, che, prima della diffusione della pandemia, stava per arrivare al suo punto risolutorio, potrebbe scoppiare più forte di prima, una volta terminata l’emergenza.
ANTICHI PATOGENI LIBERATI DAL GHIACCIO.
Il cambiamento climatico potrebbe “liberare” antichi agenti patogeni. Secondo uno studio pubblicato sulla rivista scientifica BiorXiv, il disgelo dei ghiacciai e del permafrost può liberare virus e batteri non più attivi da millenni. Francesca Santolini il 14 Marzo 2020 su La Stampa. Gli effetti del cambiamento climatico sono molteplici: temperature in aumento, scioglimento dei ghiacciai, innalzamento del livello del mare, siccità, minaccia alla biodiversità, migrazione umana. Tra tutti questi disastri in corso, ce n’è uno molto importante ma meno conosciuto dall’opinione pubblica. Secondo gli scenari più ottimistici, entro il 2100, il 30% del permafrost potrebbe scomparire. Iniziato da diversi anni, il disgelo di questo strato geologico, composto da ghiaccio e materia organica, minaccia di rilasciare quantità astronomiche di CO2, causando potenzialmente un riscaldamento globale ancora più significativo e rapido del previsto. Ma c’è di più. Il permafrost, come un vaso di Pandora, conserva anche molti virus, sepolti da millenni, sconosciuti e potenzialmente molto pericolosi per l’uomo. Ai tempi del coronavirus, rischia di passare sotto traccia la pubblicazione di uno studio, sulla autorevole rivista scientifica BiorXiv, che mette nero su bianco il vero rischio sanitario dei prossimi anni, causato dallo scioglimento dei ghiacci. Lo studio, pubblicato a inizio gennaio, presenta i risultati di un progetto di ricerca iniziato nel 2015 da un team di ricercatori statunitensi e cinesi, che hanno analizzato il contenuto microbico delle carote di ghiaccio prelevate nell’altopiano del Tibet. I ricercatori hanno perforato uno strato di ghiacciaio profondo 50 metri per ottenere due campioni, e attraverso l’analisi microbiologica, hanno identificato 33 gruppi di virus, 28 dei quali sconosciuti e sepolti da millenni. Il ghiaccio rappresenta per gli scienziati un archivio che consente di studiare cosa è accaduto nel passato. Attraverso i carotaggi nelle aree fredde del pianeta, è possibile quindi fare un viaggio nel tempo per capire quali fossero le condizioni del nostro pianeta e quindi dell’atmosfera nel passato. In questo caso, lo studio delle carote di ghiaccio ha permesso di ricostruire la storia climatica fino a 15mila anni fa. Ora il rischio è che, per effetto del cambiamento climatico, lo scioglimento dei ghiacci, liberi i batteri intrappolati per tutto questo tempo. Facendo arretrare anche i grandi ghiacciai himalayani, infatti, la crisi climatica può rilasciare nell’atmosfera antichi virus sconosciuti e quindi potenzialmente pericolosi per l’uomo che non ha gli anticorpi necessari per affrontarli. I virus immagazzinati nel ghiaccio sono particolarmente complicati da estrarre e studiare, perché possono essere facilmente contaminati da elementi esterni. Gli scienziati hanno seguito un protocollo meticoloso per prevenire qualsiasi contaminazione e hanno poi utilizzato tecniche di microbiologia per decifrare il resto delle informazioni genetiche congelate nelle carote di ghiaccio. Si tratta di agenti patogeni che potrebbero liberarsi nell’aria ed entrare in contatto con le falde acquifere: tra questi il vaiolo, l’antrace e persino la peste bubbonica, oltre ad altre malattie sconosciute. Tutto questo potrebbe accadere perché, mentre in condizioni normali ogni estate nel permafrost si scioglie uno strato di circa 50 cm di ghiaccio che d’inverno torna a formarsi, con il riscaldamento globale la copertura glaciale è in costante diminuzione. Se la comparsa di alcuni virus oggi considerati sradicati, non rientra più nel campo della fantascienza, la minaccia arriverà a priori più dal disgelo del permafrost, che dalle carote perforate a 50 metri di profondità. Lo scioglimento dei ghiacciai - ovunque si verifichi - significa soprattutto la scomparsa di archivi virali e microbici insostituibili per gli scienziati, fondamentali per indagare sull'origine stessa della vita e l'emergere della biodiversità sul nostro pianeta. A proposito di rischi futuri, il Global risk report 2020 del World economic forum, sostiene che tra i dieci rischi globali più probabili, i primi cinque sono ambientali. Tra i dieci rischi globali di maggiore impatto distruttivo, i rischi ambientali si trovano al primo, terzo e quarto posto. Le epidemie globali sono contemplate, ma con impatti minori. Il problema è che per contrastare il rischio climatico, il più probabile e più impattante non basta scoprire un vaccino. L’altro problema è che ci spaventa molto meno di quanto dovrebbe.
Cina, scoperti antichi virus intrappolati nei ghiacci. I cambiamenti climatici potrebbero favorirne la dispersione. Redazione ANSA il 28 gennaio 2020. Non solo coronavirus. Dalla Cina potrebbe arrivare anche un'altra e ben piu' antica minaccia: una ventina di misteriosi virus, intrappolati da millenni in un ghiacciaio tibetano, che rischiano di essere liberati dallo scioglimento dei ghiacci causato dal riscaldamento globale. A lanciare l'allerta è un gruppo internazionale di ricerca guidato dall'Università dell'Ohio, che pubblica le analisi di due carote di ghiaccio su bioRxiv, il sito che traccia gli articoli scientifici prima della pubblicazione su riviste ufficiali. Le carote di ghiaccio sono state prelevate nel 2015, arrivando fino a 50 metri di profondità nel ghiacciaio di Guliya, nella parte nord-occidentale dell'altopiano del Tibet. Grazie a una innovativa procedura di campionamento che riduce al minimo il rischio di contaminazioni, i ricercatori hanno individuato la presenza di 33 popolazioni virali risalenti a un periodo compreso fra 500 e 15.000 anni fa: questi virus appartengono a 4 generi noti e a 28 generi finora sconosciuti. Lo scioglimento dei ghiacci, scrivono i ricercatori, "potrebbe portare alla perdita di questi archivi microbici e virali che possono rivelarci molto della storia del clima sulla Terra". Ma non solo: "nel peggiore dei casi, lo scioglimento dei ghiacci potrebbe liberare patogeni nell'ambiente".
Altro che coronavirus. Gli scienziati hanno trovato 28 virus sconosciuti ibernati nei ghiacci del Tibet. Che si stanno sciogliendo…Luigi Bignami il 28/1/2020 su it.businessinsider.com. Nel 2015, un gruppo di scienziati degli Stati Uniti e della Cina si è recato in Tibet per raccogliere “carote” all’interno di un ghiacciaio. Ora hanno pubblicato un articolo su “bioRxiv” che descrive in dettaglio quanto hanno scoperto dall’analisi di quelle carote e sorprende il fatto che hanno portato alla luce 28 nuovi gruppi di virus presenti nel ghiaccio fino ad oggi del tutto sconosciuti. Lo studio di una carota avviene attraverso la suddivisione in tante piccole sezioni, ciascuna delle quali corrisponde ad uno o più anni della storia passata della Terra. Analizzando le bollicine d’aria presenti al suo interno è possibile ricostruire la storia climatica di un’area o dell’intero pianeta. Nel caso specifico lo studio delle carote ha permesso di ripercorrere la storia climatica di quell’area fino a 15.000 anni fa. Al di là della scoperta in sé, i ricercatori hanno immediatamente sottolineato come i cambiamenti climatici attuali, che stanno facendo arretrare e assottigliare anche i grandi ghiacciai himalayani, potrebbero liberare gli antichi virus nell’atmosfera dei nostri giorni e non sapendo di che virus si tratta non è da escludere che siano anche pericolosi per l’uomo o per altri esseri viventi in genere. I ricercatori hanno perforato 50 metri di ghiacciaio per ottenere due carote di ghiaccio dove tecniche di microbiologia hanno permesso di identificare 33 gruppi di virus, tra i quali 28 antichi virus che gli scienziati non avevano mai visto prima. I ricercatori fanno notare come al di là del pericolo che potrebbe correre l’umanità se uno o più di tali virus fossero pericolosi per l’uomo e iniziassero a diffondersi nell’atmosfera, c’è il fatto che la fusione dei ghiacci impedisce il loro studio e si perdono così testimonianze importanti della storia passata della Terra.
VIRUS NATO IN LABORATORIO.
L'ultima ipotesi sul coronavirus: la fuga dal laboratorio. Le origini del coronavirus sono ancora sconosciute. L'ultima ipotesi rilanciata dagli esperti è la possibile fuga dell'agente patogeno da un laboratorio. Federico Giuliani, Venerdì 27/03/2020 su Il Giornale. Sono ancora incerte le origini del nuovo coronavirus. Gli esperti stanno ancora cercando di capire da dove è venuto fuori e con quali modalità. Fin qui l'ipotesi più accreditata sulla nascita del Covid-19 era quella della zoonosi: una malattia trasmessa all'uomo da un animale non meglio identificato. Adesso si stanno lentamente facendo spazio anche altre piste, tra cui quella della possibile fuga dal laboratorio. Da questo punto di vista, scrive Il Fatto Quotidiano, è interessante prendere in esame il rapporto presentato dal Bulletin of Atomic Scientists americano. La rivista Usa riporta i dubbi degli osservatori sui siti scientifici di Wuhan. Certo, gli esperti escludono che il virus possa essere un'arma biologica ma non escludono un ipotetico incidente che possa aver provocato la fuoriuscita dell'agente patogeno da un laboratorio di massima sicurezza. Il Bullettin, una delle riviste più accreditate al mondo sul controllo degli armamenti, rilancia a gran voce questa ipotesi ed evidenzia la necessità di indagare a fondo. Non a caso i massimi esperti di biosicurezza internazionali non sono concordi nell'escludere la possibilità che la pandemia sia collegabile a un incidente involontario avvenuto in uno dei due centri di ricerca situati a Wuhan, epicentro del contagio.
Un incidente in laboratorio? Il Covid-19 non sarebbe stato manipolato in laboratorio con il fine di creare un'arma biologica. Eppure, proseguono gli esperti, è caldissima la pista della fuoriuscita accidentale. Ricordiamo che i centri di Wuhan hanno un livello di biosicurezza BSL-2, il quale fornisce “una minima protezione contro eventuali infezioni del personale”. A questo proposito il livello di contenimento va dal più basso, il BSL-1, al più alto, il BSL-4. Il BSL-2 si riferisce ad attività che implicano l'utilizzo di agenti patogeni “che possono rappresentare un pericolo moderato per il personale e l'ambiente”. Richard Ebright, esperto di biosicurezza della Routger University' s Waksman Institute of Microbiology, ritiene plausibile l'ipotesi dell'incidente di laboratorio. Gli indizi ricadono su uno dei due centri presenti a Wuhan: il Centre for Disease Control e il Wuhan Institute of Virology. Entrambi studiano i coronavirus di pipistrelli e il Sars da anni ed entrambi hanno un livello di biosicurezza BSL-2, non proprio adeguato ai rischi che comportano esperimenti del genere. L'articolo di Nature Medicine, uno dei più importanti fin qui pubblicati, è fondamentale per escludere la creazione di proposito del virus ma, allo stesso tempo, non esclude che un parente stretto del Sars Cov2 sia stato fatto evolvere in vitro su cellule umane e che possa essere sfuggito in seguito a un incidente. Accertare le reali origini del nuovo coronavirus, tra l'altro, aiuterebbe i ricercatori ad accorciare i tempi nella loro ricerca al vaccino. Ecco perché urgono ulteriori approfondimenti in merito.
(AGI il 17 aprile 2020) - Il coronavirus sarebbe un virus manipolato, uscito accidentalmente da un laboratorio cinese a Wuhan dove si studiava il vaccino per l'Aids. Lo afferma il professore Luc Montagnier, Nobel per la Medicina 2008, ai microfoni del podcast francese, specializzato in medicina e salute, "Pourquoi Docteur". Secondo il professor Montagnier, che nel 1983 ha scoperto l'Hiv come causa dell'epidemia di Aids insieme a Francois Barrè-Sinoussi, la Sars-CoV-2 è un virus che è stato lavorato e rilasciato accidentalmente da un laboratorio di Wuhan, specializzato per la ricerca sui coronavirus, nell'ultimo trimestre del 2019. "Con il mio collega, il biomatematico Jean-Claude Perez, abbiamo analizzato attentamente la descrizione del genoma di questo virus Rna" ha spiegato il Nobel nella sua intervista con il dottor Jean-Francois Lemoine. "Non siamo stati primi, un gruppo di ricercatori indiani ha cercato di pubblicare uno studio che mostra che il genoma completo di questo virus che ha all'interno delle sequenze di un altro virus, che è quello dell'Aids. Il gruppo indiano ha ritrattato dopo la pubblicazione. Ma la verità scientifica emerge sempre. La sequenza dell'Aids e' stata inserita nel genoma del coronavirus per tentare di fare il vaccino".
Coronavirus e 5G, il sospetto del Nobel Luc Montagnier: "Le onde potrebbero aver contribuito al potere patogeno". Libero Quotidiano il 20 aprile 2020. Le tesi complottiste sulle origini del coronavirus sembrano prendere il sopravvento. Eppure tra i massimi sostenitori di questi pensieri c'è niente di meno di Luc Montagnier, premio Nobel per la medicina nel 2008. Secondo il professore dell’Istituto Pasteur di Parigi la diffusione del Covid-19 potrebbe essere stata favorita dal lancio della rete 5G in Cina. Ad annunciarlo, creando non poco scalpore, è stato lui stesso durante un'intervista al canale televisivo francese, Cnews. "Penso che viviamo in un ambiente molto diverso da quello dei nostri antenati. Ci piacciono molto le onde. Comunichiamo con le onde elettromagnetiche. Ma ci sono dei progetti più importanti che faranno sì che saremo ancora più circondati dalle onde. Lo ripeto: è un argomento da studiare. Si è detto che la città di Wuhan era molto avanti nell’implementazione di antenne 5G. 10.000 antenne sono in quest’area. Può darsi abbiano contribuito al potere patogeno del virus”. Sono giorni infatti che si susseguono le teorie più disparate: la prima sostiene che le reti 5G possano indebolire il sistema immunitario, rendendo quindi più a rischio le persone esposte alle onde radio dei ripetitori. La seconda invece afferma che le reti 5G possono facilitare la diffusione di batteri all’interno delle comunità. "Entrambe le supposizioni - tengono a precisare gli esperti - sono false e mancano di studi scientifici che le confermino". Anche se non sono del tutto improbabili.
Leonardo Martinelli per lastampa.it il 23 aprile 2020. Il virus del Covid-19 sarebbe stato fabbricato in laboratorio a partire da quello dell’Aids (Vih). La «notizia» gira da giorni in rete, soprattutto nei canali più propensi al cospirazionismo. D’altra parte l’affermazione proviene all’origine da Luc Montagnier, 87 anni, famoso virologo francese, che nel 2008 venne insignito del nobel per la Medicina, proprio per la sua partecipazione alle ricerche che portarono alla scoperta del virus di Hiv. Il professore lo ha affermato in un’intervista al sito Pourquoidocteur.fr e lo ha poi ripetuto in diretta alla tv Cnews.
Una premessa: non è la prima volta che Montagnier crea un certo scalpore nell’ambiente scientifico. È così praticamente dal 2010, con una serie di tesi iconoclaste, vedi una supposta origine microbica dell’autismo, senza contare la sua crociata contro i vaccini (questa, nel 2017, gli ha valso una petizione firmata da un centinaio di medici, che hanno definito «pericolose» le sue dichiarazioni). Detto questo, sul coronavirus Montagnier ha affermato su Cnews che «c’è stata una manipolazione sul virus: almeno una parte, non la totalità. C’è un modello, che è il virus classico, che proviene soprattutto dai pipistrelli, ma al quale sono state aggiunte delle sequenze del Hiv». «In ogni caso non è naturale – ha proseguito -, è un lavoro di professionisti, di biologi molecolari. Con quale obiettivo? Non lo so. Un’ipotesi è che abbiano voluto concepire un vaccino contro l’Aids».
Nelle sue interviste Montagnier cita lo studio di un gruppo di ricercatori dell’Indian Institute of Technology di New Delhi, che ha sottolineato «una strana somiglianza» e che «ha poche possibilità di essere fortuita» nelle sequenze di aminoacidi di una proteina del Sars-CoV-2, virus responsabile del Covid-19, e di quello del Vih-1, principale responsabile dell’Aids. Lo studio, però, che non è stato pubblicato da nessuna riconosciuta rivista scientifica, è stato fortemente criticato da diversi scienziati. Hanno sottolineato che quelle sequenze sono relativamente banali e sono presenti in diversi virus. Alla fine sono stati gli stessi ricercatori indiani a ritirare dalla circolazione il loro studio. La comunità scientifica Massive Science ha già individuato una quindicina di virus che inglobano la stessa sequenza comune al Vih-1 e al Sars-CoV-2, compreso un virus delle api e un altro delle patate dolci. Secondo Gaetan Burgio, genetista dell’Australian National University, intervistato dal quotidiano Le Monde, «la sequenza comune è corta. Se ci fossero stati degli inserimenti voluti di sequenze del Vih, sarebbero state molto più grandi. Si tratta di una coincidenza».
Resta il dubbio sull’origine «artificiale» del coronavirus. Può essere il frutto di una manipolazione genetica, come indica Montagnier? I virus di fabbricazione umana esistono, ma a proposito di quello del Covid-19 bisogna restare cauti: già diversi specialisti sono intervenuti escludendo che si tratti di un virus artificiale. «Assomiglia troppo a qualcosa di naturale», ha dichiarato ancora a «Le Monde» Etienne Simon-Loriere, ricercatore all’Istituto Pasteur. «Per creare in maniera artificiale un virus così grande – ha sottolineato – ci vogliono conoscenze tecniche di cui pochi laboratori dispongono nel mondo, meno di una decina. E appare poco plausibile che degli scienziati abbiano potuto creare un virus che interagisce così bene con il recettore Ace2 (attraverso il quale s’installa nel corpo umano), mentre questo meccanismo non era mai stato osservato in precedenza».
Invece, diversi studi (cinesi, ma non solo) indicano che il virus del Covid-19 sia di origine animale (pipistrello o pangolino o entrambi). E non si esclude che sia stato studiato nel Wuhan Institute of Virology (Wiv), inaugurato nel 2017. E da lì, proprio per un incidente in un laboratorio (anche una semplice fiala caduta a terra) avrebbe potuto trasmettersi all’uomo e dilagare. E il Wiv (qui si ritorna alla Francia) è nato grazie alla cooperazione tra Pechino e Parigi (che lo ha in parte finanziato e soprattutto ha fornito il know how per la sua costruzione). Peccato, però, che i francesi ne siano poi stati in maniera misteriosa estromessi.
Il nobel Montagnier si consegna al complottismo e all’omeopatia. Da Ordinario di Storia della Medicina e docente di Bioetica presso la Sapienza Università di Roma, dirigente CNR su Il Dubbio il 20 aprile 2020. Per Montagnier il virus che causa il Covid- 19 sarebbe sfuggito da un laboratorio di Wuhan. Secondo il premio Nobel Luc Montagnier il virus che causa il Covid- 19 sarebbe sfuggito da un laboratorio di Wuhan. E se lo dice Montagnier, un premio Nobel, allora per la stampa qualcosa di vero ci deve essere. No, semmai è vero il contrario, nel senso che se lo dice anche Montagnier, allora deve essere proprio una balla. Da almeno un paio di decenni il mondo scientifico- accademico si interroga su cosa sia accaduto al capo del laboratorio di virologia del Pasteur, dove fu scoperto negli anni Ottanta il virus che causa l’Aids. La scoperta fu fatta da una intelligente scienziata, Francoise Barré- Sinoussì, ma, in quanto suo boss, Montagnier la gestì politicamente e si guadagnò una fama e un Nobel. La fama si concretizzò soprattutto in guadagni economici cospicui, grazie a contratti/ immagine con case farmaceutiche e a inviti a tenere migliaia di conferenze pagate ognuna diverse migliaia di dollari/ euro. Il Nostro era ( o è) di casa in Italia, invitato da numerose fondazioni, farmaceutiche e non. Gli scienziati sanno che dice cose insensate e pericolose, ma non lo dicono pubblicamente chissà per quale motivo, mentre le persone comuni si fanno ingannare e trovano in lui qualcuno con le stesse credenze pseudoscientifiche che hanno loro. Vogliamo mettere la soddisfazione. Luc Montaigner è un caso esemplare di quella che il chimico e premio Nobel Irving Langmuir definiva nel 1953 “scienza malata”. La scienza malata è un processo psicologico disfunzionale in cui uno scienziato, che per un periodo ha praticato il metodo scientifico guadagnandosi vasti riconoscimenti, più o meno inconsciamente si allontana da quel metodo e inizia un percorso di interpretazione dei fatti per cui le sue aspettative o i suoi pregiudizi prevalgono e piegano i dati ai suoi desideri. Almeno da un paio di decenni Montagnier crede di star inseguendo cose reali, mentre si tratta di miraggi o deliri. Nessuna delle ipotesi che va sostenendo sono state riprodotte né sono riproducibili. Se lo fossero avremmo una scienza del tutto diversa da quella che conosciamo e pratichiamo. Negli anni ha difeso presunti fenomeni elettromagnetici nel DNA, l’efficacia dell’omeopatia o di vari prodotti inutili, con aziende che lo pagano per pubblicizzarli. È arrivato ad avvallare la delinquenziale tesi che i vaccini causerebbero l’autismo. Ora si presta a rilanciare la credenza ridicola e a usare dei comici argomenti per cui il virus che causa il Covid- 19 sarebbe sfuggito da un laboratorio di Wuhan, dove lo avrebbero ingegnerizzato inserendo sequenze di HIV. La tesi è basata su un preprint di autori indiani, prontamente ritirato perché la comunità scientifica ne ha evidenziato le falle, e su una pubblicazione priva di basi scientifiche comparsa su una rivista cosiddetta predatoria, cioè che pubblica qualsiasi porcata a pagamento, la cui sede è in una strada nei pressi dell’aeroporto di Indore ( India). Tutti i dati di genomica comparativa, che hanno confrontato il genoma del virus nel pipistrello e nell’uomo, dicono che si tratta di un virus naturale. Un complesso studio pubblicato il 9 aprile sui Proceedings of the National Academy of Science descrive l’evoluzione in corso di una rete di genomi virali di cui il più ancestrale è stato trovato in pazienti del Guangdong. Un elemento costitutivo della scienza malata è l’idea che tutto quello che si sa ufficialmente sia il risultato di un complotto, finalmente smascherato da qualche intrepido che ha pensato controcorrente o ha avuto accesso a dati segreti. Sappiamo che le pandemie stimolano come pochi altri fenomeni la produzione di teorie cospirative. Perché? Le idee cospirative servivano probabilmente ai nostri antenati come strategie per ridurre l’ansia e la paura riguardo a condizioni di rischio percepito come molto grave, ma di cui non si conoscevano le cause. Le persone e le comunità elaborano teorie cospirative, le quali ipotizzano di regola delle conoscenze che ci sono state tenute nascoste da agenzie legate al potere o con interessi, per compensare la mancanza di informazioni e avere la sensazione di sapere che cosa è davvero accaduto o sta accadendo. Quindi lo fanno per dare un senso alla situazione e sentirsi in una condizione migliore di altri, in quanto si è in possesso di un sapere tenuto nascosto. Le teorie del complotto servono anche a creare aggregazione, dunque a combattere la solitudine, per cui chi ci crede si coalizza contro chi accetta la versione regolare ( noi contro loro). Il complottismo è un ritorno al tribalismo. Se, però, in quel mondo era di aiuto per sedare l’ansia, oggi è una seria minaccia per la fiducia sociale nella scienza e nella medicina, indispensabile di fronte a sfide come le pandemie, nonché un comodo mezzo per qualcuno di profittare della creduloneria di molti. Le persone come Montagnier danneggiano la scienza e la medicina, e la comunità scientifica dovrebbe dare il segnale che sa far pulizia al proprio interno. Stante che gli scienziati chiedono di sanzionare o far tacere chi propaganda la pseudoscienza, allora caccino Montagnier dalle accademie scientifiche e ritirino i premi prestigiosi che gli sono stati assegnati. Cominciando dal Nobel. Sarebbe un messaggio che le persone capiscono, al di là delle chiacchiere.
Le nuove ipotesi sul Coronavirus. Francesco Boezi su Inside Over il 23 aprile 2020. Il dottor Matteo Bertelli, presidente della Magi Euregio e direttore sanitario della Magis’s Lab, ha studiato la natura del Covid-19. Bertelli è in procinto di pubblicare uno studio su una prestigiosa rivista scientifica: l’European Review for Medical and Pharmacological Sciences. La ricerca, che Bertelli ha firmato per secondo dopo Dallavilla, presenta altre collaborazioni illustri. InsideOver ha avuto modo di apprendere in esclusiva le conclusioni del lavoro attorno alla sequenza del virus che sta sconvolgendo il mondo. Il dibattito attorno all’origine del nuovo coronavirus, del resto, persiste. E le dichiarazioni del premio Nobel per la Medicina Montagnier sembrano in grado di alimentare la cosiddetta “teoria del complotto” sull’origine artificiale del Covid-19. Ma il dottor Bertelli sembra aver scoperto altro.
Partiamo dallo studio. Lei ha approfondito il genoma del virus…Sì, lo abbiamo studiato da un’altra angolazione rispetto a quella scelta dal professor Christian Andersen nel suo studio. In buona sostanza, quando è stata pubblicata la sequenza del genoma del virus è subito fuoriuscita anche questa domanda: dove ha avuto origine il virus? Si sono formate due scuole di pensiero: una sostiene che il virus faccia parte di un processo di evoluzione naturale, il cosiddetto salto di specie che tanto piace agli evoluzionisti, l’altra scuola ritiene invece che i salti di specie non esistano e che, dietro il Covid-19, ci sia la mano dell’uomo. Quella mano che, stando alla seconda scuola, avrebbe operato attraverso la tecnologia, prendendo un pezzo di qua e un pezzo di là, finendo poi con il creare il virus. E queste, sin dalla comparsa del nuovo coronavirus, sono state le due visioni che si sono contrapposte.
Questo è il dato di partenza. Come viene studiato il Covid-19? Il Covid-19 è stato studiato mediante tre approcci diversi. Ogni approccio è stato complementare all’altro. Il fatto che siano stati usati tre approcci diversi sottolinea pure come il nostro lavoro non sia affatto un duplicato di quello di Christian Andersen. Il professor Andersen ha voluto studiare questo virus in relazione agli altri virus naturali. In questa maniera, sulla base dei dati bio-statistici, dei tassi di mutazione e di altri fattori, Andersen ha cercato di comprendere se il Covid-19 si fosse evoluto in maniera naturale. Dunque, il professor Andersen si è focalizzato sui virus naturali. L’operazione fatta da Andersen rappresenta un calcolo a posteriori. Lo ha ammesso egli stesso. Dunque la certezza matematica sull’evoluzione naturale non può essere raggiunta. Se non altro perché quella certezza non è stata fotografata al momento. Andersen è stato molto onesto su questo. Potrebbe anche esserci la mano dell’uomo, insomma, ma lo studio di Andersen, intanto, dimostra che un processo di evoluzione naturale è compatibile con la sequenza del virus.
E voi che approccio avete usato? Noi abbiamo scelto un altro approccio. Noi abbiamo tentato mediante l’ipotesi opposta, ossia quella che prevede di scartare l’aspetto dell’evoluzione naturale, considerando solo i virus di laboratorio ed artificiali. Parlo di quelli depositati in banca dati. Dopo l’epidemia di Sars, in molti hanno iniziato a cercare di costruire una strategia per arrivare ad un vaccino. All’interno di questa strategia, in programma c’erano anche delle sperimentazioni basate sulle biotecnologie. Esistono anche dei brevetti, alcuni più antichi, altri più recenti, ma comunque tutti basati sull’ingegneria virale. Noi abbiamo scaricato le sequenze di questi brevetti utilizzati a scopo di ricerca per curare malattie come la Sars ed abbiamo cercato di capire se il Covid-19 potesse avere un’origine artificiale, escludendo infine questa ipotesi. Il nostro lavoro è complementare a quello di Andersen. Lui è partito dalle sequenze naturali. Noi da quelle artificiali da laboratorio. E poi c’è un altro studio…
Ma voi cosa avete scoperto? La prima ipotesi sul campo era quella della compatibilità del Covid-19 con la sequenza di un virus del pipistrello e del serpente. Ma rimanevano delle regioni di bassa omologia. Abbiamo trovato all’interno di un database – non di quello classico – la sequenza del virus di un pangolino. E questa ci è stata molto utile. Siamo stati il secondo gruppo al mondo a poter analizzare anche questa sequenza che, a nostro avviso, è in grado di chiudere un po’ il cerchio. Esistono a questo punto dati solidi sul processo evolutivo: aggiungendo la sequenza del pangolino a quella del serpente e a a quella del pipistrello, si ottiene un fortissima corrispondenza. Ma nel frattempo…
Nel frattempo? Nel frattempo un gruppo indiano ha dichiarato di aver trovato nel virus delle sequenze del virus dell’Hiv. In particolare, nella sequenza di una proteina. Il loro tipo di analisi è molto diverso dal nostro tipo di analisi. E questo perché, mentre noi abbiamo analizzato soltanto la sequenza nel suo complesso, loro hanno ricercato delle similarità in aspetti molto molto piccoli. Loro hanno trovato due regioni di similarità. Una però si trova anche all’interno di altri virus, in specie nei beta-coronavirus. L’altra si trova addirittura in più specie rispetto alla prima. La sequenza individuata dagli indiani si trova insomma in tantissimi altri virus. Come si fa dunque a sostenere che quella sequenza sia stata presa proprio dal virus dell’Hiv? E come si fa a sostenere dunque che il Covid-19 sia stato originato in maniera artificiale? L’ipotetico “scienziato pazzo” avrebbe inserito quelle similarità anche in tutti gli altri virus in cui si rintraccia?
Quindi lei si sente di escludere qualunque tipo di manipolazione da laboratorio? Lei conoscerà la tesi di Montagnier…Ho ascoltato su YouTube l’intervista del professor Montagnier. Nella intervista, Montagnier parla di studi e ricerche molto minuziosi. Mi sembra strano che il professore non li abbia ancora pubblicati. Tutto sommato, nell’ambito della scena scientifica, al di là del prestigio che è fuori discussioni, è necessario che le scoperte vengano pubblicate. E poi Montagnier cita quel lavoro indiano, che a me risulta sbagliato. Anche la comunità scientifica ha contestato il lavoro degli indiani, chiedendone la ritrattazione. Il metodo scientifico non prevede che un’affermazione debba essere aprioristicamente giusta. Il metodo scientifico prescrive che il dato venga pubblicato e che gli altri abbiano la possibilità di verificarlo, fino magari a divenire qualcosa di non confutabile.
Lei quindi esclude nella maniera più assoluta che questo virus dipenda da una manipolazione umana? No. Io questo non lo posso escludere. Posso dire che è compatibile con un processo di evoluzione naturale e che il Covid-19 non presenta al suo interno le sequenze dei virus artificiali depositati in banca dati. Scusi l’esempio banale: come si fa a constatare la differenza tra un bambino nato dalla fecondazione assistita e un bambino non nato con la fecondazione naturale? Non si distinguono. La storia, al limite, li distingue. Io le posso dire che questo virus è compatibile con un processo di evoluzione naturale. Se poi qualcuno avrebbe voluto creare il Covid-19 così com’è, lo avrebbe potuto fare. Se io fossi uno “scienziato pazzo”, forse, costruirei un virus più possibile simile a quello derivante da un’evoluzione naturale. Non inserirei fattori in grado di suggerire la manipolazione artificiale.
Montagnier e gli altri: vinco il Nobel e perdo la ragione. Daniele Zaccaria su Il Dubbio il 22 aprile 2020. Extraterrestri, rimedi miracolosi, panacee, programmi eugenetici, complottismi: le sorprendenti derive intellettuali dei grandi scienziati. Il principio di autorità scientifica è un dogma assoluto? Certamente no. Può essere un criterio ragionevole per arginare le involate digitali dei tanti laureati all’università della vita, cospirazionisti, improvvisati virologi, ingegneri, metereologi, apocalittici e via dicendo. Ma la scienza per non scivolare nella metafisica e nella religione, tanto per richiamare il citatissimo criterio di Popper, deve essere “falsificabile”, le sue congetture devono cioè poter essere confutate dall’esperienza ed è sufficiente un esperimento negativo per far crollare un’intera teoria. Questo vale per i suoi enunciati, figuriamoci per i suoi esponenti in carne e ossa. Anche i più titolati, prestigiosi e geniali scienziati possono naufragare nell’ignoto, a volte perdersi nella follia. Le biografie di diversi premi Nobel stanno lì a ricordarci quanto sia labile il filo della ragione, appeso com’è alla vanità, all’ideologia, alla fragilità umana e persino all’interesse personale. Stanno facendo discutere in questi giorni le parole di Luc Montagnier, Nobel della medicina 2008 per aver contribuito a scoprire e isolare il virus dell’Hiv ( responsabile dell’Aids). Secondo Montagnier il virus covid19 sarebbe stato creato in laboratorio, una suggestione che circola da mesi smentita in modo dall’insieme dei microbiologi e virologi del pianeta. Se sono ormai diversi anni che Montagnier si addentra nei meandri delle pseudoscienze e degli pseudorimedi, dall’omeopatia alla papaya fermentata per curare il parkinson, non è certo il primo grande scienziato che cade in questa deriva. Karry Mullis, Nobel per la chimica del 1993, ha inventato la PCR, una tecnica fondamentale nel campo della ricerca biomedica che permette di automatizzare la replicazione in provetta del DNA. Ma nel tempo ha maturato idee alquanto eterodosse, si è convinto che l’Hiv non provochi l’Aids, si definisce «complottista», è un appassionato di astrologia e crede fermamente negli alieni, dal lui descritti nella psichedelica autobiografia Ballando nudi nel campo della mente come simili a «procioni luminosi». Mullis sosteneva persino di poter “vedere” a occhio nudo le molecole dei polimeri grazie all’assunzione di generose dosi di LSD. James Dewey Watson, Nobel per la medicina del 1962 grazie alla scoperta della struttura degli acidi nucleici del DNA, a partire dagli anni 2000 si è invece lasciato inghiottire dall’ideologia razziale, arrivando a sostenere che «i neri sono meno intelligenti dei bianchi», «che l’uguaglianza intellettuale è un’illusione» e «che il sole attiva il DNA degli ispanici trasmettendogli l’impulso sessuale». La stessa botola in cui è caduta un’altra grande mente: William Shockley, Nobel per la Fisica nel 1956 e padre del transistor, il dispositivo a semiconduttore che è alla base della moderna elettronica. Anche Shockley, come e più di Watson, si è formato l’idea che gli esseri umani non sono uguali, auspicando un ricorso all’eugenetica che permetta di sterilizzare tutti i bambini con quoziente intellettuale inferiore a 100. Questo perché un elevato tasso di riproduzione tra gli individui meno intelligenti porterebbe a un «effetto disgenico», abbattendo il intellettivo medio di homo sapiens. Linus Pauling, Nobel per la chimica nel 1954 per via dei suoi studi di genetica molecolare e Nobel per la pace nel 1962 in virtù del suo attivismo pacifista, invece non è mai sprofondato nel fanatismo razzista, la sua deriva è tutta interna all’ambito scientifico. Negli ultimi anni della sua vita era infatti ossessionato dalla vitamina c che a suo avviso in dosi massicce avrebbe potuto curare qualsiasi patologia, una sorta di medicina universale che ricorda la mitica panacea degli antichi greci. Pauling ha anche attribuito un nome alla sua terapia: la medicina ortomolecolare, ma non ha pubblicato nessuno studio che dimostrasse le sue teorie e questa definizione appartiene alle cosiddette pseudoscienze. Le idee di Pauling però influenzano ancora il senso comune e in questi mesi di pandemia e infodemia il web è ricolmo di improvvisati specialisti che invitano a consumare la vitamina c per eliminare il covid19 dall’organismo. Uno che il Nobel non l’ha mai vinto ma che ci è andato vicino grazie alla profondità delle sue ricerche è l’astrofisico Fred Hoyle; fu lui a coniare il fortunato termine “Big Bang” in opposizione proprio a quella teoria, fu lui a formulare l’ipotesi della nucleosintesi stellare che descrive l’insieme delle reazioni nucleari che avvengono nel nucleo di una stella. Convinto sostenitore della “panspermia” ( la vita sulla terra sarebbe giunta dallo spazio), pensava che le epidemie fossero causate dalle comete, che l’Archeopteryx (animale che per la biologia evoluzinista costituisce l’anello di congiunzione tra rettili e uccelli) non fosse mai esistito e c persino che il petrolio non avesse origine organica.
Cristina Marrone per corriere.it il 17 aprile 2020. Rimbalza tra Washington e Pechino la teoria (emersa anche nelle prime fasi del contagio) che il coronavirus sia nato in un laboratorio cinese di Wuhan e che poi sia sfuggito al controllo contagiando il resto del mondo. Gli scienziati escludono però che Sars-Cov-2 sia stato creato in laboratorio, affermando che il nuovo virus è di origine naturale, e parlano di fantabioterrorismo ma l’intelligence americana sta indagando.
Contagio accidentale? Al centro delle attenzioni c’è Whuan Institute of Virology (WIV) , sotto osservazione dagli scienziati statunitensi già nel 2018 per carenze nella sicurezza, secondo quanto riportato dal Washington Post che cita due report diplomatici. Lì da tempo si studiavano i coronavirus provenienti dai pipistrelli e la loro potenziale trasmissione agli esseri umani. Sappiamo che gli analisti americani non sono in grado di confermare la teoria sull’origine del virus in laboratorio, ma stanno cercando di capire se qualcuno possa essere stato contagiato nella struttura in modo accidentale o per carenza dei dispositivi di sicurezza, trasmettendo l’infezione ad altri. Il segretario di Stato Mike Pompeo ha sottolineato che «c’è ancora molto che non sappiamo e ci servono risposte a queste domande». Non dunque una bestia creata a tavolino, ma l’errore umano/tecnico a Wuhan.
I 4 livelli di biosicurezza. Ma quali sono le misure di sicurezza dei laboratori? I laboratori che studiano virus e batteri seguono un sistema noto come BSL (biosafety level) ovvero livello di biosicurezza che prevede una serie di precauzioni di biocontenimento a secondo del rischio. Il livello di biosicurezza 1 (BSL-1) è il più basso ed è utilizzato dai laboratori che studiano agenti patogeni noti che non rappresentano una minaccia per l’uomo. Le precauzioni di contenimento (dalle tute, ai sistemi di ventilazione, alle cappe, ai filtri, docce per gli operatori, zone filtro) aumentano man mano che crescono i pericoli fino ad arrivare a un livello di biosicurezza 4 (BLS-4) che è il più alto, riservato ai laboratori che si occupano dei patogeni più pericolosi per i quali trattamenti e vaccini non esistono o sono molto limitati: ebola, virus di Marburg e vaiolo . In Italia, l’unico laboratorio BLS-4 si trova all’Istituto Spallanzani di Roma. Sars-CoV-2, come i cugini Sars e Mers è gestito al livello BLS-3, quindi un gradino sotto al massimo livello di sicurezza e sono molti i laboratori nel mondo che potrebbero maneggiarlo.
Ma è verosimile la fuoriuscita accidentale da un laboratorio? Ma è verosimile che un virus, sia pure di origine naturale come il nuovo coronavirus, possa essere fuoriuscito da un laboratorio? Secondo la dottoressa Filippa Lentzos del King’s College di Londra, intervistata dalla BBC ci sono vari modi per cui possono essere violate le misure di sicurezza nei laboratori che trattano agenti biologici: mancata formazione, protezioni inadeguate durante l’accesso ai laboratori, registri incompleti, segnaletica insufficiente, mancata segnalazione di agenti patogeni e di notifica di incidenti e lacune nelle procedure di emergenza. Molte violazioni minori non arrivano neppure a conoscenza del grande pubblico. Ma anche nei laboratori più sicuri gli incidenti possono accadere. Nel 2014 furono trovate fiale di vaiolo in una scatola di cartone in un centro di ricerca vicino a Washington. Nel 2015 per errore furono spediti cam pioni di antrace viva a nove laboratori americani. Maria Rosaria Capobianchi, direttore del laboratorio di virologia all’istituto Spallanzani di Roma ritiene «poco verosimile» la fuoriuscita accidentale del virus da un laboratorio: «Tutte le procedure di controllo sono tese a minimizzare i rischi e gli operatori lavorano con grande scrupolo e attenzione a partire dalla vestizione, con controllo reciproco alla gestione dei patogeni. Inoltre è interesse della comunità scientifica comunicare un eventuale incidente: meglio sapere e rimediare subito. Non esiste nessun obbligo, ma è la comunità scientifica che se lo è autoimposto perché tra di noi ci si deve fidare, si chiama TRUST. Del resto si sono verificati incidenti biologici in laboratorio anche con Sars e Mers e sono stati prontamente notificati con la massima trasparenza a tutta la comunità scientifica internazionale. Inoltre, anche l’esistenza di un nuovo patogeno sarebbe stata notificata e non tenuta nascosta».
Il virus di origine naturale. All’inizio dell’epidemia era già emersa l’ipotesi che il nuovo coronavirus fosse fuoriuscito da un laboratorio, magari progettato come nuova arma biologica per sterminare l’umanità. La teoria è stata più volta respinta dagli scienziati che hanno ribadito che il virus ha avuto origine dagli animali, probabilmente dai pipistrelli e poi ha fatto il salto di specie sull’uomo, passando da un animale-ponte non ancora chiaramente identificato. Insomma no, il nuovo coronavirus non è nato in laboratorio e lo dice la biologia molecolare. A volte i virus possono essere progettati ai fini della ricerca scientifica ma non ci sono tracce che questo virus sia stato progettato: Sars-Cov-2 ha avuto origine seguendo processi naturali.
Nessuna prova. Dato per assodato che il nuovo coronavirus ha origini naturali l’altra accusa riguarda il rilascio accidentale del virus naturale da un laboratorio, anche se l’ipotesi è considerata remota. La vicinanza del mercato ittico di Wuhan dove in un primo momento è stata identificata Covid-19 di due laboratori che svolgono ricerche sulle malattie infettive ha alimentato ipotesi in questo senso. Che il WIV abbia condotto ricerche sui coronavirus dei pipistrelli è una questione di dominio pubblico e legittimo, tanto che ci sono varie pubblicazioni sulle riviste internazionali. Non dimentichiamoci l’esperienza della Sars nata proprio in Cina nel 2002, motivo per cui ricerche del genere non sorprendono. Ma al momento non ci sono prove che qualunque laboratorio di Wuhan possa aver originato la pandemia.
Ci sono due nuove ipotesi sull’origine del Coronavirus. Federico Giuliani su Inside Over il 24 febbraio 2020. Dal 18 al 27 ottobre 2019 a Wuhan si è svolta la settima edizione dei Giochi militari mondiali (Cism Military World Summer Games 2019). Oltre 10mila atleti provenienti da quasi 140 Paesi hanno partecipato all’appuntamento per sfidarsi in 27 differenti sport, il tutto distribuito in più di 300 eventi. Stando a quanto riferito dal Southern Weekly, durante la competizione cinque atleti stranieri – dei quali non è stata rivelata la nazionalità – sono stati trasportati al City Jinyintan Hospital a causa di “malattie infettive importate e trasmissibili”. Quando questa notizia è stata rilanciata sulla rete cinese, i social locali sono stati invasi da teorie e ipotesi di ogni tipo. Molti hanno addirittura collegato la rassegna iridata internazionale con la possibile diffusione del Covid-19. Il direttore del nosocomio, Zhang Dingyu, ha tuttavia spiegato che i pazienti ricoverati “soffrivano tutti di malaria“. In ogni caso, non appena ricevuta la segnalazione, l’ospedale ha immediatamente lanciato un piano di emergenza per le malattie infettive, avviando, tra l’altro, un trattamento di isolamento per i cinque infetti. Il signor Zhang ha quindi ribadito che la “malattia infettiva importata” dagli stranieri era malaria. Nulla a che fare, insomma, con il virus che dai primi di dicembre ha iniziato a contagiare i primi cittadini di Wuhan, provocando misteriose polmoniti. C’è un aspetto, in particolare, che ha tuttavia spinto numerosi cittadini a interrogarsi su quanto avvenuto. Nei giorni dei Giochi, nessuno sapeva ancora cosa fosse il coronavirus, tanto meno come diagnosticarlo. “Sarà stato diagnosticato erroneamente?”, si chiede adesso un utente, lasciando trapelare un possibile errore nella diagnosi della malaria.
La nuova ipotesi degli scienziati cinesi. Nel frattempo, come ha sottolineato il South China Morning Post, alcuni scienziati cinesi ritengono che il coronavirus possa non essersi originato al mercato ittico di Huanan, nel cuore della città di Wuhan. È vero, in Cina mercati del genere vendono anche animali selvatici, molti dei quali (pipistrelli e serpenti) sospettati principali nella trasmissione del virus all’uomo. Eppure un team di ricercatori ha analizzato i dati di 93 campioni di Covid-19 provenienti da 12 Paesi differenti ha fatto una scoperta che potrebbe cambiare le carte in tavola. I dati genomici dell’agente patogeno suggeriscono che il virus possa provenire dall’esterno del mercato e non, come fin qui sostenuto, dal suo interno. Il report contente questo studio è consultabile online dal 21 febbraio. Studi del genere, che aiutano a rintracciare la fonte dell’epidemia, sono di grande significato per trovare la fonte del coronavirus, determinare l’ospite intermedio, controllare l’epidemia e impedirne la diffusione. Sintetizzando, in un primo momento molti pazienti contagiati sono stati ricollegati al mercato ittico di Huanan, chiuso dal primo gennaio. A questo punto il luogo indicato da tutti come ground zero potrebbe soltanto aver potenziato la circolazione del Covid-19 e non rappresentare la fonte della sua origine. Si ipotizza addirittura che la trasmissione da uomo a uomo possa essere iniziata molto prima di gennaio, addirittura nel tardo novembre 2019.
Pericolo sventato. La città di Wuhan ha pagato un prezzo altissimo. L’intera megalopoli, così come l’intera provincia dello Hubei, è bloccata dallo scorso 23 gennaio, con i quartieri residenziali messi in quarantena, strade vuote e mezzi di trasporto pubblici sospesi. Nelle ultime ore le autorità locali avevano annunciato l’allentamento delle misure di emergenza imposte da Pechino per contenere la diffusione dell’epidemia. Tre ore dopo, ha riferito il Global Times, è arrivato un secco dietrofront: “Wuhan ritira l’annuncio di esenzione dal blocco. È stato diffuso prima dell’approvazione finale da parte dell’ufficio di comando per il controllo dell’epidemia”. Che cosa è successo? Secondo China New Service l’avviso, adesso ritirato, sarebbe stato emesso da un gruppo di lavoro subordinato del comando di controllo delle malattie, senza l’approvazione dei loro superiori. Ed è per questo motivo che il governo centrale avrebbe imposto la retromarcia. Anche perché l’ordine ritirato avrebbe consentito ai non residenti – quelli che non presentavano sintomi e non avevano contatti con pazienti infetti – di poter lasciare la città di Wuhan, in mezzo a mille rischi.
Da tgcom24.mediaset.it l'8 marzo 2020. Già nel 2018 l'Organizzazione mondiale della Sanità metteva in guardia sui rischi della proliferazione di laboratori Bsl-4 (il livello di biosicurezza più alto) in diverse nazioni, senza una vera supervisione internazionale. E' quanto riporta il Wall Street Journal, in un articolo a firma di James T. Areddy che fa il punto sul rischio sicurezza nei laboratori che studiano i virus, come quello sorto in Cina, a Wuhan, nel 2017. Gli esperti - sostiene il Wall Street Journal - concordano sul fatto che il rischio di incidenti o atti terroristici sia salito con la nascita in tutto il mondo di centri che gestiscono virus letali. "Il rilascio di microganismi patogeni come il Covid-19 sembra più probabile in Paesi senza normative specifiche", ha affermato al quotidiano americano Thomas Binz, massimo esperto di biosicurezza in Svizzera. L'Oms nel 2018, mettendo a confronto esperti di biosicurezza di decine di paesi, ha discusso dei rischi di un numero crescente di laboratori Bsl-4 evidenziando "un certo livello di sfiducia tra le strutture consolidate e quelle più recenti" e avvertendo "la comunità internazionale che un qualsiasi incidente in una delle strutture avrebbe avuto ripercussioni su tutte le altre. Nello stesso report di due anni fa l'Oms contava 54 laboratori di questo tipo in 24 diverse nazioni. L'ipotesi del virus sfuggito dal laboratorio di Wuhan - Il primo a ipotizzare un incidente all'interno del laboratorio di Wuhan è stato lo scienziato cinese Botao Xiao, che in passato aveva lavorato nel centro della regione dello Hubei. La sua ipotesi, rilanciata negli Stati Uniti da personalità come il senatore dell'Arkansas Tom Cotton, è stata smentita dal governo cinese. Lo stesso Xiao ha successivamente ritirato il suo studio perché "non supportato da prove dirette". La teoria dell'incidente nel laboratorio Bsl-4 dello Hubei aveva preso vigore dopo che Pechino aveva inviato a Wuhan il generale Chen Wei, specialista in armi batteriologiche, In una lettera pubblicata dalla rivista medica Lancet più di venti virologi di fama mondiale hanno affermato che "le teorie della cospirazione non fanno altro che creare paura e pregiudizi che mettono a repentaglio la collaborazione globale nella lotta al coronavirus".
Coronavirus, l'ex militare isrealiano: "A Wuhan il laboratorio di armi biologiche". Migliaia di morti? Libero Quotidiano il 25 Gennaio 2020. Il coronavirus terrorizza il mondo. La Cina estende il cordone sanitario a 56 milioni di persone, gli Stati Uniti richiamano da Wuhan i cittadini americani. Solo in Cina le vittime sarebbero salite a 41, 1.300 i casi accertati. E ancora, è stata disposta la chiusura di parte della Grande Muraglia e della Città proibita. Tredici le città isolate. Tra le vittime anche un medico che curava i pazienti proprio a Wuhan. Ma a spaventare, soprattutto, sono le ultime indiscrezioni relative a quanto sta realmente accadendo. Sin dal principio, infatti, sono stati parecchi i dubbi circa le versioni delle autorità cinesi, così come con dubbi vengono accolti i dati ufficiali del bilancio. Ed in questo contesto, la bomba arriva dagli Stati Uniti. A sganciarla, sul Washington Times, un ex ufficiale dell'intelligence militare israeliana, Dany Shoham, esperto di guerra batteriologica, il quale ha rivelato che a Wuhan c'è un laboratorio collegato al programma segreto di armi chimiche portato avanti da Pechino. Si tratterebbe dell'uncio laboratorio del Paese ritenuto sicuro per lo studio di virus mortali. Al Washington Times, Shoham ha rivelato che all'interno di Wuahn "sono probabilmente utilizzate, in piani di ricerca e sviluppo, armi biologiche". Ma non solo. Paolo Liguori, su TgCom24, aggiunge poi che un'ipotesi accreditata sul contagio riferisca di un tecnico che in quel laboratorio si è infettato. Ma non solo, "si parla già di migliaia di morti", conclude.
DAGONEWS il 23 gennaio 2020. Esiste un solo laboratorio in Cina capace di soddisfare gli standard di sicurezza richiesti per studiare il virus “Ncov”. Il laboratorio si trova, guarda te che coincidenza, nel centro di Wuhan, la città in cui il coronavirus ha fatto la sua comparsa la prima volta. La struttura, nota come Wuhan National Biosafety Laboratory, è ospitata presso l'Accademia cinese delle scienze ed è stata appositamente progettata per aiutare gli scienziati cinesi a "prepararsi a rispondere ai futuri focolai di malattie infettive", secondo un rapporto del 2019 pubblicato dai Centri statunitensi per Controllo e prevenzione delle malattie (CDC). Il progetto è nato nel 2003 da una collaborazione con la Francia in seguito all’epidemia di SARS: all’epoca 8.000 persone contrassero l'infezione e più di 750 morirono in tutto il mondo. I laboratori che gestiscono gli agenti patogeni sono classificati con un punteggio da 1 a 4, a seconda della classe di microbi di cui si occupano, con 1 che rappresenta il rischio più basso e 4 che rappresentano il rischio più alto. Designato al livello di biosicurezza 4 (BSL-4), nel laboratorio di Wuhan sono studiati gli agenti patogeni più pericolosi del mondo. Tutti i ricercatori in un laboratorio BSL-4 devono cambiare i loro vestiti quando entrano nella struttura, fare la doccia all'uscita e decontaminare tutti i materiali utilizzati durante la sperimentazione, secondo il CDC. I ricercatori del laboratorio indossano tute pressurizzate per isolarsi dall'ambiente circostante. Il laboratorio stesso deve essere tenuto in un edificio separato o in un'ala isolata e deve essere dotato di propri sistemi di filtrazione dell'aria e di decontaminazione. I laboratori BSL-4 servono per gestire virus come l’Ebola, il Nipah e la Crimea-Congo, che sono tutte malattie altamente trasmissibili e spesso fatali. Sebbene la Cina abbia intenzione di costruire da cinque a sette laboratori ad alta capacità di isolamento entro il 2025, ad oggi, solo il laboratorio di Wuhan ospita agenti patogeni di questa natura. I funzionari sanitari cinesi hanno classificato il nuovo coronavirus come una malattia infettiva di classe B, collocando la malattia nella stessa categoria della SARS e dell'HIV/AIDS. Tuttavia, il governo cinese ha annunciato che introdurrà controlli di classe A - di solito riservati a malattie più pericolose, come il colera e la peste - nel tentativo di contenere l'epidemia.
VIRUS DI ORIGINE ANIMALE.
Nuova scoperta: non solo i pipistrelli sono serbatoi del coronavirus, nei pangolini c’è un virus simile. Redazione venerdì 27 marzo 2020 su Il Secolo d'Italia. I coronavirus in un piccolo numero di pangolini introdotti clandestinamente in Cina. Un nuovo allarme. Hanno mostrato di essere strettamente correlati al coronavirus Sars-CoV-2. Lo riporta un articolo pubblicato su “Nature”. Il grado di somiglianza non è sufficiente per suggerire che i pangolini siano gli ospiti intermedi direttamente coinvolti nell’attuale epidemia di Sars-CoV-2. Tuttavia, i risultati suggeriscono che i piccoli animali sono un secondo ospite di coronavirus nei mammiferi. E che la loro vendita nei mercati della fauna selvatica dovrebbe essere severamente vietata per ridurre al minimo il rischio di future trasmissioni di virus all’uomo.
I pangolini sono utilizzati in Cina. Sebbene l’evidenza suggerisca che i pipistrelli siano il più probabile serbatoio di Sars-CoV-2, rimane sconosciuta l’identità degli ospiti intermedi. Loro potrebbero aver facilitato il trasferimento del virus all’uomo. Il mercato cinese è stato chiuso poco dopo l’inizio dell’epidemia, il che ha impedito la ricerca delle specie animali potenziale fonte di infezione. Le ipotesi si sono rivolte ai pangolini, che sono i mammiferi più comunemente trafficati illegalmente e sono utilizzati in Cina sia come cibo che nella medicina tradizionale. Yi Guan e colleghi dell’Università di Hong Kong, della Shantou University e della Guangxi Medical University hanno analizzato campioni prelevati da 18 pangolini malesi provenienti da operazioni anti-contrabbando nella Cina meridionale tra agosto 2017 e gennaio 2018. Hanno rilevato coronavirus correlati alla Sars-CoV-2 in 5 di questi animali. Hanno inoltre rilevato coronavirus simili in 3 su 12 altri animali sequestrati in una seconda provincia nel 2018 e in un animale individuato in una terza provincia da cui è stato raccolto un campione nel 2019.
La somiglianza si sequenza. I virus isolati da questi campioni hanno una somiglianza di sequenza di circa 85 -92% rispetto a Sars-CoV-2. Tuttavia, tutti i coronavirus dei pangolini identificati fino ad oggi mancano di una specifica alterazione nelle loro sequenze che si osserva in Sars-CoV-2 umano, il che pone incertezza sul loro ruolo nella trasmissione del nuovo coronavirus nell’uomo.
Ulteriore monitoraggio sui pangolini. I pangolini sono gli unici mammiferi diversi dai pipistrelli che, secondo le verifiche, possono essere infettati da un coronavirus correlato a Sars-CoV-2. Questi risultati evidenziano un ruolo potenzialmente importante di questi animali nell’ecologia dei coronavirus, ma non implicano direttamente un loro ruolo nella trasmissione di Sars-CoV-2 all’uomo. Gli autori suggeriscono che è necessario un ulteriore monitoraggio dei pangolini per comprendere il loro ruolo nell’emergere di coronavirus in grado di infettare l’uomo.
Da repubblica.it il 20 marzo 2020. Il nuovo coronavirus (Sars-CoV-2) sarebbe il risultato dell'evoluzione naturale di altri virus della stessa famiglia e non un prodotto di laboratorio o di ingegneria genetica (cioè non fatto dall'uomo manipolando geni virali in provetta), come insinuato più volte dall'inizio dell'epidemia. Lo suggerisce uno studio sui genomi del Sars-CoV-2 e virus affini pubblicato sulla rivista Nature Medicine. "Confrontando i dati genetici ad oggi disponibili per diversi tipi di coronavirus, possiamo risolutamente determinare che il Sars-CoV-2 si è originato attraverso processi naturali" - afferma Kristian Andersen, dello Scripps Research Institute di La Jolla che ha condotto il lavoro. Gli esperti hanno in particolare confrontato il gene per una proteina chiave nel processo infettivo, una proteina dell'involucro esterno del virus (chiamata spike, da punta o spina) che gli serve per attaccarsi, entrare e infettare le cellule umane. Spike è dotata di un "uncino molecolare" (chiamato porzione RBD) con cui il virus si lega alle cellule umane incastrandosi alla molecola Ace2, (recettore importante nella regolazione della pressione del sangue). Il legame tra Rbd e Ace2 è essenziale per iniziare l'infezione. Inoltre spike ha anche una 'forbice molecolare' che aiuta il virus a penetrare nella cellula umana. Il legame tra Rbd e Ace2 è talmente perfetto (Rbd si incastra a perfezione con Ace2 come una chiave con la sua serratura o due pezzi di un puzzle), spiegano, che non può essere altro che il risultato della selezione naturale e non il prodotto dell'ingegneria genetica. Questa e altre "caratteristiche del virus, la sequenza genetica di Rbd e la spina dorsale del virus - conclude Andersen - ci portano a scartare l'ipotesi della manipolazione di laboratorio come possibile origine del Sars-CoV-2".
Il virus nato in laboratorio? Così la scienza smentisce l’assurda tesi del complotto. Pubblicato venerdì, 20 marzo 2020 su Corriere.it da Edoardo Boncinelli. «Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio...» dice Amleto all’amico e compagno di studi. Questo famoso avvertimento, rivolto più a se stesso che all’amico, mi viene in mente tutte le volte che mi trovo al cospetto di qualcosa di misterioso o, per meglio dire, di tanto ricco e nuovo da apparirci misterioso. In questi giorni siamo chiusi in casa a vedere quando passerà questo turbine virale che sembra fare volar via tutti gli stracci. Sto parlando del Covid-19, che ci fa rimpicciolire il cuore e farfugliare il cervello. Prima non c’era, ora c’è, eccome! Da qualche parte sarà venuto, ma da dove? E, soprattutto, chi ci ha messo lo zampino? Noi uomini non vediamo le montagne, ma gli zampini ci sembra sempre di vederli. Nell’ansia di spiegare ma anche d’incolpare. E i soliti «ben informati» ci forniscono tutti i dettagli. Nella fattispecie c’è chi è sicuro che la presente forma del virus sia stata confezionata a bella posta in qualche laboratorio o che la sua diffusione sia dovuta a una fuga di materiale infetto da qualche arsenale biologico. O si tratti di una combinazione delle due cose. Non è così. Ce lo dice la biologia molecolare. Sull’ultimo numero della rivista Nature Medicine si può leggere un articolo secco e tagliente, corredato fortunatamente da una splendida figura a colori. È un dato bruto e scheletrico, eccezionale anche per la biologia molecolare: sequenze di Dna allineate lettera a lettera, per poter essere confrontate. Due sono di coronavirus umano (una dell’attuale agente virale del Covid-19) tre di coronavirus di pipistrello e una di coronavirus di pangolino. Le sequenze riguardano la «punta» più esterna di quei minuscoli organelli, quasi antennine, con cui il virus viene a contatto con le cellule, in questo caso le nostre. Sono state scelte in particolare due minuscole regioni di cui parleremo fra un attimo. Il risultato è chiaro. Il virus attuale è strettamente imparentato con gli altri virus del passato, appartenenti alla stessa famiglia. Le differenze sono piccole ma significative, originatesi probabilmente per mutazione spontanea. Non c’è nessuna evidenza che possano essere state prodotte in laboratorio. Quel che resta da decidere è se le mutazioni sono intervenute quando il virus aveva già invaso la specie umana, o mentre era ancora ospite di cellule di un animale diverso, pipistrello o pangolino probabilmente, o infine durante il passaggio dalla specie precedente alla nostra. Gli autori non sanno decidere; la cosa richiederà altro lavoro. Avevo accennato alle due piccole regioni analizzate. La prima riguarda l’attracco del virus alla cellula da attaccare, la parte «offensiva» della particella virale: più efficace la manovra di attracco, più considerevole il danno per l’organismo ospite. Ma anche l’organismo si difende, spezzando l’organello di contatto stesso, e lo fa «attaccando» la seconda piccola regione della nostra sequenza. Dal punto di vista del virus questo significa sapersi o non sapersi proteggere dalla reazione del corpo. Anche in questo piccolo oggetto biologico, quindi, esiste l’attacco, la prima regione, e la difesa, la seconda regione. Non sarebbe male ricordarsene quando si pontifica su ciò che è bene e male, e si pretende di «insegnare» alla natura come si deve comportare. Per quel che ci riguarda qui, non ci sono stati complotti o «scherzetti» da parte di esseri umani, anche se sono sicuro che qualcuno non ci crederà. Noi esseri umani siamo scagionati allora? No. Ci sono tre delitti dei quali ci siamo macchiati e ci stiamo macchiando: l’indifferenza verso il degrado ambientale del pianeta, la nostra insaziabile ingordigia e venalità e la presuntuosa ignoranza. Del degrado ambientale non parlerò perché se ne parla anche troppo, ma quando l’ambiente si degrada si degrada tutto. Perché l’ingordigia? Perché gli animali che ci hanno trasmesso la malattia, i poveri pangolini, sono oggetto di affannoso commercio, per la loro «carne» e per i supposti pregi medicamentosi. Pare che il mercato di Wuhan ne brulicasse. Tenerissimo è il pangolino, mezzo armadillo e mezzo formichiere, capace di appallottolarsi in un attimo a scopo di difesa. Il suo nome viene dal termine malese che designa «quello che si appallottola», al punto che i primi esploratori gli dettero il nome di carciofo a quattro zampe. Ingordigia quindi come in quasi tutte le epidemie dei nostri tempi. E del futuro. Ma anche ignoranza e presunzione che portano ad attribuire agli organi animali più diversi, poteri mirabolanti, se non magici nell’incidere sulla nostra salute. Questo è grave. Qualunque problema possa derivare dall’aumento delle conoscenze e dalla scienza non sarà mai con l’ignoranza e la sicumera che potremo rispondere efficacemente.
PiazzaPulita, la virologa Ilaria Capua: "Coronavirus? Uscito dalla giungla, ecco perché galoppa in Italia". Libero Quotidiano il 28 Febbraio 2020. Parole ambivalenti, sia preoccupanti sia tranquillizzanti, quelle della virologa Ilaria Capua, ospite in collegamento a PiazzaPulita, il programma di Corrado Formigli in onda su La7, nella puntata di giovedì 27 febbraio. Si parla ovviamente di coronavirus, del contagio da Covid-19 che sta colpendo l'Italia. E la Capua premette: "Quando non si conosce il nemico, bisogna essere cauti". Dunque, argomenta nel dettaglio: "Questo virus è uscito dalla giungla e si è ritrovato di fronte una prateria di semafori verdi. Essendo sconosciuto alla popolazione umana galoppa". Eppure, riprende, "arriverà l’immunità di gregge e quindi i semafori rossi", conclude Ilaria Capua.
SCHEDA Quello che sappiamo sul coronavirus: capacità di diffondersi e tempi di incubazione. Si inattiva a 37 gradi, ma resiste al freddo anche sotto lo zero. La Stampa il 24 Febbraio 2020.
TASSO DI DIFFUSIONE. «Al momento la stima in 2,3 è calibrata sui pazienti di Wuhan», la città cinese epicentro dell'epidemia, e si ritiene che «fuori dalla Cina sia inferiore all'1%, osserva Giorgio Palù, ordinario di Microbiologia e Virologia dell' Università di Padova. All'origine dell'indeterminatezza c'è il numero dei portatori asintomatici del virus. «Sicuramente - ha rilevato - è un virus molto diffusibile» e probabilmente comparso un po' prima di quanto si pensi.
LETALITÀ. Le difficoltà nel calcolare il tasso di letalità sono analoghe a quelle che si incontrano nel calcolare la diffusione. In generale si può dire che sia molto meno letale della pandemia del 2009 e che può dare conseguenze gravi nel 20% dei casi; fra questi ultimi almeno il 50% riguarda persone anziane o con infezioni gravi.
TEMPI DI INCUBAZIONE. In generale si parla di 14 giorni, anche se «ci sono dati controversi», rileva Palù. Sappiamo inoltre che l'arma che permette al virus di diffondersi con tanta efficienza è il recettore Ace2, che si trova sulla sua superficie: è una chiave molecolare che il virus usa per entrare nelle cellule dell'apparato respiratorio umano, infettandole. Si ritiene che nel nuovo coronavirus il recettore sia dieci volte più efficiente rispetto a quello della Sars. Grazie al recettore Ace2, il virus riesce gradualmente a raggiungere le basse vie respiratorie ed è per questo che è possibile che «una persona con l'infezione non abbia sintomi per un certo periodo, in media da uno a 1 a 14 giorni, ma possa essere anche più lungo».
CHE COSA PUÒ DISTRUGGERLO NELL'AMBIENTE? «Come ogni virus, anche il coronavirus SarsCoV2 si inattiva alla temperatura di 37 gradi; è inoltre sensibile - spiega Palù - a saponi, detergenti e disinfettanti, come alla radiazione solare. Resiste invece molto bene al freddo, anche a temperature sotto lo zero».
PERCHÉ ALCUNI CASI RISULTATI NEGATIVI AL TEST DIVENTANO POSITIVI? È un fenomeno segnalato dalla Cina e la spiegazione più semplice dipende dal modo in cui è stato eseguito il tampone con cui viene prelevato il materiale biologico da utilizzare per il test. Bisogna considerare, spiega l'esperto, il tipo di campione prelevato, trattamento, il modo in cui è stato conservato, la presenza di fattori che possano avere interferito durante il test, una bassa presenza di particelle di virus nel campione.
COME CERCARE IL PAZIENTE ZERO IN ITALIA? «È difficile rintracciarlo, ma - osserva Palù - è opportuno fare tutti gli sforzi necessari perché questo permette di identificare i contatti e di ricostruire il tragitto del contagio».
Virus cinese, nel mercato di Wuhan si vendevano anche koala, salamandre e topi. Federico Giuliani su Inside Over il 24 gennaio 2020. In molti si interrogano sul perché il nuovo coronavirus cinese sia partito proprio dalla città di Wuhan, in Cina centrale.
Il direttore del Center for Infectious Disease Research and Policy dell’Università del Minnesota, Michael Osterholm, ha spiegato sulle pagine del Wall Street Journal che il capoluogo della provincia dello Hubei ospita tutti gli ingredienti per un’epidemia perfetta: “È una città densamente popolata, con numerosi mercati di animali vivi dove si mescolano persone, maiali, pipistrelli o altri mammiferi potenzialmente infetti”. Per la cronaca, stiamo parlando di un centro urbano di 11 milioni di abitanti. In ogni caso il South China Morning Post ha cercato di approfondire la questione per capire cosa diavolo accadesse quotidianamente nel mercato del pesce di Huanan, a Wuhan. Ebbene, è emerso che, accanto a pesci e frutti di mare, in quel luogo si vendessero Koala, serpenti, topi, cuccioli di lupo. E ancora: tartarughe, salamandre, pavoni e perfino porcospini. Tutte queste specie citate erano esposte nei giorni scorsi al mercato di Wuhan, luogo da dove si sarebbe generata l’epidemia di coronavirus.
Gli animali venduti nel mercato di Wuhan. Animali del genere, vivi e venduti come prodotti alimentari, potrebbero aver giocato un ruolo chiave nella propagazione della pandemia che ha messo in ginocchio la Cina. D’altronde le pubblicità esposte tra i banchetti reclamizzavano la vendita di volpi, coccodrilli ma anche altre bestie particolari e rischiose per le più basilari norme igienico sanitarie. Gli animali erano destinati ad essere uccisi e cucinati dai clienti in un secondo momento. Su Weibo, un social molto popolare oltre la Muraglia, numerosi utenti hanno scritto messaggi inequivocabili: “Si mangiavano anche i koala. Non c’è niente che i cinesi non mangerebbero”. Il risultato è che adesso c’è un virus che sta circolando a ritmi da record in tutta la nazione cinese e sta allarmando il mondo intero. Pechino ha imposto il blocco di 13 città per un totale di 40 milioni di persone in “isolamento”.
Le ipotesi in circolazione. L’origine del coronavirus non è ancora nota. Circolano varie ipotesi. Alcuni scienziati cinesi hanno puntato il dito contro i serpenti, i quali, dopo essere stati infetti dai pipistrelli, avrebbero trasmesso il morbo – nel frattempo mutato – all’essere umano. “I risultati della nostra analisi evoluzionistica – affermano gli studiosi – suggeriscono per la prima volta che il serpente è il più probabile animale selvatico serbatoio del virus 2019-nCoV”. Altri si dicono scettici. Stando a quanto affermato da David Robertson, un virologo dell’Università di Glasgow, “nulla supporta il coinvolgimento dei serpenti. Ci vuole molto tempo perché questo processo si svolga. Mancano prove che i serpenti possano essere infettati da questo nuovo coronavirus e fungere da ospite”. Anche Giuseppe Ippolito, direttore scientifico dello Spallanzani, è dello stesso avviso di Robertson: “La trasmissione del coronavirus dai serpenti è stata esclusa. Questo virus, per essere trasmesso ha bisogno dei mammiferi e non dei rettili”. Altri ipotizzano che dietro l’epidemia di polmonite possa esserci un errore umano capitato al Wuhan National Biosafety Laboratory, una struttura situata proprio a Wuhan dove vengono studiati gli agenti patogeni più pericolosi al mondo.
Da leggo.it il 7 maggio 2020. L'origine di Sars-CoV-2 divide politica e commentatori, ma gli scienziati non hanno dubbi sull'origine naturale, e i dati genetici suggeriscono che questo microrganismo si sia nascosto per decenni in natura. A sottolinearlo è Nature, che in un corposo articolo sul suo sito ricostruisce l'albero genealogico del virus, andando indietro nel tempo fino a 140 anni fa. Il nuovo coronavirus «condivide il 96% del suo materiale genetico con un virus trovato in una grotta nello Yunnan, in Cina, abitata dai pipistrelli. Ma c'è una differenza cruciale: il virus del pipistrello dello Yunnan non sembra infettare le persone», scrive Nature. Studi pubblicati negli ultimi mesi, che devono ancora essere sottoposti a revisione, suggeriscono che Sars-CoV-2 - o un antenato molto simile - si sia nascosto negli animali per decenni, 'affinando' le sue abilità. Secondo una ricerca, il lignaggio del coronavirus che ha portato a Sars-CoV-2 si è separato più di 140 anni fa da quello strettamente correlato visto oggi nei pangolini (sospettati per un certo periodo di essere l'ospite intermedio di Sars-Cov-2, ndr). Quindi, negli ultimi 40-70 anni, gli antenati di Sars-CoV-2 si sarebbero separati dalla versione dei pipistrelli. Citando numerosi studi, la rivista indaga sulle varie caratteristiche che avrebbero permesso al virus di Covid-19 di infettare così efficacemente le cellule umane. Questi risultati suggeriscono «una lunga storia familiare, con molti rami» dell'albero genealogico del coronavirus localizzati nei pipistrelli e possibilmente nei pangolini, e alcuni 'cuginì che potrebbero avere capacità simili di causare una pandemia, come afferma Rasmus Nielsen, biologo evoluzionista all'Università della California a Berkeley, coautore di uno di questi lavori. «È necessario un costante monitoraggio e una maggiore vigilanza rispetto all'emergenza di nuovi ceppi virali di origine zoonotica», afferma Nielsen.
CORONAVIRUS: TUTTO E' NATO DA UN PIPISTRELLO. I SEGRETI DI UN ANIMALE CHE NON SI AMMALA. Daniela Mattalia il 16/4/2020 su Panorama. Il mistero della loro longevità. «Il segreto della loro lunga vita è oggetto di analisi. È un mare ancora inesplorato, ma iniziamo ad avere qualche costa» dice Andrea Locatelli. , biologo ricercatore alla Age Related Diseases Unit dell'ospedale San Raffaele di Milano. «A Dublino, anni fa, lavoravo con un'équipe che studiava i meccanismi molecolari della longevità nei pipistrelli, molto vicini a noi filogeneticamente. Io, per esempio, mi ero concentrato sul metabolismo e la proteostasi, ossia la capacità delle cellule di mantenersi sane e pulite a lungo. Il farmaco anti-invecchiamento rapamicina, per esempio, agisce sull'autofagia, un meccanismo chiave della proteostasi. Si è visto che nei pipistrelli l'attività autofagica cresce con l'età, diventando sempre più efficace. Al San Raffaele, ora, sto proseguendo questi studi con altri ricercatori». Anche in questo caso, i pipistrelli vanno controcorrente, visto che negli altri organismi, a partire da noi, l'autofagia diminuisce: più siamo vecchi meno le nostre cellule si mantengono pulite. Non solo, hanno pure telomeri più resistenti all'usura (sono le estremità dei cromosomi, altro segno di longevità) e possiedono la capacità, a quanto pare, di allungarli quando si accorciano. Obiettivo di queste ricerche, individuare target molecolari per eventuali trial clinici anti-invecchiamento. Altro motivo per invidiarli: sono generalmente immuni ai tumori. Locatelli ci tiene a precisare una cosa: nei suoi anni di maneggiamenti di pipistrelli, è stato morso diverse volte «e sono ancora qui. Mordono in modo poco profondo, meno di un gatto, e se il morso non buca la carne e non arriva al sangue, non c'è rischio di infezione. Ovviamente ho fatto le mie vaccinazioni antirabbiche».
Giuseppe Remuzzi per ''La Lettura - Corriere della Sera'' il 7 giugno 2020. Non è il momento di parlar bene dei pipistrelli, ma a pensarci bene sono necessari all' ecosistema come poco d' altro nel mondo animale. Un po' perché liberano le piante dai parassiti, ma ancor di più perché si nutrono di insetti - le zanzare per esempio - che sono causa di malattie e di morte, e poi aiutano a disperdere i semi sui terreni e a fertilizzare. Fanno tanto per noi e per il nostro benessere, ma li devi lasciare in pace. Di pipistrelli ce ne sono 14 mila specie diverse, distribuite in tutti i continenti, ad eccezione dell' Antartide, e le isole dell' Ovest dell' Oceano Indiano sono la quintessenza della biodiversità con almeno 50 specie di pipistrelli. Si tratta di aree geografiche un po' magiche e certo uniche per chi voglia studiare le abitudini di questi piccoli mammiferi, dove vivono, cosa fanno di giorno e di notte, ma anche quanti e quali sono i virus che vivono con loro che per l' uomo possono essere letali mentre loro, i pipistrelli, che ce li hanno addosso e se li portano in giro, non si ammalano mai. Come si spiega? È come se avessero una super-immunità, qualcosa che a noi uomini di questi tempi farebbe di certo molto comodo. Questa è una, anche se non la sola ragione per discutere di pipistrelli proprio di questi tempi e per studiarli più di quanto non sia stato fatto finora; se riuscissimo a capire il segreto dell' immunità dei pipistrelli e del perché il loro sistema immune tiene sotto controllo i coronavirus senza fare una piega, mentre il nostro nel cercare di difenderci dal virus distrugge i nostri polmoni, per non dire il cuore, il rene, il fegato, avremmo risolto il problema di questa terribile pandemia. Ma andiamo con ordine: i coronavirus convivono con i pipistrelli da milioni di anni, incluso, certamente, ma non solo, il Sars-CoV-2, quello del Covid-19, la malattia che finora ha infettato quasi 4 milioni di persone al mondo (ma potrebbero essere molte di più) e ha ucciso fra il 7 e il 10% di quelli che sono stati infettati. Non è il primo coronavirus dei pipistrelli che arriva all' uomo e porta malattie: prima c' è stato quello della Sars nel 2003 che ha causato più di ottomila casi e quasi 800 morti e poi nel 2012 sempre dai pipistrelli arriva il coronavirus della Mers - la Sindrome respiratoria del Medio Oriente - che ha infettato 2.500 persone nel 2012 uccidendone una su tre. Ci sono sempre ospiti intermedi tra i coronavirus dei pipistrelli e l' uomo. Nel caso della Mers dal pipistrello il virus prima di arrivare all' uomo infettava i cammelli. Col Sars-CoV-2 ci sono di mezzo il pangolino e forse gli zibetti (anche se di questo non siamo ancora del tutto sicuri). Ce ne sono tanti altri di coronavirus che vivono coi pipistrelli. Léa Joffrin dell' Université de la Réunion e tanti altri scienziati dal Madagascar, dal Sudafrica, da Mauritius e Seychelles e dal Mozambico li hanno studiati proprio in quelle isole, si sono messi in testa di dedicare le loro ricerche ai coronavirus dei pipistrelli, non solo Sars e Mers ma anche tutti gli altri. L' obiettivo era quello di capire il rapporto che c' è fra i pipistrelli e i loro virus, e perché se questi virus ce li hanno addosso da milioni di anni non si ammalano e noi sì. I ricercatori poi volevano capire se i pipistrelli se li scambiano questi virus, e se è vero che possono anche passare da un animale all' altro, al punto di arrivare all' uomo. L' ultima curiosità - se si può chiamare curiosità - era di capire se dopo Sars-CoV-2 ce ne possiamo aspettare altri capaci di provocare pandemie e morti come ha fatto appunto quest' ultimo virus. Per rispondere almeno a qualcuna di queste domande i ricercatori hanno studiato più di mille pipistrelli per 36 specie diverse. E la prima cosa che sono riusciti a capire è che ciascuna di queste specie ha i suoi coronavirus che di solito però non passano da una specie all' altra, salvo quando specie diverse di pipistrelli vivono nella stessa grotta o condividono lo stesso nido. A questi mille pipistrelli i ricercatori delle isole dell' Oceano Indiano hanno fatto sistematicamente tamponi per ricerca di coronavirus e poi un prelievo di sangue. L' 8% dei pipistrelli avevano addosso un qualche coronavirus, ma hanno anche visto variazioni stagionali molto importanti, suggerendo che la quantità di virus che ospita ciascun animale si modifica nel corso dell' anno. A questo punto i ricercatori hanno fatto un' analisi genetica di tutti i coronavirus dei pipistrelli per confrontarla con quella di altri animali, per esempio delfini, alpaca e infine con quella degli uomini. Così hanno costruito un enorme albero di coronavirus che è servito a capire come questi virus siano molto simili l' uno con l' altro, con piccole variazioni che giustificano però la capacità di adattarsi all' una o all' altra specie animale, ed eventualmente all' uomo. Questi studi sono serviti anche a capire che c' è comunque una grande coerenza tra il tipo di pipistrello - quello che i biologi evoluzionisti chiamano genere e famiglia - e il loro coronavirus al punto che in aree geografiche diverse i pipistrelli si portano addosso coronavirus un po' diversi. È una cosa che rassicura perché se un certo coronavirus fa fatica a passare da un pipistrello a un altro, tanto più avrà difficoltà a infettare altri animali e poi a fare il famoso «salto di specie» che lo fa arrivare all' uomo, anche se questo probabilmente succede più spesso di quanto noi non pensiamo. Gli stessi ricercatori adesso hanno in programma esami sierologici su grandi numeri di animali e poi di uomini che vivono in quelle zone per capire quali dei tantissimi ceppi di coronavirus che circolano nei pipistrelli dell' Oceano Indiano siano già passati all' uomo, in un modo così discreto che non ce ne siamo forse nemmeno accorti. Sembrano studi un po' esoterici ma in realtà sono fondamentali per prepararci a eventuali nuove epidemie che potranno succedere, proprio come è già successo con Sars-CoV-1 (quello della Sars), col virus della Mers e adesso con Sars-CoV-2. Tutti e tre questi virus possono causare malattie molto serie nell' uomo, certe volte fatali, ma per ragioni che non abbiamo capito bene i pipistrelli non si ammalano nemmeno quando si infettano con Sars-CoV-2. Ce l' hanno addosso, non fanno nulla per eliminarlo ma non si ammalano. Con un lavoro appena pubblicato su «Scientific Reports», Vikram Misra - un microbiologo del Canada - ha dimostrato come certi coronavirus, quello della Mers per esempio, siano capaci di adattarsi al pipistrello in un modo straordinario: ciascuno prende vantaggio dall' altro; il virus si moltiplica nelle cellule del pipistrello, proprio come fa con quelle dell' uomo, ma invece di ucciderle, stabilisce una relazione positiva con l' ospite e con il suo sistema immune, al punto che si crea un sistema unico che conferisce al pipistrello la capacità di difendersi dagli agenti patogeni; sembra paradossale se pensate a cosa è successo a qualcuno di noi quando è stato contagiato dal coronavirus, ma è proprio così. È come se quei pipistrelli il sistema super-immune l' avessero paradossalmente proprio grazie a quel virus che si portano addosso. E sembra che anche con Sars-CoV-2 succeda proprio la stessa cosa, però si tratta di un equilibrio molto delicato, basta poco a infrangerlo e succede regolarmente quando il sistema immune di questi animali è in una situazione di stress proprio come nei mercati umidi della Cina (dove li mettono in piccole gabbie, al caldo, insieme ad altri animali, uno sopra l' altro e così si contaminano reciprocamente con liquidi biologici ed escrementi) o come quando i pipistrelli si ammalano di altre malattie o cambiano habitat, allora quel reciproco rispetto tra pipistrello e virus che porta alla super-immunità si rompe come d' incanto e viene meno. Il virus non si trova più a suo agio nel convivere con i pipistrelli, e così cerca di sfuggire da un ospite così «inospitale», si moltiplica, molto di più di quanto non sa fare di solito, cerca altre specie da infettare e così trova prima il pangolino, anche lui nel mercato (sono stipati l' uno contro l' altro), e poi evolve, cerca altre specie ancora, forse lo zibetto e poi, dato che questi animali sono macellati sotto gli occhi dei clienti che se li vogliono mangiare subito, arriva il momento in cui i virus finiscono per infettare l' uomo. Adattarsi all' uomo per il coronavirus non è tanto facile, nel pipistrello stavano bene, al punto da convivere con lui persino durante l' ibernazione che dura quattro mesi. Ma perché un virus abituato a vivere in una certa specie di pipistrello si adatti a un nuovo ospite devono succedere tante cose insieme: fattori ambientali prima di tutto, inclusi variazioni del clima, degradazione dell' habitat e diminuzione degli insetti che rappresentano le prede preferite dei pipistrelli, poi il virus deve trovare il modo di interagire con la cellule dell' ospite (Sars-CoV-2 lo fa legandosi ad almeno due recettori diversi) e poi replicarsi. Insomma ci sono un sacco di fattori critici perché un certo coronavirus si stabilisca in un nuovo ospite e specialmente nell' uomo. È successo in passato con NL63 e 229E che danno solo disturbi respiratori del tutto trascurabili, sono stati trovati per prima in Kenya, Ghana, Gabon e Zimbabwe e poi si sono diffusi dappertutto. Questi coronavirus, e probabilmente anche Sars-CoV-2, hanno un antenato comune vissuto mille anni fa. Di tutti questi però Sars-CoV-2 è certamente uno dei più intraprendenti. Il lavoro dei ricercatori dell' Oceano Indiano però non è finito qua: le informazioni che hanno raccolto sia in termini di analisi genetiche che sul piano delle analisi morfologiche sono tali che si è potuta creare una collezione che diventerà un museo in modo che chiunque lo voglia possa anche visivamente comparare fra loro queste specie di pipistrelli, conoscere le regioni geografiche da cui vengono e poter andare in una banca dati (GenBank) a confrontare tutte le sequenze. Così si accumulano conoscenze ed esperienze, e si arriva a intuizioni su chi potrà mutare e chi no e a che condizione e perché. Abbiamo assolutamente bisogno di sapere chi dei tantissimi coronavirus dei pipistrelli è più a rischio di infettare l' uomo perché in questo modo, per esempio studiando la sequenza genetica di nuovi coronavirus dei pipistrelli possiamo capire se contengono del materiale genetico che li rende capaci di avere accesso alle cellule dell' uomo e infettarle. In questo modo possiamo monitorare i pipistrelli e i loro virus e proteggerci. È il modo più sicuro per scongiurare che quello che è successo possa capitare di nuovo ma Steve Goodman - uno dei maggiori studiosi di questi animali e professore a Chicago - sostiene che prepararsi non vuol dire poi attrezzarsi per abbatterli, i pipistrelli. Senza di loro, come del resto senza le api, il nostro ecosistema morirebbe e con lui moriremmo anche noi, non a causa dei virus dei pipistrelli questa volta, ma qualora i pipistrelli non dovessero esserci più. Non ci crederete ma i pipistrelli sono indispensabili al nostro vivere, il bene che fanno a noi supera qualunque danno che abbiano fatto con il loro virus e che potrebbero fare in futuro, specie se, come questa volta, ci facciamo trovare impreparati.
Coronavirus, i mercati degli animali e le colpe dell'uomo nella pandemia. Le Iene News il 22 aprile 2020. l nuovo coronavirus è probabilmente passato dagli animali all’uomo a Wuhan in un wet market, cioè un mercato in cui si vendono animali selvatici a volte vivi. Il nostro Gaston Zama ci porta a conoscere la realtà del mercato illegale diffuso in tutto il mondo con l’aiuto di esperti del settore. Gli scienziati di tutto il mondo sono al lavoro per sviluppare un vaccino per il nuovo coronavirus. Ma mentre loro cercano una cura, dobbiamo stare attenti perché una simile pandemia potrebbe avvenire di nuovo, e le responsabilità potrebbero essere proprio di noi essere umani. Il nostro Gaston Zama ci porta a capire dove è nato questo nuovo coronavirus e quali sono le nostre colpe in quello che sta succedendo in tutto il mondo. “Il Covid-19 rispecchia ciò che le persone stanno facendo al pianeta, ora più che mai”. A parlare è David Quammen, scrittore e divulgatore scientifico, autore del libro “Spillover” in cui ha profetizzato molto di quello che sta accadendo in questi mesi a partire dal luogo di nascita della pandemia: un wet market cinese. “Non sono un profeta, ho solo scritto quello che mi dissero alcuni saggi scienziati”, dice Quammen a Gaston Zama. Dietro questa tragedia infatti sembra esserci il folle sfruttamento degli animali da parte di noi esseri umani. Nei wet market cinesi ci sono apposite sezioni in cui animali selvatici vengono macellati e venduti per il consumo umano. “E molti di questi sono illegali“. A parlare è Andrea Crosta, cofondatore di Earth League International, un gruppo di lotta contro i crimini ambientali. “Ci sono un sacco di animali che vengono dall’Africa o dal Sud America”. E questi mercati ci sono in molte parti del mondo. In Cina ogni giorno arrivano “migliaia di animali chiusi in piccole gabbie, vivi o mezzi morti”. È “una condizione ideale” per permettere a un virus di passare da una specie all’altra. È proprio così che il nuovo coronavirus si sarebbe diffuso: passando dal pipistrello al pangolino e poi all’uomo tramite il consumo di carne. Isolarci da questa catena di contagio sarebbe fondamentale per prevenire le pandemie, come ha detto Gabriel Leung, consulente dell’Oms: “Stoppare il salto del virus dalla sorgente è fondamentale”. Il rischio maggiore non è quando si mangia la carne: è quando si entra in contatto con animali in quelle condizioni, come potete vedere nel video qui sopra. Parliamo di migliaia di animali che vengono mercificati ogni giorno. E si fa ancora troppo poco per contrastare un business che vale oltre 90 miliardi di dollari. In questo incredibile giro d’affari rientra proprio il pangolino, un piccolo animale “sospettato” di essere stato il tramite del contagio all’uomo nel wet market di Wuhan. Uno scenario che si era già visto nel 2002 con la Sars, un altro coronavirus arrivato all’uomo da un mercato cinese. Anche altri virus come l’Hiv e l’Ebola sembra siano arrivati all’uomo dagli animali, come potete vedere nel servizio qui sopra. Per questo i wet market sono considerati delle vere e proprie bombe a orologeria, ma sono molto difficili da far chiudere: il giro d’affari che generano è enorme. Sul mercato asiatico un pangolino può arrivare a costare quanto un’utilitaria. E non viene cacciato in Cina, ma importato illegalmente da altre zone del mondo come la Nigeria. La vendita del pangolino in Cina è illegale. “Così come tutta la filiera, dalla caccia al commercio”, spiega Andrea Crosta. Ma questo animale è solo un piccolo pesce in un mare di commerci illegali di animali, che il nostro Gaston Zama ricostruisce nel servizio qui sopra con l’aiuto di Crosta. Dimenticatevi l’immagine del bracconiere che uccide poche bestie per fare qualche guadagno: qui stiamo parlando di sistemi estremamente complessi che ormai hanno assunto le dimensioni globali di organizzazioni criminali internazionali, che fatturano miliardi di dollari e stringono accordi con altre realtà come quelle dei narcotrafficanti del Centro America. “Parliamo del quarto mercato illegale al mondo, che vale fino a 280 miliardi di dollari all’anno”, ci spiega Andrea Crosta. Solo nel 2018 sono state uccise 168 persone, “colpevoli” di essersi opposte alla criminalità organizzata ambientale. E a questi vanno aggiunti tutti i morti caduti in questa guerra scatenata dal folle traffico. E anche le vittime di questa pandemia, che sono più di 100mila in tutto il mondo, vanno ascritte a questo mercimonio sulle spalle della natura: il virus è, come vi abbiamo detto, passato dall’uomo proprio in uno dei mercati alimentati da questo folle commercio illegale. Qualche segnale di risveglio da parte delle autorità però c’è stato: il dottor Fauci, responsabile del contrasto al coronavirus negli Stati Uniti, ha chiesto a gran voce la chiusura dei wet market. E lo stesso ha fatto l’Oms. In Cina, intanto, è stato proibito il consumo di carne di cani e gatti. Per quanto riguarda i wet market, Pechino sta lavorando a una legge che imponga forti limitazioni sui tipi di specie che si potranno vendere. Ma la sfida da vincere è quella alla fonte, cioè il contrasto del traffico illegale di animali in tutto il mondo. “La nostra specie è senza precedenti”, ci dice David Quammen. “Oltre a essere in tanti, siamo affamati: vogliamo sfruttare la natura che ci circonda. Ogni nostra decisione, cosa mangiamo, cosa compriamo, cosa indossiamo, cosa consumiamo, se compriamo uno smartphone o un computer, tutte queste decisioni mettono pressione sul pianeta nei modi più svariati. Non è solo il consumo in Cina il problema”. Forse, di fronte a tutti questi morti, qualcosa potrà iniziare a cambiare. Oppure anche questa è solo un’altra guerra a cui dobbiamo abituarci perché gli interessi in ballo sono più importanti delle nostre stesse vite?
Alessandro Sala per "corriere.it" il 25 aprile 2020. Il commercio illegale di pangolino, il mammifero ricoperto di scaglie considerato tra i possibili vettori del coronavirus nel salto di specie dal pipistrello all’uomo, non è un problema che riguarda solo l’estremo oriente. Anche in Europa è piuttosto florido il commercio di parti di questo animale la cui scorza e la cui carne sono considerate taumaturgiche e per questo utilizzate come ingrediente per medicinali fai-da-te, la cui valenza non ha alcunché di scientifico, al pari di ossa di tigre, bile d’orso e cavallucci marini. Nel solo 2018 nel continente europeo sono stati certificati circa mille sequestri di questo genere di prodotti per un totale di oltre 7 tonnellate suddivise in circa 300 mila dosi o unità. I numeri emergono dall’ultimo rapporto Traffic per l’Unione europea, un database che tiene conto dei commerci illegali di fauna selvatica intercettati dalle forze di polizia.
Ricercati, vivi o morti. Verso l’Europa non si muovono soltanto preparati e rimedi pseudo-medicali ma anche animali selvatici vivi e morti. I rettili, per esempio, anche in questo caso con quasi 7 mila esemplari sequestrati. O i coralli, oggetto di ben 650 sequestri, per un totale di oltre 4 mila campioni sequestrati, una massa pari complessivamente a più di una tonnellata. Ci sono poi i circa 500 sequestri di uccelli vivi (più di mille, in particolare pappagalli), i 400 di avorio (più di 3 mila campioni per quasi 150 kg, questi tutti quanti in Gran Bretagna), e 400 sequestri di mammiferi vivi o morti (recuperati quasi 2 mila campioni tra pelli, trofei e altre parti del corpo di varie specie tra cui lupi, tigri e orsi). A questo si aggiungono i tentativi di immissione sul mercato di piante alloctone, soprattutto cactacee, che sono stati sventati in più di 3 mila casi. Per questo motivo il Wwf, che partecipa al programma Traffic assieme all’Unione internazionale per la conservazione della natura (Uicn) e che ha diffuso oggi in Italia i numeri del rapporto, promuove una petizione internazionale per coinvolgere i cittadini di tutto il mondo affinché spingano le istituzioni a porre un freno a questi commerci. E non solo per questioni di mera tutela della biodiversità e della legalità: riprendendo uno slogan usato un tempo nelle campagne contro il fumo passivo, il nuovo claim dell’associazione del panda è che «il commercio illegale di animali selvatici uccide anche te».
Un mercato pericoloso. In questi giorni, del resto, se ne è parlato spesso: la cattura e la vendita senza regole di fauna selvatica, senza rispetto per il benessere degli animali ma neppure delle regole igieniche a tutela delle persone che poi se ne ciberanno, è una fonte potenziale di malattie. Tutte le principali pandemie degli ultimi anni - la Sars, la Mers, Ebola e anche l’Hiv che causa l’Aids — hanno avuto origine dagli animali e il salto di specie, il cosiddetto spillover, è favorito proprio dai mercati con macellazione sul posto (i cosiddetti wet market che ora si sta provando a far bandire) e dai traffici illegali. Malattie che originano in ambienti come la foresta tropicale e che lì probabilmente resterebbero confinate per effetto di una sorta di immunità di gregge messa in atto dalla vasta biodiversità di quei territori (fra tante specie, le molte refrattarie ai virus comportano che questi non possano replicarsi) arrivano invece in zone densamente popolate causando, nel caso riescano ad aggredire anche l’uomo, gli effetti che vediamo ora con il virus Sar-Cov-2. Tra gli obiettivi della petizione c’è la pressione sui governi di tutto il mondo affinché venga riconosciuta nel commercio illegale di fauna selvatica una pericolosa fonte di pandemie (e affinché di conseguenza si operi per il suo contrasto).
Un business miliardario. I commerci illegali bloccati sul territorio europeo e censiti da Traffic hanno riguardato per circa la metà i flussi in entrata nella Ue, ma in oltre 500 casi si è trattato di commerci interni ai Paesi dell’Unione. Non sono poi mancati tentativi di esportazione verso altre aree del mondo, in particolare verso la Cina. Nel 37% dei casi i sequestri sono stati effettuati negli scali aeroportuali. A livello globale, il programma ambientale dell’Onu (Unep) stima che il valore complessivo dei traffici illegali di fauna e flora selvatiche si aggiri tra i 7 e i 23 miliardi di dollari l’anno. Tra le nazioni di origine dei prodotti sequestrati in Europa ci sono in primo luogo la Thailandia (oltre 600 sequestri), seguita dalla Cina (oltre 400) e dall’Indonesia (quasi 200).
Il pangolino è davvero l’animale serbatoio del Covid-19? Federico Giuliani su Inside Over il 25 maggio 2020. Il signor Li dà un’occhiata al menù. Scorre le rare prelibatezze presenti finché non trova quello che sta cercando. Il proprietario del ristorante, dopo dieci anni di esperienza, sa riconoscere al volo l’esigenza dei clienti: “Abbiamo tutto. Dalle zampe d’orso alle squame di serpente. Anche i pangolini. Possiamo brasarli o prepararli per farci una zuppa”. Li è il Ceo di un’azienda cinese che continua a crescere, in patria come nel resto del mondo. Da giorni è in trattativa con alcuni ricchi manager per quello che potrebbe essere l’affare della sua vita. Manca poco per convincere la cordata a firmare una partnership milionaria. Il signor Li non può assolutamente farsi sfuggire questa occasione. Per coprire l’ultimo chilometro che resta al traguardo, decide di far colpo sui suoi interlocutori. Organizza così un viaggio lampo per tutti in Myanmar, a circa tre ore d’aereo da Guangzhou. Prenota un tavolo per cinque in un ristorante a due passi dal Myanmar International airport. Va a colpo sicuro, perché un amico gli ha detto che lì è possibile consumare il pangolino. Un pangolino è proprio quello che serve al signor Li per mostrare tutto il suo prestigio. Storie come questa, in Cina, erano molto comuni prima che scoppiasse la pandemia di Covid-19. Nell’episodio appena descritto a titolo esemplificativo c’è tutto quello che serve per capire perché i pangolini, pur essendo animali protetti, continuano ad essere serviti in molti ristoranti del sud-est asiatico come piatto rinomato. Dal momento che oltre la Grande muraglia mangiare pangolini è sempre più complicato, in parte per la stretta governativa e in parte per i costi troppo elevati, i palati più fini si spostano nei Paesi confinanti. Già, perché a Pechino e dintorni, ai sensi della China’s Wild Animal Protection Law, la legge cinese sulla protezione degli animali selvatici, emanata nel 1988, i pangolini sono considerati “class two endangered wildlife”, e quindi protetti.
100 euro al chilo. Esiste una scala che classifica gli animali in pericolo di estinzione: il pangolino appartiene alla seconda classe. In Cina, animali del genere, non possono essere cacciati, venduti o acquistati per preparare cibo. Un emendamento più recente ha rafforzato la protezione vietando anche il commercio di pangolini su Internet. Sul territorio cinese, dunque, la situazione è decisamente migliorata rispetto a qualche decennio fa. Eppure, i cinesi facoltosi che intendono mangiare pangolini (visto il loro valore, come vedremo, non tutti possono permetterseli), hanno trovato il modo di eludere gli ostacoli: volare in qualche Paese confinante, come il Vietnam o il Myanmar, dove la legge proibirebbe il commercio di pangolini, ma dove le maglie della giustizia sono molto meno stringenti della Cina. Chi, invece, non ha intenzione di spendere troppi soldi può sempre rivolgersi al mercato nero presente in numerosi wet market. Qui, in teoria, non si possono commerciare animali selvatici o in via di estinzione. Tuttavia, nonostante i controlli, ci sono molti venditori che sotto banco offrono alla clientela mercanzia rara e pregiata.
Chiariamo subito: i più ricchi non hanno alcuna intenzione di entrare in un wet market. Molto meglio farsi qualche ora di aereo per gustarsi una zuppa di pangolino in qualche ristorante birmano o vietnamita. Prendiamo il Myanmar. In questo Paese la legge parla chiaro: cacciare, vendere e commerciare pangolini è illegale. Se le autorità dovessero arrestarti per uno di questi motivi, rischieresti dai tre ai dieci anni di carcere e una multa fino a 700 dollari (che per gli standard locali equivalgono a un mare di soldi). Le otto specie di pangolino che vivono in Asia e Africa sono elencate nel primo appendice del CITES, acronimo che sta per Convention on International Trade in Endangered Species of wild fauna and flora (ovvero Convezione sul commercio internazionale di speci della fauna e della flora in via d’estinzione), una convenzione globale firmata a Washington nel 1975 che vieta, tra le altre cose, il commercio internazionale dei mammiferi. Tornando al Myanmar, i casi sono due: o i pangolini arrivano in molti ristoranti locali passando attraverso reti di contrabbando, oppure, sempre illegalmente, provengono dal loro habitat naturale collocato nella parte orientale del Paese. Prima del Covid, in Myanmar, non era certo un’impresa ardua entrare in un ristorante che offriva nel suo menù pangolino brasato o in zuppa. Dal momento che molti cinesi si spostavano nella regione per approfittare di questo vantaggio, i commercianti locali hanno pensato bene di allestire i propri locali secondo il gusto cinese, tanto negli arredi quanto nel linguaggio delle insegne. Solitamente un pangolino può essere usato un paio di volte: metà per il brasato e metà per la zuppa. Il prezzo è di circa 800 yuan per 1 chilogrammo. Calcolatrice alla mano sono più di 100 dollari: una cifra considerevole, ma comunque sempre più bassa dei quasi mille dollari che dovrebbero essere sborsati nel sud della Cina. Nei migliori ristoranti birmani non serve neanche chiamare in anticipo per farsi preparare il piatto a base di pangolini. Molti hanno scorte in abbondanza e, prima di servirli, sono persino disposti a farli vedere ai clienti.
Il lato oscuro della medicina tradizionale cinese. In Cina i pangolini appartengono alla seconda classe della “fauna selvatica in pericolo”. Questo significa che possono essere cacciati, comprati e venduti per alcuni scopi specifici, tra cui studi scientifici o altri “usi autorizzati“. Tale dicitura è molto ambigua e contribuisce ad aprire una grande lacuna nella legge. La guida ufficiale sulla medicina tradizionale cinese, infatti, elenca i pangolini tra gli ingredienti ammissibili. Da sempre le scaglie di pangolino sono impiegate nella medicina cinese per migliorare l’allattamento delle donne dopo il parto, per stimolare il flusso mestruale e per calmare dolori articolari di vario tipo. Da un punto di vista tecnico, queste squame (che costano circa 350 dollari al chilo) sono formate principalmente da cheratina, lo stesso materiale delle nostre unghie. Si tratta di una proteina protettiva comunemente ricercata e impiegata per molti disturbi nella medicina tradizionale. A proposito di medicina tradizionale e la sua efficacia, ci limitiamo a dire che, pur essendo impiegata da secoli, questa medicina manca di ciò che in Occidente potremmo definire “prove basate sull’evidenza”. Fatto sta che in Cina ci sono almeno 200 tipi di medicinali che includono l’uso legale dei pangolini, anche se spesso le cliniche sono riluttanti all’idea di doverli prescrivere ai pazienti.
Diventare ricchi. Se negli anni ’60 in Cina si catturavano 160mila pangolini all’anno, oggi quegli animali sono completamente spariti. La domanda è aumentata ma gli animali sono diminuiti. È così che i commercianti hanno iniziato a importarli dal sud-est asiatico e dall’Africa. Nel 2015 il Pangolin Reports ha parlato di 50mila pangolini importati illegalmente nell’ex Impero di mezzo. Per spiegare un fenomeno simile, l’aumento della richiesta dei pangolini, bisogna concentrarci sullo sviluppo economico della Cina. Se fino a 30-40 anni fa gli abitanti del Paese vivevano nella povertà (o quasi), oggi, su 1,4 miliardi di persone, ci sono sempre più cinesi appartenenti alla classe media. Mostrare agli altri di avercela fatta vuol dire molto, e accumulare ricchezza è diventato un metro di paragone comune. La ricchezza non è data soltanto da grandi automobili, orologi d’oro o vestiti di marca. Nella cultura popolare, anche mangiare cibi ricercati e usare medicine costose sono aspetti che contribuiscono a migliorare l’immagine di una persona. Ecco: basta moltiplicare l’enorme aumento della classe media cinese con il numero potenziale di soggetti che potrebbero voler consumare una zuppa di pangolino o utilizzare le sue scaglie per qualche medicinale. Morale della favola: decine e decine di milioni di persone acquistano prodotti del genere, alimentando un business miliardario, decimando i pangolini e rischiando pericolose zoonosi.
Pangolini e Covid. È notte fonda lungo il confine che separa il Myanmar dalla Cina. Un uomo tira fuori un pangolino da un sacchetto di nylon e lo appoggia su un cestino di bambù. La piccola bestiola, attiva e ancora piena di energia, cade a terra. Sta cercando di scappare. Il commerciante la colpisce sulla testa. Il pangolino, quasi paralizzato, si arrotola in una palla di squame. Viene raccolto, messo in un sacchetto e venduto a un anonimo acquirente. Quel pangolino finirà probabilmente in un retrobottega di qualche wet market cinese, dove verrà venduto sotto banco, oppure in un ristorante del sud-est asiatico. Difficile che il proprietario di un locale cinese decida di accollarsi un rischio così grande, a maggior ragione dopo la stretta che ha spinto le autorità a inasprire i controlli. Più facile che se ne assuma tutti i rischi un birmano o un vietnamita. I soldi facili fanno gola a tutti, anche a costo di infrangere la legge. Il problema più grande, al di là degli enormi guadagni che comporta il commercio illegale di pangolini, è che questo animale potrebbe essere l’ospite intermedio della Sars-CoV-2. Non ci sono ancora certezze assolute, ma molti scienziati ritengono tale ipotesi più che plausibile. La zoonosi, cioè il salto di specie, potrebbe aver agito nel seguente modo: dai pipistrelli ai pangolini e dai pangolini agli esseri umani mediante qualche brasato o zuppa. Anche se fosse davvero andata così no, la soluzione per scongiurare nuove epidemie non sarebbe quella di eliminare dalla faccia della terra tutti i pangolini esistenti. Loro sono innocenti. Anzi: sono fondamentali per tenere sotto controllo formiche e termiti, di cui vanno ghiottissimi. Basi pensare che un pangolino può mangiare fino a 20mila formiche al giorno, 73 milioni circa in un anno. Insomma, un bel servizio per la comunità. I pangolini, a metà strada tra formichieri e armadilli, sono gli unici mammiferi al mondo dotati di scaglie. Sono molto timidi, indifesi e vivono per lo più di notte. Non mordono e non utilizzano i loro artigli per graffiare. L’unica cosa che sanno fare è arrotolarsi quando fiutano un pericolo o – in alcune specie – appendersi agli alberi grazie alla loro coda prensile. Ma i pangolini possono contenere uno dei segreti per comprendere il Covid-19. Un articolo apparso sulla rivista Frontiers in Immunology sottolinea come il sistema immunitario di questi animali non sia robusto come quello dell’uomo. Eppure, quando un virus li colpisce, i pangolini non si ammalano, proprio come se avessero una sorta di “vaccino incorporato”. E allora, nel caso in cui davvero fossero i pangolini ad aver trasmesso il nuovo coronavirus agli esseri umani, il loro trucco genetico potrebbe risolvere più di un enigma. A patto che i commercianti senza scrupoli smettano di infrangere la legge ed evitino ulteriormente di scherzare con la natura.
Il pangolino è davvero responsabile della diffusione del Coronavirus? Antonino Paviglianiti il 23/04/2020 su Notizie.it. Il pangolino è davvero il responsabile del coronavirus? Questo mammifero raro, ai più sconosciuto fino a qualche settimana fa, è diventato il capro espiatorio. Pur senza tesi scientifiche a supporto. Si tratta di un animale dalla carne ricercata e pregiata, tant’è che viene spesso consumata nei wet market asiatici. Inoltre, come se non bastasse, il pangolino è da sempre vittima di un commercio illegale che non riguarda solo l’Asia ma anche l’Europa. Anche nel vecchio continente, infatti, è piuttosto florido il commercio di parti di questo animale la cui scorza e la cui carne sono considerate taumaturgiche e per questo utilizzate come ingrediente per medicinali fai-da-te, la cui valenza non ha alcunché di scientifico. Nel solo 2018 nel continente europeo sono stati certificati circa mille sequestri di questo genere di prodotti per un totale di oltre 7 tonnellate suddivise in circa 300 mila dosi o unità. I numeri emergono dall’ultimo rapporto Traffic per l’Unione europea, un database che tiene conto dei commerci illegali di fauna selvatica intercettati dalle forze di polizia. Pangolino e coronavirus. Ma è davvero questo mammifero raro l’untore che ha diffuso il coronavirus in tutto il mondo? Questa specie, infatti, è stata sospettata di aver facilitato la diffusione del nuovo Coronavirus in Cina, anche se ad oggi non c’è ancora alcuna certezza scientifica in proposito. Anche perché è stato il WWF ad avvalorare questa tesi: “Il genoma del virus rinvenuto nei pangolini, che si suppone essersi sviluppato originariamente nei pipistrelli, è quasi identico (al 99%) al Coronavirus 2019-nCoV rinvenuto nelle persone infette”. Ciò evidenzierebbe perché i primi risultati confermino come il commercio illegale di animali selvatici vivi e delle loro parti possa essere stato: “Veicolo per vecchie e nuove zoonosi, aumentando il rischio di pandemie che potrebbero avere grandissimi impatti sanitari, sociali ed economici su tutte le comunità coinvolte”. Nonostante siano necessarie evidenze scientifiche a supporto, l’ipotesi è che il commercio illegale di animali selvatici vivi come il pangolino o di parti del loro corpo possa essere veicolo di vecchie e nuove malattie infettive trasmissibili all’uomo. In ogni caso, prima della pandemia, il pangolino era (e resta) una specie ad alto rischio di estinzione. L’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura ha inserito questa specie nella lista di quelle che rischiano di sparire dal pianeta.
Cosa è il pangolino. Ma cosa è il pangolino? Si tratta di un mammifero con il corpo ricoperto da squame cornee costituite di cheratina che, sovrapponendosi l’una all’altra, formano una sorta di “corazza a piastre”. Solo il ventre, la parte interna delle zampe, il muso e le parti laterali del capo sono scoperti. La corazza del pangolino è costruita in modo da permettere all’animale di appallottolarsi se spaventato; le scaglie, invece, sono affilate e possono essere usate (in particolare quelle della coda) come armi. I cuccioli di pangolini possiedono scaglie morbide, che si induriscono quando l’animale matura. Il pangolino rappresenta un mammifero raro anche per la sua pelle: è l’unico, nel genere, a essere ricoperto di scaglie. Gli artigli anteriori dei pangolini, usati principalmente per scavare, sono estremamente lunghi e costituiscono un impedimento quando l’animale cammina sul terreno.
La coda è lunga e in alcune specie prensile e serve anche da contrappeso per il corpo appesantito dalla corazza. Gli occhi sono piccoli e solo le specie asiatiche hanno orecchi esterni. La vista e l’udito deboli sono compensati da un olfatto sviluppatissimo. La lunga lingua, adatta alla cattura di formiche e termiti, non è collegata all’osso ioide, ma, analogamente a quanto accade, per un fenomeno di convergenza evolutiva, nel formichiere gigante, proviene dalla cavità toracica. I pangolini sono completamente sprovvisti di denti. Una funzione trituratrice è svolta dallo stomaco, che per muscolatura e rivestimento interno ricorda il ventriglio degli uccelli. Per aiutare la triturazione spesso sono ingoiati sassi.
Dai pipistrelli all’uomo: alle origini del Coronavirus. Pubblicato mercoledì, 04 marzo 2020 su Corriere.it da Sandro Modeo. Concludendo la sua analisi sulla «matematica del contagio», Paolo Giordano citava il libro del saggista scientifico David Quammen, Spillover (il titolo si riferisce ai «salti di specie» degli agenti patogeni dall’ animale all’uomo) come degno «di un articolo a sé». In effetti, quel testo può aiutare come pochi altri ad addomesticare il nostro attuale spaesamento, a capire da dove provenga davvero l’ombra che si è allungata nelle nostre giornate, a livello individuale e collettivo. Esito di sei anni di lavoro accanito, Spillover scorre in superficie come un reportage ipnotico, in cui Quammen ricostruisce origine e andamento di tutte le epidemie-pandemie degli ultimi decenni (dall’Ebola alla SARS) incontrando non solo medici e scienziati, ma anche testimoni e sopravvissuti, delle aree e dei «focolai» volta a volta decisivi, si tratti di foreste congolesi, fattorie australiane o mercati cantonesi di animali selvatici. Ma a un livello sottostante, Quammen ci invita quasi a ogni pagina a considerare il nostro rapporto con gli agenti patogeni in una prospettiva naturalistica (o meglio biologico-evoluzionistica) che può conferirgli un senso più profondo. Decisiva, al riguardo, è la figura, opportunamente evocata da Quammen, del grande scienziato australiano Frank Macfarlane Burnet (1899-1985). Personalità complessa e irascibile (già a partire da un’infanzia asociale trascorsa a leggere H.G. Wells e a collezionare coleotteri), Burnet diverrà noto soprattutto per le sue scoperte sui meccanismi dell’immunità acquisita (Nobel della Medicina nel’60); ma prima, negli anni Trenta, si fa una certa fama come infettivologo trovando gli agenti patogeni della psittacosi e della «febbre Q» e individuando il fattore di innesco di tutte e due le zoonosi (termine che indica patologie infettive animali trasmissibili all’uomo) nelle cattive condizioni di allevamento, in un caso dei pappagalli, nell’altro di bovini e ovini. Intuizioni confermate dal periodico riaffiorare di quelle (e altre) zoonosi, come nel Brabante olandese del 2007, dove Quammen vede sovraffollamenti di capre in stalle dal pavimento ricoperto da un «polpettone» di «strame, feci e urina», ideale terreno di coltura per i microbi. Come riflessione sulle sue scoperte, Burnet scrive nel 1940 un libro-spartiacque, Le malattie infettive, in cui — fissata l’importanza delle acquisizioni profilattiche della batteriologia moderna: fognature adeguate, cibo non contaminato, asepsi chirurgica — invita i medici a inquadrare le stesse patologie infettive e le zoonosi come «come un esempio di relazione tra individui di specie diverse, di importanza pari alla predazione, alla competizione e alla decomposizione»; e a vedere, di conseguenza, gli agenti patogeni come «parassiti» o «predatori», «piccole creature che mangiano grandi prede dall’interno». È una visione del tutto coerente con la sua innovativa descrizione del sistema immunitario, concepito come un sistema in grado di discriminare tra un self (i costituenti molecola propri) e un not-self (quelli «alieni» degli agenti patogeni). Con un’implicazione decisiva. Quel «conflitto» tenderebbe, in un ambiente più o meno costante, a un equilibrio, a trasformare la competizione tra specie in coabitazione (come in effetti avviene in molti casi); se non intervenisse, a vanificarlo — anche se non come fattore esclusivo — l’attività dell’uomo. Ed è proprio quel conflitto il «timone» del percorso evolutivo che conduce fino alla pandemia di questi mesi. Un percorso che vede sulla scena tre «attori»: oltre agli agenti patogeni (in questo caso i virus) e agli umani, gli «ospiti serbatoio» (in gergo reservoirs) che hanno esercitano lo spillover, magari con l’ulteriore mediazione di qualche «ospite di amplificazione» (animali intermedi). E dal momento che SARS-CoV-2 condivide quasi tutto il genoma sia con il suo predecessore SARS-CoV (l’85%), sia col coronavirus dell’ospite-serbatoio di allora, i chirotteri ovvero i pipistrelli (addirittura il 90%), il terzo attore è più di un semplice indiziato. Provare a seguire quel percorso significa cercare di capire le ragioni non prossime — ma remote ed effettive — dell’epidemia-pandemia in corso. E per farlo, il libro di Quammen è solo uno strumento tra altri. L’origine dei virus va collocata con ogni probabilità nello scenario della stessa origine della vita, tra i 3.5 e i 3 miliardi di anni fa, quando si sviluppano nicchie ambientali favorevoli allo sviluppo delle prime entità biologiche. Dato che i virus sono «zombie chimici» (piccoli genomi racchiusi in una membrana proteica, che per riprodursi devono entrare nelle cellule e utilizzarne i meccanismi), tutte le teorie sulla loro genesi sono tese a spiegare quei tratti morfologici e biochimici. Nell’ordine, sono stati visti come cellule primitive degenerate (tramutate in parassiti dopo aver perso la capacità di vita autonoma); prodotti di «geni in fuga» cioè di «elementi genetici mobili» come i trasposoni (sequenze di Dna in grado di inserirsi nel genoma di molti organismi); o ancora — secondo la seducente teoria di Wolfram Zilling — organismi in coevoluzione con le stesse cellule, entro un comune «brodo primordiale» in cui acidi nucleici e proteine (isolati da involucri o membrane) sarebbero evoluti da un lato verso la viralità, dall’altro verso la cellularità. Anche se forse l’ipotesi più intrigante è che i virus risalgano a un ancestrale «mondo a Rna» in cui le protocellule non hanno ancora «diviso i compiti» tra Dna (depositario dell’informazione e della replicazione) e Rna (deputato alla trascrizione di quell’informazione e alla sua traduzione in proteine), ma operano con un «Rna tuttofare». E questo a tacere di ipotesi più estreme, come quelle che vedono i virus ancestrali all’origine sia dello stesso Dna che del nucleo cellulare. Oltre che onninvadenti (un milione di particelle virali in una goccia d’acqua, a fronte di 100.000 batteri) e infinitesimali (dai 20 ai 750 nanometri, in forme spesso bizzarre), i virus sono in ogni caso antichissimi, come dimostra, secondo adagio evoluzionistico («più gli organismi sono antichi, maggiore è la loro diversità») il numero di tipi classificati (5000), con stime realistiche che ipotizzano un numero di almeno 1000 volte superiore. E in ogni caso, la distinzione perdurante tra virus a Rna e a Dna — traccia di quelle origini arcaiche — è una delle chiavi per decifrarne morfologia e «comportamento», con le virgolette a ricordare che non dobbiamo mai cedere alla tentazione di «umanizzare» dinamiche biologiche senza scopo e senz’altro senso se non quello della riproduzione-sopravvivenza. I virus a Dna (con doppio filamento, la famosa elica) hanno genomi più estesi, minor numero di mutazioni e riescono a «correggere le bozze» (gli errori di replicazione) grazie alla Dna polimerasi, risultando quindi più «stabili». Mostrano «perseveranza, invisibilità, dissimulazione», tendendo a nascondersi al sistema immunitario in una sorta di letargo o stand-by prolungato, per poi riaffiorare in forme più acute: un caso tipico è il varicella-zoster, che può scatenare un «fuoco di Sant’Antonio» anche a dieci o più anni dalla malattia esantematica. I virus a Rna (con un solo filamento, anche se non mancano eccezioni a doppio filamento, così come- a rovescio- virus a DNA monofilamento) hanno invece genomi ristretti, perché con una «polimerasi da due soldi» che non «corregge le bozze» un genoma troppo esteso produrrebbe un numero di errori insostenibile; in compenso, hanno una frequenza di mutazioni molto più elevata dei virus a Dna (fino a 1000 volte) e popolazioni più numerose. La loro «strategia» è di «esplodere» per «bruciare sul tempo» la risposta immunitaria dell’ospite, inducendo infezioni acute in uno schema on/off (la morte o la guarigione dell’ospite stesso, senza la possibilità di coabitazioni come nei virus a DNA). Qui, gli esempi più immediati sono la famiglia del morbillo, i retrovirus (HIV-1) e certi coronavirus, tra cui le molte varianti del raffreddore e virus «emergenti» come SARS-CoV, MERS-CoV (l’epidemia nella penisola arabica del 2012) e ora SARS-CoV-2. Il punto-chiave è che i virus a Rna — per le caratteristiche appena descritte — hanno tra le loro opzioni per una sopravvivenza a lungo termine proprio lo spillover, il «salto di specie». Tutto sta a trovare «ospiti serbatoio» (ed eventuali «ospiti di amplificazione») adeguati. Per arrivare ai chirotteri (dal greco chéir, mano e pteròn, ala) dobbiamo far scorrere il nastro della vita oltre sequenze decisive — l’esplosione della fauna nel Cambriano o il mondo a colori dopo l’emersione delle angiosperme nel Giurassico-Cretaceo, stessi periodi dei dinosauri — fino alla fine del Paleocene, tra i 65 e i 56 milioni di anni fa. È in quel range temporale che i pipistrelli, probabilmente originari delle attuali aree eurasiatiche, si irraggiano e differenziano prima in Africa e poi negli altri continenti. La loro utilità per Sapiens è più o meno nota, dalla loro incidenza come insettivori (zanzare in primis, quindi come antidoti alla malaria) a quella di impollinazione di fiori e piante, dalla funzione fertilizzante del loro guano (sedimentato nelle grotte) alla possibile incidenza terapeutica nelle ischemie (secondo uno studio recente) di una proteina contenuta nella saliva di una sottofamiglia di vampiri. Capitolo a sé stante (su cui si tornerà) il loro impiego gastronomico: non solo in Cina, ma in molti Paesi (Seychelles, Indocina, Indonesia, Filippine e varie isole del Pacifico) i pipistrelli (specie i frugifori) costituiscono «carne prelibata». Eppure — fatta salva l’ammirazione per l’ecolocazione con sonar hi-tech — la loro fama sembra ornai dimensionata solo sulla minacciosità patogena; del resto, anche verso gli stessi microbi abbiamo un atteggiamento univoco, rimuovendo la loro utilità-potenzialità, dai «batteri spugne» che assorbono il mercurio e altri inquinanti alle terapie antitumorali con virus geneticamente modificati. Dopo di che, colpisce nei chirotteri l’oggettiva familiarità coi virus, riconducibile a molti fattori: la rilevanza demografica e filogenetica (sono 1116 specie, addirittura un quarto dei mammiferi); la spiccata socialità che li porta, per il riposo o il letargo, a concentrazioni impressionanti (un milione di individui in un sito); la loro stessa «arcaicità» lungo la storia della vita, che li ha condotti a maturare con molti virus un legame di coabitazione coevolutiva («quando una linea evolutiva di chirotteri si divide in due, è probabile che lo stesso facciano i patogeni trasportati»); e il volo, che li porta a diffondere e contrarre virus per continui contatti «tridimensionali» (anche in altezza-profondità) su aree molto estese, percorse con spostamenti di decine di chilometri in una sola notte (quando predano) o centinaia in una stagione (quando migrano, con siti estivi e invernali separati anche da 1300 chilometri). Una zoomata a parte merita il rapporto tra la dimensione popolazionale e la longevità (fino a 20-25 anni). È questo rapporto, infatti, che permette ai virus di persistere, perché — in comunità così grandi — ai «vecchi» chirotteri che acquisiscono l’immunità corrisponde un numero costante di neonati suscettibili: è la «dimensione critica di popolazione» che consente a un patogeno di diventare da epidemico endemico, come succede al morbillo in comunità di almeno 500.000 abitanti. Anche se questo schema non è esclusivo: quando i patogeni non trovano gruppi così consistenti, sopravvivono contagiando popolazioni relativamente isolate (la cosiddetta metapopolazione), secondo lo schema a «ghirlanda luminosa di Natale», metafora che traduce l’intermittenza del contagio stesso, con la cadenza on/off più lenta se le popolazioni sono più distanziate. Sono modalità che sollecitano in ogni caso domande sul «mistero immunitario» dei pipistrelli, legato a una permeabilità virale che gli studiosi non riescono a spiegare del tutto, riconducendola al freddo dei siti (con eventuale immunosoppressione), ad anticorpi di durata media inferiore a quella umana, alla loro stessa arcaicità evolutiva (che li ha staccati dall’albero dei mammiferi prima che il loro sistema immunitario raggiungesse l’efficacia di quello di roditori e primati) e alla «convenienza» della stessa coabitazione endemica. Fatto sta che proprio l’assetto immunitario li elegge tra i principali «ospiti serbatoio» dei virus: come dimostra anche l’interazione con l’uomo. Staccandosi dalla linea evolutiva del gorilla 8 milioni di anni fa e da quella dello scimpanzè «solo» 5, Homo — il fitto «cespuglio» della nostra discendenza — è molto giovane, nel senso che entra su una scena in cui la competizione-coesistenza tra agenti patogeni procede da miliardi di anni, e tra quelli e le altre specie animali (o meglio i loro sistemi immunitari) da decine di milioni, proprio come nei chirotteri. A lungo (più o meno fino a tutto il Pleistocene), i nostri antenati preominidi convivono coi microbi e i loro vettori (pulci, vermi, protozoi, salmonella, staffilo e streptococchi) senza troppe conseguenze: anche se lentamente vari fattori (punture di insetti, morsi di animali, consumo di cibo contaminato) portano alle prime zoonosi e ai primi spillover, con contagio di tubercolosi aviaria, leptospirosi, schistosomiasi, tetano e altre patologie. Quella relativa preservazione è dovuta in primis all’assetto socioeconomico, articolato in comunità piccole, isolate e nomadiche (al massimo 150 individui, il famoso «numero di Dunbar» che spiega anche il «limite» delle amicizie su Facebook). Il break avviene circa 10.000 anni fa, quando in una fase di riscaldamento climatico si ritirano i ghiacciai, si alza il livello del mare e viene stravolto l’ecosistema, con un drastico avvicendamento di fauna: si estinguono i grandi pachidermi della prateria umida e fredda e subentrano cervi, cinghiali e orde di roditori. In quel contesto, l’uomo inizia la famosa «transizione neolitica», in cui l’introduzione dell’agricoltura, la domesticazione animale, le deforestazioni e le comunità urbane via via più popolate sanciscono il passaggio dal nomadismo dei cacciatori-raccoglitori alla stanzialità. Tutti tratti — insieme alle crescenti diseguaglianze sociali — tesi a formare nuove nicchie ecologiche per gli agenti patogeni. Infatti, le zoonosi si moltiplicheranno, con l’uomo che contrae patologie dai cani (scabbia, morbillo, tigna), dai bovini (vaiolo, tubercolosi, tenia), dagli ovini (distoma, febbre maltese, carbonchio), dai maiali (trichinosi), dagli uccelli acquatici (influenza) e dai roditori (peste). Con l’età arcaica e classica — con gli scambi commerciali e le guerre delle «prime globalizzazioni» — quei tratti si accentuano, portando alle prime vere «paure da contagio»: nell’Atene del 430 a.C, (con le masse stipate all’interno della città per volontà di Pericle nel contesto della «guerra del Peloponneso») esplode la prima epidemia di «peste» (in realtà tifo o febbre tifoide o emorragica): e a Roma basti ricordare l’epidemia descritta da Tacito (65 d.C., 30.000 morti) o la pandemia occidentale del 189, che costa alla «capitale» anche 2000 morti al giorno. Mentre il «lungo periodo» che segue — tra Medioevo e modernità — vede attuarsi una progressiva «unificazione microbica del mondo» per stazioni tragiche, le cui cifre parlano da sole, restituendoci anche la dimensione realistica di quello che stiamo vivendo: la Morte Nera del ‘300 (peste bubbonica, ancora dibattuto se batterica o virale) produce 25 milioni di morti in cinque anni, e più in generale il decesso «da un terzo alla metà» della popolazione eurasiatica e africana; gli shock immunitari prodotti dagli invasori sui nativi americani (isolati per 15.000 anni) li decimano del 90% in un secolo; e l’età preindustriale e industriale deve affrontare pandemie virali come il vaiolo (50 milioni di morti nell’Europa del ‘700, 400 nel mondo il secolo successivo) o il morbillo (200 milioni globali negli ultimi 150 anni). Il «secolo breve» (il ‘900) si apre a sua volta con la Spagnola (da 25 a 40 milioni di morti dal 1918) e si chiude con l’AIDS (36 milioni dall’81 a oggi), che rivela nell’Hiv il principale tra i virus cosiddetti «emergenti», agenti patogeni nuovi o antichi-antichissimi, in grado di mutare la loro virulenza o contagiosità in nuove nicchie ecologiche, favorite dall’accentuarsi dei tratti moderni (urbanizzazione e rete di commerci-trasporti) ma anche da certe nuove procedure mediche (trasfusioni e trapianti d’organo). Nella fioritura degli «emergenti», i pipistrelli stanno esercitando un ruolo primario. Il legame tra arcaicità e novità nei virus emergenti con protagonisti i pipistrelli è ben riassunto nel caso di Hendra (dal nome della località australiana d’esordio), grave sindrome respiratoria (soprattutto equina) che esordisce nel ’94. In quel caso, infatti, antichissimo è il virus (che si differenzia in tempi remoti dai cugini morbillovirus per restare poi in latenza) e antichissimi gli insediamenti di chirotteri, attestati ben 55 milioni di anni fa nel Queensland, molto prima delle volpi volanti rosse o «pipistrelli della frutta» (a partire da 20 milioni di anni fa) poi identificate come «ospiti serbatoio». Relativamente recenti (ma pur sempre preistorici) sono invece gli insediamenti umani, con gli antenati aborigeni arrivati «solo» 40.000 anni fa dall’Asia sudorientale viaggiando «di isola in isola» su barchette di legno; e recentissimi (quindi nella fattispecie più esposti sul piano immunitario) sono i cavalli, principali bersagli del virus e «ospiti di amplificazione», introdotti in Australia nel gennaio 1788. Tra la fine dello scorso millennio e l’inizio del nuovo i chirotteri sono stati individuati come «ospiti serbatoio» in diversi generi di «emergenti»: paramixovirus come Hendra stesso o Nipah, encefalite che esordisce in Malesia nel’98, «ospiti di amplificazione» (contagiati dalle deiezioni dei pipistrelli nelle porcilaie) i maiali, un milione dei quali viene sterminato; filovirus come Ebola (solo ipotizzato) e come Marburg (certo), febbre emorragica che deve il nome alla città tedesca in cui irrompe nel 1967 colpendo gli impiegati di una fabbrica di vaccini, contagiati da scimmie verdi importate dall’Uganda («ospiti intermedi»); e coronavirus capaci di indurre a loro volta gravi sindromi respiratorie come MERS-CoV (che colpisce la penisola arabica nel 2012, «ospiti di amplificazione» i cammelli) e soprattutto SARS-CoV (2002-2004) e SARS CoV-2 (ora). La ricostruzione dettagliata della progressione del contagio di SARS-CoV e la risalita a gambero al virus e ai suoi «ospiti» («serbatoio» e intermedi) è uno dei vertici drammatici del libro di Quammen: la si leggerebbe «come un thriller», non si venisse sopraffatti a ogni pagina prima dall’angoscia, poi da una pietas dolente, non senza una profonda emozione per come la scienza risolve ancora una volta — se non tutti — parecchi enigmi del caso. La progressione procede per sequenze inesorabili: l’innesco coi contagi in sordina nel Guangdong (capitale Guangzou alias Canton; altra città di riferimento Shenzhen, nuovo polo hi-tech sede anche della Huawei): l’irradiazione, nella stessa area, con un primo superspreader («super-diffusore»), un commerciante di pesce che torna a Canton dalla portuale Zhongshan; il passaggio (durante la terrificante intubazione di quest’ultimo) a tanti medici e paramedici, uno dei quali- un nefrologo — va al matrimonio di un nipote a Hong Kong, risedendo in un Hotel (il Metropole) che diventa un moltiplicatore, esportando il virus da Singapore a Toronto (dove la SARS mieterà 33 vittime); e l’approdo a Pechino, attraverso un altro super-diffusore che arriva a contagiare da solo ben 70 suscettibili. Altrettanto serrate sono le sequenze della risalita retrograda a livello biologico-genetico e epidemiologico: un primo sospetto su un’emergente zoonosi influenzale «del peggior tipo», cioè simile a H5N1 (l’iper-aggressiva «aviaria» del ’97,6 decessi su 18 casi); l’individuazione successiva, per esclusione, di un coronavirus (che prende il nome dalla forma tondeggiante con le frange appuntite); quella di un primo, ingannevole «ospite serbatoio» come lo zibetto (civetta delle palme mascherata), che si rivelerà invece tragicamente solo un «ospite intermedio» (tragicamente perché il governo cinese — dopo la recidiva del 2004 — ordinerà la soppressione di 1000 esemplari, che finiranno soffocati, bruciati vivi, folgorati, annegati); la risalita dopo quell’ecatombe (in due studi paralleli, uno a Hong Kong, l’altro a New York) all’effettivo reservoir, il minuscolo «pipistrello ferro di cavallo», bestiola dalla protuberanza nasale bruttina ma efficacissima nell’ecolocazione. Nell’indagare sul possibile «innesco» dello spillover, Quammen si dilunga in una digressione che diventa fatalmente sequenza centrale: quella in cui perlustra (personalmente e nei racconti di conoscenti) gli allevamenti e i mercati (wet markets) volti a rifornire gli animali selvatici a un’immensa rete di ristoranti (più di 2000 solo a Canton) specializzati nella relativa cucina (yewei). Una cucina, va rimarcato, non certo proletaria, ma destinata a una clientela cool per cui quella fantasmagoria gastronomica estesa a «tutte le creature di terra, di aria o di mare» (non solo pipistrelli e zibetti, ma anche ratti, serpenti, tartarughe, tassi e furetti di ogni specie, e molto altro) rappresenta un’esibizione di lusso e nello stesso tempo l’adesione a una tradizione «beneagurante», inclusiva di presunti afrodisiaci come il pene di tigre. I mercati, in particolare (come il Chatou di Canton o il Dongmen di Shentzhen) si presentano come veri «manicomi zoologici», con gli animali selvatici spesso macellati in loco, tenuti a contatto con cani e gatti (pietanze più ordinarie) e stipati in gabbie a rete verticali in cui la deiezione di chi sta sopra finisce su chi sta sotto. Non per niente, tra i «casi indice» (i primi diffusori) della SARS figurano — oltre a cuochi e personale da cucina di Canton — venditori e clienti di quei mercati, dove non è raro imbattersi in partite di pipistrelli infetti e possibili «ospiti intermedi» come gli zibetti. Lo scenario di SARS-CoV si è ripresentato ora con SARS-CoV-2. La ricostruzione di Quammen mostra infatti come alla similarità genetico-molecolare si associ quella epidemiologica: stessa area di provenienza (la Cina, stavolta centrale, città di Wuhan, provincia dell’Hubei); stessa partenza in sordina, tra esordio subdolo del contagio e cautele sconfinanti in censure (i primi casi forse a ottobre 2019); stessa modalità di innesco, anche se il mercato del pesce di Wuhan — dov’erano esposti animali vivi, tra cui fauna selvatica e pipistrelli — sembra ora un passaggio secondario. Ci vorrà tempo, ovviamente, per arrivare allo stesso grado di messa a fuoco di SARS-CoV. Non mancano, però, marcate differenze. Caratterizzato da una maggiore contagiosità, il nuovo virus sembrerebbe inferiore per letalità: per SARS CoV era del 9.6% (8098 casi in 29 paesi, con 774 decessi); quello del virus attuale, al momento, del 3,4 (più di 93.000 casi con più di 3200 decessi: i dati sono aggiornati a mercoledì 4 marzo), anche se va tenuto conto di molte variabili, dai contagi non ancora rilevati ai forti scarti tra Paesi e i relativi assetti socio-sanitari (vedi Iran). E anche il famigerato R, il «numero di riproduzione» ovvero la capacità di contagio di un individuo — che non dev’essere maggiore (>) ma uguale (=) a 1 per indicare una possibile implosione dell’epidemia — è in assestamento: sembrerebbe, in ogni caso, >2. Qualche dato comparativo: le influenze stagionali hanno in genere un R=2, la Spagnola aveva un R>3, il morbillo un R>7. I prossimi giorni o meglio settimane faranno chiarezza, specie misurando il tutto — l’efficacia del «contenimento» — secondo pietre angolari epidemiologico-matematiche come il rapporto tra virulenza, tasso di trasmissione e tempo di recupero dei pazienti guariti. Intanto, è possibile trarre qualche orientamento, magari tornando alle riflessioni di Macfarlane Burnet. In primo luogo, bisogna considerare quanto di deterministico e quanto no ci sia in un’epidemia (il che varrebbe, per inciso, per molte altre questioni, a partire dal global warming). La sintesi sta proprio nel caso dei pipistrelli come reservoirs di tante potenziali zoonosi: è vero che in certi casi l’innesco è imprevedibile (vedi quello delle deiezioni sulle porcilaie nel Nipah); ma in molti altri tutto dipende da noi, a partire da quelle alterazioni ecologiche (urbanizzazioni, deforestazioni, e così via) che sottraggono ai chirotteri i loro nutrimenti abituali (zecche e zanzare), attirandoli verso le metropoli e facendo spostare i loro siti iperaffollati (tipo le grotte messicane di Carlsbad, dove stanno stipati in 3000 per metro quadro e dove «persino la rabbia si diffonde per via aerea») in scantinati urbani e fabbriche dismesse. Come riassume efficacemente Jon Epstein, ecologo dei patogeni animali, «non sono loro a cercarci, semmai siamo noi a cercare loro», dove «loro» si può riferire ai patogeni come agli ospiti («serbatoio» e intermedi). Il che vale, nello specifico, soprattutto per la Cina, i cui ormai numerosi precedenti nell’«esportazione» epidemica (prima delle due SARS, le due influenze hongkonghesi e l’aviaria) poggiano su attenuanti oggettive (demografia, densità urbana, migrazioni massicce interne e globali), ma anche sull’elusione di certi snodi, in primis quello dei wet markets. Dopo il primepisodio di SARS CoV (2002-03), il governo vietava le vendite di civette delle palme e di 53 altre specie selvatiche; ma pochi mesi dopo, in seguito alle proteste di allevatori e commercianti (e usando come pezza d’appoggio un nuovo studio «in discolpa» delle civette) faceva rientrare tutto, peggiorando poi le cose — alla recidiva successiva — con l’ecatombe già rievocata. Ora sembra muoversi qualcosa (vedi l’intervista al Corriere di Zhou Jinfeng, capo della Ong cinese per la difesa della biodiversità); ma già Burnet (che pure lo invocava) era molto scettico su un effettivo divieto commerciale sui pappagalli australiani, «ospiti» della psittacosi. E poi, come spesso in questi casi, è scacco matto, perché divieti simili rischiano di alimentare la vendita illegale. In secondo luogo, sempre tornando a Burnet, la prospettiva biologico-evoluzionistica delle «malattie infettive» può essere utile a introdurre una visione meno antropocentrica e più spersonalizzata della questione. Ricordarci come la competizione-coabitazione tra organismi di miliardi o molti o pochi milioni di anni sia costitutiva della materia vivente: se tendiamo a rimuoverlo, è perché le acquisizioni profilattiche e bio-mediche (vaccini in primis) ne hanno attenuato di molto l’impatto rispetto a un passato in cui i nostri avi morivano, oltretutto, riconducendo le epidemie ad agenti metafisici o a piaghe mandate da un demone o da un Dio punitivo. E ricordaci, quindi, che le perdite e i lutti — anche quando ci riguardano da vicino — non invalidano di un atomo il valore oggettivo di quelle acquisizioni, si tratti solo di una curva statistica che faccia intravedere il ritrarsi di una pandemia; che la speranza resta tale anche quando ci esclude individualmente. Oltre al libro di David Quammen, Spillover (Adelphi, traduzione di Luigi Civalleri, disponibile anche in edizione economica), per questo articolo sono stati utilizzati:
Gilberto Corbellini, Storia e teorie della salute e della malattia, Carocci, 2014;
Giovanni Maga, Occhio ai virus e Batteri spazzini e virus che curano, tutti e due da Zanichelli, 2012 e 2016;
Giovanni Rezza, Epidemie, Carocci, nuova edizione febbraio 2020, con un capitolo specifico su SARS-CoV-2
Virus Cina: è arrivato all'uomo dai serpenti. (ANSA il 23 gennaio 2020) - Il virus cinese 2019-nCoV è arrivato all'uomo dai serpenti: sarebbero questi gli animali nei quali il virus, trasmesso dai pipistrelli, si sarebbe ricombinato e poi passato all'uomo. Lo indica l'analisi genetica pubblicata sul Journal of Medical Virology da Wei Ji, Wei Wang, Xiaofang Zhao, Junjie Zai, e Xingguang Li, delle università di Pechino e Guangxi. La ricerca è stata condotta su campioni del virus provenienti da diverse località della Cina e da diverse specie ospiti.
Anche Macao ha cancellato tutte le festività legate al capodanno cinese. L'annuncio, di cui dà conto Bloomberg citando la tv di Hong Kong Tvb, è dell'ufficio governativo per il turismo di Macao, dove è stato accertato un secondo caso di coronavirus, un uomo di 66 anni arrivato mercoledì dalla città di Wuhan, focolaio dell'epidemia. La regione semi-autonoma di Macao, l'unica area in tutta la Cina in cui è consentito il gioco d'azzardo, attira ogni anno milioni di turisti dalla Cina continentale.
La città di Pechino ha annullato i festeggiamenti per il Capodanno cinese a causa del coronavirus.
Scatta l'allerta per il coronavirus anche in Brasile: ieri è stata ricoverata a Belo Horizonte una donna con problemi respiratori proveniente dalla Cina e le autorità dello Stato di Minas Gerais lo hanno catalogato tra i casi sospetti, nonostante il governo federale abbia nel frattempo escluso l'esistenza del problema. "Non è stato individuato nessun caso sospetto di polmonite indeterminata in Brasile legato all'evento della Cina", ha affermato il ministero della Sanità. Ore prima, la segreteria della Sanità di Minas Gerais aveva divulgato "fermi" sospetti sull'arrivo del virus cinese. La paziente in questione ha 35 anni, è tornata dalla Cina il 18 gennaio e il 21 è stata ricoverata all'ospedale Eduardo Menezes. "Tenendo conto il contesto epidemiologico del Paese (Cina) in cui si trovava la paziente, è stata considerata l'ipotesi che la malattia presentata dalla stessa fosse causata dal coronavirus", ha comunicato la segreteria della Sanità di Minas Gerais. I "laboratori di riferimento" sono stati comunque incaricati di "confermare o scartare l'ipotesi" del coronavirus, hanno precisato le autorità locali.
Da liberoquotidiano.it il 23 gennaio 2020. I virus nascono in Asia, e più precisamente in Cina, per poi avere il potenziale di espandersi in tutto il mondo. Il dossier di Repubblica fa chiarezza sul perché proprio l'Asia sia la terra dei virus. La risposta è quasi banale: il mantenimento di pratiche tradizionali cozza con la modernizzazione dilagante e mette a rischio la salute di tutti. Chiaramente il riferimento è alla scelta di mangiare determinate specie di animali e soprattutto alla predilezione per i mercati popolari, dove le norme igienico sanitarie praticamente non esistono. Non a caso proprio dal mercato di Wuhan è partito il coronavirus che ha causato sette vittime e sta allarmando il mondo intero, con i primi casi riscontrati al di fuori dell'Asia, ovvero in Australia e addirittura negli Stati Uniti. Sette malattie infettive su dieci di quelle che colpiscono gli uomini nascono dagli animali, ma resta quasi sempre un mistero come questi riescano a contagiarci. Di certo trovarsi in un mercato tradizionale asiatico aumenta le possibilità di contagio, dato che gli animali vengono macellati vivi, anche quelli più rari, e si mischiano con liquidi biologici sul terreno dove razzolano gli animali ancora vivi. Per non parlare poi dell'usanza di offrire il sangue dal collo dell'animale appena ucciso all'acquirente. Tra il 2002 e il 2003 il virus della Sars era nato proprio dai mercati del Guangdong e aveva causato centinaia di decessi: l'origine va ricondotta ad una specie rara di animali presente nei mercati e considerata un piatto prelibato. Insomma, l'Asia è l'epicentro dei virus che però spesso diventano un problema globale.
Sono davvero i serpenti l'origine dell'epidemia in Cina? Ewen Callaway e David Cyranoski su La Repubblica il 24 gennaio 2020. Pochi giorni fa, un articolo di ricercatori cinesi ha indicato nei serpenti gli ospiti del virus 2019-nCoV che hanno contagiato per la prima volta gli esseri umani. Ma altri scienziati dubitano che il coronavirus abbia avuto origine da animali che non siano uccelli o mammiferi. Mentre aumentano i casi di esseri umani contagiati nel misterioso focolaio virale che ha avuto origine in Cina, gli scienziati lottano contro il tempo per cercare d’identificare gli animali da cui sospettano che sia iniziata l'epidemia. In uno studio controverso pubblicato il 22 gennaio, un gruppo di ricercatori cinesi ha dichiarato di avere una risposta: i serpenti. Eppure altri scienziati affermano che non esiste alcuna prova che virus come quelli responsabili dell'epidemia possano infettare specie diverse da mammiferi e uccelli. "Nulla supporta il coinvolgimento dei serpenti", dice David Robertson, virologo dell'Università di Glasgow. L'agente patogeno responsabile dell'epidemia appartiene a una grande famiglia chiamata coronavirus, che comprende i virus che causano la sindrome respiratoria acuta grave (SARS) e la sindrome respiratoria mediorientale (MERS), oltre a quelli che provocano il comune raffreddore. L'ultimo virus – attualmente noto come 2019-nCoV – è strettamente correlato alla SARS e ai virus che circolano tra i pipistrelli, che possono anche infettare altri animali in grado di trasmettere il virus agli esseri umani. Molti ricercatori sospettano che un animale sconosciuto portatore del 2019-nCoV abbia diffuso il virus agli esseri umani in un mercato di Wuhan, dove a dicembre sono stati documentati i primi cas. nel quale sono i vendita pesci e animali selvatici vivi. "L'ospite intermedio è la tessera mancante del puzzle: come sono state contagiate tutte queste persone?", si chiede Robertson.
Ricci, galline e pipistrelli. Un gruppo guidato da Wei Ji, microbiologo della Peking University Health Science Center School of Basic Medical Sciences di Pechino, ha cercato indicazioni dell'adattamento di 2019-nCoV a qualche specifico ospite animale. La maggior parte degli amminoacidi è codificata da più codoni, sequenze di tre triplette nucleotidiche di DNA o RNA che codificano per gli amminoacidi. Un modo in cui i virus si adattano è codificando le proteine con la stessa scelta di codoni del loro ospiti. Il team di Wei ha confrontato i codoni favoriti da 2019-nCoV con quelli preferiti da potenziali ospiti tra cui ricci, pangolini, pipistrelli, galline, esseri umani e serpenti. Il gruppo ha riferito che la scelta dei codoni del 2019-nCoV era molto simile a quella usata da due serpenti: il bungaro fasciato (Bungarus multicinctus) e il cobra cinese (Naja atra). I serpenti erano in vendita al mercato di Wuhan, notano i ricercatori. "Insieme, i serpenti potrebbero essere il serbatoio più probabile per il 2019-nCoV negli animali selvatici", hanno scritto nell'articolo apparso sul “Journal of Medical Virology”. Robertson dice che è improbabile che 2019-nCoV abbia infettato un ospite animale secondario abbastanza a lungo da alterare significativamente il suo genoma. "Ci vuole molto tempo perché questo processo avvenga", afferma.
La mancanza di prove. "Non hanno prove che i serpenti possano essere infettati da questo nuovo coronavirus e diventarne ospiti", dice Paulo Eduardo Brandão, virologo dell'Università di San Paolo che sta indagando sulla possibilità che i coronavirus infettino i serpenti. "Non ci sono prove coerenti di coronavirus in ospiti diversi da mammiferi e uccelli." Il team di Wei non ha ancora risposto alle e-mail di "Nature" che chiedevano un commento sulle critiche ricevute. Molti ricercatori dubitano che l'ospite, o gli ospiti, di 2019-nCoV possano essere identificati senza ulteriore lavoro sul campo e in laboratorio. La speranza è che test genetici su animali o fonti ambientali, come gabbie e contenitori, provenienti dal mercato di Wuhan possano trovare indizi. Un mammifero è il candidato più probabile, afferma Cui Jie, virologo del Pasteur Institute di Shanghai, che faceva parte di un team che nel 2017 ha identificato virus correlati alla SARS nei pipistrelli provenienti da una grotta nella provincia dello Yunnan, nel sud-ovest della Cina. SARS e 2019- nCoV fanno parte di un sottogruppo noto come betacoronavirus, e il lavoro sul campo effettuato in seguito all'epidemia di SARS del 2002-2003 ha trovato questi virus solo nei mammiferi, afferma Cui. "Chiaramente, 2019-nCoV è un virus dei mammiferi." (L'originale di questo articolo è stato pubblicato su "Nature" il 23 gennaio 2020. Traduzione ed editing a cura di Le Scienze. Riproduzione autorizzata, tutti i diritti riservati.)
Da adnkronos.com il 23 gennaio 2020. Avrebbe avuto origine nei pipistrelli il nuovo coronavirus responsabile dell'epidemia scoperta a Wuhan, città cinese nella provincia di Hubei, ma potrebbero esserci stati più ospiti intermedi tra pipistrelli e umani. Inoltre il microrganismo è geneticamente più simile alla Sindrome respiratoria acuta grave, o Sars, che alla sindrome respiratoria del Medio Oriente, o Mers. E' quanto emerge da uno studio pubblicato online dalla rivista di 'Science China Life Sciences' dai ricercatori dell'Accademia delle Scienze cinesi, della Shanghai Jiao Tong University, del Beijing Institute of Pharmacology and Toxicology e della Guangzhou Medical University. Lo rende noto China Daily. Il lavoro inizia a far luce sulle caratteristiche del nuovo coronavirus. Tuttavia, precisano i ricercatori, il nuovo virus non è né Sars né Mers, ma un 'parente stretto' che appartiene a una classe diversa, chiamata betacoronavirus: si tratta di un virus a Rna a singolo filamento che può infettare animali selvatici, bestiame ed esseri umani. Il nuovo virus potrebbe aver avuto origine da pipistrelli, come la Sars, ma potrebbero esserci stati più ospiti intermedi tra pipistrelli e umani, secondo lo studio. I ricercatori hanno anche scoperto che il nuovo virus può condividere un meccanismo di trasmissione simile a quello della Sars, infettando le cellule del tratto respiratorio. Tuttavia l'articolo suggerisce che il nuovo virus potrebbe essere meno infettivo rispetto alla Sars e che la sua struttura sia più facile da spezzare a causa di alcune delle sue caratteristiche genetiche. Un esperto di Pechino, che ha chiesto l'anonimato, ha affermato al quotidiano che il documento si basava su esemplari frutto di test effettuati nelle prime fasi dell'epidemia e che - come ricordato da numerosi specialisti - possono verificarsi mutazioni che possono alterare il comportamento del patogeno. "Lo scopo dello studio non è quello di dare una risposta definitiva su ciò che è il nuovo virus, ma piuttosto di offrire una direzione e alcune basi alla comunità scientifica internazionale per studiare l'agente patogeno", ha aggiunto. "È ancora troppo presto per dire quanto sia micidiale o contagioso il nuovo virus, e non dovremmo lasciare che la paura e le speculazioni ostacolino la nostra comprensione della situazione".
Virus Cina: la trasmissione è passata dai pipistrelli ai serpenti fino all’uomo. Laura Pellegrini il 26 gennaio 2020. Il virus proveniente dalla Cina, secondo le scoperte recenti, è passato dai serpenti all'uomo: l'incubazione si aggira intorno ai 14 giorni. I casi di contagio sono saliti a 616, mentre le vittime sono ormai 25: il coronavirus spaventa ancora la comunità internazionale. Il virus proveniente dalla Cina, secondo le scoperte recenti, è passato dai pipistrelli ai serpenti, quindi all’uomo. Il primo bacillo individuato nella cittadina di Wuhan, inoltre, risale allo scorso dicembre. Questo è quanto scoperto e pubblicato sul Journal of Medical Virology da Wei Ji, Wei Wang, Xiaofang Zhao, Junjie Zai, e Xingguang Li, delle università di Pechino e Guangxi. In base a questi studi, pare che il periodo di incubazione della malattia si aggiri intorno alle due settimane, come specificato dal National Health Commission cinese. La Commissiona Nazionale per la Sanità Cinese, infine, ha chiarito che il virus ha colpito 25 province cinesi e che in 13 di queste sono stati registrati 393 casi sospetti.
Virus Cina deriva da serpenti. “I risultati della nostra analisi evoluzionistica – scrivono i ricercatori cinesi – suggeriscono per la prima volta che il serpente è il più probabile animale selvatico serbatoio del virus 2019-nCoV“. Il nuovo virus, in altre parole, si è adattato geneticamente e ha effettuato il cosiddetto “salto di specie” che ha permesso ai recettori di legarsi alle cellule del sistema respiratorio dell’uomo. “Le nuove informazioni ottenute dalla nostra analisi evoluzionistica – proseguono i ricercatori – sono molto importanti per il controllo dell’epidemia causata dalla polmonite indotta dal virus 2019-nCoV”.
La situazione in Italia. Il direttore sanitario degli aeroporti di Roma, Carlo Racani ha assicurato che “i controlli sanitari predisposti dal Ministero della Salute all’aeroporto di Fiumicino sui 202 passeggeri e l’equipaggio giunti questa mattina a Roma con il volo proveniente da Wuhan hanno dato tutti esito negativo. Stanno tutti bene”. Nel frattempo, al Ministero della Salute si è riunito un tavolo per discutere sul virus misterioso proveniente dalla Cina, che pare derivare dai serpenti. “Siamo in stretto contatto con tutte le istituzioni internazionali – ha detto il ministro Speranza -. Ho sentito più volte personalmente la commissaria europea Stella Kyriakides che sta coordinando le misure a livello comunitario”.
L’intervento dell’Onu. Il direttore generale dell’Oms, Tedros Adhanom Ghebreyesus, invece, si è riservato la possibilità di valutare meglio la situazione nelle prossime ore. “Abbiamo bisogno di maggiori informazioni – ha riferito -.La decisione se dichiarare o meno un’emergenza di salute pubblica di livello internazionale è una decisione che prendo molto sul serio e che sono disposto a prendere dopo aver valutato tutte le prove disponibili“. Wuhan e Huanggang sono state messe in quarantena in via precauzionale: nella prima i servizi pubblici sono stati sospesi, nessuno può lasciare la città.
Virus Cina, l’OMS decide se dichiarare lo stato di epidemia. Martino Grassi il 26 gennaio 2020 su Notizie.it. Il virus in Cina non smette di preoccupare: l'OMS deciderà nel corso di un'assemblea straordinaria se dichiarare o meno lo stato di epidemia. Il Virus della Cina, che ha già ucciso 17 persone e contagiato migliaia di persone, non si arresta e continua ad essere tenuto sotto stretta osservazione dagli esperti di tutto il mondo che cercano di limitare il più possibile il contagio di questo virus. Tedros Adhanom Ghebreyesus, direttore dell’Ordine Mondiale della Sanità ha dichiarato, durante una conferenza stampa, che “le misure prese dal governo cinese contro il coronavirus sono impagabili” ed ha annunciato inoltre una riunione speciale, prevista per giovedì 23 gennaio, in cui l’OMS deciderà se dichiarare lo stato di epidemia causato dal virus della Cina.
Virus Cina: la decisione dell’OMS. É prevista a Ginevra, giovedì 23 gennaio, l’assemblea straordinaria del comitato d’emergenza dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) che deciderà se dichiarare lo stato di epidemia. “Il nostro team è in Cina in queste ore per investigare l’epidemia e raccogliere maggiori informazioni“, ha detto il direttore generale dell’Oms Tedros Adhanom Ghebreyesus, elogiando anche le misure di sicurezza che il Governo Cinese ha intrapreso non solo per limitare il contagio interno al Paese, ma anche per bloccare la fuoriuscita del virus dai confini nazionali.
Città cinesi in quarantena. Alcune città cinesi, prima fra tutte Wuhan (da dove si è sviluppato il temuto coronavirus), sono in uno stato di quarantena. La città di 11 milioni di abitanti resterà inaccessibile e nessuno potrà uscire, una misura senza precedenti che ha visto anche stazioni dei treni e aeroporti chiusi, autobus e metropolitane, traghetti e collegamenti a lungo raggio fermi fino a ordini contrari. Anche tutte le celebrazioni in vista dell’imminente capodanno lunare sono state sospese, così come tutte le attività di culto e religiose.
Già nei giorni precedenti il Sindaco di Wuhan aveva dichiarato: “Se non è necessario, suggeriamo a tutti di non venire a Wuhan”.
Mauro Evangelisti per “il Messaggero” il 23 gennaio 2020. Guido Antonelli, virologo, professore ordinario di Microbiologia alla Sapienza di Roma. Riusciremo ad evitare che arrivi anche in Italia il contagio del 2019-nCoV, il coronavirus il cui focolaio si è sviluppato a Wuhan, in Cina, che già ha provocato 17 morti?
«Per quanto ci sia stata una risposta tempestiva e siano state previste misure di contenimento, anche rigide, con la globalizzazione, la diffusione del commercio internazionale, dei viaggi e del turismo, è possibile che il virus arrivi anche in Europa. Ricordiamoci che la trasmissione è per via aerea».
Rispetto al 2002-2003, ai tempi della Sars, quando le autorità cinesi inizialmente furono restie nel dare notizie sul virus, oggi c'è stata maggiore trasparenza. Ma abbiamo un altro problema: il mondo è più piccolo, i cittadini cinesi viaggiano con più frequenza anche in Europa e noi europei andiamo in Cina più spesso, rispetto a diciassette anni fa.
«Noi abbiamo imparato tanto dalla Sars e dalla Mers, quindi l'Organizzazione mondiale della Sanità, con la rete che ha istituito, è stata molto più pronta di prima nel coltivare, identificare e sequenziare il genoma. Ha distribuito la sequenza del genoma, tutti i laboratori possono fare la diagnosi e quindi da questo punto di vista siamo più pronti rispetto all'evento Sars. Tuttavia essendo un virus che si trasmette per via aerea che può essere limitato solo con misure estremamente rigide, la situazione potrebbe essere molto preoccupante».
È corretto dire che questo coronavirus è mutante?
«Non sappiamo che cosa stia avvenendo ora, però i coronavirus possono mutare. Ma la mutazione che ha portato alla trasmissione da uomo a uomo è avvenuta, perché gli operatori sanitari che hanno preso in cura i primi infettati sono stati contagiati. In sintesi: c'è stato un primo contatto tra animale e uomo, e poi il passaggio a un altro uomo, dunque è possibile che ci sia stata una mutazione».
L'ultimo bollettino parla di 17 morti su 400 casi. Raccontata in questo modo ci fa pensare a un tasso di mortalità molto alto, tale da preoccuparci.
«No, questo non è un metodo corretto per ipotizzare un alto tasso di mortalità del 2019-nCoV. E' vero, ci sono 17 vittime ed è un numero preoccupante. Ma non possiamo affermarlo con certezza su una base di 400-500 infettati, perché non possiamo escludere che vi sia un numero di infettati non ancora rilevato e anche una parte di asintomatici, persone che hanno contratto il virus ma non presentano i sintomi della malattia, come avviene con numerose altre infezioni virali, ad esempio con l'influenza.
Questo significa che nel tentare di definire il tasso di letalità di questo coronavirus di Wuhan rischiamo di arrivare a una conclusione sbagliata perché uno dei fattori, il numero delle persone infette, non è certo e forse è sottodimensionato. Semmai, c'è un altro elemento su cui dobbiamo riflettere...».
Quale? Colpisce che in pochi giorni siano stati registrati casi anche in altri paesi, dalla Thailandia a Giappone, da Macao a Hong Kong, fino agli Stati Uniti. Un paziente è sotto osservazione anche in Australia.
«Questo è un problema. Oltre al numero dei morti, che ovviamente è un significativo, però il fatto che in diversi paesi differenti dalla Cina siano stati registrati dei casi indica che il coronavirus è trasmissibile con una certa facilità. Forse non come il virus della Sars, che si trasmetteva con ancora più rapidità, sempre per via respiratoria.
Facciamo un esempio: il virus del morbillo hanno un alto indice di trasmissibilità, ogni individuo può infettare dieci persone; nel caso dell'influenza siamo a 1,5-2. In questo caso ancora non lo possiamo stabilire, ma visto che si è diffuso con una certa rapidità riteniamo che questo tasso sia relativamente elevato».
Questo coronavirus di Wuhan è simile a quello della Sars?
«Dal punto di vista genetico e dell'assetto biologico, la risposta è sì. I determinanti strutturali ci dicono che è molto simile. Sulla patogenesi e sull'epidemiologia ancora non abbiamo notizie certe. Di certo, la mortalità esiste, ci sono casi diagnosticati e documentati, significa che è abbastanza patogeno. Il virus della Sars probabilmente lo era di più e colpiva categorie diverse, soprattutto giovani adulti. In questo caso invece si parla al momento di soggetti più fragili».
Ma che fine ha fatto la Sars?
«Nell'uomo non c'è più, è finita la trasmissione, non c'è stato più nessun caso documentato di infezione dalla Sars. I ceppi sono conservati solo in alcuni laboratori per avere dei controlli positivi in caso di necessità di diagnosi».
IL CONTRABBANDO DIETRO IL CORONAVIRUS? Testo di Nathan Paul Southern su Inside Over il 29 febbraio 2020. La lussuosa isola turistica di Gaya, nel Borneo Malese, è la quintessenza del paradiso tropicale. A soli 15 minuti di barca da Kota Kinabalu – la capitale dello stato orientale malese di Sabah – qui la sua famosa natura selvaggia non esita a manifestare la sua predominanza sugli ospiti umani. Scimmie maliziose rubano gli occhiali da sole e, a volte – gli addetti mettono in guardia – agguantano anche una bella birra fresca. Maiali barbuti si radunano a pochi metri dal ristorante della spiaggia. Uccelli rari e fauna marina abbondano. Ma dopo una mezz’ora di escursione nella fitta giungla, la nostra guida è costernata. Troviamo un campo improvvisato e del legno bruciato abbandonati vicino ad un tranquillo ruscello: bracconieri.
Bracconieri? “È normale”. “È normale”, ci dice la guida. Arrivano in barca e quasi sempre ripartono prima che i ranger abbiano il tempo di prenderli. È impossibile sapere cosa abbiano cercato. Le scimmie dal naso lungo a proboscide – una specie in pericolo – sono una preda comune, ma a Gaya c’è anche una spettacolare varietà di uccelli, primati, mammiferi esotici, per non parlare anche di legname raro e costoso. Ognuna di queste cose potrebbe essere stato l’obiettivo dei bracconieri. Anche qui, che è una piccola oasi di ecoturismo circondata da resort che rendono molto difficile ormeggiare una barca senza che sia individuata, non c’è modo di sfuggire all’esplosione del commercio illegale di flora e fauna selvatica che avviene nel Sudest asiatico.
Il boom del commercio illegale di flora e fauna. La regione dell’Associazione delle nazioni del sud est Asiatico (Asean) ricopre meno del 3% della superficie terrestre, ma arriva al 25% del commercio globale di flora e fauna selvatica. Come fornitore, consumatore e piazza di transito di questo mercato nero in espansione, il Sudest asiatico è uno dei mercati mondiali primari per la cattura, la vendita, il consumo alimentare e la spedizione di specie protette verso paesi di tutto il mondo. Le prospettive non sono buone. In base alla Commissione europea, il traffico di flora e fauna selvatica ad oggi è la quarta industria illegale più redditizia del mondo, che ammonta a 26 miliardi di dollari all’anno, in crescita. Di gran lunga, la maggior domanda di prodotti di specie a rischio viene dalla Cina, e con la crescita della popolazione e dell’economia di questa superpotenza, cresce anche la domanda di animali rari e protetti.
Il mercato numero uno per l’export di specie rare. Le specie rare hanno a lungo avuto un ruolo nella medicina tradizionale cinese, ma le persone normali non sempre avevano i mezzi per comprarle. Oggi, però, la classe media in crescita del paese ha più denaro da spendere. “Il numero di persone con la capacità di acquistare (flora e fauna selvatica), credo sia indiscutibilmente aumentato”, sostiene il Dr Thomas Gray Direttore Scientifico di Wildlife Alliance in Cambogia. Considerando il miglioramento delle infrastrutture nella regione, che rende più veloce e più facile che mai spostare le merci del mercato nero da un posto all’altro, le popolazioni di flora e fauna selvatica del Sud Est Asiatico e la sua biodiversità rischiano la decimazione totale. Prendiamo il pangolino, un mammifero squamoso che somiglia ad un formichiere ed è l’animale più contrabbandato del mondo. Nel sudest asiatico hanno origine i 10mila o più pangolini catturati ogni anno dai bracconieri per la loro carne e le scaglie, molto ricercate come ingredienti sia nella medicina tradizionale cinese, sia nella produzione di metanfetamina. Tanto ricercate che, infatti, tutte le otto specie di pangolino ora rischiano l’estinzione. Nella prima metà del 2019, più di otto tonnellate di scaglie provenienti da circa 14mila pangolini sono stati sequestrati nella sola Hong Kong.
Centinaia di tigri “disperse” ogni anno. Nel frattempo, in Thailandia e Laos centinaia di tigri risultano “disperse” ogni anno dalle aree di allevamento, che presumibilmente sono state create per proteggere gli ultimi dei loro esemplari in diminuzione. Le tigri sono molto richieste dalla medicina tradizionale cinese, specialmente per la produzione del vino di ossa di tigre, e c’è un crescente appetito per la loro carne. Gli allevamenti legali di tigri sostengono di allevare i rari felini per alleviare il carico su quelle selvatiche, ma in realtà questo non fa altro che attenuare la riprovazione sul commercio di parti di tigre. Nel 2018 la Cina ha formalmente alleggerito le leggi sull’importazione di prodotti delle tigri, introducendo così in effetti un modo legale per trafficare specie a rischio. Spesso, il declino di una specie braccata ha un serio effetto a catena sulla salute del suo più ampio ecosistema. L’unico Bucero dall’elmetto si trovava una volta in abbondanza in tutto il Myanmar, Thailandia, Malesia, Singapore, Indonesia e Brunei. Questi uccelli si comportano come “gli agricoltori della foresta”, mangiando semi e poi rigurgitandoli o defecandoli tra gli alberi, contribuendo così a reintegrare la biodiversità su molte miglia quadrate. Sfortunatamente per il Bucero, il suo teschio è fatto di una sostanza simile all’avorio di elefante, ma più tenero e semplice da intagliare in decori ornamentali. Simbolo di ricchezza in Cina per secoli, il recente aumento della domanda ha causato un drammatico aumento dei livelli di bracconaggio, con questo uccello messo tremendamente a rischio. Questa è una tragedia per la specie, ma anche per le giungle del Sud Est Asiatico. Assommando il 15% della biodiversità mondiale totale, la regione sta soffrendo già una rapida deforestazione. La diminuzione del numero di animali mangiatori di frutta come gli elefanti, i buceri ed i cervi non fa che peggiorare questo impatto negativo sulla foresta e la sua capacità di immagazzinare carbonio.
Gli Orrori del Traffico Illegale di Specie Selvatiche. Da ogni punto di vista, il traffico di specie selvatiche è un disastro. Il declino delle specie e della biodiversità mina ogni prospettiva di sviluppo economico sostenibile di lungo periodo, rendendolo “intrinsecamente non sostenibile” in base al United Nations Office On Drugs And Crime (UNODC). L’impatto duraturo sull’ambiente elimina una risorsa su cui hanno fatto affidamento per generazioni le comunità locali, chiudendo nello stesso tempo la porta ad opportunità potenziali di creazione di lavoro, come lo sviluppo della redditizia industria dell’ecoturismo. Ma è la prospettiva di un guadagno a breve termine che anima per primi i bracconieri. “Si può parlare del danno all’ambiente e alle spesso molteplici ripercussioni sugli ecosistemi ed in fine sulle specie selvatiche. Ma questi alti costi di lungo periodo sono spesso ignorati a fronte dell’immediato e significativo guadagno economico” sostiene Vanda Felbab-Brown, membro anziano del Brooking Institute ed autore dell’Extinction Market: Wildlife Trafficking and How to Counter it. (Mercato dell’estinzione: Il Traffico di Specie Selvatiche e Come Contrastarlo). La triste ma pragmatica realtà, spiega Felbab-Brown, è che la capacità di una persona di nutrire, crescere e vestire i suoi figli, di permettersi cure mediche o portare in ospedale i parenti, prevarrà sempre su ogni altro aspetto. “La conservazione è un lusso che non si possono permettere” lei afferma.
Il grande business del contrabbando. Il contrabbando di specie selvatiche è sicuramente redditizio. Un recente rapporto ha rilevato che il valore di questo commercio è vertiginosamente aumentato del 1.600 % in dieci anni. Un commercio così redditizio è difficile che non sia alla fine notato dalle organizzazioni mafiose. “Il livello di criminalità organizzata coinvolto in questo traffico è alto”, ha dichiarato il Direttore del Traffico nel Sud Est Asiatico Kanitha Krishnasamy. “Stiamo parlando di individui e gruppi in grado di acquisire, accumulare, imballare, immagazzinare, trasportare, distribuire e redistribuire nei vari continenti, con molti altri passaggi intermedi di questa catena commerciale. Sarebbe un’impresa impossibile senza una macchina ben organizzata in funzione”. Infatti, man mano che le leggi hanno cominciato a considerare più seriamente il contrabbando di specie selvatiche, il coinvolgimento di gruppi criminali – specialmente i cinesi – è diventata una necessità logistica. Lo dichiara il Dr.Daan Van Uhm, Assistant Professor al Willem Pompe Institute for Criminal Law and Criminology dell’Università di Utrecht. Infatti, egli dice, ci sono prove che i contrabbandieri di specie selvatiche ed i trafficanti di droga hanno cominciato a lavorare insieme per contrabbandare prodotti di alto valore in Cina. La collaborazione con i cartelli di trafficanti di droga significa adottare il loro approccio al business, con conseguenze tremende per le foreste e per le specie in pericolo. Come spiega Felbab-Brown, un’organizzazione criminale che traffica cocaina si aspetta di perdere il 60% dei suoi carichi a causa dei controlli delle autorità. Per prevenire tutto questo, semplicemente essi ordinano il 60% di cocaina in più dagli agricoltori che li riforniscono. Quando questa regola viene applicata al traffico di specie selvatiche, però, lo stesso approccio ai rifornimenti ha conseguenze catastrofiche. “Se si considera che nel contrabbando di scaglie di pangolino si perdono il 50% delle spedizioni perché il 50% dei carichi sarà scoperto e sequestrato, allora si ordina di uccidere il 50% in più di pangolini”, afferma. Chiaramente, un approccio che si concentra solo sui sequestri e non abbastanza sullo smantellamento dei cartelli stessi, è destinato a rendere il problema anche peggiore.
La domanda di prodotti illegali. Un altro problema è che i turisti cinesi e la loro diffusione porta di frequente con loro la domanda. A Sihanoukville, una città di mare della Cambogia ora dominate da gruppi criminali e piena di casinò di proprietà cinese, la quantità di avorio in vendita è 11 volte di più di quanto era solo pochi anni fa. “Nello stesso momento, il numero di turisti cinesi è raddoppiato” spiega il Dr.Gray. “Queste probabilmente non sono coincidenze, in particolare quando si vede anche che il bando dell’avorio in Cina sta forse spostando alcuni dei suoi mercati verso paesi con regole meno restrittive del Sud Est dell’Asia, in particolare Cambogia, Myanmar e Laos”. I cartelli del crimine organizzato non solo usano Sihanoukville come mercato per l’avorio ma anche come nodo di transito. Il sequestro record di 3,2 tonnellate di avorio dal Mozambico nel 2018 ha dimostrato tutta la sbalorditiva espansione del traffico. “Abbiamo chiaramente osservato che l’incremento della presenza di cittadini cinesi è associata a significativi incrementi del bracconaggio e del consumo di specie selvatiche” sostiene Felbab-Brown. Un altro chiaro esempio è dato dalla Zona Economica Speciale del Triangolo D’Oro tra Laos, Myanmar e Thailandia – e dalle città di confine come Boten (in Laos) e Mong La (in Myanmar). Una joint-venture da molti miliardi di dollari tra il governo Laotiano e la mega corporazione Kings Roman Group, di Hong Kong. Qui tutto è cinese: la lingua, la valuta ed anche l’orario. L’organizzazione era, ufficialmente, tesa a promuovere investimenti in un angolo remoto del Laos del Nord. Centri commerciali, aree industriali ed anche un aeroporto internazionale facevano parte delle proposte dell’iniziativa per incrementare la crescita economica nella provincia di Bokeo nel nord ovest. Ed invece è stata trasformata in un parco giochi per visitatori cinesi che desiderano giocare d’azzardo, frequentare prostitute nei molti nuovi centri massaggi della città, mangiare animali in via di estinzione e comprare liberamente pelli di tigre e zanne di elefante in liberi mercati all’aperto. Oggi è diventato uno dei luoghi di transito principali nel mondo per il traffico di specie selvatiche.
“Il traffico di specie selvatiche sta fiorendo”. “Il traffico di specie selvatiche sta fiorendo senza nessuna attività di contrasto da parte delle forze dell’ordine nell’area”, dice Van Uhm. “Così, in sostanza, potreste comprare piuttosto facilmente qualsiasi cosa vogliate. Da un corno di rinoceronte all’avorio, al bucero”. Anche collegamenti di basso livello rendono ovunque semplice alimentare la domanda. Van Uhm descrive come gli abitanti di villaggi in Myanmar, Laos e Thailandia hanno sviluppato contatti con intermediari cinesi coinvolti nel traffico, contribuendo a fare da ponte tra i bracconieri e gli acquirenti finali. E spiega: “Alcuni cinesi si sono trasferiti in altri paesi del Sudest dell’Asia e da lì hanno posto le basi dei loro traffici illegali, con piccoli negozi come drogherie e di oggetti per la casa come copertura”. Felbab-Brown concorda: “Abbiamo visto moltissime volte che dovunque le attività di cinesi incrementano la loro presenza, c’è un aumento di bracconaggio e contrabbando di particolari animali locali verso la Cina e l’Est dell’Asia” afferma. Ed ancora, come parte dell’iniziativa della Via della Seta, Pechino sta investendo miliardi nel Sud Est Asiatico con progetti di ferrovie, ponti e grandi infrastrutture. Questo inevitabilmente incoraggerà il business della soddisfazione dei gusti dei cinesi, inclusi i commerci illegali di specie selvatiche. Nel frattempo, la crescente influenza della Cina nella regione, rende i governi dei paesi più piccoli riluttanti a criticare il comportamento dei suoi emissari.
Lavorare a una risposta efficace. I cartelli criminali globali senza dubbio giocano un ruolo enorme nel traffico di specie selvatiche, ma molti esperti sono cauti nel prendere un approccio punitivo. “C’è una tendenza al fallimento nelle politiche relative alle forze dell’ordine ed all’addestramento di tipo militare”, spiega la Prof. Rosaleen Duffy, un’esperta in traffico e bracconaggio di specie selvatiche dell’Università di Sheffield. “Queste non affrontano gli aspetti delle disuguaglianze e povertà che potrebbero indirizzare le persone all’economia del bracconaggio”. Sarebbe molto più utile, afferma, trattare il tema come un problema di sviluppo, lavorando sul ridurre la domanda e predisporre livelli di vita sostenibili. Duffy sottolinea che i fallimenti che conquistano l’attenzione non tengono in considerazione le attività di scala minore, meglio divulgati con l’istruzione. “Si potrebbe avere un commerciante di piante davvero entusiasta, che vende la sua merce su eBay”, dice. “Il venditore può così spedire la merce illegale, senza neanche sapere che sta commettendo un reato”. L’impatto a catena può essere molto dannoso per l’ambiente, ma non riceve attenzione dalle agenzie governative. La Prof. Tanya Wyatt, una Green Criminologist all’Università di Northumbria ed esperta di commercio di specie selvatiche, è più cinica. “È un problema di finanziamenti”, dice. “Se sei vittima del crimine organizzato o combatti il terrorismo, ci sono più possibilità di ricevere finanziamenti”. Difficile da discutere. Il governo Britannico ha investito più di 23 milioni di sterline in 75 progetti per combattere il commercio illegale di specie selvatiche dal 2013. Solo 14 di questi progetti, del valore di 4.4 milioni di sterline, sono stati destinati a ridurre la domanda, all’impegno delle comunità ed a mezzi di sostentamento alternativi. Il resto è stato prevalentemente concentrato verso il contrasto al crimine organizzato nel traffico, rivolgendosi contro i bracconieri, le reti di contrabbando ed il riciclaggio, ed inoltre fornendo addestramento e potenziamento delle capacità alle forze dell’ordine. Un altro problema è che le leggi intese ad inibire il bracconaggio sono spesso ignorate dalle comunità locali, che guardano ad esse – non senza una giustificazione – come ad un retaggio del colonialismo. Come Duffy puntualizza, molte leggi che vietano alle comunità locali di usare le specie selvatiche locali furono create inizialmente a beneficio dei cacciatori europei. Queste leggi devono essere urgentemente riviste per affrontare i problemi sociali ed ecologici oggi sul campo. Infine, molto come nella Guerra globale alle droghe, ignorare i fattori guida e fissarsi semplicemente sulle imposizioni è come combattere una battaglia già persa. “Non c’è alcun dubbio che in USA hanno grandissimi incentivi e grandissime motivazioni a bloccare il traffico di droghe negli Stati Uniti”, dice Felbab-Brown. “hanno destinato cifre altissime, nell’ordine dei $40 miliardi di dollari all’anno in questo sforzo. È un paese con grandi risorse ed il cento per cento di motivazioni per conseguire questo scopo. Eppure, il rifornimento di droghe verso gli Stati Uniti non è calato”.
Gli sforzi sono stati fallimentari. Ad oggi, gli sforzi verso la proibizione sono stati deludenti. La Cina ha vietato l’importazione di prodotti di avorio nel 2017, ma mentre la domanda si è quasi dimezzata, resta ancora a livelli insostenibili. Peggio ancora, non ha fermato i bracconieri dall’uccidere gli elefanti (semplicemente usano altre parti dell’animale). Vanda Felbab-Brown spiega che i trafficanti hanno cominciato a produrre gioielli fatti con sangue, pelle e grasso di elefante, producendo con successo un “capriccio” in Cina che prima non esisteva. Questa è una cattiva notizia specialmente per le popolazioni a rischio degli elefanti asiatici in tutto il Sudest asiatico. Dato che questi non sempre hanno le zanne, erano in genere soggetti a caccia meno dei loro cugini Africani, ma ora sono a rischio nello stesso modo. Alcuni conservazionisti credono che fornendo vie legali per comprare specie selvatiche a rischio sia l’unico modo per abbattere il bracconaggio. Se severamente regolati, la caccia sostenibile di specie a rischio e l’allevamento di animali rari molto richiesti offrono due possibili alternative al bando totale. Altri temono che questa zona grigia nasconde o legittima anche le attività di mercato nero. In presenza di prodotti illegali e consentiti fianco a fianco si crea confusione e si manda un messaggio sbagliato ai consumatori. Il certificato di origine potrebbe essere falso, regalando ai trafficanti un modo per trasportare e vendere parti di animali in pericolo nell’impunità. “Quando si entra in quest’area grigia ci sono tante scappatoie per il riciclaggio e la corruzione”, dice Wyatt. “Penso che questo sia il maggior problema. Quando un settore legale dell’allevamento si trova in un luogo dove c’è corruzione, non funzionerà mai”.
Mattatoi camuffati da centri di allevamento. La corruzione è così comune che anche i centri di allevamento che dichiarano di esistere a scopi conservativi sono spesso trovati a macellare i loro animali per profitto. La Environmental Investigation Agency con sede a Londra stima che il 38% delle parti di tigre ed animali vivi sequestrati provengono da allevamenti legali di tigri. Quando il famigerato “Tiger Temple”, un’attrazione turistica in Thailandia gestita da monaci, fu chiusa nel 2016, i funzionari trovarono 40 cuccioli ammassati in un freezer, altri 20 conservati in barattoli e 1.600 oggetti fatti con pelle, ossa e denti di tigre. Van Uhm descrive una visita in un allevamento di tigri nel nord della Cina in cui dei vini di ossa di tigre erano venduti liberamente da centinaia a migliaia di euro a bottiglia. “Lo pubblicizzano come Vino di ossa di tigre, ma è etichettato in latino come contenente ‘leone'”, racconta. L’errore di etichettatura era fatto intenzionalmente per confondere le forze dell’ordine, ma coloro che lavoravano nell’allevamento insistevano che era vero.
Altri mercati di export per il traffico di specie selvatiche. Malgrado i consumatori cinesi siano senza dubbio i più dannosi, demonizzarli non è di aiuto. Questo in parte perché anche l’Unione europea e gli Stati Uniti sono, come dice Wyatt, “assolutamente grandi consumatori di specie selvatiche che dovrebbero tenere in ordine le loro case”, ma anche perché il problema non può essere affrontato senza il loro coinvolgimento e il loro consenso. Il traffico illegale di specie selvatiche può avere termine solo se i bracconieri hanno modi migliori per guadagnarsi da vivere e quando la richiesta per le loro prede termina. Finora i compratori cinesi sono stati lasciati al di fuori del discorso. Come puntualizza il Dr. Gray, “dobbiamo impiegare più cinesi nelle ong che si occupano di conservazione in Cambogia per poter adeguatamente intervenire sul mercato Cinese che senza dubbio prevale nel commercio di specie selvatiche”.
La connessione con il Coronavirus. Può esserci un’altra e ben più impellente ragione perché i compratori si fermino e prendano nota. Sembra che il traffico illegale di specie selvatiche abbia ora innescato una importante crisi sanitaria internazionale. Per anni gli esperti in malattie hanno messo in guardia che il crescente contatto tra esseri umani, bestiame e specie selvatiche rischia di esporci a milioni di batteri e virus sconosciuti contro i quali il nostro sistema immunitario è del tutto impreparato. Quando questi si spostano dalle specie selvatiche al corpo umano, possono mutare in “malattie da zoonosi” potenzialmente letali, come l’ebola e la Sars. In Cina, i pangolini catturati in natura sono spesso venduti vivi in mercati all’aperto – incluso l’ormai famoso mercato di Wuhan, che si crede sia stato l’origine dell’epidemia di Coronavirus che ha ucciso finora quasi 3mila persone. Malgrado siano spacciati per prodotti medicinali, le ultime ricerche mostrano che questi pangolini sono probabilmente i portatori del virus che hanno fatto da tramite tra i pipistrelli e gli uomini, portando alla chiusura totale di una delle più importanti città industriali della Cina e più di 30mila casi di infezione nel resto della Cina ed oltre. Chiaramente, trasportare specie selvatiche in posti dove non dovrebbero trovarsi, potrebbe avere conseguenze disastrose, come anche far capire ai compratori che proprio loro possono avere un impatto molto maggiore nel porre termine a questo commercio rispetto ad una manciata di condanne. Come dice Kanitha Krishnasamy: “Non è solo per i commercianti in giro: è ora che i consumatori comincino ad essere parte della soluzione e non il problema”.
Traduzione a cura di Marina Modafferi.
Cina, mercati popolari nel mirino: qui si originano i virus mortali. Federico Giuliani su Inside Over il 24 gennaio 2020. Per quale motivo tutti i virus più pericolosi e contagiosi degli ultimi anni sono arrivati dall’Asia e, in modo particolare, dalla Cina? La risposta, come sottolinea un dossier del quotidiano La Repubblica, è una: in questo continente si sono mantenute ancora oggi pratiche sociali tradizionali. Può sembrare assurdo, ma un Paese ultra avanzato come la Cina, che può contare su treni velocissimi, tecnologie che sembrano provenire dal futuro, il 5g e altre diavolerie simili, sia rimasto ancorato a uno stile di vita diametralmente opposto rispetto alla modernità che vorrebbe incarnare. Eppure è proprio così. Gli effetti della globalizzazione, tra cui i numerosi collegamenti aerei e le interconnessioni con il resto del mondo, hanno fatto il resto agevolando la diffusione dell’epidemia. Quando parliamo di pratiche sociali tradizionali, è importante chiarirlo, ci riferiamo in prima battuta alla scelta di mangiare certe specie di animali, quindi alle modalità attraverso le quali si vendono questi particolari alimenti.
I mercati popolari e l’assenza di igiene. In Cina sono molto diffusi i cosiddetti mercati popolari, luoghi dove nella maggior parte dei casi mancano le più basilari norme igienico sanitarie. L’epidemia del nuovo coronavirus è partita proprio da uno di questi luoghi, nel centro della città di Wuhan, una megalopoli di circa 11 milioni di abitanti. In breve tempo, la misteriosa malattia polmonare, partita per la precisione da un mercato del pesce in cui si vendevano anche animali vivi di ogni tipo, ha superato i confini della provincia dello Hebei e ben presto anche quelli nazionali. C’è un dato interessante che vale la pena prendere in considerazione: sette malattie infettive su dieci di quelle che colpiscono gli uomini nascono dagli animali. Le modalità del contagio sono tuttavia ancora avvolte nel mistero. Come fa notare il quotidiano Libero, il fatto di trovarsi in un mercato tradizionale asiatico, a contatto con specie off limits e in condizioni igieniche a dir poco precarie, aumenta vertiginosamente le possibilità di contagio. Il motivo? Facile: gli animali vengono macellati vivi sul posto. Come se non bastasse, i loro liquidi scivolano a terra e vengono calpestati dagli altri animali ancora vivi, anch’essi in procinto di essere venduti. Non aiuta neppure l’usanza di offrire il sangue dal collo dell’animale appena ucciso ai clienti.
Mutazioni e trasmissioni. A cavallo tra il 2002 e il 2003, il virus della Sars era nato proprio in uno di questi mercati, nel Guandong. In breve tempo la Severe acute respiratory syndrome era riuscita a uccidere centinaia di persone e infettato migliaia di cinesi. L’origine? Una specie rara di animali venduta tra le bancarelle e considerata un “piatto prelibato”. Per quanto riguarda il coronavirus, al momento circolano due ipotesi. La prima è che l’epidemia possa aver avuto origine nei pipistrelli, la seconda – la versione più accreditata – parla invece di serpenti. Unendo i pezzi del puzzle, le autorità cinesi ritengono che il virus 2019-nCoV, dopo una mutazione, possa essere arrivato dall’uomo dai serpenti, infettati a loro volta dai pipistrelli. In ogni caso è impensabile che uno Stato come la Cina, che punta a un futuro ricco e prospero, debba ancora fare i conti con epidemie del genere.
Ismael Arana per “la Vanguardia”, pubblicato da “la Stampa” il 5 febbraio 2020. Senza tentennare, con un gesto sicuro e rodato da anni di esperienza, la signora Chow Hon Ling ha bisogno di pochi secondi per estrarre un pollo da una delle gabbie che occupano il suo banco nel mercato di Kowloon. Gli strepiti di protesta non durano molto. Con una mano afferra zampe e testa, con l' altra mano brandisce un coltello affilato: un taglio netto e il pollo viene decapitato all' istante. Dopo aver sanguinato tra i rantoli nel secchio di plastica rosso, l' uccello finisce in una pentola d' acqua bollente e poco dopo, già spennato, può essere pulito e messo in vendita. «Il 90 per cento dei nostri clienti preferisce la carne fresca. È più sana e più saporita, ne stia certo», racconta la donna, che ha trascorso ormai metà della sua esistenza commerciando polli da allevamento nel «mercato umido» più grande di Hong Kong. «Comprane un po', fa bene al bambino» , dice con gentilezza a una ragazza chiaramente incinta che osserva il banco con curiosità. Nella cultura culinaria del gigante asiatico, la carne fresca, fino a poco fa un lusso per gran parte delle famiglie, è una delle materie prime più ambite. Per questo, in un mercato dove non si vedono molti visi giovanili, si trovano pesci e frutti di mare vivi dentro le taniche d' acqua, carne di maiale appena arrivata dal mattatoio, ceste di rane e tartarughe che saranno presto sacrificate per condire una zuppa o finire nel wok. Gli affari a rischio In ogni caso, l' armamentario culinario di questo mercato di Hong Kong impallidisce davanti alla «gastronomia zoologica» dell' altro lato della frontiera che separa il territorio semi autonomo dalla Cina continentale. Lì, tra grattacieli e imprese tecnologiche di ultima generazione, i mercati contano una varietà di animali da fare invidia all' arca di Noè, ma in condizioni igieniche peggiori a quelle dell' Antico testamento. È il caso del mercato di Huanan nella città di Wuhan, epicentro del Coronavirus. Nella parte ovest del complesso si vendevano, vivi o a pezzi, piccoli coccodrilli, porcospini, cani, topi di bambù, cuccioli di lupo, struzzi, papere, civette, carne di cammello, marmotte, conigli, serpenti, pavoni reali o un cervo. «Era famoso per i suoi animali vivi e rari - racconta James, un professore di inglese che ha vissuto per 5 anni nei dintorni del mercato - e quindi nessuno si è stupito quando si è sparsa la voce che il virus arrivava da qualche strano animale».
Le specie pericolose. Dal 1 gennaio, dopo che qualche venditore ha cominciato a mostrare i sintomi della nuova strana malattia ai polmoni, il mercato è chiuso e presidiato dalla polizia. E per i suoi vicoletti circolano soltanto ricercatori infagottati in tute bianche che cercano di capire come sia nato il «germe», un compito reso complicato dalla disinfestazione ordinata in fretta e furia. Uno studio preliminare aveva teorizzato che fossero stati i serpenti a trasmettere il coronavirus. Ma gli specialisti hanno poi smentito: l'ipotesi più probabile è che provenga da un mammifero, forse un marsupiale, incubatori naturali di molti virus. In questi spazi ristretti, nei quali non è facile identificare la provenienza degli esemplari, a volte si mischiano le secrezioni di animali vivi con il sangue e i resti di quelli morti, condizione ideale per la nascita di virus sconosciuti. Dai tempi della Sars le condizioni sanitarie nei «mercati umidi» sono migliorate: si è stabilito un sistema di licenze e nelle grandi città come Shanghai e Pechino è stata proibita la vendita di uccelli «de corral».
Le prescrizioni violate. Nel 2014 è stata approvata una legge contro il commercio di animali in via di estinzione, che prevede il carcere per chi la viola. Ciò nonostante, parallelamente alla crescita economia, è aumentato anche l' appetito del consumatore per i prodotti a base di animali selvatici, sia per alimenti sia per la medicina tradizionale. A volte, il consumo delle bestie più esotiche serve per ostentare il raggiungimento di una posizione sociale alta. In altre occasioni, a influire sono le presunte proprietà curative che si attribuiscono agli animali: migliorare la circolazione, allungare la vita o per rafforzare il vigore sessuale. Non aiuta poi il fatto che le ispezioni sanitarie non sempre siano rigorose e che alcuni ristoranti diventino di successo a spese della sopravvivenza di animali in via di estinzione. In questi giorni il governo cinese ha annunciato la proibizione temporale del trasporto e della vendita di specie selvatiche, vive o morte, in mercati, supermercati, ristorante e via internet. Inoltre, gli allevamenti di questi animali sono finiti in quarantena, si sono rafforzate le ispezioni e le sanzioni per chi non rispetta le regole. Le organizzazioni ambientaliste chiedono che il divieto diventi permanente e si estenda agli altri Paesi, per salvaguardare le specie ed evitare future pandemie. Altri però credono che il punto decisivo non sia cambiare le abitudini alimentari, quanto quelle igieniche, visto che per ogni nuovo divieto sorge un mercato nero, molto più complicato da controllare. «L' esistenza di mercati come quello di Huanan è dovuta a una domanda reale da parte dei consumatori - spiega a Bloomberg Liu Yuanfei, cliente abituale di quei banchi - Se chiudiamo questo posto ne aprirà subito un altro».
"Il virus non è partito dal mercato": gli scienziati cambiano tutto. La rivista scientifica ha pubblicato uno studio di un team cinese. Nel Paese cresce il bilancio di morti e contagiati. In Vietnam primo caso non importato. Gabriele Laganà, Lunedì 27/01/2020, su Il Giornale. Cresce la paura in tutto il mondo per l’epidemia di polmonite provocata dal coronavirus. Secondo l’ultimo bollettino emesso alla Commissione nazionale per la Sanità cinese le vittime sono salite a 80 e 2744 sono i casi di contagio. Per tentare di arginare la diffusione del coronavirus, Pechino ha deciso di prorogare le festività per il Capodanno di tre giorni fino al 2 febbraio, così da limitare gli spostamenti della popolazione. Inizialmente i cittadini del Paese asiatico sarebbero dovuti tornare a lavorare venerdì 31 gennaio, dopo sette giorni festivi che si traducono in centinaia di milioni di viaggi in tutta la Cina. "Questa misura è stata presa per ridurre gli assembramenti e fermare la diffusione dell'epidemia", ha detto il governo cinese in un comunicato. Di certezze sull’epidemia ve ne sono pochissime. Anche il luogo dove è iniziata la diffusione del coronavirus potrebbe essere diverso dal mercato del pesce di Wuhan, nella provincia di Hubei, finora indicato. Il dubbio è stato espresso un gruppo di scienziati cinesi che hanno condotto una ricerca i cui risultati sono stati pubblicati sulla rivista scientifica The Lancet e poi ripresi dal sito di Science. L'articolo, infatti, fornisce dettagli sui primi 41 pazienti per i quali si è reso necessario il ricovero in ospedale e che avevano riportato sintomi confermati e riconducibili al coronavirus 2019-nCoV. Il primo caso è stato registrato l’1 dicembre e non ha evidenziato alcun collegamento con il mercato del pesce. "Nessun legame epidemiologico è stato trovato tra il primo paziente e casi successivi", hanno affermato gli scienziati. Dai dati è anche emerso che, in totale, 13 dei 41 casi non avevano alcun collegamento con il mercato di Wuhan. "Tredici casi senza un collegamento sono un gran numero", ha dichiarato Daniel Lucey, uno specialista in malattie infettive presso l'Università di Georgetown. Ad accrescere la paura per la diffusione del coronavirus vi è il primo caso registrato in Vietnam di una persona contagiata senza essere stata in Cina. Non un'infezione importata ma un caso di trasmissione da uomo a uomo all'interno di una famiglia. A riferirlo è l'Organizzazione mondiale della sanità (Oms) nei report degli ultimi due giorni. Dalle indagini condotte è emerso che "il paziente non aveva precedenti di viaggio nel gigante asiatico, ma era in contatto con una persona con infezione da nuovo coronavirus confermata". Si tratta del "padre, il quale era rientrato da Wuhan", la città epicentro dell'epidemia. Intanto, il ministro della Sanità della Cina, Ma Xiaowei, in una conferenza stampa ha affermato che la capacità di diffusione del coronavirus sembra diventare più forte e che non sono ancora chiari i rischi della sua mutazione. Il membro del governo ha affermato che il periodo di incubazione è tra 1 e 14 giorni ed è probabile che il numero di casi continui ad aumentare.
Andrea Centini per fanpage.it il 28 Gennaio 2020. Le prime foto del nuovo coronavirus emerso in Cina, 2019-nCoV, sono state pubblicate dal National Microbiology Data Center (NMDC), un ente dei Centri cinesi per il controllo delle malattie (China CDC). Si tratta di immagini catturate al microscopio elettronico, che mostrano l'aspetto del minuscolo patogeno all'interno di due distinti campioni. Come tutti i coronavirus, presenta una forma circolare circondata dalle cosiddette “spicole” o spike, strutture composte dalla glicoproteina che attraversa il pericapside o peplos, cioè l'involucro esterno del virus. A causa di ciò, visti dall'alto con un microscopio elettronico questi patogeni – cui fanno parte anche quelli del raffreddore, della SARS e della MERS – mostrano una forma simile a quella di una corona, dettaglio cui dipende il loro nome. Le immagini, come indicato, sono state ottenute da due distinti campioni. Il primo è stato prelevato da un paziente lo scorso 6 gennaio; da questo gli scienziati del NMDC hanno ottenuto due fotografie, delle quali una rappresenta lo zoom dell'altra. Il secondo è invece un campione ambientale, raccolto il 22 gennaio nella cittadina di Wuhan, nella provincia di Hubei. Proprio nel mercato del pesce della popolosa città industriale cinese, ora completamente isolata, si ritiene sia avvenuto il salto di specie da un animale (non ancora identificato) e l'uomo.
Nicla Panciera per “la Stampa”il 12 febbraio 2020. Da dove viene questo coronavirus? Covid-19 condivide il 90% del genoma con il virus che infetta i piccoli pipistrelli cinesi. Ora si cerca l' animale selvatico, ospite intermedio, in cui il coronavirus potrebbe essere mutato e diventato capace di aggredire l' uomo. Inizialmente si era pensato a due specie di serpenti. Secondo la South China Agricultural University di Guangzhou, si tratterebbe invece del pangolino, piccolo mammifero in via di estinzione. Ma non ci sono ancora conferme.
Com' è avvenuto il passaggio dall' animale all' uomo?
«Il salto di specie avviene perché una proteina del virus muta e viene riconosciuta da un recettore umano: ciò permette al virus di infettare la cellula di un tessuto e quindi generare una patologia», spiega Giorgio Palù, virologo dell' Università di Padova e presidente della Società europea di virologia.
Perché i passaggi animali-uomo sono in aumento?
A causa dell' azione antropica. «Disboscamento e deforestazione - dice Palù - hanno aumentato la vicinanza con le specie selvatiche. Si deve aggiungere il traffico degli animali e l' aumento dei vettori come zanzare e zecche, oltre che contatti intensi»: è ciò che è successo al mercato di Wuhan. Lì non c' è solo pesce, ma si trovano in vendita carcasse e animali vivi di ogni tipo, anche protetti, considerati prelibatezze culinarie e macellati sul posto.
Come si individuano le specie che ospitano e diffondono i virus?
«Le scienze veterinarie studiano le specie nelle quali generalmente circolano batteri e virus. Può però accadere, come in questo caso, che un virus sconosciuto si affacci sulla scena epidemiologica», dice Maria Rita Gismondo, responsabile della struttura di microbiologia, virologia e biomergenze dell' Ospedale Sacco di Milano. Tra le specie più pericolose per l' uomo, ci sono - aggiunge Palù - «i mammiferi».
Quanto è pericoloso questo virus?
«Il nuovo coronavirus si sta propagando a un tasso di riproducibilità pari a 2-2,5 - dice Gismondo -. Il morbillo, per esempio, è molto più contagioso, ma la propagazione di Covid-19 è facilitata da carenze igienico-sanitarie e dai contatti in situazioni di alta densità di persone».
Sono i virus i nostri nemici più pericolosi?
«I virus sono i microbi più diffusi sul Pianeta: esistono virus che infettano piante, animali, batteri, funghi, protozoi e i virus stessi - sottolinea Palù -. Nel nostro intestino ci sono decine di trilioni di batteri e 10 volte più virus che li infettano. E il 10% del nostro genoma è fatto di sequenze virali. Dei virus non ci libereremo mai».
Abbiamo già avuto altre epidemie, dalla Sars alla Mers e all'aviaria, senza dimenticare la suina ed Ebola: quanto è diversa questa emergenza? Non abbiamo i dati definitivi per stabilire la gravità dell' epidemia. Prevederne l' evoluzione - spiegano gli specialisti - è difficile, perché la situazione è in evoluzione. Questo, come altri virus, convive in molte specie animali, a volte pacificamente e a volte con improvvise «esplosioni» infettive e salti di specie, i cosiddetti «spillover». Zanzare, roditori, anatre, suini, cavalli, dromedari e scimmie: sono potenziali vettori di virus pericolosi. Mers-CoV, altro coronavirus responsabile della sindrome respiratoria mediorientale, è arrivato all' uomo dai cammelli, mentre la sindrome respiratoria acuta grave, dovuta al coronavirus Sars-CoV, è partita dai pipistrelli e arrivata a noi tramite lo zibetto delle palme. In alcuni casi il virus, oltre a contagiare l' animale, lo fa anche ammalare: succede con l' Hiv negli scimpanzé.
· Alla ricerca dell’untore zero.
“Wuhan-Gates”: l’interessante libro-inchiesta sulle origini del Covid-19 firmato da un giornalista italiano. Cristiano Puglisi il 21 dicembre su Il Giornale. Quali sono le origini del Covid-19? Al netto delle speculazioni più o meno fantasiose la verità è che, a questa domanda, una vera risposta ancora non c’è. Uno solo è il punto fermo: il laboratorio di Wuhan. Che sia nato tutto da lì? Per provare a rispondere a questo quesito, forse, può essere utile procurarsi quella che si può ritenere la più completa opera di inchiesta sulle possibili origini del virus edita in Italia. Si tratta del saggio, di recente pubblicazione, intitolato “Wuhan – Gates”, di Fabio Giuseppe Carisio. Procurarselo non è semplicissimo (le prime copie del volume sono disponibili in vendita per ora solo online o in pochi esercizi commerciali del Piemonte), ma è un lavoro che vale davvero la pena di essere letto. Classe 1967, Carisio ha alle spalle una lunga carriera nel giornalismo investigativo (una sua inchiesta sulla strage in cui fu ucciso l’ex segretario ONU Dag Hammarskjold è stata pubblicata in tre lingue sul sito ufficiale dell’associazione UNA Westminster, partner ufficiale delle Nazioni Unite) e, nel luglio 2018, ha fondato il web media Gospa News, una testata che lui stesso definisce di “informazione cristiana”. Questo perché il suo amore per le inchieste giornalistiche è pari solamente… alla sua fede. “Gospa News – spiega infatti – è nata nel mio cuore nel 2005 dopo un pellegrinaggio a Medjugorie dove appunto la Madonna è chiamata Gospa. Il progetto è diventato realtà nel luglio 2018. Mi sono affidato alla Madre celeste perché dopo circa trent’anni di cronaca giudiziaria ero ben consapevole che se avessi voluto scrivere tutta la verità, o almeno la miglior versione possibile di essa come insegnava il mitico Gianpaolo Pansa, avrei avuto bisogno di protezioni molto, molto in alto…”. Le sue inchieste sui cristiani perseguitati, sul terrorismo jihadista, sulla geopolitica militare, sui complotti d’intelligence e sui retroscena delle stragi storiche e contemporanee sono state in alcuni casi riprese da testate come Sputnik, Veterans Today e Reseau International. Il suo libro è la sintesi di 35 articoli pubblicati proprio su Gospa. “La verità – spiega Carisio a proposito del suo libro – l’ha già svelata il famoso virologo francese Luc Montagnier, vincitore del Nobel per la Medicina proprio per aver scoperto l’HIV di cui avrebbe individuato tracce nel SARS-Cov-2. A proposito del Covid-19 dichiarò, perentorio, che si trattava di un affare tra Cina e USA. Nei miei articoli sono stato in grado di approfondire le mie inchieste anche sui laboratori della North Carolina di Chapel Hill dove furono creati i supervirus chimera segnalati dal report del 2015 della rubrica Leonardo del TG3 che però attribuì la paternità delle ricerche al Wuhan Institute of Virology. Ciò avvenne per una clamorosa e sospetta ‘svista’ di Nature Medicine che il 5 novembre 2015 pubblicò la ricerca sui virus SARS ‘chimerici’, ovvero costruiti in laboratorio con finalità ‘dual use’ (sia vaccino che bioarma) e potenziati con GoF (Guadagno di funzione), citando i ricercatori cinesi ma si dimenticò di menzionare tra i partner gli americani…”. E, in effetti, alcune ricerche del laboratorio di Wuhan proprio sui coronavirus furono finanziate con fondi dell’USAID. “Dietro – sostiene Carisio relativamente al laboratorio cinese – ci sono quasi tutte le nazioni più potenti del pianeta. Ecco perché non emergono certezze né sugli esperimenti del passato né sulle caratteristiche filogenetiche del virus della pandemia. Nelle mie investigazioni basate sulle pubblicazioni scientifiche ho individuato esperimenti sul virus SARS del 2003 o MERS del 2012 infettati con l’HIV finanziati dalla Commissione Europea di Romano Prodi, erogatrice del primo contributo a Wuhan nel 2004 con il progetto EPISARS, poi da USAID insieme al NIAID diretto da Anthony Fauci e alla Bill & Melinda Gates Foundation. L’agenzia governativa USAID, soprattutto durante l’amministrazione Obama, è divenuta lo strumento finanziario della Central Intelligence Agency sovente utilizzato nei tentativi di regime-change internazionali come in Siria e Venezuela”. “É solo un caso – prosegue l’autore sollevando inquietanti quesiti – che gli esperimenti sui super-virus tra Wuhan e Chapel Hill entrarono nel vivo nel 2014 quando vice direttrice della CIA divenne l’avvocatessa democratica Avril Haines, esperta di bio-armi e protagonista dell’esercitazione Event 201 che nell’ottobre 2019 a New York ha poi simulato una pandemia da coronavirus? É un’altra coincidenza che Haines, profetessa di una contagiosa infezione respiratoria globale in una conferenza a Camden nel 2018 in cui evidenziò la necessità di un nuovo "Ordine Mondiale" per contrastarla, è candidata a divenire Direttore Nazionale dell’Intelligence americana dal presidente-eletto Biden?”. Come già illustrato su questo blog, diversi osservatori pongono il virus, e soprattutto le misure di contenimento messe in atto per arrestarne l’avanzata, in correlazione con il piano, presentato dal WEF di Davos, denominato “Great Reset”. “Non amo le parole e i concetti difficili – dice Carisio – perché siamo in un mondo in cui anche nell’evoluto occidente il 70 % delle persone ancora non sa cosa sia il deep state, il potentato finanziario-politico-militare citato persino in inchieste ufficiali come quella parlamentare sul Delitto Moro, e tantomeno il Nuovo Ordine Mondiale di cui parlava già il commodoro della marina canadese William Guy Carr nel suo libro "Pawns in the game (Pedine in gioco)" del 1956. Sono convinto che il Great Reset sia un’incombente minaccia che sta diventando realtà soprattutto per l’ignoranza di molti sprovveduti benpensanti e politici di opposizione compiacenti, ma preferisco chiamarla dittatura sanitaria, finanziaria, militare e cibernetica. Così anche gli adolescenti possono coglierne il pericolo attuale e non crederlo futuribile come se fosse la rivisitazione fantascientifica del profetico libro 1984 di George Orwell”. Nel frattempo si è scatenata la corsa al vaccino. Ve ne sono diversi, alcuni occidentali, alcuni cinesi, poi c’è il vaccino russo. La corsa alla cura ha assunto anche connotati geopolitici. Secondo Carisio “la connessione tra pericolose sperimentazioni sui virus e Big Pharma (è così comunemente definito il “cartello” delle multinazionali farmaceutiche occidentali, nda) è talmente stretta da diventare indecente. Sui vaccini è bene comunque non generalizzare per non scadere in posizioni etichettabili come no-vax. Si tratta di un argomento delicatissimo e vastissimo”. “Ma – promette Carisio annunciando il suo prossimo lavoro – sarà oggetto del prossimo libro WuhanGates – II”.
La caccia alle origini del coronavirus prosegue: un mosaico complesso. Federico Giuliani su Inside Over il 14 dicembre 2020. Se ricostruire come è avvenuto il salto di specie di un virus da un animale misterioso all’uomo è di per sé un’operazione complessa, immaginiamo quanto quella stessa missione possa risultare ancora più complicata nel caso in cui l’indagine dovesse partire a distanza di quasi un anno dal primo contagio ufficialmente registrato. L’impresa è pressoché impossibile. Eppure l’Organizzazione Mondiale della Sanità, finita più volte nell’occhio del ciclone per presunti insabbiamenti e lentezza nelle comunicazioni, soprattutto nelle prime fasi della pandemia, non si da per vinta. La caccia alle origini del Sars-CoV-2 va dunque avanti. Anzi: entra adesso in una delle fasi più delicate. La missione dell’Oms, assegnata a un team di ricerca formato da dieci esperti internazionali, farà affidamento anche al supporto degli scienziati cinesi in stanza a Wuhan, primo epicentro noto dell’emergenza sanitaria. Un supporto che arriverà “il prima possibile”. Il punto è che mentre le indagini sono ancora in corso, non si placano le accuse incrociate di Stati Uniti e Cina su presunte colpe alla base dello scoppio incontrollato della pandemia. Breve sintesi delle puntate precedenti: Washington ha puntato il dito contro Pechino, il quale, a sua volta, ha risposto che il virus potrebbe essere emerso altrove ed esser stato semplicemente rilevato a Wuhan per la prima volta.
Indagini e accuse. Come ha sottolineato nel corso di una lunga inchiesta il South China Morning Post, in una recente riunione delle Nazioni Unite, il segretario Usa per la Salute Alex Azar ha dichiarato che la questione chiave non è tanto capire dove è apparso il virus per la prima volta, quanto piuttosto scoprire se le informazioni sul virus “sono state condivise subito in modo tempestivo e trasparente”. Sottile ma ben visibile la staffilata alla Cina, accusata di non aver messo in campo una gestione cristallina sull’epidemia scoppiata a Wuhan. Certo è che a 12 mesi dalla scoperta del Covid-19 sono stati resi pubblici pochi dettagli, soprattutto per quanto concerne le indagini svolte dagli esperti cinesi in loco. In ogni caso l’Oms è stata emblematica: “La nostra posizione è chiara. Vogliamo conoscere l’origine del virus e faremo di tutto per trovare la verità. Non ci dovrà essere alcuna confusione su questo”. Come fare a ricostruire un mosaico enorme e del quale non si conosce l’inizio? Lo step numero uno dovrebbe coincidere con il rintracciamento del paziente zero. Facciamo un passo indietro. Lo scorso 31 dicembre le autorità di Wuhan lanciarono un allarme su una misteriosa polmonite. Una dozzina di pazienti, accomunati dal fatto di essere transitati per il mercato ittico di Huanan, nel cuore della megalopoli, furono i primi contagiati accertati. Anche se, sostengono alcuni, i primissimi positivi risalirebbero a metà novembre (se non prima). Il paziente zero potrebbe essere un anziano di 70 anni affetto da Alzheimer e che niente avrebbe a che fare con il mercato del pesce. “Viveva a quattro o cinque fermate dell’autobus dal mercato del pesce e, poiché era malato, praticamente non usciva£, hanno spiegato i sanitari di Wuhan. Oggi non sappiamo che fine abbia fatto quell’uomo né se si sia ripreso dopo il ricovero in ospedale avvenuto il 29 dicembre.
I nodi da sciogliere. Gli scienziati concordano su un fatto: il nuovo virus, come del resto il 70% dei patogeni scoperti negli ultimi 50 anni, proviene da un animale. Quale? Sul tavolo ci sono varie ipotesi. La più probabile: dal pipistrello. Non è da escludere che il virus possa essere entrato prima in un animale intermedio (pangolino o zibetto) da cui poi si sarebbe diffuso all’uomo. Quando, come e dove è avvenuta la zoonosi è ancora un mistero. Fino a questo momento non sono state avanzate prove concrete che possano collegare un animale infetto al mercato o ad altri luoghi. “Una cosa che deve essere chiara è che lo studio inizierà da Wuhan in Cina, da dove è arrivato il primo rapporto, e poi da lì, sulla base dei risultati, potremo andare ovunque”, ha detto Tedros Ghebreyesus, numero uno dell’Oms. Verrà effettuata un’analisi approfondita sulle cartelle cliniche dei primi pazienti sperando possano saltare fuori indizi interessanti. Molti esperti restano però scettici: gli scienziati cinesi, con ogni probabilità, potrebbero aver già raccolto tutte le informazioni necessarie. Difficile che il team internazionale possa trovare qualcosa di nuovo. L’unico indizio sulla provenienza del virus, al momento, coincide con una grotta situata nella provincia dello Yunnan. Nei meandri di questo luogo sperduto, nel 2013, i ricercatori hanno raccolto materiale genetico da un virus trovato in un pipistrello. In seguito quel materiale sarebbe stato simile al Sars-CoV-2 per il 96%. Si tratta del parente più vicino del Covid-19. Ma, in termini evolutivi, resta ancora distante. “Le persone si lamentano della lentezza che impiegano le ricerche per risalire all’origine del nuovo coronavirus. Sappiate che 17 anni dopo non abbiamo ancora trovato il virus progenitore della Sars“, hanno spiegato alcuni membri del team Oms. La missione è partita. Ma potrebbero volerci chissà quanti anni per risolvere il mistero sulle origini del Sars-CoV-2.
Fuga di batteri da un laboratorio farmaceutico cinese nascosta per un anno: 5000 infettati. Laura Ferrari venerdì 18 settembre 2020 su Il Secolo d'Italia. Quasi cinquemila persone sono risultate positive alla brucellosi, dopo una fuga di batteri da un’azienda biofarmaceutica cinese di Lanzhou, nel Nord ovest del Paese. Lo riferisce la Cnn. I fatti sono accaduti all’estate 2019, ma sono stati resi noti solo oggi. La Commissione Sanitaria di Lanzhou, capoluogo della provincia di Gansu, ha infatti confermato che 3.245 persone hanno contratto la malattia, spesso causata dal contatto con il bestiame portatore del batterio. Altre 1.401 persone hanno contratto la malattia, anche se non sono stati segnalati decessi. In totale, le autorità hanno testato 21.847 persone su 2,9 milioni di abitanti della città.
Che cos’è la brucellosi. La malattia, nota anche come febbre di Malta o febbre mediterranea, può causare sintomi tra cui mal di testa, dolori muscolari, febbre e affaticamento. Alcuni sintomi possono diventare cronici o non scomparire mai, come l’artrite o il rigonfiamento di alcuni organi. La trasmissione da uomo a uomo è estremamente rara, secondo il CDC. La maggior parte delle persone si infetta mangiando cibo contaminato o respirando i batteri. È proprio quello che sembra essere successo intorno all’impianto biofarmaceutico di Lanzhou. Da quanto è emerso, tra la fine di luglio e la fine di agosto dello scorso anno, il laboratorio Zhongmu Lanzhou ha utilizzato disinfettanti scaduti durante la produzione di vaccini contro la Brucellosi, consentendo ai batteri di entrare nei gas di scarico e infettare le persone nelle vicinanze.
Com’è avvenuta la fuga di batteri. Questo gas di scarico contaminato ha formato aerosol che contenevano i batteri e, fuoriuscito nell’aria, è stato trasportato dal vento fino all’Istituto di ricerca veterinaria di Lanzhou, dove l’epidemia ha colpito per la prima volta. Il personale dell’istituto ha iniziato a segnalare le infezioni a novembre e il processo ha subito un’accelerazione. Alla fine di dicembre, almeno 181 persone presso l’istituto avevano contratto la brucellosi, secondo l’agenzia di stampa statale cinese Xinhua. Altri pazienti infetti includevano studenti e docenti dell’Università di Lanzhou. La fuga di batteri ha fatto sì che l’epidemia si diffondesse anche nella provincia di Heilongjiang. All’estremità nord-orientale del Paese, dove ad agosto 13 casi positivi avevano lavorato nell’istituto veterinario.
L’indagine cinese partita in ritardo. Nei mesi successivi allo scoppio del focolaio, i funzionari provinciali e municipali hanno avviato un’indagine. A gennaio, le autorità avevano revocato le licenze di produzione di vaccini all’impianto e ritirato i numeri di approvazione del prodotto per i suoi due vaccini contro la brucellosi. A febbraio, la fabbrica ha rilasciato delle scuse pubbliche e ha affermato di aver “punito severamente” le otto persone ritenute responsabili dell’incidente.
La Cina controlla l’indagine Oms sull’origine del Covid-19. Paolo Mauri su Inside Over il 5 novembre 2020. La Cina tiene saldamente in pugno l’inchiesta dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) sull’origine di Covid19 e ha reiteratamente ostacolato gli sforzi della commissione di esperti internazionali incaricati di indagare sulle cause dello scoppio dell’epidemia. Queste accuse giungono da un’inchiesta del New York Times pubblicata lo scorso 2 novembre, che grazie a documenti interni all’Oms ha svelato i retroscena di una vicenda politica che ha avuto, e sta ancora avendo, pesantissime ripercussioni su scala globale. Il quotidiano newyorkese, per mezzo dei documenti acquisiti, non ha dubbi: l’indagine sull’origine del virus sta procedendo solo in superficie. Infatti risulta che Pechino abbia recentemente approvato un elenco di investigatori esterni, ma l’Organizzazione sanitaria ha convenuto che le parti chiave dell’indagine – ovvero quelle sui primi pazienti in Cina e sul ruolo del mercato di Wuhan nell’epidemia – saranno guidate da scienziati cinesi. Un’indagine sostanzialmente interna alla Cina quindi, col risultato che la squadra di esperti internazionali aumenterà, anziché raddoppiare con altri del tutto nuovi, gli studi già effettuati dai cinesi. In merito alla questione, l’Oms, anche se ha elogiato il governo cinese, ha rifiutato di rivelare i dettagli dell’accordo con Pechino e non ha condiviso alcun documento con gli altri Stati membri che delineano i termini delle indagini. Un favore alla Cina che ha sempre mal tollerato ingerenze esterne nei suoi affari, anche quando si tratta del nascere di epidemie che si diffondono su scala mondiale. Quando, infatti, la prima epidemia di Sars ha iniziato a diffondersi in Cina alla fine del 2002, i funzionari cinesi hanno nascosto l’epidemia per mesi, ma quando finalmente lo hanno ammesso davanti al diffondersi del contagio intorno al globo, hanno permesso a squadre internazionali di indagare sulla fonte animale. La questione dell’origine del virus rimane un passaggio critico molto importante che, se risolto, potrebbe aiutare a prevenire un’altra pandemia e aiutare gli scienziati a creare vaccini e cure. Questa volta, la ricerca di una fonte è stata avvolta nel segreto, grazie all’ostruzionismo e lavoro di “lavaggio” effettuato dalla Cina. La questione è diventata politica sin dai primi giorni del diffondersi della malattia che ha causato più di un milione di morti nel mondo: la Cina ha ottenuto concessioni dall’Oms che hanno aiutato il Paese a ritardare importanti ricerche e ha risparmiato al suo governo un’inchiesta potenzialmente imbarazzante sulla sua mancata risposta tempestiva all’epidemia. Non solo: i funzionari sanitari e diplomatici cinesi non hanno risposto alle ripetute richieste di interviste e hanno taciuto pubblicamente su quanto accaduto. “Questo fa parte della psiche cinese per dimostrare al mondo che fanno la scienza migliore”, ha detto Peter Daszak, presidente di EcoHealth Alliance, “ma in questo caso non ha funzionato. E penso che questo sia il motivo per cui non sappiamo molto di più”. Pechino ha fatto pressione sull’Oms sin dalle prime battute della diffusione dell’epidemia. Risulta infatti che già il 23 gennaio, l’ambasciatore cinese abbia chiarito che il suo Paese avrebbe considerato una dichiarazione di emergenza internazionale come un voto di sfiducia nei confronti della Cina. Inoltre sono stati presentati dati al comitato scientifico dell’Organizzazione che descrivevano una situazione sotto relativo controllo. Pertanto la metà del comitato, allora, disse che era troppo presto per dichiarare l’emergenza, ma si sbagliavano. Il Nyt riferisce che il sistema di sorveglianza cinese non era riuscito a individuare l’insorgere dell’epidemia; un fallimento che, secondo gli esperti, ha permesso l’accelerazione della sua diffusione. A quanto sembra, Pechino ha steso una densa coltre fumogena sull’origine del virus, sin dalle prime ore, quando la missione in Cina della squadra di investigazione dell’Oms, il 16 febbraio, non ha potuto effettuare indagini approfondite a Wuhan, epicentro del contagio, in quanto la città era “sigillata”, quindi i sei membri della commissione – tre cinesi e tre esperti internazionali – vi sono rimasti circa un giorno facendo visita a due ospedali, senza nemmeno poter vedere il famoso mercato, da dove si presumeva fosse partito il primo contatto “animale-uomo”. Del resto avrebbero comunque potuto trovare ben poco in quei giorni: risulta infatti che gli specialisti del Cdc cinese (il Center for Disease Control) abbiano effettuato già a dicembre una minuziosa pulizia del mercato di Wuhan eliminando qualsiasi possibile veicolo di contagio, ma così facendo anche eliminando le eventuali prove. Funzionari cinesi avevano infatti dichiarato a gennaio che l’epidemia era iniziata al mercato di Wuhan, tra cui il dottor Gao, del Cdc, che “a microfoni spenti” aveva dato la colpa alle vendite illegali di fauna selvatica, in particolare aveva accusato della possibilità che il virus si fosse trasmesso all’uomo da un ratto del bambù, mostrando fotografie di roditori morti scattate al mercato di Wuhan al virologo della Columbia University Ian Lipkin durante una cena a Pechino all’inizio di febbraio. Ipotesi, quella del mercato, poi abbandonata, ma sorge ora il dubbio che forse tale scelta sia stata dovuta proprio all’insabbiamento effettuato dai cinesi tramite la cancellazione delle prove. L’ostruzionismo della Cina verso le indagini dell’Oms sembra una costante: l’estate scorsa due esperti dell’Organizzazione che si sono recati in Cina, a luglio, per definire i termini delle indagini hanno trascorso due settimane in quarantena e hanno solo potuto intervistare gli esperti telefonicamente senza poter recarsi a Wuhan, ammesso che, anche se avessero potuto andarci, sarebbero mai stati in grado di poter raccogliere qualche informazione utile visto il clima di oscurantismo. La beffa, in questa vicenda, è rappresentata dal comportamento dei funzionari cinesi che hanno affermato che l’Oms dovrebbe iniziare a indagare in Europa, indicando che il virus era stato scoperto nei sistemi fognari europei lo scorso anno. Del resto Pechino ha più volte tentato di accusare altri Paesi sull’origine dell’epidemia: anche gli Stati Uniti sono stati chiamati in causa quando il 12 marzo il ministro degli Esteri cinese li ha accusati di aver portato in Cina il virus durante i giochi mondiali militari tenutisi a Wuhan a ottobre dell’anno scorso. Pechino tiene ancora saldamente in mano le redini dell’indagine Oms su Covid-19, del resto l’Organizzazione, per la sua stessa architettura, dipende molto da quei Paesi che la finanziano maggiormente. Sappiamo, come rivelato dal Times, che gli studi sull’origine dei virus dell’Organizzazione si svolgeranno in due fasi. Nella prima si cercheranno i primi pazienti esaminando le cartelle cliniche e intervistando le persone che sono state trattate per il virus a dicembre. La squadra di ricerca indagherà anche su quale fauna selvatica è stata venduta al mercato di Wuhan e seguirà la sua catena di approvvigionamento. L’Oms ha però convenuto che questa fase sarà guidata da scienziati cinesi, con gli stranieri che rivedranno il loro lavoro a distanza, senza quindi avere la possibilità di essere in loco e avere accesso diretto alle fonti: un lavoro di revisione molto difficile. Nella seconda fase gli esperti internazionali lavoreranno coi colleghi cinesi per trovare il virus tra gli ospiti animali e un possibile ospite intermedio. Insomma l’influenza politica cinese permea il lavoro dell’Oms, turbandolo in modo incisivo e alterandone i risultati, mettendo così in difficoltà non solo la comunità scientifica internazionale, ma generando anche ripercussioni sui sistemi sanitari e sulla politica. Motivo che ha scatenato la reazione decisa della Casa Bianca guidata da Donald Trump che scelse la via del taglio dei fondi nei confronti dell’Organizzazione con l’accusa di essere estremamente aderente alle logiche di Pechino.
Matteo Salvini, la denuncia: "L'Unione Europea finanzia l'istituto di virologia di Wuahn, da cui forse è partita la pandemia". Libero Quotidiano il 21 ottobre 2020. "L'Unione europea finanzia l'istituto di virologia di Wuhan, la città da cui è partito il Covid". La denuncia arriva da Matteo Salvini, che su Twitter rilancia il capodelegazione della Lega al Parlamento europeo, Marco Campomenosi. "Vogliamo sapere perché l’Ue ha finanziato e finanzia progetti di ricerca in Cina (all’istituto di Wuhan!), anche alla luce del danno enorme che subiamo dal commercio di medicinali contraffatti provenienti da quel Paese - ha scritto il segretario del Carroccio -. La Lega lo ha chiesto alla Commissione Europea con una interrogazione, domandando trasparenza e vigilanza". Campomenosi, insieme a Marco Zanni, presidente del gruppo Id, ha affermato che i finanziamenti europei sono stati ingenti. In particolare, "nel 2015 e nel 2019 la Commissione europea ha elargito rispettivamente 73.375 e 87.436 euro in favore dell'Istituto nell’ambito del programma di finanziamento per promuovere la ricerca Horizon 2020". "Inoltre un progetto per il controllo delle epidemie di virus, avviato il 1 gennaio 2020, starebbe finanziando l’Istituto con ulteriori 88.433,75 euro - continuano i due europarlamentari -. Il programma Horizon 2020 prevede che la Commissione Ue controlli i partecipanti al progetto fino a due anni dopo il pagamento. In questo momento, su argomenti così delicati, è necessaria e obbligatoria la massima trasparenza".
Fausto Biloslavo per “Il Giornale” il 24 ottobre 2020. L'Unione europea ha finanziato con oltre 700mila il famigerato Istituto di virologia cinese di Wuhan proprio per studiare e catalogare, in mega progetti Ue, virus come il Covid 19, la trasmissione dai pipistrelli agli esseri umani e possibili vaccini. Il risultato non è stato dei migliori: una pandemia flagella il mondo partita proprio dalla città di Wuhan. La beffa è che continuiamo a pagare il laboratorio sospetto con 88.433,75 grazie a progetto Eva Global partito nel gennaio 2020, quando il virus cinese era già arrivato in Italia. Gli europarlamentari della Lega hanno presentato un'interrogazione alla Commissione europea sull'utilizzo dei fondi dal 2015 e soprattutto sul controllo dei risultati. Il Giornale ha scoperto che si tratta della punta dell'iceberg: dal 2004 ad oggi Bruxelles ha finanziato il laboratorio di Wuhan con 701.196 . I fondi facevano parte di cinque progetti internazionali della Ue per un totale di oltre 28 milioni di euro. L'aspetto paradossale è che il primo (triennio 2004-2007) già sottolineava: «Gli studi sulla ricerca del serbatoio animale hanno identificato i pipistrelli come serbatoio di CoV simil-SARS». Il progetto Episars doveva proprio controllare «l'infezione animale e umana da coronavirus impedendo il riemergere della malattia nella popolazione umana». A capo del progetto l'Istituto Pasteur di Parigi oltre all'Istituto per le malattie infettive Spallanzani di Roma, oggi in prima linea nella lotta al Covid. Non è un caso che il premio Nobel per la medicina, Luc Montagnier, dell'Istituto Pasteur, sostenga che il Covid 19 sia stato manipolato in laboratorio. Nello stesso triennio Bruxelles aveva finanziato «una task force euro-cinese per lo sviluppo di strategie di intervento, tra cui vaccinazione, immunoterapia e antivirali per la protezione contro la Sars». Il progetto Dissect sosteneva, che i centri della «Cina hanno generato vaste raccolte di materiali biologici: virus, sieri, tessuti, dati clinici ed epidemiologici». Fino al 2007 l'Istituto di virologia di Wuhan ha incassato dalla Ue 327.187 di euro. Dal 2007 ne sono stati versati altri 155.000 per il progetto Rivers. I finanziamenti al laboratorio di Wuhan proseguono con 130.576 euro per il progetto Evag partito nel 2015. Questa volta si tratta di mettere in piedi «un archivio europeo globale per i virus». Il piano prevede pure «l'accesso a strutture di biosicurezza ad alto contenimento per effettuare studi di malattie infettive utilizzando ospiti naturali o modelli», come il laboratorio di Wuhan. Anche in questo progetto il partner italiano è l'Istituto Spallanzani. I risultati del progetto vengono presentati come «la più grande raccolta di virus al mondo diventata la chiave per combattere la pandemia di Covid19». Per il momento non ci ha ancora salvato, ma anche i nuovi fondi Horizon per il periodo 2020-2023 finanziano l'Istituto di Wuhan con 88.433,75 euro. Al progetto partecipa pure il Consiglio nazionale delle ricerche. L'obiettivo è creare «la rete più reattiva» al mondo «per migliorare il controllo delle epidemie di virus emergenti o riemergenti a livello globale». Dal 2004 la Commissione europea ha finanziato non solo il laboratorio di Wuhan, ma altri 10 centri specializzati cinesi per progetti che dovevano fermare il virus. «Il programma Horizon della Ue ha un bilancio 2020 di 77 miliardi di euro» spiega Sergio Bianchi, direttore della fondazione Agenfor international. «E' sconfortante notare come a fronte di tale sforzo finanziario, il risultato reale sia molto modesto, come nel caso dei fondi all'Istituto di virologia di Wuhan - spiega l'esperto di progetti Ue - Non si è saputo affrontare per tempo le grandi criticità, come le epidemie, dimostrando una carenza seria nell'analisi dei bisogni».
Perché il virus non può esser stato creato in laboratorio. Federico Giuliani su Inside Over il 24 ottobre 2020. Aveva annunciato l’imminente pubblicazione di un nuovo paper ricco di prove inconfutabili per dimostrare al mondo intero la vera origine del Sars-CoV-2. Una presunta origine sintetica, ricollegabile al famigerato laboratorio di Wuhan, da dove il virus sarebbe fuoriuscito in seguito a circostanze ancora da chiarire. La dottoressa Li Meng Yan, virologa cinese fuggita in America dopo – sostiene lei – essere stata azzittita dai suoi superiori, è invece sparita dalla circolazione. A dire il vero il suo primo studio, quello che già avrebbe dovuto squarciare il velo di omertà sul coronavirus, non ha raccolto un feedback positivo da parte della comunità scientifica. Anzi: fin da subito c’è chi aveva sottolineato come la credibilità di questa virologa derivasse soltanto dalla sua storia di rifugiata politica e non da una prestigiosa carriera accademica. Anche perché il nome di Li Meng Yan sarebbe rimasto sconosciuto fino al luglio 2020. E sarebbe salito agli onori delle cronache soltanto dopo essere stato rilanciato dal podcast di Steve Bannon, l’ex stratega di Donald Trump. La Hong Kong School of Public Health, l’università nella quale la donna ha dichiarato di lavorare, aveva invece definito la storia personale della dottoressa falsa e infondata. Eppure, al netto della freddezza generale, le rivelazioni di Miss Li avevano riscosso un certo successo in giro per il mondo, proponendo la narrazione di una paladina della verità fuggita dalle grinfie del Partito Comunista cinese per rivelare al mondo l’inconfessabile segreto sull’origine sintetica del coronavirus.
Un report falso? A stroncare questa narrazione ci ha pensato la Cnn che, nel corso di un lungo approfondimento – nel quale sono stati tirati in ballo esperti e scienziati di fama mondiale – ha definito “scadenti” e “sostenute da Bannon” le ricerche diffuse dalla dottoressa sul Sars-CoV-2. Le rivelazioni della donna non avrebbero dunque niente a che fare con la scienza ma, al contrario, risponderebbero a complessi interessi geopolitici. Cerchiamo, per quello che è possibile, di fare un po’ chiarezza. Il Johns Hopkins Center for Health Security – una delle voci più autorevoli sulla pandemia – ha criticato il rapporto sottolineando che Yan e i suoi coautori hanno citato molteplici articoli “che presentano punti deboli o difetti”. Ma non è finita qui, perché una revisione della Cnn sulla ricerca di Miss Li ha svelato che il lavoro della donna sarebbe stato costruito su quelle che sembrano essere le stesse teorie – con tanto di passaggi simili e grafici identici – presentate mesi prima da un blogger anonimo i cui scritti erano stati pubblicati su G News, un sito web collegato a Bannon. Una fonte ha poi rivelato alla Cnn che i tre coautori del documento – Shu Kang, Jie Guan e Shanchang Hu – hanno usato pseudonimi al posto dei loro veri nomi. Una pratica, questa, disapprovata nel lavoro scientifico e accademico. “Sono tutti cinesi ma hanno sede qui negli Stati Uniti. Non volevano i loro veri nomi là fuori per paura delle loro famiglie in Cina”, ha rivelato la stessa fonte.
La “stroncatura” del Johns Hopkins Center. Dal momento che i documenti di Miss Li stavano ottenendo sempre più credito, soprattutto sui social network, gli esperti del Johns Hopkins hanno pensato bene di confutare, punto per punto, gli studi della dottoressa. “Da un lato non vogliamo dare credito a così tanta spazzatura. D’altra parte, poiché viene presa sul serio, è importante sottolineare che questa non è scienza”, ha dichiarato Gigi Kwik Gronvall, un immunologo dell’istituto. Ad esempio, una nota a piè di pagina presente nella ricerca di Li rimanda al saggio di un imprenditore rifiutato da una rivista scientifica e pubblicato su Linkedin. Billy Zhang, il nome dell’imprenditore, ha detto alla Cnn di essere rimasto sorpreso. Un’altra nota è attribuita a un articolo scritto da un autore per un sito web di alimenti anti-geneticamente modificati, mentre una terza nota si riferisce a un autore che sostiene di gestire una società che sembrerebbe non esistere. Angela Rasmussen, virologa della Columbia University, sostiene che il rapporto di Yan si prefigga di ingannare allo scopo di diffondere “propaganda politica“. “Questo articolo è molto ingannevole per qualcuno senza un background scientifico, perché utilizza un linguaggio molto tecnico che lo fa sembrare un documento scientifico legittimo”, ha spiegato alla Cnn. “Ma chiunque abbia una formazione reale in virologia o biologia molecolare che legga questo articolo si renderà conto che in gran parte è una sciocchezza”, ha concluso. Adesso non resta che attendere l’eventuale replica della diretta interessata: Miss Li Meng Yan.
Coronavirus, il professor Innocenzi: "Nel laboratorio di Wuhan studiavano quale virus dei pipistrelli fosse il più idoneo a infettare l'uomo". Libero Quotidiano il 15 ottobre 2020. Plinio Innocenzi, professore ordinario – Università di Sassari e già Addetto Scientifico presso l’Ambasciata d’Italia a Pechino, ha raccontato a Businessinsider.com di aver visitato il più importante centro di virologia della Cina e un laboratorio di massima sicurezza biologica (BSL-4, Bio Safety Laboratory) di Wuhan. "È un laboratorio segreto, dove si svolgono esperimenti per la guerra batteriologica sotto il controllo dei militari. Il SARS-CoV-2 sarebbe il risultato di una manipolazione genetica andata fuori controllo e uscita dal laboratorio. Queste speculazioni si basano su notizie indirette e probabilmente diffuse artatamente per alimentare la propaganda a favore di interessi di parte", afferma il professore che ne spiega i motivi. "Posso testimoniare che non si tratta né di un laboratorio segreto, visto tra l’altro che è notissimo e ampiamente inserito in una rete di collaborazioni scientifiche internazionali, né di un laboratorio militare. Si tratta di un laboratorio di ricerca dedicato allo studio dei virus costruito con tecnologie francesi in un’area potenzialmente a rischio per lo scoppio di epidemie virali. Il laboratorio è dotato delle tecnologie più avanzate in grado di rispettare i massimi standard di sicurezza", racconta Innocenzi. Innocenzi racconta il lavoro degli esperti cinesi: "I virologi, in collaborazione con altri scienziati, cercavano esattamente di studiare i virus presenti nei pipistrelli e individuare tra questi quali fossero potenzialmente più ‘idonei’ a infettare l’uomo". Pur smentendo ogni ipotesi complottistica viene da chiedersi e se quei pipistrelli infetti fossero scappati? Qualche dubbio sulla competenza di quei virologi e sulle loro tecniche lavorative nasce spontaneo.
Plinio Innocenzi, Professore ordinario – Università di Sassari – già Addetto Scientifico presso l’Ambasciata d’Italia a Pechino. su it.businessinsider.com il 15 ottobre 2020. L’esplosione della pandemia di Covid-19 ha profondamente modificato le relazioni geopolitiche tra Stati che nell’era della globalizzazione avevano trovato un equilibrio dettato da interessi economici e commerciali che apparivano inestricabilmente intrecciati, ancorché in conflitto fra loro. Gli Stati Uniti di Trump hanno presto accusato la Cina di non aver fatto abbastanza per evitare la diffusione del virus e soprattutto di mancanza di trasparenza nella comunicazione. In breve tempo, la coincidenza che nell’epicentro dell’epidemia ci fosse il più importante centro di virologia della Cina e un laboratorio di massima sicurezza biologica (BSL-4, Bio Safety Laboratory) ha generato dapprima qualche perplessità e poi ha alimentato molte teorie complottiste. Il BSL-4 di Wuhan sarebbe un laboratorio segreto, dove si svolgono esperimenti per la guerra batteriologica sotto il controllo dei militari. Il SARS-CoV-2 sarebbe il risultato di una manipolazione genetica andata fuori controllo e uscita dal laboratorio. Queste speculazioni si basano su notizie indirette e probabilmente diffuse artatamente per alimentare la propaganda a favore di interessi di parte. Ho visitato personalmente il laboratorio di Wuhan durante il mio servizio in Cina presso l’Ambasciata d’Italia a Pechino in qualità di Addetto Scientifico. Sono forse l’unico italiano ad averlo visitato e posso testimoniare che non si tratta né di un laboratorio segreto, visto tra l’altro che è notissimo e ampiamente inserito in una rete di collaborazioni scientifiche internazionali, né di un laboratorio militare. Si tratta di un laboratorio di ricerca dedicato allo studio dei virus costruito con tecnologie francesi in un’area potenzialmente a rischio per lo scoppio di epidemie virali. Il laboratorio è dotato delle tecnologie più avanzate in grado di rispettare i massimi standard di sicurezza. Eppure in breve tempo le teorie complottiste hanno avuto facile presa e a distanza di mesi dallo scoppio dell’epidemia continuano a riapparire con regolarità. Ognuna di queste nuove fiammate è alimentata da “rivelazioni” e “materiale inedito” che poi alla prova dei fatti, almeno sino ad ora, si sono rivelate niente più che bufale o ipotesi prive di riscontro. Nonostante le teorie cospirazioniste non reggano alla verifica scientifica, vengono riproposte con regolarità, alimentando ansia e incertezza magari con lo scopo di “vendere” una notizia che ha facile presa sulla fantasia del pubblico. Paradossalmente l’idea che il virus SARS-CoV-2 sia fuoriuscito da un laboratorio è più rassicurante rispetto all’ipotesi di un’origine naturale. Il virologo statunitense Peter Daszak, che ha collaborato con l’Istituto di virologia di Wuhan per oltre quindici anni, ha detto in una recente intervista su Nature che: “Stimiamo che ogni giorno qualcuno in Cina o nel sud-est asiatico venga infettato da un nuovo coronavirus da pipistrello. In questo momento, qualcuno sta camminando e potrebbe sviluppare i primi segni di tosse dal prossimo Covid”. Se il virus fosse stato generato in laboratorio non dovremmo convivere con questo pericolo incombente, basterebbe tenere sotto controllo i dottor Stranamore che vi lavorano. La storia anche recente delle epidemie virali ci ha mostrato invece quanto sia relativamente facile un salto di specie da pipistrelli in grado poi di generare una pandemia. Questo può avvenire nelle aree come il Sud della Cina dove vi è un’ampia diffusione dei pipistrelli della frutta, veri e propri serbatoi di virus, e uno stretto contatto con animali e uomini. I virologi cinesi di Wuhan, in collaborazione con altri scienziati, cercavano esattamente di studiare i virus presenti nei pipistrelli e individuare tra questi quali fossero potenzialmente più "idonei" a infettare l’uomo. Secondo alcune delle teorie sul laboratorio di Wuhan uno di questi virus, trovato in una caverna rifugio di pipistrelli nella regione dello Yunnan nel 2013, sarebbe all’origine dell’infezione. Dopo essere stato manipolato, per motivi difficili da comprendere se non quello di farne un’arma batteriologica, sarebbe fuggito per errore dal laboratorio. Peccato che nessun membro del laboratorio sembra essere risultato infetto. Inoltre per passare dal virus isolato nella caverna al SARS-CoV-2, dove è stata osservata una corrispondenza del genoma pari al 96,2%, sarebbero necessarie ben 1.100 mutazioni: un po’ complicato, se non impossibile, da realizzare in laboratorio. Creare 1.100 mutazioni in laboratorio senza lasciare traccia nel genoma è possibile, ma solo in linea di principio. A marzo è stato pubblicato su Nature uno studio eseguito sul SARS-CoV-2 proprio per verificare se fosse il possibile risultato di una manipolazione. Il verdetto scientifico è stato: “altamente improbabile”. A questo è seguita la pubblicazione su Lancet, una delle più prestigiose riviste di medicina, di una lettera firmata da 27 scienziati di supporto ai colleghi cinesi in cui si respingeva la disinformazione con la quale viene riportata l’origine del virus riferendola al laboratorio di Wuhan. A parte i complottisti di mestiere, l’ipotesi che il virus sia scappato dal laboratorio cinese è stata cavalcata prontamente dagli Stati Uniti. La promessa di fornire evidenze schiaccianti al riguardo ha tristemente ricordato le famose “prove” sulle armi di distruzione di massa. Alle accuse la Cina non ha tuttavia esitato a rispondere specularmente, accusando Washington di aver portato il virus in Cina durante una manifestazione sportiva alla quale avevano partecipato elementi dell’esercito americano. Anche l’Italia è stata poi accusata di essere all’origine del virus, e ciò in ragione del fatto che il direttore dell’Istituto Mario Negri di Milano aveva affermato che erano state riscontrate alcune polmoniti anomale già nel mese di novembre 2019. Questo era bastato alla stampa cinese per diffondere l’ipotesi che il virus avesse un’origine italiana. In questi mesi abbiamo assistito ad un gioco di specchi in cui ciascuna parte ha voluto vedere riflessa nell’altra le proprie inadempienze. La pandemia ha messo a nudo un mondo molto più diviso e racchiuso all’interno dei confini nazionali di quanto la supposta globalizzazione avrebbe fatto pensare.
«Covid creato in laboratorio: ecco come. Un vaccino efficace? Solo la Cina può farlo». Il libro di Joseph Tritto “La chimera che ha cambiato il mondo” in sintonia con le sconvolgenti denunce della virologa cinese dissidente Li-Meng Yan. Federico Cenci su Il Quotidiano del Sud il 6 ottobre 2020. Nelle scorse settimane il mondo è stato scosso dalle rivelazioni della scienziata cinese Li-Meng Yan, la quale ha affermato che il Covid sarebbe stato creato in laboratorio. L’origine artificiale del virus è anche la tesi del libro pubblicato in agosto “Cina Covid 19 – La chimera che ha cambiato il mondo” (Cantagalli), scritto dal professor Joseph Tritto, microchirurgo italo-americano nato ad Altamura. Esperto di biotecnologie e nanonotecnologie, presidente della Wabt (World academy of biomedical sciences and technologies), importante accademia fondata sotto l’egida dell’Unesco, Tritto ha rilasciato un’intervista al Quotidiano del Sud.
La comunità scientifica esclude che il Covid sia nato in laboratorio. Cosa le fa pensare il contrario?
«Se avesse un’origine naturale, sarebbe la prima volta che un virus chimerico ricombinante, patogeno per l’uomo, è isolato in natura. Il Sars-CoV-2, in realtà, è una ricombinazione di due virus: uno che deriva dal pipistrello, detto “a ferro di cavallo”, e uno dal pangolino, quindi il Covid 19 è un ricombinante chimerico da due specie diverse che vivono in nicchie ecologiche diverse».
Questo cosa significa?
«È molto difficile giustificare come queste due specie ecologicamente distanti possano incontrarsi. Per questo motivo si suppone che possa esistere un vettore intermedio, che ha assorbito questo virus ricombinante, e che lo ha trasmesso all’uomo. Fino a oggi il vettore intermedio non è stato né isolato, né individuato neppure a livello di ipotesi scientifica».
Dal punto di vista scientifico, invece, è plausibile che il Covid sia stato creato in laboratorio?
«Siamo di fronte a una ricombinazione di due Backbone, cioè delle due matrici del virus del pipistrello e del virus del pangolino, che sono stati fusi insieme. Senza questa ricombinazione non si sarebbe potuta dare un’affinità sufficiente a questo virus ricombinante per attaccarsi alla cellula umana. Ma c’è anche un altro fattore che rende l’ipotesi plausibile».
Quale?
«C’è nel virus un inserto, cioè un’inserzione nel materiale genetico, che espande e incrementa l’attività contagiosa e di virulenza del virus stesso, che deriva dal virus dell’Hiv1, come è stato ampiamente descritto dai ricercatori francesi del gruppo di Montagnier e Lopez, dai ricercatori di Prashant Pradhan dell’India institute of technology e dai ricercatori franco-canadesi di Etienne Declory e N. G. Seidah. Tali inserti aumentano la capacità del virus di attaccarsi alla cellula umana e di penetrarla. C’è un altro inserto fondamentale, che agisce non solo sulla membrana cellulare ma anche nella macchina interna della cellula umana, che è il cosiddetto inserto furinico: non solo permette al virus di penetrare attraverso il recettore furinico di membrana, ma anche di arrivare all’interno della cellula per stimolare e favorire la replicazione virale attraverso la proteasi furinica».
A quale scopo sarebbe stato creato?
«Sui Coronavirus i cinesi lavoravano da molto tempo e precisamente dal 2002 quando è scoppiata in Cina l’epidemia di Sars 1. All’inizio i ricercatori cinesi studiavano i Coronavirus per sviluppare un vaccino contro la Sars. Con il passare del tempo questa ricerca si è orientata verso altri obiettivi di ricombinazione genetica di ceppi virali patogeni e di ricombinazioni chimeriche. A mio avviso il virus è uscito dal laboratorio per un fatto accidentale».
Si parla insistentemente del vaccino. Ne avremo mai uno efficace?
«Il solo Paese che può sviluppare un vaccino polivalente è la Cina, infatti ci sta lavorando. Gli altri Paesi, che non possiedono la matrice originale, considerate le tante mutazioni del virus, possono sviluppare solo vaccini specifici per il ceppo prevalente della regione d’interesse».
Considera efficaci le misure messe in atto dal governo italiano per limitare i contagi?
«La politica dello stay-at-home, il cosidetto lockdown, è stata necessaria in molti Paesi europei e soprattutto in Italia per sopperire alla carenza dei dispositivi di protezione individuale, come le mascherine, i guanti, i camici, ecc; per la scarsa disponibilità dei disinfettanti; per la mancanza di laboratori e di strumenti adatti a processare i campioni, per l’inadeguatezza di mezzi e di uomini per implementare i programmi di Risk Management. A mio avviso si potevano adottare strategie diverse più indolori e meno traumatiche per il tessuto socio-economico del Paese».
Come potremmo superare la pandemia?
«Si può controllare la pandemia e si può in parte curare la malattia con i farmaci che abbiamo a disposizione. Per risolvere il problema alla radice, senza attendere l’insorgenza dell’immunità di gregge, occorre la matrice originaria del virus per sviluppare un vaccino polivalente».
"Contagi alti? Non è colpa dei giovani". Coronavirus, l’Oms avverte: “Rigore o 2 milioni di morti. Covid ha origine naturale”. Redazione su Il Riformista il 25 Settembre 2020. Il coronavirus rischia di provocare un altro milione di morti ai già 984mila pazienti deceduti. A lanciare l’allarme è l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) che suggerisce l’adozione a livello globale di provvedimenti più severi. Nel corso della conferenza stampa di oggi a Ginevra, Michael Ryan, direttore esecutivo del programma per le emergenze sanitarie dell’Oms ha avvertito che a meno che i paesi non intensifichino la lotta collettiva contro la pandemia di coronavirus “il mondo potrebbe vedere un altro milione di morti”, portando il totale a 2 milioni di decessi. “C’è molto che può essere fatto per salvare vite umane, sia in termini di controllo delle malattie che di misure salvavita esistenti. La domanda è: siamo preparati, collettivamente, a fare ciò che serve per evitare di raggiungere questa cifra”, ha dichiarato Ryan. “Se non intraprendiamo queste azioni e non continuiamo a far evolvere la natura, la scala e l’intensità della nostra cooperazione, allora sì, raggiungeremo quel numero, forse anche cifre più alte”. NO COLPA AI GIOVANI – Se i contagi, soprattutto in Europa, sono tornati a livelli molto alti “non è colpa dei giovani, ma della situazione”. Lo ha dichiarato Mike Ryan rispondendo a una domanda sulle presunte responsabilità dei più giovani nella trasmissione del virus Sar-COV2. “La realtà è che stiamo vivendo dentro casa, in luoghi affollati, poco areati, impegnati in attività anche intense per lungi periodi. Sono tutti elementi che aumentano la trasmissione (del virus ndr) all’interno delle comunità. E non importa che ci siano giovani o adulti. È la situazione, il contesto: non sono le persone ma è l’ambiente che conta”, ha aggiunto, augurandosi che si possa cambiare l’atteggiamento da “dito puntato”, in favore di un maggior dialogo specie con i più giovani. “Credo che bisogna trovare un modo migliore per richiamare la loro attenzione: dobbiamo dare ai giovani la responsabilità” e “parlare loro della sicurezza, personale e comunitariai” perché “facciano loro questa idea” senza che siano gli adulti a imporla. VIRUS ORIGINE NATURALE – Nel corso ella conferenza Tedros Adhanom Ghebreyesus, direttore generale dell’Oms, ha smontato le polemiche su una possibile origine in laboratorio di Sars-Cov-2. “Al momento tutte le pubblicazioni che abbiamo esaminato ci dicono che il virus ha un’origine naturale. Se qualcosa di diverso emergerà, lo valuteremo. Ma scienza ed evidenze devono restare le basi”, ha dichiarato. “Non possiamo commentare cose che non arrivano dalla scienza ma dai media”. Nel frattempo prosegue il dialogo con la Cina per far luce sull’origine del virus pandemico. “Daremo la caccia al caso zero, o ai casi zero, in Cina, e alla fonte animale”, ha spiegato Mike Ryan.
"Ecco chi sapeva del virus". Pubblichiamo, per gentile concessione dell'editore, un estratto di "Coronavirus: globalizzazione e servizi segreti", edito da Ponte alle Grazie. Aldo Giannuli, Domenica 04/10/2020 su Il Giornale. Come è noto, una delle ragioni dello «sfondamento» dell’attuale epidemia (che a differenza della SARS è uscita dai limiti nazionali) è stata individuata nel ritardo con il quale i cinesi hanno dato notizia di essa. E in effetti il ritardo c’è stato: almeno dal 30 dicembre il governo era al corrente del diffondersi della pestilenza e, come si sa, già l’8 gennaio Xi Jinping diramava disposizioni per fronteggiarla. L’annuncio ufficiale avverrà il 21 dello stesso mese. Dunque, il ritardo c’è stato e di alcune settimane. Così come ormai è chiaro che la Cina ha fornito dati che minimizzavano il contagio: anche se il numero effettivo di infetti e deceduti, probabilmente, resta più basso di quelli di Italia, Spagna, Inghilterra, tuttavia lascia pensare la rettifica successiva del numero dei deceduti aumentato di ben il 50%. Ma i cinesi sono stati gli unici a tacere? In primo luogo, come è noto, l’Organizzazione Mondiale della Sanità, insieme a organi della sanità francese, ha partecipato al laboratorio di Wuhan. Perciò, non si comprende come siano sfuggiti, tanto ai sanitari dell’OMS quanto ai francesi, i segnali di quel che stava accadendo. Forse al momento dello scoppio dell’epidemia a Wuhan non c’era personale dei due enti, forse il programma era interrotto o finito, forse il personale non era in grado di inviare segnalazioni: ci sono molte possibili spiegazioni, il punto è che non ne è stata data nemmeno una. In secondo luogo, come sappiamo, ci sono servizi di informazione particolarmente potenti che intercettano le comunicazioni, trattano i big data, scrutano il territorio con satelliti in grado di fare foto ad altissima definizione, hanno informatori distribuiti dappertutto ecc. Peraltro, già al suo sorgere, una epidemia mobilita decine di migliaia di persone fra medici e paramedici, poliziotti, militari, produttori di materiale sanitario, addetti ai trasporti speciali ecc. Inoltre, porta alla effettuazione di blocchi stradali, produce una insolita agitazione nei palazzi del governo (e del partito, nel nostro caso), comporta la spedizione massiccia di materiale sanitario ecc. A quanto pare, i satelliti segnalavano un affollamento degli ospedali a Wuhan già ad agosto 2019: perfetto, ma i servizi se ne sono accorti solo a giugno del 2020? È facile intuire che la Cina è vigilata speciale, oltre che da parte degli USA, anche di numerosi paesi confinanti o prossimi come Giappone, Corea del Sud, Taiwan, Vietnam, India e i primi tre dispongono di servizi di intelligence di prim’ordine. Come può essere sfuggito un movimento di tali proporzioni a tutti questi servizi?? Delle due l’una: o i vari servizi mentono, perché avevano la percezione di quel che stava accadendo e allora devono spiegare come hanno usato queste informazioni, oppure dicono la verità: non hanno capito quel che stava succedendo, il che è peggio. Dei servizi giapponesi e coreani non sappiamo se e quando abbiano percepito l’arrivo della tempesta, in compenso sappiamo che l’aveva individuata il servizio di Taiwan (per ragioni comprensibili, il migliore nella sorveglianza della Cina continentale) che, infatti, il 30 dicembre inviava una segnalazione all’OMS, ma non risulta che l’OMS abbia comunicato la notizia all’ONU. Forse Trump non ha tutti i torti quando dice che l’OMS è un po’ troppo amica di Pechino, se non fosse che anche gli USA vi sono autorevolmente rappresentati e avranno proprie antenne al suo interno sarebbe davvero strano il contrario. Così come non appare credibile che i servizi di Taiwan abbiano informato l’OMS e non i servizi americani. A proposito dell’intelligence USA, indiscrezioni giornalistiche hanno riferito di un rapporto di un centro studi interno a un servizio (probabilmente la NSA) che, già da novembre, avrebbe lanciato l’allarme al Dipartimento di Stato. Dal canto suo, il Dipartimento ha smentito l’esistenza di «questo prodotto» informativo. Non ci sono elementi a sostegno di una simile indiscrezione che, peraltro, si sarebbe fondata su dati troppo prematuri (di fatto, nulla ci dice che siano stati riconosciuti casi di COVID prima della metà di dicembre). Non è detto però che essa sia del tutto infondata: sappiamo che dopo le olimpiadi militari è iniziata una progressiva agitazione sul tema di un possibile contagio anche per il manifestarsi di altro tipo di infezioni, che probabilmente hanno generato confusione sino a quando il quadro si è fatto più chiaro. Dunque, è possibile che questo «rapporto» si riferisse ad altro, comunque connesso a quel che poi accadrà. Nell’assenza di prove certe conviene lasciar cadere questa pista, ma va detto che i servizi israeliani avrebbero ricevuto, nei primi di dicembre, un avvertimento dei servizi americani di una non meglio precisata «minaccia grave» in arrivo. Allora, così come è chiaro che l’intelligence occidentale e di altri paesi asiatici, è stata incapace di prevenire il rischio della pandemia, allo stesso modo è evidente che essa si sia attivata man mano che giungevano i segnali di quel che maturava. A meno di credere che l’intelligence americana in particolare abbia appreso dello scoppio dell’epidemia dai giornali (nel qual caso sarebbe il caso di sciogliere quei servizi e risparmiare i soldi), è di solare evidenza che essi avessero capito che si era di fronte a una epidemia (anche se non a una pandemia) più o meno negli stessi giorni in cui questo si è reso chiaro ai governanti cinesi.
Ecco come la Norvegia è riuscita a frenare il Covid-19. Andrea Walton su Inside Over il 3 ottobre 2020. La Norvegia è riuscita, nel corso dei mesi, ad arginare la pandemia ed a proporsi come modello di successo per la Scandinavia e per il resto d’Europa. L’esecutivo conservatore guidato dalla premier Erna Solberg ha potuto contare su alcuni punti di forza, come la scarsa densità abitativa del Paese e la presenza di un sistema economico in grado di reggere gli scossoni della crisi ma è anche riuscita a costruire una narrativa in grado di coinvolgere la popolazione e di spingerla a collaborare. La competenza nello gestire l’emergenza sanitaria si è rafforzata grazie alla legittimità democratica conseguita dal governo e grazie ad un’abile e rassicurante strategia comunicativa in grado di suscitare consenso.
I dati. I casi totali di Covid-19 in Norvegia erano, al 27 settembre, 13.741 mentre 274 persone hanno perso la vita a causa del morbo dall’inizio della pandemia. L’esecutivo Solberg ha adottato, a partire dal mese di marzo, una serie di misure restrittive considerate particolarmente rigide per la Scandinavia. Le scuole, i bar ed i luoghi di svago sono stati chiusi, le frontiere sono state sigillate ed è stato introdotto un bando nei confronti degli eventi sportivi e delle attività culturali. I provvedimenti sono stati inizialmente prolungati ma la loro efficacia ha rafforzato la fiducia dei norvegesi nei confronti del loro sistema politico. Le restrizioni, che sono state allentate progressivamente, si sono rivelate decisamente efficaci: nel maggio 2020 si sono registrate il 6 per cento di morti in meno rispetto al maggio del 2019 mentre nel mese di giugno questa percentuale ha toccato il 13 per cento rispetto allo stesso mese dell’anno precedente. Il numero di morti è stato così basso che diverse imprese di pompe funebri sono state costrette a chiedere aiuti allo Stato per sopravvivere economicamente.
Luci ed ombre. Le persone attualmente ricoverate in Norvegia a causa del Covid-19 sono venti mentre appena due si trovano in terapia intensiva. L’alto numero di tamponi diagnostici eseguiti, oltre un milione, è una delle ragioni del successo del modello norvegese. L’individuazione precoce dei casi, anche asintomatici, permette di prevenire la formazione di focolai e riduce la trasmissione del virus all’interno della comunità.Non ci sono, però, solamente buone notizie. Un aumento dei casi (per gli standard norvegesi) ha spinto l’esecutivo a dichiarare, intorno alla metà di settembre, che la riapertura del Paese doveva interrompersi. Tra il 7 agosto e la fine di settembre è stato vietato il consumo di alcolici dopo la mezzanotte nella maggior parte dei bar del Paese. Oslo si è trasformata in un vera e propria osservata speciale: è stato imposto l’uso delle mascherine facciali sui trasporti pubblici e dovunque non fosse possibile mantenere la distanza interpersonale di un metro. Nella capitale norvegese è stato inoltre introdotto un limite agli incontri privati (massimo 10 partecipanti) ed un sistema di tracciamento dei clienti nei bar e nei ristoranti.
Un modello esportabile. L’approccio norvegese all’emergenza sanitaria è stato molto diverso da quello svedese, prima criticato da più parti e poi rivalutato anche dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. Stoccolma ha deciso di fare affidamento sul senso di responsabilità individuale dei cittadini, ha consigliato blande misure di distanziamento sociale ed ha preso pochi provvedimenti invasivi delle libertà civili ma ha avuto, almeno in un primo momento, più difficoltà nell’affrontare le problematiche derivanti dal contagio. Oslo ha invece avuto la mano più ferma ma ha anche agito con razionalità evitando di fermare il motore produttivo del Paese e di infliggere gravi danni psicologici con l’imposizione di lockdown totali. Le scelte adottate dalla Norvegia possono essere replicate altrove? Si, almeno parzialmente e per quanto concerne i principi di base. Il primo ministro ed altri componenti del governo, ad esempio, hanno preso parte, negli ultimi mesi, a tre conferenze stampa in cui i principali protagonisti erano i bambini. I giovanissimi, le cui vite sono cambiate a causa delle nuove abitudini, hanno subissato i politici di domande e curiosità a cui hanno sempre ricevuto risposte. Si è cercato di rassicurare e di spiegare ai più piccoli con evidenti benefici per la loro salute mentale. Anomalie nordiche? Forse. L’attenzione al tema della salute mentale dei più deboli, la chiarezza nelle spiegazioni, il rapporto diretto con i cittadini ed il trattare questi ultimi come sudditi sono però elementi che molti esecutivi, ai quattro angoli del mondo, hanno apertamente trascurato. A volte le restrizioni, se ben spiegate, possono ricevere molto più seguito di norme imposte con la costrizione.
Coronavirus creato in laboratorio a Wuhan? Andrea Crisanti a Piazzapulita: "Perché i cinesi non ci hanno detto degli asintomatici?" Libero Quotidiano il 25 settembre 2020. Il coronavirus creato in laboratorio a Wuhan e uscito, per incuria o dolo? Andrea Crisanti, il virologo che ha contenuto l'epidemia a Vo' Euganeo e poi nel Veneto, è scettico: "Non ci sono elementi per dirlo, è semplicemente indimostrabile e dunque è inutile chiederselo". Il punto, spiega in collegamento con Corrado Formigli a Piazzapulita, è un altro: "I cinesi avrebbero potuto dirci qualcosa prima, e sicuramente sulla presenza degli asintomatici. Fatico a credere che non se ne siano accorti. Noi ce ne siamo accorti 4 giorni dopo, il 28 febbraio avevamo capito che erano il 40%. I cinesi lì qualche responsabilità ce l'hanno, se l'avessimo saputo subito avremmo reagito con la Cina in modo diverso, saremmo stati molto più attenti".
Da huffingtonpost.it il 22 settembre 2020. “La Cina ha infettato il mondo, dobbiamo ritenerli responsabili di aver scatenato questa piaga nel mondo”. È il duro attacco con cui Donald Trump ha aperto il suo intervento all’Assemblea generale dell’Onu. Un intervento registrato alla Casa Bianca e durato molto meno dei 15 minuti riservati da ogni leader nel corso del dibattito generale. Il suo discorso è stato quasi completamente incentrato sulla Cina. “Nei primi giorni del virus, la Cina bloccò i voli interni, mentre permetteva ai voli di lasciare la Cina ed infettare il mondo” sono le parole del presidente Usa, che spesso ha utilizzato la parola “virus cinese” per parlare del Covid 19.“Il Governo cinese e l’Organizzazione mondiale per la Sanità, che è virtualmente controllata dalla Cina, dichiararono in modo falso che non vi erano prove delle trasmissione da uomo ad uomo”, prosegue il discorso di Trump che, come tutti i leader internazionali, ha inviato un video messaggio. “In seguito hanno detto, sempre in modo falso, che le persone senza sintomi non avrebbero diffuso la malattia”. Sempre via messaggio registrato, parla anche Xi Jinping, che quindi non replica direttamente a Donald Trump, mentre è l’ambasciatrice di Pechino alle Nazioni Unite a “respingere con forza le accuse senza fondamento”. “La pandemia va affrontata insieme, uniti, e seguendo la scienza” ha detto Xi, “ogni tentativo di politicizzare o stigmatizzare la pandemia deve essere respinto”. Il presidente cinese ha ribadito il ruolo “di guida dell’Oms” e assicurato “il contributo di due miliardi di dollari contro la pandemia”. È così caduto immediatamente nel vuoto l’appello lanciato dal segretario generale dell’Onu Antonio Guterres, che aveva chiesto di evitare a ogni costo una “nuova Guerra Fredda” tra Usa e Cina. “Ci muoviamo in una direzione molto pericolosa”, ha detto Guterres, in riferimento ai rapporti tra “le due maggiori economie mondiali. Il nostro mondo non può permettersi un futuro nel quale le due maggiori economie spaccano il globo in una grande frattura”, ha detto Guterres. “La divisione tecnologica ed economica rischia inevitabilmente di trasformarsi in una divisione geostrategica e militare e dobbiamo evitarlo a tutti i costi”, ha aggiunto il segretario generale dell’Onu nel suo intervento. “Non vogliamo guerre fredde nè calde con nessun Paese” ha dichiarato il presidente cinese, Xi Jinping, nel suo intervento. “La Cina continuerà ad essere un elemento che forgia la pace nel mondo, contribuisce allo sviluppo globale e sostiene l’ordine internazionale”.
Da liberoquotidiano.it il 13 settembre 2020. "Il coronavirus è stato creato in laboratorio a Wuhan". La dottoressa Li-Meng Yan ha lavorato alla Hong Kong School of Public Health prima di denunciare il governo cinese, accusandolo di essere a conoscenza dell'origine dell'epidemia e di aver nascosto al mondo la minaccia. Intervistata dal talk show britannico Loose Women sul canale Itv, da un luogo non specificato per ragioni di sicurezza, la scienziata ha annunciato in diretta che presto sarà in grado di pubblicare le prove della natura "sintetica" del virus, nato nei laboratori di Wuhan da dove poi è uscito scatenando la pandemia. "Tutti, anche chi non è uno scienziato e non ha conoscenze di biologia, sarà in grado di capirlo", assicura. La versione ufficiale del virus diffuso dai "wet market" di Wuhan, accusa, è "nient'altro che una cortina fumogena creata dal governo di Pechino per nascondere la vera origine del Covid". Già a luglio, la dottoressa aveva accusato le autorità comuniste di essere a conoscenza del potenziale letale del virus fin da subito, ma di aver scelto di nasconderlo alla pubblica opinione e al mondo per timore di rivolte. Secondo la virologa, un suo collega aveva avuto conoscenza di casi di contagio da uomo a uomo già il 31 dicembre scorso.
“Il virus è nato in laboratorio”: cosa sappiamo davvero. Francesco Boezi il 16 settembre 2020 su Inside Over. Li Meng Yan è tanto sicura di quello che dice da aver annunciato prove. La studiosa ha in qualche modo dichiarato che il Sars-Cov2 non è stato trasmesso in via naturale all’uomo: “Il coronavirus proviene dal laboratorio di Wuhan, che è controllato dal governo cinese. Il virus è stato creato lì”. Sono frasi pesanti. “Creato” non significa che il virus era già presente in natura. “Creato” vuol dire che il Sars-Cov2 è stato pensato ed elaborato ex novo, magari sulla scia di qualcosa di già esistente ed in funzione di una possibile cura contro altre patologie o chissà per cos’altro. Per la dottoressa Li, il nuovo coronavirus non è un prodotto dell’evoluzione. Certo, non è la prima a prendere questa posizione, ma l’attesa per queste presunte “prove” esiste. Da quello che abbiamo appreso, poi, Li Meng Yan non dovrebbe aspettare molto tempo: starebbe per aggiungere dettagli. Potrebbe scegliere un seminario negli States per gettare definitivamente a terra le sue carte? Vedremo. Gli esperti sino a questo momento propendono per l’origine naturale del Sars-Cov2. Anzi, spesso chi si è schierato con il premio Nobel Luc Montagnier – come in qualche modo il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ed il segretario di Stato Mike Pompeo – è stato spesso messo alla berlina dalla “scienza ufficiale”. L’accusa, di solito, è quella complottismo. Anche il premio Nobel aveva parlato di virus da laboratorio. Ma la “scienza ufficiale” non può non misurarsi con le idee della Meng Yan. Se non altro perché la studiosa non è un politico né una giornalista, bensì una scienziata. Così come uno scienziato, e che scienziato, è Luc Montagnier. Tutto – questa è la verità ufficiale – è iniziato per via di un pipistrello. Un animale che potrebbe essere entrato in contatto con un secondo ospite del patogeno, forse un pangolino esposto nel mercato di Wuhan. Ma ancora non si sa. Un salto di specie dal pipistrello all’uomo, in via diretta, non è previsto spesso. E il “mistero” sull’anello di congiunzione che manca alimenta le tesi di chi guarda al laboratorio. Anche rispetto all’ebola, però, persiste lo stesso problema. Si pensa che alcuni tipi di scimmie siano l’animale ospite in grado di spiegare la trasmissione agli esseri umani. Ma è un punto ancora dibattuto. La sensazione predominante è che di virus se ne sappia ancora poco. E il fatto che la scienza si divida spesso e volentieri rappresenta la spia di un assunto: dare tutto per scontato, in queste faccende, può non convenire.
Il paper di Miss Li. Qualcosa intanto è emerso. Come ha spiegato Federico Giuliani all’interno di questo approfondimento, è balzato fuori un paper a mezzo social. Un documento riconducibile alla disamina di Miss Li e di altre due persone. Se la scienza ufficiale cosiddetta dovesse decidere di replicare, dovrebbe allora contraddire quanto segue: “Il Sars-Cov2 mostra caratteristiche biologiche che non sono coerenti con un virus zoonotico presente in natura”, si trova scritto. E questo per via del presunto percorso sintetico che il patogeno avrebbe fatto, per la prossimità al RaTG13, che è un altro coronavirus presente nei pipistrelli, per altre somiglianze con il Sars del 2003, per il comportamento atipico della furina, un comportamento che potrebbe essere stato indotto, e per altre considerazioni legate alla struttura del genoma. Miss Li aveva annunciato prove che anche chi non è uno scienziato sarebbe stato in grado di comprendere, ma tanto semplice da capire quel paper non è. Non resta che chiedersi cosa ci sia di vero.
La versione del professor Massimo Ciccozzi. Abbiamo già interpellato il professor Massimo Ciccozzi su due macro-temi relativi al nuovo coronavirus: sul come il Sars-Cov2 sia arrivato in Italia e su come sia possibile non lasciare traccia, se è possibile, creando un virus da laboratorio. Ora abbiamo deciso d’interpellarlo anche per comprendere cosa ci sia di vero, in caso, nelle considerazioni di Miss Li. Ciccozzi, che è il vertice della dell’Unità di statistica medica ed epidemiologia molecolare dell’Università Campus BioMedico, ha esordito dicendo che “finché non abbiamo prove scientifiche certe non possiamo dire che il virus provenga da un laboratorio. Le parole sono parole. Sono ipotesi, opinioni, no?”. Il professore non cede il passo alle congetture e si affida alla scienza: “C’è la possibilità che nel passaggio dal pipistrello all’uomo ci sia un anello di congiunzione. La probabilità ci fa pensare ad un animale. Non possiamo pensare ad un diverso anello di congiunzione. Ora, il fatto che il Sars-Cov2 sia derivato dal laboratorio rimane sul piano dell’ipotesi. Serve una pubblicazione scientifica validata da una comunità scientifica. La stessa che dovrebbe vedere i dati ed ammettere che c’è qualcosa che non quadra. Sino ad allora, dobbiamo attenerci a quello che sappiamo. A quello che la scienza ci dice”. E cioè? “C’è stato uno spillover (un salto di specie, ndr) da un animale all’uomo. Abbiamo individuato il pipistrello, mentre la diatriba maggiore riguarda il passaggio intermedio (quello per cui si era parlato del pangolino, ndr). Ma il passaggio dal pipistrello all’uomo è una prova pubblica, palese, che si deduce studiando i genomi sui database mondiali”. Quale sarebbe la prova madre per certificare la provenienza da laboratorio del nuovo coronavirus? E quella sull’origine naturale? “Guardi, un nostro stesso studio è la prova dell’origine naturale del nuovo coronavirus, ma ce ne sono anche altre. Tantissime riviste hanno validato l’origine naturale del Sars-Cov2”. E l’altra? Quella sulla natura artificiale? “Tutto e niente. Dovremmo allora vedere un qualcosa che sia molto strano ma che, al tempo stesso, non privi il virus delle caratteristiche che ha. Al momento io non vedo tutto questo”. Ma è possibile che le sequenze genetiche pubbliche non siano tutte? “Noi abbiamo fatto la prova sulle prime decine di sequenze. Era gennaio. Poi abbiamo ripetuto la prova poco fa, con molte più sequenze: non è cambiato nulla”.
L'inchiesta del Sunday Times: “Nuovo coronavirus scoperto nel 2012 in una miniera in Cina”. Le Iene News il 17 luglio 2020. L’edizione domenicale del Times britannico ricostruisce la scoperta di un coronavirus molto simile alla Sars avvenuta nel 2012 in una miniera popolata da molti pipistrelli. Un virus studiato al laboratorio di Wuhan e che potrebbe essere collegato all’attuale pandemia di Covid-19. Una squadra di scienziati dell’Oms si recherà in Cina per indagare: la storia di questa tragedia deve essere riscritta? Un nuovo coronavirus, simile a quello della Sars, sarebbe stato scoperto in Cina nel 2012 in una miniera di rame abbandonata nello Yunnan, l'estremo sud del Paese. A sostenerlo è un’inchiesta pubblicata sull’edizione domenicale del Times, quotidiano britannico, che ha ricostruito una catena di eventi che potrebbe essere inquietantemente collegata con l’attuale pandemia di Covid-19. Il Sunday Times ricostruisce la storia di un gruppo di lavoratori che erano stati chiamati, all’inizio del 2012, a ripulire la miniera di rame abbandonata. Un luogo popolato da moltissimi pipistrelli, che oggi si presumono essere l’animale da cui il Sars-cov2 abbia fatto il salto agli esseri umani. Ebbene, di quei lavoratori sei si ammalarono di una polmonite anomala e simile a quella della Sars, che nel 2003 aveva colpito il Paese. Tre di loro morirono di questa malattia sconosciuta. L’evento, considerato già grave, avrebbe portato un gruppo di scienziati a visitare la miniera per raccogliere campioni e capire quale fosse l’origine di quella malattia. I campioni di feci di 276 pipistrelli sarebbero quindi stati inviati a Wuhan, dov’era in costruzione il primo laboratorio in Cina del livello di biosicurezza più alto. Le prime analisi svolte su quei campioni, secondo quanto riporta il Sunday Times, avrebbero indicato la presenza di più coronavirus all'interno della miniera: uno di questi era un "nuovo ceppo" di Sars che venne denominato inizialmente RaBtCov/4991, riscontrato in un particolare tipo di pipistrelli. Da qui l’inchiesta del Sunday Times fa un passo in avanti e arriva al 30 dicembre del 2019, quando cominciarono a circolare le prime informazioni sui pazienti affetti da una polmonite ammala a Wuhan. La dottoressa Shi Zhengli, tra i responsabili delle ricerche sul caso dei sei minatori malati, in uno studio di febbraio pubblicato su Nature ha citato i pipistrelli come probabile origine del nuovo coronavirus. E non solo: ha rivelato che il laboratorio di Wuhan disponeva di un virus con un livello di somiglianza a quello del Covid-19 pari al 96,2%, denominato RaTG13. E qui viene il bello: secondo il Sunday Times alcune fonti rivelano che quel virus sarebbe lo stesso trovato nella miniera nel 2012, solo con un nome diverso. Possibili che si tratti di una evoluzione dello stesso coronavirus, magari per caso sfuggito dal laboratorio di Wuhan? La comunità scientifica ha finora negato con forza la possibilità che il virus responsabile del Covid-19 sia stato creato in laboratorio, e lo stesso laboratorio di Wuhan ha negato di avere avuto un ruolo nella diffusione del coronavirus. Eppure la Cina e il laboratorio di Wuhan sono da tempo al centro di una grande polemica internazionale, perché accusati di essere stati poco trasparenti nella gestione della pandemia. Se l’inchiesta del Sunday Times fosse confermata, questo aggiungerebbe un ulteriore elemento di dubbio sulla trasparenza del governo cinese. Non sappiamo se quanto riportato dal Sunday Times sia vero, per adesso è necessario considerarlo una semplice teoria. Una teoria che però potrebbe avere un fondamento di verità, tanto che una squadra di scienziati dell’organizzazione mondiale della Sanità si sta recando in Cina per cominciare le indagini sull'origine del coronavirus Sars-CoV-2 responsabile del Covid-19. Tra le cose che analizzeranno, ci sono anche eventuali legami tra i pipistrelli dello Yunnan e il laboratorio di Wuhan, che si trova a oltre mille chilometri di distanza. Un giorno bisognerà riscrivere la storia di questa pandemia?
Da una miniera al mercato di Wuhan. Federico Giuliani il 6 luglio 2020 su Inside Over. Nel 2012 la miniera di Tongguan, nella provincia cinese dello Yunnan, ha ospitato un virus assassino molto simile al Sars-CoV-2. Un lontano parente del nuovo coronavirus di Wuhan che, all’epoca, ha provocato il ricovero di sei lavoratori a causa di una polmonite incurabile e la morte di tre di loro. Nel sudest della Cina, nei meandri di una miniera di rame abbandonata, tra il guano dei pipistrelli e la presenza di ratti e toporagni, un gruppetto di operai stava ripulendo il pavimento della grotta. Un lavoro come un altro, se non che, dopo qualche giorno, tutte quelle persone si sono ritrovate ricoverate in condizioni più o meno gravi. Che cosa era successo? Nessuno lo sapeva. Per fare luce sull’accaduto, le autorità spedirono nello Yunnan alcuni scienziati del laboratorio di Wuhan. Ebbene, secondo la ricostruzione del Sunday Times, gli esperti scoprirono un virus quasi identico al coronavirus che ha recentemente messo in ginocchio il mondo intero. Nel caso in cui questo scenario dovesse essere confermato, le origini della pandemia tornerebbero nuovamente sotto i riflettori. Già, perché a quel punto sorgerebbe spontaneo chiedersi perché un virus scoperto anni fa nelle caverne dello Yunnan e trasportato fino al laboratorio di Wuhan sia potuto riemergere nel dicembre 2019 provocando il disastro sanitario che abbiamo più volte raccontato.
Un parente del Sars-CoV-2. Torniamo alla nostra storia. Pare che gli scienziati inviati nella miniera raccolsero il virus per conservarlo a una temperatura di meno 80 gradi nel laboratorio di Wuhan. Il loro obiettivo? Studiarlo, analizzarlo, capire le sue origini e, chissà, magari anche trovare un vaccino. A guidare la “caccia al virus” fu mobilitata la virologa Shi Zhengli, la Bat Woman cinese, soprannominata anche donna dei pipistrelli. La squadra di Shi entrò nella miniera equipaggiata a dovere: tute, maschere di protezione, reti e pale per raccogliere campioni di feci da 276 pipistrelli e da analizzare, in un secondo momento, in laboratorio. I risultati di quegli studi mostrarono che la metà dei pipistrelli di quella grotta erano portatori di coronavirus. Molti avevano contemporaneamente addirittura più geni di un genere. Una condizione del genere, tra l’altro, può creare una pericolosa miscela di patogeni. Intanto gli anni passano, e nel 2016 Shi ha pubblicato uno studio intitolato “La coesistenza di multipli coronavirus in diverse colonie di pipistrelli in una miniera abbandonata”. La virologa ha scritto che due sequenze genetiche trovate in sei specie di pipistrelli erano dello stesso genere che provocò la Sars nel 2003. Uno di questi coronavirus, riscontrato nel Rhinolophus affinis, fu rinominato RaBtCoV/4991.
La miniera, il laboratorio, il mercato. Il RaBtCoV/4991 era un virus simile al Sars-CoV-2; la somiglianza raggiungeva una percentuale vicina al 100%. Dove furono trasportati i campioni del pericoloso virus? Sempre secondo la ricostruzione del Sunday Times, all’interno di un laboratorio di massima sicurezza (livello 4 di biosicurezza) appena costruito a Wuhan. Shi stava studiando il campione per capire se e come avrebbe potuto infettare gli esseri umani. Le ricerche proseguirono nel periodo compreso tra il 2015 e il 2017. Gli scienziati effettuavano esperimenti di infettività virale, combinavano vari coronavirus e cercavano di capire come avrebbero potuto diventare più trasmissibili. La stessa Bat woman, qualche mese fa, arrivò a esprimere alcuni dubbi: il Sars-CoV-2 era per caso uscito da quel laboratorio in seguito a un errore umano? La stessa virologa si affrettò a dire che no, il Covid-19 non era uscito dalle sue provette. Non ci sono tuttavia verifiche indipendenti per confermare le sue parole. In ogni caso, dal momento che il mercato di Huanan, ground zero del contagio, si trova a due passi dal laboratorio in cui veniva conservato il RaBtCov/4991, è possibile che un animale infettato dal virus (magari un pangolino) possa aver viaggiato dal sud della Cina fino al mercato. Oppure che uno dei ricercatori che stava analizzando il virus possa esser diventato asintomatico.
Carlo Pizzati per “la Stampa” il 6 luglio 2020. Nel 2012, a sei operai fu ordinato di ripulire il pavimento di una miniera di rame abbandonata nel Sudest della Cina. Tra ratti e toporagni che si rincorrevano, i manovali si fecero strada nella fanghiglia di guano di pipistrelli. Dopo qualche giorno, i sei furono ricoverati con una polmonite incurabile che ne uccise tre. A causa di queste morti misteriose un gruppo di scienziati arrivò nella provincia dello Yunnan per indagare sulla miniera di Tongguan. Secondo un'inchiesta pubblicata ieri dal «Sunday Times», gli scienziati del laboratorio di Wuhan scoprirono un virus assassino simile a quello che oggi chiamiamo Covid-19. Se confermato, questo riaprirebbe le porte a diverse ipotesi sull'origine della pandemia. Come mai un virus scoperto nelle caverne del sud della Cina e trasportato fino al laboratorio di Wuhan, dove fu poi conservato a meno 80 gradi, riemerse nella stessa città otto anni dopo nel mercato degli animali di Huanan? A guidare la caccia al virus fu chiamata la virologa Shi Zhengli, soprannominata «Batwoman», la donna dei pipistrelli, celebre in Cina e nella comunità scientifica internazionale. Lei e la sua squadra entrarono nella miniera di rame con tute e maschere, armati di reti e palette per raccogliere campioni di feci da 276 pipistrelli da analizzare in laboratorio con studi molecolari. I risultati mostrarono che metà dei pipistrelli erano portatori di coronavirus e molti ne avevano più di un genere contemporaneamente: convivenza che può creare una pericolosa miscela di patogeni. Nello studio pubblicato nel 2016, «La coesistenza di multipli coronavirus in diverse colonie di pipistrelli in una miniera abbandonata», Shi spiegò che delle 152 sequenze genetiche dei diversi coronavirus, trovati in sei specie di pipistrelli, due erano del genere che causò la Sars nel 2003. Un nuovo coronavirus della Sars trovato nel Rhinolophus affinis, pipistrello noto anche come «il ferro di cavallo», fu classificato come RaBtCoV/4991. Otto anni dopo si sarebbe compresa la sua devastante importanza planetaria. Si trattava quasi al 100 per cento del virus del Covid-19. Nel frattempo a Wuhan, in gran segreto veniva completato un laboratorio di massima sicurezza su commissione dell'Esercito di liberazione popolare cinese, il primo del genere in Cina. Si tratta di un «Livello 4 di biosicurezza», il più alto. Ed è proprio qui che Batwoman e i suoi scienziati portarono il campione di RaBtCov/4991 per capire come avrebbe potuto mutare infettando gli umani. Questo genere di ricerca sulle possibili evoluzioni di uno specifico virus, tesa nelle intenzioni degli scienziati cinesi a prepararsi al peggio, fu documentata in ricerche pubblicate tra il 2015 e il 2017. Si trattava di combinare diversi tipi di coronavirus per vedere come avrebbero potuto diventare più facilmente trasmettibili. Questi «esperimenti di infettività virale» sono sempre stati controversi perché hanno il potenziale di trasformare artificialmente i virus in patogeni umani capaci di causare una pandemia. Gli Stati Uniti li hanno proibiti nel 2014, e nel 2018 Washington mandò un comitato scientifico a Wuhan per valutare i rischi alla biosicurezza del laboratorio. Ma la squadra di Shi continuò per la sua strada. E la scienziata dichiara che i dubbi che il Covid-19 possa essere uscito dalle sue provette si sono dileguati dopo aver studiato i dati del laboratorio. Manca però una verifica indipendente, oggi altamente improbabile in questo clima conflittuale. La domanda che resta senza risposta è: com' è possibile che un virus originario delle caverne del sud della Cina sia emerso a così tante migliaia di chilometri di distanza, a Wuhan? Un dato è certo: il mercato degli animali selvatici è dall'altra parte del fiume dal laboratorio dove veniva conservato il campione di RaBtCov/4991. È plausibile che un animale infettato dal virus, forse un pangolino, abbia viaggiato dal sud della Cina fino al mercato selvatico di Wuhan, o che uno dei giovani studenti della squadra di Shi sia diventato un portatore asintomatico. Ma, con questa inchiesta, si riapre più seriamente l'ipotesi di una fuga dai laboratori segreti dell'Esercito cinese del virus modificato, a scopi di studio, per renderlo più trasmissibile.
Wuhan, quel virus tenuto nascosto per sette anni. Andrea Massardo il 5 luglio 2020 su Inside Over. Avevano destato l’orrore e la paura di tutti quelle prime immagini della città cinese dello Hubei, Wuhan, alla quale vennero blindati gli accessi con l’ausilio delle forze militari. Le prime foto delle persone che indossavano le mascherine senza potersi spostare liberamente per la città e quel sentimento di terrore che traspariva da ogni singolo scatto che provenisse dalla Cina in quei primi fatidici giorni di epidemia. Non ci saremmo aspettati in quel momento però che ciò potesse divenire il destino di tutto il mondo, col coronavirus che, probabilmente, aveva già lasciato i confini dello Hubei e si era già impossessato di tutto il mondo. E adesso, ripensando a quei giorni, il presentimento che forse ci saremmo potuti muovere con anticipo apre a nuovi rimorsi, poiché avrebbe potuto evitare la morte a centinaia di migliaia di persone nel mondo. I rimorsi maggiori, però, forse dovrebbe averli proprio la Cina, con l’ipotesi di una “fuga” dai laboratori di Wuhan e soprattutto di evidenti segnali lasciati passare inosservati che torna nuovamente d’attualità. Stando infatti a quanto riportato dalla testata giornalistica britannica The Sunday Times, la Cina aveva già ben presenti gli effetti di un virus molto simile al Covid-19, poiché scoperto dai ricercatori locali nel lontano 2012. Sette anni fondamentali, forse, per evitare tutte le morti che si sono verificate. Sette anni cruciali in cui il virus presente nelle feci di pipistrello e scoperto nei meandri di una miniera è stato conservato nei laboratori di ricerca di Wuhan.
La “Sars della miniera” che uccise tre uomini. Era il 2012 quando un gruppo di ricercatori cinesi – schermati e protetti con degli indumenti alquanto simili a quelli utilizzati oggigiorno dagli operatori sanitari – si addentrarono all’interno di una miniera abbandonata della Cina meridionale. In quel luogo avevano trovato la morte poche settimane prima tre persone, a seguito della crisi respiratoria causata da un virus sino a quel momento sconosciuto ma alquanto simile al virus della Sars. Gli altri tre contagiati del gruppo, invece, erano riusciti a sopravvivere dopo mille fatiche portate avanti per giorni. L’ambiente scuro della miniera, un virus spaventosamente simile all’attuale Covid-19 e soprattutto originato dalle feci di pipistrello: uno scenario da incubo, che conferma comunque quanto detto sul suo balzo di specie in questi mesi. E che il virus fosse potenzialmente pandemico e soprattutto pericoloso fu chiaro sin dalle ore successive alla morte di quelle tre persone, cadute negli anni nel dimenticatoio. Per questo motivo, infatti, su di esso sono stati portati avanti studi durati mesi ed effettuati in quei laboratori scientifici all’avanguardia presenti nella città di Wuhan.
La Cina conosceva il pericolo. La gravità degli scenari che si sarebbero presentati qualora quel virus fosse stato in grado di trasmettersi da uomo a uomo avevano attirato l’attenzione del mondo accademico cinese. Dopo la stesura della ricerca di questa scoperta non è rimasta però traccia alcuna, se non un paio di citazioni accademiche, come una sorta di esercizio o di uno studio legato semplicemente alla volontà umana di scoprire il mondo. Tuttavia, l’aver reso segreto i risultati delle analisi e soprattutto l’aver impedito lo studio e la conoscenza del patogeno sono state alla base anche dei fallimenti medici e farmaceutici di questo tragico 2020. E anche in questo caso, la Cina non può che essere additata come colpevole di u insabbiamento.
Perché la Cina ha tenuto nascosti i dati? È difficile capire per quale motivo la Cina decise di tenera nascosti i dati. Dopotutto, il virus non si differenziava così tanto dal virus della Sars che la colpì qualche anno prima – e anzi, potrebbe essere considerato proprio l’anello mancante tra la Sars ed il Covid-19. La sua scoperta, infatti, avrebbe permesso anche di ristabilizzare l’immaginario della sanità pubblica cinese, che si sarebbe dimostrata all’avanguardia ed in grado di anticipare la nascita di nuovi focolai potenzialmente pandemici. Tuttavia, di quella ricerca le tracce sono andate perse: almeno sino alla rivelazione fatta dal Times. Le cause, forse, sono da ricercarsi però al di fuori del mondo scientifico e sono legate alla credibilità del Paese a livello internazionale. Il rischio infatti che da un momento all’altro la Sars o sue modificazioni potessero tornare a colpire avrebbe reso instabili le stime sul Paese, soprattutto sul piano economico. Tale possibilità avrebbe dimostrato una debolezza di Pechino, che fino a quel momento si era dimostrata intoccabile e forse unico vero vincitore dalla crisi economica del 2008. In questo scenario, dimostrare debolezza avrebbe potuto mandare a rotoli anni di sforzi portati avanti per dimostrarsi i veri dominatori degli scenari economici mondiali. La volontà di non pensare che la tragedia che la colpì nel 2003 potesse ripetersi ha forse svolto la restante parte del lavoro.
Indagine sul coronavirus, il capolavoro dell’UE per non irritare la Cina. Toni Capuozzo il 19/05/2020 su Notizie.it. La bozza di risoluzione presentata dall'UE a proposito dell'indagine sul coronavirus dimostra che le sirene di Xi Jinping hanno funzionato. Mettiamola così: Trump dovrebbe essere intento a festeggiare, dopo che più di 100 paesi al mondo chiedono un’inchiesta sulle origini di Covid 19, più o meno quello che il presidente USA va sollecitando da tempo. E invece no, Trump rende nota una lettera che ha scritto al direttore dell’Organizzazione mondiale della Sanità. Provocando la reazione di Pechino: “Inganna l’opinione pubblica e infanga la Cina” per coprire “la risposta maldestra” degli Stati Uniti alla pandemia. Che cosa è successo, Trump vuole stravincere? No. Se andiamo dietro ai titoli dei giornali vediamo che la bozza di risoluzione presentata dall’Unione Europea è una vittoria della Cina. Tra i primi a muoversi nella richiesta di un’indagine era stata l’Australia, e via via altri paesi si sono accodati alla richiesta di indagare su una pandemia costata finora al mondo quasi 5 milioni contagi e più di 300mila vittime. Ma poi la settantatreesima assemblea annuale dell’OMS, in video conferenza, è scivolata su una bozza molto più morbida: sette pagine in cui non viene nominata neppure una volta la Cina. Un capolavoro per non irritare Pechino, redatto dall’Unione Europea, e firmato da tutti gli altri, dalla Gran Bretagna alla Russia, tranne che dagli Stati Uniti. Messi nell’angolo dall’Alto rappresentante per la Politica estera dell’Unione Europea, Josep Borrell, che tramite una portavoce ha ribadito la necessità di uno “sguardo indipendente” su quello che è accaduto, e che “l’Europa dovrebbe stare fuori rispetto a questa battaglia fra gli Usa e la Cina che si lanciano accuse reciproche”. Nella bozza di risoluzione si chiede una “valutazione imparziale, indipendente ed esaustiva” della “efficacia del meccanismi a disposizione dell’Oms e della loro tempistica rispetto alla pandemia della Covid-19”. Sette pagine in cui la parola “Cina” non viene mai menzionata, come se il virus fosse giunto da Marte, o fosse innominabile. Che vuol dire? Vuol dire che Pechino ha un peso crescente anche in Europa, o almeno che gli Stati Uniti di Trump hanno un peso decrescente nella classe dirigente europea, e non solo. Vuol dire che le sirene di Xi Jinping hanno funzionato: formalmente non chiude all’inchiesta, ma si farà alla fine. “Ci vorrà un’indagine esaustiva sulla Covid-19 basata sulla scienza ed eseguita con professionalità, ma solo quando l’emergenza sarà sotto controllo”, ha affermato, ribadendo che “la Cina ha agito con trasparenza e rapidità, fornendo tutte le informazioni in tempo utile e aiutando con tutti i mezzi i Paesi che ne avevano bisogno”. A Trump che minaccia di decimare il contributo americano all’OMS, Pechino risponde impegnandosi a donare all’organizzazione due miliardi di dollari, e al mondo promette che se la Cina trovasse il vaccino anti Covid 19 ne farebbe “un bene pubblico mondiale”. Che il direttore dell’OMS Tedros Adhanom Ghebreyesus sia almeno “vicino” a Pechino non ci sono dubbi, e a dimostrarlo sta l’esclusione di Taiwan anche come solo “osservatore” dall’assemblea dell’organizzazione, per accontentare la Cina. Che l’OMS si sia mossa tardi e male, assecondando i silenzi della Cina, lo rivelano, se ve ne fosse bisogno, i tweet dell’OMS (nel suo acronimo inglese World Health Organisation). La novità è che anche il mondo si è avvicinato a Pechino, per interessi economici (dalla via della Seta ai due miliardi di dollari promessi ai paesi africani in difficoltà per la pandemia), per sabotare il tentativo di Trump di raddrizzare una campagna elettorale compromessa, per l’abilità diplomatica della Cina espressa dall’intervento in persona, in videoconferenza, di Xi Jinping.
Coronavirus, oltre 100 Paesi chiedono inchiesta indipendente sulle origini del Covid: la Cina frena. Redazione su Il Riformista il 18 Maggio 2020. Oltre 110 Paesi hanno appoggiato la bozza di risoluzione proposta dall’Unione Europea per un’inchiesta indipendente sulle origini del Coronavirus. La richiesta è stata presentata nel corso della 73esima assemblea legislativa dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, che si tiene oggi per la prima volta in forma virtuale. Oltre ai 27 paesi europei ci sono anche Russia, India, Giappone, Gran Bretagna, Canada e Indonesia tra i firmatari. Difendendosi di fronte alle accuse arrivate da più parti, il presidente cinese Xi Jinping ha rivendicato che “la Cina ha agito con trasparenza e rapidità, fornendo tutte le informazioni in tempo utile e aiutando con tutti i mezzi i Paesi che ne avevano bisogno” nell’emergenza coronavirus. Xi Jinping, pur precisando che “ci vorrà un’indagine esaustiva sul Covid-19 basata su scienza e eseguita con professionalità”, ha sottolineato che questa sarà possibile “solo quando l’emergenza sarà sotto controllo”. Anche il portavoce ministero degli Esteri Zhao Lijian ha aggiunto che “la stragrande maggioranza dei Paesi su scala globale crede che la pandemia non sia ancora finita”. Il presidente cinese ha anche annunciato che Pechino donerà due miliardi di dollari all’Organizzazione per combattere il coronavirus e che, se Pechino dovesse trovare un vaccino contro il Covid-19, ne farebbe “un bene pubblico mondiale”. Antonio Guterres, segretario generale dell’Onu, ha invece sottolineato che alcuni Paesi “hanno ignorato le indicazioni dell’Oms” sulla pandemia di coronavirus. Per Guterres infatti “non è il momento di un’indagine. Non abbiamo visto tanta unità tra i Paesi contro il coronavirus. In molti hanno ignorato le raccomandazioni dell’Oms”. Il segretario dell’Onu ha quindi invitato i 194 Paesi membri a restare uniti: “Quando ci saremo lasciati alle spalle il Covid, allora sì dovremo andare a fondo delle origini e delle responsabilità”. Dal segretario alla sanità americano Alex Azar è arrivata una conferma delle accuse portate avanti ormai da settimane dall’amministrazione Trump. “Il fallimento della risposta alla pandemia da parte dell’Oms costa molte vite umane”, ha sottolineato Azar. “L’Oms ha fallito in modo clamoroso nel fornire le informazioni sulla pandemia di coronavirus, questo non può accadere di nuovo”, ha spiegato il segretario alla sanità americano ribandendo così la posizione statunitense sulla responsabilità cinese dell’epidemia.
Paolo Becchi e quel tweet di Paolo Barnard del 2018: "Il prossimo virus artificiale e apocalittico". Il coronavirus era già nell'aria? Libero Quotidiano il 15 maggio 2020. Cita Paolo Barnard, elogiando. Paolo Becchi su Twitter recupera un vecchio post del 2018 del giornalista ex collaboratore di Gianluigi Paragone a La Gabbia, famose per le sue tesi complottiste e qualche eccesso verbale. Ma la sostanza di quel suo tweet vecchio di due anni, alla luce di quanto accaduto in questo 2020, è semplicemente esplosivo. Il dottor Simon Wian-Hobson, del prestigioso Istituto Pasteur di Parigi, ammetteva di essere in grado di trasformare l'Hiv, che da studioso conosceva alla perfezione, in un virus in grado di colpire anche le vie respiratorie. Un incrocio molto simile a quello che è oggi il coronavirus. E infatti la tesi è proprio questa: il prossimo virus pandemico sarebbe stato "artificial", cioè creabile in laboratorio, ed "apocalittico". Una triste realtà.
Alberto Fraja per “Libero quotidiano” il 14 maggio 2020. C' è chi avanza l' ipotesi secondo la quale il Codiv-19 sia nato in un laboratorio cinese a Wuhan e fatto volutamente sloggiare dalla provetta in cui era domiciliato con lo scopo di andare ad infettare mezzo mondo per ragioni le più arcane. Vero? Falso? Verosimile? Boh. Forse un dì sapremo. Di una cosa si può esser certi. Da che mondo è mondo, l' apparire di una pandemia dalle origini sconosciute ha sempre alimentato le più stravaganti ed immaginifiche teorie del complotto di cui la caccia all' untore non poteva che esserne l' immancabile corollario. Siamo insomma nell' ambito della logica del capro espiatorio: in assenza di una spiegazione scientifica, nel vuoto di una cura, ecco che, disordinatamente ed in modo inconsulto, per giustificare il male ignoto, fra la gente fa breccia la modalità barbara ed inconscia di inventarsi un colpevole.
Francesco Maria Galassi per “la Lettura - Corriere della Sera” il 20 maggio 2020. Hanno destato scalpore le dichiarazioni del segretario di Stato americano Mike Pompeo, che ha accusato la Cina di mentire sul coronavirus, addirittura dicendo che ci sarebbero prove schiaccianti sulla sua origine in laboratorio. Una nuova serie di smentite, tra cui quelle da parte della Cia e dell' esperto Anthony Fauci, uomo chiave della task force anti-Covid-19 del presidente Trump, non paiono appagare gli animi di tante persone che, vuoi amanti delle teorie del complotto, vuoi confuse dalla mole di informazioni contrastanti, rimangono dubbiose. La comunità scientifica si è espressa tuttavia già numerose volte, rimarcando come non ci sia alcuna evidenza solida a supporto della tesi che vuole Sars-CoV-2 fuoriuscito dal laboratorio di Wuhan. L' informazione genetica del patogeno, sequenziata dagli scienziati e pubblicata su prestigiose riviste, mostra infatti un' origine animale del virus, senza bisogno di chiamare in causa manipolazioni ipotizzate anche da Luc Montagnier, premio Nobel nel 2008 ma da tempo su posizioni antiscientifiche, dallo scetticismo sui vaccini alla papaya usata come terapia del Parkinson. Anche l' ipotesi, benché almeno teoricamente contemplabile, di una fuoriuscita accidentale del virus, seppure naturale e non creato dall' uomo, rimane campata per aria in mancanza di prove valide. Sin dall' antichità l' uomo ha ricercato spiegazioni semplici, monofattoriali, a fenomeni complessi come le epidemie. L' Iliade si apre non a caso con la descrizione di un' epidemia che finisce per decimare l' esercito acheo, la cui origine viene attribuita all' ira divina, in particolare di Apollo, per il comportamento empio del condottiero Agamennone, reo di avere offeso il sacerdote Crise (e di conseguenza Apollo stesso) non rendendogli la figlia Criseide, prigioniera. L' attenzione è stata giustamente posta su questa primitiva eziologia divina del morbo, ma si è considerato molto meno un altro aspetto, ossia di chi patisca per primo la malattia: sono infatti i muli e i cani a essere colpiti; gli uomini vengono solo in seconda battuta. In questi versi c' è, dunque, la prima descrizione di una zoonosi, malattia che passa dall' animale all' uomo, retaggio della grande rivoluzione agricola neolitica del 10.000 a.C., che ha portato specie selvatiche e specie umana a un intimo e assiduo contatto. Dal morbo acheo al Covid-19 si è sempre trattato di zoonosi e di meccanismi comparabili tra loro, inclusa la reazione umana dinanzi all' incapacità di contrastare germi invisibili e mortiferi. Se ai tempi di Omero la colpa veniva data al comportamento empio degli uomini e all' ira divina, con il passare dei secoli si andrà sempre meglio definendo la figura dell' untore, persona responsabile nell' immaginario collettivo di diffondere una malattia infettiva. Questo termine era molto utilizzato nel Cinquecento e nel Seicento per indicare coloro che avrebbero volutamente diffuso la peste spargendo unguenti venefici in luoghi pubblici, come raccontato da Alessandro Manzoni per l' epidemia milanese del 1630, ma, seppure con definizioni diverse, ha una storia ben più antica. Racconta lo storico greco Tucidide che durante la guerra peloponnesiaca, nel 430 a.C., allo scoppio dell' epidemia, logicamente esacerbata dal sovraffollamento della città di Atene dovuto alla strategia difensiva di Pericle, venne data la colpa ai nemici Spartani, i quali avrebbero avvelenato i pozzi. Questa diceria, a cui peraltro Tucidide stesso non dà credito, era rinforzata dal ricordo di una precedente profezia oracolare che aveva previsto l' arrivo della guerra contro gli Spartani e il sopraggiungere di una pestilenza. Avvicinandoci ai nostri giorni le cose non andranno migliorando da questo punto di vista, come testimoniano gli eccidi di massa di ebrei e lebbrosi nel XIV secolo quando la peste nera imperversava sul continente europeo, mietendo milioni di vittime. È tuttavia interessante sottolineare come alcuni storici siano dell' opinione che non ci sia una relazione causale diretta tra violenza dell' epidemia e volontà di sterminio di queste categorie sociali, bensì come le ragioni profonde fossero timori religiosi, desiderio di profitto e interessi politici. In buona sostanza, la peste fu l' occasione a lungo attesa per un regolamento di conti. La peste del Trecento rimase in Europa sino ai primi decenni del Settecento e continuò a mietere vittime, ripresentandosi ciclicamente in ondate epidemiche, tra cui la peste manzoniana. Nel Seicento l' untore fu identificato alternativamente con il demonio (retaggio di forze oscure), con numerose figure politiche di spicco del tempo o con i monatti, addetti alla raccolta dei cadaveri dei deceduti per peste. Nel Cinquecento l' arrivo della sifilide dalle Americhe in seguito ai viaggi di Cristoforo Colombo fu attribuito a varie potenze straniere: per molti europei era il «mal francese», per i francesi «il mal napoletano», mentre i partenopei lo chiamavano «il mal spagnolo». In questo caso alla ricerca dell' untore si associava, come ai tempi di Tucidide, l' odio per un nemico politico-militare, di cui si è tristemente visto un riflesso nelle polemiche agli inizi della crisi attuale, quando è stata colpevolizzata l' Italia (dopo la Cina) di essere incapace di gestire l' epidemia. Fenomeni simili si ripresenteranno in seguito, basti pensare allo stigma sociale sugli omosessuali, accusati di essere gli untori allorché la nuova grande pandemia di Aids (causata dal virus dell' Hiv) sconvolse l' equilibrio fra specie patogene presenti nella nostra specie e prese, come malattia sessualmente trasmessa, lo spazio appartenuto nei secoli precedenti alla sifilide, ormai indebolita dalla penicillina. Infine, a volte nella storia è stato il medico stesso a essere accusato di un' epidemia: pensiamo solo al caso degli operatori sanitari barbaramente trucidati in Guinea nel 2014 mentre erano in Africa per aiutare le popolazioni locali nel tentativo di contenere l' avanzata dell' Ebola, malattia acuta virale particolarmente letale. Se il Sars-CoV-2 ha dimostrato la nostra impreparazione, ha ancora di più messo a nudo la nostra umanità in tutte le sue contraddizioni e debolezze, male costituzionale endemico alla nostra specie da tempo immemorabile e curabile solo con uno studio serio della storia, anche e soprattutto della medicina.
Facebook. Da Voci Uniformi il 24 febbraio 2020. Manzoni non l’aveva vista, la peste, ma aveva studiato documenti su documenti. E allora descrive la follia, la psicosi, le teorie assurde sulla sua origine, sui rimedi. Descrive la scena di uno straniero (un “turista”) a Milano che tocca un muro del duomo e viene linciato dalla folla perché accusato di spargere il morbo. Ma c’è una cosa che Manzoni descrive bene, soprattutto, e che riprende da Boccaccio: il momento di prova, di discrimine, tra umanità e inumanità. Boccaccio sì che l’aveva vista, la peste. Aveva visto amici, persone amate, parenti, anche suo padre morire. E Boccaccio ci spiega che l’effetto più terribile della peste era la distruzione del vivere civile. Perché il vicino iniziava a odiare il vicino, il fratello iniziava a odiare il fratello, e persino i figli abbandonavano i genitori. La peste metteva gli uomini l’uno contro l’altro. Lui rispondeva col Decameron, il più grande inno alla vita e alla buona civiltà. Manzoni rispondeva con la fede e la cultura, che non evitano i guai ma, diceva, insegnavano come affrontarli. In generale, entrambi rispondevano in modo simile: invitando a essere uomini, a restare umani, quando il mondo impazzisce. Cristina Comellini
LA PESTE DI ATENE NEL 430 A.C. Di casi del genere la storia ne offre a frotte. Tucidide attribuì la peste che fece strage di ateniesi nel 430 a.C. e di cui fu puntuale e scrupoloso cronista, ai veleni gettati dai nemici spartani (si era in piena guerra del Peloponneso) nelle cisterne del porto del Pireo. Veleni ricavati da dove non è dato sapere. Questa modalità di diffusione di sostanze venefiche verrà più innanzi definita da Seneca "pestilenza manufatta".
PESTE NERA NEL 1347. LE BOLLE PONTIFICIE. La colpa del dilagare della terribile Peste Nera del 1347 venne attribuita agli ebrei. Come racconta la storica Anna Foa nel suo Ebrei in Europa: dalla peste nera all' emancipazione, ai primi contagi cominciò a circolare l' accusa che il popolo di Abramo avesse avvelenato fonti e pozzi. La calunnia non rimase senza conseguenze. Cominciata in Savoia, la caccia all' uomo si diffuse presto in tutto il continente. Per calmare gli animi, ci vollero le due bolle pontificie nelle quali papa Clemente VI dimostrava che a morire erano anche gli ebrei medesimi, ragione per la quale mai essi avrebbero avuto interesse a causare il morbo intenzionalmente. Legata al complottismo magico-esoterico è la psicosi che percorse l' Europa centrale e l' America tra il XV e il XVIII secolo che attribuiva ad alcuni povericristi la responsabilità di diffondere malattie tra uomini e bestie di cui, ça va sans dire, si ignorava l' origine. Lo stigma, con conseguente condanna a morte, cadde soprattutto su donne (levatrici, prostitute, praticanti di riti medici o ascetici), mistici, ed eretici. A calare nella untore in letteratura è un classico.
PESTE NERA NEL 1630. CONDANNA DI GIAN GIACOMO MORA. Il caso più noto riguarda Gian Giacomo Mora e Guglielmo Piazza, la cui storia è raccontata anche da Alessandro Manzoni ne I promessi sposi e nella Storia della colonna infame, i due romanzi ambientati nella Lombardia del 1630, devastata dalla peste. Mora e Piazza, rispettivamente barbiere e commissario di Sanità a Milano, finirono sul patibolo poiché considerati untori dell' epidemia di peste nera che uccise oltre un milione di persone.
COLONNA INFAME. I due, a lungo interrogati e torturati dalle autorità, finirono per confessare una colpa di cui non si erano mai macchiati, quella di ungere le porte delle abitazioni del quartiere di Porta Ticinese, a Milano, e di diffondere il morbo. Un' accusa terribile, al punto che al posto del negozio di Mora venne costruito un monumento che avrebbe dovuto fungere da monito contro gli untori: la colonna infame. E che dire delle accuse di veneficio sorte negli anni Trenta dell' 800 durante l' erompere di una epidemia di colera? Neppure in quel caso tardarono a nascere teorie strampalate: in Basilicata si sparse la convinzione che a irrigare i campi di sostanze mortali fossero stati possidenti e uomini benestanti. Motivo? I ricconi si sarebbero sentiti minacciati nei loro interessi dall' aumento della popolazione e avrebbero pertanto proceduto ad una sorta di decrescita demografica forzata diffondendo infezioni mirate. Di episodi di ferocia ai danni di uomini, donne e forestieri, accusati di essere diffusori di malattie parla anche Giovanni Verga nella novella Quelli del colera contenuta nella raccolta Vagabondaggio. E rivolte attribuibili alla credenza nella senechiana "peste manufatta" scoppiarono nel 1910-1911, durante l' ennesima epidemia di colera, quando folle inferocite soprattutto nel Sud si scagliarono contro amministratori, medici, e persino contro il re Vittorio Emanuele III, accusandoli di voler sterminare la povera gente diffondendo il morbo attraverso una "polveretta". Capitolo "influenza spagnola". La sua genesi fu attribuita alla guerra batteriologica dei tedeschi. Negli Stati Uniti finirono davanti al plotone d' esecuzione ufficiali, infermieri e personale sanitario accusati dai aver inoculato la malattia nelle truppe dirette in Europa dove avrebbero combattuto nella Prima Guerra- Morale. Per abbattere la meneghina colonna infame ci sono voluti 150 anni. Per cancellare la caccia ai capri espiatori, invece, non si è ancora trovata cura.
Coronavirus, parla Zaia: “Se perde forza vuol dire che è artificiale”. Jacopo Bongini il 10/05/2020 su Notizie.it. Durante una conferenza stampa presidente veneto Luca Zaia ha condiviso la discussa teoria secondo cui il coronavirus avrebbe un'origine artificiale. Per Luca Zaia il coronavirus il presunto indebolimento della pandemia di coronavirus sarebbe correlato a un’origine artificiale del Sars-CoV-2. È quanto affermato dal presidente del Veneto durante la consueta conferenza stampa giornaliera sul bilancio dell’emergenza sanitaria nella regione. Zaia ha infatti condiviso la teoria, fortemente discussa anche negli stessi ambienti scientifici, secondo cui il coronavirus sarebbe stato creato artificialmente in laboratorio. Nel corso dell’aggiornamento quotidiano sull’emergenza coronavirus in Veneto, che ormai da settimane mostra un andamento decrescente dei contagi e dei decessi, il presidente Zaia ha affermato: “Posso dire una cosa che magari farà incazzare qualcuno? Se perde forza vuol dire che è artificiale. Un virus in natura non perde forza con questa velocità, se perde forza probabilmente potrebbe essere un virus artificiale. Noi notiamo che la fase del contagio è una fase meno rappresentata oggi: ci sono le temperature, c’è un virus spompato, magari se ne va definitivamente e non abbiamo neanche la recidiva autunnale”. A un certo punto però il governatore del Veneto preferisce mettere le mani avanti, dichiarando che la sua opinione non è quella di uno scienziato. Tutto ciò nonostante egli stesso sia laureato in Scienze della Produzione Animale presso la Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università di Udine: “Se volete che vi dia la mia personale opinione – ma non di scienziato – io son d’accordo con questo scienziato. Si è scritto molto su questa storia del virus che se ne va velocemente e se se ne va velocemente secondo me c’è di mezzo qualcosa di artificiale“. Il presidente Zaia sposa quindi in toto la linea del suo segretario Matteo Salvini, che nei mesi scorsi aveva più volte rilanciato l’ipotesi di un’origine artificiale del coronavirus condividendo ad esempio l’ormai noto servizio del Tgr Leonardo del 2015 in cui venivano illustrati degli esperimenti su un altro tipo di coronavirus.
Giuseppe Sarcina per il “Corriere della Sera” il 6 maggio 2020. Il Dipartimento dell' Istruzione «ha aperto indagini su diverse università» per accertare se siano diventate «piattaforme per la propaganda del partito comunista cinese». È uno dei passaggi di una lettera singolare, a metà tra l' elogio e la richiesta di informazioni, inviata alla ministra Betsy DeVos da sette deputati repubblicani di spicco, vice presidenti delle Commissioni della Camera coinvolte nella gestione del Covid-19. È un' operazione totalmente iscritta nello spazio politico trumpiano. DeVos viene da una famiglia miliardaria che ha generosamente finanziato la campagna di Donald Trump nel 2016. I firmatari fanno parte dell' ala più conservatrice del partito repubblicano, la più vicina al presidente. Ecco i nomi: Jim Jordan (Commissione Controllo e Riforma); Virginia Fox (Istruzione e Lavoro); Michael Rogers (Sicurezza Interna); Frank Lucas (Scienza, Spazio e Tecnologia); Devin Nunes (Intelligence); Mac Thornbery (Forze Armate) e Michael McCaul (Affari esteri). Il testo prende le mosse dall' emergenza pandemia: «Dear Secretary DeVos, grazie alla sua leadership il Dipartimento ha cercato di aumentare la trasparenza e ridurre la dipendenza delle università dagli investimenti stranieri. Le recenti rivelazioni sulle mosse della Cina per sopprimere la ricerca accademica sull' origine del Covid-19 sottolineano l' importanza dei suoi sforzi... La Cina ha investito strategicamente nel mondo accademico americano nel tentativo di rubare informazioni confidenziali e tecnologiche dalle aziende Usa e persino dal Governo federale. Inoltre la Cina offre denaro per influenzare i nostri Istituti di alto livello, nello stesso tempo sta intralciando gli studi sull' origine del Covid-19 che non siano legati alla propaganda del partito comunista cinese. La vostra inchiesta è complementare alle intenzioni dei parlamentari repubblicani di indagare sulla propaganda del governo cinese e delle operazioni di copertura che contornano la pandemia». Il puntello giuridico è una legge del 1965 (The Higher Education Act) che impone ai singoli atenei di rendere pubblici le donazioni ricevute da «entità straniere». «Da tempo - proseguono i sette - siamo preoccupati per le potenzialità a disposizione del governo cinese di usare investimenti strategici in modo da trasformare i campus americani in piattaforme per indottrinare gli studenti. Un rapporto del 2018 della Hoover Institution aveva segnalato la presenza di circa 110 Confucio Institute nei college e oltre 500 corsi Confucio nelle scuole secondarie che si presentano come centri studio di lingua e e cultura cinesi ma in realtà c' è il rischio che diventino veicoli di propaganda del partito comunista...». Ma non è solo una questione di vigilare sui programmi e sui contenuti dei corsi. Il documento rivela che il ministero ha già iniziato «un monitoraggio» sui «ricercatori stranieri», i cinesi in particolare. I deputati ora chiedono al Segretario DeVos di spingere i «leader di college e università» a fare di più: «Apprezziamo il fatto che molti dirigenti scolastici stiano cominciando a capire la minaccia posta dallo spionaggio accademico e stiano collaborando con l' Amministrazione e gli agenti federali (l' Fbi, ndr )...Tuttavia ci sono continue segnalazioni che riguardano singoli membri delle facoltà e ricercatori che possono mettere in pericolo la sicurezza nazionale». E qui viene evocato il caso del professor Charles Lieber, presidente del Dipartimento di Chimica e Biologia alla Harvard University, arrestato il 28 gennaio 2020 con l' accusa di aver reso dichiarazioni «false, fittizie e fraudolenti». In concreto Lieber «aveva nascosto la sua associazione dietro a un programma del governo cinese per reclutare scienziati stranieri e per compensare gli individui disposti a rubare informazioni coperte dai diritti di proprietà». Lieber, tra l' altro, era «Strategic Scientist» alla University of Tecnology di Wuhan, la città da cui è partita la pandemia. Conclusione: i parlamentari chiedono al Dipartimento «Informazioni, documenti e comunicazioni» che riguardano donazioni straniere ricevute non solo dalle scuole, ma anche dal «personale delle facoltà o dai professori dal 1° gennaio 2018 fino a oggi». Il piano è convincere i presidenti democratici delle Commissioni ad avviare un ciclo di inchieste sulle manovre di Pechino. Per i progressisti sarà un problema rifiutare. Ormai anche Biden cavalca l' onda anti-cinese.
Dalla rassegna stampa di Epr Comunicazione il 6 maggio 2020. Con l'intensificarsi del confronto degli Stati Uniti con la Cina, l'amministrazione Trump potrebbe commettere un classico errore americano: sopravvalutare la competenza tecnologica dell'avversario e la sua capacità di controllare gli eventi, scrive il Washington Post. Lo scoppio a Wuhan del nuovo coronavirus dimostra quanto sia stato lacunoso e disordinato lo stato di polizia cinese nelle prime settimane della pandemia. La risposta di Pechino è stata quella di sopprimere e manipolare le informazioni, in patria e all'estero. I funzionari dell'amministrazione Trump hanno dipinto questo come un complotto cinese contro l'Occidente, ma sembra più un frenetico sforzo da parte di uno Stato monopartitico per sopravvivere a una crisi interna. Quando la pandemia si sarà placata, la battaglia economica globale tra Stati Uniti e Cina continuerà. Al centro di questo concorso ci sarà Huawei, l'azienda di telecomunicazioni che è il campione cinese della tecnologia. L'amministrazione Trump ha intrapreso una guerra su più fronti contro Huawei, cercando di bloccare il trasferimento di tecnologia statunitense mettendo la società in una "lista di entità" di pericolosi concorrenti, e facendo pressione sulla Gran Bretagna e su altri alleati affinché non acquistino l'attrezzatura Huawei per le loro reti 5G. Questa campagna anti-Huawei trascura due fattori nascosti che potrebbero avere più successo del tentativo di rafforzare gli alleati: primo, Huawei è un produttore di software inefficiente e a volte inadeguato. L'intelligence britannica, che ha studiato i sistemi Huawei per un decennio, li ha trovati pieni di pericolosi malfunzionamenti. In secondo luogo, l'approccio di Huawei alla tecnologia 5G potrebbe presto essere sostituito da un'architettura migliore sperimentata da aziende statunitensi e giapponesi. Spiega Kurt Campbell, lo stratega capo dell'Asia durante l'amministrazione Obama, che ora è a capo di una società di consulenza: "Come in passato - con il presunto "gap missilistico" tra noi e i sovietici negli anni '50 e la presunta inarrestabile economia giapponese negli anni '80 - abbiamo idealizzato Huawei. L'azienda non è il portento rappresentato dai media". La migliore prova delle gravi carenze di Huawei è contenuta in documenti tecnici non classificati preparati dal National Cyber Security Center britannico, parte della sua super-segreta agenzia GCHQ. Poiché la Gran Bretagna fa affari con Huawei da un decennio, un consiglio di sorveglianza controlla le sue pratiche di sicurezza. Ciò che il consiglio ha scoperto è stato un design del software sorprendentemente scadente. L'ultimo rapporto di supervisione, pubblicato nel marzo 2019, ha offerto una valutazione devastante. Ha trovato "diverse centinaia" prove di vulnerabilità nel software Huawei, tra cui errori di resistenza del protocollo che portano al diniego del servizio, debolezze crittografiche, credenziali di default e molti altri tipi di vulnerabilità di base". In termini profani, ciò significa che il software di Huawei aveva tanti buchi quanti il formaggio svizzero. Nel complesso, ha detto il consiglio di amministrazione, "ci sono stati pochi miglioramenti" nell'eliminazione dei "difetti gravi e sistematici". Il consiglio ha detto che potrebbe dare "solo una garanzia limitata" sulla sicurezza e la protezione. E questi sono solo i difetti causati da una codifica approssimativa. Non includono le porte di servizio e gli strumenti maligni e deliberati che i funzionari statunitensi credono che Huawei abbia nascosto nei suoi prodotti. I difetti di Huawei erano così gravi che il ministro degli Esteri britannico Dominic Raab a gennaio ha designato l'azienda come "fornitore ad alto rischio", la cui quota di mercato dovrebbe essere limitata al 35 per cento. Huawei rappresenta una minaccia non perché abbia grandi prodotti, ma perché ha così poca concorrenza. I suoi prodotti 5G telecom sono articoli economici e a basso profitto; le aziende statunitensi sono rimaste per lo più lontane, e i rivali europei come Nokia ed Ericsson sono stati pigri. Huawei, secondo le stime di un esperto, ha l'80% del mercato cinese e si avvicina al 45% del mercato mondiale, continua ad aumentare la sua quota. Ma ogni tecnologia alla fine viene interrotta, e gli esperti dicono che questo accadrà al 5G. Un nuovo approccio noto come O-RAN (che sta per Open Radio Access Networks) un giorno sostituirà l'hardware di Huawei con reti guidate da software che saranno più veloci e più sicure. A sostegno di questo approccio c'è un'alleanza di 23 importanti aziende di telecomunicazioni, tra cui AT&T e Verizon. Costruire un percorso per questa nuova tecnologia - e dare alle aziende alternative alla firma di contratti a lungo termine con una tecnologia Huawei in declino - dovrebbe essere il vero obiettivo della politica statunitense. Un disegno di legge bipartisan è stato introdotto dal Sen. Mark R. Warner (D-Va.) e dal Sen. Richard Burr (R-N.C.) per fornire 750 milioni di dollari per la ricerca O-RAN e, nelle parole di Warner, per "creare una 'coalizione dei volenterosi' di aziende e paesi che possano aiutare a creare una reale concorrenza a Huawei". Pensate a Huawei come al telefono Bell o all'IBM di oggi. Sta arrivando un turbine di concorrenza, se il suo potere monopolistico verrà controllato.
Il mistero del laboratorio di Wuhan da cui sarebbe uscito il coronavirus. Antonio Selvatici su Il Riformista il 6 Maggio 2020. Cina: Coronavirus militarizzato? Il generale medico virologo Chen Wei guida l’Academy of Military Medical Sciences, istituto affiliato all’Esercito popolare di liberazione. A metà gennaio, alcuni giorni prima del lockdown, insieme ad un team di esperti scienziati militari si sono presentati al Wuhan Institute of Virology assumendo la direzione del laboratorio con il più alto livello di sicurezza: un commissariamento manu militari. Chen Wei è famosa biologa ma anche alto membro della nomenclatura: nel 2018 è stata nominata a far parte della Conferenza consultiva del popolo cinese, il principale organo di consulenza del paese. Recentemente il generale medico ha ricevuto l’approvazione per avviare studi clinici sul vaccino, conduce test in collaborazione con la società di biotecnologia CanSino Biologics quotata ad Hong Kong. Un intreccio tra il settore farmaceutico privato e quello militare che non stupisce: molteplici gli incroci tra il Coronavirus made in China e le attività militari. All’interno del Wuhan Institute of Virology gli uomini dell’esercito sono sempre stati presenti: nell’organigramma risulta il Military Management Office del Science and Technology Development Department. Inoltre, dopo che la Cina ha diffuso il genoma del Covid-19 si è notato come era compatibile al novanta per cento con quello dei pipistrelli di Zhoushan della provincia di Zhejang pubblicato dall’Institute di Military Medicine di Nanjing nel gennaio del 2018. Il militarizzato Wuhan Institute of Virology sembra essere diventato il perno scientifico del Covid-19 e del suo vaccino: non solo la CanSino Biologics, ma un‘altra casa farmaceutica cinese, la China National Pharmaceutical Group (Sinopharm), si avvale della collaborazione scientifica del istituto di ricerca ed è già passata alla fase di sperimentazione due-per lo sviluppo del vaccino, quello sugli esseri umani. A questo punto, considerando il vasto curriculum di pubblicazioni medico-scientifiche riguardanti il Coronavirus firmate da ricercatori dell’istituto di Wuhan, l’attenzione da parte delle case farmaceutiche cinesi che cercano il vaccino, le interferenze della struttura militare nella guida del laboratorio incriminato, mi sembra legittimo porsi alcune domande in merito alle attività svolte all’interno dell’Wuhan Institute of Virology. Alla vicenda si aggiungono altri interrogativi: è corretto affermare che Huang Yanling ricercatrice nel laboratorio Special Pathogens and Biosafety del Wuhan Institute of Virology è stata una delle prime persone contagiate dal Coronavirus? E che ogni prova della sua collaborazione all’interno del laboratorio è stata cancellate? Anche se non si può negare che la giovane ricercatrice da anni collaborasse con l’Istituto: è cofirmataria di una pubblicazione medico-scientifica del 2015 in cui, insieme ad altri studiosi, risultava lavorare all’interno del famoso laboratorio di Biosafety. Il primo articolo pubblicato su il Riformista riguardante il laboratorio risale al 31 gennaio. In tre mesi è stata fatta tanta strada, l’argomento non è più una disquisizione per pochi ma ha assunto un importante significato politico. Anzi, di arma da utilizzare nell’inevitabile e previsto scontro tra Cina e Stati Uniti. E anche di scontro interno: Donald Trump ha più volte ipotizzato che il Covid-19 fosse stato prodotto all’interno di uno dei laboratori del Wuhan Institute of Virology: «Lì deve essere successo qualcosa di terribile. Può essere un errore, qualcosa si è sviluppato inavvertitamente, oppure qualcuno lo ha fatto di proposito». Della stessa opinione il segretario Mike Pompeo: «Ci sono numerose prove sul fatto che il coronavirus arrivi dal laboratorio di virologia di Wuhan». L’intelligence americana ha gettato acqua sul fuoco: il Coronavirus non è stato «creato dall’uomo né geneticamente modificato», però ha fatto sapere che continuerà ad indagare sulle origini della pandemia per verificare se siano legate al «contatto con animali infetti o se è stato il risultato di un incidente nel laboratorio di Wuhan». Anthony Fauci, virologo, capo della task-force anti Covid della Casa Bianca in un’intervista rilasciata al National Geographic ha dichiarato che il virus non è stato creato in laboratorio in Cina. La diatriba scientifica dirada parzialmente la nebbia che ancora avvolge molte questioni che riguardano la gestione del laboratorio di Wuhan.
(ANSA il 3 maggio 2020) - "Ci sono numerose prove sul fatto che il coronavirus arrivi dal laboratorio di virologia di Wuhan". Lo afferma il segretario di Stato americano Mike Pompeo. La Cina ha fatto tutto quello che ha potuto per tenere il mondo all'oscuro sul coronavirus. Lo afferma il segretario di Stato americano, Mike Pompeo, in un'intervista a Abc. La Cina "ha fatto tutto quello che ha potuto per assicurarsi che il mondo non sapesse in modo tempestivo" del coronavirus: "Questo è un classico sforzo di disinformazione comunista", ha aggiunto Pompeo.
Coronavirus creato in un laboratorio a Wuhan? Pompeo si contraddice. Il segretario di Stato americano durante un’intervista al programma ABC’s This week | CorriereTv il 5 maggio 2020. Durante un’intervista al programma ABC’s This week, il segretario di Stato americano Mike Pompeo si è contraddetto, nel giro di pochi secondi, sulla possibilità che il coronavirus sia stato creato in un laboratorio di Wuhan. La tesi è stata sostenuta più volte dallo stesso presidente degli Stati Uniti Donald Trump.
Media cinesi rispondono agli Stati Uniti: “Virus nato in laboratorio? Folli le tesi di Pompeo”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 4 Maggio 2020. Sono “folli ed evasive” le tesi del segretario di Stato americano Mike Pompeo secondo cui l’origine del virus Covid-19 risale a un laboratorio cinese nella città focolaio di Wuhan. Così i media cinesi hanno bollato le affermazioni di Pompeo. La tv si stato Cctv risponde quindi alle affermazioni del segretario di Stato che in un’intervista ad Abc aveva rincarato la dose di accuse nei confronti di Pechino sulle sue responsabilità per la pandemia da coronavirus. Pompeo aveva fatto riferimento a “enormi prove” e spiegato come la Cina continui “a impedire agli occidentali l’accesso ai laboratori”. Secondo il segretario di Stato, Pechino ha nascosto tutto e fatto in modo che non si sapesse tempestivamente dell’epidemia esplosa nella provincia dello Hubei. Già alcuni cablo di diplomatici americani avevano fatto riferimento a eventuali incidenti in laboratorio che avrebbero provocato la nascita del Covid. Lo stesso presidente Donald Trump aveva fatto riferimento al Covid come al “China virus“, per sottolineare le responsabilità di Pechino, e della creazione in laboratorio aveva parlato esplicitamente in una conferenza stampa aggiungendo di non essere autorizzato ad aggiungere dettagli. Già il Global Times aveva replicato alle accuse di Pompeo. Il tabloid pubblicato dal Quotidiano del Popolo, organo di stampa del Partito Comunista, aveva argomentato che Pompeo “dovrebbe presentare questa cosiddetta prova al mondo, e specialmente al pubblico americano che continua a cercare di ingannare. La verità è che Pompeo non ha alcuna prova, e durante l’intervista di domenica stava bluffando”. Secondo il tabloid, quella messo in atto dagli USA, sarebbe “una guerra propagandistica senza precedenti“. Anche secondo un rapporto dell’intelligence americana, rivelato da Bloomberg e consegnato alla Casa Bianca, la Cina avrebbe nascosto l’estensione e la diffusione del virus, sottostimandone i casi e i decessi. E poi un’inchiesta dell’Associated Press avrebbe imputato a Pechino un presunto ritardo nel comunicare l’emergenza. Anche la Cina ha lanciato le sue accuse provando a imputare la responsabilità del virus agli Stati Uniti: uno dei portavoce del ministero degli Esteri di Pechino, Zhao Lijian, aveva sostenuto che sarebbe stati i 300 militari dell’esercito statunitense, in occasione dei Giochi militari dell’ottobre 2019, a portare l’epidemia a Wuhan. In questi mesi sono circolate anche teorie complottiste, e prive di qualsiasi prova o fondamento, sul virus come arma chimica.
Coronavirus creato in laboratorio a Wuhan, l’Oms frena Trump: “Nessuna prova, speculazioni”. Redazione su Il Riformista il 4 Maggio 2020. Dopo il botta e risposta tra Usa e Cina, arriva l’Oms a fare chiarezza. L’Organizzazione mondiale della sanità afferma di non aver ricevuto prove o dati dal governo degli Stati Uniti a sostegno delle affermazioni del presidente Donald Trump e del segretario di Stato Mike Pompeo, secondo cui esisterebbero prove che il coronavirus sia nato in un laboratorio nella città cinese di Wuhan. “Dal nostro punto di vista, questo rimane speculativo”, ha dichiarato il capo delle emergenze dell’Oms, Michael Ryan. “Ma – ha aggiunto – come qualsiasi organizzazione che si basa su prove, saremmo pronti a ricevere qualsiasi informazione sull’origine del virus”. Ryan ha ribadito che le prove e i pareri che l’agenzia Onu ha ricevuto suggeriscono che il nuovo coronavirus sia di origine naturale, mentre Pompeo e Trump affermano di aver visto prove che suggeriscono possa provenire dall’Istituto di virologia di Wuhan. “Se tali dati e prove sono disponibili, spetterà al governo degli Stati Uniti decidere se e quando possono essere condivisi”, ha detto Ryan ai giornalisti a Ginevra. “Ma – ha aggiunto – è difficile per l’Oms operare in un vuoto di informazioni su questo specifico aspetto”. Domenica, Pompeo ha dichiarato ad Abc che esisterebbe “una quantità enorme di prove” sulla provenienza dal laboratorio di Wuhan.
Da repubblica.it il 5 maggio 2020. Anthony Fauci, come la maggior parte della comunità scientifica internazionale, non crede alla possibilità che il coronavirus provenga da un laboratorio cinese. In un'intervista a National Geographic, il massimo esperto americano di malattie infettive e membro della task force della Casa Bianca ha spiegato: "Se si guarda all'evoluzione del virus nei pipistrelli e a cosa c'è là fuori adesso, le prove scientifiche vanno fortemente nella direzione che il virus non avrebbe potuto essere manipolato artificialmente o deliberatamente". Secondo Fauci, "guardando all'evoluzione nel tempo tutto indica fortemente che questo virus si è evoluto in natura e poi ha saltato specie". Ma non è il solo. Che non ci siano al momento prove che lascino pensare che il coronavirus arrivi da un laboratorio di Wuhan, è quanto riferiscono anche fonti di intelligence citate dal Guardian e da Cnn. Il Five Eyes, l'alleanza di intelligence di Stati Uniti, Canada, Gran Bretagna, Australia e Nuova Zelanda, ritiene che Pechino non sia stata trasparente nel rilascio delle informazioni sulla diffusione del coronavirus ma niente indicherebbe una falla nel laboratorio che possa avere causato la pandemia. Anche altre due fonti, citate invece da Cnn, ritengono "altamente improbabile" che lo scoppio dell'epidemia possa essere il risultato di un incidente avvenuto in un laboratorio, e che si sia, invece, diffuso da un mercato di animali vivi. Il livello di certezza sulla possibilità che il virus si sia diffuso dal laboratorio di Wuhan espresso domenica scorsa dal segretario di Stato Usa, Mike Pompeo, e dal presidente Usa, Donald Trump, sarebbe, secondo una terza fonte proveniente da uno dei cinque Paesi dell'alleanza di intelligence citata dalla Cnn, molto al di là delle valutazioni operate. "Pensiamo che sia altamente improbabile che sia un incidente", ha dichiarato un funzionario diplomatico occidentale a conoscenza dei rapporti di intelligence citato dall'emittente Usa. "Più probabile che si sia sviluppato naturalmente e che il contagio umano sia avvenuto tramite la naturale interazione tra uomo e animali". Secondo la terza fonte citata dalla Cnn, infine, il mercato di Wuhan è "chiaramente" il luogo da cui si è diffuso il contagio, ma non è chiaro come il virus vi sia arrivato: in base a quanto emerso finora, senza maggiore cooperazione e trasparenza da parte della Cina è impossible dirlo con totale certezza, ed è anche possibile che gli Stati Uniti non stiano condividendo tutto il loro materiale di intelligence con gli altri membri del network. Pechino ha sempre negato con forza, anche se diverse cancellerie hanno mostrato dubbi sulla trasparenza delle autorità cinesi nella gestione di questa crisi.
Guido Olimpio per corriere.it il 5 maggio 2020. Quella che per alcuni era «poco più di una semplice influenza» si è tramutata nella guerra di influenza, con tante poste in gioco. Per Trump i cinesi hanno compiuto un errore mostruoso e non vogliono ammettere che il virus è uscito dal laboratorio di Wuhan. Pechino risponde con i suoi media: sono pazzie, dimostrate ciò che sostenete. Una conferma che dovrebbe arrivare dall’intelligence, però restia a diventare una sponda a comando della Casa Bianca e dunque trincerata dietro un approccio investigativo: indaghiamo con energia sullo scenario dell’errore nel centro ricerche, escludiamo che sia stato creato o manipolato dall’uomo. Dichiarazione ufficiale con tanto di timbro — data 30 aprile — fatta seguire da indiscrezioni anonime interessanti. Non siamo certi — dicono le fonti — di poter trovare la prova regina, quella del laboratorio è una delle molte teorie. E tre funzionari (sempre senza nome) citati dalla CNN hanno rafforzato il messaggio indicando come la tesi dello sbaglio compiuto dai ricercatori sia «altamente improbabile».
I rapporti. Il presidente americano ha rilanciato alludendo a documenti importanti ed ha annunciato che presto sarà diffuso un rapporto. Ha letto materiale di intelligence grezzo? Si è lasciato scappare qualcosa che gli è stato raccontato durante i briefing mattutini? Lo vedremo. L’Associated Press riferisce dell’esistenza di un report di 4 pagine — data primo maggio — redatto dall’Homeland Security dove la Cina è accusata di aver creato una cortina fumogena dietro la quale ha celato la gravità della crisi, ha accumulato materiale medico, ha sfruttato a suo vantaggio l’emergenza lasciando la comunità internazionale al buio. Un comportamento che avrebbe ingannato anche l’Oms e favorito i giochi futuri di Pechino in ambito economico.
Gli alleati. L’analisi potrebbe trovare consenso nei partner degli Stati Uniti. Francia, Gran Bretagna, Germania e Australia hanno assunto una posizione di doppio livello: 1) A livello ufficiale non sposano la tesi del laboratorio. 2) Vogliono che il gigante asiatico dia tutti i chiarimenti necessari. È possibile che la narrazione occidentale segua questo sentiero, insistendo sulla necessità di avere ogni dato possibile per combattere la pandemia. Alcuni di questi punti sono emersi nell’altro report, condiviso dai servizi di Australia, Usa, Canada, Gran Bretagna e Nuova Zelanda. I cinesi avrebbero distrutto elementi cruciali per comprendere l’evoluzione del Covid-19 e messo il bavaglio a qualsiasi voce non ufficiale. Di nuovo un comportamento che potrebbe dare munizioni a chi è pronto a chiedere un risarcimento dei danni. Naturalmente va provato e servirebbe un’inchiesta internazionale, istanza bocciata dalla Cina. Va sottolineato che gli interrogativi, con gradazioni diverse, tra gli alleati sono circolati attorno al 20 aprile, forse frutto di segnalazioni generiche degli 007.
Le spie. Si torna, allora, a guardare alle spie. A eventuali gole profonde, a intercettazioni, a dettagli che possono emergere dalle conoscenze personali. Wuhan, in questi anni, ha collaborato con istituti nordamericani, francesi e australiani. Sono sempre ipotesi, non certezze. Tra l’altro la maggioranza degli scienziati interpellati in Occidente esclude dolo o manipolazioni a tavolino. Restano aspetti chiave da decifrare sulla trasmissione del virus.
I timori. Lo stesso Trump, poi, non è immune da critiche, avendo perso tempo prezioso prima di dichiarare l’emergenza e cambiato idea spesso sul tema. Inizialmente aveva persino ringraziato Xi Jinping, poi ha ingaggiato il duello abbracciando la linea dura appoggiato dai «falchi». Per motivi strategici ed elettorali. Non è comunque solo The Donald a doversi preoccupare. L’agenzia Reuters ha pubblicato la sintesi di un’analisi preparata dal think tank cinese Cicir, affiliato al ministero della Sicurezza, dove si avverte la dirigenza del Paese sui gravi contraccolpi della pandemia: ci sarà un sentimento globale di condanna simile a quello provocato dalla repressione della Tienanmen, nell’89. E se lo stato di tensione dovesse proseguire la Cina deve prepararsi ad uno scontro armato. Ma quest’ultima annotazione non è diretta a Xi Jinping, bensì agli avversari.
Da repubblica.it il 5 maggio 2020. Anthony Fauci, come la maggior parte della comunità scientifica internazionale, non crede alla possibilità che il coronavirus provenga da un laboratorio cinese. In un'intervista a National Geographic, il massimo esperto americano di malattie infettive e membro della task force della Casa Bianca ha spiegato: "Se si guarda all'evoluzione del virus nei pipistrelli e a cosa c'è là fuori adesso, le prove scientifiche vanno fortemente nella direzione che il virus non avrebbe potuto essere manipolato artificialmente o deliberatamente". Secondo Fauci, "guardando all'evoluzione nel tempo tutto indica fortemente che questo virus si è evoluto in natura e poi ha saltato specie". Ma non è il solo. Che non ci siano al momento prove che lascino pensare che il coronavirus arrivi da un laboratorio di Wuhan, è quanto riferiscono anche fonti di intelligence citate dal Guardian e da Cnn. Il Five Eyes, l'alleanza di intelligence di Stati Uniti, Canada, Gran Bretagna, Australia e Nuova Zelanda, ritiene che Pechino non sia stata trasparente nel rilascio delle informazioni sulla diffusione del coronavirus ma niente indicherebbe una falla nel laboratorio che possa avere causato la pandemia. Anche altre due fonti, citate invece da Cnn, ritengono "altamente improbabile" che lo scoppio dell'epidemia possa essere il risultato di un incidente avvenuto in un laboratorio, e che si sia, invece, diffuso da un mercato di animali vivi. Il livello di certezza sulla possibilità che il virus si sia diffuso dal laboratorio di Wuhan espresso domenica scorsa dal segretario di Stato Usa, Mike Pompeo, e dal presidente Usa, Donald Trump, sarebbe, secondo una terza fonte proveniente da uno dei cinque Paesi dell'alleanza di intelligence citata dalla Cnn, molto al di là delle valutazioni operate. "Pensiamo che sia altamente improbabile che sia un incidente", ha dichiarato un funzionario diplomatico occidentale a conoscenza dei rapporti di intelligence citato dall'emittente Usa. "Più probabile che si sia sviluppato naturalmente e che il contagio umano sia avvenuto tramite la naturale interazione tra uomo e animali". Secondo la terza fonte citata dalla Cnn, infine, il mercato di Wuhan è "chiaramente" il luogo da cui si è diffuso il contagio, ma non è chiaro come il virus vi sia arrivato: in base a quanto emerso finora, senza maggiore cooperazione e trasparenza da parte della Cina è impossibile dirlo con totale certezza, ed è anche possibile che gli Stati Uniti non stiano condividendo tutto il loro materiale di intelligence con gli altri membri del network. Pechino ha sempre negato con forza, anche se diverse cancellerie hanno mostrato dubbi sulla trasparenza delle autorità cinesi nella gestione di questa crisi.
Federico Rampini per “la Repubblica” il 5 maggio 2020. «Qualsiasi cosa sia accaduta nei laboratori di Wuhan, la Cina ha responsabilità gravi verso il mondo intero. Andremo verso una nuova Guerra fredda se Donald Trump cala pesantemente nei sondaggi ». Chi parla è Ian Bremmer, il presidente di Eurasia Group, e uno dei massimi esperti mondiali di geopolitica.
Lei che idea si è fatto sulla consistenza delle ultime accuse di Trump e Mike Pompeo alla Cina, sull' origine del virus?
«Sia che il virus sia passato dall' animale all' uomo per un incidente di laboratorio, oppure in un mercatino di selvaggina, resta il fatto che l' origine è stata a Wuhan. Inoltre sappiamo con certezza che il governo cinese per un mese ha nascosto la verità: al suo popolo e al mondo. Nel frattempo mezzo milione di cinesi sono partiti da Wuhan verso l'Europa e gli Stati Uniti. Questa è la ragione per cui esiste una pandemia. Questo è il peccato originale, e giustifica l'indignazione. Per il resto non ho visto prove pubbliche sull' origine in laboratorio. L'Amministrazione Trump non parla di un virus fabbricato deliberatamente. Può esserne sfuggito per negligenza, mancanza di protezioni, però questo mette in imbarazzo gli americani perché in passato collaboravano alla sicurezza di quel laboratorio, poi hanno smesso di farlo. Comunque l' omertà e la censura da parte cinese rimangono il problema numero uno».
L' opposizione democratica accusa Trump di cercare un diversivo e un capro espiatorio. La campagna elettorale del presidente punta a descrivere il suo rivale Joe Biden come troppo arrendevole con i cinesi.
«Il presidente sa che la sua gestione della pandemia è tutt' altro che esemplare. In un anno elettorale, si rifiuta di riconoscere le proprie responsabilità. Attaccare la Cina è più facile. Ma comporta dei rischi. L' economia americana e quella cinese restano abbastanza integrate, ci sono catene produttive e logistiche interdipendenti. Mi stupisco che gli attacchi a Joe Biden non siano stati più pesanti, a parte il nomignolo Beijing Biden: suo figlio Hunter è vulnerabile perché viaggiò sull' Air Force 2, quando il padre era vicepresidente, per fare degli affari coi cinesi. Prima o poi gli attacchi contro i Biden sulla Cina diventeranno più duri».
I paesi alleati stanno appoggiando la linea dura di Washington?
«Alcuni hanno ottime ragioni per essere esasperati dal comportamento cinese, per esempio l' Australia. Però Trump ha indebolito le relazioni con molti alleati. Per esempio quando vietò gli ingressi di viaggiatori dall' Europa senza neppure avvisare i loro governi. Non vedo la Germania unirsi all' America in questa offensiva. L' ultimo sgarbo è recentissimo: l' Unione europea ha organizzato un summit per coordinare a livello mondiale la ricerca sui vaccini, e gli americani non hanno neppure partecipato».
Ora Trump colpirà la Cina con nuovi dazi? Riparte la guerra commerciale? Il presidente ha evocato la possibilità di usare i dazi come una tassa per incassare gettito, e rivalersi in questo modo per i danni subiti con la pandemia.
«All'interno della sua Amministrazione si sono rafforzati i falchi, come Peter Navarro (consigliere del presidente sulla politica commerciale, ndr), che vogliono ricominciare a imporre dazi. Ma domenica in un meeting Trump è stato apostrofato da un imprenditore che gli ha rinfacciato i costi della guerra commerciale. Sospendere la tregua coi cinesi sui dazi rischia di costare all' americano medio, al consumatore che compra prodotti elettronici. Molti suoi elettori, come gli agricoltori, stanno ancora aspettando i benefici dall' accordo parziale con Pechino che era stato raggiunto a gennaio. Trump è attento ai segnali dall' economia reale. È riluttante a imbarcarsi in un' altra escalation dei dazi. Però se dovesse precipitare nei sondaggi lo farà. Se il suo livello di approvazione scende sotto una soglia di guardia, magari al 30%, allora andremo verso una Guerra fredda a tutto campo».
Un' altra ritorsione, estrema, è stata attribuita dal Washington Post ad esponenti dell' Amministrazione: cancellare il debito verso la Cina, dichiarare non rimborsabili i Treasury Bond detenuti dalla banca centrale di Pechino.
«Francamente non so se sia una fonte attendibile ad avere formulato quell' idea. È una follia. Non accadrà mai».
Questa invece è stata proposta da diversi parlamentari repubblicani: togliere alla Cina l' immunità sovrana, per facilitare le cause legali contro il governo di Pechino ed estrarne dei risarcimenti per danni.
«Che il Congresso approvi delle leggi in questo senso, è possibile. C' è un precedente con l' Arabia saudita. Possono essere anche formulate in modo condizionale. Sullo sfondo c'è la pressione verso le multinazionali americane perché riportino sul territorio Usa le loro produzioni. Un decoupling, un divorzio almeno parziale tra le due economie».
Gaia Cesare per “il Giornale” il 5 maggio 2020. «Coppia di pagliacci bugiardi». Volano parole pesanti, un' escalation verbale senza precedenti dalla Cina agli Stati Uniti nella nuova Guerra Fredda per il dominio economico e geopolitico del mondo che si gioca sui cadaveri, a oggi 250mila vittime ufficiali nel mondo per coronavirus. E apre scenari catastrofici. Secondo la Reuters, che cita un rapporto che sarebbe stato presentato a Xi Jinping il mese scorso, dell' Istituto cinese per la relazioni internazionali contemporanee, un think tank che fa capo al ministero della Sicurezza di Stato, l' intelligence cinese avrebbe allertato il presidente sulla possibilità addirittura di uno scontro armato diretto con gli Stati Uniti. Nel dossier si sottolinea come la pandemia abbia alimentato il sentimento anti cinese nel mondo, tornato ai livelli del massacro di Tienenmen del 1989. E il conflitto armato sarebbe lo scenario estremo che potrebbe scatenarsi come conseguenza di queste tensioni. Gli insulti del resto erano già volati ieri da Pechino, destinazione Washington, tramite il Quotidiano del Popolo, l' organo di stampa del Partito comunista cinese. Uno dei destinatari è Steve Bannon, ex capo consigliere di Donald Trump e insieme ideologo e burattinaio del sovranismo internazionale, la prova che il Partito comunista cinese attacca una visione del mondo e le politiche della destra neoconservatrice. L' altra «vittima» è Mike Pompeo, segretario di Stato americano, che ha dichiarato di avere «prove enormi» che il coronavirus arrivi dal laboratorio di Virologia di Wuhan e che Pechino «ha fatto tutto il possibile per tenerlo nascosto». Un affondo ripetuto da Trump ieri in un' intervista a Fox News e contenuto in un rapporto del Dipartimento di Sicurezza. Il Quotidiano del Popolo ricorda come l' obiettivo di Pechino «sia sempre stato quello di salvare vite» e la tv di Stato Cctv bolla come «folli ed evasive» le accuse di Pompeo secondo cui la Cina ha insabbiato la notizia. Anche il Global Times si aggiunge al fuoco di fila con cui Pechino sfida Washington. Il giornale invita gli americani a fornire «prove solide», contraccusa gli Stati Uniti di propaganda, di pregiudizio ideologico contro la Cina e di avere un solo scopo: far vincere a Trump e ai Repubblicani le presidenziali di novembre 2020. Infine due provocazioni. La prima riguarda i diritti umani, sui quali nel mondo la Cina è campione di violazioni: «Gli Stati Uniti hanno sospeso i fondi all' Oms - scrive il Quotidiano del Popolo - ma mantenuto le sanzioni contro Iran, Cuba e Venezuela. Si definiscono ancora custodi dei diritti umani a livello globale?». La seconda riguarda la gestione della crisi, affondo diretto all' amministrazione Trump, tacciata di «incompetenza», ma anche a tutto il modello America. Mentre la Cina ha adottato «misure risolute ed efficaci» e le persone sono state «volontariamente» a casa, negli Usa invece - sostiene il giornale cinese - «ci sono state divergenze tra le autorità sulle competenze». Una mezza verità mista a una bugia colossale. Perché se è vero che Trump si è schierato a favore delle proteste contro il lockdown voluto dai governatori, sostenere che i cinesi siano rimasti a casa «volontariamente» nega l' evidenza sulle misure repressive adottate da Pechino che hanno rafforzato la capacità di controllo sul «popolo» del regime. Tra i due litiganti arriva l' Oms, che ribadisce la convinzione sull' origine animale del virus, nega l' esistenza di prove anti-cinesi e invita gli Stati Uniti a esibirle. Oppure resteranno solo accuse «speculative».
Coronavirus, l’Ue accusa la Cina: «Censura gli articoli che denunciano le sue responsabilità. Redazione giovedì 7 maggio 2020 su Il Secolo d'Italia. Scontro fra Unione europea e Cina sull’origine del coronavirus. Lo scrive il Financial Times riferendo che “l’Ue ha accusato la Cina di censurare un articolo co-firmato dagli ambasciatori in Cina degli Stati membri dell’Ue e pubblicato ieri sul China Daily”, voce del Pcc, “rimuovendo un riferimento allo scoppio del coronavirus in Cina”. “È deplorevole vedere che la frase sulla diffusione del virus sia stata modificata”, ha detto Nicolas Chapuis, ambasciatore europeo a Pechino, al Ft. La parte dell’articolo rimossa indicava che “il coronavirus si è originato in Cina e poi si è diffuso nel resto del mondo”. Il Financial Times sottolinea che “la censura è l’ultimo esempio degli sforzi di Pechino per far fronte a chi l’accusa di avere gestito male i primi giorni della pandemia, che si ritiene abbia avuto inizio nella città cinese di Wuhan alla fine del 2019”. Un tema caldo che tocca anche gli Stati Uniti, con il presidente Trump che da settimane ha puntato il dito contro Pechino e la sua narrativa sul coronavirus. Della vicenda si è occupato anche Politico.eu che rivela altri dettagli, citando “un portavoce del servizio di azione esterna della Ue che si è rammaricato che la lettera originale non sia stata pubblicata integralmente dal China Daily” e ha “osservato che non poteva essere pubblicata senza il via libera del ministero degli Esteri cinese”. Politico.eu riferisce inoltre che “in segno di malcontento tra i membri dell’Ue, le ambasciate a Pechino di Paesi come Germania, Francia e Italia hanno pubblicato la lettera completa”. Pechino, intanto, ha criticato gli Usa per i “commenti discordanti, falsi e non sinceri” espressi in questi giorni circa la gestione dell’emergenza da parte della Cina. “Sollecitiamo la parte americana a smettere di provare a spostare la colpa sulla Cina e a passare ai fatti”, ha affermato la portavoce del ministero degli Esteri Hua Chunying nella conferenza stampa quotidiana, a proposito delle affermazioni del presidente Donald Trump secondo cui il virus poteva essere fermato in Cina.
Guido Santevecchi per il “Corriere della Sera” il 7 maggio 2020. Sul tavolo di Xi Jinping è arrivato un rapporto sul rischio che la Cina si trovi nuovamente isolata e sotto sanzioni come successe dopo il massacro di Piazza Tienanmen nel 1989. Il dossier è stato preparato da un think tank del ministero per la Sicurezza di Stato che ha sottolineato il sentimento anticinese diffuso nel mondo (e nei governi del mondo), alimentato dalla crisi coronavirus. Il documento è filtrato da Zhongnanhai, quartier generale del Partito-Stato, ed è stato illustrato «da due fonti» alla Reuters . È chiaro che Xi è ben consapevole della campagna anticinese guidata dagli Stati Uniti, non ha bisogno che glielo dica l' intelligence, gli basta ascoltare le accuse pubbliche di Trump e Pompeo. Accuse alle quali Xi non si abbassa a rispondere in prima persona. Così salta fuori il documento. Con un capitolo che è un messaggio: la crescente ostilità nei confronti della Cina può portare a uno scontro armato tra le due superpotenze (nel Mar cinese meridionale si susseguono incontri ravvicinati tra navi da guerra con la bandiera a stelle e strisce e quella rossa). «Non ho informazioni in materia», ha detto il portavoce del ministero degli Esteri cinese nel briefing quotidiano per la stampa. Nessuna smentita, dunque. Quasi a confermare che il rapporto non tanto segreto sia stato divulgato proprio per far arrivare il segnale: se sarà messa spalle al muro, Pechino dopo la guerra contro il virus potrebbe combattere un conflitto armato. La Cina guarda anche al fronte interno. Il virus, con i lutti in migliaia di famiglie, milioni di posti di lavoro persi, potrebbe aver infettato anche la «weiwen»: la stabilità (sociale e politica). Per questo, secondo un' altra indiscrezione, sarebbe stato costituito un Gruppo ristretto dedicato alla sorveglianza e ricostruzione della «ping' an», la sicurezza pacifica. Tra i compiti della task force evitare scoppi di violenza. Un clima da «maschere e pugnali», alimentato anche da un discorso di Matthew Pottinger, vice consigliere per la Sicurezza nazionale della Casa Bianca. Ha preso spunto dal 4 maggio, che in Cina celebra il giorno del 1919 in cui gli studenti marciarono per la prima volta su Piazza Tienanmen, per protestare contro il Trattato di Versailles, che a conclusione della Prima guerra mondiale non restituì alla Cina zone del suo territorio occupate dal Giappone. Quel Movimento 4 Maggio è considerato in Cina il precursore dello spirito rivoluzionario. Ma è anche trattato con cautela, da quando ci fu l' altra Tienanmen, quella del 1989. Pottinger, che parla un fluente mandarino, in un discorso accademico ha invitato i cinesi a riscoprire lo spirito del 4 Maggio, rifiutare le false ideologie e seguire i veri eroi come il dottor Li Wenliang, che cercò di dare l' allarme sul virus di Wuhan e fu messo a tacere. A Pottinger il portavoce di Pechino ha risposto: «Parla il cinese ma non capisce la nostra storia». Può darsi, o forse lo stratega trumpiano sogna di riscrivere la storia.
Alberto D’Argenio e Filippo Santelli per “la Repubblica” l'8 maggio 2020. In altre circostanze la mezza frasetta sarebbe passata inosservata, dentro un articolo dai toni molto amichevoli. Eccola: «Ma l' epidemia di coronavirus in Cina, e la sua successiva diffusione al resto del mondo hanno portato a mettere da parte per il momento i piani precedenti». Solo che queste non sono circostanze normali, attorno al virus infuria una battaglia all' ultima responsabilità tra Pechino e Washington. E per la leadership comunista il solo fatto di leggere nero su bianco che il patogeno è emerso prima in Cina, un fatto documentato, risulta inaccettabile. Così sul China Daily, quotidiano di regime in lingua inglese, l' editoriale scritto dai 28 ambasciatori dei Paesi Ue per l' anniversario dei rapporti bilaterali esce senza la frasetta. «Ma l' epidemia di coronavirus ha portato ()», si leggeva mercoledì sulle sue colonne, senza riferimenti agli inizi cinesi. Una censura di cui il rappresentante Ue, il francese Nicolas Chapuis, era stato informato, che ha accettato pur di far uscire l' articolo, salvo poi definirla «spiacevole ». Festa rovinata, e nuove polemiche sui tentativi cinesi di influenzare, più o meno con successo, pensieri e parole dell' Europa. Il precedente del resto è fresco. Due settimane fa il New York Times ha scritto che un rapporto sulla disinformazione russa e cinese sul coronavirus preparato da EuVsDisinfo, unità della Commissione che si occupa di fake news, è stato ammorbidito in seguito a pressioni di Pechino. Le ricostruzioni sono contrastanti, le modifiche ci sono state, ma la Commissione replica che si è trattato di una normale revisione nel passaggio tra tecnici e politici. Fatto sta che l' episodio avrebbe potuto consigliare a tutti più giudizio, a Pechino meno aggressività e all' Europa più fermezza. Invece quando la rappresentanza Ue a Pechino contatta il China Daily per pubblicare l' intervento, le viene risposto che sarà possibile solo con «l' accordo del ministero degli Esteri». Chapuis esprime «preoccupazione», e la ribadisce quando dal ministero arriva la richiesta di rimuovere il passaggio sulle origini del virus. Più che una richiesta, è un ultimatum: o sparirà, o l' articolo non uscirà. A quel punto, Chapuis decide «con considerevole riluttanza» di piegarsi, considerando che sia nell' interesse comunitario far uscire comunque la lettera, veicolando gli altri messaggi su un giornale a distribuzione globale. Probabile si consulti con Bruxelles, ma non interpella i 27 ambasciatori. Così mercoledì mattina tutti possono constatare che la versione del China Daily è diversa da quella che le varie ambasciate, e la stessa rappresentanza Ue, caricano sui loro siti. Da Bruxelles fanno notare che nel frattempo è l' originale che sta girando, distribuito e pubblicato da altri media cinesi, anche in mandarino. L' ulteriore paradosso è che il tono di quella lettera era molto positivo nei confronti della Cina, definita un «vero partner» nel mondo multilaterale, con una sola «divergenza» sui diritti umani. Troppo positivo secondo molti osservatori. Non certo la durezza che gli Usa chiedono all' Europa, semmai l' ennesima prova di come Bruxelles tenti di destreggiarsi nel fuoco incrociato. E invece i censori di Pechino sono riusciti a trasformarla nell' ennesimo casus belli.
La guerra alla Cina, il ritorno all'isolamento post-Tienanmen. Piccole Note de Il Giornale il 4 maggio 2020. Settanta ricercatori e scienziati, americani e cinesi, hanno inviato una lettera aperta alle autorità di Pechino e Washington nell’intento di porre fine allo scontro tra i due Paesi sulla crisi generata dal Covid-19, chiedendo loro di abbassare le armi della propaganda per intraprendere una seria azione di contrasto alla pandemia. Nonostante sia stata giustamente indirizzata ai leader dei due Paesi, è ovvio che l’obiettivo è quello di fermare la guerra propagandistica mossa dall’amministrazione Trump a Pechino, che sta ormai tracimando, sommergendo ogni possibilità di una collaborazione tra le due potenze. Di ieri le dichiarazioni di Mike Pompeo, secondo il quale gli Stati Uniti avrebbero molteplici prove che il virus è stato prodotto nel laboratorio di Wuhan, dal quale si sarebbe diffuso per errore (se il Covid-19 non avesse tormentato anche la Cina è presumibile che l’accusa sarebbe stata formulata sotto la specie di una diffusione volontaria). Una tesi alquanto strana, dato che solo due giorni fa l’intelligence Usa, la stessa che avrebbe fornito al Segretario di Stato massiccia documentazione che il virus era stato prodotto nel laboratorio cinese, aveva affermato con sicurezza, cioè anche in questo caso disponendo di prove documentali, che il virus non era stato creato dall’uomo, ma era di origine naturale (Daily Mail). Bizzarrie della propaganda.
La lettera alle autorità. Tornando alla lettera, gli studiosi, mentre elogiano le agenzie governative di Washington, Pechino e di altri Paesi per l’impegno profuso per contrastare il Covid-19, chiedono con forza ai leader cinesi e americani di “evitare la politicizzazione sconsiderata di questa pandemia”. La pandemia è un problema “politico”, scrivono, e richiede un’azione governativa, perché il virus devasta comunità ed economie, colpendo i più vulnerabili. Il Covid-19 va quindi affrontato come un nemico “politico” e per eliminarlo è necessario che siano messe in atto “una serie di risposte politiche potenti, multi-livello, transnazionali”. Da questo punto di vista è necessaria “più politica”, non “meno”, per affrontare l’emergenza. La lettera prosegue deplorando il fatto che politiche intraprese finora siano state condizionate da “interessi di parte”, mentre occorre usare del potere per curare le persone, per gestire le risorse e per prevenire la diffusione del contagio e “non per sviare responsabilità, consolidare consenso, regolare i conti, o demonizzare persone”. “Le malattie non conoscono confini”, spiega ancora la missiva, dato che le catene di approvvigionamento sia sanitario sia di altro genere, anche di beni essenziali, sono ormai integrate a livello internazionale. Infine, sia per sviluppare un’efficace ricerca scientifica di contrasto al Covid-19 sia per gestire la crisi, è indispensabile condividere i dati: la collaborazione internazionale e il contenimento della pandemia devono andare di pari passo. Così conclude la lettera: “Per costruire delle relazioni internazionali possono essere necessari anni, ma possono essere distrutte in pochi secondi, soprattutto in un’era in cui un tweet si diffonde in un istante a livello globale”. Si tratta di “una lezione” che loro stessi, spiegano gli scienziati, insegnano regolarmente agli studenti…“Oggi non c’è posto per una politica che metta in pericolo i legami bilaterali diffondendo tesi cospirazioniste o che usi un linguaggio offensivo sulle origini del virus. È il momento, invece, di costruire alleanze globali per far fronte al pericolo per la salute pubblica […], di rilanciare gli scambi scientifici e di una comunicazione pubblica rispettosa in politica estera”. La missiva è stata pubblicata anche sul New York Times, firmata, in nome e per conto degli altri firmatari, da Matthew Kohrman e Scott Rozelle, docenti dell’Università di Stanford, e da Xi Chen, dell’Università di Yale.
La guerra alla Cina. L’appello degli scienziati purtroppo è destinato a rimanere inascoltato, dato che ormai l’amministrazione Usa ha scelto la sua linea. Non si tratta solo di una decisione politica in merito al coronavirus, ma di ben altro. Di fatto, gli Stati Uniti hanno scelto di usare la pandemia per regolare una volta per tutte i conti con l’antagonista globale. Il Covid-19, nelle mani della propaganda neocon, è diventato un’arma di distruzione di massa per ostacolare con successo l’espansione globale della Cina, banale prosecuzione di altre azioni di contrasto risultate meno efficaci (la propaganda in favore delle proteste di Hong Kong, quella in favore degli uiguri dello Xinjiang etc.) Sul punto, la Reuters rivela un rapporto redatto agli inizi di aprile dal China Institutes of Contemporary International Relations (CICIR), un think tank affiliato al Ministero della Sicurezza, il più importante organo di intelligence di Pechino, nel quale si registra che “il sentimento globale anti-Cina è al massimo, eguagliando quanto avvenuto dopo il giro di vite di Piazza Tiananmen del 1989”. L’obiettivo della guerra mediatica contro Pechino è stato dunque raggiunto (ma tanto è cambiato da allora…). Da qui alle presidenziali Usa la propaganda è destinata a produrre danni maggiori. Probabile che, prima delle elezioni, alla Cina siano chieste compensazioni per le sue asserite responsabilità. Mossa destinata ad accrescere le tensioni al parossismo se, oltre a una valenza puramente propagandistica e funzionale alla rielezione di Trump, l’amministrazione Usa decidesse di passare ai fatti, sequestrando beni cinesi in Occidente e quanto altro.
Giuseppe Sarcina e Guido Olimpio per il “Corriere della Sera” il 4 maggio 2020. «Ci sono numerose prove che il virus arrivi dal laboratorio di Wuhan. La Cina ha fatto di tutto per tenerlo nascosto. Classica operazione di disinformazione comunista. Ma ne risponderanno». Il Segretario di Stato americano Mike Pompeo accusa apertamente il Paese guidato da Xi Jinping di non aver arginato la diffusione mondiale del Covid-19. Affermazioni durissime che potrebbero avere un grande impatto sulle relazioni tra le due superpotenze. Intervistato ieri dalla tv Abc , Pompeo ha confermato, con forza inedita, «i sospetti» coltivati negli ultimi mesi. «Abbiamo detto fin dall' inizio che questo virus ha avuto origine a Wuhan. Ci sono prove enormi. Dobbiamo ricordare che la Cina ha una storia di infezioni propagate nel mondo e una storia di laboratori al di sotto degli standard. Questa non è la prima volta che il mondo si trova esposto a un virus che è il risultato di errori commessi in un laboratorio cinese». Domanda di Abc: il governo di Pechino ha voluto nascondere la gravità della pandemia in modo intenzionale, per danneggiare i Paesi occidentali? Pompeo non ha risposto. Ha invece insistito sulla mancanza di collaborazione, anche ora che la crisi è mondiale: «Continuano a impedire l'accesso agli occidentali, ai nostri medici migliori. Ma è necessario che i nostri esperti vadano lì. Non abbiamo ancora i campioni di cui abbiamo bisogno». Il capo della diplomazia americana, dunque, rilancia le insinuazioni avanzate da Donald Trump, giovedì 30 aprile. Il presidente aveva ipotizzato: «Nei laboratori di Wuhan deve essere successo qualcosa di terribile. Può essere stato uno sbaglio, qualcosa che si è sviluppato inavvertitamente, oppure qualcuno lo ha fatto di proposito». L'uscita di Pompeo va inserita in uno scenario ancora opaco, con i servizi segreti che sembrano strattonati per motivi politici mentre il Dipartimento di Stato sta progressivamente affinando la sua posizione. Nessuno, e Pompeo lo ha detto con chiarezza, mette in dubbio la prima conclusione dell' intelligence. Il 30 aprile la Dni, la direzione che coordina tutte le agenzie di spionaggio, aveva precisato: «Il virus non è stato creato dall' uomo e neppure manipolato, indaghiamo con rigore per capire se possa esserci stato un incidente nel laboratorio di Wuhan». È una posizione attendista, accompagnata da indiscrezioni sulle presunte pressioni della Casa Bianca sulla Cia, due mondi che da quando c' è Trump non si sono mai amati. Le posizioni pubbliche si intrecciano con ricostruzioni sui media. Il quotidiano australiano Daily Telegraph sostiene di essere entrato in possesso di un report di 15 pagine elaborato dagli 007 del patto «Five eyes», ossia Australia, Usa, Gran Bretagna, Nuova Zelanda e Canada. Che cosa dice? I cinesi hanno eliminato prove, silenziato testimoni scomodi, non hanno fornito elementi utili per realizzare il vaccino. Sull'origine dell' epidemia esiste un disaccordo se sia nata nel laboratorio o nel mercato. Il documento si sposa alla perfezione con l' appello a fare chiarezza avanzato da Usa, Germania, Francia e Australia, quest' ultima determinata nell' invocare un' inchiesta internazionale. Mossa che non implica necessariamente una causa dolosa del disastro ma punta a evidenziare errori e mancanze. La palla torna alle spie, con l'impegno a indagare: però ci si chiede quali possibilità abbiano di scoprire informazioni riservate. Gli esperti hanno avanzato dubbi, la Cia ha perso molte fonti. Magari si spera che qualcuno accetti di collaborare aprendo una breccia nella muraglia cinese. Forse si tratta di mosse di guerra psicologica: infastidire Pechino seminando il dubbio in uno scontro oltre il Covid 19. Gli Usa stanno lavorando sul piano diplomatico. Il tentativo è di coinvolgere più Paesi per chiedere una commissione di inchiesta internazionale, una volta superata la fase più acuta dell'emergenza. Le prime manovre si stanno sviluppando all' interno dell' Oms, l'Organizzazione mondiale della Sanità. La delegazione americana ha cominciato con gli alleati tradizionali: i Paesi europei, Canada e Giappone. A Washington si spera che la Cancelliera Angela Merkel dia un seguito alla richiesta di «trasparenza», rivolta la settimana scorsa ai dirigenti del Partito comunista cinese. Infine c'è il fronte interno. Lo spirito anti-cinese cresce tumultuosamente e non solo nella capitale. I governatori repubblicani del Missouri, Mike Parson, e del Mississippi, Tate Reeves, hanno deciso di citare in giudizio il governo cinese. L'iniziativa ha subito suscitato obiezioni di tipo giuridico. Ma il significato politico è chiaro e certamente non è sfuggito a Pechino. Al Congresso fioriscono ipotesi «punitive». C'è chi come Marsha Blackburn, senatrice repubblicana del Tennessee, propone di cancellare il rimborso dei titoli in scadenza o di non versare gli interessi (mediamente pari all' 1,2%) sui 1.100 miliardi di titoli Usa in possesso dei cinesi (è il 4,5% sul totale di 24 mila miliardi). Il senatore repubblicano Tom Cotton, interlocutore assiduo di Trump, chiede di «sganciare l'economia da quella cinese», per legge, imponendo alle multinazionali Usa attive in Cina di rientrare. In tutto ciò Trump vorrebbe preservare il rapporto personale «eccellente» con il presidente Xi. Ma è difficile immaginare che il leader cinese si faccia processare come l' untore numero uno del contagio mondiale.
Alberto D’Argenio per “la Repubblica” il 4 maggio 2020. Il governo cinese «ha fatto un orribile sbaglio», Donald Trump torna sulle accuse del suo segretario di Stato Mike Pompeo e annuncia: «Pubblicheremo un rapporto molto forte su quel che crediamo sia accaduto. Sarà preciso e definitivo». Il presidente però è più vago del capo della diplomazia. Le sue allusioni sembrano riferirsi soprattutto all' omertà e alla censura di Pechino; mentre non riprende la pista del laboratorio di Wuhan. Le Borse hanno subito nuovi cali, legati proprio ai timori di una guerra fredda Usa-Cina. È questa la parte più consistente del dossier americano. È anche quella su cui si diffonde estesamente un rapporto delle comunità d' intelligence dei "Cinque Occhi", i servizi di spionaggio alleati dei Paesi anglofoni. «Hanno cercato - dice Trump - di insabbiare le notizie, di nasconderle. È come cercare di nascondere un incendio. Non ci sono riusciti». Le prove abbondano, e su questo fronte Pechino continua a fornirne di nuove. È di ieri un reportage del New York Times sui familiari delle vittime di Wuhan minacciati dalla polizia. Una fonte dell' amministrazione Trump, citata da Cnn , si spinge a parlare di aperta mala fede da parte di Pechino: secondo le dichiarazioni di quello che definisce «un funzionario della Sicurezza interna», la Cina avrebbe cominciato a fermare le sue esportazioni di materiali medici e accumulare riserve sanitarie prima di comunicare il contagio all' Oms. L' Oms contro Washington. Sembra prendere le distanze dalle accuse americane l' Oms, a cui Trump ha appena tagliato i fondi. «Il coronavirus è di origine naturale, come accaduto in passato con Ebola e la Sars. Ma se gli Stati Uniti hanno dati differenti, li condividano», ha sottolineato Mike Ryan, capo del Programma di emergenze sanitarie. Ma è una contestazione non rilevante. La tesi di Pompeo non è quella di un virus fabbricato in laboratorio, bensì di una manipolazione negligente nel corso di esperimenti che hanno provocato il contagio uomo-animale.
Le prime accuse furono cinesi. In due saggi pubblicati nel 2017 e 2019 un biologo di Wuhan, Tian Junhua, rivelò di essersi infettato per sua negligenza nel corso delle sue ricerche sui pipistrelli. C' è anche il giallo di uno studio pubblicato e poi eliminato da due scienziati cinesi, Botao Xiao e Lei Xiao, del Politecnico di Guangzhou. «Il coronavirus - si leggeva in quell' analisi - probabilmente ebbe origine in un laboratorio di Wuhan. I livelli di sicurezza vanno rafforzati nei laboratori di biologia batterica ad alto rischio». L' intero articolo apparve sul sito ResearchGate , poi venne rimosso. La sindrome Iraq. Il precedente è grave, il sospetto è legittimo. Molti ricordano le false prove presentate dall' Amministrazione di George W. Bush sulle armi di distruzione di massa di Saddam Hussein per giustificare l' invasione dell' Iraq. Donde il timore di una operazione di disinformazione. A Wuhan non ci sarà nessuna invasione americana. Le richieste di accesso ai laboratori sono state negate. Nel frattempo, se c'erano prove, Pechino ha avuto tutto il tempo per farle sparire. La verità forse non si saprà mai. Se ci fu una responsabilità umana, anche solo uno sbaglio o negligenza, questo aggiungerebbe un movente ai tentativi delle autorità cinesi di nascondere la verità.
Flavio Pompetti per “il Messaggero” il 4 maggio 2020. Il governo cinese ha mentito. Ha nascosto l'evidenza dell'epidemia nella sua fase iniziale, e ha ritardato l'allarme mentre razziava strumenti di protezione sanitaria sul mercato internazionale. Queste accuse lanciate negli ultimi giorni da Donald Trump e dal suo segretario di Stato Mike Pompeo, e ieri ripetute dal ministro della Difesa britannico Ben Wallace, farebbero riferimento ad un documento di quindici pagine, un rapporto congiunto al quale hanno lavorato le Intelligence della Five Eyes: Usa, Canada, Inghilterra, Australia e Nuova Zelanda.
IL RITARDO. Gli investigatori dei cinque paesi alleati dal secondo dopoguerra hanno concluso che le autorità di Pechino hanno avuto un ruolo decisivo nel ritardo con il quale il mondo ha risposto al coronavirus. Minor consenso invece intorno all'ipotesi più grave formulata nel testo: l'idea che il nuovo virus sia uscito dal laboratorio di virologia di Wuhan piuttosto che dal mercato alimentare della città. Il quotidiano australiano Saturday Telegraph è l'unico ad aver preso visione al momento del rapporto, del quale a Washington viene data scontata la prossima pubblicazione, anche se non si aspettano rivelazioni che non siano già di pubblico dominio.
LA MANIPOLAZIONE. Sappiamo che la dottoressa Shi Zhengli che dirige il Laboratorio di Virologia di Wuhan stava conducendo studi per modificare patogeni virali che erano stati raccolti da feci di pipistrelli in una grotta della regione dello Yunnan, e che almeno uno dei cinquanta esemplari corrispondeva per il 96% al coronavirus oggi in circolazione tra gli umani. Per Trump e per Pence questa semplice circostanza è sufficiente per concludere che la Covid-19 è il risultato della manipolazione, poi portato fuori dalle mura da una delle addette al laboratorio. La comunità scientifica internazionale e la stessa dottoressa Shi escludono questa conclusione, e continuano a puntare sul mercato di carne viva come fonte originale. Il Laboratorio australiano per la salute animale che collaborava in passato con il centro di Whuan, aveva documentato in video la scarsa attenzione prestata dai tecnici cinesi alle stringenti misure di sicurezza richieste per la qualifica di 4° livello, e su questa base gli australiani avevano abbandonato il rapporto, così come era accaduto per l'altra collaborazione con l'Università della Carolina del nord, chiusa dopo un'ispezione ordinata dall'ambasciata statunitense a Pechino. Chi crede che il laboratorio cinese sia responsabile per l'epidemia punta il dito su Huang Yan Liang che vi lavorava, e che in un primo momento era stata indicata dal governo cinese come la paziente zero. Huang è poi sparita di circolazione, così come la sua cartella personale è scomparsa dagli archivi della postazione scientifica. Comunque sia andata, il seguito della storia è l'intenso lavoro di depistamento messo in opera dai cinesi, sul quale tutti sono d'accordo.
«TEORIE FOLLI». Il rapporto delle Five Eyes (cinque occhi) parla di «esemplari di virus distrutti in laboratori di genetica» per ordine del governo. Di «sequenze di genomi tenute segrete», e di controlli di censura ordinati sugli studi scientifici di riferimento». Per la televisione di stato cinese CCTV le teorie di Trump e di Pompeo sono «folli e approssimative», e un clown è l'ex consulente ultraconservatore di Trump: Steve Bannon, il quale ha accusato il paese asiatico di aver commesso un crimine della portata dell'esplosione nucleare di Chernobyl nel 1986. L'Organizzazione mondiale della sanità conferma di non aver ricevuto una denuncia da parte degli Usa contro la Cina come produttore, seppure involontario del virus. Nel frattempo un'altra importante organizzazione sanitaria, il CDC di Atlanta, comunica alla Casa Bianca una proiezione scoraggiante per il paese in fase di ripartenza: per il primo di giugno i decessi da Covid 19 aranno 3.000 al giorno, e il totale delle vittime salirà oltre le 300.000.
Trump parla di prove che collegano il virus al laboratorio di Wuhan. Donald Trump ha parlato di "prove" che collegherebbero il Covid-19 al laboratorio di Wuhan. Ora lo scontro con la Cina aumenta d'intensità. Francesco Boezi, Venerdì 01/05/2020 su Il Giornale. Donald Trump sospetta che il Covid-19 provenga sul serio dal laboratorio di Wuhan. L'ultima conferenza stampa del presidente degli Stati Uniti ha riservato qualche sorpresa. Questa delle presunte "prove" sulla teoria del laboratorio è la principale. Capiamoci: Trump non ha parlato di arma battierologica, ma appunto di "collegamenti" tra il virus e quello specifico laboratorio. The Donald ha dichiarato pure di aver visionato qualcosa in termini di "prove". Non sono stati resi noti ulteriori dettagli. Una delle ipotesi che circolano dall'inizio di questa storia racconta di come il Covid-19, che per buona parte degli scienziati è del tutto compatibile con un'evoluzione virologica naturale, potrebbe essere fuoriuscito per sbaglio da quel centro studi della città cinese. La tesi ufficiale, per ora, parla di un salto di specie, cui avrebbe contribuito il wet-market di Wuhan. Quello dove animali vivi vengono posizionati in maniera ravvicinata. Gli Usa stanno indagando. La Cina ha sempre negato ogni coinvolgimento del Wuhan National Biosafety Laboratory. Il nuovo coronavirus, insomma, non è scappato ai ricercatori che operano in quel luogo. Né questi ultimi hanno fatto errori. La versione della Repubblica popolare è centrata sull'origine naturale del Covid-19. Ma non tutti gli americani sono persuasi da questa ricostruzione. Trump, a quanto pare, è il primo che non si sente di escludere la sussistenza di responsabilità umane. Comunque siano andate le cose a Wuhan, per Trump la Cina non è stata in grado o non ha avuto la possibilità di tamponare per tempo la situazione. L'attacco dell'inquilino della Casa Bianca è duplice: da una parte viene ventilata l'ipotesi che il laboratorio di Wuhan possa aver interpretato un ruolo in questa storia; dall'altra - come riporta l'agenzia Nova - Washington sostiene che il "dragone" avrebbe potuto fare qualcosa di più all'inizio dell'epidemia. Se la disamina di Trump sull'origine del Covid-19 rappresenta una novità, gli attacchi diretti nei confronti della Organizzazione mondiale della Sanità costituiscono ormai una costante della prassi trumpiana: "L'Organizzazione mondiale della sanità dovrebbe vergognarsi: fa da PR per la Cina", ha tuonato ieri sera il tycoon stando a quanto ripercorso dall'Agi. Gli Stati Uniti verseranno meno finanziamenti all'Oms. Trump lo ha già annunciato qualche settimana fa. Ma Trump, che rimane un ottimista, si è anche detto certo di una "fenomale" ripresa dell'economia americana. Un boom che secondo i piani del presidente dovrebbe verificarsi nel 2021. Ma non è tutto. All'interno di un'intervista rilasciata a Reuters, Donald Trump ha affermato che "la Cina farà tutto il possibile per farmi perdere questa competizione (le elezioni presidenziali di novembre, ndr)". Trump, in sintesi, sostiene che a Pechino preferirebbero Joe Biden, il candidato degli asinelli, come interlocutore geopolitico. E questo dipenderebbe pure dalla prossimità ideologica tra il Partito Democratico a stelle e strisce e la Cina di Xi Jinping. La risposta della Cina non si è affatta attendere. In un articolo pubblicato sul Global Times si legge in sintesi che Trump dovrebbe preoccuparsi per lo più di salvare più vite possibili.
Il retroscena. Coronavirus, «la Cina ha eliminato le prove»: le accuse di Trump e dei Servizi occidentali. Trump si gioca la rielezione alla Casa Bianca e cavalca il sentimento di chi non si fida, nella speranza di trovare qualcuno pronto a collaborare fornendo carte credibili. Intanto i servizi segreti di cinque nazioni attaccano Pechino per la gestione della pandemia. Guido Olimpio il 4 maggio 2020 su Il Corriere della Sera. La Casa Bianca è all’offensiva sulla Cina, l’intelligence si mantiene prudente, una buona parte degli scienziati sono scettici oppure attendisti. Attorno molto fumo e un po’ di fuoco (qui le prove scientifiche contro la teoria del complotto).
La «copertura». Un documento interno dell’Homeland Security in mano all’Associated Press sostiene che Pechino ha nascosto la gravità della crisi per accumulare materiale medico e prepararsi all’emergenza. Così hanno stoccato tutto quello che era necessario senza però dare l’allarme all’esterno. Il governo avrebbe anche tenuto all’oscuro l’OMS non permettendo una reazione tempestiva. Nelle prossime ore o giorni è possibile che venga diffuso un rapporto ufficiale Usa che raccolga tutti gli aspetti critici.
Il secondo rapporto . Esiste un secondo report ed è quello citato dal quotidiano australiano Daily Telegraph che ne è venuto in possesso. Sono 15 pagine redatte dagli 007 del patto «Five Eyes», ossia Australia, Usa, Gran Bretagna, Nuova Zelanda e Canada. È piuttosto severo e contiene una serie di punti sulla gestione della crisi da parte della Cina.
1) Hanno eliminato/distrutto prove sul Covid.
2) Hanno imposto la censura e silenziato testimoni scomodi. Riferimento ad alcuni blogger indipendenti che hanno tentato di raccontare cosa stava succedendo a Wuhan ma anche alla ricercatrice Huang Yan Ling. Ci sono sospetti che possa essere la paziente zero: di lei non si hanno più notizie precise.
3) Pechino non ha fornito elementi utili per realizzare il vaccino.
4) C’è stata in passato una stretta collaborazione tra centri australiani e quello di Wuhan (stessa cosa con i francesi e americani), da qui la possibilità che qualcosa si trapelato attraverso canali diretti.
5) Sull’origine dell’epidemia i servizi alleati sono in disaccordo se sia nata nel laboratorio o nel mercato. È una situazione a dir poco opaca.
L’intelligence Usa. Il 30 aprile la DNI, la direzione sotto la quale operano le diverse agenzie di intelligence Usa, ha espresso un primo verdetto in modo pubblico. Con 10 righe di comunicato: il virus non è stato creato dall’uomo e neppure manipolato, indaghiamo con rigore per capire se possa esserci stato un incidente nel laboratorio di Wuhan. Lo avevano già detto, lo hanno ribadito. Fonti dello spionaggio citate dai media spiegano che ci sono degli indizi su un possibile errore durante studi medici, però non sono decisivi. Gli agenti mettono le mani avanti: probabilmente sarà arduo trovare (se esistono) delle prove incriminanti. Vi sono poi delle intercettazioni di funzionari cinesi relativi al centro ricerche dalle quale si potrebbero ricavare dettagli a sostegno di manovre segrete. Siamo però dentro una fitta nebbia, difficile comprendere tutto, facile arrivare a valutazioni sbagliate. C’è poi l’interazione difficile – sin dal primo giorno – tra The Donald e gli 007. Le immancabili indiscrezioni parlano di pressioni dell’amministrazione sulle spie così come la resistenza di queste ultime a mettere il loro sigillo sull’atto di accusa. Anche perché un gran numero di scienziati, sulla base di quanto sappiamo ad oggi – è bene sottolinearlo –, non lo condivide e insiste su una dinamica naturale per la diffusione del virus.
Gli ostacoli.
In questi anni la Cia stessa ha perso molte fonti all’interno della Cina, le contromisure dell’avversario hanno reso la missione più complessa. Tanti gli ostacoli. La speranza è di trovare qualcuno che sia pronto a collaborare fornendo carte credibili. Si è anche parlato di un transfuga, scappato all’estero. Ma resta una voce inverificabile e molto dubbia, magari è un modo per gettare l’amo. L’interrogativo che ritorna riguarda la capacità delle spie di pescare dati in terra cinese. Non pochi esperti e le stesse «ombre» riconoscono le difficoltà. Senza trascurare un aspetto rilevante: carpire un segreto e rivelarlo in modo pubblico può mettere in pericolo la gola profonda. Molto dipende da quale sia la posta finale. Trump si gioca le elezioni, cavalca il sentimento di chi non si fida della Cina (e questo a prescindere dalla tesi del laboratorio), porta avanti la sua battaglia. Alcuni partner non vogliono lo scontro totale, invocano - a ragione – trasparenza. Da Pechino, usando le voci amiche, rispondono: se il presidente ha le prove le mostri alla comunità internazionale.
Pompeo insiste: «Virus creato dai cinesi a Wuhan». Sara Volandri su Il Dubbio il 3 maggio 2020. Gli esperti dell’Oms smentiscono l’ipotesi da mesi ma il Segretario di Stato Usa torna ad attaccare Pechino: «Lo hanno fatto loro in laboratorio». Sembra di essere tornati ai tempi della guerra in Iraq con gli Stati Uniti di George W.Bush che agitano le fantomatiche prove(e provette) sulle armi di sterminio di Saddam nonostante le ispezioni abbiano dato tutte esito negativo. Ora il presidente è Donald Trump e il nemico è la Cina, accusata di essere all’origine della pandemia di covid19 e di avere creato il virus in un laboratorio di Wuhan. Ipotesi smentita da tutti gli esperti di microbiologia e virologia mondiali ma che per Washington è una certezza: «Ci sono enormi indizi del fatto che è iniziato in un laboratorio cinese». Sono le parole del segretario di stato americano Mike Pompeo che ha risposto ad una domanda sulla presunta origine all’interno del laboratorio di Wuhan del virus che ha causato la pandemia mondiale. «Abbiamo detto fin dall’inizio che questo virus ha avuto origine a Wuhan, in Cina», ha dichiarato intervenendo su AbcNews. «Ricordate che la Cina ha una storia di infezioni propagate nel mondo e ha una storia di laboratori al di sotto degli standard. Questa non è la prima volta che abbiamo avuto il mondo esposto a virus come risultato di errori in un laboratorio cinese». Quanto alla possibilità che sia stato diffuso intenzionalmente, Pompeo afferma di non avere «nulla da dire». «Credo che vi sia ancora molto da sapere. Ma posso dire questo: abbiamo fatto del nostro meglio per cercare di rispondere a queste domande. Abbiamo cercato di inviare un team, l’Oms ha cercato di inviare un team. Ma nessuno è stato autorizzato ad entrare in quel laboratorio o in altri, ce ne sono molti in Cina. Il rischio rimane». «Non posso rispondere alla sua domanda. Perché il partito comunista cinese si è rifiutato di collaborare con gli esperti mondiali».
A Wuhan il laboratorio che studia il virus letale. Il dubbio: "È scappato da lì?". Il Wuhan National Biosafety Laboratory è una struttura dove vengono studiati gli agenti patogeni più pericolosi al mondo e c'è chi sospetta che il virus possa essere "sfuggito" da lì. Lavinia Greci, Giovedì 23/01/2020 su Il Giornale. La città da cui si sarebbe diffuso il coronavirus è Wuhan, in Cina. Tutti, in questi giorni, hanno imparato a conoscerla perché da lì sarebbe partito l'incubo pandemia legato al misterioso virus simile alla polmonite. E, secondo quanto riportato da Dagospia, nel Paese asiatico, l'unico laboratorio capace di soddisfare gli standard di sicurezza richiesti per studiare il 2019-nCoV si troverebbe proprio nella centro di Wuhan.
Perché esiste il laboratorio. Il Wuhan National Biosafety Laboratory, la struttura in questione, è ospitata presso l'Accademia cinese delle scienze ed è stata pensata per aiutare scienziati e ricercatori cinesi a "prepararsi a rispondere a futuri focolai di malattie infettive", secondo un rapporto del 2019, pubblicato dai Centri statunitensi per Controllo e prevenzione delle malattie (CDC). Secondo quanto riportato dal quotidiano, la struttura sarebbe nata, in collaborazione con la Francia, nel 2003, anno in cui scoppiò l'epidemia di Sars, che uccise centinaia di persone. In base ai dati di allora, furono 8mila le persone infettate e a causa della malattia persero la vita in 750.
Cosa si studia nella struttura. I laboratori che lavorano e gestiscono agenti patogeni sono classificati con un punteggio da 1 a 4, in base alla classe di microbi di cui dispongono e si occupano. Il punteggio più basso indica il rischio minore, mentre il 4 rappresenta il pericolo più importante. Il centro scientifico di Wuhan è designato al livello di biosicurezza 4 (BSL-4), proprio perché in quella struttura sono studiati gli agenti patogeni più pericolosi al mondo.
Come si lavora in un centro così. In un laboratorio di quelle caratteristiche, tutti i ricercatori devono cambiare i loro vestiti quando entrano nella struttura, fare la doccia all'uscita e decontaminare tutti i materiali utilizzati durante la sperimentazione, secondo i CDC. Gli scienziati che operano in quei luoghi devono indossare tute pressurizzate per isolarsi dall'ambiente circostante. Inoltre, il laboratorio stesso deve essere tenuto in un edificio separato o in un'ala diversa e deve essere dotato di sistemi di filatrazione dell'aria e decontaminazione.
Tutti i virus di Wuhan. I laboratori BSL-4 lavorano a contatto con Ebola, Nipah e la Crimea Congo, tutte malattie altamente trasmissibili e molto spesso fatali. Nonostante la Cina abbia intenzione di costruire da cinque a sette laboratori ad alta capacità di isolamento entro il 2025, in questo momento, una struttura con queste caratteristiche esiste soltanto a Wuhan. I funzionari sanitari cinesi hanno classificato il nuovo coronavirus come una malattia infettiva di classe B, collocandola nella stessa categoria della Sars (anche se non è esattamente la stessa cosa) e dell'Hiv.
Gli interrogativi. In diversi si sono chiesti se esista una correlazione tra la presenza del laboratorio a Wuhan e la diffusione del virus nelle ultime ore. C'è chi sospetta, infatti, che magari possa essersi espanso per errore, ma non esiste alcuna prova di questo. Il governo cinese, nelle ultime ore, ha annunciato che introdurrà controlli di classe A (che di solito sono riservati a patologie più pericolose come il colera o la peste) con il fine di contenere l'epidemia.
Rudy Giuliani contro Obama: "Ha finanziato il laboratorio di Wuhan". L'ex sindaco di New York se la prende anche con Anthony Fauci, l'immunologo della Task Force Usa. "Il dottor Fauci ha stanziato 3,7 milioni di dollari al laboratorio di Wuhan, vogliamo risposte". Roberto Vivaldelli, Lunedì 27/04/2020 su Il Giornale. "Perché gli Stati Uniti (Nih) nel 2017 hanno donato 3,7 milioni di dollari al Wuhan Lab in Cina? Tali sovvenzioni sono state vietate nel 2014. Obama ha fatto un'eccezione?". Lo scrive su Twitter l'ex sindaco di New York e avvocato del Presidente Donald Trump, Rudy Giuliani, che mette nel mirino il National Institutes of Health (Nih), l'ex presidente Barack Obama, e perfino Anthony Fauci, l'immunologo della Task Force Usa. Come ricorda il Washington Examiner, secondo un recente rapporto pubblicato da Fox News, e nonostante tale ipotesi sia stata smentita dalla maggior parte degli scienziati, la comunità dell'intelligence statunitense non esclude che il Covid-19 possa essere sfuggito accidentalmente dall'Istituto di virologia di Wuhan piuttosto che provenire dal mercato della città, come sostiene la versione ufficiale di Pechino. Nel corso di un'intervista concessa a The Cats Roundtable, Rudy Giuliani si è chiesto perché gli Stati Uniti abbiano dato soldi al laboratorio di Whuan. "Nel 2014, l'amministrazione Obama ha proibito agli Stati Uniti di dare soldi a qualsiasi laboratorio, compresi quelli negli Stati Uniti. Vietato! Nonostante ciò, il dottor Fauci ha stanziato 3,7 milioni di dollari al laboratorio di Wuhan - dopo che il Dipartimento di Stato ha pubblicato rapporti su quanto non fosse sicuro quel laboratorio e su quanto fossero sospetti i modi in cui stavano sviluppando un virus che poteva essere trasmesso agli umani", ha affermato Giuliani. L'avvocato di Donald Trump ha poi aggiunto: "Se quel laboratorio risulta essere il luogo da cui proviene il virus, noi abbiamo pagato per questo. Abbiamo pagato per quel dannato virus che ci sta uccidendo". Tuttavia, anche se Rudy Giuliani scarica tutta la colpa su Fauci, va sottolineato, come peraltro fa il Washington Examiner, che non è affatto chiaro quale ruolo abbia eventualmente avuto Fauci nell'assegnazione di quel contributo come direttore dell'ente governativo Niad, il National Institute of Allergy and Infectious Diseases (ente che fa parte del Nih, ndr.): il quale ha sì stanziato in passato un contributo di 3,7 milioni di dollari all'EcoHealth Alliance per studiare i rischi connessi ai mercati di animali selvatici in Cina, ma è altrettanto vero che non tutti quei soldi sono finiti al laboratorio di Whuan. Ciò che è vero è che il National Institutes of Health ha autorizzato e finanziato le ricerche di due laboratori di sperimentazione sugli animali presso l'Istituto di virologia di Wuhan. Sul tema è intervenuto il deputato repubblicano Matt Gaetz: "Sono disgustato di apprendere che, per anni, il governo degli Stati Uniti ha finanziato esperimenti su animali pericolosi e crudeli presso l'Istituto di virologia di Wuhan, che potrebbe aver contribuito alla diffusione globale del coronavirus, e la ricerca in altri laboratori in Cina che non hanno praticamente alcuna supervisione da parte delle autorità statunitensi", ha continuato il repubblicano della Florida. "È inutile e inaccettabile per i contribuenti americani finanziare queste istituzioni e deve finire adesso". Come riportato da IlGiornale, il sospetto che il coronavirus di origine cinese che ha scatenato l'attuale pandemia possa aver avuto origine da un laboratorio nella città di Wuhan è duro a morire, nonostante le ripetute e quasi sdegnate smentite di ambienti scientifici. Un'analisi pubblicata dal Washington Post e ripresa da Forbes rilancia l'ipotesi, di cui la stessa intelligence americana si sta tuttora occupando: lo stesso capo di stato maggiore congiunto degli Stati Uniti, il generale Mark Milley, ha dichiarato ieri che nessuna pista viene ancora esclusa, anche se appare più probabile un'origine naturale del famigerato Covid-19.
Il virus cinese, l'arma di distrazione di massa. Piccole Note il 18 aprile 2020 su Il Giornale. La guerra al coronavirus diventa guerra vera, ma contro la Cina. Una guerra che ha l’esito non di salvare vite, piuttosto perderle. In compenso, impedirà alla Cina di sfruttare il vantaggio di aver sconfitto per prima il virus, situazione che le conferisce un vantaggio sugli Stati Uniti. Una guerra geopolitica, del tutto virtuale, ma con obiettivi reali, si è sovrapposta alla guerra reale, quella per sconfiggere una pandemia e le sue conseguenze economiche di prospettiva catastrofica.
Il “virus cinese”. La pandemia avrebbe dovuto spingere il mondo a unirsi contro il virus, nonostante gli antagonismi, un po’ quel che successe nella Seconda guerra mondiale, quando i paesi liberi si allearono addirittura con Stalin per sconfiggere il nazismo. Non è andata così. Mentre dalla Cina si rinnovano appelli alla cooperazione, nel cosiddetto mondo libero imperversa la narrativa del “virus cinese”. Il virus sarebbe nato nel laboratorio di Wuhan, da qui l’accusa di aver armato un’arma batteriologica sfuggita al controllo. Non solo, la Cina avrebbe insabbiato le dimensioni di quanto stava accadendo, impedendo al mondo di adottare contromisure.
La madre di tutte le fake all’origine del “trattamento Saddam”, Colin Powell all’ONU con una fiala di, supposta, antrace.
In realtà, la Cina ha lanciato l’allarme tempestivo: l’accusa in tal senso si riduce a una settimana di tergiversazione del governo cinese, che c’è stata, ma va compreso che nessuno si aspettava la portata di quanto stava avvenendo. La Cina non poteva immaginare che si trattasse di qualcosa di epocale, probabile abbia immaginato qualcosa di simile alla Sars, che, esplosa in Cina, lì finì (a parte eccezioni che confermano la regola). Detto questo, a distanza di mesi dall’allarme di Pechino, l’Occidente è rimasto a guardare, basti pensare ai tentennamento e ai ripensamenti sulle misure di contenimento. Tutta fuffa, dunque, come anche il famigerato laboratorio cinese, col quale collaboravano tanti istituti internazionali, americani compresi. Tra questi uno dei più grandi geni americani, Charles Lieber, arrestato poco dopo la scoppio della pandemia per indebite relazioni col laboratorio medesimo. Nessuno d questi illustri collaboratori ha mai detto nulla in proposito.
Distruzione di massa. La narrativa del virus cinese riecheggia la macchina propagandistica che convinse il mondo dell’esistenza delle armi di distruzione di massa di Saddam Hussein. Nel caso attuale, si tratta di impedire che la Cina vada a coprire lo spazio geopolitico lasciato vuoto dagli Stati Uniti (causa di forza maggiore), la pandemia diventa così arma di distruzione e distrazione di massa. La propaganda mira a isolare la Cina dal mondo, un po’ quel che avvenne dopo la strage di piazza Tienanmen, a metterla in un angolo. Impedirle, tra l’altro, di portare a compimento la vendita del suo 5G, che prima della pandemia era stato accolto da diversi Paesi, anche europei, suscitando l’ira funesta di Washington, dato che il dominio del digitale è diventato la chiave di volta della sua proiezione globale. Simpatica, in tal senso, la narrazione che vede legata la diffusione del coronavirus al 5G cinese, come se un campo elettromagnetico potesse sviluppare virus (c’è addirittura chi si è scomodato a confutarla, vedi Adnkronos). Fola che però ha attecchito, dando vita anche a movimenti “spontanei” di sabotatori delle antenne 5G in Europa, alcune delle quali sono state date alle fiamme. Il legame tra la narrativa tra il “virus cinese” e il 5G è stato rilanciato in modo alquanto brutale dall’italoamericano e Segretario di Stato Usa, Mike Pompeo, che si è detto convinto che la pandemia convincerà tanti Paesi a rivedere la loro accettazione del 5G di Pechino (Foxbusiness). Ma, come scritto, il martellamento non è solo arma di distruzione di massa contro la Cina, serve anche a riallineare a Washington i Paesi che se ne stanno allontanando, ricreando la suggestione del nemico comune come ai tempi dell’Urss.
Distrazione di massa. Ma è anche arma di distrazione di massa, per soffocare tante scomode domande sui ritardi e le omissioni dell’Occidente. Domande relative al perché, nonostante la pandemia fosse ben nota e stesse facendo strage a Wuhan, i Paesi occidentali non hanno preso contromisure. Mesi a guardare, inerti, che si consumasse la strage cinese, che anzi vellicava le fantasie di quanti stanno alimentando l’attuale narrazione, che si beavano nella possibilità che il virus ponesse fine allo sviluppo cinese (l’11 settembre cinese, la Chernobyl cinese etc), eliminando lo scomodo antagonista globale. Domande ponevano anche le notizie diffuse da media alternativi, con puntate su quelli mainstream, di quanto avvenuto in America, che pur avendo condotto lo scorso anno diverse esercitazioni specifiche contro una prossima pandemia – indovinando anche che il virus avrebbe aggredito le vie respiratorie e il potenziale numero di vittime -, si è fatta cogliere impreparata. Infine la narrativa del virus cinese è utile anche a coprire la notizia che l’intelligence Usa aveva dato un allarme più che tempestivo sui rischi dell’epidemia di Wuhan, che poteva cioè diventare pandemia. Allarme rimasto ignorato, o perché i dirigenti dell’intelligence hanno evitato di informarne le massime autorità o perché, informate, esse hanno sottostimato il pericolo (Piccolenote). La notizia dell’avvertimento è stata negata dal Pentagono, ma è stata confermata da una fonte più che autorevole. Chanel 12, Tv israeliana, che ha certo fonti nell’intelligence di quel Paese, ha rivelato che l’allarme Usa è pervenuto anche in Israele, all’esercito e alle autorità del Paese, tanto che diede luogo a diverse riunioni segrete per decidere sulla vicenda (Timesofisrael). L’allarme, ha rivelato sempre la Tv israeliana, è arrivato anche alla Nato, cioè in Europa. E si presume che in tale sede si sia fermato. Colpevole negligenza che sia, o sottostima, sta di fatto che l’apparato di Sicurezza occidentale sapeva e non ha fatto nulla né informato. Responsabilità sulle quali non c’è attenzione, perché questa viene diretta sulle asserite responsabilità delle autorità cinesi, alle quali è riservato il “trattamento Saddam”.
Gabriele Carrer per formiche.net il 20 aprile 2020. Per parlare di coronavirus e di rapporti tra Stati Uniti e Cina Formiche.net ha intervistato Max Baucus, ex ambasciatore statunitense in Cina dal 2014 al 2017 (gli anni della cooperazione tra i due Paesi sull’ebola) e precedentemente senatore del Montana per il Partito democratico per oltre 30 anni, dal 1978 al 2014. Attualmente è consigliere di Alibaba Group e siede nel consiglio di amministrazione di Ingram Micro, acquisita nel 2016 dal colosso cinese Hna Group.
Ambasciatore, che cosa pensa della definizione “virus cinese” utilizzata dal presidente Donald Trump e da altri esponenti della sua amministrazione? Pechino sostiene si tratti di razzismo.
«Penso sia un errore ma non parlerei di razzismo. Quella del presidente Trump è una strategia per scaricare la colpa sostenendo che la Cina sia il problema, la ragione di tutte le difficoltà degli Stati Uniti, mentre la sua amministrazione sta facendo un incredibile lavoro per rispondere alla crisi. Ma è una strategia fallimentare».
Perché? Come possono uscire da questa pandemia Stati Uniti e Cina?
«Penso che serva un’ampia cooperazione. Tuttavia, oggi nel mondo non c’è alcuna leadership in grado di coordinare gli aiuti e la ricerca, come dimostra l’abominevole decisione del presidente Trump sull’Organizzazione mondiale della sanità. Penso serva coordinamento tra Stati Uniti e Cina: c’è già, basta guarda le collaborazioni tra ricercatori dei due Paesi che superano la politica. Ma una cooperazione con Xi Jinping non risponde alla strategia del presidente deciso ad accusare la Cina per farsi rieleggere».
E se invece venisse eletto Joe Biden?
«Le cose andrebbe sicuramente meglio. Lui è un realista, capisce la Cina, non è ingenuo, saprebbe affrontare la Cina con rispetto e saprebbe imporre un mutuo rispetto».
Secondo lei Trump non conosce la Cina?
«Non penso sia mai andato in Cina prima che diventasse presidente. Questo è uno dei grandi problemi della sua amministrazione: non ci sono molte persone che conoscono e capiscono la Cina, le sue aspirazioni ma anche le sue opportunità. Non c’è un’unica Cina: ci sono regioni e città, e sono diverse l’una dall’altra. L’amministrazione Trump, invece, sembra trattare quel Paese come se fosse tutto uguale».
Alla luce della sua esperienza da ambasciatore, che cosa pensa dell’ipotesi del coronavirus nato in un laboratorio di ricerca a Wuhan?
«Non saprei, è una domanda che richiede indagini molto approfondite e fatti. Non so se il Covid-19 sia nato in laboratorio o in un wet market. La mia sensazione è nel caso in cui il virus fosse fuggito da un laboratorio si sarebbe trattato di un errore, non di un atto volontario. Ma non lo sappiamo».
Torniamo un attimo al rapporto tra Stati Uniti e Cina e alla cooperazione. Potrebbe realizzarsi sulla scia della corsa al vaccino?
«È tragico che gli Stati Uniti e la Cina stiano litigando in questo momento di crisi. La corsa cinese rischia di produrre un vaccino non sicuro: servirebbe una cooperazione con agenzie statunitensi come la Food and drug administration. Ma sfortunatamente la risposta alla pandemia e questa corsa al vaccino stanno alimentando nazionalismo e isolazionismo: la salute dei propri cittadini è la preoccupazione numero uno, quella dei cittadini di altri Paesi viene dopo. E ciò impedisce che gli Stati collaborino».
Questo nazionalismo sta montando anche in Cina?
«Il coronavirus sta creando nazionalismo in tutto il mondo, anche in Cina, dove sta crescendo anche la xenofobia verso gli Stati Uniti. E questo è un favore al presidente Xi Jinping, e certo non va in direzione delle riforme o di qualcosa di simile a un regime change. Il presidente Xi Jinping è in una posizione politica molto forte e non penso questo cambierà a breve. Qualcosa potrebbe cambiare in futuro visto che sono sempre di più i giovani del ceto medio, che sono meno inclini a credere ai dogma del Partito comunista. Questo è un cambiamento che però non avrebbe nulla a che fare con il coronavirus, bensì con la demografia».
L’Australia chiede un’inchiesta internazionale sulla Cina. Francesco Ferrigno il 20/04/2020 su Notizie.it. Il Ministro degli Esteri dell'Australia ha puntato il dito contro la gestione in Cina dell’emergenza coronavirus e la trasparenza. L’Australia ha chiesto un’indagine internazionale sull’origine del coronavirus in Cina. A confermarlo il Ministro degli Esteri Marise Payne che ha parlato in particolare della gestione dell’emergenza e della trasparenza su quanto accaduto. L’Australia converge in questo modo sulla posizione degli Usa in merito alla pandemia di coronavirus (Covid-19). Donald Trump a più riprese ha attaccato Pechino sul reale numero di contagi e decessi in Cina, ma non solo. “Se è stato un errore, allora un errore è un errore. – ha detto Trump – Ma se i cinesi fossero consapevolmente responsabili, sì, allora sicuramente dovrebbero esserci delle conseguenze”. L’Australia insomma, tramite il suo Ministro degli Esteri Marisa Payne, ha affermato che sarebbe necessaria un’inchiesta di carattere internazionale sulla diffusione del coronavirus nel mondo. “Dev’essere attuato – ha spiegato Payne – un tavolo i cui Paesi partecipanti dovranno essere trasparenti ed impegnarsi in un procedimento che garantisca un meccanismo di revisione in cui la comunità internazionale potrà avere fiducia. Confidiamo che la Cina coopererà. L’Australia insisterà assolutamente su questo”. Una revisione indipendente su quanto accaduto per chiarire cosa non ha funzionato nella gestione della crisi. Un’indagine da parte degli Stati Uniti, intanto, è già in corso in merito a ciò che sarebbe successo a Wuhan. Donald Trump ha a più riprese attaccato Pechino arrivando anche a sospendere i finanziamenti per l’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms). Il senatore americano repubblicano David Hawley ha proposto una commissione internazionale guidata dagli Usa e ha chiesto che ai famigliari delle vittime del coronavirus sia consentito fare causa al governo cinese, mentre già si profilano le prime class action da parte di imprese statunitensi per i danni subiti.
Marco Bresolin per “la Stampa” il 22 aprile 2020. L’Europa ha ancora parecchi problemi da risolvere sotto il proprio tetto, tra l' emergenza sanitaria da gestire e le divergenze interne sul rilancio economico da appianare. Però già si intravedono i primi effetti geopolitici della pandemia. In particolare nei rapporti con la Cina, che rischiano di deteriorarsi e di riaccendere le tensioni sul fronte interno per via delle diverse relazioni che gli Stati membri hanno con il colosso asiatico. Sul banco degli imputati c' è la gestione cinese della pandemia. E in particolare la mancanza di trasparenza. Nei giorni scorsi si sono fatti sentire alcuni pezzi grossi della diplomazia europea, come i ministri degli Esteri di Francia e Regno Unito (che, nonostante la Brexit, sul fronte diplomatico resta un fedele alleato dei Ventisette). La Germania - che con una pesante recessione in vista teme di danneggiare le relazioni economico-commerciali con la Cina - era parsa sin qui molto cauta. Ma lunedì sera anche Angela Merkel ha lanciato una frecciata a Pechino Per quanto indiretta, l' accusa della cancelliera ha subito suscitato la reazione piccata del governo cinese. «Quanto più trasparente sarà la Cina per quanto riguarda l' origine del virus - aveva detto Merkel -, tanto meglio sarà per tutti in tutto il mondo, in modo da trarne le giuste lezioni». Un giro di parole per far notare che forse Pechino non ha ancora detto tutto e che dovrebbe farlo al più presto. La replica non si è fatta attendere: «La Cina ha sempre rafforzato la cooperazione internazionale sulla prevenzione epidemiologica in modo aperto trasparente e responsabile», ha risposto un portavoce del ministero degli Esteri. Del resto anche Emmanuel Macron, nell' intervista al «Financial Times» della scorsa settimana, aveva detto che in Cina «sono successe cose che non sappiamo». Ed è per questo che ora in diverse capitali europee cresce la voglia di mettere il governo di Pechino sul banco degli imputati. Lo ha spiegato il britannico Dominic Raab, che vuole fare luce su ciò che è successo e si chiede se forse si poteva fare qualcosa di più per frenare il contagio in Occidente. I toni usati sono certamente diversi da quelli di Donald Trump, che ha colto l' occasione del coronavirus per riaccendere lo scontro con Pechino. Però la diatriba sta producendo una sorta di riallineamento euro-atlantico che vede l' Europa «un po' meno» equidistante da Washington e Pechino. Va detto che le posizioni di Parigi e Berlino (e Londra) non rappresentano quelle di tutti i Ventisette. Oggi è in agenda una riunione dei ministri degli Esteri e la questione non è all' ordine del giorno. Non è escluso che qualche ministro la metta sul tavolo, ben sapendo però che c' è il rischio di far emergere le spaccature. Ci sono notevoli sfumature nei rapporti tra i governi europei e Pechino e certamente l' Italia ha una posizione molto meno conflittuale. Lo si è visto anche nelle scorse settimane dall' entusiasmo con cui il governo, e in particolare la Farnesina, aveva accolto gli aiuti arrivati dalla Cina. Immagini che a Bruxelles e in altre capitali europee erano state liquidate come gesti di propaganda che hanno come unico obiettivo quello di creare tensioni tra i vari Paesi Ue.
Coronavirus, Filippo Facci e "due paroline ai cinesi": tensioni con la Germania, sarà la fine politica di Xi Jinping? Libero Quotidiano il 20 aprile 2020. Filippo Facci rilancia l’ultimo intervento del giornale tedesco Bild, che contiene “due paroline ai cinesi”, ovvero un nuovo capitolo della polemica con il governo di Pechino, iniziata con la richiesta di pagamento dei danni provocati dal coronavirus nel mondo. Allora la Cina, attraverso l’ambasciata in Germania, aveva reclamato delle scuse, che però non sono arrivate, come riporta il giornalista di Libero sui social. Il direttore della Bild, Julian Reichelt, non solo non ha chiesto scusa, ma ha rincarato la dose, facendo leva soprattutto sui laboratori di Wuhan e sui presunti aiuti in giro per il mondo: “Perché i vostri laboratori tossici non sono così sicuri quanto invece lo sono le vostre carceri per i prigionieri politici? Xi Jinping ha creato una Cina impenetrabile, non trasparente. Prima del Covid, la Cina era conosciuta come uno Stato-sorvegliante, ora ha infettato il mondo con una malattia mortale. Questa è la sua eredità politica. La sua ambasciata dice che io non sono all’altezza della tradizionale amicizia fra i nostri popoli. Immagino che considera una grande amicizia, quella in cui manda mascherine in giro per il mondo. Questa non è amicizia, la chiamerei imperialismo nascosto dietro un sorriso, un cavallo di Troia. Pianifica di rafforzare la Cina grazie ad una malattia che ha esportato. Non ci riuscirà: il coronavirus prima o poi sarà la sua fine politica”.
Da tpi.it il 19 aprile 2020.
“Cortesemente, mi consenta di rispondere. Prima di tutto, lei governa con la sorveglianza e il controllo. Lei non sarebbe presidente senza la sorveglianza. Lei controlla qualunque cosa faccia qualunque cittadino ma si rifiuta di monitorare i wet market infetti del suo Paese". Così il direttore del giornale tedesco Bild, Julian Reichelt, si rivolge in un video (pubblicato dal quotidiano online Tpi.it) al Presidente cinese e segretario del Partito Comunista Xi Jinping. Il governo cinese, attraverso la sua ambasciata in Germania, aveva inviato una lettera al quotidiano tedesco per chiedere le scuse da parte del suo direttore che nei giorni scorsi aveva affermato che la Cina avrebbe dovuto provvedere al pagamento dei danni provocati dal coronavirus nel mondo. "Ha fatto chiudere tutti i giornali - prosegue il giornalista tedesco - e i siti internet che si sono mostrati critici rispetto al suo operato, ma non le bancarelle dove vengono vendute le zuppe al pipistrello. Lei non controlla solo i suoi cittadini, ma li mette in pericolo, e con loro, il resto del mondo. Secondo, la sorveglianza è una violazione della libertà. E una nazione che non è libera non può essere creativa, e una nazione che non è innovativa, non inventa nulla. Ecco perché ha trasformato la Cina nel più grande esperimento di furto di proprietà intellettuale. La Cina si arricchisce con le invenzioni degli altri, invece che con le sue invenzioni". "La ragione per cui in Cina non si inventa e non si innova - continua ad argomentare Reichelt nel suo video rivolto al governo di Pechino - è perché non permettete ai giovani del vostro paese di pensare liberamente. La cosa più grande che avete esportato, e che comunque nessuno voleva, è il Coronavirus. Terzo: lei, il suo governo e i vostri scienziati sapevate da tempo che il Coronavirus fosse altamente infettivo, ma avete lasciato il resto del mondo all’oscuro. I suoi esperti non hanno saputo rispondere, quando i ricercatori occidentali chiedevano cosa stesse accadendo a Wuhan, era troppo orgoglioso e nazionalista per ammettere la verità. Pensava si trattasse di una disgrazia nazionale e invece si è trasformata in un disastro globale. Quarto, il Washington Post riporta che i vostri laboratori a Wuhan hanno fatto ricerche sui Coronavirus nei pipistrelli, ma senza mantenere i livelli di sicurezza elevati che sarebbero necessari. Perché i vostri laboratori tossici non sono così sicuri quanto invece lo sono le vostre carceri per i prigionieri politici? Potrebbe spiegarlo alle vedove in lutto, alle figlie e ai figli, mariti e genitori delle vittime di Coronavirus in tutto il mondo? Quinto, nel suo paese il popolo la sta mettendo in discussione, il suo potere sta crollando. Ha creato una Cina impenetrabile, non trasparente. Prima del Covid, la Cina era conosciuta come uno Stato-Sorvegliante, ora è uno stato sorvegliante che ha infettato il mondo con una malattia mortale. Questa è la sua eredità politica". "La sua ambasciata - conclude il direttore della Bild - dice che non sono all’altezza della tradizionale amicizia fra i nostri popoli. Immagino che considera una grande amicizia, quella in cui manda mascherine in giro per il mondo. Questa non è amicizia, la chiamerei imperialismo nascosto dietro un sorriso, un cavallo di Troia. Pianifica di rafforzare la Cina grazie ad una malattia che ha esportato. Non ci riuscirà: il Coronavirus prima o poi sarà la sua fine politica”.
Dagospia il 22 aprile 2020. Goffredo De Marchis su Facebook: Ho scritto il mio pensiero su questo video del direttore della Bild. I miei sentimenti non sono né anti né filo. In ritardo e su segnalazione del mio amico Bruno Sinopoli, capo del dipartimento di ingegneria alla WashU di St. Louis, Missouri (il mondo interconnesso), ho visto il video del direttore della Bild Julian Reichelt rivolto direttamente al presidente cinese Xi Jinping. “Così si fa”, mi ha scritto il professor Sinopoli (penso sia una coincidenza che giusto ieri il Missouri abbia chiesto i danni al governo di Pechino ma con Bruno non si sa mai). Il quotidiano tedesco sostiene che la Cina debba risarcire la Germania per l’enorme iattura economica causata dal virus nato nei suoi mercati di animali vivi e ha ricevuto una piccata lettera dell’ambasciata cinese a Berlino in cui il giornale viene accusato di minare “i rapporti di amicizia tra i nostri popoli”. Questa storia dell’amicizia che i cinesi ripetono a ogni pie’ sospinto sta diventando stucchevole. Non metto in dubbio che dietro l’offerta di aiuti e l’invio di milioni di mascherine ci sia anche un sentimento di generosità, ma sappiamo bene che il regime cinese, con ogni sua mossa, persegue l’obiettivo di fondo dell’imperialismo. Eppure il video-editoriale di Reichelt mi ha colpito per altri motivi, due in particolare. Uno fa sorridere, l’altro meno perchè coinvolge la deontologia professionale, il dovere che abbiamo di dire la verità, possibilmente tutta la verità. Primo, il direttore della Bild è permalosissimo. Un lato del carattere molto latino e poco tedesco. Forse sono luoghi comuni ma se guardate la clip vedrete che Reichelt l’ha presa proprio sul personale. Secondo, mi consolo con il fatto che anche il discorso del giornalista tedesco è puntellato di una serie di luoghi comuni. Cito: la Cina non inventa niente, copia e basta. E’ la più grande ladra di brevetti industriali. Esporta solo idee degli altri e a basso costo. Adesso però esporta il virus che provoca morti e dolore e il virus sì è un’invenzione tutta cinese. L’idea che Pechino sia capace esclusivamente di clonare prodotti dell’ingegno occidentale mi sembra un po’ datata, ma non è questo il punto. Giustamente Reichelt rivendica la libertà di stampa che caratterizza i nostri Paesi a differenza della Cina. Dove il regime sorveglia Internet e i giornali (quando non li chiude direttamente), vigila sui suoi cittadini e sulle loro idee libere, ma poi si fa scappare il Coronavirus sotto il naso, non sorveglia i mercati di animali vivi che sono un retaggio di secoli fa e semina il suo batterio letale in tutto il pianeta. Ecco, al ragionamento del direttore manca un passaggio fondamentale che avrebbe reso l’editoriale più onesto e più distaccato, che è sempre una regola del buon giornalismo. Manca un accenno ai rapporti tra la Germania e la Cina pre-virus. Rapporti economici intendo. Strettissimi. Quella del Paese asiatico non è un’economia di mercato proprio perché lì c’è un regime che come dice l’indignato Reichelt esercita una sorveglianza feroce su tutte le attività dei suoi cittadini. Dunque ogni partnership commerciale passa dai canali politici, dal via libera di Xi Jinping. E la Germania è un formidabile partner commerciale della Cina. Nell’automotive, nelle costruzioni, nell’acciaio e in altri settori strategici. Non è un caso che la Cancelliera Angela Merkel sia la leader mondiale che più volte si è recata in visita di Stato in Cina (anche per la longevità della sua carriera politica, certo). Quando, esattamente tre anni fa, andammo a Pechino per il summit sulla nuova Via della Seta (allora non era così famigerata) con il premier Paolo Gentiloni, io e i colleghi rimanemmo stupiti leggendo la lista dei partecipanti. Il presidente del Consiglio italiano era l’unico leader di un Paese del G7 a intervenire personalmente. Berlino aveva mandato il ministro degli Esteri o dell’Industria, non ricordo. Ma i due bravissimi consiglieri di Gentiloni, Antonio Funiciello e Marco Simoni, ci spiegarono l’arcano: “Sapete quante volte è già venuta in Cina la Merkel quest’anno? Tre”. Ed era solo aprile. Per parlare dei diritti umani violati, della libertà di stampa negata, della sorveglianza spietata sui cittadini cinesi? Non credo. La Cancelliera era volata in Cina in tante occasioni per fare business e stringere accordi economici che in quel Paese passano non dal mercato ma dalle stanze del regime. Il surplus commerciale tedesco, fuori dai vincoli europei al pari dell’extra-deficit, nasce anche dal legame con “gli esportatori di virus”, “i seminatori di morte”, gli imperialisti senza scrupoli con i quali la Germania ha preferito fare alleanze anziché difendersi in maniera compatta attraverso l’Unione europea dalla delocalizzazione o dal loro dumping selvaggio.
Roberto Fabbri per il Giornale il 19 aprile 2020. Quasi tre mesi fa era il 25 gennaio il direttore di TgCom24 Paolo Liguori aveva dato un' indiscrezione clamorosa: il virus dell' epidemia che stava cominciando a dilagare in Cina poteva avere avuto origine da un laboratorio di ricerca militare situato proprio nella città di Wuhan, l' epicentro di un' emergenza sanitaria che nel giro di poche settimane è tracimata in tutto il mondo, trascinando anche il nostro Paese in una crisi drammatica. Questa ipotesi, basata su fonti d' intelligence internazionali, in Italia è stata bollata di complottismo, con uso di toni talora sprezzanti da parte di ambienti sia scientifici, sia politici, sia mediatici. Ora però, dopo la pubblicazione sul Washington Post con la sua patente di nobiltà giornalistica assicurata dal blasone del caso Watergate di un' analisi del columnist Josh Rogin che rilancia i sospetti sul ruolo di un paio di laboratori di Wuhan (definiti altamente insicuri) nella possibile fuga all' esterno di coronavirus su cui venivano condotti esperimenti, l' argomento non solo è tornato di attualità, ma ottiene maggiore rispetto.
Paolo Liguori, adesso leggiamo sul «Corriere della Sera» che a parlare di fuga del virus da un laboratorio cinese non sono più solo i complottisti.
«C'è molto provincialismo in Italia su certi temi, evidentemente c' era bisogno che ne parlasse il Washington Post. Eppure anche loro certe informazioni le ottengono da fonti di intelligence, come abbiamo fatto noi. Per non parlare di altri provincialismi più bassi ancora, tipo quello secondo cui certe indiscrezioni possono essere vere solo se escono su Dagospia (ride). Ma lasciamo perdere. Seriamente parlando, un tema preoccupante è quello dei silenzi su questa vicenda, silenzi frutto di una enorme corruzione entrata nel costume del nostro Paese».
A cosa ti riferisci?
«Intendo dire che non si può stare contemporaneamente con l' Occidente e con la Cina, con il mondo libero e con quello di un aggressivo capitalismo di Stato. Faccio un esempio: dobbiamo evitare che in campo cibernetico dipendiamo dai cinesi, preferisco che i miei dati finiscano a Washington che a Pechino. Meglio morire americani che cinesi! In Italia sul tema delle responsabilità per la diffusione del Covid-19 c' è invece un silenzio agghiacciante, un tentativo impossibile di tenere i piedi in due scarpe. Dobbiamo renderci conto che il dopo-Covid sarà molto caldo, che la geopolitica sarà ridisegnata: e da che parte starà l' Italia? Tra i giornali, sono in pochi a non aver paura di esporsi e uno di questi, La Stampa, non a caso ha avuto un suo giornalista minacciato di morte».
Oltre ai silenzi dobbiamo registrare tante smentite alle «teorie complottiste». Cosa ne pensi?
«Abbiamo assistito a smentite immediate, assolute da parte di tanti virologi che non hanno portato prove. Ma osservo che abbiamo anche virologi italiani che firmano consulenze con i cinesi, e altri che in Italia hanno avuto cause legali e si sono rifugiati negli Stati Uniti, da dove pontificano. Dobbiamo ricordarci che a livello mondiale è un ambiente in cui la corruzione è diffusa, ci sono stati arresti eccellenti come quello del direttore del laboratorio di virologia dell' Università di Harvard, che trafficava con i cinesi. È un giro internazionale che il premio Nobel Luc Montagnier, che oggi afferma che il coronavirus è stato manipolato per un vaccino anti-Aids, conosce bene».
Che idea ti sei fatto della gestione cinese della vicenda?
«A Pechino dimostrano un terribile cinismo di Stato. Una volta scoppiato il caso, la loro intelligence avrebbe valutato che la Cina poteva trarne grandi vantaggi su un Occidente che si sarebbe ripreso più lentamente. Il loro sistema e i loro numeri gli permettono di infischiarsi delle perdite umane, mentre da noi un lungo lockdown porta danni irreversibili. Dobbiamo stare attenti alla Cina, loro vogliono metter piede da padroni nel Mediterraneo, e puntano ai nostri porti di Genova, Livorno, Bari e Venezia, che andrebbero protetti con la golden share».
Tornando a te, ti hanno ferito le critiche?
(Ride ancora) «Liguori è diventato un pazzo perché ha toccato un tema molto delicato. Ho subito un po' di isolamento, ma solo qualche soggetto minore mi ha attaccato, qualche «personaggetto».
Estratto dell’articolo di Francesco Semprini per “la Stampa” il 4 maggio 2020. […] Gli insabbiamenti, secondo alcune ricostruzioni degli Usa, sarebbero avvenuti in un primo momento ad opera dei funzionari del Partito comunista di Hubei, la provincia dove si trova Wuhan, e in un secondo momento dal Politburo della capitale. A rincarare la dose è Peter Navarro, superconsigliere per le politiche commerciali di Donald Trump il quale ribadisce come la linea oscurantista del regime capital-comunista abbia prevalso per tutelare interessi propri, tenere lontani sospetti su eventuali sperimentazioni condotte nei laboratori del regime ed evitare macchie sull' immagine del Dragone. […] L' attenzione degli esperti si concentrerebbe su Shi Zhengli, nome in codice "Bat Woman", la scienziata incaricata di condurre le sperimentazioni sui pipistrelli nel laboratorio di Wuhan. Si seguono diverse piste sulla virologa tra cui le presunte relazioni pericolose del suo laboratorio con l' Università del Texas, su cui il dipartimento dell' Istruzione americano starebbe facendo luce. Il sospetto è che l' ateneo abbia ricevuto donazioni, finanziamenti e regali proprio dall' Istituto di virologia a cui fa capo «Bat Woman» senza denunciarli come prevede la legge. Le autorità stanno indagando inoltre su presunti legami anche con il Partito comunista cinese e un intreccio di finanziamenti che vede l' ateneo collegato ad aziende come Huawei e China National Petroleum. La pista di Wuhan porta soprattutto in Francia: Shi Zhengli ha preso il dottorato alla Montpellier 2 University nel 2000 e il laboratorio di Wuhan è figlio di una collaborazione tra Parigi e Pechino durata sino a poco prima della comparsa del virus. Sarà forse un caso (a Washington non ne sono tutti convinti) ma proprio dall' ambasciata cinese a Parigi è giunto il tweet di un cartone animato in stile «Lego» sulla vicenda Covid-19 nel quale gli Usa vengono dipinti come ignoranti e arroganti.
Estratto dell’articolo di Filippo Santelli per “la Repubblica” il 4 maggio 2020. «Non importa quante volte una bugia venga ripetuta, o quanto accuratamente venga fabbricata. Resta ciò che è». Lo ha ribadito anche ieri il Quotidiano del popolo, megafono della propaganda cinese: le accuse degli Stati Uniti sono false. […] In attesa di vedere le prove, restano gli indizi di prima, tutti circostanziali. Si sa che l' Istituto, uno dei più avanzati in Cina, studia da anni i coronavirus. Un gruppo di diplomatici americani che nel 2018 lo ha visitato ne ha messo in dubbio la sicurezza. Non ci sono però notizie, neppure ufficiose, di incidenti in cui il personale si sia infettato. Secondo gli esperti, le probabilità che la trasmissione all' uomo sia avvenuta in natura sono decisamente più alte. Allo stesso tempo l' ipotesi dell' incidente è in teoria possibile, e difficile da smentire vista la difficoltà nel tracciare le origini di un patogeno. La stessa dottoressa Shi Zhengli, la "Batwoman" che a Wuhan studia i virus dei pipistrelli, ha detto di aver pensato a un errore umano, salvo poi verificare che il Dna di Sars-Cov-2 non corrisponde ai campioni presenti nel laboratorio. […] La Cina contrattacca, accusa gli Stati Uniti di fabbricare una falsa teoria. […] A Pechino ricordano il modo in cui gli Stati Uniti "dimostrarono" i contatti tra Saddam e Al-Qaeda. O la campagna contro lo spionaggio Huawei, senza pistole fumanti. Solo che l'atteggiamento di Pechino non scaccia i dubbi, anzi. Il tentativo di presentarsi come un campione di trasparenza stride con i silenzi e le censure delle prime settimane di epidemia, ben documentati. Non solo. Per togliere al virus l'attributo di "cinese", il Dragone ha spacciato a sua volta disinformazione sulle sue origini: non è nato in Cina, oppure ce lo ha portato un soldato americano. Bufala a cui molti cittadini credono. […] L'Australia si è unita alla richiesta americana di una commissione di inchiesta. Regno Unito, Francia e Germania hanno sottolineato i punti oscuri sulle origini del virus. […]
Coronavirus uscito dal laboratorio, sospetti su Shi Zhengli: la donna dei pipistrelli e i suoi legami con la Francia. Libero Quotidiano il 4 maggio 2020. Il coronavirus nato in un laboratorio di Wuhan e uscito per errore? Secondo le autorità e i servizi segreti americani, l'origine della pandemia è questa e porterebbe direttamente a Shi Zhengli, virologa incaricata di condurre le sperimentazioni sui pipistrelli proprio nel laboratorio di Wuhan e per questo diventata famosa nel mondo con il nome in codice Bat Woman. Secondo la Stampa, negli Usa si sospetta su molti suoi rapporti internazionali, a cominciare da quello con il laboratorio dell'Università del Texas che avrebbe ricevuto "donazioni, finanziamenti e regali proprio dall'Istituto di virologia a cui fa capo Bat Woman senza denunciarli come prevede la legge". Ma il cuore dell'inchiesta è soprattutto quello che conduce dalla professoressa Shi Zhengli alla Francia, via partito comunista cinese. L'ateneo della ricercatrice vanterebbe rapporti consolidati con colossi come Huawei e China National Petroleum, mentre la stessa Bat Woman, che ha preso il dottorato alla Montpellier 2 University nel 2000, sarebbe l'anello di congiunzione tra Wuhan e le autorità francesi, visto che il suo laboratorio, sottolinea il quotidiano torinese, "è figlio di una collaborazione tra Parigi e Pechino durata sino a poco prima della comparsa del virus". Poi un dettaglio laterale, ma non troppo: "Sarà forse un caso (a Washington non ne sono tutti convinti) ma proprio dall'ambasciata cinese a Parigi è giunto il tweet di un cartone animato in stile Lego sulla vicenda Covid-19 nel quale gli Usa vengono dipinti come ignoranti e arroganti". Un altro tassello nel mosaico di complotti, insabbiature e doppie verità.
Gian Micalessin per “il Giornale” l'8 maggio 2020. La chiave del mistero si chiama Shi Zhengli. Per chiarirlo i cinesi devono soltanto lasciarla parlare. Invece l' hanno imbavagliata. O fatta sparire. Nei laboratori dell' Istituto di Virologia di Wuhan, la struttura sospettata di essere al centro del contagio, Shi Zhengli è conosciuta come la «bat-woman», la donna-pipistrello. Dal 2004 la ricercatrice, oggi 55enne, studia i pipistrelli a «zoccolo di cavallo» sospettati di trasmettere all' uomo il Coronavirus della Sars. Per questo il 30 dicembre Wang Yan Yi, la direttrice dell' istituto, le intima di lasciare Shangai, tornare a Wuhan e analizzare i reperti di alcuni pazienti affetti da misteriosi polmoniti. A raccontarlo è la stessa Shin Zhengli nell' intervista firmata, l' 11 marzo, da Jane Qiu, collaboratrice cinese di Scientific American. Prima soltanto un' estemporanea dichiarazione, pubblicata su WeChat il 2 febbraio, in cui scrive «giuro sulla mia vita che il virus non ha nulla a che vedere con il laboratorio». Il 2 febbraio la tesi è ancora lontana dal divenire virale. Perché smentirla? Mistero. L' intervista a Scientific American aggiunge altri interrogativi. Il primo riguarda il mercato ittico di Wuhan indicato come origine del contagio. «Mi sono chiesta se non si fossero sbagliati non mi sarei aspettata che una cosa del genere accadesse a Wuhan» dichiara la dottoressa scettica su un passaggio animale-uomo avvenuto in una zona urbana anziché negli ambienti tropicale in cui da 16 anni concentra i suoi studi. Il dubbio successivo è ancor più inquietante. «Potrebbe esser arrivato dal nostro laboratorio - ammette la dottoressa che aggiunge - quello è stato un vero peso non ho chiuso occhio per giorni». Ma nell' intervista si guarda bene dallo smentire l' ipotesi. In compenso annuncia, senza spiegarne le ragioni, di aver abbandonato le ricerche sul virus. Sul Daily Mail dell' 11 aprile il giornalista cinese Gao Yu racconta di aver parlato con Shi Zhengli. A sentir lui è di fatto «imbavagliata» fin dal 2 gennaio quando terminò la sequenza del genoma del Covid scoprendolo identico per il 96% a quello studiato nel suo laboratorio. Quello stesso 2 gennaio una mail della Direttrice dell' Istituto vieta la divulgazione delle ricerche. Ma l' errore fatale della «bat woman» è la relazione scientifica pubblicata il 23 gennaio, ripresa poi da Nature, in cui spiega d' aver scoperto la contagiosità del virus il 14 gennaio, sei giorni prima che Pechino lo riveli al mondo. Anche per questo una settimana fa molte voci la danno a Parigi pronta a consegnare un dossier sulla fuga da laboratorio del Covid. Voci fugate dall' ennesimo laconico messaggio su WeChat in cui Shi Zengli racconta di essere ancora a Wuhan con la famiglia. Peccato che nelle nove romantiche foto di paesaggi cinesi allegate al messaggio non ce ne sia una in cui si vedano la ricercatrice e i suoi familiari.
Shi Zhengli, la Bat Woman cinese che va a caccia di virus. Federico Giuliani il 18 maggio 2020 su Inside Over. Shi Zhengli è una delle virologhe più famose della Cina. Da 16 anni visita le grotte più oscure del suo Paese a caccia di pipistrelli, dai quali preleva campioni di tessuto e sangue con l’obiettivo di identificare decine di virus mortali. È per questo motivo che i suoi colleghi l’hanno soprannominata Bat Woman o, più elegantemente, come ha fatto la stampa internazionale, ”signora dei pipistrelli”. Shi lavora nell’Istituto di virologia di Wuhan, il famoso laboratorio BSL-4, cioè dotato del quarto livello di biosicurezza, il massimo possibile. Qui la ricercatrice dirige il Center for Emerging Infectious Diseases. Nel corso degli anni, grazie alla sua paziente caccia ai pipistrelli, è inoltre riuscita a comporre uno dei più grandi archivi di coronavirus al mondo.
La signora dei pipistrelli. Il 30 dicembre 2019 Shi sta partecipando a un’importante conferenza in quel di Shanghai quando il suo cellulare inizia a squillare. All’altro lato del telefono c’è il direttore del suo Istituto che le comunica una notizia strabiliante. Il Centro per il controllo e la prevenzione delle malattie di Wuhan ha scoperto un coronavirus mai visto prima nel corpo di due pazienti ricoverati in ospedale con una polmonite atipica. L’ordine è lapidario: “Interrompi quello che stai facendo e mettiti al lavoro subito”. In altre parole, a Shi viene chiesto di tornare immediatamente nello Hubei per indagare sullo strano agente patogeno. Che cos’è? Da dove viene? Quali sintomi provoca? Senza batter ciglio la signora dei pipistrelli rientra a Wuhan, dove la sua equipe isola il virus e ne mappa il genoma. Il virus scoperto da Shi si rivelerà incompatibile con l’ipotesi di una possibile modifica dell’agente patogeno in laboratorio. In ogni caso, in quei giorni di dicembre le autorità di Wuhan comunicano che la situazione è sotto controllo e che il virus non è in grado di passare da uomo a uomo. Passano i giorni e negli ospedali della città si moltiplicano i casi di pazienti ricoverati per la solita polmonite atipica collegata a quel maledetto coronavirus.
Un nuovo coronavirus. A gennaio un laboratorio dello Shanghai Public Health Clinical Center, guidato dal professor Zhang Yongzhen, partendo da un campione ricevuto da un nosocomio di Wuhan, isola quello che diventerà per tutti Covid-19. Il signor Zhang capisce che la situazione è più grave del previsto e avvisa la Commissione sanitaria nazionale. Qualcosa finalmente si muove, fino a quanto il 9 gennaio viene annunciata ufficialmente la presenza di un nuovo coronavirus. Pechino si fa sentire solo alla fine di gennaio. Il 20 il presidente Xi Jinping parla pubblicamente del virus, mentre il governo centrale decide l’extrema ratio. Altro che sotto controllo, come hanno detto le autorità di Wuhan: la situazione è ormai gravissima, il virus può trasmettersi da uomo a uomo e la capitale dello Hubei non può che essere messa in quarantena. Iniziano così i 76 giorni di isolamento della Città Azzurra e dell’intera provincia: dal 23 gennaio all’8 aprile i cittadini non possono lasciare le loro abitazioni. Il disastro ormai è fatto. Il virus ha infettato migliaia di cinesi e ha già superato i confini della Grande muraglia. Il governo centrale, tenuto probabilmente all’oscuro di tutto ciò che stava accadendo nell’epicentro dell’epidemia da qualche ”papavero” locale, salva la situazione in extremis usando misure draconiane. I danni sono (e saranno) tuttavia ingenti. Per la Cina e per il mondo.
La "scoperta" del Covid. Questa parentesi narrativa è necessaria per spiegare cosa è accaduto a Shi Zhengli. Avevamo lasciato Bat Woman nel suo laboratorio di Wuhan. A pandemia ormai scoppiata, l’11 marzo, la signora dei pipistrelli rilascia una lunga intervista alla rivista Scientific American, accennando vagamente all’ipotesi che il virus possa essere sfuggito proprio dall’Istituto in cui la donna presta servizio. Un nuovo coronavirus a Wuhan, nella Cina centrale, per di più in una zona urbana? Un avvenimento alquanto bizzarro, visto che, secondo gli studi di Shi, le aree in cui era maggiore il rischio che si potesse realizzare una zoonosi (il famigerato salto di specie) erano quelle subtropicali dello Yunnan, del Guandong e del Guanxi. Una dubbio attanaglia la mente della ricercatrice: se davvero le cause delle polmoniti anomale erano i coronavirus, questi ”potevano forse essere arrivati dal nostro laboratorio?”. A un’idea del genere la signora dei pipistrelli ha dichiarato di non aver ”chiuso occhio per giorni”. Un ammissione di colpevolezza, dunque? No, soltanto un’ipotesi, successivamente smentita. Eppure, dagli Stati Uniti, Donald Trump e Mike Pompeo continuano a puntare il dito sul laboratorio di Wuhan. Bisogna comunque ricordare che nel febbraio 2020 i ricercatori di Shi hanno pubblicato un articolo su Nature intitolato ”Un focolaio di polmonite associato a un nuovo coronavirus di probabile origine pipistrello”. Il team aveva scoperto il 96,2% del genoma di Sars-Cov-2 si sovrapponeva a quello di un virus appartenente alla famiglia della Sars. Secondo alcune indiscrezioni quel virus, il CoV ZC45, rinvenuto nei pipistrelli Rhinolophus affinis presenti nelle province dello Yunnan e dello Zhejiang, era uno di quelli studiati all’interno del laboratorio.
La misteriosa scomparsa. Dopo aver parlato con la rivista, dunque, Shi scompare misteriosamente. La ricercatrice non avrebbe potuto rilasciare dichiarazioni. Non sappiamo cosa le sia successo, né se la sua scomparsa sia da ricollegare all’intervista citata. Fatto sta che sui social cinesi gli utenti avanzano il cupo presentimento che il governo possa averla imbavagliata o, addirittura, fatta sparire. L’11 aprile una giornalista del Daily Mail prova a contattare Shi ma non riesce a mettersi in contatto con lei. La ricercatrice sarebbe stata ”imbavagliata” dal 2 gennaio scorso, cioè da quando ha mappato il genoma del Covid-19. Sempre il 2 gennaio una mail della direzione dell’Istituto vietava di divulgare ricerche. Monito non rispettato da Shi, che il 14 gennaio decise di pubblicare, tra l’altro, una relazione scientifica in cui spiegava di aver scoperto la contagiosità del virus. Morale della favola: la signora dei pipistrelli è sparita. C’è chi dice che Shi sia fuggita a Parigi, pronta a consegnare un dossier sulla fuga dal laboratorio di Wuhan del Covid, e chi afferma che Bat Woman si trovi ancora in Cina. A proposito di quest’ultima pista, una collega americana di Shi, Jonna Mazet, ha dichiarato di aver parlato con la ricercatrice di recente. Quest’ultima avrebbe escluso per certo la possibilità che il Covid-19 possa essere uscito da un laboratorio. Una versione, questa, diversa dalle altre affermazioni titubanti rilasciate nelle settimane scorse da Zhengli.
I pipistrelli e il virus. Riavvolgiamo il nastro. Nel 2004 Shi effettua la sua prima spedizione assieme a un team internazionale di ricercatori. Il compito del team è quello di raccogliere campioni dalle colonie di pipistrelli che abitano nelle grotte situate nei pressi di Nanning, nel Guangxi. I pipistrelli sono veri e propri ”serbatoi” di virus, e da loro – si pensava giustamente all’epoca – potrebbe essere partita l’epidemia di Sars, la prima epidemia del XXI secolo. Non a caso l’organizzazione doveva proprio scoprire il colpevole dell’agente patogeno che, a cavallo tra il 2002 e il 2003, mise a soqquadro la Cina e diverse zone del mondo. Passano gli anni ma il lavoro di Shi non cambia di una virgola: visitare grotte nascoste, allestire trappole, catturare pipistrelli, raccogliere campioni di sangue e feci degli animali, liberare gli esemplari e tornare in laboratorio. Da quanto ottenuto è possibile non solo individuare gli anticorpi ma anche materiale genetico, entrambi materiali utili per scovare i colpevoli dei coronavirus. Alla fine i cacciatori di virus scoprirono centinaia di coronavirus trasmessi dai pipistrelli. Nella maggior parte di casi sono innocui, ma alcuni di loro appartengono allo stesso gruppo della Sars e riescono a infettare le cellule polmonari umane, provocando malattie simili alla Severe acute respiratory syndrome e risultando resistenti a molti vaccini. ”I coronavirus trasmessi dai pipistrelli provocheranno altre epidemie. Dobbiamo trovarli prima che ci trovino lor”, aveva detto Shi prima di far perdere le sue tracce.
Coronavirus, lo studio sparito con cui due scienziati accusavano la Cina: "La verità non si saprà mai". Libero Quotidiano il 05 maggio 2020. C'è anche il giallo di uno studio pubblicato e poi eliminato da due scienziati cinesi, Botao Xiao e Lei Xiao, del Politecnico di Guangzhou ad alimentare la tesi del dossier che l'amministrazione Usa ha preparato per attaccare la Cina e supportare l'accusa che il Covid-19 sia stato creato dai cinesi. "Il coronavirus - si leggeva in quell' analisi - probabilmente ebbe origine in un laboratorio di Wuhan. I livelli di sicurezza vanno rafforzati nei laboratori di biologia batterica ad alto rischio". L'intero articolo apparve sul sito ResearchGate , poi venne rimosso. La verità, scrive Repubblica, forse non si saprà mai. Se ci fu una responsabilità umana, anche solo uno sbaglio o negligenza, questo aggiungerebbe un movente ai tentativi delle autorità cinesi di nascondere la verità.
DiMartedì, Edward Luttwak: "La giungla di Wuhan". Coronavirus, l'articolo di Le Monde e le colpe cinesi. Libero Quotidiano il 06 maggio 2020. Non ha dubbi, o quasi, Edward Luttwak: il coronavirus è uscito dal laboratorio di Wuhan. Un attacco frontale alla Cina che il politologo è tornato a ribadire nel corso di DiMartedì, il programma di Giovanni Floris in onda su La7 il 5 maggio. "I francesi hanno costruito il laboratorio di Wuhan. E hanno pubblicato che loro hanno fatto il laboratorio, loro lavoravano con questi splendidi scienziati cinesi e poi hanno scoperto che i cinesi pensavano fosse una brillante idea mettere 20 studenti con ogni ricercatore - ricorda Luttwak -. I francesi hanno detto che le complicatissime norme di sicurezza limitano gli studenti a due ricercatori". Peccato però che i se ne siano fregati. "Puoi leggere tutto su Le Monde. In un articolo dal titolo: Dalla giungla del laboratorio di Wuhan. Anche il governo francese, come la commissione europea, chiede un'investigazione. Il virus non è cominciato a Voghera. Anche Ursula Von der Leyen ha chiesto un'investigazione. Ricordate che i dottori cinesi che volevano denunciare il virus sono stati arrestati? Tutti i governi dei paesi seri hanno chiesto un'investigazione", ha concluso Luttwak (con evidente riferimento al silenzio di Giuseppe Conte e compagnia governante).
Edward Luttwak chiama in causa la Francia sul coronavirus: "Deliberatamente progettato, a Wuhan pratiche terribilmente pericolose", cosa sanno. Libero Quotidiano il 02 maggio 2020. Edward Luttwak tra le fila dei complottisti. L'economista statunitense, in uno sfogo su Twitter, svela il lato oscuro del coronavirus: "La propaganda cinese - cinguetta - sta tirando fuori un trucco: nel confutare le false accuse secondo cui il virus è stato deliberatamente progettato dal famoso laboratorio di Wuhan, cercano di negare tacitamente che provenga da lì. Ma i francesi che hanno costruito il laboratorio affermano che le sue pratiche erano terribilmente pericolose". Insomma, tutto farebbe pensare che il Nobel Luc Montagnier abbia ragione. Il Covid-19 è sfuggito dal laboratorio e non è un caso che la Cina se la sia presa con l'Australia intenzionata ad aprire un'indagine a livello internazionale. Ipotesi battuta anche dagli Stati Uniti che ora si battono per ottenere un "risarcimento danni".
Coronavirus, il P4 di Wuhan e il rapporto tra la Cina e la Francia: "Non si sa cosa facciano in quel laboratorio". Libero Quotidiano il 18 aprile 2020. È ormai acclarato che la teoria del coronavirus uscito accidentalmente da un laboratorio cinese non appartiene più alla categoria dei complotti, ma si fonda su basi abbastanza solide da poter essere considerata almeno verosimile. Nell’edizione odierna, il Fatto Quotidiano ha ricostruito la storia del l“Non si sa cosa facciano in quel laboratorio”. Il P4 a Wuhan cuore dell’epidemia? Dietro c’è anche la Franciagrazie ad Antoine Izambard, giornalista di Challenge che l’anno scorso ha pubblicato un libro che indaga sui rapporti pericolosi tra Francia e Cina. Al centro c’è il P4 di Wuhan, un laboratorio con il più alto livello di biosicurezza che è nato da una collaborazione franco-cinese, siglata nel 2004 dopo la crisi di Sars. Dopo le rivelazioni del Washington Post, secondo cui il virus potrebbe essere “sfuggito” da un laboratorio, i sospetti si sono concentrati soprattutto sul P4, inaugurato solo tredici anni dopo l’accordo del 2004. L’intesa è però subito arrivata ad un punto morto, tanto che il progetto di ricerca comune non sarebbe mai partito: addirittura secondo Izambard i diplomatici francesi sostengono che, nella costruzione del P4, non ci sia stata alcuna trasparenza da parte della Cina. “In principio le intenzioni erano buone - ha spiegato il giornalista - ma il problema, all’epoca come ora, è lo stesso: la politica sanitaria e biologica della Cina è poco trasparente. Sono stato a Wuhan nel febbraio 2019, ma il laboratorio non sembrava neanche operativo. Nel 2020 avrebbe dovuto ricevere la certificazione dell’Oms. Che cosa si fa esattamente nel P4 non si sa - ha chiosato Izambard - è ovvio che nascano sospetti”.
Paolo Mastrolilli per la Stampa il 18 aprile 2020. La Cina risponde alle critiche arrivate da Stati Uniti e Francia, negando di aver nascosto l' epidemia di coronavirus che stava esplodendo al suo interno, e smentendo i sospetti che tutto sia nato nei suoi laboratori di Wuhan. Così riconosce che questi attacchi stanno danneggiando non solo la sua credibilità, ma anche le sue ambizioni geopolitiche globali. Proprio ieri però Pechino ha dovuto rivedere al rialzo il numero dei decessi, sottovalutato nelle settimane scorse, alimentando i dubbi sui suoi comportamenti, mentre l' economia è scivolata in territorio negativo per la prima volta in mezzo secolo. La versione originaria della Repubblica popolare è stata che il virus era di origine naturale, e il contagio era cominciato nel mercato del pesce di Wuhan. Le autorità però non hanno mai consentito ad una delegazione di scienziati internazionali di verificare la situazione sul terreno. Mercoledì scorso il «Washington Post» ha pubblicato i rapporti inviati circa due anni fa dai diplomatici americani, rimasti molto allarmati dopo aver visitato il Wuhan Institute of Virology e i Wuhan Center for Disease Control and Prevention. In questi due laboratori si studiava la trasmissione del coronavirus dai pipistrelli agli esseri umani, e le condizioni di sicurezza erano insufficienti. Ciò non significa che il virus sia stato costruito in laboratorio come un' arma biologica, ma alimenta il sospetto che possa essere sfuggito ai ricercatori mentre lo maneggiavano senza le precauzioni necessarie. Trump ha confermato il sospetto, e il collega francese Macron ha detto al «Financial Times» che Pechino deve dare spiegazioni più chiare: «Sono avvenute cose che non conosciamo». Fonti dell' intelligence americana hanno confermato che stanno indagando su questi sospetti, e ieri il segretario di Stato Pompeo ha rilanciato gli attacchi: «Stiamo ancora chiedendo al Partito comunista cinese di consentire agli esperti di entrare nel laboratorio di virologia di Wuhan, per determinare con precisione dove è originato il virus». Il portavoce del ministero degli Esteri cinese ha risposto così: «Vorrei ricordare che l' Organizzazione Mondiale della Sanità ha ripetutamente dichiarato che non esistono prove del fatto che il virus sia stato costruito in laboratorio. Molti scienziati autorevoli hanno sconfessato la teoria che sia sfuggito dal laboratorio». La questione è stata discussa anche giovedì durante una telefonata tra i presidenti Xi e Putin, in cui il leader cinese ha detto che «la politicizzazione della pandemia è di detrimento per la collaborazione internazionale». La questione ha senza dubbio un risvolto politico, e non a caso è coincisa con il blocco dei finanziamenti americani all' Oms. Trump si trova davanti ad una grave crisi interna, tanto sul piano sanitario, quanto su quello economico, come dimostrano i tweet di ieri in cui ha incitato alla rivolta contro il blocco Stati come il Michigan, la Virginia e il Minnesota. Quindi in vista delle elezioni di novembre ha bisogno di rovesciare la responsabilità sugli altri, ossia Pechino per come ha gestito l' epidemia, e l' Oms perché è stata complice e non l' ha fermata. Il problema però è più grande della politica interna americana, come ha sintetizzato bene l' ultima copertina dell'«Economist», chiedendosi se la Repubblica popolare stia vincendo la sfida geopolitica creata dalla pandemia, per scavalcare gli Usa come la superpotenza globale dominante.
Coronavirus, Washington Post: due cablogrammi nel 2018 da Usa a Cina, la denuncia sul laboratorio di Wuhan. Libero Quotidiano il 16 aprile 2020. Da giorni si rincorrono le voci su indagini da parte dell'intelligence Usa sull'origine del coronavirus. Un'origine che potrebbe essere colposa. E la colpa potrebbe essere della Cina. Una teoria accreditata da più parti e che si fa sempre più corposa, almeno stando a quanto rilanciato dall'autorevolissima Cnn, insomma non certo una televisione complottarda e complottista. La Cnn già aveva dato contro delle indagini in corso, ma ora sposta l'asticella molto più in alto. In un servizio ha confermato che dirigenti dell'intelligence Usa e della sicurezza nazionale americana stanno esaminando tra le possibilità, appunto, quella che il Covid-19 sia nato non nel mercato di Wuhan, ma nel laboratorio della megalopoli cinese. Insomma, il virus si sarebbe diffuso dopo un incidente. Quale la novità? Presto detto: la Cnn cita diverse fonti a conoscenza del dossier e rende noto anche come il Washington Post, altra fonte molto autorevole, ha rivelato nelle ultime ore l'esistenza di due cablogrammi diplomatici tra Stati Uniti e Pechino. I cablo risalgono al 2018 e in questi Washington intimava alla Cina di intervenire sulle carenze in termini di sicurezza del laboratorio di virologia di Wuhan. Un caso? Chissà...
Guido Olimpio per corriere.it il 16 aprile 2020. È un susseguirsi di messaggi. Ruotano attorno alla doppia domanda: se il virus sia nato in laboratorio e magari sia poi sfuggito per un incidente. Gli scienziati — lo ribadiamo subito — lo escludono, ma non tutti sono convinti e non stiamo parlando di cospirativi. L’ultimo segnale: durante un incontro con i media, il Capo di Stato Maggiore statunitense Mark Milley ha detto la sua sul grande mistero: nulla è conclusivo, gli indizi sono per l’origine naturale, però non lo sappiamo con certezza. È un approccio cauto, lascia delle opzioni. In precedenza, uno dei responsabili sanitari del Pentagono, il generale Paul Freidrichs, aveva escluso lo scenario del laboratorio con un no piuttosto deciso dando ragione agli scettici.
I laboratori. L’intervento del generale ha incrociato il sentiero con un articolo, apparso nella sezione commenti, del Washington Post, a firma di Josh Rogin. Cosa racconta? Nel gennaio 2018 l’ambasciata Usa a Pechino invia messaggi allarmati a Washington sulle condizioni di sicurezza nell’Istituto di Virologia di Wuhan WIV. Durante una visita al centro, il console statunitense e un suo consigliere scientifico annotano, con preoccupazione, che i tecnici non operano come dovrebbero, esistono problemi nella gestione e nelle protezioni. Poi aggiungono il timore che le ricerche sul legame coronavirus-pipistrelli e la possibile trasmissione verso gli esseri umani rappresenta il rischio di una nuova pandemia. Poiché l’istituto riceve sostegno da università statunitensi, i diplomatici consigliano di intensificare l’assistenza per l’importanza degli studi, ma anche per la loro pericolosità. Meglio vigilare.
Lo scienziato. L’attenzione si concentra sull’attività di Shi Zhengli, responsabile della ricerca a Wuhan proprio sul dossier chiave del contagio. I cablo trasmessi al Dipartimento di Stato segnalano l’inquietudine per i rischi che prende, osservazione già espressa da alcuni studiosi nel 2015. A loro giudizio alcune delle sue iniziative sono sul filo, possono finire male. Altri dubbi investono un secondo laboratorio sempre a Wuhan. I medesimi rilievi emersi, pochi giorni fa, da un altro pezzo del Washington Post. David Ignatius, giornalista e commentatore con buoni agganci, sembra indicare uno scenario e, in qualche modo, una via d’uscita a Pechino: tutto potrebbe essere nato per un errore del personale dei laboratori, dunque un incidente, con la successiva contaminazione. E correda la tesi con molti riferimenti alle presunte imprudenze e alla mancanza di contromisure efficaci per evitare disastri come quello avvenuto. Ripetiamolo: il sospetto potrebbe essere quello non di un’arma batteriologica costruita a tavolino, ma di un passo falso compiuto durante prove scientifiche.
Le polemiche. Ora è noto che il mondo della scienza ha preso le distanze da queste ricostruzioni e propende per l’origine naturale. L’intelligence statunitense, che inizialmente ha escluso scenari sinistri, sta ancora indagando, raccoglie elementi e lascia aperto il file dove finiscono tante teorie. Gli agenti sono comunque convinti che gli avversari abbiano nascosto la gravità della crisi, fin dall’inizio. C’è poi l’aspra lotta tra Pechino e Washington, con scambi di accuse, polemiche, la guerra di Trump contro l’OMS. Le indiscrezioni sui media ne sono parte, però non si tratta di semplici «opinioni». Sono tracce su un sentiero tortuoso e insidioso che potrebbe portare a conclusioni clamorose. Ma anche no. Potrebbero pesare le prove – se esistono – ma anche il duello che oppone falchi e colombe sull’atteggiamento da mantenere verso la Cina. E non solo negli Stati Uniti.
Torna l'ipotesi shock sul virus "Nato in laboratorio in Cina". Il "Washington Post" rilancia i sospetti su Wuhan. Il capo di Stato maggiore Usa: "Nessuna pista esclusa". Roberto Fabbri, Venerdì 17/04/2020 su Il Giornale. Il sospetto che il coronavirus di origine cinese che ha scatenato l'attuale pandemia possa aver avuto origine da un laboratorio nella città di Wuhan è duro a morire, nonostante le ripetute e quasi sdegnate smentite di ambienti scientifici. Un'analisi pubblicata dal Washington Post e ripresa da Forbes rilancia l'ipotesi, di cui la stessa intelligence americana si sta tuttora occupando: lo stesso capo di stato maggiore congiunto degli Stati Uniti, il generale Mark Milley, ha dichiarato ieri che nessuna pista viene ancora esclusa, anche se appare più probabile un'origine naturale del famigerato Covid-19. Lo stesso presidente Donald Trump, impegnato in una campagna mediatica che mette la Cina nel mirino, ha fin qui preferito evitare di sbilanciarsi. Chi invece si è spinto in là è il capo dello Stato francese Emmanuel Macron, che al Financial Times ha rilanciato i dubbi: in Cina «ci sono chiaramente cose che sono successe che non sappiamo». L'articolo del columnist Josh Rogin del Washington Post offre comunque spunti di notevole interesse. L'autore aggiorna le informazioni già note (derivanti in massima parte da un articolo pubblicato nel 2015 sulla rivista scientifica Nature) sul laboratorio di ricerca di Wuhan, e afferma che già due anni prima che la pandemia di coronavirus scoppiasse alcuni funzionari dell'ambasciata americana in Cina avevano visitato la struttura che riceveva finanziamenti Usa allo scopo di favorirne la sicurezza più di una volta, e che per due volte avevano deciso di inviare comunicazioni ufficiali a Washington, con le quali si metteva in guardia sul livello inadeguato di sicurezza in quel laboratorio dove venivano condotti «studi rischiosi» su coronavirus provenienti da pipistrelli. Uno dei due cablogrammi che Rogin ha potuto leggere avvertiva le autorità americane che «il lavoro condotto nel laboratorio di Wuhan sui coronavirus dei pipistrelli e la loro potenziale trasmissione all'uomo rappresentavano un rischio di una nuova pandemia simile alla Sars». Secondo Rogin, già in quel gennaio 2018 gli scienziati americani avevano potuto riscontrare in quel sito scientifico «una grave carenza di tecnici e ricercatori adeguatamente formati per lavorarvi in sicurezza», e raccomandavano di fornire aiuto per garantirla. L'autore precisa che non esistono prove che il Covid-19 sia stato prodotto in laboratorio, e riconosce che una gran maggioranza degli studiosi concorda sulla sua origine animale; questo però non significa insiste Rogin citando il ricercatore dell'Università della California Xiao Qiang che non sia uscito da quel laboratorio di Wuhan, dove per anni sono stati condotti test su animali con coronavirus provenienti da pipistrelli. Anzi, secondo Xiao esistono fondate preoccupazioni anche riguardo a un altro laboratorio di Wuhan, quello del Centro per il controllo e la prevenzione delle malattie: timori che hanno un senso se si considera che ricorda il columnist americano Pechino rifiuta di rispondere alle domande sull'origine del Covid-19, e blocca i tentativi di approfondimento sul possibile ruolo dei due laboratori. La credibilità cinese sulla vicenda è dubbia: nel mercato del pesce da cui il disastro avrebbe tratto origine non si vendono pipistrelli, e più di un terzo dei primi contagiati non lo aveva frequentato. Secondo Associated Press il presidente Xi risulta che fosse stato informato dei primi «strani casi di polmonite» a Wuhan già il 14 gennaio e che non avesse fatto nulla per bloccare i festeggiamenti in città. Quando lanciò l'allarme il 20 gennaio era ormai tardi, c'erano già tremila contagiati.
Coronavirus, gli Usa indagano sull'ipotesi che arrivi dal laboratorio di Wuhan. Le Iene News il 16 aprile 2020. L’intelligence Usa, secondo la Cnn, starebbe indagando sull'ipotesi che il coronavirus sarebbe nato da un laboratorio di Wuhan, ma per gli scienziati il virus è naturale. Tra le ipotesi al vaglio dell’Intelligence Usa e della sicurezza nazionale americana sull’origine del coronavirus c’è anche quella che sia stato creato in un laboratorio di biosicurezza a Wuhan, come riporta la Cnn. L’ipotesi però è già stata confutata dagli scienziati di un gruppo internazionale di ricerca guidato da un istituto californiano, Scripps Research Institute. “Confrontando i dati disponibili sulla sequenza del genoma per i ceppi di coronavirus noti, possiamo determinare con certezza che la SARS-CoV-2 ha avuto origine attraverso processi naturali”, dice Kristian Andersen, biologo evoluzionista. Sembra infatti che l’intervento dell’ingegneria genetica lasci delle tracce che nel caso della SARS-CoV-2 non sono state riscontrate. Secondo la Cnn “l’ipotesi della creazione in laboratorio sarebbe stata spinta dai sostenitori di Trump che vorrebbero deviare le critiche sulla presunta cattiva gestione della pandemia”. E la rivista scientifica Lancet vengono riportati degli studi che confutano l'origine della pandemia, che potrebbe non essere il mercato ittico di Wuhan, come invece si era ipotizzato inizialmente. Le nuove ricerche epidemiologiche, infatti, non avrebbero riscontrato alcun collegamento tra i primi malati di coronavirus e il mercato del pesce. Inoltre, 13 di 41 casi non avrebbero alcun collegamento con quel mercato. L’infettivologo Daniel Lucey, dell'Università di Georgetown di Washington, riflettendo sui tempi di incubazione, posizionerebbe i primi casi di coronavirus prima di dicembre, mentre i contagi al mercato ittico di Wuhan sarebbero avvenuti successivamente. Secondo Kristian Andersen, quello descritto da Lucey è solo uno dei tre scenari possibili coerenti con i dati attualmente in possesso dei ricercatori. Negli altri due l’origine del virus sarebbe legata o a un gruppo di animali infetti, o a un singolo animale presente nel mercato. La conclusione, per ora, di questa complicata ricerca dell’origine del coronavirus la troviamo nelle parole di Bin Cao, uno degli autori dell’articolo di Lancet, scritte in risposta a Lucey: “sembra chiaro che il mercato del pesce non sia l'unica origine del virus e a essere sinceri, non sappiamo ancora da dove provenga”.
Coronavirus: una catastrofe annunciata e negata. Piccole Note de Il Giornale il 9 aprile 2020. L’allarme coronavirus c’è stato, ma è rimasto inascoltato. L’Abc rivela che il National Center for Medical Intelligence (NCMI), organo dell’Us Army, già a novembre aveva avvertito che una catastrofe si stava abbattendo sul mondo, dato quanto stava accadendo a Wuhan. Secondo le fonti anonime che hanno dato la notizia alla Abc, il rapporto era stato redatto in base “ad analisi di intercettazioni telefoniche e dei computer, confortate da immagini satellitari”.
Avvertimento inascoltato. Quanto emerso “ha generato allarme perché una malattia fuori controllo avrebbe costituito una grave minaccia per le forze statunitensi in Asia, forze che dipendono dal lavoro dell’NCMI”. Non solo, l’avvertimento avrebbe dovuto spingere il governo americano a “intensificare gli sforzi per mitigare e contenere [la malattia, ndr.] molto prima”, così da “prepararsi” a una crisi che avrebbe interessato lo stesso territorio degli Stati Uniti. Secondo gli analisti, c’era il reale pericolo di un “evento catastrofico”. Tale rapporto sarebbe stato più volte inoltrato alle più alte sedi dell’esercito americano e istituzionali. “Da quell’avvertimento di novembre, le fonti riportano che si sono avuti ripetuti briefing, durati fino al mese di dicembre, con politici e funzionari del governo federale e del Consiglio di sicurezza nazionale”. Il Pentagono ha smentito Abc. Ma resta che quanto rivelato è alquanto realistico: possibile che delle Agenzie di informazione tanto sofisticate, in grado di intercettare telefonia, computer e usare satelliti in grado di leggere, dall’alto, i titoli degli articoli dei quotidiani, non abbia avuto nessuna contezza di quanto si stava consumando a Wuhan? Quanto rivela il rapporto è in contrasto con la propaganda ormai egemone negli Usa, che cioè la Cina non ha informato il mondo della gravità di quanto stava avvenendo. Propaganda che oggettivamente copre e sopisce le domande sulle defailance Usa, che sono tante.
Il coronavirus secondo il Consiglio di Sicurezza. La narrazione anti-Pechino, infatti, a quanto pare non è nata spontaneamente. Il Daily Beast ha pubblicato un memo inviato al Dipartimento di Stato Usa nel quale si illustrano le linee guida alle quali i funzionari americani si devono attenere nello spiegare la pandemia. Nel memo, proveniente dal Consiglio per la Sicurezza nazionale, si raccomanda di mettere in evidenza “l’insabbiamento” operato dal governo di Pechino e si dettaglia come si debba rilevare la gravità di tale azione. Insomma, la Cina deve essere messa alla sbarra. Il memo raccomanda poi di “diffondere questo messaggio in ogni modo possibile, comprese conferenze stampa e apparizioni televisive”. Ovviamente il messaggio è veicolato anche dalla stampa indipendente, dato che, come avviene normalmente, le informazioni che essa trasmette si basano su fonti ufficiali (da tempo l’idea di verificare tali fonti, o almeno di acquisirle come fonti di parte, come accadeva un tempo, ha registrato un processo di erosione). Peraltro, l’intelligence Usa ha tentato di “provare” che Pechino ha dato informazioni false, mentendo sul numero delle vittime e sull’estensione dell’epidemia. Ma, nonostante gli sforzi, scrive il New York Times, “per la frustrazione sia della Casa Bianca sia della comunità dell’intelligence, le agenzie non sono state in grado di raccogliere numeri più accurati nonostante il loro impegno”. In realtà, rileva il NYT, se c’è qualcosa di certo addebitabile a insabbiamenti locali, a funzionari che temevano di essere puniti. per lo più a rendere impossibile la gestione della pandemia è stata la difficoltà di quantificare un evento tanto catastrofico che presenta alta diffusione, un gran numero di asintomatici e tanti casi che inevitabilmente esulano dai calcoli, come è avvenuto per l’Italia, che ancora non riesce a dare un quadro esaustivo di quanto sta avvenendo. Insomma, la stessa intelligence Usa smentisce la narrativa corrente. Tant’è:
La sottostima cinese e altrui. Peraltro sulla sottostima di casi iniziale, che il NYT ascrive automaticamente al dolo dei dottori cinesi, si può anche non concordare, se si tiene presente quanto avvenuto altrove. Basti pensare all’Italia, dove il cosiddetto paziente 1 viene identificato il 20/2/2020 (data interessante), mentre tanti virologi spiegano che è impossibile che un incendio tanto vasto sia iniziato solo allora, retrodatando l’inizio dell’epidemia. Sul punto sembra interessante un articolo di Leggo del 9 gennaio dedicato alla sindrome influenzale annuale. Questo il titolo: “Influenza, boom di ricoveri. Picco di polmoniti e bronchiti”. Vi si legge che il “notevole numero di casi di bronchiti e polmoniti” dovuto a complicanze della sindrome influenzale causata da vari virus, stava causando, solo al Niguarda di Milano, “350 accessi al giorno”. Di interesse anche l’intervento del segretario della Federazione italiana dei medici di medicina generale, Silvestro Scotti: “Tra Capodanno e l’Epifania abbiamo registrato un incremento dei casi. Dall’inizio di gennaio abbiamo avuto almeno un 20% in più di persone colpite e questo si è rilevato sull’intero territorio nazionale. Abbiamo visto soprattutto un aumento delle complicanze di tipo respiratorio e bronchiale con alcuni casi più gravi di polmonite».
Possibile che in Italia sia passata inosservata la prima fase epidemica? Più che possibile. Come sottostimato è stato il dilagare dell’epidemia in America, non iniziata certo quando si è cominciato a contare i morti. Insomma, si può accusare la Cina, ma appare in buona compagnia. Meglio sarebbe abbassare il dito accusatorio per rimboccarsi le maniche. Concordi.
Da corrieredellosport.it il 6 aprile 2020. “Non possiamo escludere del tutto che la pandemia sia partita per un errore compiuto in un laboratorio di Wuhan”. Ci risiamo. Quando ormai l’ipotesi di un errore umano all’origine del contagio da Covid-19 era retrocessa al livello di fake news, ecco spuntare i servizi segreti inglesi a rilanciare l’ipotesi e a dare nuova benzina al motore dei complottisti in giro per il mondo. La notizia uscita sui tabloid britannici (gli stessi che hanno rilanciato l’ipotesi di una connessione fra il 5G e la trasmissione del virus, ovvero fantascienza pura) è che il governo britannico crede che la pandemia di coronavirus sia stata causata da una fuga del virus da un laboratorio cinese, “nonostante la gran parte degli scienziati continui a dire che il nuovo Coronavirus abbia un’origine naturale e sia stato trasmesso per la prima volta all’uomo da un mercato di animali vivi a Wuhan”. La fuga da un laboratorio di massima sicurezza presente a Wuhan “non è campata in aria”. La rivelazione sarebbe di un membro del Cobra, il comitato di emergenza guidato da Boris Johnson, che riceve informazioni dettagliate direttamente dai servizi di sicurezza d’oltremanica: “Esiste una visione alternativa credibile [alla teoria zoonotica] sulla natura del virus. Forse non è un caso che quel laboratorio sia proprio a Wuhan. Non è così scontata come coincidenza”, ha dichiarato.
L'errore nel laboratorio che ha dato il via alla pandemia. In effetti, come ormai noto a tutti, Wuhan ospita un importantissimo istituto di virologia, il più avanzato del suo genere in Cina. Istituto, tra l’altro, posizionato a pochi chilometri dal famigerato mercato della fauna selvatica da dove sarebbe scoppiata l’epidemia poi trasformatasi in pandemia. Sempre stando a quanto riportato dal membro del comitato di emergenza britannico, diversi lavoratori dell’istituto di Wuhan sarebbero stati contagiati dopo essere entrati in contatto col sangue di animali infetti e avrebbero poi portato l’infezione nella popolazione locale dando il via all’emergenza. Non solo, si ritiene inoltre che un secondo laboratorio di virologia presente in città, il Wuhan Center for Disease Control – che si trova a soli 5 chilometri dal mercato – abbia condotto esperimenti su animali come pipistrelli per esaminare la trasmissione del Coronavirus. Il professor Richard Ebright, esperto americano di biosicurezza, del Waksman Institute of Microbiology della Rutgers University, nel New Jersey, ha affermato che mentre le prove suggeriscono che Covid-19 non è stato creato in uno dei laboratori di Wuhan, potrebbe facilmente essere fuggito da lì mentre veniva analizzato. Un errore umano a tutti gli effetti, in sostanza.
Non solo i mercati bagnati. Le nuovi ipotesi sul virus. Paolo Mauri su Inside Over il 6 aprile 2020. La pandemia causata dall’ultimo coronavirus ha scatenato una vera e propria guerra parallela, soprattutto nelle scorse settimane e in particolare all’inizio del contagio, sull’origine del virus. Una battaglia a colpi di accuse tra Stati Uniti e Cina che sono scivolate addirittura nella diffusione di notizie false, con dei toni propagandistici che non si vedevano dai tempi della Guerra fredda, quando l’Unione sovietica accusava la Cia di aver costruito in laboratorio il virus Hiv dell’Aids. Nel mese appena trascorso, che ha visto l’epidemia diffondersi esponenzialmente in quasi tutti i Paesi occidentali e in particolar modo negli Usa – con buona pace dei complottisti di ogni fede politica che volevano il virus creato in laboratorio dal Pentagono – abbiamo assistito a scambi di accuse anche molto forti da parte delle rispettive diplomazie. Da un lato Pechino, il 12 marzo, ha fatto sapere per voce del suo ministro degli Esteri, che Covid-19 è stato portato in Cina dall’Us Army durante la partecipazione dei giochi militari mondiali tenutisi a Wuhan a ottobre dell’anno scorso, dall’altro la Casa Bianca, riferendosi alla malattia, la ha definita “virus cinese” (presidente Donald Trump) e “Virus di Wuhan” (Segretario di Stato Mike Pompeo). Se queste definizioni possono apparire “normali” ai più, non lo sono per chi mastica di politica internazionale: nemmeno la molto più letale Sars, nel 2003, era stata definita in tal modo per una sorta di rispetto verso il “dragone”, che era ormai diventato tra i maggiori attori della politica globale e, volenti o nolenti, un partner commerciale fondamentale. Le parole, in diplomazia, hanno un peso anche se prese singolarmente: una lezione che la Russia sembra aver dimenticato nel passato recente, ma questa è un’altra storia. La stessa Cia, chiamata in causa da Pechino che poi, molto saggiamente, ha ritrattato per bocca del suo ambasciatore negli Usa Cui Tiankai quando ha definito certe voci “folli” (da entrambi i lati della barricata però), ha sempre sostenuto la “naturalità” di Sars-CoV-2, ovvero che non si tratta di un’arma batteriologica: una possibilità che avevamo escluso su queste colonne nei primi giorni della sua diffusione in Italia in forza di motivazioni prettamente militari, ma anche suffragandole da evidenze di tipo scientifico, le stesse riferite dall’agenzia di intelligence Usa. Accertato quindi che non siamo davanti a un patogeno artificialmente creato per un qualche tipo di fine militare, restano sempre le domande su come abbia potuto diffondersi dai pipistrelli all’uomo e quindi generare la pandemia che stiamo affrontando con grandi sacrifici umani ed economici, da cui, probabilmente, non ci riprenderemo appieno prima di un decennio. La storia del “mercato di Wuhan“, quella ufficialmente diffusa da Pechino, sembra però traballare, tanto che gli stessi scienziati, prima ancora delle agenzie di intelligence, lasciano aperta la porta alla possibilità che possa essere occorso un incidente in un laboratorio cinese che stava studiando i coronavirus animali per cercare un qualche tipo di cura o vaccino. Evento plausibile anche con l’aiuto dell’ingegneria genetica, come abbiamo avuto modo di affrontare in un precedente approfondimento. Perché la teoria del “mercato del pesce” non funziona? Innanzitutto gli animali che hanno ospitato il virus in origine, i pipistrelli, non venivano venduti al mercato incriminato di Wuhan, sebbene ci sia la possibilità che possano aver contaminato altri animali là presenti. A suffragare questa tesi, come ci ricorda il Washington Post in un recente articolo, c’è uno studio di Lancet di gennaio che afferma che i primi contagi uomo-uomo di Covid-19 non hanno alcuna connessione col mercato della città della provincia di Hubei. Secondariamente potrebbe esserci stato un rilascio accidentale: il centro di ricerca batteriologica, il Chinese Center for Disease Control or Prevention, dista solo poche centinaia di metri dal mercato ed è possibile che ci sia stato un problema di cattivo smaltimento dei “rifiuti”, in questo caso i pipistrelli usati negli esperimenti. Forse però l’ipotesi più interessante, e più inquietante in prospettiva futura, sull’innesco dell’epidemia è quella avanzata da Richard Ebright, un microbiologo ed esperto di sicurezza biologica della Rutgers University. Il ricercatore afferma, sempre al Washington Post, che “il primo contagio umano potrebbe essere avvenuto in modo accidentale” col virus che è passato dai pipistrelli all’uomo “durante un incidente in laboratorio” a causa delle scarse misure di sicurezza del centro di ricerca cinese. Ebright afferma che a Wuhan i coronavirus sono studiati con un livello di “biosicurezza” pari a 2, che fornisce solo protezioni minime che avrebbero dovuto essere quelle del livello 4, definito Bsl-4 (Biological Safety Level), il più elevato data la natura dell’agente patogeno. Il ricercatore sostiene la sua tesi descrivendo un video dello scorso dicembre girato nel centro di ricerca di Wuhan in cui si vede personale “raccogliere campioni di coronavirus da pipistrelli con sistemi di protezione individuale del tutto inadeguati e con metodologie del tutto insicure”. Ebright poi ha citato due articoli, del 2017 e del 2019, in cui si descrivevano gli “eroici” ricercatori di Wuhan che catturavano i pipistrelli nelle caverne “senza prendere misure protettive” ed esponendosi così all’urina degli animali – potenzialmente infetta – che pioveva dalla volta come “gocce di pioggia”. C’è poi la questione che rimanda direttamente al regime censorio della Cina, che ha nascosto anche quanto più possibile il nascere dell’epidemia che ormai viene fatto risalire alla metà di novembre: un articolo scientifico apparso su Research Gate a firma di due ricercatori della South China University of Technology – Botao Xiao e Lei Xiao – affermava che “in aggiunta alle origini date dalla ricombinazione naturale e degli ospiti intermedi, il coronavirus killer si è originato probabilmente nei laboratori di Wuhan. Il livello di sicurezza può aver bisogno di essere rinforzato in laboratori ad alto rischio biologico”. L’articolo accusatorio è stato “curiosamente” ritirato poco tempo dopo la sua pubblicazione e a febbraio uno degli autori ha riferito al Wall Street Journal che “non era supportato da dirette evidenze”, ma il sospetto che i due autori si siano dovuti piegare alla censura del Politburo resta. Anche se in questi ultimi giorni stiamo assistendo ad un clima di distensione tra Stati Uniti e Cina, con gli inviti e soprattutto i primi passi verso la collaborazione medico-scientifica e anche dal punto di vista della reciproca assistenza per sconfiggere l’epidemia, su Pechino resta comunque un pesante sospetto non tanto sull’origine biologica del virus quanto dal punto di vista della sua diffusione nell’ambiente. Le condizioni di sicurezza dei laboratori e le procedure di biocontenimento con le quali vengono trattati certi agenti patogeni non possono più essere considerate come delle semplici “questioni interne”, ma vista la pericolosità per l’intera popolazione planetaria – come stiamo osservando con la diffusione di Covid-19 – devono essere trattate come un problema mondiale e non è più tollerabile che siano coperte da censura, soprattutto in prospettiva di una futura e nuova pandemia, che potrebbe essere molto più letale di quella attualmente in atto.
Coronavirus, la ricerca: il paziente 0 è cinese ma non di Wuhan. Focolai, altre menzogne del regime? Libero Quotidiano il 31 marzo 2020. Il paziente zero europeo non ha nulla a che vedere con la provincia di Hubei e in particolare con la città di Wuhan. Secondo le ultime ricostruzioni riportate nell’edizione odierna del Fatto Quotidiano, in Europa il coronavirus potrebbe essere arrivato dalla metropoli di Shanghai. Dallo studio sulle sequenze complete del virus emerge l’ipotesi di una donna di Shanghai che ha partecipato ad un incontro di lavoro in Germania tra il 21 e il 22 gennaio e che avrebbe portato per la prima volta il Covid-19 in Europa. Lo scambio tra la Germania e l’Italia sarebbe poi avvenuto attorno al 26 gennaio e ce ne sarebbe stato almeno un altro nei giorni successivi, con il nostro paziente zero che, dopo essere rientrato nella zona di Codogno senza rivolgersi alle autorità, è tornato in Germania contagiando altre persone. Di certo c’è che in Lombardia il virus è arrivato a fine gennaio e ha viaggiato indisturbato per quasi un mese: ecco spiegato perché, una volta individuato il primo caso, molti altri ne sono seguiti in tutto il nord Italia. Il Fatto riporta che in questi giorni i ricercatori del Sacco di Milano stanno analizzando le sequenze arrivate dai territori lombardi più colpiti per capire come il virus è arrivato a Codogno e anche per poter prevedere se e quando si verificherà una seconda ondata di contagi.
Andrea Centini per "fanpage.it" il 31 marzo 2020. I primi casi accertati di COVID-19, l'infezione scatenata dal coronavirus SARS-CoV-2, risalgono alla fine dello scorso anno in Cina, associati al mercato del pesce Huanan della metropoli industriale da 11 milioni di abitanti Wuhan. Ciò nonostante, secondo alcuni scienziati il patogeno sarebbe in circolazione nella popolazione umana da alcuni anni, se non addirittura da decenni. Ciò significa che il cosiddetto “spillover”, cioè il salto di specie da animale a uomo, sarebbe avvenuto da molto tempo e non tra il 20 e il 25 novembre 2019, come suggerito da uno studio guidato da scienziati italiani del Campus BioMedico di Roma. A sostenere l'origine remota del patogeno che sta mettendo in ginocchio il mondo intero è stato un team di ricerca internazionale guidato da uno scienziato del prestigioso The Scripps Research Institute di La Jolla, California, che ha collaborato a stretto contatto con colleghi dell'Istituto di Biologia dell'Evoluzione dell'Università di Edimburgo (Regno Unito), del Center for Infection and Immunity presso la Mailman School of Public Health dell'Università Columbia, del Marie Bashir Institute for Infectious Diseases and Biosecurity dell'Università di Sydney (Australia) e della Facoltà di Medicina dell'Università di Tulane. Si tratta della stessa, autorevole squadra che ha smentito l'origine in laboratorio del coronavirus, le cui caratteristiche sono state rigorosamente plasmate dall'evoluzione naturale. Proprio attraverso il sequenziamento del genoma del SARS-CoV-2, il team guidato dal professor Kristian Andersen, docente presso il Dipartimento di Microbiologia e Immunologia dell'istituto californiano, è giunto alla conclusione che il coronavirus possa essere tra noi da moltissimo tempo. Secondo gli scienziati, il patogeno presenta una mutazione unica non rilevata nei coronavirus degli animali dai quali sarebbe avvenuto il salto di specie, come i pipistrelli del genere Rhinolophus (i pipistrelli dal muso a ferro di cavallo) e i pangolini malesi, nei quali sono stati trovati patogeni molto vicini al SARS-CoV-2. Per gli autori dello studio la mutazione sarebbe emersa dopo ripetute infezioni avvenute in passato tra animali e uomo, definite dagli scienziati “a piccoli cluster” (gruppi di persone). Replicazione dopo replicazione, il virus, che inizialmente non faceva ammalare i contagiati, avrebbe sviluppato un mutazione nella proteina (spike) che si lega alla furina, un enzima presente nel nostro organismo, trasformandolo nel “killer” che, nel momento in cui stiamo scrivendo, sulla base della mappa interattiva messa a punto dall'Università Johns Hopkins ha contagiato oltre 720mila persone e ne ha uccise 34mila (quasi 11mila solo in Italia). A sostegno dell'evoluzione “lenta” del coronavirus, dopo essere passato per piccoli gruppi di persone in un ampio lasso di tempo, vi è anche il dottor Francis Collins, direttore del National Institute of Health (NIH) degli Stati Uniti, “A seguito di cambiamenti evolutivi graduali nel corso di anni o forse decenni, il virus alla fine ha acquisito la capacità di diffondersi da uomo a uomo e ha iniziato a causare malattie gravi, spesso pericolose per la vita”, ha dichiarato lo scienziato, come riporta il South China Morning Post. I dettagli della ricerca sull'origine del coronavirus sono stati pubblicati sull'autorevole rivista scientifica Nature Medicine.
(Askanews il 26 marzo 2020) - "Il servizio del 16 novembre 2015 andato in onda nella rubrica “Leonardo” della TgR è tratto da una pubblicazione della rivista Nature". Lo dichiara il direttore della testata regionale Rai, Alessandro Casarin, che spiega: "Proprio tre giorni fa la stessa rivista ha chiarito che il virus di cui parla il servizio, creato in laboratorio, non ha alcuna relazione con il virus naturale Covid-19".
Elena Dusi per Repubblica.it il 26 marzo 2020. "Scienziati cinesi creano supervirus polmonare da pipistrelli e topi. Serve solo per motivi di studio ma sono tante le proteste". È il titolo di un servizio montato come un thriller di Tg Leonardo, andato in onda nel 2015. Riferisce di un esperimento condotto in collaborazione fra l'Accademia delle scienze cinese e l'università della North Carolina, cui partecipò anche l'università di Wuhan. Nella città epicentro dell'attuale pandemia esiste infatti un laboratorio di massima sicurezza (classificato come P4). E non è mancato chi ha sospettato, con teorie complottistiche, che da lì sia uscito per sbaglio il coronavirus di oggi. La tesi circola almeno da febbraio ed è stata smentita una settimana fa da uno studio di Nature Medicine, che dimostrava che l'attuale virus è di origine naturale, non artificiale. Non è bastato. Il video di Tg Leonardo negli ultimi due giorni si è diffuso sui nostri telefoni a ritmi rapidissimi, ed è finito sul twitter di Matteo Salvini. "Un virus naturale e uno creato in laboratorio sono perfettamente distinguibili", smentisce Fausto Baldanti, virologo dell'università di Pavia e del Policlinico San Matteo. "L'esperimento del 2015 è avvenuto sotto gli occhi di tutti. Il genoma di quel microrganismo è stato pubblicato per intero. E non è lo stesso del coronavirus attuale". Del microrganismo che circola oggi abbiamo ormai sequenziato un migliaio di genomi: a circa trecento sta lavorando lo stesso Baldanti, in collaborazione con il Niguarda. L'esperimento del 2015, pubblicato su Nature Medicine (primo autore Menachery, ultimo Baric), viene descritto così dal servizio del Tg Leonardo: "Gli scienziati prendono una proteina dai pipistrelli e la inseriscono sul virus della Sars ricavato dai topi, rendendolo capace di trasmettersi all'uomo". Secondo Giovanni Maga, direttore dell'Istituto di genetica molecolare del Cnr di Pavia, "il virus attuale non deriva né dalla prima versione della Sars né tantomeno dai topi, per cui non può essere in nessun modo il virus creato nel laboratorio cinese di cui si parla nel servizio". Anche la rivista Nature si è affrettata mercoledì ad aggiungere a quell'articolo un commento: "Ci risulta che questa storia viene usata per far circolare teorie infondate che il nuovo coronavirus che causa Covid-19 sia stato ingegnerizzato. Non esiste evidenza che questo sia vero". Ma perché fu condotto quell'esperimento? "Perché per sconfiggere il tuo nemico devi conoscerlo" spiega Baldanti. "Qualche anno fa in Olanda un gruppo prese il virus della Spagnola da alcuni cadaveri conservati per un secolo nel permafrost in Alaska. Venne modificato, aggiungendo dei frammenti di genoma che ne modulavano la virulenza. L'obiettivo era capire come mai quella pandemia fu così micidiale, per prevenire il ripetersi di un evento simile". Ci si interrogò molto, all'epoca (era il 2013) su cosa far prevalere: conoscenza o sicurezza. "Ma si decise di andare avanti, rispettando standard di contenimento altissimi all'interno dei laboratori" racconta Baldanti. Il virus chimera cinese del 2015 è figlio di quella decisione, e di un esperimento simile. Il fatto che dei suoi geni conosciamo ogni dettaglio, proprio perché lo studio è stato pubblicato, ci rassicura che non ha somiglianza con il genoma del coronavirus attuale.
Così gli scienziati cinesi crearono un supervirus polmonare dai pipistrelli. Valentina Stella su Il Dubbio il 25 marzo 2020. Nel 2015 TgLeonardo denunciò gli esperimenti dei ricercatori di Pechino sul virus della Sars. Il mondo accademico conferma la ricerca ma smentisce ipotesi complottiste: “Non ha nulla a che vedere con Covid-19”. Nelle ultime ore sta circolando nelle chat e sui social un servizio di Tg Leonardo, il telegiornale scientifico di Rai 3. Risale al 16 novembre 2015 ed è a firma del giornalista Maurizio Menecucci. Ma prima da studio il conduttore spiega che “scienziati cinesi creano un supervirus polmonare da pipistrelli e topi. Serve solo per motivi di studio ma sono tante le proteste. Vale la pena rischiare?” . E prosegue nel dire: “si tratta di un esperimento che preoccupa molti scienziati”. L’esperimento, condotto in un laboratorio cinese, viene portato avanti da “un gruppo di ricercatori cinesi” che “innesta una proteina presa dai pipistrelli sul virus della Sars. Ne esce un supervirus che potrebbe colpire l’uomo”. Hanno dunque ragione coloro che dicono che la pandemia del covid-19 ha avuto origine in un laboratorio di Wuhan in Cina? La risposta è al termine dell’articolo ma vediamo ancora nel dettaglio cosa ci raccontavano nel 2015.Il giornalista si chiede, facendosi portatore dei dubbi di parte della comunità scientifica, se valga la pena portarlo avanti rischiando che il virus esca dal laboratorio e colpisca l’uomo. Al via poi il servizio giornalistico: “Un gruppo di studiosi è riuscito a sviluppare una chimera – dice la voce fuori campo – un organismo modificato innestando la proteina superficiale di un coronavirus trovato nei pipistrelli della specie più comune detta naso a ferro di cavallo su un virus che provoca la Sars, la polmonite acuta anche se in forma non mortale nei topi”. “Si sospettava che la proteina potesse rendere l’ibrido idoneo a colpire l’uomo, è l’esperimento lo ha confermato”, dice il giornalista. E va avanti: “è proprio questa molecola detta SHCO14 che permette al coronavirus di attaccarsi alle nostre cellule respiratorie scatenando la sindrome. Secondo i ricercatori l’organismo originale e, a maggior ragione quello ingegnerizzato, può contagiare l’uomo direttamente dai pipistrelli senza passare per una specie intermedia come il topo ed è questa eventualità a sollevare molte polemiche”. Il servizio prosegue dicendo come il governo Usa un anno prima, quindi nel 2014, aveva sospeso i finanziamenti alle ricerche che puntavano a rendere i virus più contagiosi ma la moratoria non aveva fermato il lavoro dei cinesi sulla Sars che era già in fase avanzata e che non si riteneva così pericoloso. “Le probabilità che il virus passi alla nostra specie – dice il giornalista – sarebbero irrilevanti rispetto ai benefici. Un ragionamento che molti altri esperti bocciano” perché “ di questi tempi è più prudente non mettere in circolazione organismi che possano sfuggire o essere sottratti dal controllo dei laboratori”. Abbiamo contattato la redazione di Tg Leonardo e abbiamo parlato con Silvia Rosa-Brusin, vice caporedattore che al Dubbio dice: “confermo che il video è autentico ed è nato a seguito della pubblicazione sulla prestigiosa rivista Nature di uno studio dal titolo “A SARS-like cluster of circulating bat coronaviruses shows potential for human emergence. Noi riportiamo regolarmente da 28 anni gli esperimenti, anche i più estremi. Non abbiamo messo in rapporto il servizio riguardante il virus del 2015 con quello che sta circondando per motivi di responsabilità, perché non c’era prova che fosse lo stesso virus, e qualche giorno fa proprio la rivista Nature ha dimostrato che il virus ha origine naturale” .Dunque niente da fare per i complottisti, anche stasera vince la scienza!
Coronavirus “creato in laboratorio”, Salvini e Meloni senza vergogna sul servizio del Tgr Leonardo. Redazione de Il Riformista il 26 Marzo 2020. Sarà per il calo di visibilità che stanno avendo nel corso della pandemia di Coronavirus. Sarà che affrontare teorie di complotto genera interazione e, nella migliore delle ipotesi, consenso. Matteo Salvini e Giorgia Meloni mercoledì 25 marzo non hanno nemmeno contato fino a dieci per cavalcare e lanciare in pasto agli italiani un servizio del Tgr Leonardo (il tg scientifico di Rai 3), andato in onda il 16 novembre 2015, è alimentare la fake news della creazione dell’attuale coronavirus in laboratorio. “Da Tgr Leonardo (Rai Tre) del 16.11.2015 servizio su un supervirus polmonare Coronavirus creato dai cinesi con pipistrelli e topi, pericolosissimo per l’uomo (con annesse preoccupazioni). Dalla Lega interrogazione urgente al presidente del Consiglio e al Ministro degli Esteri” ha annunciato il leader della Lega sui suoi megafoni social. Non è da meno la collega di Fratelli d’Italia: “Era il novembre 2015 e questo servizio della RAI denunciava l’esperimento di un gruppo di ricercatori cinesi: la creazione in laboratorio di un “supervirus” derivato dall’innesto di una proteina tratta dai pipistrelli sul virus della Sars, la polmonite acuta. La Cina ci ha mentito? Vogliamo la verità” ha chiosato la Meloni. Con l’Italia in piena emergenza coronavirus, con migliaia di vittime e di contagiati, con le regioni del nord in ginocchio e con quelle del sud terrorizzate dall’arrivo del picco, due politici principali del nostro Paese non ce l’hanno fatta a contare almeno fino a dieci (o a pensare a chi questa emergenza la combatte in prima linea e non dietro lo schermo del cellulare) prima di cavalcare, senza alcuna verifica, un video che girava da ore su WhatsApp, canale social che si sta rivelando sempre più ‘portatore’ di bufale in questo periodo di quarantena forzata, e che si riferiva ad altri esperimenti effettuati nei laboratori cinesi. I due “populisti” per racimolare consensi in periodo di ‘magra’ hanno deciso di allarmare ulteriormente i cittadini italiani, speculando sulla pandemia in corso e generando ulteriore preoccupazione tra chi già sta vivendo settimane da incubo. E fa niente se dalla comunità scientifica internazionale e dalla stessa redazione giornalistica Rai sono arrivate smentite e precisazioni sul servizio andato in onda quasi 5 anni fa. “L’attuale coronavirus è naturale al 100% non è stato creato in laboratorio” questa la sostanza delle esternazioni degli esperti. Si sono pronunciati tutti: dal Presidente del Consiglio Superiore della Sanità al Direttore Scientifico dello Spallanzani di Roma; dal Comitato Scientifico di Supporto del Governo al Direttore della testata giornalistica Rai responsabile del servizio televisivo passando per la rivista Nature che offrì lo spunto per il dibattito del 2015. Lo stesso premier Giuseppe Conte ha precisato: “Virus in laboratorio? Ho referenze che non è cosi. Non ho visto il servizio, ma ho referenze che non è così”. Lo ha detto il premier Giuseppe Conte sull’ipotesi di un coronavirus creato in laboratorio.
IL SERVIZIO – “Un gruppo di ricercatori cinesi innesta una proteina presa dai pipistrelli sul virus della Sars. Ne esce un supervirus che potrebbe colpire l’uomo”. Non è una tesi complottista ma il lancio di un servizio andato in onda nel 2015 a Tg Leonardo, il telegiornale scientifico di Rai 3. Va specificato che il servizio non anticipa il Covid-19, il nuovo coronavirus diventato pandemia globale. È già noto infatti che del Sars-Cov-2 la fonte è il pipistrello, e nulla fa riferimento ai topi come spiegato nel video del tg. Inoltre il genoma del Sars-cov-2 è noto al pubblico e nessuno fino ad oggi ha trovato traccia di ingegnerizzazione. Tranquilli, non si può dire che il servizio di TGR Leonardo sia inciampato in una fake siccome si tratta dello studio di cui si era a conoscenza, soprattutto nella comunità scientifica, nel 2015 quando era stato mandato in onda il servizio stesso. Infine, il virus di cui si parla nel servizio non ha nulla a che fare con il nuovo coronavirus e non è una prova che l’attuale Covid-19 sia nato in laboratorio. Nella puntata del 16 novembre di cinque anni fa, il giornalista Maurizio Menecucci racconta di questo esperimento effettuato nei laboratori cinesi che aveva preoccupato la comunità scientifica. “Si sospettava che la proteina potesse rendere l’ibrido idoneo a colpire l’uomo, e l’esperimento lo ha confermato”, dice il giornalista. E aggiunge: “Secondo i ricercatori l’organismo originale e, a maggior ragione quello ingegnerizzato, può contagiare l’uomo direttamente dai pipistrelli senza passare per una specie intermedia come il topo ed è questa eventualità a sollevare molte polemiche”. Il servizio continua e spiega come il governo Usa aveva sospeso i finanziamenti alle ricerche che puntavano a rendere i virus più contagiosi ma la moratoria non aveva fermato il lavoro dei cinesi sulla Sars che era già in fase avanzata e che non si riteneva così pericolo. “Le probabilità che il virus passi alla nostra specie – dice il giornalista – sarebbero irrilevanti rispetto ai benefici. Un ragionamento che molti altri esperti bocciano”.
LA PRECISAZIONE – Il servizio di Tgr Leonardo del 2015 è frutto di “una ricerca che noi trovammo 4 anni fa su agenzie scientifiche internazionali. E allora fu fatto un pezzo. Ora per capire se c’è un nesso fra quel virus e la pandemia che sta scoppiano adesso, bisogna rivolgersi agli esperti, i genetisti. E’ uscito due giorni fa uno studio sistematico delle sequenze genetiche di SARS-CoV-2 (Andersen KG et al. Nature Medicine 2020) che dimostra senza ombra di dubbio che il virus ha una origine naturale e zoonotica (da animali, ed in particolare pipistrelli e pangolini), per cui la storia del virus ‘creato’ in laboratorio si conferma una bufala colossale. Attenzione, quindi, a non fare collegamenti da spy story. Siano gli scienziati a dire l’ultima”. Lo dice all’Adnkronos il giornalista conduttore di Tgr Leonardo, Daniele Cerrato.
Il pericolo dei patogeni creati in laboratorio. Paolo Mauri su Inside Over the world il 28 marzo 2020. Un video di Rai Tgr Leonardo andato in onda nel 2015 che mostra ricercatori cinesi in un laboratorio intenti a modificare geneticamente un agente patogeno per creare un “supervirus” partendo dal Sars-CoV, il virus dell’influenza polmonare chiamata appunto Sars (Severe acute respiratory syndrome) che ha colpito nel 2002/2003, ha scatenato un’ondata di speculazioni e teorie complottiste sulla possibilità che il coronavirus Covid-19 che ha causato la pandemia in corso sia frutto di un esperimento genetico, e in particolare di quella ricerca mostrata nel video. Quanto accaduto ci fornisce l’occasione di approfondire da un punto di vista scientifico la questione degli esperimenti genetici su agenti patogeni, in particolare i virus, per cercare di capire perché si fanno e perché sono importanti, anche considerando i rischi che ne derivano. Prima di addentrarci nella trattazione è però doveroso chiarire una volta per tutte la questione del video incriminato, e secondo molti incriminante. Partiamo da una considerazione fondamentale: quel video non è un falso, non è stato montato ad arte e l’esperimento di cui si parla è realmente accaduto. Il risultato della ricerca è stato regolarmente pubblicato, e si può leggere esattamente quello che gli scienziati cinesi hanno realizzato modificando geneticamente il virus della Sars. Quello che è falso, però, è che Covid-19 sia stato creato in laboratorio e in particolare che discenda da quel “supervirus” cinese. Vari studi, tra cui uno recentissimo pubblicato su Nature che ha analizzato l’intero genoma di Sars-CoV-2, hanno dimostrato non solo la mancanza di artificialità nella sequenza genetica del virus ma anche la sua origine “naturale”. In particolare si legge che “è improbabile che Sars-CoV-2 sia emerso attraverso la manipolazione in laboratorio di un coronavirus simile a Sars-CoV“. È quindi improbabile che sia originato da una manipolazione genetica di laboratorio. La condizione di improbabilità va però capita nella sua accezione scientifica che è leggermente diversa da quella usata nella lingua italiana corrente: significa infatti che tutte le evidenze fin’ora raccolte portano a pensare che con una ragionevole percentuale di certezza tale possibilità sia da escludere. Sostanzialmente significa che questo è quanto è stato osservato e che ogni ipotesi contraria deve essere supportata da prove provate e provabili, non basta cioè un filosofico “dubbio” per accettare teorie diverse se non comprovate. Scendendo più in dettaglio, e a beneficio di chi mastica un po’ di biologia, un altro studio, leggermente antecedente a quello precedentemente citato, riporta che esiste una significativa divergenza (più di 5mila nucleotidi) nella sequenza genetica di Sars-CoV-2 con il “supervirus” creato in laboratorio e quindi si dimostra come questa teoria manchi di qualsiasi base scientifica. Diversamente è però possibile, come sollevato da alcuni autorevoli ricercatori, che Covid-19 sia stato inavvertitamente rilasciato da qualche laboratorio della regione di Wuhan che stava studiando i coronavirus dei pipistrelli, e questo spiegherebbe sia la feroce propaganda cinese che è arrivata anche ad accusare gli Stati Uniti di avere sparso un’arma batteriologica – ipotesi questa ormai ampiamente smentita come abbiamo avuto modo di dire sin quasi dall’inizio – sia i colpevoli ritardi nella comunicazione dell’inizio dell’epidemia. Arriviamo ora al nocciolo della nostra trattazione: perché si fanno esperimenti di manipolazione genetica degli agenti patogeni come i virus? La risposta ce la fornisce la scienza stessa in diversi studi inerenti la sicurezza degli esperimenti genetici. Virus e microbi geneticamente modificati (definiti Gmv) vengono sempre più utilizzati dai ricercatori per la ricerca di vaccini e nello studio di soluzioni atte a sviluppare nuove terapie mediche, strategie di prevenzione e strumenti diagnostici. Tali Gmv possono essere usati, oltre che per lo sviluppo di vaccini, per purificare proteine, costruire vettori di clonaggio (o replicazione), studiare la patogenesi e comprendere le complesse interazioni della risposta immunitaria. Sebbene la modificazione genetica di microorganismi come i virus o batteri è stata impiegata produttivamente in legittime ricerche scientifiche, gli stessi strumenti di modificazione possono essere impiegati per creare in laboratorio agenti patogeni “potenziati” che, ad esempio, siano resistenti agli antibiotici, ad elevata patogenicità, e aumentata capacità di eludere l’immunità adattiva indotta da un vaccino, oppure in grado di eludere l’individuazione da parte degli strumenti diagnostici standard di laboratorio o ancora avere capacità di trasmissione alterate. Pertanto, come gli esperti di sicurezza biologica hanno ammesso da parecchio tempo, le biotecnologie hanno un effettivo uso binario (in inglese dual use): possono essere applicate per scopi benefici, come appunto la ricerca di vaccini, oppure per creare agenti biologici capaci di nuocere altamente. I Gmv vengono impiegati, nello specifico, in quattro ambiti che richiedono, come vedremo, una particolare valutazione del rischio. In dettaglio l’immunizzazione contro malattie infettive nel bestiame, l’immunizzazione di specie nella fauna selvatica che sono serbatoi di agenti patogeni in grado di causare malattie nell’uomo e nel bestiame, il controllo della densità dei parassiti nella popolazione animale attraverso operazioni dirette di eliminazione o immuno-contraccezione infine il già accennato programma di vaccinazione contro malattie o tumori. Esistono dei rischi intrinseci. In tutti questi casi possono verificarsi delle circostanze che permettono ai virus geneticamente modificati di fare un “salto di specie” oltrepassando le barriere naturali a seguito di ricombinazione con i virus che già conosciamo. Tutte queste applicazioni possono, in varia misura, essere soggette a rilascio naturale o accidentale nell’ecosistema. Ci sono pertanto dei protocolli di sicurezza, che sebbene abbiano un canovaccio comune, necessitano per forza di essere adattati ad ogni caso specifico, cioè ad ogni nuovo Gmv creato e studiato. Tali protocolli sono stabiliti proprio grazie a valutazioni del rischio che procedono caso per caso tenendo in considerazione gli effetti dannosi di un organismo geneticamente modificato sull’uomo, gli animali, le piante e gli altri microorganismi dell’ambiente naturale. Diverso è però il caso in cui tali sperimentazioni vengano fatte precisamente con lo scopo di creare un patogeno in grado di essere dannoso. Il rischio dato dal terrorismo batteriologico viene tenuto in altissima considerazione da tutti i Paesi anche in considerazione degli studi effettuati storicamente durante la Guerra fredda che hanno portato alla creazione in laboratorio di armi biologiche ad hoc. Un caso particolarmente interessante, anche per quanto riguarda la minaccia successivamente generata dall’evolversi degli eventi storici, è dato dal programma batteriologico dell’allora Unione sovietica. Conosciuto come Biopreparat, ha impiegato più di 25mila scienziati in più di 18 siti di ricerca, sviluppo e produzione. Secondo il dottor Vladimir Pasechnik, che disertò nel 1989, i microbiologi del Centro Statale di Ricerca di Microbiologia Applicata di Obolensk, uno dei principali del programma Biopreparat, hanno sviluppato nel 1983 il loro primo agente patogeno modificato da usare come arma batteriologica: un ceppo ipervirulento della Francisella Tularensis, che causa la tularemia comunemente nota come “febbre dei conigli” e trasmissibile all’uomo. Un altro disertore, il dottor Ken Alibek, ex primo vicedirettore del programma giunto negli Usa nel 1991, ha descritto gli sforzi degli scienziati sovietici per cercare di inserire i geni del virus dell’encefalite equina venezuelana e del virus Ebola in quelli del vaiolo oltre a quelli di sviluppare un bacillo dell’antrace modificato in grado di resistere ai vaccini e agli antibiotici. Si capisce quindi, per tornare al video del “supervirus” cinese, tutte le preoccupazioni della comunità scientifica del tempo, ed il perché della proposta statunitense di moratoria per mettere al bando questo particolare tipo di ricerca. Proposta rispedita al mittente dalla Cina come detto nel filmato. Le modificazioni genetiche nei batteri e nei virus avvengono naturalmente nel corso della loro evoluzione, che è molto più veloce rispetto a quella di un organismo più complesso, e oltretutto sono comuni nella pratica di legittime ricerche e sperimentazioni scientifiche volte a sviluppare vaccini per l’uomo o per gli animali. Il rilascio intenzionale o non intenzionale di organismi geneticamente modificati come un virus o un batterio nell’ambiente, però, può causare l’insorgere di malattie infettive con manifestazioni epidemiologiche o cliniche del tutto inusuali. Il riconoscimento che un certo numero di casi anomali siano un focolaio e rappresentino l’inizio di un’epidemia richiede un alto livello di attenzione e una comunicazione immediata e capillare tra medici, laboratori clinici, e professionisti della sanità pubblica. Tutti fattori, a cominciare dalle modalità di rilascio nell’ambiente, che se applicati all’epidemia in corso pongono questioni che la Cina un giorno sarà chiamata a rispondere davanti alla comunità scientifica e al mondo intero.
Il virus del Tgr Leonardo del 2015 e il Covid-19 non sono parenti, ecco perché. Valerio Rossi Albertini de Il Riformista il 27 Marzo 2020. Le fake news le conosciamo. Notizie create appositamente per ingannarci, o notizie vere, ma distorte e manipolate ad arte. Le fake news spesso si diffondono in un modo che definivamo “virale”, senza forse renderci conto del suo significato proprio. Ora, nostro malgrado, lo abbiamo capito fin troppo bene. Le fake news sono difficili da combattere, perché c’è sempre qualche ingenuo e qualche sprovveduto disposti a prestare fede, o qualche malintenzionato risoluto a sostenerle e propagarle. Tuttavia, non siamo del tutto disarmati. Ci sono criteri precisi per filtrarle ed identificarle, ricorrendo a fonti autorevoli e accreditate o, quando possibile, risalendo all’autore o al falsificatore. La notizia circolata nei giorni scorsi, di un servizio del tg Leonardo, di Rai3, non appartiene a nessuna di queste categorie, il servizio non era né falso, né alterato. È del 2015 e parla di ingegneria genetica. La copertina si presenta così. Mentre scorrono immagini di laboratori di biologia, una voce fuori campo esordisce annunciando: «Scienziati cinesi creano un supervirus polmonare da pipistrelli e topi». Quindi precisa, con tono rassicurante: «Serve solo per motivi di studio», però poi incalza «ma sono tante le proteste» e assesta la stoccata finale: «Vale la pena rischiare?». Riporto anche il passaggio seguente che, in tempo di distanziamento sociale forzoso, suona come una profezia di Nostradamus: «È un esperimento, certo, ma preoccupa tanti scienziati. Un gruppo di ricercatori cinesi innesta una proteina presa dai pipistrelli sul virus della Sars, la polmonite acuta, ricavato da topi. E ne esce un supervirus che potrebbe colpire l’uomo». “Che altro serve? È lui. È tutto chiaro. Ve l’avevo detto io che c’era sotto la guerra biologica! Altro che zuppa di ali di pipistrello. Ci volevano far credere che il virus fosse uscito dal calderone della strega di Biancaneve…” hanno gridato ad una voce i complottisti. In effetti, anche chi non sia molto incline ad accreditare tesi di cospirazioni planetarie o di regie di Grandi Vecchi, è rimasto comprensibilmente scosso. I riferimenti erano così precisi e le osservazioni così calzanti, che qualche domanda ce la siamo fatta tutti. Questa non era una fake news, era un servizio autentico, genuino, di una rispettabile testata giornalistica, riportato così come era stato trasmesso, senza tagli e senza doppiaggi posticci. E spiegava: «un organismo modificato innestando la proteina superficiale di un Coronavirus trovato nei pipistrelli… su un virus che provoca la Sars, la polmonite acuta… Si sospettava che la proteina potesse rendere l’ibrido adatto a colpire l’uomo e l’esperimento lo ha confermato». Organismo modificato, Coronavirus, pipistrelli, polmonite acuta, colpire l’uomo. Le parole chiave di questa epidemia ci sono tutte, non ne manca nessuna. La tentazione di arrendersi all’evidenza e rivalutare le voci dissonanti dall’informazione ufficiale era forte. Ma è proprio in questo momento di confusione, di stordimento, di angoscia che dobbiamo ricordarci quello che predichiamo sempre a chi inizia a dubitare dei medici e rischia di finire alla corte di veggenti e guaritori. La guida deve essere la scienza. La scienza è la sola titolata ad esprimere un giudizio equanime e imparziale, è il solo strumento idoneo a contrastare le pulsioni irrazionali. E i biologi molecolari non hanno tardato a fare chiarezza, nel modo più autorevole e convincente, con uno studio rigoroso pubblicato da una delle massime riviste di scienza al mondo, Nature (Medicine). Questa è la virtù della scienza, come ci insegna Bruno Mars: don’t believe me, just watch! Chi avesse dubbi sulla correttezza delle loro conclusioni, può commissionare la replica dell’esperimento a un altro laboratorio qualificato del mondo ed otterrebbe la stessa diagnosi. In questo modo, ogni residua ipotesi di complotto si dissolve. Ma come fa questo studio a dimostrare che il virus artificiale, la “chimera”, prodotto dai biologi cinesi, è imparentato con il Covid-19, ma non è lui? Fanno come Lorenzo Valla, il grande umanista. Fino al ‘400, il potere temporale dei Papi era stato legittimato da un presunto editto dell’Imperatore Costantino a favore di Papa Silvestro, contenente donazioni e privilegi. Valla dimostrò che quel documento non poteva essere stato redatto nel quarto secolo perché conteneva una serie di incongruenze ed anacronismi, alcuni termini appartenevano al latino medievale ed erano sconosciuti a quello classico. Ecco cosa doveva cercare il gruppo che ha pubblicato l’articolo su Nature per dimostrare che il virus cinese sintetico del 2015, la chimera, non può essere il Covid-19: alcuni tratti distintivi del Covid-19 incompatibili con le modalità di creazione della chimera… E dove potevano cercare queste caratteristiche? Nel posto più naturale, il materiale genetico dei virus. Per produrre la chimera, i biologi cinesi hanno inserito un tratto del genoma di un altro virus all’interno di quello del coronavirus del 2015. Un tratto intero! Invece il Covid-19 non differisce dal coronavirus del 2015 per un tratto del suo genoma, ma per numerose variazioni distribuite lungo tutto il genoma. E queste variazioni sparse non possono essere il frutto di un’operazione di ingegneria genetica. Al contrario, sono il segno distintivo dell’evoluzione naturale, quella descritta da Darwin, cioè errori commessi durante la replicazione che si spargono casualmente, un po’ e un po’ là. Immaginiamo il genoma del coronavirus del 2015 come una catena di un certo colore, bianca ad esempio. I biologi cinesi hanno preso un pezzo di genoma di un altro virus, una catena rossa, ne hanno tagliato un pezzo e l’hanno inserito nella catena bianca. Quindi la chimera ha un genoma rappresentato dalla catena bianca del coronavirus 2015, tranne per il tratto rosso introdotto. Al contrario, il Covid-19 ha un genoma che è simile alla catena bianca del coronavirus 2015, ma con anelli di colore diverso distribuiti casualmente. La chimera e il Covid19 hanno molto in comune, perché entrambi discendono dal coronavirus del 2015, ma non sono parenti stretti e, tanto meno, gemelli. Quindi no, non è Francesca…
Tgr Leonardo e l'esperimento cinese del 2015. Gli scienziati: "Nulla a che vedere col coronavirus". Chat WhatsApp intasate da un servizio Rai in cui si racconta di una ricerca per innestare il virus della Sars nei pipistrelli. Studiosi concordi: "Il genoma di quel microrganismo non è lo stesso del Covid-19". Elena Dusi il 25 March 2020 su La Repubblica. "Scienziati cinesi creano supervirus polmonare da pipistrelli e topi. Serve solo per motivi di studio ma sono tante le proteste". È il titolo di un servizio montato come un thriller di Tgr Leonardo, andato in onda nel 2015. Riferisce di un esperimento condotto in collaborazione fra l'Accademia delle scienze cinese e l'università della North Carolina, cui partecipò anche l'università di Wuhan. Nella città epicentro dell'attuale pandemia esiste infatti un laboratorio di massima sicurezza (classificato come P4). E non è mancato chi ha sospettato, con teorie complottistiche, che da lì sia uscito per sbaglio il coronavirus di oggi.
Coronavirus, un genoma completamente diverso. La tesi circola almeno da febbraio ed è stata smentita una settimana fa da uno studio di Nature Medicine, che dimostrava che l'attuale virus è di origine naturale, non artificiale. Non è bastato. Il video di Tg Leonardo negli ultimi due giorni si è diffuso sui nostri telefoni a ritmi rapidissimi, ed è finito sul twitter di Matteo Salvini. "Un virus naturale e uno creato in laboratorio sono perfettamente distinguibili", smentisce Fausto Baldanti, virologo dell'università di Pavia e del Policlinico San Matteo. "L'esperimento del 2015 è avvenuto sotto gli occhi di tutti. Il genoma di quel microrganismo è stato pubblicato per intero. E non è lo stesso del coronavirus attuale". Del microrganismo che circola oggi abbiamo ormai sequenziato un migliaio di genomi: a circa trecento sta lavorando lo stesso Baldanti, in collaborazione con il Niguarda.
La smentita di Nature: "Covid-19 non deriva dalla prima Sars". L'esperimento del 2015, pubblicato su Nature Medicine (primo autore Menachery, ultimo Baric), viene descritto così dal servizio del Tgr Leonardo: "Gli scienziati prendono una proteina dai pipistrelli e la inseriscono sul virus della Sars ricavato dai topi, rendendolo capace di trasmettersi all'uomo". Secondo Giovanni Maga, direttore dell'Istituto di genetica molecolare del Cnr di Pavia, "il virus attuale non deriva né dalla prima versione della Sars né tantomeno dai topi, per cui non può essere in nessun modo il virus creato nel laboratorio cinese di cui si parla nel servizio". Anche la rivista Nature si è affrettata mercoledì ad aggiungere a quell'articolo un commento: "Ci risulta che questa storia viene usata per far circolare teorie infondate che il nuovo coronavirus che causa Covid-19 sia stato ingegnerizzato. Non esiste evidenza che questo sia vero".
L'importanza della sperimentazione. Ma perché fu condotto quell'esperimento? "Perché per sconfiggere il tuo nemico devi conoscerlo" spiega Baldanti. "Qualche anno fa in Olanda un gruppo prese il virus della Spagnola da alcuni cadaveri conservati per un secolo nel permafrost in Alaska. Venne modificato, aggiungendo dei frammenti di genoma che ne modulavano la virulenza. L'obiettivo era capire come mai quella pandemia fu così micidiale, per prevenire il ripetersi di un evento simile". Ci si interrogò molto, all'epoca (era il 2013) su cosa far prevalere: conoscenza o sicurezza. "Ma si decise di andare avanti, rispettando standard di contenimento altissimi all'interno dei laboratori" racconta Baldanti. Il virus chimera cinese del 2015 è figlio di quella decisione, e di un esperimento simile. Il fatto che dei suoi geni conosciamo ogni dettaglio, proprio perché lo studio è stato pubblicato, ci rassicura che non ha somiglianza con il genoma del coronavirus attuale.
Coronavirus, smentita la teoria del laboratorio. Ma circola un nuovo video. Le Iene News il 25 marzo 2020. Gli scienziati hanno analizzato il dna del nuovo coronavirus e hanno smentito la teoria complottista che sia stato creato in laboratorio. Ma sulle chat di WhatsApp circola un nuovo video che scatena la polemica. Nature Medicine pubblica uno studio secondo cui il nuovo coronavirus sarebbe il risultato dell'evoluzione naturale di altri virus della stessa famiglia. Smentita quindi la teoria del complotto, che vuole che il virus sia nato in laboratorio. Ed è sempre Nature a dover pubblicare una nota a un suo articolo del 2015, tornato in auge proprio in questi giorni. Di che si tratta? Il 12 novembre 2015 la prestigiosa rivista scientifica titola così: "Un virus creato in laboratorio dai pipistrelli scatena il dibattito sulle ricerche rischiose". Sommario: "Il coronavirus creato in laboratorio relativo alla SARS può infettare le cellule umane". E spiega: "Gli scienziati hanno investigato un virus chiamato SHC014, che si trova nei pipistrelli della famiglia dei Rinolofidi in Cina. I ricercatori hanno creato un virus chimera" che, spiega sempre Nature, "è stato adattato per crescere nei topi e per simulare una malattia umana. Il virus chimera ha infettato le cellule umane delle vie respiratorie". Nature, sempre nel 2015, scrive che "i risultati della ricerca rafforzano i sospetti che il coronavirus dei pipistrelli sia capace di infettare direttamente gli umani (anziché dover prima evolversi in un animale intermedio prima di fare il salto)". L'ipotesi, quindi, "potrebbe essere più comune di quanto pensato in passato". Ma questa ricerca all'epoca aprì comunque un dibattito: i potenziali rischi di questo esperimento giustificano le informazioni raccolte? Un virologo dell'Istituto Pasteur rispose così: "Se il virus scappasse, nessuno sarebbe in grado di predirne la traiettoria". Anche in Italia questo articolo ha ricominciato a circolare da quando le chat di WhatsApp sono state invase dal video del Tgr Leonardo, andato in onda su Raitre il 16 novembre del 2015. "È un esperimento, certo, ma preoccupa tanti scienziati", spiega il conduttore. "Un gruppo di scienziati innesta una proteina presa dai pipistrelli sul virus della SARS, la polmonite acuta, ricavato da topi. E ne esce un super virus che potrebbe colpire l'uomo. Resta chiuso nei laboratori, ovvio, serve solo per motivi di studio. Ma vale la pena correre il rischio e creare una minaccia così grande solo per poterla esaminare?". Nature, nell'articolo del 2015, ha dovuto aggiungere in questi giorni una nota: "Siamo consapevoli che questa storia è usata come base per teorie non verificate che il nuovo coronavirus che ha causato il COVID-19 sia stato creato in laboratorio. Non c'è alcuna prova che questo sia vero; gli scienziati credono che un animale sia l'origine più accreditata del coronavirus". E l'ultima scoperta degli scienziati sul nuovo coronavirus, sempre riportata da Nature, spiega che "confrontando i dati genetici ad oggi disponibili per diversi tipi di coronavirus, possiamo risolutamente determinare che il Sars-CoV-2 si è originato attraverso processi naturali". Lo ha detto Kristian Andersen, dello Scripps Research Institute di La Jolla che ha condotto il lavoro.
Gian Antonio Stella per il “Corriere della Sera” il 23 marzo 2020. «Nel 1321, si legge nella cronaca del monastero di Santo Stefano di Condom, cadde in febbraio moltissima neve. Furono sterminati i lebbrosi. Cadde di nuovo molta neve prima di metà Quaresima; poi venne una gran pioggia». Così lo storico Carlo Ginzburg ricorda in Storia notturna (Einaudi, 1989; edizione più recente: Adelphi, 2017) l'assatanata caccia a quelli che oggi con pudore politicamente corretto chiamiamo «hanseniani» e agli ebrei, additati come loro complici: «Allo sterminio dei lebbrosi l'anonimo cronista dedica la stessa distaccata attenzione riservata a insoliti eventi meteorologici». Era «normale», da sempre, dare la colpa agli altri. Da molto prima che Donald Trump difendesse rabbioso la sua scelta di bollare il coronavirus, piacesse o no agli esperti, col nome di chinese virus e fosse a sua volta ricambiato dal portavoce del ministero degli Esteri di Pechino Zhao Lijian con un tweet non meno bellicoso: «Quando c'è stato il paziente zero negli Usa? Quante persone sono infette? Come si chiamano gli ospedali? Potrebbe essere stato l'esercito americano a portare l'epidemia a Wuhan. Sii trasparente! Rendi pubblici i tuoi dati! Gli Stati Uniti ci devono una spiegazione!» Anche il re di Francia Filippo V il Lungo, quando firmò nel 1321 l' editto di Poitiers che autorizzava la strage, diede una sua spiegazione, inviando a siniscalchi e balivi, narra Ginzburg, «una lettera in cui dichiarava enfaticamente di aver "fatto catturare tutti gli ebrei del nostro regno" per i crimini orrendi da loro commessi, in modo particolare per la loro "partecipazione e complicità ai convegni e cospirazioni fatti da molto tempo in qua dai lebbrosi per porre veleni mortali nei pozzi e nelle fontane e altri luoghi...per far morire il popolo e i sudditi del nostro regno"». D' intesa, ovvio, coi «perfidi giudei». Saltarono fuori, a sostegno della tesi d' una congiura, due lettere dagli stessi contenuti: una del «Re di Tunisi» indirizzata a «Samson, figlio di Helias, ebreo», l'altra del «Re di Granada» rivolta «ai miei fratelli e ai loro figli». Entrambe in arabo e tradotte («fedelmente», giurò davanti a giudici, chierici e notai) da un medico, un certo Pierre de Aura. «Cercate di eseguire bene la faccenda che sapete, perché vi farò avere oro e argento a sufficienza per le spese», diceva quella dello pseudo Re di Tunisi, «Come sapete, l' accordo tra noi, gli ebrei e i malati ha avuto luogo poco tempo fa, il giorno di Pasqua fiorita. Badate a avvelenare nel più breve tempo possibile i cristiani, senza badare a spese». Due falsi. Costruiti a tavolino per gonfiare l' odio. Sfociato in episodi di tale ferocia che a Chinon, nei pressi di Tours, secondo i cronisti di allora ripresi dallo storico torinese, «era stata scavata una gran fossa dove erano stati gettati e dati alle fiamme 160 ebrei, uomini e donne» e «molti si gettavano nella fossa cantando, come se andassero a nozze» per non dire di Vitry-le-François dove «quaranta ebrei che erano stati incarcerati decisero di sgozzarsi reciprocamente per non cader nelle mani dei cristiani». Nessuno stupore, insiste Ginzburg: «La connessione tra ebrei e lebbrosi è antica. Fin dal I secolo d.C. lo storico ebreo Flavio Giuseppe polemizzava nel suo scritto apologetico Contro Apione con l' egiziano Manetone, il quale aveva sostenuto che tra gli antenati degli ebrei c' era anche un gruppo di lebbrosi cacciati dall' Egitto». Va da sé che quando nel 1347, venticinque anni dopo, arrivò in Europa la Peste Nera portata a Messina dai topi a bordo da una dozzina di navi genovesi provenienti da Costantinopoli (la Peste Nera avrebbe sterminato tra i venti e i venticinque milioni di europei), chi finì di nuovo sotto accusa? Loro, gli ebrei. E gli eccidi furono tali che dovette intervenire lo stesso Papa Clemente VI che, sia pure dopo due premesse insane («Quantunque detestiamo con merito la perfidia dei giudei» e «quantunque vorremmo che essi, se colpevoli... fossero abbattuti»), diffidava i suoi fedeli «perché non si permettano mai, con propria temerarietà, di perseguitare, ferire, uccidere i Giudei». A farla corta, come dicevamo, ogni male ignoto che abbia seminato morte e dolore nella storia è stato troppo spesso, se non sempre, attribuito agli «altri». Basti rileggere Tucidide, colpito lui stesso dalla peste nel 430 a.C. Peste che «prese inizio prima di tutto, come si dice, dall' Etiopia che sta oltre l' Egitto, ma poi si diffuse in Egitto e in Libia e nella maggior parte della terra del re. E nella città degli ateniesi piombò improvvisamente, e dapprima attaccò le persone nel Pireo, cosicché si disse anche da loro che i peloponnesiaci avessero gettato veleni contagiosi nei pozzi...». E così forte è stata, giù giù per i secoli, la ricerca del capro espiatorio e l' ossessione che il «male» non potesse essere «nostro» ma dovesse comunque venire da fuori, che perfino lo scienziato John Langdon Down, che pure avrebbe dato alla «sindrome di Down» il suo stesso nome, arrivò a scrivere nel 1866 d' aver individuato tra i suoi pazienti londinesi e del Surrey un «gran numero di idioti e imbecilli» riconducibili alle «grandi suddivisioni della razza umana» e tra questi moltissimi «idioti congeniti sono tipici mongoli». Così simili fra di loro che «è difficile credere che, posti a confronto, non siano figli degli stessi genitori». Una tesi che appiccicò per un secolo a questi figli disabili la parola «mongoloide» come un insulto. Dicono tutto, su questi rimpalli di accuse che trasudano diffidenza, pregiudizi o peggio razzismo verso gli altri, i rivali, i nemici di sempre, le definizioni della sifilide, che qualche lettore ricorderà, riassunte dalla storica Eugenia Tognotti nel saggio L'altra faccia di Venere (FrancoAngeli, 2006). Per i francesi era il «male napoletano o italiano, per gli italiani mal francese, per i portoghesi morbo castigliano, per i giapponesi morbo portoghese, per gli olandesi vaiolo ispanico, per i polacchi mal dei tedeschi, per i moscoviti mal dei polacchi, per i persiani morbo dei turchi, per gli africani mal spagnolo...». E via così. Più ancora, però, colpisce come la stessa «Spagnola» che uccise un secolo fa tra venti e quaranta milioni di persone in tutto il pianeta e prese il nome quasi certamente dal fatto che i giornali iberici, non sottoposti alla censura vigente in tutti gli Stati coinvolti nella Prima guerra mondiale, lanciarono per primi l' allarme, fosse chiamata in realtà in tante maniere diverse. Come ricorda la stessa Tognotti nel libro dedicato a quella terrificante pandemia, lo sgomento per l' impatto assassino dell' influenza sconosciuta, che nessuno sapeva come chiamare, fu tale che «i diversi popoli tendevano a imporre un nome che scaricava su qualcun altro la responsabilità della sua insorgenza». E così «essa fu indicata col nome di "fièvre de Parme" in Francia, di "febbre delle Fiandre" in Inghilterra, di "malattia bolscevica" in Polonia, di "febbre di Bombay" a Ceylon, di "febbre di Singapore" a Penang , di "soldato di Napoli" in Spagna...». Sfumature secondarie, spazzate via dalla grande livellatrice.
Così la Cia lavora per monitorare le pandemie. Paolo Mauri su Inside Over il 22 marzo 2020. In-Q-Tel. Questo è il nome di un fondo di venture capital americano che, come si legge sul loro sito, investe in startup focalizzate nel settore commerciale e in tecnologie pronte all’uso e prodotti off the shelf (preconfezionati) che possono essere modificati, testati e consegnati nell’arco di 6/36 mesi. La società è nata per creare una stretta collaborazione tra la Cia, l’agenzia di intelligence americana, ed il settore privato, a fronte del proliferare di piccole imprese nel campo delle nuove tecnologie che potenzialmente possono avere importanti ricadute nel settore della sicurezza nazionale: In-Q-Tel infatti è focalizzata nell’intelligenza artificiale, nella cyber security, nelle comunicazioni, nelle tecnologie spaziali e in altri settori tra cui anche quello delle biotecnologie. Fondata nel 1999 proprio nel momento dell’esplosione delle startup e del passaggio dall’economia “dot com” all’intelligenza artificiale, la società è stata molto attiva nel corso degli anni finanziando con una pioggia di dollari pubblici quelle società i cui progetti sono stati considerati di importanza strategica per gli Stati Uniti. Nel 2016, ad esempio, la Forterra Systems, piccola società californiana che si occupa di realtà virtuale, aveva bisogno di fondi, ma i prodotti in catalogo, come ci ricorda Milano Finanza, non avevano molta presa sul pubblico. Poi sono arrivati i soldi proprio dalla In-Q-Tel, la Forterra Systems ha sviluppato strumenti a uso militare, e di conseguenza anche i contratti con il governo. Finanziamenti nell’ombra ma nemmeno troppo, in quanto i fondi della società, derivando dal bilancio pubblico, sono individuabili. Sappiamo così che In-Q-Tel ha ricevuto soldi anche da altri enti oltre la Cia, tra i quali la National Security Agency, il Federal Bureau of Investigation e il Dipartimento della Difesa, e sappiamo anche che ha finanziato un’altra società, la Metabiota, una startup con sede a San Francisco, che, come ci ricorda il Sole24Ore, ha sviluppato una tecnologia in grado di prevenire il diffondersi di malattie infettive e di aiutare interi paesi ad adottare misure di sicurezza. L’azienda è stata fondata da Nathan Wolfe, professore di biologia, ricercatore ed esperto in immunologia e malattie infettive. La Metabiota in particolare ha sviluppato una tecnologia in grado di raccogliere milioni di informazioni provenienti da varie comunità e cliniche regionali per identificare i luoghi in cui una malattia potrebbe espandersi. Ciò permette di creare una sorta di mappa che non solo garantisce una visione generale delle varie popolazioni, ma che consente anche di capire meglio quali rimedi adottare, come impiegare le risorse finanziare e come evitare il diffondersi di un’epidemia. Con un “curriculum” simile la Cia non poteva non interessarsi al lavoro della Metabiota. Ricordiamo infatti che le agenzie di intelligence hanno una particolare sensibilità verso la raccolta di informazioni sui possibili rischi di contagio da malattie infettive: un’approfondita analisi del diffondersi di un’epidemia in una nazione serve anche per misurarne il livello tecnico e la prontezza dei suoi organismi militari o di protezione civile, nonché è utile per capire quanto un virus possa aver intaccato l’intero sistema difensivo, ad esempio se ha colpito reparti o comandi particolari in egual misura rispetto ai dati riportati per la popolazione civile. Ammettere debolezze in questo campo, anche in caso di un’epidemia in atto, non è ammissibile. Inoltre durante le fasi di un’epidemia le varie agenzie, tra cui quelle appositamente nate per questo scopo come l’americana Ncmi, hanno il compito di informare il Nsc (National Security Council) affinché le massime cariche dello Stato possano prendere tutte le misure preventive o contenitive del caso. Tornando alla piccola società di San Francisco, come si legge su Il Fatto Quotidiano che riporta un’analisi della rivista del Mit (Massachusetts Institute of Technology), la Metabiota utilizza l’intelligenza artificiale per ricavare dai dati informazioni su infezioni che possono colpire aree specifiche del mondo. In particolare hanno messo a punto un programma che traccia gli spostamenti delle persone: se un infetto è transitato per un certo aeroporto, viene registrato il passaggio e confrontato incrociandolo con l’analisi delle cosiddette “fonti aperte”: articoli di giornali, servizi televisivi e radio, pubblicazioni scientifiche specialistiche. Questo però è tutto quello che sappiamo, perché la Cia, nonostante prenda i soldi dal bilancio dello Stato, non è affatto trasparente per quanto riguarda le tecnologie che finanzia e in particolare non lo è su quanto le finanzia. Per il più noto servizio segreto americano, una società come la In-Q-Tel è un modo per incoraggiare e plasmare lo sviluppo della tecnologia senza impantanarsi nella burocrazia. Da quanto è stata creata, infatti, i programmi – almeno quello di cui siamo a conoscenza – sono aumentati e parimenti sono aumentati i fondi a disposizione per svilupparli passando dal primo budget complessivo di 28 milioni di dollari del 1999 sino ai 120 milioni di dollari del 2016.
Coronavirus: 007 e servizi segreti a caccia di informazioni sull’epidemia. Pubblicato domenica, 15 marzo 2020 su Corriere.it da Guido Olimpio. L’assalto del virus a livello globale impegna anche le intelligence. Un mondo dove le alleanze e le amicizie tra Paesi contano solo fino ad un certo punto. Anche perché il «corona» è un nemico veloce, transnazionale, poco conosciuto. Da qui le quattro sfide. I servizi di informazione devono valutare la minaccia globale. Comprendere quale impatto possa avere nei diversi scacchieri: nei giorni scorsi si è detto che la Cia e le sue tante sorelle abbiano iniziato a scrutare i Paesi popolosi. Come l’India, ma anche alcuni stati dell’Africa con una demografia importante. Si pensi alla Nigeria, all’Etiopia, all’Egitto. Un’analisi che investe gli aspetti economici, sociali, strategici. E poi l’Iran, in gravi difficoltà sanitarie e politiche a causa dell’epidemia. Per raccogliere i dati le spie puntano su fonti aperte, intercettazioni e fonti interne (dove esistono), ma devono selezionare vista la disinformazione e le teorie più strane. Chissà cosa avranno raccontato gli 007 ai vari presidenti nei loro briefing mattutini? E i leader li hanno ascoltati? Ai cittadini e ai governi interessa capire come tutto sia nato. Dunque massima attenzione al teatro cinese, a quanto trapela, alle eventuali conseguenze sulla gerarchia. Fioriscono le tesi, l’ipotesi del laboratorio, il contagio deliberato. La necessità è duplice. Devono scoprire se esiste la mano dell’uomo nella nascita del virus e non solo per quanto sta avvenendo in queste settimane. Guardano anche al futuro. E, comunque, oggi anche se hai la pistola fumante non è detto che tutti ci credano. Esistono mille verità alternative. Inoltre hanno la necessità di badare alla narrazione del dramma. Pechino ha già fatto le sue prime mosse, cercando di riscrivere la storia. Con qualche successo. La Reuters ha scritto che la Casa Bianca avrebbe secretato le riunioni di alto livello dedicate al virus, ponendo limiti alla circolazione del «sapere». E questo potrebbe aver compromesso la risposta immediata. Ma andando oltre il dettaglio (da confermare) è chiaro che uno Stato, viste le conseguenze della crisi, deve considerare risposte, analisi, ricerche come aspetti strategici. Anche l’eventuale scoperta di un vaccino e la sua efficacia sono cruciali. A margine di ciò va ricordato come lo spionaggio nel settore sanitario sia cresciuto in modo esponenziale negli ultimi anni. E non solo per motivi commerciali. Il Pentagono ha ridotto i movimenti interni dei suoi dipendenti, molte delle società esterne che lavorano a contratto con la Difesa hanno scelto la via del lavoro in remoto. Ma c’è una questione di riservatezza: non tutti potrebbero avere accesso a determinati livelli e, allo stesso tempo, la diffusione di un maggiore numero di dati lungo la rete può favorire gli hackers. Certo, esistono tutele, scudi, muri digitali. Però diversi casi emersi negli ultimi tempi hanno dimostrato che non puoi sigillare tutto, specie negli apparati più grandi.
Da "adnkronos.com" il 13 marzo 2020. Il primo caso di una persona colpita da Covid-19 può essere fatto risalire al 17 novembre scorso, secondo notizie di stampa che fanno riferimento a dati del governo cinese non pubblicati. A scriverne, riporta oggi il Guardian, è il South China Morning Post, secondo il quale le autorità cinesi avevano identificato almeno 226 persone che avevano contratto il virus lo scorso anno ed erano sotto supervisione medica. Il primo in assoluto risale al 17 novembre. I dati riportati dal Post, che il Guardian precisa di non aver potuto verificare, parlano di un 55enne della provincia di Hubei come primo caso. Nel mese successivo si è osservato un aumento di 1-5 casi al giorno. Al 20 dicembre i casi confermati erano 60. Il governo cinese aveva riferito all'Oms che il primo caso confermato era stato diagnosticato l'8 dicembre. Le autorità cinesi hanno parlato per la prima volta di una possibile trasmissione tra esseri umani il 21 gennaio.
Coronavirus, il primo caso il 17 novembre: la ricostruzione che mette in difficoltà le autorità cinesi. Pubblicato sabato, 14 marzo 2020 su Corriere.it da Sandro Orlando. Il primo caso di contagio accertato da Covid-19, la misteriosa polmonite provocata dal nuovo coronavirus, può essere fatto risalire allo scorso 17 novembre. A spostare notevolmente più indietro la partenza del contagio che sta facendo tremare il mondo (e che in Italia ha causato oltre mille decessi, al 14 marzo) è, sulla base dei dati messi a disposizione dalle autorità sanitarie cinesi, il South China Morning Post. Secondo questa ricostruzione, il paziente numero uno è un 55enne dell’Hubei, la provincia di Wuhan, che ha quindi contratto l’infezione due settimane prima del 1 dicembre, la data finora indicata dalla rivista scientifica Lancet – sulla base delle informazioni fornite dalla comunità scientifica cinese – come quella dell’apparizione dei primi sintomi di contagio. L’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) da parte sua, ha datato l’inizio di quella che ora è riconosciuta come una pandemia, allo scorso 8 dicembre, il giorno del primo ricovero all’ospedale Jinyintan di Wuhan di un paziente infetto. Ma cosa è successo in quelle due settimane? Dal 17 novembre in poi, «sono stati segnalati da uno a cinque nuovi casi ogni giorno», scrive il quotidiano di Hong Kong. «Al 15 dicembre, il numero totale di infezioni era pari a 27, ma il primo aumento giornaliero a due cifre viene registrato il 17 dicembre, e al 20 dicembre il numero totale di casi confermati raggiunge i 60». Poi però accade qualcosa di particolare. Venerdì 27 dicembre Zhang Jixian, un medico dell’Ospedale provinciale dell’Hubei segnala alle autorità sanitarie di Wuhan che l’infezione è causata da un virus dello stesso tipo della Sars: a quella data i malati infetti sono già più di 180. Ma non succede nulla. Oltretutto il primo allarme è già stato dato una decina di giorni prima, con lo stesso esito. Lunedì 16 dicembre al Wuhan Central Hospital i test diagnostici confermano che l’infezione è causata da un coronavirus sconosciuto. Lo rivela un medico di quell’ospedale, il dottor Ai Fen, in un’intervista ad un settimanale in seguito censurata. A fine anno la notizia circola già sui social. Li Wenliang, il medico dell’università di Wuhan che lo scrive in un post su WeChat il 30 dicembre, viene ufficialmente richiamato e arrestato. Scagionato, morirà poi per le conseguenze dell’infezione. Ma sono diversi i medici della città che nelle ultime settimane del 2019 inviano campioni genetici prelevati da pazienti contagiati al Centro cinese per il controllo e la prevenzione delle malattie, chiedendo una conferma delle loro analisi, che evidenziano un visus sconosciuto, simile a quello della Sars. Invano, perché le autorità sanitarie prendono tempo. Il 31 dicembre i casi confermati sono 266, il giorno successivo 381. Viene lanciata l’allerta epidemiologica, ma ancora l’11 gennaio l’amministrazione di Wuhan insiste nel sostenere che i casi accertati sono «solo 41», e la situazione è sotto controllo. La calma è motivata anche dal fatto che quattro giorni prima, martedì 7 gennaio, una delegazione di medici ed epidemiologici della Commissione sanitaria nazionale è arrivata in città, dichiarando al termine dell’ispezione che non è provata la trasmissione umana del virus. L’esito dell’indagine spiazza lo stesso presidente Xi Jinping (qui la ricostruzione di Guido Santevecchi su quello che il presidente cinese sapeva, sin da gennaio) che sollecita una nuova ispezione, due settimane più tardi. Il contagio intanto dilaga ben oltre la provincia dell’Hubei, che il 23 gennaio dispone la chiusura della città di Wuhan. «Dei primi nove casi segnalati a novembre – osserva il South China Morning Post –, quattro uomini e cinque donne, nessuno è stato confermato come “paziente zero”. Avevano tutti un’età compresa tra 39 e 79 anni, ma non si sa quanti fossero i residenti di Wuhan, la capitale dell’Hubei, epicentro dell’epidemia». Quindi resta il dubbio che l’inizio della pandemia possa risalire anche prima dello scorso 17 novembre. Per due mesi in sostanza le autorità cinesi hanno cercato di ignorare il problema, insabbiando tutti gli allarmi che arrivavano dagli ospedali di Wuhan. E dire che esattamente un anno fa, il direttore del Centro cinese per il controllo e la prevenzione delle malattie, Gao Fu, aveva assicurato in una conferenza stampa che un’epidemia come quella della Sars, del 2002-2003, non sarebbe più stata possibile in Cina. L’occasione era la presentazione di un nuovo sistema di segnalazione e allarme rapido delle epidemie, costato 730 milioni di yuan (quasi 100 milioni di euro). Il sistema si è rivelato un fallimento, e anche tutta la catena di prevenzione sanitaria.
Lo scontro globale. Pandemia, la Cina accusa gli Usa: “Sono gli untori”. Antonio Selvatici de Il Riformista il 26 Marzo 2020. “Siamo in guerra”. Non solo come intende Emmanuel Macron quando si riferisce al Coronavirus. È una questione di conflitto tra chi ha le stelle come simbolo. Da un lato, predominante sembra essere il numero cinque: quelle gialle stampigliate su sfondo rosso (il colore della rivoluzione) della bandiera della Repubblica Popolare Cinese e sono cinque (anch’esse di colore giallo) quelle del più modesto Movimento Cinque Stelle. Invece, dall’altro lato dello schieramento, sono cinquanta quelle della bandiera degli Stati Uniti. È, e sarà guerra, tra il gruppo dei cinque stelle colorate di giallo (China and Luigi Di Maio) versus Stati Uniti. È ormai noto come le donazioni sanitarie dalla Cina siano un mezzo di propaganda, abbiamo visto come il buon soldatino ministro degli Esteri Lugi Di Maio sia adoperato come cerniera, instancabile punto di riferimento tra Roma e Pechino. Siamo abituati, come abbiamo già più volte scritto, alle genuflessioni, all’apostolato dei Cinque Stelle nei confronti del nuovo potente imperatore Xi Jinping, anche se non è ancora ben chiaro che cosa hanno in comune il Sogno Cinese e i disorientati pentastellati. Anche se lo scopo della propaganda è facilmente intuibile: eccitare la massa (o meglio, quelli che sono rimasti) degli iscritti al fan club “forza Gigino” porgendogli un vassoio con sopra adagiato il già masticato problema e la relativa soluzione: Coronavirus (problema) e la Cina è l’unico nostro salvatore che, guarda caso, ci farà risorgere tutti attorno a Pasqua. Anche la tempistica sembra perfetta. E per unico salvatore significa indurre a coltivare sentimenti anti Europa e anti Stati Uniti, quelli che egoisticamente non ci stanno aiutando. Il momento è difficile e porterà a scontri: da un lato del globo il Presidente Donald Trump vuole vincere le elezioni, mentre dall’altra parte il potente Presidente Xi Jinping in seguito alla criticatissima gestione della prima fase del Coronavirus a Whuan e delle imperdonabili censure e ritardi delle comunicazioni deve riconquistarsi la fiducia, entrambi i leader globali per vincere devono fare la voce grossa. Il sentimento è reciproco: la Cina considera gli Stati Uniti una minaccia così come Washington considera Pechino. Ed ora, in questo contesto, non c’è dubbio: la Cina vuole riposizionarsi. Volano e voleranno stracci. La partita che si sta giocando è globale. Intanto, per non lasciare spazio ad interpretazioni, il Presidente Donald Trump ha battezzato il Coronavirus come il “virus cinese”: senza alcun pudore ha puntato il dito indice contro Pechino. Ciò per vari motivi, alcuni contingenti. Soprattutto per ripicca dopo che Zhao Lijian, portavoce del ministro degli Esteri cinese ha ipotizzato che fossero stati gli americani ad esportare il letale virus in Cina in occasione dei giochi militari che si sono svolti a Whuan nell’ottobre dello scorso anno, gli Stati Uniti hanno partecipato con una delegazione di circa trecento atleti. Senza dimenticare la vicenda dei giornalisti delle note testate New York Times, Wall Street Journal e Washington Post recentemente espulsi dalla Cina, impegnati a descrivere l’esplosione e la diffusione del Coronavirus nel Celeste Impero. Gli esempi da riportare che testimoniano un sentimento anti cinese in America sono tanti, tra cui un articolo apparso su The National Interest a firma di due docenti universitari Bradley Thayer e Lianchao Han: «Le autorità cinesi hanno mentito sulla pandemia minimizzando la minaccia». La Cina può essere accusata di “negligenza criminale”? Questo è uno dei punti deboli che sta fortemente segnando e caratterizzando il binomio Coronavirus-Cina: colpevoli perché non trasparenti. Shao Yiming, uno dei più famosi virologi cinesi, ha rilasciato una lunghissima intervista alla agenzia di stampa Caixin in cui, anche se con prudenza ma decisione, ha ammesso come «inizialmente le autorità cinesi non sono riuscite a identificare e controllare le minacce poste dal Covid-19 a causa d’ipotesi errate e debolezze in un sistema di segnalazione diretta accuratamente costruito». Ma la parte più interessante del lungo intervento è quello finale: «A Whuan i funzionari hanno chiuso il mercato dove si pensava fosse emersa l’epidemia e pensavano di potere tenere la malattia sotto controllo. Ma hanno ignorato la necessità di denunciare la malattia e hanno minimizzato la gravità». Di fronte a queste chiare accuse, per cercare di contrastare i malumori che provengono dalla stessa Cina il Partito comunista cinese sta organizzando la nota campagna buonista-diplomatica. Una curiosità: a Milano, come in altre parti del mondo, troviamo la Mindray Medical, società unicamente partecipata dalla Shenzhen Mindray Biomedical Elecronincs. Sono ottimi produttori di apparecchi elettromedicali, tra cui i famosi respiratori indispensabili per salvare la vita ai pazienti più colpiti dal Coronavirus. In Cina l’azienda madre terrà nei prossimi giorni un convegno scientifico, ospiti alcuni famosi medici che hanno operato nei nosocomi di Whuan, il titolo della conferenza è “Chinese Solution. Global Sharing”, vale a dire: “Soluzione cinese, condivisone globale”. Perfidi analisti hanno inserito la guerra al ribasso del prezzo del petrolio da parte di Mosca come un’opportunità offerta alla Cina per fare ripartire l’economia.
Le ipotesi di complotto sul Coronavirus. Davide Bartoccini Inside Over the world il 16 marzo 2020. Quando agli albori del tempo e della storia il primo uomo non trovò risposta a fenomeni impiegabili quali pioggia e fuoco, i fulmini e maree, o il mutare del raccolto in base alla clemenza delle stagioni, iniziò a cercarla in un frutto della sua immaginazione: gli dei. Oggi, nonostante i progressi della Scienza e della Cultura, non ha smesso di consultare la propria fantasia per cercare risposte a fenomeni improvvisi per lui apparentemente inspiegabili, come gli attentati dell’11 settembre o una pandemia. Per questo non smette di creare risposte che sono solo il frutto della sua fantasia: le “ipotesi di complotto”. Sulla pandemia globale da Covid-19 ne stanno girando di tutti i tipi: sono stati gli americani, le eminenze nere delle Cia, intimorite dall’ascesa economica di Pechino, oggi terza potenza militare del globo alle prese con un’espansione economica che attraverso la “Via della Seta” travalica i confini dell’Oriente arrivando in Europa (anche in Italia). Sono stati i cinesi, dice qualcun’altro, che in qualche remoto laboratorio militare ad altissimo livello di segretezza, conducevano esperimenti su virus modificati dal ceppo della Sars-Cov; qualcosa è andato storto, uno degli scienziati militari è rimasto contaminato, ha portato il “virus” a spasso per Wuhan e ha infettato un’intera megalopoli, e da lì il mondo. Sono stati i “sionisti”, ma non intesi come gli ebrei radicali che affollano il mondo, proprio quelli del priorato di Sion, che vogliono portare a dama i protocolli redatti dai savi per ottenere il controllo sul mondo. Magari insieme ai rettiliani, perché no, quelli che hanno allertato per tempo Bill Gates e altri magnati per speculare in borsa. Del resto lui sapeva tutto, riportano alcuni giornali che rischiano di rendere (per malafede del lettore) un uomo colto e dalle inimmaginabili possibilità di analisi una sottospecie di fattucchiera che brama altro denaro. Come se l’azienda che ha fondato, la Microsoft, che genera 22 miliardi di dollari l’anno attestandosi all’ottavo posto nella classifica delle aziende più profittevoli del pianeta, non gliene portasse abbastanza. A queste principali, bisogna avere la pazienza, o la costanza, di leggerne e associarne di altre; che mischiandosi creano plot degni di una joint venture romanzesca che prevederebbe dietro la testiera il talento di Ambler, Le Carré e un pizzico di visionarismo distopico alla Philip Dick.Tutti insieme. Perché ci sarebbero da citare anche la teoria dei 37mila soldati di Trump che guarda caso sarebbero sbarcati in Europa per “invadere a sorpresa” (ma l’esercitazione era nota dal 2019) la Russia di Vladimir Putin – ovviamente già vaccinati -, e quella della stessa Russia che invece sarebbe immune al virus per occulti motivi. Come di consueto gli avventori delle teorie del complotto rimangono invischiati nel sapiente uso che coloro che le generano sanno fare – per scopi a noi oscuri – di dati reali e innesti di fantasia. Ovunque infatti compaiono accanto alle sparata degne di un terrapiattista convinto, dati inconfutabili e tasselli di ipotesi realmente plausibili: come la zoonosi, che ci spiega egregiamente David Quammen nel suo saggio, gli “animali serbatoio” come i famigerati pipistrelli, e quegli agenti patogeni creati dalla natura che abbiamo imparato a chiamare “virus” e che, cito testualmente “non agiscono coscientemente”, ma per autoconservazione si spostano da un ospite all’altro scoprendo una soluzione “vincente in termini di sopravvivenza e successo riproduttivo – una strategia innata”. Una spiegazione troppo logica per contentare un uomo che vuole trovare a tutti i costi un colpevole nascosto dietro questa apocalisse annunciata. Ma l’unica colpevole, per quanto impotente possa renderci come è da sempre suo mestiere, è la natura. Dunque torna il fardello che portano dall’alba dei tempi credenti e atei: cosa regola la natura, e perché consente tutto questo.
Coronavirus. Ottobre 2019: Us Army, esercitazioni anti-pandemia. Piccole Note il 14 marzo 2020 su Il Giornale. “Una mortale pandemia globale potrebbe spazzare il mondo in poche ore e uccidere milioni di persone, e, per questo motivo, la US Air Force ha condotto un’esercitazione” specifica. Così il 1º novembre un sito, Defence blog, collegato all’Air Force, dava notizia di un’esercitazione gravitante presso la base aerea di Charleston, condotta dal 21 al 24 ottobre 2019, come da contenuto di un “comunicato stampa” ufficiale.
Evacuazione degli infetti. Si era trattato di un’esercitazione in grande stile rivolta all’evacuazione di persone infette, da trattare con il Tis, “dispositivi di protezione individuale e moduli di isolamento in cui il paziente viaggia fisicamente e attraverso il quale tecnici medici preposti all’evacuazione sono in grado di fornire assistenza medica”. “La Joint Base Charleston è attualmente l’unica installazione militare che ha in dotazione il Tis”, specifica il blog. All’esercitazione hanno partecipato il “43° squadrone di evacuazione aeromedica della Pope Army Airfield, della Carolina del Nord, e il 375° AES della Scott Air Force di Base in Illinois”. Un’esercitazione che si è svolta praticamente in parallelo, cioè sempre a ottobre 2019, a quella denominata Event 201, svolta invece in Sud America da truppe americane specializzate, sotto la supervisione del John Hopkins Center for Health Security, del World Economic Forum e della Melinda Gates Foundation, come anche della NBC Universal Media, dell’UPS e della Johnson & Johnson. L’esercitazione anti-coronavirus. L’esercitazione sudamericana, si legge sul sito della John Hopkins University, era volta mettere a fuoco le capacità dell’esercito di gestire “un focolaio incontrollato di coronavirus che si stava divampando come un incendio, dilagando fuori dal Sud America per provocare il caos in tutto il mondo”. “Come riferiscono i giornalisti […] il virus immuno-resistente (soprannominato CAPS) stava paralizzando il commercio e i viaggi, mandando l’economia globale in caduta libera. Nel frattempo sui social media dilagavano voci e disinformazione, i governi stavano collassando”… scenario di stretta attualità. Event 201, spiega il sito della John Hopkins, è l’ultima di quattro esercitazioni relative a uno scenario di pandemia. La prima, Dark Winter, si era svolta nel giugno 2001 (allora era viva l’emergenza antrace); poi nel 2005 c’era stata Atlantic Storm (dopo la Sars); e, a maggio del 2018, si era svolto Clade X. Ma in realtà Event 201 è stata la prima esercitazione militare vera e propria sul campo. Le altre simulazioni, come si legge nei siti ufficiali cui rimandiamo, erano solo una sorta di giochi da tavolo, attorno al quale responsabili di vari settori strategici e politici simulavano azioni di contrasto e di gestione dell’emergenza. Peraltro, sempre sul sito del Center of Healt Security della John Hopkins University, si può leggere: “Il Johns Hopkins Center for Health Security è stato incaricato dal Global Preparedness Monitoring Board (GPMB) di valutare la capacità di reazione a una pandemia patogena respiratoria ad alto impatto, causata da agenti patogeni con il potenziale per una trasmissione diffusa e un’alta mortalità” (la notizia rimanda a uno studio specifico sul tema).
Il primo caso accertato di coronavirus, a Wuhan, data 17 novembre 2019. Ieri Donald Trump ha dichiarato lo stato d’emergenza negli Stati Uniti. La decisione è stata presa dopo vari tentennamenti ed era inevitabile, dato che il virus finora si è diffuso negli Usa alquanto liberamente. E rischia di travolgere la popolazione e, insieme, la sua presidenza, invisa a tanti e potenti ambiti dell’establishement, che ora puntano sul rivale democratico Joe Biden.
Coronavirus, la Cina ribalta le accuse: “Paziente zero potrebbe essere militare Usa”. Redazione de Il Riformista il 13 Marzo 2020. E alla fine sono gli Stati Uniti sul banco degli imputati per la pandemia di Coronavirus. Sono accuse pesantissime, anche se tutte da dimostrare, quelle lanciate dal ministero degli Esteri di Pechino secondo cui potrebbero essere stati i militari americani a portare il Covid-19 in Cina. La teoria è stata espressa su Twitter dal portavoce del ministero Zhao Lijian, che ha rilanciato il video di un’audizione alla Camera dei Rappresentanti con Robert Redfield, direttore del CDC, il Centro per la prevenzione e il controllo delle malattie. “Redfield ha ammesso che alcuni americani apparentemente morti di influenza sono poi risultati positivi al nuovo coronavirus – ha twittato Zhao – Quando è iniziato tutto con il paziente zero negli Usa? Quante persone sono state contagiate? Quali sono gli ospedali? E’ possibile che sia stato l’esercito americano a portare l’epidemia a Wuhan. Cercate di essere trasparenti! Diffondete pubblicamente i vostri dati! Gli Usa ci devono una spiegazione”. Il riferimento è alla presenza dello scorso ottobre di centinaia di atleti delle forze militari americane a Wuhan per i Military World Games. Per Zhao le parole di Redfield, che non ha fornito in audizione indicazioni temporali, sarebbero la prova che scagiona la Cina e la città di Wuhan come focolaio internazionale del Coronavirus. Che questa stia diventando la linea cinese lo conferma anche la dichiarazione del capo del dipartimento per l’Informazione del ministero degli Esteri di Pechino, Hua Chunying. Quest’ultimo aveva infatti rilanciato in un tweet le parole di Redfield, sottolineando: “E’ assolutamente sbagliato e inappropriato parlare di coronavirus cinese”.
Coronavirus, la guerra dei complotti tra Washington e Pechino. Pubblicato venerdì, 13 marzo 2020 su Corriere.it da Guido Olimpio e Guido Santevecchi. Siamo di fronte a una pandemia. Che coinvolge anche le menti di politici e portavoce governativi, capaci in questi giorni tragici di rilanciare voci incontrollate pescate su siti che diffondono teorie cospirative. A gennaio scesero subito in campo gli anti-cinesi con l’idea che il coronavirus fosse stato «creato» o fosse «sfuggito» da un centro di ricerca sulla guerra biologica in Cina. O dal Laboratorio di biosicurezza nazionale di Wuhan, dove si studiano rimedi contro Ebola, Sars e altre malattie terribili. Il problema è che alle dicerie del web impreparato scientificamente e irresponsabile (nel senso che non deve rendere conto a nessuno) hanno dato risalto anche politici e funzionari governativi. Il capo della diplomazia americana Mike Pompeo insiste a parlare di «Wuhan virus». Donald Trump accusa il «virus straniero». Da parte cinese, circola di rimando la storia che il Covid-19 a Wuhan sarebbe arrivato non nella carne di pipistrello al mercato cittadino di animali selvatici. Ma negli spogliatoi degli atleti che a ottobre parteciparono ai Campionati Mondiali Militari. E, guarda caso, tra 109 nazionali e 9.300 partecipanti, i portatori sarebbero stati i soldati della squadra statunitense. Secondo questa ipotesi senza alcuna copertura scientifica, nei giorni delle gare (18-27 ottobre 2019) cinque atleti militari sarebbero stati ricoverati in ospedali di Wuhan. Nemmeno si precisa di quale nazionalità fossero i soldati, ma i complottisti giurano che fossero stati contagiati dagli americani, che si sarebbero portati il virus da casa. Viene citato il laboratorio militare di Fort Detrick, Maryland, come origine del coronavirus. Spazzatura. Ma ora viene cavalcata da Zhao Lijian, portavoce e vicedirettore del Dipartimento Informazione degli Esteri a Pechino. Su Twitter Zhao ha scritto ai suoi 310 mila followers: «Prendetevi pochi minuti per leggere un altro articolo. È così sconvolgente che ha cambiato molte cose nelle quali credevo...». Nel post è accluso il link a un sito canadese esperto dl complottismo. «Può essere stato lo US Army a portare l’epidemia a Wuhan. Serve trasparenza! Gli Usa ci devono una spiegazione», ha twittato il funzionario. La sua sparata è stata rilanciata su Weibo, la piattaforma mandarina, e condivisa cinque milioni di volte. Il «bacillo» della disinformazione prolifera senza confini. L’Iran ha spinto sulla tesi del complotto americano per giustificare la situazione disastrosa all’interno del Paese, con vittime tra i cittadini e personalità. La narrazione dei mullah ha insistito sulla superiorità morale e tecnica di Pechino, sulla disorganizzazione statunitense, su una manovra ordita per indebolire la Cina con un’infezione contenente componenti misteriose e Hiv. Alcuni canali russi sono stati solerti nel rilanciare «rivelazioni», anche se le bugie raccontate dopo l’abbattimento del jet ucraino hanno tolto forza alle versioni che escono dai palazzi khomeinisti. Il Bahrain, rivale di Teheran, ha dato la sua interpretazione accusando gli ayatollah di aver scatenato un’aggressione batteriologica. Tutto chiaro, allora? No. C’è ancora tanto da scoprire sulla crisi globale, sulla sua nascita. Non mancano aspetti controversi, sequenze temporali da fissare (quando è iniziata veramente la diffusione del virus), responsabilità da scoprire. Ma devono farlo investigatori indipendenti e seri, visto che il problema non è più solo della Cina.
Dall'antrace al coronavirus, le vie di Fort Detrick. Piccole Note il 13 marzo 2020 su Il Giornale. “Potrebbe essere stato l’esercito Usa ad aver portato l’epidemia a Wuhan”. Così il portavoce del ministero degli Esteri cinese Zhao Lijian. Una riflessione nata dopo l’audizione al Congresso degli Stati Uniti del direttore del Centro per il controllo e la prevenzione delle malattie, Robert Redfield, nella quale ha riconosciuto che alcune persone morte negli Usa di recente causa polmonite sarebbero invece decedute per COVID-19 non diagnosticato.
Il mistero del paziente zero. “È stato trovato il paziente zero negli Stati Uniti?” Ha rincarato la dose Lijian. “Quante sono le persone infette? Come si chiamano gli ospedali? Potrebbe essere l’esercito americano che ha portato l’epidemia a Wuhan. Sii trasparente! Rendi pubblici i tuoi dati! Gli Stati Uniti ci devono una spiegazione!” La vicenda è riportata da The Hill, che spiega come ciò sia parte di una narrativa cospirativa che circola sul web, e che vede il virus portato in Cina dagli atleti americani, e loro numeroso seguito, che si sono recati a Whuan per partecipare ai Giochi mondiali militari, che si sono svolti tra il 18 e il 27 ottobre 2019, praticamente quando è iniziata l’epidemia. Non necessariamente un atto criminogeno, ma una trasmissione involontaria: gli atleti Usa, o il seguito, sarebbero stati già infetti da coronavirus. La tesi sarebbe sostenuta da una coincidenza: cinque atleti di nazionalità ancora ignota sarebbero stati ricoverati in un ospedale locale per virus ignoto. Vero il ricovero, spiega il Global Times, ma si trattava del ben noto colera.
La polmonite da “svapo”. E, però, la domanda posta resta. Secondo Global Research, già ad agosto, un medico di Taiwan avrebbe avvertito gli Stati Uniti che alcuni decessi per polmonite attribuiti alle sigarette elettroniche, le “svapo”, erano in realtà da attribuire a un nuovo coronavirus. Repubblica, a settembre, riferiva di 550 ammalati con problematiche polmonari, che avevano portato ad alcuni decessi. Conto più che approssimativo, se si tiene conto di cosa sia la sanità americana, che all’inizio dell’epidemia, ad esempio, ha negato il tampone a cittadini di ritorno dalla Cina perché non avevano i soldi per pagarli (qualcosa sta cambiando, vedi il Washington Post). Certo, la vicenda “svapo” va vista nell’ottica di una guerra mossa dalle potenti industrie del tabacco alla concorrenza, ma è pur vero che non si sono registrati analoghi disturbi in altre aree del mondo, come l’Italia, dove lo “svapo” aveva preso piede. Ad alimentare la possibilità che la polemica impegnata da Zhao Lijian abbia una sua plausibilità, è anche il fatto che il cosiddetto “paziente zero” di Whuan, da cui è nata l’epidemia, sia ancora causa di controversie.
Cattive acque. Così andiamo a qualcosa di più inquietante, forse collegato, forse no: il 5 agosto il New York Times riportava la notizia che il Centro per il controllo e la prevenzione delle malattie degli Stati Uniti aveva intimato al laboratorio di armi batteriologiche di Fort Detrick di “cessare ogni attività” perché il sistema di filtraggio delle acque reflue non era sicuro. Un po’ quanto viene descritto nel Film “Cattive acque“, uscito tre settimane fa in Italia (tempestività di Hollywood), che racconta la storia vera della battaglia giudiziaria intrapresa da un avvocato americano contro l’azienda chimica Dupont, i cui scarichi hanno avvelenato, e continuano ad avvelenare, migliaia di persone (non solo, spiega anche dell’avvelenamento da sostanze chimiche di circa il 90% dell’umanità… da vedere, in Streaming, dato che i cinema son chiusi). Ovviamente si disse che nessuna sostanza pericolosa era effettivamente fuoriuscita da Fort Detrick, che però è stato chiuso in via preventiva. In altra nota, avevamo accennato come a luglio 2019, cioè poco prima della chiusura di Fort Detrick, la Camera degli Stati Uniti aveva chiesto formalmente al Pentagono se avesse testato e usato armi chimiche tra gli anni ’50 e gli anni ’70 (Piccolenote). Una richiesta insolita e non motivata da problematiche d’attualità. La cui spiegazione potrebbe essere proprio la contaminazione causata da Fort Detrick, notizia che presumibilmente circolava in alcuni ambiti. Un modo per far pressione, in maniera indiretta come si usa in tali casi, sulla vicenda, perché si chiudesse senza suscitare polveroni sull’Us Army.
L’antrace di Fort Detrick. Al di là delle domande, si può notare come l’episodio di cronaca nera – che, ripetiamo, non necessariamente ha a che vedere col coronavirus – abbia come focus Fort Detrick, sito che richiama alla memoria altro ed oscuro. Qualcuno ricorderà il panico che per diversi mesi attanagliò il mondo dopo l’11 settembre a causa della diffusione di missive contenenti antrace, letale arma batteriologica. La responsabilità dell’invio della posta avvelenata, indirizzata a personalità importanti e non d’America e del mondo, fu attribuita all’Agenzia terrorista nota come al Qaeda (il Segretario di Stato americano Colin Powell usò tale minaccia per convincere il mondo della necessità di attaccare l’Iraq, che avrebbe avuto magazzini pieni di antrace). L’Fbi scoprì poi che l’antrace che aveva terrorizzato il mondo proveniva dall’America, da Fort Detrick appunto (Wikipedia). La vicenda si chiuse individuando anche un possibile untore, un ignoto ricercatore che prestava la sua opera in quel laboratorio strategico. Che, ovviamente, non avrebbe mai potuto far tutto quel pandemonio globale da solo… tant’è. Morì suicida, tutto insabbiato.
Guido Olimpio e Guido Santevecchi per il ''Corriere della Sera'' il 14 marzo 2020. Siamo di fronte a una pandemia. Che coinvolge anche le menti di politici e portavoce governativi, capaci in questi giorni tragici di rilanciare voci incontrollate pescate su siti che diffondono teorie cospirative. A gennaio scesero subito in campo gli anti-cinesi con l' idea che il coronavirus fosse stato «creato» o fosse «sfuggito» da un centro di ricerca sulla guerra biologica in Cina. O dal Laboratorio di biosicurezza nazionale di Wuhan, dove si studiano rimedi contro Ebola, Sars e altre malattie terribili. Il problema è che alle dicerie del web impreparato scientificamente e irresponsabile (nel senso che non deve rendere conto a nessuno) hanno dato risalto anche politici e funzionari governativi. Il capo della diplomazia americana Mike Pompeo insiste a parlare di «Wuhan virus». Da parte cinese, circola di rimando la storia che il Covid-19 a Wuhan sarebbe arrivato non nella carne di pipistrello al mercato cittadino di animali selvatici. Ma negli spogliatoi degli atleti che a ottobre parteciparono ai Campionati Mondiali Militari. E, guarda caso, tra 109 nazionali e 9.300 partecipanti, i portatori sarebbero stati i soldati della squadra statunitense. Secondo questa ipotesi senza alcuna copertura scientifica, nei giorni delle gare (18-27 ottobre 2019) cinque atleti militari sarebbero stati ricoverati in ospedali di Wuhan. Nemmeno si precisa di quale nazionalità fossero i soldati, ma i complottisti giurano che fossero stati contagiati dagli americani, che si sarebbero portati il virus da casa. Viene citato il laboratorio militare di Fort Detrick, Maryland, come origine del coronavirus. Spazzatura. Ma ora viene cavalcata da Zhao Lijian, portavoce e vicedirettore del Dipartimento Informazione degli Esteri a Pechino. Su Twitter Zhao ha scritto ai suoi 310 mila followers: «Prendetevi pochi minuti per leggere un altro articolo. È così sconvolgente che ha cambiato molte cose nelle quali credevo...». Nel post è accluso il link a un sito canadese esperto dl complottismo. «Può essere stato lo US Army a portare l' epidemia a Wuhan. Serve trasparenza! Gli Usa ci devono una spiegazione», ha twittato il funzionario. La sua sparata è stata rilanciata su Weibo, la piattaforma mandarina, e condivisa cinque milioni di volte. Il «bacillo» della disinformazione prolifera senza confini. L' Iran ha spinto sulla tesi del complotto americano per giustificare la situazione disastrosa all' interno del Paese, con vittime tra i cittadini e personalità. La narrazione dei mullah ha insistito sulla superiorità morale e tecnica di Pechino, sulla disorganizzazione statunitense, su una manovra ordita per indebolire la Cina con un' infezione contenente componenti misteriose e Hiv. Alcuni canali russi sono stati solerti nel rilanciare «rivelazioni», anche se le bugie raccontate dopo l' abbattimento del jet ucraino hanno tolto forza alle versioni che escono dai palazzi khomeinisti. Il Bahrain, rivale di Teheran, ha dato la sua interpretazione accusando gli ayatollah di aver scatenato un' aggressione batteriologica. Tutto chiaro, allora? No. C' è ancora tanto da scoprire sulla crisi globale, sulla sua nascita. Non mancano aspetti controversi, sequenze temporali da fissare (quando è iniziata veramente la diffusione del virus), responsabilità da scoprire. Ma devono farlo investigatori indipendenti e seri, visto che il problema non è più solo della Cina.
Francesco Bechis per formiche.net il 14 marzo 2020. Se prima era un dubbio, ora è una certezza. La pandemia del coronavirus è la goccia che fa traboccare il vaso. Ora Stati Uniti e Cina sono davvero alle porte di una nuova Guerra Fredda, dice a Formiche.net Ian Bremmer, presidente di Eurasia Group, politologo, editorialista del Time. L’Italia è al centro del campo di battaglia. Anzi, non proprio al centro. Bremmer, sembra che sia in corso una grande campagna diplomatica fra Cina e Stati Uniti sul Covid-19.
Chi sta vincendo?
«La Cina si trova avanti. Questo non toglie che è la vera responsabile di tutto questo e che ha gestito in modo pessimo la risposta iniziale, seguita poi dalla soppressione dell’informazione cruciale sul virus e dal rifiuto di permettere il pieno accesso al Cdc (Center for desease and control prevention, ndr) e all’Oms (Organizzazione mondiale della sanità)».
Oggi il governo cinese dichiara vittoria sul virus.
«La sua fortuna risiede nelle fiacche risposte degli altri Paesi, che hanno fatto sembrare buona, al confronto, quella cinese. Da qualche settimana è in corso un immenso giro di vite che ha aiutato la Cina, accompagnato da una solida operazione diplomatica in Europa».
E un cambio di narrazione. Ora sono gli altri ad aver bisogno della Cina.
«È esattamente quel che la Cina sta cercando di fare. Visto quanto male ha gestito Trump l’emergenza negli Stati Uniti, si dimostra una narrazione efficace. L’unilateralismo e i rapporti genericamente deboli di Trump con gli alleati europei (entrambi emersi all’inizio di questa settimana nella decisione di vietare i viaggi dall’Europa senza informare prima gli europei) non hanno fatto che aggiungere benzina sul fuoco. Il suo approccio America First gli si sta gravemente ritorcendo contro in questo caso».
Gli si ritorcerà contro anche alle presidenziali di novembre?
«Lo danneggerà, questo è sicuro. Finora la sua ricandidatura è stata competitiva perché aveva alle spalle un’economia solida, che ora di colpo non sembra più così solida. D’altra parte, l’emergenza lo spingerà a lavorare molto di più per delegittimare Joe Biden con un aumento delle indagini su Burisma e Hunter Biden. Il coronavirus cambierà forma alla corsa presidenziale, vedremo fino a che punto. Le prossime settimane saranno decisive».
Il portavoce del ministero degli Esteri cinese Zhao Lijian ha accusato gli Stati Uniti di aver diffuso il virus a Wuhan. Come si spiega un’accusa del genere?
«Si chiama information warfare, niente di più. In Cina i media sono sempre più negativi sugli Stati Uniti, e d’altro canto Trump e i suoi alleati repubblicani hanno iniziato a parlare della “febbre di Wuhan”, utilizzando altri nomi poco lusinghieri. Finché va avanti così, c’è un’alta probabilità che si trasformi in una vera Guerra Fredda».
In Italia è arrivato un carico di equipaggiamento medico in parte donato dal governo cinese, e lo stesso è stato promesso ad altri Paesi europei. Sono doni senza secondi fini?
«Assolutamente no. Sono parte della campagna diplomatica che, è bene ripeterlo, è paradossale se consideriamo che il coronavirus viene da Wuhan ed è esploso per una pessima gestione dei cinesi. Questa operazione di sensibilizzazione, che secondo i cinesi prevede l’arrivo di due milioni di mascherine, renderà l’Europa molto più dipendente dalla Cina, e più propensa a resistere agli Stati Uniti su questioni come la concessione del 5G a Huawei».
Anche il 5G a Huawei entra nella partita del Covid-19? La Cina userà l’emergenza come leva negoziale?
«Non in modo esplicito. Ma la realtà è evidente e la Cina farà in modo che tutti captino il messaggio. Non che debba faticare tanto per riuscirci».
Francesco Bechis per formiche.net il 14 marzo 2020. No Huawei, no party. Se gli Stati Uniti non apriranno il mercato del 5G al colosso della telefonia mobile cinese, la Cina non fornirà loro mascherine e respiratori per affrontare l’emergenza del Covid-19. Parola del Global Times, quotidiano anglofono del Partito comunista cinese (Pcc). Con un’analisi geopolitica della sfida tech fra Washington e Pechino il foglio di partito ha spiegato che la Città Proibita è pronta a rifarsi sull’avversario americano qualora dovesse mettere al bando Huawei dalla rete di ultima generazione. La frase è attribuita a Ma Jihua, docente all’Università di Scienza e Tecnologia di Wuhan, epicentro della pandemia. Ma trova il pieno endorsement editoriale, con questo titolo: “Gli Stati Uniti sono avvisati di non escludere Huawei”. “Il problema di Huawei è stato elevato a uno degli interessi nazionali – dice l’esperto – e le aziende cinesi potrebbero cessare di fornire le tanto necessarie mascherine se gli Stati Uniti provocassero (una guerra con Huawei)”. Il ragionamento prosegue così: il governo americano è dipendente dalla tecnologia cinese per costruire la banda ultralarga così come dall’equipaggiamento made in China (la supply chain della maggior parte dei respiratori ha origine nel Dragone) per gestire l’emergenza coronavirus. Se interrompe la prima catena, Pechino interrompe la seconda. “Gli Stati Uniti hanno di recente garantito delle esenzioni per i prodotti medici dalla Cina, dando un segnale tacito della loro dipendenza dai rifornimenti cinesi esattamente come le aree rurali americane dipendono dall’equipaggiamento Huawei”, spiega l’articolo, prontamente ripubblicato su Sputnik International, quotidiano dell’agenzia stampa governativa russa che, pur non avendo alcun accordo editoriale con il Global Times, ha ritenuto di rilanciare integralmente il monito cinese. Non è la prima volta che la pandemia virale viene associata alla battaglia per il 5G. Solo una settimana fa Thomas Green, avvocato di Huawei di Shenzen, ha dichiarato che il processo in corso negli Stati Uniti contro l’azienda cinese e la sua numero due nonché figlia del fondatore, Meng Wanzhou, in Canada in attesa di estradizione con l’accusa di riciclaggio internazionale e corruzione, è viziato dal Covid-19, che impedisce agli avvocati di viaggiare e difendere l’assistito. L’occhio per occhio, dente per dente ventilato dal partito di Xi Jinping nei confronti degli Stati Uniti, mentre si apprestano a fare i conti con gli effetti devastanti della pandemia nata a Wuhan, dimostra che il governo cinese è pronto a fare degli aiuti umanitari una cruciale leva negoziale. Lo ha fatto capire lo scorso 23 febbraio il presidente Xi, quando in video-conferenza stampa con 170mila ufficiali ha promesso che una vittoria sul coronavirus avrebbe dimostrato al mondo “i vantaggi notevoli della leadership del Partito comunista cinese”. Una narrazione che stride con quella che circonda, in queste ore, l’arrivo in Italia di equipaggiamento medico dalla Cina per aiutare i reparti della terapia intensiva, descritto, anche da importanti esponenti della politica italiana, come “donazione”, per cui avrebbe fatto da intermediaria Intesa San Paolo. Il fattore umanitario, se esiste, dovrebbe essere letto anche alla luce di questo massiccio sforzo diplomatico. Delle tante contropartite diplomatiche, quella del 5G è una delle più delicate. Cina e Stati Uniti si trovano oggi di fronte a un sostanziale stallo. Il governo americano non è riuscito a convincere i partner europei della pericolosità di una rete in mano alle aziende cinesi, che l’intelligence d’Oltreoceano accusa di spionaggio per conto del Pcc. È di queste ore l’indiscrezione rilanciata da Reuters e confidata da due ufficiali dell’Annsi (i Servizi segreti francesi) che il governo francese, uno degli ultimi in bilico sul da farsi, sarebbe propenso a sposare la soluzione già scelta da Londra: concedere a Huawei un accesso parziale alla rete, escludendolo solo dalla parte “core”. È anche vero che il mercato americano diventa sempre più stretto per il colosso di Shenzen, che ha sì ricevuto un’altra proroga del bando presidenziale introdotto per decreto nel maggio 2019, ma deve anche fare i conti con una tamburellante controffensiva legislativa del Congresso Usa, dove un fronte bipartisan di senatori e deputati sta lavorando per mettere alle strette Huawei nel mercato del 5G. Se il quotidiano ufficiale di partito chiama in causa addirittura il coronavirus, significa che dalle parti di Pechino si è ben lontani dal considerare questa battaglia già vinta.
· Le tappe della diffusione del coronavirus.
Laura Bogliolo per il Messaggero il 19 aprile 2020. Il coronavirus si è diffuso a settembre, ha tre varianti, ed è nato in una regione del Sud della Cina, non a Wuhan. Mentre incontrava le resistenze del sistema immunitario umano, è mutato, molto velocemente, tanto che per cercare di "inseguire" la sua corsa folle gli scienziati hanno studiato la mutazione dei geni del virus e usato un algoritmo matematico che mostrava diversi scenari. Lo studio del genetista Peter Forster dell'Università di Cambridge pubblicato dalla rivista scientifica Proceedings of the National Academy of Sciences (PNAS), apre nuovi scenari sulla pandemia coronavirus. Lo studio, non ancora certificato dalla comunità scientifica, è stato effettuato solo su 160 ceppi isolati.
IL LUOGO DELLA NASCITA - «La diffusione del virus è partita più verosimilmente nel sud della Cina e non a Wuhan, ma le prove possono arrivare soltanto dall'analisi di ulteriori pipistrelli» ha detto Forster al South China Morning Post. E ha aggiunto: «Il virus potrebbe essere mutato nella sua forma finale mesi fa, ma è rimasto all'interno di un pipistrello o di un altro animale o addirittura degli uomini per diversi mesi senza infettare altre persone». LA DATA DELLA DIFFUSIONE - Secondo i ricercatori l'epidemia è iniziata tra il 13 settembre e il 7 dicembre. Un bel salto nel tempo quindi considerando che il primo caso noto di coronavirus è stato riportato il 17 novembre, quando a un 55enne della provincia di Hubei vicino a Wuhan è stato diagnosticato il COVID-19.
TRE VARIANTI - Ci sarebbero inoltre tre ceppi del virus: A, B, C. La maggior parte dei ceppi campionati negli Stati Uniti e in Australia erano geneticamente più vicini a un virus proveniente da pipistrello rispetto a quelli dell'Asia orientale, mentre il principale tipo europeo di virus sembra derivare da una variante di quello dell'Asia orientale. In realtà in Cina e anche a Wuhan da dove è ufficialmente partita la pandemia era più diffuso il virus del ceppo B, in circolazione fino alla vigilia di Natale. Nel Guangdong, a circa 500 miglia da Wuhan, sette degli 11 campioni trovati nei pazienti erano di tipo A. Il tipo C invece era un derivato del tipo B e si è diffuso in Europa.
IL "SALTO" - Il virus sarebbe mutato anche perché dai pipistrelli è passato all'uomo attraverso i pangolini, dei piccoli mammiferi che mangiano formiche le cui squame sono molto apprezzate nella medicina tradizionale cinese. Si tratta in realtà soltanto di ipotesi. Gli scienziati non sanno ancora bene come il virus abbia fatto il "salto" dal pipistrello all'uomo.
IMPLICAZIONI POLITICHE - L'origine del coronavirus ovviamente è diventata una questione politica di importanza internazionale: da una parte Donald Trump parla di "virus cinese", dall'altra Pechino sostiene la tesi secondo cui il coronavirus è stato portato in Cina dall'esercito americano.
IL FUTURO - Ora i ricercatori hanno deciso di estendere l'analisi a oltre mille campioni per avere maggiori prove a sostegno delle nuove tesi sulla nascita e la diffusione del coronavirus.
Biagio Simonetta per ilsole24ore.com il 7 aprile 2020. Undici giorni. È il tempo passato, a Wuhan, fra la morte di un uomo di 61 anni per Covid19 e l’ammissione pubblica di Zhong Nanshan, epidemiologo cinese, alla tv di stato circa la diffusione di un nuovo virus. Undici giorni fatali per la Cina, e forse per il mondo intero. In quel lasso di tempo, circa 5milioni di persone hanno lasciato la capitale dell’Hubei, muovendosi verso il resto della Cina e il resto del mondo. Portando il contagio ovunque. Diventando, inconsapevolmente, diffusori di una malattia sconosciuta.
Ma andiamo con ordine. La prima vittima ufficiale da Covid19, il sessantunenne di Wuhan, muore il 9 gennaio. Nei giorni precedenti aveva frequentato il mercato alimentare della città, luogo legato a molti dei primi casi di questa pandemia. La sua morte viene annunciata dalla Commissione Sanitaria Municipale due giorni dopo (l'11 gennaio). Le autorità cinesi sono più o meno certe che queste polmoniti fossero state trasmesse da animale a uomo, e che quindi i potenziali infetti erano quelli venuti a contatto con gli animali stessi al mercato cittadino. Nessuno, però, fa trapelare un dettaglio determinante: dopo 5 giorni dalla morte del 61enne, anche la moglie della vittima ha iniziato ad avvertire gli stessi sintomi. E la donna non è mai stata al mercato d Wuhan. Un segnale chiarissimo che il virus misterioso, il nemico sconosciuto, si sta diffondendo da uomo a uomo. Sono i giorni più importanti, nella storia di questa polmonite diventata pandemia. E la Cina sceglie la strada del negazionismo. Il 14 gennaio, mentre Wuhan si appresta a diventare un inferno, l'Organizzazione Mondiale della Sanità twitta che le indagini preliminari cinesi «non hanno trovato prove chiare della trasmissione da uomo a uomo del nuovo coronavirus identificato a Wuhan». Tutto sotto controllo, insomma. E invece no. Zhong Nanshan è un epidemiologo cinese molto noto. È apprezzato per il suo lavoro durante l'epidemia di SARS, nel 2003. Tocca a lui, il 21 gennaio (48 ore prima che Xi Jinping imponga il lockdown totale) ammettere alla tv pubblica che il nuovo coronavirus si sta senza dubbio diffondendo tra gli umani. Sono passati undici giorni da quando l'uomo di 61 anni, la prima persona risultata positiva a un test, è morto per Covid19. Undici giorni che potevano cambiare tutto. Undici giorni in cui nessuno ha avvertito i residenti di Wuhan o delle aree vicine che il nuovo coronavirus stava diventando altamente contagioso. Anzi, mentre l'intero Paese si preparava a festeggiare il capodanno lunare, con milioni di persone in movimento, le autorità locali di Wuhan decisero di indire una sorta di festa: il 18 gennaio, in un sobborgo della metropoli dell'Hubei, il sindaco Zhou Xianwang invitò i cittadini al XXI banchetto di Capodanno, con decine di migliaia di persone che si riunirono in strada portando cibo da casa. Una bomba biologica, a pensarci adesso. E non è un caso che oggi di Zhou Xianwang non si parli più. Le comunicazioni ufficiali del governo cittadino sono affidate al vicensindaco, Hu Yabo. Mentre l'intera gestione dell'Hubei, per volere di Xi Jinping, è stata affidata a un braccio destro dello stesso presidente. Quando Zhou Xianwang svela al quotidiano Global Times che 5 milioni di persone hanno lasciato la sua città, scoppia il panico. La Cina e il mondo intero iniziano a chiedersi: quante di loro sono portatori del nuovo coronavirus? E quante altre persone saranno infettate a causa loro? Un recente studio condotto da ricercatori dell'Università di Southampton, in Gran Bretagna, ha stimato che se la Cina avesse agito con tre settimane di anticipo rispetto all’oramai celebre data del 23 gennaio, il numero di casi complessivi di Covid-19 si sarebbe potuto ridurre del 95%. Ma anche una sola settimana avrebbe ridotto il contagio globale del 66%. E gli 11 giorni di Wuhan avrebbero potuto cambiare il destino del mondo.
Mauro Indelicato su Inside Over the world il 2 marzo 2020. L’epidemia da coronavirus scoppiata all’inizio del 2020 rappresenta una delle più gravi allerte sanitarie mondiali degli ultimi anni ed è stata paragonata a più riprese a quella della Sars del 2003 e a quella della Mers del 2012. In questi ultimi due casi ci si è trovati di fronte a infezioni da coronavirus, ovvero una famiglia di virus responsabile di diverse tipologie di infezioni respiratorie associabili sia ai comuni raffreddori stagionali che a patologie più gravi quali la polmonite. L’epidemia di cui si è avuta conoscenza tra la fine del 2019 e l’inizio del 2020 riguarda un ceppo di coronavirus ancora sconosciuto, chiamato Covid-19.
I primi allarmi provenienti dalla Cina. Nel mese di dicembre del 2019 le autorità sanitarie cinesi iniziano a comprendere di essere di fronte ad una situazione piuttosto anomala. In particolare, nella città di Wuhan si segnalano ricoveri di pazienti affetti da una polmonite atipica e molto contagiosa. Si ha il sospetto della comparsa di un nuovo tipo di virus ancora non conosciuto e catalogato dalla comunità scientifica. Le autorità locali si trovano davanti allo spettro di ripercorrere la drammatica storia già vissuta nel 2003 con l’epidemia di Sars, sviluppatasi in Cina e in grado di creare un allarme sanitario di livello mondiale nel giro di poche settimane. Anche per questo inizialmente non arrivano chiare indicazioni dal governo cinese, timoroso sia dei contraccolpi di immagine che di quelli economici. Tuttavia, i report provenienti dagli ospedali della provincia di Hubei, di cui Wuhan è il capoluogo, continuano per tutto il corso dell’ultimo mese del 2019 a parlare di contagi derivanti da un virus non conosciuto. Le comunità scientifica cinese inizia a esaminare i vari casi, con l’obiettivo di capire meglio quella che è una situazione potenzialmente drammatica. Un medico di Wuhan, Li Wenliang, ha lanciato alcuni allarmi sui social circa la pericolosità del momento dovuta alla velocità dei contagi del virus ancora sconosciuto. Il primo caso di infezione ufficialmente è stato fatto risalire all’8 dicembre 2019, con il virus che ha colpito un primo gruppo di persone. Vengono puntate la attenzioni sul mercato ittico e di animali di Wuhan: da lì, secondo le prime ricostruzioni, non meglio precisate specie avrebbero trasmesso il virus dagli animali all’uomo, generando quindi l’epidemia. Il 31 dicembre 2019 si registra la prima comunicazione del governo cinese all’Organizzazione mondiale della sanità circa la possibile esistenza di un nuovo virus.
La conferma dell’esistenza di un nuovo virus. Dopo il report ufficiale inviato da Pechino all’Organizzazione mondiale della sanità, le autorità sanitarie del Paese asiatico iniziano a prendere i primi provvedimenti. In particolare, il 1 gennaio 2020 viene chiuso il mercato di Wuhan da cui sarebbe partito il contagio, mentre alcuni pazienti vengono posti in isolamento. Contestualmente, le autorità locali iniziano imporre la quarantena a chi è stato a contatto con i soggetti affetti dai sintomi generati dal virus. La prima svolta sotto il profilo scientifico arriva il 7 gennaio: le autorità di Pechino confermano ufficialmente l’identificazione di un nuovo tipo di virus facente parte della famiglia dei coronavirus. Ciò permette l’inizio degli studi approfonditi sui vari casi e sulle patologie, circostanza essenziale per poter comprendere al meglio le dinamiche dell’epidemia e del virus stesso. Il 9 gennaio, alla luce delle notizie emerse dalla Cina e delle comunicazioni arrivate da Pechino, l’Oms ufficializza la comparsa di un nuovo virus. Quello stesso giorno, a Wuhan viene annotato tra le altre cose il primo decesso ufficiale causato dall’epidemia.
Le misure draconiane messe in campo dalla Cina. Dopo la seconda parte di gennaio, le dinamiche del contagio sono apparse molto più chiare e drammatiche. Il virus ha mostrato una capacità di diffusione molto elevata, il numero dei pazienti coinvolti è cresciuto in maniera molto rapida sia a Wuhan che nella provincia di Hubei e, soprattutto, primi casi sono stati segnalati in altre zone della Cina. In poche parole, il nemico invisibile da combattere si è rivelato molto più potente del previsto, tanto che da Pechino dopo le prime misure di inizio anno si è optato per drastiche prese di posizione volte a contenere quanto più possibile l’epidemia. A partire dalla cancellazione dei festeggiamenti del capodanno cinese, la ricorrenza più sentita da tutta la popolazione e per la quale milioni di persone viaggiano in tutto il Paese. Il 23 gennaio, viene poi decisa la totale quarantena per tutti gli 11 milioni di abitanti di Wuhan, pochi giorni dopo la stessa misura entra in vigore per l’intera provincia di Hubei, per un totale di 60 milioni di persone isolate dal resto della Cina e del mondo. L’emergenza è poi andata a toccare molte altre province, comprese quelle della capitale Pechino, di Shanghai e di altre metropoli del Paese. A fine gennaio, di fatto l’intera nazione risulta ferma: chiuse molte industrie, anche quelle delle multinazionali straniere, bloccata la produzione in diverse catene, spediti a casa milioni di studenti per via dello stop alle lezioni sia a scuola che nelle università. In tutte le città più importanti, vengono imposte limitazioni e controlli agli ingressi, vengono sospesi i servizi di trasporto pubblico e imposti rigidi controlli negli aeroporti. La Cina decide di interrompere la vita quotidiana in attesa del previsto picco dei contagi e per far iniziare, subito dopo, la diminuzione dei casi accertati. Il 31 gennaio le persone colpite sono già quasi 10mila, tra queste si registrano 213 vittime. Il l 25 gennaio, il presidente della Repubblica popolare cinese, Xi Jinping, parla per la prima dell’emergenza, ammettendo una situazione di difficoltà e un pericolo molto grave per il Paese. Il 26 gennaio l’Oms alza l’allerta a livello mondiale da “media” ad “alta”, giudicandola “molto alta” per la Cina. Intanto, per far fronte all’alto numero di ricoveri a Wuhan, il governo di Pechino decide di costruire due ospedali nel giro di una settimana: in questo modo viene ampliata l’offerta di posti letto, divenuti oramai insufficienti a causa dell’estensione dell’epidemia, al fine di prevenire il collasso del sistema sanitario.
L’allarme coronavirus diventa internazionale. A gennaio la situazione in Cina è molto critica, con diversi focolai attivi in tutto il Paese, oltre a quello molto ampio e problematico della provincia di Hubei. L’obiettivo del governo cinese è quello di evitare che altri focolai si possano propagare da Wuhan e si iniziano a porre in essere le contromisure per limitare il contagio nelle altre province. Tra fine gennaio e inizio febbraio il problema assume anche un rango internazionale. E questo non soltanto per i casi registrati all’estero tra cittadini che sono stati in Cina nelle settimane dell’esplosione dell’epidemia, ma anche perché secondo l’Oms il rischio di un contagio generalizzato in tutto il globo è diventato molto forte. Per questo, numerosi Paesi iniziano ad adottare, a partire da fine gennaio, molte misure restrittive nei collegamenti con la Cina. La Russia chiude le frontiere, in Europa molti Paesi impongono controlli molto severi negli aeroporti per i passeggeri in arrivo dal Paese asiatico, e l’Italia decide uno stop totale dei voli da e per la Cina. Misure del genere vengono prese da altri governi in tutto il mondo, con l’obiettivo di isolare il più possibile i focolai di virus presenti nel territorio cinese.
I primi contagi negli altri Paesi. Il 21 gennaio un cittadino atterrato negli Stati Uniti dalla Cina risulta positivo: questo episodio desta molto clamore mediatico, in quanto conferma come l’allarme sul coronavirus, a cui è stato dato il nome ufficiale di Covid-19, ha una rilevanza internazionale. In Europa i primi due casi si registrano in Francia il 24 gennaio e, anche in questo caso, si tratta di persone recentemente passate dalla Cina. Proprio in quello stesso giorno, un primo contagio viene annotato a Singapore, mentre il 27 gennaio tocca al Canada e alla Germania far fronte ai primi casi in territorio nazionale. In Italia viene attestata la presenza del Covid-19 il 30 gennaio, a seguito degli esami che danno esito positivo in una coppia cinese in vacanza nel nostro Paese. I due vengono isolati e ricoverati presso l’ospedale Spallanzani di Roma. Le prime preoccupazioni al di fuori della Cina si registrano in Thailandia, dove il 28 gennaio erano stati accertati già 14 casi. A causa di un sistema sanitario notevolmente più debole di quello di altri Paesi colpiti, si è guarda con estrema preoccupazione a Bangkok. Sempre a gennaio, il coronavirus fa la sua comparsa anche in Corea del Sud e in Giappone. Qui il 5 febbraio esplode il caso della nave da crociera Diamond Princess, ancorata a Yokohama dopo la scoperta di alcuni casi di contagio a bordo. Le autorità nipponiche impongono la quarantena a bordo di tutti i passeggeri, una scelta che ha destato non poche critiche in quanto all’interno della nave i casi di coronavirus hanno subìto un notevole incremento. A metà febbraio, il 54% dei casi di Covid-19 accertati nel mondo al di fuori dalla Cina si trovava proprio a bordo della Diamond Princess. Il 14 febbraio è si registra il primo caso di contagio in Africa in un cittadino rientrato in Egitto dalla Cina. Le autorità de Il Cairo riescono però a isolare il paziente e a evitare ulteriori problemi in un continente, quello africano, tenuto d’occhio sia per la debolezza di molti sistemi sanitari che per i rapporti con la Cina. Il 15 febbraio (in Francia) si ha il primo decesso per coronavirus in Europa: si tratta di un turista cinese di 80 anni. Il 19 febbraio in Iran si rendono noti i primi due casi di contagio.
I primi danni economici derivanti dall’effetto coronavirus. La Cina si ferma quasi completamente a partire dalla fine del mese di gennaio. Dalle fabbriche agli uffici, dalle sedi decentrate delle multinazionali alle imprese che producono mezzi destinati all’occidente, gran parte del Paese rimane a braccia conserte per via delle drastiche misure volute dal governo per combattere il virus. Per l’economia questo significa effetti molto negativi non soltanto per la Cina, ma anche per l’intero contesto internazionale. Molte case automobilistiche, ad esempio, devono sospendere la produzione non soltanto perché gli stabilimenti stanziati nel Paese asiatico vengono chiusi, ma anche perché in Europa arrivano pezzi importanti prodotti solamente in Cina. Lo stesso discorso vale anche per altri importanti settori e ciò incide sulla caduta delle più importanti borse internazionali e sulla crescita dell’economia mondiale. Occorre inoltre aggiungere che la chiusura di molte attività in Cina ha prodotto, tra le altre cose, un drastico calo dei consumi. Una circostanza, quest’ultima, che ha inciso soprattutto sulla domanda di petrolio, nettamente ridimensionata da gennaio in poi con il prezzo dell’oro nero adesso sempre più basso. Le conseguenze economiche in tutto il globo potrebbero farsi sentire per tutto il 2020, ma anche per un altro periodo importante di tempo se il virus dovesse continuare.
L’infezione in Corea del Sud e Giappone. A partire dalla seconda metà di febbraio, in Cina iniziano comunque a vedersi i primi effetti delle misure da Xi Jinping. Il picco, secondo diversi esperti, sarebbe già stato superato e i numeri dei nuovi contagi hanno iniziato ad avvertire una prima lieve contrazione. Nella provincia di Hubei la situazione è stata sempre descritta come drammatica, ma a Wuhan le file negli ospedali sono iniziate a diminuire. Il 23 febbraio il governo di Pechino ha eliminato molte misure di precauzione in almeno sei province e ha permesso ai non residenti di Wuhan di lasciare la quarantena e tornare nelle città di origine. Inoltre, nel corso delle settimane il virus è apparso meno misterioso: il Covdi-19 è stato studiato in Cina come nel resto del mondo e sono state individuate le sue principali caratteristiche. A partire dalla sua elevata contagiosità, molto più alta della Sars del 2003, con la trasmissione del virus che è stata riscontrata anche da pazienti asintomatici. Sono stati poi scoperti dati circa il periodo di incubazione, che raggiungerebbe un massimo di 14 giorni e il tasso di mortalità che andrebbe dal 2% al 3%. La grande maggioranza dei pazienti è guarita e tanti hanno iniziato a essere dimessi dagli ospedali. A partire da febbraio, il coronavirus ha cominciato a colpire al di fuori dei confini cinesi, come in Giappone, dove le autorità non hanno mai messo in piedi un reale sistema di emergenza forse anche per non compromettere l’immagine del Paese in vista delle Olimpiadi di Tokyo 2020. Ma qui a preoccupare sono i focolai riscontrati in alcune grandi città e soprattutto nell’isola di Hokkaido. Al 29 febbraio 2020, i casi registrati in Giappone sono 241 e, tra questi, si contano quattro vittime. A queste cifre occorre aggiungere quelle della Diamond Princess, la nave da crociera ancorata a Yokohama. La gestione di questa situazione ha provocato molte polemiche nei confronti del governo nipponico, visto che il focolaio sviluppatosi a bordo della nave ha provocato almeno 705 contagi e sei morti. Gli ultimi passeggeri del mezzo sono scesi soltanto il 29 febbraio, dopo quasi un mese trascorso a bordo. Dopo la Cina però, la nazione che più ha iniziato a preoccupare è stata la Corea del Sud. Qui il primo caso è stato riscontrato su una donna ritornata dalla Cina il 20 gennaio: da allora, le autorità hanno iniziato a guardare con attenzione alle evoluzioni del virus. Ma la svolta è arrivata il 19 febbraio: in quelle 24 ore, le autorità sudcoreane hanno riscontrato almeno 20 casi in più, il giorno successivo addirittura 70. Un’impennata repentina che è stata subito attribuita al cosiddetto “Paziente 31”, una donna di 61 anni appartenente alla setta della Chiesa di Gesù Shincheonji. Sarebbe stata lei a contagiare molte persone nella città di Daegu, dove ha partecipato al raduno della setta e ha frequentato diverse messe e almeno un rito funebre. In queste circostanze, la donna si sarebbe trasformata in un super diffusore capace in poco tempo di far spargere il coronavirus a Daegu. I casi nel Paese, soprattutto nella città prima citata, sono cresciuti giorno dopo giorno e, al 29 febbraio 2020, in totale le persone coinvolte sono 3.150 e tra queste si contano 16 vittime.
Il coronavirus in Italia. Nella notte tra il 20 ed il 21 febbraio a Codogno, in provincia di Lodi, un uomo di 38 anni è stato ricoverato per problemi respiratori nel locale ospedale. Visti i sintomi riportati, sono stati avviati alcuni controlli volti ad accertare l’eventuale presenza di Covid-19 e i test sono stati positivi. Fino a quel momento in Italia c’erano tre casi accertati: la coppia di turisti cinesi e un ragazzo ricoverato a Roma, ma che ha contratto il coronavirus a Wuhan. Dal momento che l’uomo di 38 anni non era stato in Cina di recente, il suo è risultato essere il primo contagio avvenuto direttamente in Italia. Posto in terapia intensiva, l’uomo è diventato quindi il “Paziente 1”. Inizialmente si era pensato che lo sfortunato protagonista di questa circostanza avesse contratto il virus da un amico imprenditore da poco tornato dalla Cina, tuttavia i controlli nei confronti di quest’ultima persona non hanno rivelato la presenza del coronavirus. A tutt’oggi rimane ancora un mistero l’identità del “Paziente 0” italiano. Oltre all’uomo di 38 anni di Codogno, sono risultati infetti anche la moglie di quest’ultimo e un amico. Il 21 febbraio altri due casi di contagio sono stati scoperti in provincia di Padova. Da quel giorno, le autorità italiane hanno iniziato a conteggiare una crescita esponenziale dei casi accertati, arrivati nel giro di 48 ore a superare le cento unità. Una situazione che ha scatenato il panico soprattutto nel nord Italia. A Milano sono stati presi d’assalto i supermercati nel timore di possibili quarantene e misure già viste in Cina. In tutta Italia sono andate letteralmente a ruba le mascherine, oltre che gel e prodotti per l’igiene. Dal 24 febbraio è stata istituita una “zona rossa” in provincia di Lodi, la quale coinvolge dieci comuni di questa provincia lombarda. In tutta la regione, così come in Veneto, in Emilia Romagna e in Piemonte, dove sono stati scoperti nuovi casi, sono state chiuse le scuole, e diverse gare di Serie A e di altri campionati sportivi sono state rinviate. A distanza di dieci giorni dalla scoperta del primo caso in Italia, i focolai principali rimangono quelli in Lombardia ed in Veneto, anche se altri contagi si contano in almeno dieci regioni. Con oltre mille casi accertati e 29 morti, l’Italia al 29 febbraio è il terzo Paese, dopo Cina e Corea del Sud, maggiormente interessato dal coronavirus. Una statistica ha rivelato che dal focolaio nelle regioni settentrionali italiane sono partiti i contagi anche grazie a viaggi all’estero condotti da persone residenti nei territori colpiti dal virus, per 17 Paesi nel resto del mondo.
Il Coronavirus in Iran. Come detto in precedenza, i primi casi di contagio segnalati dalle autorità di Teheran risalgono al 19 febbraio. Tuttavia qualcosa nei dati del governo di Teheran non ha mai quadrato del tutto. In particolare, è emersa un’importante sproporzione tra il numero di persone contagiate e quello dei deceduti. A fine febbraio il coronavirus in Iran avrebbe ucciso quasi il 20% dei soggetti infettati, una percentuale significativamente alta visto che a livello globale non si era mai superato il 3%. A confermare una situazione potenzialmente fuori controllo, è stata anche la denuncia del deputato conservatore Ahmad Amirabadi Farahani, secondo cui soltanto a Qom si contavano almeno 50 vittime. Il governo iraniano ha inizialmente minimizzato, parlando di situazione sotto controllo. Ma il vice ministro della salute, Iraj Harirchi, è risultato contagiato dal Covid-19. Un episodio che ha reso palese la potenziale drammaticità della situazione in Iran. Pochi giorni dopo il contagio dell’esponente politico, la tv iraniana ha iniziato a trasmettere immagini dei santuari di Qom, città da cui si sarebbe propagata l’epidemia, che venivano disinfettati mentre le stesse elezioni parlamentari del 21 febbraio sono state condizionate dai timori della crescita dei contagi. A molti elettori è stata misurata la febbre, così come alle urne gran parte delle persone si è recata munita di mascherina. Nei giorni successivi si è scoperto che anche quattro deputati sono risultati positivi al coronavirus. Al 29 febbraio, i contagi in Iran erano quasi mille mentre i decessi 49, il numero più alto dopo la Cina.
La situazione in Iran preoccupa per due motivi: da un lato per la tenuta di un sistema sanitario nazionale fortemente provato dalle sanzioni occidentali in vigore da anni e inasprite dagli Usa sotto la presidenza di Donald Trump; dall’altro lato, perché una diffusione del virus nel Paese potrebbe essere deleteria per il resto della regione mediorientale. Libano, Oman, Iraq, Kuwait, Bahrein ed Emirati Arabi Uniti hanno infatti già registrato casi di contagio di persone provenienti dall’Iran.
I segnali positivi dalla Cina. Dopo un mese dall’inizio dell’emergenza a Wuhan, la Cina si è “risvegliata” in grande difficoltà e con gravi ripercussioni economiche derivanti dalla guerra contro il virus. Il 29 febbraio, i casi di contagio accertati ufficialmente erano più di 78mila e le vittime più di 2.500: bilanci pesanti per una nazione costretta a combattere una delle epidemie più importanti degli ultimi anni. Emblema della battaglia il medico Li Wenliang, il giovane che è stato tra i primi in un ospedale di Wuhan a parlare della presenza di un nuovo potenziale virus in città e che, il 6 febbraio scorso, è morto proprio a causa del Covid-19. Nella provincia di Hubei le autorità di Pechino hanno inviato migliaia di medici e di personale dell’esercito, sono stati costruiti almeno dieci nuovi ospedali e sono state sospese tutte le attività lavorative e ricreative. Nella seconda metà di febbraio la curva dei nuovi contagi giornalieri ha iniziato a scendere, si sono contati sempre meno casi, soprattutto nelle province meno coinvolte dall’epidemia. Il governo cinese non ha dichiarato finita l’emergenza, ma ha parlato di primi segnali positivi. Con sempre meno pazienti negli ospedali, sia per via della diminuzione del numero dei contagi che per le numerose dimissioni di persone risultate guarite, il sistema sanitario ha iniziato lentamente ad essere meno gravato soprattutto nelle grandi città fuori dalla zona rossa della provincia di Hubei. L’obiettivo delle autorità di Pechino, che hanno ammesso un’iniziale impreparazione nell’approccio all’emergenza e che a febbraio hanno rimosso i vertici del partito Comunista a Wuhan, è quello di far terminare entro la primavera la prima fase dell’emergenza e permettere all’economia cinese di ripartire gradatamente.
La studio del virus nel mondo. Al di là della situazione cinese, gli occhi sono puntati sullo sviluppo dell’epidemia in tutto il resto del pianeta. L’Oms nelle settimane di marzo potrebbe dichiarare ufficialmente la pandemia, ossia l’esistenza di un’epidemia diffusa in tutto il mondo e, dunque, un’emergenza che coinvolge tutti gli attori internazionali. Il Covid-19, come descritto nella cronistoria di sopra, già da febbraio non è più solo un’emergenza cinese ma di tutti i Paesi più esposti e di quelli che in futuro potrebbero avere a che fare con l’epidemia. Per questo la scienza è impegnata nello studio del virus e, soprattutto, nella rincorsa al vaccino. Dall’Australia alla stessa Cina, passando per gli Usa, Israele, l’Italia e altri Paesi dell’Europa, i ricercatori stanno provando a velocizzare la messa a disposizione di un vaccino. I più ottimisti parlano di un periodo che va dai tre ai sei mesi, mentre altri parlano di un arco temporale che va dai 12 ai 18 mesi. Diversi studi hanno ideato alcune ipotesi sia sull’origine del virus che sul suo futuro sviluppo. Nel primo caso, è stato evidenziato come il Covid-19 sarebbe in circolazione dei casi registrati in Cina a dicembre dicembre. Uno studio italiano, in particolare, ha posto l’accento sull’esistenza del virus già tra settembre ed ottobre, con un’accelerazione improvvisa dei contagi avvenuta poi a dicembre. Difficile stabilire quale animale abbia trasmesso il virus all’uomo: il fatto che le autorità cinesi abbiano inizialmente puntato i fari sul mercato di Wuhan continua a far pensare a una presenza del coronavirus nei pipistrelli, nei serpenti oppure in altri animali selvatici venduti nella Cina più rurale. Per quanto riguarda il futuro sviluppo del virus, sono state poste in essere due distinte strade: il debellamento totale del Covid-19 grazie alle misure di contenimento intraprese dai Paesi più colpiti, come accaduto nel 2003 con la Sars oppure, nel caso opposto, una convivenza della popolazione mondiale con il virus nei prossimi anni. Secondo quest’ultima opzione, il Covid-19 potrebbe presentarsi in futuro sotto forma di virus influenzale e continuare a contagiare migliaia di persone in tutto il mondo ma in maniera più debole, senza dunque mettere in difficoltà e in crisi i sistemi sanitari.
Coronavirus, il report sull'origine: cinque atleti dei Giochi mondiali già contagiati ad ottobre 2019. Libero Quotidiano il 24 Febbraio 2020. Il coronavirus potrebbe non essersi originato dal mercato ittico di Wuhan. Dal 18 al 27 ottobre 2019 nella provincia cinese si è svolta la settima edizione dei Giochi militari mondiali, qui - secondo un'inchiesta del Giornale che riporta quanto riferito dal Southern Weekly - cinque atleti stranieri, dei quali non è stata rivelata la nazionalità, sono stati trasportati al City Jinyintan Hospital a causa di "malattie infettive importate e trasmissibili". Si trattava - a detta del direttore del nosocomio, Zhang Dingyu, di malaria. Eppure nei giorni dei Giochi nessuno era a conoscenza del coronavirus, motivo, questo, per cui alcuni ritengono che il virus potrebbe "essere stato diagnosticato erroneamente". Ma non solo, il Giornale si avvale anche di un'altra nuova ipotesi: i dati genomici dell'agente patogeno suggeriscono che il virus possa provenire dall'esterno del mercato. Questo quanto scoperto da un team di ricercatori che ha analizzato, nel suo report, i dati di 93 campioni di Covid-19 provenienti da 12 Paesi differenti. Dunque il coronavirus rimane ancora un mistero.
Virus cinese, aumenta l’emergenza a livello Internazionale: scanner all’aeroporto di Fiumicino. Redazione de Il Riformista il 23 Gennaio 2020. Il virus cinese, fa sempre più paura. Ieri la riunione d’emergenza dell’Organizzazione mondiale della sanità ha rinviato ad oggi la decisione di definire il nuovo coronavirus un’emergenza di salute pubblica di livello internazionale. In Cina 25 le vittime accertate nella provincia di Hubei, dove si trova la città-focolaio Wuhan. Qui è stato imposto l’obbligo di indossare mascherine e il blocco provvisorio dei trasporti pubblici, con treni e voli cancellati per contrastare la diffusione dell’epidemia. Accertato intanto il primo caso a Hong Kong. Dal ministero della salute è partita una circolare con istruzioni per identificare casi sospetti, allertati i medici di famiglia.
LA TASK FORCE IN ITALIA – Dopo la Cina, gli Stati Uniti e diversi Paesi europei, anche l’Italia ha dato vita a una task force per fare fronte alla minaccia del nuovo coronavirus cinese che finora ha provocato la morte di 17 persone. Il gruppo di lavoro si è riunito al ministero della Salute. Obiettivo della riunione, adottare ogni misura necessaria a fronteggiare l’emergenza di un potenziale contagio proveniente dalla Cina. “Il Servizio Sanitario Nazionale – ha assicurato il ministro Roberto Speranza che ha presieduto la riunione – è dotato di professionalità, competenze ed esperienze adeguate ad affrontare ogni evenienza. Stiamo seguendo con la massima attenzione, in stretto raccordo con le istituzioni internazionali, l’evolversi della situazione”. Il pool di esperti, che si è riunito presso l’Ufficio di Gabinetto, ha il compito di coordinare ogni iniziativa relativa al virus cinese. “La task force a cui ha partecipato il ministro della Salute, Roberto Speranza – si legge in una nota del ministero – sarà attiva 24 ore su 24 ed è composta dalla Direzione generale per la prevenzione, dalle altre direzioni competenti, dai carabinieri dei Nas, dall’Istituto Superiore di Sanità, dall’Istituto Nazionale per le Malattie Infettive ‘Lazzaro Spallanzani’ di Roma, dall’Usmaf (Uffici di sanità marittima, aerea e di frontiera), dall’Agenzia italiana del Farmaco, dall’Agenas e dal Consigliere diplomatico”. “Nella prima riunione – prosegue la nota – è stato verificato che le strutture sanitarie competenti sono adeguatamente allertate a fronteggiare la situazione in strettissimo contatto con l’Organizzazione mondiale della sanità e il Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie”. Il ministero fa sapere che è già attivo uno specifico canale sanitario per tutti i viaggiatori provenienti dalla città cinese di Wuhan, nella cui area si sarebbe sviluppato il virus che in un primo momento si sarebbe propagato dagli animali all’uomo, ma ora si è evoluto passando direttamente da un paziente a un altro. “Si è convenuto, inoltre – sottolinea il ministero nella nota – di diramare a istituzioni, enti e organizzazioni professionali interessati, una circolare predisposta dalla Direzione generale della prevenzione contenente indicazioni operative”.
CONTROLLI A ROMA - All’aeroporto di Fiumicino questa mattina sono stati effettuati dei controlli con scanner termici sui 202 passeggeri arrivati all’alba da Wuhan, città cinese da cui si è diffuso il nuovo coronavirus. “Le operazioni si sono svolte secondo il protocollo del ministero della Salute”, ha spiegato a Rainews24 Ivan Bassato, direttore operativo degli Aeroporti di Roma, “i passeggeri sono stati molto cooperativi, hanno ricevuto tutte le informazioni sanitarie necessarie”. Il volo atterrato alle 4.50 a Fiumicino è uno dei tre settimanali che arrivano a Roma dall’area interessata dal focolaio. L’aeroporto Leonardo Da Vinci dispone di una struttura decentrata rispetto ai terminal realizzata da Adr su indicazione del ministero della Sanità per gestire questa tipologia di casi essendo l’aeroporto deputato a gestire voli in emergenza sanitaria. Una struttura, quella del canale sanitario, che dispone dei più avanzati sistemi di biocontenimento. All’arrivo del velivolo i passeggeri vengono sbarcati e trasportati con un mezzi interpista presso il canale sanitario. Al suo interno esistono due canali dotati di telecamere termiche attraverso i quali transitano i passeggeri per la rilevazione della temperatura corporea. Le immagini vengono visionate da personale medico che provvede a enucleare eventuali passeggeri che risultassero con temperatura anomala. Qualora non si rilevino situazioni anomale i passeggeri vengono trasportati al terminal per proseguire i normali controlli di immigrazione e ritiro bagaglio.
Coronavirus Cina, l’esperto: “L’Italia è una bomba microbiologica a orologeria”. Laura Pellegrini il 25/01/2020 su Notizie.it. Walter Ricciardi, l’ex presidente dell’Istituto superiore di sanità e presidente della Mission board on cancer della Commissione europea, ha rivelato i rischi della malattia proveniente da Wuhan. Il coronavirus della Cina, infatti, sta mietendo una serie di vittime non solo nel continente asiatico, ma anche negli altri Paesi del Mondo. I nuovi casi hanno raggiunto l’Australia, la Francia, gli Stati Uniti e la Malesia. Il vero problema, però, è “la mancanza di conoscenze scientifiche e di fiducia nei confronti della scienza”, ha spiegato l’esperto. In un contesto di sfiducia nei confronti della scienza e quindi dell’efficacia dei vaccini, “il nostro Paese è uno dei più deboli”, una sorta di “bomba microbiologica a orologeria”. Walter Ricciardi mette in guardia l’Italia sui veri problemi che riguardano il coronavirus proveniente dalla Cina. Gli scienziati, infatti, stanno già mettendo a punto un vaccino efficace contro la malattia, ma senza la fiducia nella medicina tutto questo potrebbe non servire a nulla. “Tutte le malattie infettive dovrebbero essere possibilmente contrastate con i vaccini – ricorda l’esperto intervistato da Il Messaggero -, perché in questo modo si evita l’insorgenza di patologie”. Ma tutto questo riguarda le scelte che devono prendere i governi e le istituzioni internazionali. A loro spetta la messa in atto di “risorse, nonché dalle industrie che poi mettono la capacità per produrli”. “Un nuovo vaccino – prosegue ancora l’esperto – può arrivare a costare 2 miliardi di euro. Ma quando la malattia può coinvolgere milioni di persone, come in questo caso, diventa una priorità. I vaccini hanno salvato milioni di vite e soltanto con i vaccini potremo evitare la pandemia”. Fortunatamente, però, grazie agli studi effettuati in passato sulla Sars, gli scienziati “devono solo adattare le loro ricerche alle caratteristiche specifiche di questo nuovo virus”. I tempi dovrebbero quindi essere più rapidi. Sulla malattia cinese, comunque, “bisogna restare attenti – conclude Ricciardi -, e come nel caso dei Cdc americani, agire subito e preventivamente non aspettando che la situazione sia grave”.
Coronavirus, ristoratrice italiana a Wuhan: “È tutto chiuso: è una città fantasma”. Laura Pellegrini il 25/01/2020 su Notizie.it. Roberta Menin è una ristoratrice italiana che si trova a Wuhan: a Mattino Cinque ha raccontato cosa sta accadendo nella cittadina cinese a causa del coronavirus. Nei gironi scorsi, una studentessa di 24 anni aveva raccontato la sua versione: la ragazza era bloccata nella quarantena di Wuhan, centro dell’epidemia del virus. Sono immagini di una “città fantasma”, dove tutti i negozi sono chiusi e le persone, le poche che girano, indossano la mascherina. “Mai vista una cosa così: nemmeno con la Sars”, ha confessato Roberta. La situazione a Wuhan è drammatica: il trasporto è stato sospeso, la città è isolata. A causa del coronavirus, infatti, la zona è diventata un deserto: le persone rimangono chiuse in casa, non vanno più al lavoro ed evitano qualsiasi contatto. “Il centro è stato diviso in tre zone e sono stati chiusi i tunnel in modo che la gente non passi da una parte all’altra”. Roberta Menin è una ristoratrice italiana che ha raccontato a Mattino Cinque il dramma che sta vivendo a Wuhan dopo lo scoppio dell’epidemia di coronavirus. “È tutto chiuso: mai vista una cosa così, neanche per la Sars. Speriamo che passi in fretta”. Non ci sono auto, le persone non camminano, non ci sono taxi: “In Cina è stranissimo”. Roberta la definisce “città fantasma”. “Chi ha vissuto la Sars nel 2003 non ha mai visto misure del genere – ha proseguito la donna -. Ma questo è positivo perché significa che il governo sta agendo e noi ci fidiamo“. Le autorità cinesi, infatti, hanno annunciato che a febbraio dovrebbe sorgere il nuovo ospedale per accogliere le vittime colpite dal coronavirus, mentre il bilancio delle vittime e dei contagi continua ad aggravarsi. “Ho una bimba di venti mesi: le preoccupazioni ci sono – ha detto ancora Roberta -. Abbiamo visto che il Governo ha preso fin da subito delle misure straordinarie”. Quando la conduttrice chiede se ha paura, la donna risponde: “Siamo un po’ tutti preoccupati”.
Guido Santevecchi per corriere.it il 28 gennaio 2020. Abita vicino al mercato dove pare sia esploso il coronavirus, uno dei circa 60 italiani confinati a Wuhan dalla gigantesca quarantena cittadina imposta dal governo. «Sto a casa, sono uscito ieri a fare la spesa, usando vestiti vecchi che poi ho messo in lavatrice a temperatura alta». Al telefono, la voce del connazionale è serena, chiede subito di non preoccupare di più i parenti e gli amici in patria. «Al supermercato ho trovato tutto quello che serviva, anche prodotti italiani che prima non sempre c’erano: i rifornimenti funzionano, bisogna essere grati ai tanti lavoratori cinesi che tengono aperti i negozi, ai tassisti del servizio gratuito organizzato dalle autorità, che consegnano a casa la spesa. Possiamo stare qui a casa, in attesa che la situazione migliori». Già, ma quale è la situazione dei 60 italiani che stanno a Wuhan, tra residenti stabili e di passaggio? L’obiettivo è farli rientrare il prima possibile. Washington ha mandato un charter per raccogliere i suoi diplomatici, le famiglie e gli altri americani che vogliono andar via, ma sono più numerosi dei 250 posti del Boeing 747 inviato: la maggior parte dovrà aspettare. E poi sottoporsi a quarantena negli Stati Uniti, dove sono già stati individuati 5 casi di contagio e un centinaio di sospetti. Alla Farnesina e all’ambasciata di Pechino stanno valutando più opzioni. «Si è parlato di muoverci in pullman verso Changsha, un’altra grande città nel centro della Cina. E poi di stare 14 giorni in osservazione lì. All’inizio c’è stato un po’ di panico, poi abbiamo pensato che la cosa migliore ora sia restare in casa qui a Wuhan, dove siamo ragionevolmente al sicuro», dice il giovane manager con cui parliamo (niente nome, non si sente di fare il portavoce). Ora la tendenza dei residenti è a restare: «La prospettiva di passare due settimane in quarantena in un’altra città non ci piace, potrebbe essere più rischioso, soprattutto per chi ha i figli con sé». Tra i piani c’è fare fronte comune con i francesi, che a Wuhan hanno un consolato, una fabbrica di auto della Psa, una scuola, in tutto 800 residenti. Stessa situazione incerta per britannici, spagnoli, tedeschi e giapponesi. Parigi insiste che a metà settimana un ponte aereo sarà attivato. La Farnesina dice che anche l’Italia valuta «soluzioni aeree» per portar via i nostri da Wuhan ma con realismo ripete che «dipende dall’autorizzazione cinese». E intanto, che succede se qualcuno accusa sintomi influenzali o ha bisogno di assistenza per altri problemi? «L’ambasciata a Pechino è in contatto con tutti, abbiamo numeri di riferimento. E soprattutto se si ha bisogno di consulto medico si usano WeChat e email, per non dover andare in ospedale dove si corre il rischio di aspettare tra malati contagiosi». Il consiglio che ricevono è di non terrorizzarsi per una febbre, di stare a casa e curarsi come per una normale influenza, se non si ha il fisico debilitato. Ma la situazione nello Hubei è seria. Un italiano che era in campagna ha visto villaggi che hanno sbarrato le strade con mucchi di terra e fossati per impedire l’accesso «a quelli di fuori». Chi ha bambini ha il problema di tenerli al chiuso: la scuola è in vacanza per Capodanno e la chiusura è già stata prolungata per almeno due settimane. «Intrattenerli è il problema», dice mentre al telefono arriva in sottofondo uno schiamazzo allegro. Per il lavoro si usa l’email. E il mercato degli animali selvatici vicino a casa? «Ora i cinesi dicono che è stato un errore disinfettarlo senza aver prima individuato la specie dove si era annidato il virus: come cancellare le impronte sul luogo del delitto».
Michelangelo Cocco per ilmessaggero.it il 27 gennaio 2020. Uscendo per strada sembra di camminare in una città fantasma e per evitare il contagio sono tutti costretti a barricarsi in casa. Come racconta il quarantaseienne vicentino Lorenzo Mastrotto, impiegato in un'azienda meccanica, moglie cinese e due bimbi. Dice di sentirsi praticamente intrappolato e ha confermato al Messaggero la volontà di rientrare in Italia e il supporto e l'assistenza fornita dall'Unità di crisi. Racconta che insieme alla famiglia passa da giorni gran parte del tempo in casa. Ieri è uscito solo per fare un po' di rifornimento al supermercato, «che era ancora ben fornito». Nei giorni scorsi, un altro italiano bloccato a Wuhan, Lorenzo Di Berardino, studente abruzzese, ha raccontato invece che la città è praticamente deserta e che sugli scaffali dei supermercati non si trova più nulla. Ha documentato tutto via Twitter, con video e fotografie. Tra gli italiani a Wuhan c'è incertezza sulle prossime mosse. «C'è scarsa chiarezza. E se fosse un ospedale militare per la quarantena cosa succederebbe dopo?», dice uno di loro. «La sensazione - osserva un altro - è che la Cina non voglia rompere il fronte del divieto di lasciare la città». Inoltre, si ragiona, un trasporto in autobus è considerato «rischioso» e quindi in molti preferirebbero, senza un percorso più chiaro, restare chiusi in casa a Wuhan.
Grazia Longo per "la Stampa" il 28 gennaio 2020. Ogni volta che sente squillare il cellulare spera sia la Farnesina.
«Aspetto la notizia sulla data del mio rientro in Italia. Ma per ora sono costretto a rimanere in quarantena qui a Wuhan». Lorenzo Di Bernardino, 22 anni, originario della provincia di Pescara è iscritto al quarto anno di Giurisprudenza e dallo scorso settembre si trova in Cina per un semestre di studio.
Dove vive esattamente?
«In un campus universitario di Wuhan che oramai è diventata una città invisibile: le strade sono praticamente deserte e i negozi di alimentari sono vuoti perché presi d' assalto da chi ha voluto fare le scorte prima di barricarsi in casa».
Quando scade il suo semestre di studio?
«È scaduto proprio poggi (ieri per chi legge, ndr). Tant' è che avevo già il biglietto per il volo. Ma da mercoledì scorso Wuhan è stata isolata.Non si può né entrare, né uscire. Io lascio il campus il meno possibile. Un paio di giorni fa, con altri studenti, siamo andati in bici al supermercato e abbiamo trovato una realtà desolante. Ma nonostante ciò resto fiducioso sulla possibilità che tutto si risolva a breve per il meglio».
Usa sempre la mascherina protettiva?
«Sempre. Me le sono procurate personalmente e ora anche il campus ha iniziato a distribuirle».
A quali altri precauzioni ricorre?
«A tutte quelle utili a evitare un potenziale contagio. Sono quelle tradizionali: mi lavo continuamente le mani, mantengo un' igiene personale molto elevata, pulisco accuratamente la stanza in cui vivo».
Quando siete stati informati del rischio coronavirus?
«La voce è incominciata a diffondersi nell' ultima settimana di dicembre. Poi l' allarme sembrava rientrato, ma invece a un certo punto si è imposto con maggiore veemenza. Circolava da subito la voce che l' infezione fosse partita dal mercato del pesce. Più è trascorso il tempo e più la situazione è peggiorata».
Ha paura?
«No, sinceramente no. Certo, la situazione qui è spettrale ma l' impressione che l' emergenza sia stata molto ingigantita».
Come si informa sull' evolversi della situazione?
«Poco attraverso i mass media, perché anche se lo studio non parlo il cinese così bene e quindi non sono in grado di comprendere tutti i dettagli. Mi aggiorna direttamente la mia università, con Wechat, che è un sistema di messaggistica tipo WhatsApp tipico della Cina. L' università è costantemente a contatto con le autorità del governo cinese e quindi le notizie mi giungono con regolarità».
Ha idea di quando finirà il periodo di quarantena?
«No, non mi hanno detto nulla a proposito. Né tanto meno sono stato informato sull' eventuale decisione del governo italiano di farmi evacuare insieme agli altri connazionali presenti a Wuhan».
Ce ne sono nel suo campus?
«No, per ora non sono in contatto con altri italiani a Wuhan. Esco pochissimo dal campus, con gli altri studenti guardiamo fiction in tv e giochiamo a carte».
Coronavirus: genitori abbandonano figli con la febbre in aeroporto. Alessandra Tropiano il 24/01/2020 su Notizie.it. Il Coronavirus fa paura. Talmente tanta da far pensare a dei genitori di abbandonare i propri figli in aeroporto. È ciò che è successo mercoledì all’aeroporto internazionale di Nanchino. La famiglia era diretta a Changsha, con il volo MF8040 operato da Xiamen Airlines, quando a uno dei loro figli è stato impedito di salire sull’aereo in quanto aveva 38.5 di febbre. A quel punto, come riporta il Daily Mail, i genitori avrebbero deciso di salire sull’aereo senza i due figli, lasciandoli al gate. La notizia è venuta alla luce quando un blogger ha pubblicato la foto dei due bambini, seduti da soli al gate, su Weibo (l’equivalente cinese di Twitter). Un passeggero ha affermato a Yangzi Evening News: “sembra che la temperatura del corpo del piccolo fosse di 38.5 gradi Celsius”.I genitori, secondo il passeggero, si sarebbero opposti alla decisione del personale aeroportuale di impedire la salita in aereo al bambino, bloccando il gate. Le proteste tra i genitori e lo staff della compagnia aerea hanno allertato la forze dell’ordine, che sono intervenute a placare gli animi. Alla fine, i dipendenti hanno lasciato che gli adulti salissero sull’aereo”, ha affermato il passeggero. Ha anche aggiunto che i bambini sono stati “semplicemente lasciati seduti in aeroporto da soli”. In seguito però, a detta delle autorità aeroportuali, i bambini sono stati fatti salire a bordo, e posizionati nella parte anteriore della cabina. Il volo ha subito un ritardo di tre ore per questo inconveniente.
Coronavirus: dove si è diffuso e dove si trovano i casi sospetti. Debora Faravelli il 24/01/2020 su Notizie.it. Sta mettendo in allarme il mondo intero il coronavirus che, originatosi nella città cinese di Wuhan, ha già causato 26 vittime e centinaia di contagiati: dove si è diffuso, dove si trovano i casi sospetti e dove invece quelli accertati. In Cina sarebbero in totale 897 i casi di persone che hanno contratto il virus 2019 n-CoV ma il bilancio è in continuo aumento. Questi si vanno a sommare ai 26 morti tutti residenti nella provincia dello Hubei, quella in cui si trova la cittadina da cui è partita l’epidemia. Almeno 9 di loro avevano condizioni pre-esistenti tra cui diabete, problemi alle coronarie e il morbo di Parkinson. Rimanendo sempre in Asia si sono registrati casi anche in Giappone, Vietnam, Corea del Sud e Arabia Saudita. In particolare:
in Giappone: sono due i casi di contrazione del virus e si tratta di un uomo di circa 30 anni che era tornato in patria dopo essere stato a Wuhan e di un altro di poco più vecchio che, prima di giungere a Tokyo, aveva visitato un centro ospedaliero in Cina in due occasioni per poi essere dimesso. Entrambi sono di nazionalità cinese.
in Vietnam: due individui cinesi, un padre e un figlio, hanno contratto il virus nella patria natale prima di fare ritorno nel loro luogo di residenza.
in Corea del Sud: anche qui sono due i casi registrati. Entrambi avevano fatto un viaggio in Cina, uno di loro per lavoro.
in Arabia Saudita: un’infermiera indiana che lavora in un ospedale della città di Khamis Mushait è risultata positiva ai test.
Si tratta dell’unico caso in questo stato.
Pe quanto riguarda l’Occidente, casi del virus cinese si sono verificati sia in America che in Europa. Nel primo continente i casi sospetti sono due, uno a Seattle e uno a Chicago. In quest’ultimo caso si tratta di una donna tornata da Wuhan mentre del primo non si conoscono le generalità. Ci sarebbe poi anche un caso sospetto in Texas. Relativamente all’Europa invece:
in Francia ci sono stati i primi tre casi accertati, due a Parigi e uno a Bordeaux. Tutti sono cittadini cinesi che prima di atterrare sul suolo francese si sono recati a Wuhan.
in Scozia si stanno facendo le verifiche su quattro casi ritenuti sospetti, anch’essi tutti individui di nazionalità cinese.
in Italia ci sono stati due casi sospetti a Bari e a Parma, entrambi rientrati dopo le opportune verifiche.
Si tratta di due artiste che si erano recate nella cittadina cinese epicentro del virus per un tour musicale.
Francesco Barbero e Xiaowei Yan (Infermiere di area critica e medico d’emergenza) per medicalfacts.it il 24 gennaio 2020. Nell’occhio del ciclone, in diretta dal centro dell’epidemia. Il reportage quotidiano di un infermiere italiano e di un medico cinese, in esclusiva per Medical Facts, segnala 40 milioni di persone isolate. Ma il blocco sembra pericolosamente aggirabile. Secondo giorno di isolamento a Wuhan, ora esteso a una decina di città limitrofe, per una popolazione totale di circa 40 milioni di persone. E dopo il blocco totale dei trasporti pubblici, è arrivato anche un provvedimento che restringe nei fatti la mobilità di chi sperava almeno di riuscire a spostarsi da una zona all’altra della città. Sottopassi chiusi e ponti presidiati dalla polizia: Wuchang, Hankou e Hanyang sono tornate a essere tre città distinte, come ai tempi delle concessioni straniere di fine ‘800. Si passa solo se senza febbre e con la mascherina addosso; diventa sempre più difficile riunirsi tra familiari per festeggiare la vigilia della festa più importante della tradizione, il Capodanno lunare. E per domani sembra verranno disposte misure ancora più strette, in vista di una riorganizzazione per funzioni della città.
Un’odissea tornare a Wuhan. Credo meriti menzione la storia di un collega di Xiaowei, un medico che fino a due giorni fa contava di spendere questa serata in famiglia, riunitasi in Chengdu, Sichuan. Richiamato in servizio, ha lasciato moglie e figlia per tornare in ospedale, salvo trovarsi in aeroporto col suo volo per Wuhan cancellato. All’ultimo, riesce a imbarcarsi su uno dei pochi posti rimasti sul volo diretto a Zhengzhou, città a 500 chilometri dal suo pronto soccorso. Da qui, un treno ad alta-velocità passerà senza fermarsi proprio per Wuhan, scaricandolo nuovamente a 80 chilometri dalla sua meta, in una delle città proprio oggi incluse nella hot zone. Un rapido accordo con il taxista, ed eccolo arrivare ai bordi (quasi) impermeabili della nostra città. Dall’altra parte, un amico lo porterà giusto in tempo per l’inizio del turno di notte.
Medici ammalati e ospedali pieni. E per un collega che prende servizio, altri 4 devono lasciare la prima linea, accedendo come pazienti nel reparto predisposto all’interno dell’ospedale. Questo il nostro personale bilancio sui nuovi casi. Per la popolazione l’unico modo per raggiungere l’ospedale è chiamare il 120, il loro servizio di emergenza sanitaria. I nove ospedali designati per la gestione dei casi infetti sono però saturi, e l’idea di filtrare i pazienti in base alla sola febbre sembra funzionare poco: troppo lunghe le file e i social cinesi sono saturi di scene di rabbia o panico, mentre pazienti in coda svengono esausti. I team di China Health, l’equivalente dei nostri moduli sanitari regionali attivabili in caso di calamità, sono in arrivo da tutto il Paese. Il loro contributo sarà essenziale per compensare la situazione di squilibrio attuale, mentre iniziano i lavori per la costruzione di un ospedale temporaneo. Termine lavori annunciato: 6 giorni. Con oggi e dopo appena 24 ore dal precedente annuncio, l’emergenza passa da severa a grave, raggiungendo il livello 1, ovvero emergenza su scala nazionale.
Corona virus, Alessandra Tripoli svela: "L’emergenza è seria, ecco cosa sta succedendo". Alessandra Tripoli racconta al IlGiornale.it come sta vivendo l’emergenza sanitaria scoppiata nelle ultime settimane in Cina tra mascherine, presidi sanitari nei luoghi pubblici e la necessità di stare lontana dai luoghi affollati. Novella Toloni, Mercoledì 22/01/2020, su Il Giornale. Alessandra Tripoli, una delle insegnanti di ballo più amate di "Ballando con le stelle", sta vivendo in prima persona l’emergenza sanitaria cinese, dove il pericoloso coronavirus continua a mietere vittime. Lei, che lavora da anni a Hong Kong come insegnate di danza, si è detta preoccupata dell’allarmante situazione e - raggiunta telefonicamente – ci ha raccontato come vive il difficile momento, tra focolai epidemici e paura di contrarre la malattia: "Sono stata tre giorni a Guangdong e li in stazione tutti indossano le mascherine invece a Hong Kong la gente sembra un po’ non attenta, indifferente è sbagliato, ma non tutti la indossano, non sembrano preoccupati quanto lo siamo noi sapendo quello che è successo con la Sars anni prima, perché purtroppo per la Sars in Cina non hanno dato l’allerta immediatamente e questo ha fatto sì che la gente che viaggiava portava la malattia da una parte all’altra e ha fatto il giro del mondo”.
Questa volta dunque l’allarme è stato dato in tempo?
"Questa volta l’allerta è stata data e infatti anche in metro c’è una voce che dice: ‘Se hai sintomi di febbre o altro, indossa la mascherina’. Invece non tutti la indossano ad Hong Kong, invece a Guangdong dove ero io fino a pochi giorni fa sì tutti la portano. Infatti lì ci sono stati solo 13 casi, a HK invece siamo già a 111/113 casi".
Un’emergenza a tutti gli effetti.
"Sì, è un’emergenza. In stazione o in aeroporto c’è un bancone di infermieri e assistenti sanitari che ti danno la mascherina, l’antisettico e altro materiale per precauzione".
Tu come stai vivendo la cosa, sei preoccupata?
"Guarda, Hong Kong ultimamente non mi ha dato poche preoccupazioni. Con la rivolta che continua ad esserci ahime è una preoccupazione dopo l’altra. Questa si aggiunge al fatto che domenica scorsa non siamo neanche potuti uscire di casa a causa delle nuove proteste, lacrimogeni, d nuovo la gente che invade le strade".
Secondo te le proteste in piazza potrebbero far aumentare i casi di contagio?
"Non lo so in realtà il fatto che si creino queste riunioni e cortei di migliaia di ragazzi fa si che la gente stia insieme ancora di più insieme attaccata e questo potrebbe far propagare il virus in modo più rapido. Ma in realtà noi non sappiamo il modo in cui si espande, perché quando successe della Sars il virus si espandeva per via aerea quindi c’era poco che si potesse fare. Io ho sentito che a Hong Kong si è diffusa perché una persona era infetta e è andata in bagno e attraverso l’areazione il virus si è diffuso nell’intero stabilimento arrivando da una persona a trentacinque. Queste persone sono andate a lavoro, sono andate a scuola e da lì è successo quello che è successo. Noi sappiamo che purtroppo non è più solo dal cibo ma da uomo a uomo".
Per proteggerti tu cosa fai?
"Indosso la mascherina nei luoghi pubblici in metropolitana, tram, aeroporto, aerei ormai la tengo tutto il tempo. Poi quando insegno se la mia allieva non è influenzata la tolgo perché è proprio fastidiosa. Di mio esco solo per andare a lavoro, però evitiamo di andare nei centri commerciali per evitare di stare a contatto con troppa gente".
Mesi fa hai confessato di voler diventare mamma, questo potrebbe essere un motivo per abbandonare la Cina?
"Spero che non sia così grave da costringermi a lasciare la Cina. Nel frattempo ti dirò che sono fortunata perché domani parto per l’Indonesia per dieci giorni poi andrò a Los Angeles per un nuovo progetto lavorativo che mi impegnerà un mese. Quindi tornerò ad Hong Kong tra un mese e mezzo e quindi spero che per quel momento l’epidemia si sia contenuta e che siano riusciti a trovare il modo per arginarla".
Si avvicina "Ballando con le Stelle", sei pronta?
"Non ci penso… (ride, ndr). Prima c’è in ballo una cosa molto molto bella a Los Angeles, sempre legata alla danza, che ancora non posso svelare ma lo saprete presto. Un progetto bellissimo, adesso sono focalizzata su quello e terminerà a metà marzo. Ballando comincerà tra il 21 e il 28 di marzo".
Ti dispiace per l’addio di Samantha Togni?
"In realtà siamo ancora super scioccati dalla sua decisione di sposarsi, perché lei era contraria al matrimonio. Quindi se ha detto si vuol dire che è veramente innamorata e quindi ci sono state scelte di vita diverse e belle. Ci mancherà sicuramente ma nel cuore siamo felici per lei e per questa nuova vita. E’ giusto che si apra anche per lei un altro capitolo. Ci mancherà perché lei era quella che prima di ogni puntata doveva mettere lo smalto e non lo portava mai, quindi noi eravamo le "addette" a portarle lo smalto e a noi non serviva neanche. Ci mancherà il nostro cameratismo pre-puntata, i nostri rituali".
Melania Rizzoli per “Libero Quotidiano” il 23 gennaio 2020. È un nuovo virus, fino ad oggi sconosciuto, causa di una nuova sindrome respiratoria acuta, con febbre e sintomi parainfluenzali, che su persone anziane o debilitate ha prodotto gravi polmoniti, in alcuni casi letali. La nuova patologia è chiamata “Polmonite di Wuhan”, dal tipo di organo colpito e dal nome della città cinese dove è stato individuato il primo focolaio, ed è attribuita ad un virus appartenente alla famiglia dei coronavirus, aggressivo e mai individuato prima, sviluppatosi per la prima volta in un mercato del pesce, che ha già contagiato ad oggi circa 1.900 persone in Cina, come sostiene un documento degli epidemiologi dell’Imperial College di Londra, che smentisce le autorità cinesi le quali, fino alla settimana scorsa, riducevano a 45 il numero dei contagiati e a 7 il numero dei decessi. La notizia è che questo nuovo virus dagli occhi a mandorla sta diventando un caso politico internazionale, sia per l’ incerta identificazione di questo inedito agente virale, sia per l’impennata delle segnalazioni che arrivano dalla popolazione locale, al ritmo di 200 all’ora, ed anche perché, essendo iniziate le vacanze del Capodanno lunare, si prevedono decine di milioni di cinesi pronti ad andare in vacanza all’estero, per cui le autorità sanitarie statunitensi hanno lanciato l’allarme, ritenendo inevitabile che qualche ignaro paziente con la malattia in incubazione possa inconsapevolmente far entrare il nuovo virus negli Usa e in Europa, un rischio moderato ma non improbabile. Inoltre, un esperto della Commissione della Salute pubblica del Governo di Pechino due giorni fa ha comunicato la notizia che questo misterioso virus si trasmette da uomo ad uomo, anche se ancora non è noto per quale via, se respiratoria o alimentare, per cui nell’incertezza scientifica si diffonde il timore di potersi ritrovare davanti ad una epidemia simile a quella della Sars, una infezione da animale a uomo che tra il 2002 e il 2003 fece oltre 650 morti in Cina e ad Hong Kong, al punto che l’Oms ha convocato a Ginevra un Comitato di emergenza per accertare se tale nuova infezione virale possa rappresentare davvero un’emergenza per la salute pubblica internazionale.
Notizie scarse. Il virus patogeno non è stato ancora individuato con certezza né tipizzato, gli esperti cinesi danno poche e scarse notizie, se non che è stato chiamato con la sigla “nCoV”, ed è stato classificato nella famiglia virale SARS, poiché come la famosa malattia provoca contagio e i gravi sintomi respiratori della grave polmonite bilaterale. Il paziente 0, cioè il primo individuato affetto da questa nuova malattia emergente, difficilmente associabile a quelle già note, aveva segnalato di essersi ammalato dopo essere venuto in contatto con il mercato del pesce della città di Wuhan nello scorso dicembre (il mercato dove si vendono molluschi e pescato vivo, oltre ad animali selvatici, è stato chiuso il 1 gennaio), ma i molti casi clinici identici, segnalati al di fuori del confine cittadino, e addirittura fuori dalla Cina (Thailandia, Giappone e Corea del Sud), hanno ulteriormente aumentato l’allarme sanitario. Attualmente in Cina sono quasi mille le persone ricoverate che restano sotto controllo negli ospedali, molte delle quali risultano familiari o conoscenti venuti in contatto con le persone malate, poiché, è stato spiegato, durante il periodo di incubazione di questa malattia, che dura probabilmente una settimana, i sintomi sono assolutamente assenti, come assente è la febbre, dopo di che la malattia esplode con tutto il suo corollario (febbre, tosse, mal di gola e difficoltà respiratorie), ed inoltre, tra i 300 pazienti ospedalizzati sicuramente affetti dalla temibile polmonite, ci sarebbero anche 14 operatori sanitari, cosa che ha fatto immediatamente sospettare il contagio diretto da uomo ad uomo, avvenuto durante le cure al letto del malato. Una epidemia individuata in tempo può restare circoscritta, ma nel caso in cui i dati confermassero un’estensione del focolaio del nuovo coronavirus, non si escludono misure più importanti a livello internazionale, come la restrizione dei viaggi da e verso la città di Wuhan, dalla quale in Italia arrivano tre voli diretti a settimana.
Maschere e guanti. Hanno destato impressione le immagini postate sul web cinese, dove circolano video di personale in tuta bianca, maschera sul viso e guanti anti-contagio, che salgono sugli aerei prima del decollo per prendere la temperatura a tutti i passeggeri, uno ad uno, e lo stesso avviene da una settimana negli aeroporti di Los Angeles, San Francisco, New York e Fiumicino, su quelli in arrivo con volo diretto dalla città cinese. Tale misura precauzionale è resa necessaria perché il 25 gennaio in Cina si festeggia il Capodanno, il periodo in cui più di 100milioni di cinesi scelgono di muoversi all’interno del Paese o all’estero, nel più grande esodo di massa al mondo, e quindi un potenziale rischio di contagio su scala globale. Gli specialisti infettivologi internazionali hanno individuato da tempo numerosi coronavirus, ospiti abituali di mammiferi quali cani, gatti, suini, dromedari e pipistrelli, ma anche di specie avicole domestiche come polli e tacchini, tutti microrganismi che però non hanno ancora infettato esseri umani. Ma quando si scopre un nuovo virus più aggressivo, causa di una nuova malattia umana mai studiata prima, tutto il mondo scientifico si allarma e lo tiene d’occhio, come successe negli anni Ottanta per il virus dell’Aids, e la prima cosa su cui si focalizza l’attenzione è la modalità di trasmissione e la sua portata del contagio, per valutare il rischio concreto di epidemia, il suo evolversi nel tempo, per poter riconoscere, circoscrivere e tamponare l’infezione. I mercati di carne animale sono da sempre luoghi affollati in cui si hanno molteplici occasioni di contatto diretto tra uomo e animale infetto, vivo o morto che sia, molto dipende dalle misure igieniche adottate tra i banchi e dallo stato di conservazione delle carni in vendita, ed è necessario ricordare che i coronavirus nell’ospite umano hanno sempre dimostrato un potenziale patogeno rilevante, con tassi di mortalità tra il 10 e il 30%, considerando il paragone con l’influenza virale, la quale ha una mortalità inferiore all’1%.
Sintomi sospetti. Il Centro europeo di controllo delle malattie (Ecdc) ha alzato la classificazione del rischio di epidemia da “basso” a “moderato”, anche perché questo virus ha scelto il momento peggiore per saltare fuori, quello di maggior traffico aereo da e per la Cina. Comunque dalla settimanale scorsa chi si imbarca all’aeroporto Tianhe di Wuhan viene sottoposto per decreto ministeriale internazionale al controllo della temperatura, e a chi vengono riscontrati sintomi sospetti viene quindi impedito di imbarcarsi, come avviene anche nelle tre principali stazioni ferroviarie locali. Quello del maiale, che si chiuderà domani, è stato un anno difficilissimo per la Cina: guerre commerciali con l’amministrazione Trump, proteste in piazza a HongKong, economia in decrescita. Segnali certamente infausti, ma dal prossimo 25 gennaio ricomincia un ciclo, con il topo, il primo dei dodici animali che compongono lo zodiaco cinese, associato fin dai tempi antichi a ricchezza e abbondanza, ed oggi ad una epidemia minacciosa pur se ancora circoscritta, che si spera non dilaghi nel resto del mondo.
DAGONEWS il 24 gennaio 2020. Davvero le persone collassano e cadono per strada a Wuhan? Nei giorni in cui il mondo è nel panico per il coronavirus stanno girando sui social dei video che mostrerebbero quello che succede davvero nella metropoli cinese da dove è partita l’epidemia. Nei filmati si vedono uomini e donne che non riescono a stare in piedi e crollano a terra. Chi li ha pubblicati dice che provengono dalla metropoli da dove tutto è partito, ma non è possibile verificare l’autenticità delle immagini. Il governo di Pechino sta nascondendo la verità? Oppure sono un’opera fake di qualche troll che vuole disseminare il panico?
Da leggo.it il 24 gennaio 2020. L'epidemia di coronavirus in Cina continua a preoccupare soprattutto nella regione di Wuhan, metropoli di 11 milioni di abitanti epicentro del virus. Perciò le autorità cinesi hanno deciso di intervenire drasticamente, costruendo un nuovo ospedale: e facendolo in tempi record, perché la nuova struttura dovrebbe essere messa in piedi in soli 10 giorni. La televisione cinese ha mostrato le prime immagini: decine di macchine edili sono già impegnate a preparare il terreno sul quale sorgerà il nuovo nosocomio, che sarà grande 25mila metri quadrati e ospiterà 1.000 posti letto, scrive il quotidiano britannico Guardian. Operai e bulldozer sono al lavoro su un'area che era precedentemente destinata a centro vacanze. Secondo quanto riferisce l'agenzia di stampa Xinhua, l'apertura del nuovo ospedale dovrebbe essere prevista per il prossimo 3 febbraio: una tempistica che ha dell'incredibile, specie rispetto ai normali tempi burocratici di altri Paesi (compreso il nostro). Altri media cinesi parlano addirittura di tempi ancora più stretti: 6 giorni, meno di una settimana. C'è comunque un precedente: nel 2003 infatti, all'epoca dell'emergenza Sars, 7.000 operai completarono l'ospedale Xiaotangshan, nei sobborghi di Pechino, in solo una settimana.
Coronavirus, qualche cenno. Piccole Note su Il Giornale il 24 gennaio 2020. Il panico da coronavirus dilaga. Spendiamo alcune righe con una premessa, cioè che per gli organi di informazione dare l’allarme è non solo necessario, ma più che doveroso. Detto questo, a fronte di un allarme dilagante, va chiarito se è vero che si tratta di un virus misterioso quanto indomabile.
Coronavirus, infezione nota. Ad oggi si registrano 830 casi di infezione e almeno 26 persone sono morte. La mortalità stimata è sotto l’1%. spiega Giuseppe Ippolito, direttore scientifico dell’Irccs specializzato in malattie infettive del Lazzaro Spallanzani di Roma.
«Dei coronavirus conosciamo tutto – aggiunge Ippolito -, genere e specie: ce ne sono 5 diversi sotto tipi e la ricerca ci aiuterà nei prossimi giorni ad approfondire l’identikit di questo nuovo, che si manifesta come una polmonite sostanzialmente sovrapponibile a quelle da virus respiratori normali, inclusa l’influenza», (Sole 24Ore). L’allarme, pur reale, è amplificato dai social, che hanno sovrapposto la loro viralità alla viralità del morbo. E dalla propensione dei media a creare allarme (si sa che le notizie “cattive” fanno vendere molto più di quelle “buone”). Così vediamo come anche il dato sulla mortalità del coronavirus, come detto ad oggi inferiore dell’1%, va recepito anche con le dovute specifiche. Come recita il titolo del Corriere della Sera: “quasi la metà delle vittime aveva oltre 80 anni e seri problemi di salute“. È quanto accade per la normale influenza, “Tra i 3 e i 5 milioni di casi di influenza riportati annualmente evolvono in complicanze che causano il decesso in circa il 10% dei casi (vale a dire da 250 a 500 mila persone), soprattutto tra i gruppi di popolazione a rischio (bambini sotto i 5 anni, anziani e persone affette da malattie croniche)”. Così il portale dedicato all’epidemiologia dell’Istituto Superiore della Sanità (dati da modulare secondo le capacità sanitarie dei singoli Paesi).
Viralità. La viralità social, poi acuisce gli allarmi. Dilagano immagini di cittadini cinesi con mascherine, a evidenziare la paura. Si dimentica che girare con mascherine per i cittadini cinesi è usuale, come da immagini che in passato hanno inondato i media (foto sopra). Sui social girano anche video di cinesi che barcollano e cadono, soccorsi da infermieri in tuta anti-contagio. Pechino nasconderebbe la verità: l’epidemia sarebbe ben più grave. Ma il coronavirus non uccide in maniera fulminante e se si vedono i filmati, in alcuni è evidente che la persona a terra nulla ha a che vedere col coronavirus, dato che giace in una pozza di sangue (che una polmonite, benché modificata, non provoca). Inoltra va ricordato che il web pullula di artifici. Il fatto che le persone ammalate siano soccorse da medici in modalità anti-contagio non prova nulla. Ormai le città della Cina sono percorse da squadre di soccorso in allarme rosso e attrezzate alla bisogna, anche quando soccorrono un infartuato. Sempre sul web girano video di cinesi che mangiano pipistrelli, incuranti del fatto che proprio da tali volativi proverrebbe il virus. Gusti culinari a parte (cliccare qui per trovare dove gustare carne di serpente nel mondo), non c’è ad oggi una prova certa sulla genesi del virus (forse anche da carne di serpenti), da cui un allarme inutile per immagini schock che non rappresentano la cucina cinese media, che un po’ tutti abbiamo frequentato.
Censura a Pechino? Si è detto che la Cina ha censurato. L’allarme è arrivato tardi, ma qualsiasi Paese prima di creare panico si muove con i piedi di piombo. Ora però Pechino si è mossa e con misure draconiane, mandando in quarantena intere città (con conseguenti denunce sui diritti civili violati… va bé). Altra accusa, i media di Pechino nascondono la notizia. Riportiamo note di oggi. “Rendiamo omaggio ai cittadini di Wuhan per il loro sacrificio”. “La polmonite di Wuhan è un campanello d’allarme per la ricerca cinese di base”. “Aggiornamento in tempo reale sull’epidemia di coronavirus”, alcuni titoli di Global Times. “China Focus: Wuhan seguirà il modello di trattamento della SARS a Pechino nel nuovo metodo di controllo del coronavirus”, “La Cina registra 830 casi confermati di nuova polmonite da coronavirus”. “La Cina mobilita squadre di medici per combattere il nuovo coronavirus” alcuni titoli di Xinhua. “Wuhan sigillata per contenere virus; casi isolati registrati altrove”. “Città aggredita dai virus, occorre accelerare la costruzione di un ospedale da 1.000 posti letto“, alcuni titoli del ChinaDaily.
Dramma e opportunità. C’è il rischio che questo dramma sia strumentalizzato da alcuni ambiti che da tempo alimentano narrative anti-cinesi, per i quali la competizione tra il Dragone e Occidente è sfida esistenziale. Nel 2002- 2003 la Sars, che generata in Cina provocò 800 vittime nel mondo, costò a Pechino 25,3 miliardi di dollari e il suo tasso di crescita rallentò di uno o due punti percentuali” (Forbes). Dato che la guerra economica Cina-Stati Uniti si combatte a suon di Pil, l’ipotesi che qualcuno faccia calcoli indebiti su quanto sta accadendo in Cina, aumentandone l’impatto mediatico, è legittima. Anche se, come scrive la stessa Forbes, difficilmente il rischio si limiterebbe a Pechino. Ripetiamo che non si tratta di irridere gli allarmi sul coronavirus o ipotizzare complotti. Solo suggerire di distinguere tra allarmi e allarmismi (secondo l’Organizzazione mondiale della sanità ad oggi “l’epidemia di coronavirus non è ancora un’emergenza globale”, Axios). Così, chiudiamo la nota ricordando l‘epidemia di ebola della Repubblica democratica del Congo che da agosto 2018 al 1° ottobre 2019 ha registrato un totale di 3197 casi […] 2136 dei quali hanno causato la morte, con un tasso di mortalità del 67% (Ministero della Salute). E non è importato nulla a nessuno. Così va il mondo, sono solo africani…
L'epidemia di coronoavirus dalla città di Wuhan si sta espandendo in tutto il mondo. Casi anche in Francia. Daniela Mattalia 24 Gennaio 2020 su Panorama. Quanto dobbiamo avere paura del coronavirus cinese? Gli scienziati che ne seguono la diusione e l'evoluzione, quanto ne sanno davvero? E che cosa si sta scoprendo, giorno dopo giorno? Orientarsi, tra psicosi, allarmi veri e allarmismi, e l'inevitabile clima di incertezza quando si ha a che fare con un virus nuovo, non è facile.
Cosa dice l'Oms NIENTE VACCINO PER IL VIRUS CINESE: ALLARME PER GLI IMMUNODEPRESSI. L'Oms, quando mercoledì scorso ha riunito i suoi esperti a Ginevra, ha deciso di non dichiarare il virus cinese un'emergenza sanitaria mondiale. «Lo è sicuramente in Cina, non lo è, al momento, a livello globale» ha specificato Tedros Adhanom Ghebreyesus, il direttore dell'Oms. «Non c'è ancora evidenza di trasmissione uomo-uomo al di fuori della Cina, anche se non signica che ciò non possa accadere». E ha aggiunto: «Ci sono ancora molte cose che non sappiamo, per esempio quanto facilmente si trasmette e qual è il suo tasso di mortalità». Al momento sembra sia intorno al 3 per cento, ma anche questa stima potrebbe cambiare nei prossimi giorni. Per chi il virus è pericoloso I decessi, in Cina, hanno riguardato nella quasi totalità persone anziane (comunque non sotto i 48 anni) già debilitate o con precedenti malattie croniche. Un po' come succede con l'inuenza normale, che ogni anno fa, solo in Italia, 5 mila morti. Molte delle vittime, come ha detto al New York Times Ian Lipkin, epidemiologo della Columbia University (consulente del governo cinese ai tempi della Sars) soffrivano di cirrosi epatica, ipertensione, diabete, Parkinson. Ed erano già ricoverati in ospedale da settimane, alcuni da mesi. Nelle persone più giovani o in salute, il virus non fa grossi danni. I numeri dell'infezione, che salgono ogni giorno (nel momento in cui scriviamo, sono circa 800), potrebbero far pensare a un aumento esponenziale della trasmissione, ma molti dei nuovi casi erano già presenti: semplicemente c'è stato un aumento di diagnosi. Come si sta muovendo la Cina La Cina, che nelle trascorse epidemie della Sars (774 decessi in tutto il mondo, mortalità intorno al 10 per cento) e della Mers (oltre 800, mortalità intorno al 30 per cento) aveva sottovalutato e soprattutto taciuto il rischio, ora ha messo in quarantena la città di Wuhan (l'epicentro del virus, 11 milioni di persone) dove sono stati bloccati i voli. In altre sette città cinesi si parte e si arriva, ma con forti limitazioni. In totale, queste misure di isolamento e sicurezza riguardano 20 milioni di persone. «I cordoni sanitari sono la misura più idonea per limitare il rischio di trasmissione» concorda Pierangelo Clerici, presidente dell'Associazione microbiologi clinici Amcli. «Ma niente panico. Questa infezione è pericolosa per le persone immunodepresse o con patologie croniche. Diciamo che su 100 persone che si ammalano, 25 potrebbero avere sintomi importanti senza necessariamente morirne. Ciò che preoccupa gli scienziati, più che altro, è il salto di specie del coronavirus dall'animale all'uomo. E i virus mutano più rapidamente dei batteri. In futuro, saranno sempre più probabili epidemie globali causate da virus di questo genere. Ma, ripeto, il rischio di decesso per una persona sana è molto limitato». Se si viaggia in Cina Il virus colpisce soprattutto i polmoni, dopo sintomi analoghi a quelli influenzali. E proprio perché infetta i polmoni, si trasmette per via aerea. «Per chi va in Cina, il consiglio è evitare il contatto ravvicinato con persone che tossiscono o starnutiscono. La soglia di sicurezza è di almeno un metro. E questo vale anche per coloro che fossero venuti in contatto con soggetti provenienti da zone in cui si sono verificati casi di infezione. Importante, soprattutto, è lavarsi spesso le mani con acqua e sapone» continua Clerici. Terapie e vaccini Vaccini in vista? No. Servono mesi per metterne a punto uno efficace, sono i tempi per la sperimentazione clinica, e se e quando dovesse essere pronto, l'epidemia sarà probabilmente superata. Inoltre, come sottolinea Clerici, proprio perché i virus mutano velocemente, un vaccino sarebbe altrettanto velocemente inefficace, a meno di non crearne uno universale per tutti i coronavirus (impresa non facile). Per ora, le terapie sono sintomatiche e di supporto all'organismo, non c'è un antivirale specifico contro l'infezione. Gli antibiotici sono inutili, perché si tratta di un virus e non di un batterio. Cosa rischia l'Italia In Italia, motivi di preoccupazione non ce ne sono. Anche perché a Fiumicino, che ha tra scali diretti per la Cina, i viaggiatori provenienti da quel Paese passano attraverso un scanner termico che ne rileva la temperatura. E, in casi sospetti, la persona viene trasferita in sicurezza all'ospedale Spallanzani di Roma per accertamenti. Ma se qualcuno avesse già in incubazione il virus e ancora non presentasse febbre? «Proprio per questo a chi torna dalla Cina, oltre allo scanner termico, viene fatto compilare un questionario in cui deve indicare dove andrà, cosa farà e per quanto tempo, così che, in caso di febbre, sia possibile ricostruirne il percorso» risponde Clerici. «Noi saremo anche un paese strano, ma in questi casi sappiamo arontare benissimo le situazioni a rischio».
Coronavirus: le Persone Collassano. Per Strada A Wuhan None Coronavirus: controlli in tutto il mondo. None Le risposte disponibili agli interrogativi sul 2019.
Che tipo di virus è il coronavirus cinese? Il 2019-nCoV, come è stato chiamato, è un virus che in genere non causa grossi problemi, tutt'al più il raffreddore. Certe volte però appare un ceppo di un coronavirus «cattivo» che dà origine a malattie più gravi. Ricordiamo il caso della Sars, la sindrome respiratoria acuta apparsa in Cina nel 2002-2003 (8 mila contagi e 775 morti) e la Mers, Sindrome respiratoria del Medio Oriente, nel 2012-2014 (424 casi di infezione, 131 morti). Come per la Sars e la Mers, anche questo nuovo coronavirus è una zoonosi, cioè stato trasmesso all'uomo dagli animali.
Che sintomi dà? Gli stessi dell'inuenza: all'inizio sintomi respiratori, tosse, febbre, mal di testa, mal di gola senso generale di malessere. Il periodo di incubazione è circa 2 settimane. Nei casi più gravi il virus causa una forma grave di polmonite. In che modo si diffonde? Per trasmissione aerea, se qualcuno che è stato infettato tossisce o starnutisce. Con contatti personali, con le strette di mano per esempio, o toccando oggetti o superci su cui si è posato il virus.
Ci sono terapie? Al momento non esiste un farmaco mirato contro il coronavirus. Essendo un virus, gli antibiotici sono inefficaci (funzionano solo contro i batteri). Ci sono solo trattamenti sintomatici o di supporto. Il suo tasso di mortalità però al momento appare piuttosto basso (la Sars e la Mers erano assai più preoccupanti). šLa maggior pare delle persone contagiate sono sopravvissute senza problemi.
Esiste un vaccino? Per ora no. I maggiori laboratori del mondo stanno lavorando in questa direzione, ma ci vorrà del tempo. L'altra priorità è mettere a punto un test diagnostico rapido per l'identificazione del virus.
Come fermarlo? A Fiumicino, per esempio, che ha tre voli diretti verso Wuhan (la città cinese focolaio dell'epidemia) e altri voli non diretti, ci sono controlli sui passeggeri da parte degli Uci di Sanità Marittima, Aerea e di Frontiera, per individuare eventuali casi sospetti di contagio. E in tutti i grandi aeroporti del mondo è stato messo in piedi un sistema di stretta sorveglianza.
Il virus arriverà anche in Europa e in Italia? È probabile. Benchè il suo tasso di mortalità sia minore di quello del virus della Sars, questo coronavirus sembra essere più contagioso. E con l'aumento dei voli internazionali e il Capodanno cinese, dobbiamo aspettarci qualche caso anche nel nostro paese o in altri paesi europei. Evitiamo le psicosi, però. Basta ricordare che ogni anno, la «normale» influenza provoca in Italia 5-6 decessi, soprattutto nei pazienti anziani e già debilitati.
I passeggeri che devono andare in Cina, che precauzioni possono prendere? Evitare, innanzitutto, i tipici mercati cinesi di animali vivi, e gli alimenti provenienti da animali. Lavarsi spesso le mani con acqua e sapone, per almeno 20 secondi. Evitare il contatto stretto con persone che mostrano sintomi influenzali. Rinunciare al viaggio, se possibile, se non si è in piena forma.
Wuhan, i medici-eroi contro il virus tra piaghe e crisi di nervi: «Siamo stremati». Pubblicato sabato, 25 gennaio 2020 su Corriere.it da Guido Santevecchi. Forse non sono tutti eroi, ma coraggiosi sì. Chi vorrebbe entrare oggi in un ospedale di Wuhan? Medici e infermieri e addetti alle analisi, alle pulizie, alle cucine sono lì e quando escono si portano addosso il dubbio di poter contagiare i familiari. Arrivano molte testimonianze dalle corsie della città di 11 milioni di abitanti sotto quarantena, diventata il «ground zero» dell’epidemia di coronavirus. Alcune sono ad uso della propaganda, altre dimostrano stress, ma si coglie anche paura. Tutte sono da prendere con estrema serietà. Per telefono, si sente la voce di Wang Jun, infermiera del Jinyintan, il centro dei primi ricoveri. «Ci sono colleghi con piaghe alla pelle della faccia, perché dobbiamo portare sempre la maschera e gli occhialoni protettivi, da tenere ben stretti, e i turni sono lunghissimi». Wang riferisce alla tv statale la routine igienica di questi giorni: «Finita la giornata, ci dobbiamo togliere gli indumenti protettivi strato dopo strato. Prima lavi i guanti, e poi cominci a liberarti della tuta; ci hanno detto di disinfettare di nuovo le mani prima di continuare con gli altri strati. Maschera, occhiali e calottina per i capelli vengono per ultimi, dopo essersi rilavati le mani». E così anche le mani si screpolano. Finito il turno, rimessi gli abiti normali, ultimo passaggio di disinfezione all’uscita. La collega Fan Li dice delle difficoltà di andare al bagno, di bere un bicchiere d’acqua in corsia: «Non puoi certo spogliarti e neanche sollevare la maschera e passano ore prima di poterlo fare». Poi bisogna gestire le telefonate di amici e parenti, in apprensione. E vanno rassicurati anche loro, e magari queste ragazze e ragazzi d’ospedale non ne avrebbero voglia, vorrebbero essere confortati loro. Qualcuno ha lanciato sui social network la propria frustrazione: «Si mangiano solo noodle freddi», ha detto una dottoressa. Ci sono altri sfoghi «politicamente scorretti» che compaiono per pochi minuti su Weibo prima di essere spazzati via dalla censura. Ma è impossibile fermare il tam-tam sulla Rete, come è difficile arrestare il coronavirus. E sul web, copiati da Weibo su Twitter che è bloccato da sempre in Cina ma da dove i censori di regime non possono disinfestare i post, si sono visti brevi video con infermiere in preda a crisi di nervi per il superlavoro e l’ansia. Così da Wuhan sappiamo che alcuni medici e infermieri sono così preoccupati di contagiare i familiari a casa da dormire fuori. E si denunciano alberghi che avrebbero rifiutato di dar loro una stanza. Insensibilità, egoismo, ma anche incapacità di affrontare l’emergenza contro un virus sconosciuto. Un medico di Wuhan è morto di polmonite presa in corsia, riferisce la stampa. Era il dottor Liang Wudong, aveva 62 anni «ed era in prima linea nella lotta al virus». Non è stato chiarito se facesse parte dei 15 membri dell’équipe neurochirurgica infettata mentre operava un paziente, senza sapere che nei suoi polmoni si era insinuato il coronavirus. È crollato, stroncato da un infarto mentre andava verso l’ospedale, un altro dottore, Jiang Jijun, 51 anni, specializzato in malattie infettive. «Era stremato», hanno detto i colleghi alla tv statale. Intorno allo sforzo e al sacrificio del personale ospedaliero si sta coagulando il clima di mobilitazione di massa ordinato da Pechino. L’agenzia di stampa Xinhua ha lanciato una foto di medici di Wuhan allineati in camice, maschera protettiva e bandiera rossa con la scritta «Squadra d’assalto» anti-virus. Serve anche la propaganda, servono eroi in questa battaglia. Pechino invia rinforzi: 1.200 medici raccolti in altre province, 450 sono dell’Esercito, sono arrivati a Wuhan. C’è bisogno di loro, perché in costruzione c’è già un secondo ospedale da 1.300 posti, dopo quello da 1.000 promesso entro dieci giorni, a tempo di record. Per questo secondo ci vorranno due settimane: neanche la Cina ha risorse infinite contro il virus.
L'epidemia coronavirus prevista con puntualità sconcertante. Piccole Note su Il Giornale il 25 gennaio 2020. Nell’ottobre del 2019, un mese prima che si scatenasse il coronavirus in Cina, epicentro la città di Whuam, e il panico globale, il Johns Hopkins Center for Health Security, strettamente collegato al National Institutes of Health (L’Istituto Nazionale della Sanità Usa), ha simulato lo scenario derivante da una pandemia da coronavirus. Partner di questa simulazione, chiamata Event 201, la Bill & Melinda Gates Foundation e il Word Economic Forum. Il Johns Hopkins Center for Health Security è stato letteralmente bombardato di richieste sull’evolversi della situazione attuale, dato che la simulazione prevedeva che il virus avrebbe causato “65 milioni” di vittime. Ma qualche richiesta è stata avanzata anche sull’incredibile capacità profetica dell’esercitazione, su come avessero fatto a prevedere tale eventualità con tanta precisione: una pandemia nel 2020 e una pandemia da coronavirus. La nota dell’Istituto in risposta a tale interpellanze, anodina e breve, la riportiamo quasi integralmente di seguito (dal sito ufficiale). “Nell’ottobre 2019, il Johns Hopkins Center for Health Security ha realizzato un’esercitazione simulata contro la pandemia chiamata Event 201, in partnership con il World Economic Forum e la Bill & Melinda Gates Foundation. Di recente, al Center for Health Security è stato richiesto se quell’esercizio di pandemia fosse una previsione l’attuale nuovo focolaio di coronavirus in Cina. “Per essere chiari, quell’esercitazione del Centro per la sicurezza sanitaria e dei suoi partner non era una previsione. Per lo scenario, si è simulata una pandemia immaginaria di coronavirus, ma abbiamo dichiarato esplicitamente che non era previsione. Invece, l’esercizio è servito a evidenziare le sfide riguardanti le risposte che potrebbero sorgere a causa di una pandemia molto grave”. In conclusione, la nota accenna come il coronavirus oggetto della simulazione era diverso da quello attualmente riscontrato. Cenno di ovvio, altrimenti avrebbero già pronti il vaccino, che invece si sta febbrilmente ricercando. Tra i tanti che si sono mossi in tal senso, anche la Fondazione Bill and Melinda Gates che in collaborazione con il Wellcome Trust e il World Economic Forum. ha investito più di 7 miliardi di dollari in questa ricerca (Businner Insider). Data la simulazione, è presumibile che arriveranno prima di altri a trovare il vaccino e a venderlo nel mondo. Registriamo un’altra coincidenza, del tutto casuale, che crea suggestioni. La pandemia è scoppiata, almeno a livello mediatico, proprio mentre si svolgeva l’annuale incontro del World Economic Forum di Davos. Al di là delle previsioni e delle suggestioni, registriamo che la Cina sta progressivamente aumentando gli sforzi per contenere l’epidemia e gestire il caos che si è scatenato. In un discorso dedicato ad altro, il leader cinese Xi Jinping ha parlato di “Una corsa contro il tempo per raggiungere il sogno cinese” (Xinhua). Difficile non pensare a un collegamento, dato che il dramma coronavirus sta frenando tale corsa. Ad oggi in Cina sono stati registrati 1,287 casi confermati e 41 decessi (Xinhua), mentre casi isolati sono stati registrati negli Stati Uniti e in Europa. Per Pechino, oltre che un’emergenza sanitaria, è anche un’emergenza geopolitica (cioè non solo economica, riguarda infatti anche la sua proiezione globale). Ne abbiamo accennato in una nota precedente.
Coronavirus Cina, il ministero: «Può diventare più forte. Si trasmette prima che compaiano i sintomi». Pubblicato domenica, 26 gennaio 2020 su Corriere.it da Guido Santevecchi. «Ci appare che la capacità di diffusione del virus si stia rafforzando». «Il periodo di incubazione può variare tra 1 e 14 giorni». «Questo coronavirus si trasmette anche durante l’incubazione, diversamente da quello della Sars». «La conoscenza che abbiamo al momento del coronavirus è limitata». Sono frasi del signor Ma Xiaowe, ministro della Commissione sanitaria nazionale di Pechino, che ha parlato alla stampa cinese e straniera. Secondo gli ultimi dati statali, in Cina i morti sono 56, i casi confermati 1.985 la maggior parte a Wuhan e nello Hubei che circonda la città, inclusi 10 tra in Hong Kong, Macao e Taiwan (che i cinesi considerano provincia). I casi sospetti sono 2.684. Il signor Ma Xiaowe si è presentato con quattro colleghi ministri, allineati per comunicare il bollettino di guerra contro il virus. Ci sono i responsabili della Sanità, Industria, Tecnologia, Trasporti. Perché tutta la Cina è mobilitata dopo che sabato sera Xi Jinping ha detto che «la diffusione del virus accelera, la situazione è grave». In sala, reporter e cameramen indossavano la mascherina. Gli unici senza, i dirigenti governativi, perché la loro voce si sentisse con chiarezza (e certo anche per non drammatizzare ulteriormente). Non è ancora sicuro, ma pare proprio che «il patogeno possibile sia stato un animale selvatico», dice Ma. Il focolaio dell’epidemia a Wuhan è stato individuato nel mercato del pesce e degli animali, più o meno esotici, macellati o in gabbia. E oggi le autorità hanno vietato in tutta la Cina il commercio di animali selvatici, in mercati, supermarket, ristoranti e piattaforme online. Provvedimento temporaneo, pare, perché quando sarà passata questa grande emergenza bisognerà fare i conti con la passione dei cinesi per «i sapori selvaggi». Passione legittima, ma è assurdo vendere questa carne in un mercato nel cuore di una metropoli. Soprattutto dopo che la Sars era partita a Canton, nel 2002, da una situazione analoga. I Paesi toccati dal virus, con casi sporadici, sono 11. Contagiati e sotto osservazione all’estero, dall’Australia al Nepal, sarebbero una cinquantina. Dimostrando senso della responsabilità e preoccupazione, Pechino ha ordinato alle agenzie di viaggio cinesi di bloccare i tour di gruppo all’estero, oltre che all’interno del Paese. Da oggi divieto di vendere ai gruppi cinesi pacchetti viaggio volo-hotel. Taiwan (che non si sente provincia cinese) ha vietato i viaggi di cinesi nell’isola. Una decisione che potrebbe accendere un fronte polemico tra Taipei e Pechino. Nella riunione del Politburo presieduta da Xi, il Partito ha deciso di costituire un gruppo speciale per gestire la crisi. È il punto chiave. La quarantena imposta a 16 città dello Hubei coinvolge 56 milioni di persone. Wuhan, «ground zero» del virus, sta costruendo un secondo ospedale a ritmi forzati: 1.300 letti promessi entro due settimane. Dopo le feste per il Capodanno lunare cancellate, con i simboli della forza economica e culturale della Cina chiusi fino a nuovo ordine - dalle stazioni dell’alta velocità nello Hubei alla Città Proibita di Pechino - il comandante supremo Xi dice che la Cina «può vincere la battaglia», ma di fronte all’accelerazione dell’epidemia «è necessario rafforzare la direzione centralizzata e unificata del Comitato centrale del partito». Nella commissione d’emergenza saranno inclusi «esponenti del Partito e del governo a diversi livelli, i quali debbono preparare piani appropriati per contenere il virus, sotto la guida del Comitato centrale». Segno che il leader supremo Xi vuole coinvolgere tutti, dare compiti a tutti (e non restare un imperatore distante e unico responsabile se la situazione peggiorerà). Si ricorda che il suo predecessore Hu Jintao era pronto ad accorrere sui luoghi di incidenti gravi, terremoti e calamità naturali, si inchinava di fronte alle vittime. Lo chiamavano «il grande attore», ma era anche apprezzato per la sua capacità di dimostrare empatia con la popolazione. Quanto è grave e già estesa l’epidemia di coronavirus in Cina? E si può arrestare mettendo in quarantena milioni di persone? Sul web cinese da ieri cominciavano a circolare accuse ai funzionari locali di Wuhan e dello Hubei, si chiedeva l’intervento del governo centrale per rimuoverli e prendere il comando della battaglia sanitaria. E Xi ha dato un primo segnale forte. La quarantena si fa più stretta a Wuhan: da oggi non si potranno più muovere le vetture private in centro, se non per «ragioni essenziali». Quali siano queste ragioni, per gente che già non ha più autobus e metropolitana non si sa. Le misure fanno pensare che l’obiettivo sia di confinare la gente a casa, sani o contagiati che siano. Il ministro Ma ha sottolineato che da ieri a Pechino, all’ingresso della metropolitana sotto la stazione centrale dei treni, personale in tuta protettiva prende la temperatura ai passeggeri. Le scuole della capitale resteranno chiuse anche dopo la fine delle feste del Capodanno lunare, il 3 febbraio. Stessa decisione a Hong Kong. Potrebbe servire a poco: la rivista scientifica The Lancet pubblica uno studio secondo il quale ci sarebbero portatori sani di coronavirus, soggetti senza sintomi influenzali, niente febbre, tosse, starnuti che diffondono l’infezione (qui lo studio completo). Riassume il dottor Yuen Kwok-yung, uno dei ricercatori dell’articolo: «Polmonite asintomatica che cammina». Da Washington è arrivato l’ordine di evacuazione per il personale del consolato e gli americani di Wuhan, con un charter speciale. Stati Uniti e resto del mondo temono il contagio, nonostante l’Organizzazione mondiale della sanità abbia deciso di non dichiarare ancora l’emergenza internazionale. Pechino ha agito d’anticipo bloccando i tour organizzati all’estero. Ormai solo in Tibet non sono stati segnalati casi, nessuna altra regione cinese è risparmiata. I morti, esclusi tre, sono invece tutti ancora nello Hubei. Ma a Pechino i contagi accertati sono saliti a 26 e potrebbero essere già parecchi di più, se si pensa che a Wuhan per due settimane almeno si parlava solo di 45 ammalati e la gente continuava a viaggiare senza sapere.
Coronavirus, «si può essere contagiosi anche senza sintomi». In Italia capodanno cinese senza feste. Pubblicato lunedì, 27 gennaio 2020 su Corriere.it da Guido Santevecchi. Roma e Milano annullano le celebrazioni. A Wuhan bloccati 50 italiani. Si può essere contagiosi prima di sviluppare i sintomi come tosse, febbre, starnuti. È questo il nuovo avvertimento dal fronte coronavirus in Cina. «La capacità di diffusione si sta rafforzando». «Il periodo di incubazione può variare da uno a 14 giorni». «Questo coronavirus si trasmette anche durante l’incubazione, diversamente da quello della Sars». «Le conoscenze che abbiamo al momento sono limitate». Frasi del signor Ma Xiaowe, ministro della Commissione sanitaria nazionale di Pechino, che ha parlato alla stampa cinese e straniera. Secondo gli ultimi dati, in Cina i morti sono 80, i casi confermati 2.744, la maggior parte a Wuhan e nello Hubei che circonda la città, inclusi 10 tra Hong Kong, Macao e Taiwan (che i cinesi considerano provincia). Trecento sono in condizioni molto serie. Sono soprattutto maschi, anziani e già debilitati da altre patologie. Non si prevede ancora un picco. Ma Xiaowe si è presentato con 4 colleghi ministri, allineati per comunicare il bollettino di guerra contro il virus. I responsabili della Sanità, Industria, Tecnologia, Trasporti, Ricerca. Tutta la Cina è mobilitata, dopo che sabato sera Xi Jinping ha detto che «la diffusione del virus accelera, la situazione è grave». In sala, reporter e cameramen indossavano la mascherina. Gli unici senza, i governativi, perché la loro voce si sentisse (e per non drammatizzare ulteriormente). La reazione lo scorso dicembre, alla comparsa del virus, fu lenta. Ma ora il Partito-Stato vuole mostrare la sua forza. Ha detto Xi Jinping: «Quando scoppia un’ epidemia, si emette un ordine. È nostra responsabilità prevenirla e controllarla». Xi ha inviato il premier Li Keqiang al fronte del virus: Li è andato a Wuhan questa mattina, camice e mascherina in ospedale. L’epidemia non è stata prevenuta. Il controllo speriamo arrivi presto. Per seguire l’ordine si accavallano disposizioni: scuole e università chiuse a Pechino e Hong Kong per due settimane almeno dopo la fine delle vacanze di Capodanno lunare. Il Guangdong impone ai 110 milioni di abitanti la maschera, come si fa da giorni a Wuhan. Anche nella capitale, senza bisogno di disposizioni dall’ alto, la gente si copre bocca e naso. Da oggi saranno fermati gli autobus a lungo raggio, tra Pechino e Tianjin. Un altro colpo psicologico, perché nei piani di Xi le aree intorno alla capitale e al porto sono un’ immensa zona urbana da oltre 100 milioni di abitanti che possono vivere in una città e lavorare nell’ altra. Dimostrando senso di responsabilità e preoccupazione per la sua immagine nel mondo, Pechino ha ordinato alle agenzie di viaggio cinesi di bloccare i tour di gruppo anche all’ estero. Con sensibilità, hanno annullato le celebrazioni del Capodanno lunare previste per il 2 febbraio le comunità cinesi di varie città del mondo tra cui Parigi, Milano e Roma. Hanno seguito Pechino, che sabato ha spento fuochi artificiali e raduni intorno ai templi e chiuso la Città Proibita, per evitare il rischio di contagi tra la folla. «C’è gente che sta male e non è il caso di festeggiare», ha detto la portavoce della comunità cinese Lucia King. I fondi raccolti andranno a iniziative di solidarietà. Si registrano anche episodi razzisti di segno opposto: a Venezia una gang di adolescenti ha insultato e sputato addosso a una coppia di turisti cinesi. Washington sta mandando un charter per evacuare gli americani di Wuhan. Si preparano Tokyo e Parigi. Ci sono anche una cinquantina di italiani nella città chiusa. «La loro situazione è abbastanza tranquilla», dicono alla Farnesina, che ha predisposto un piano di spostamento via terra e poi rimpatrio in aereo. Ma prima servirebbe un periodo di osservazione di 14 giorni in un ospedale e le discussioni sono in corso. Ormai tra le 34 province, grandi municipalità e regioni autonome e speciali della Cina solo in Tibet non vengono segnalati casi. I morti, esclusi tre, sono tutti nello Hubei. Ma a Pechino i contagi accertati sono saliti a 26 e potrebbero essere di più, se si pensa che a Wuhan per due settimane si parlava solo di 45 ammalati e la gente continuava a viaggiare senza sapere. La situazione, negli ospedali della città, rimane difficile. Dice il ministro dell’ Industria che Wuhan ha bisogno di 100 mila tute protettive al giorno per il personale sanitario e servirà tempo per adattare la produzione. Così, saranno importate 3,3 milioni di mascherine dalle Filippine. È contagiosa anche la paura. Ci sono villaggi fuori dallo Hubei che si barricano, non permettono l’ingresso ai forestieri.
Virus cinese, Ecdc: 2820 casi confermati, 81 morti. (LaPresse il 27 gennaio 2020) - Sono 2820 i casi confermati di coronavirus cinese stando all'ultimo aggiornamento dell'Ecdc, Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie. Secondo i dati più aggiornati, sono 81 i morti, tutti in Cina. Sono monitorati 2775 casi in Cina, 8 in Thailandia, 5 negli Stati Uniti, 5 in Australia, 5 a Taiwan, 4 in Corea del Sud, 4 a Singapore, 4 in Malesia, 3 in Francia, 3 in Giappone, 1 in Canada, 2 in Vietnam, 1 in Nepal. Che colpe hanno le autorità cinesi sulla diffusione del coronavirus che sta spaventando il mondo? Sicuramente hanno sottostimato l’epidemia, almeno durante i primi giorni. Dai primi di dicembre alla scorsa settimana, quando si è deciso di procedere con le misure più drastiche, come l’isolamento totale di Wuhan e di altre città limitrofe, è passato un mese e mezzo. E nessun funzionario si è sentito in dovere di lanciare alcun allarme. Che ci sia stata superficialità (eufemismo) è un fatto dimostrato anche dalla cena organizzata dal partito comunista locale per 40mila persone che si è tenuta la scorsa settimana per celebrare l’arrivo del Capodanno, nel tentativo di battere un record mondiale. C’è poi un discorso politico: con la politica di “trasparenza” voluta da Xi Jinping in funzione anti-corruzione, i funzionari cinesi sono terrorizzati dalle possibili punizioni del regime nei loro confronti. E per questo, di fronte a un’emergenza, si bloccano e lasciano che a prendere decisioni sia il potere centrale. Ritardandole finché è troppo tardi. E il prezzo, oltre ai cittadini cinesi, potrebbe pagarlo tutto il mondo a caro prezzo.
Da ansa.it il 27 gennaio 2020. Il primo caso di infezione da coronavirus 2019-nCoV risale al primo dicembre e la persona infettata non era stata al mercato ittico di Wuhan. E' quanto emerge dalla ricostruzione delle prime fasi dell'epidemia pubblicata sulla rivista The Lancet e segnalata dalla rivista Science. Si rafforza dunque l'ipotesi, ancora da verificare, che il virus possa essere stato portato al mercato di Wuhan da una persona già infetta. La commissione di sanità cinese ha reso noto che sono stati registrati 769 nuovi casi di coronavirus nelle ultime 24 ore, fino alla mezzanotte di domenica. I decessi legati sono intanto saliti a quota 81, mentre i casi accertati dell'infezione in Cina ammontano a 2.835, secondo l'ultimo bollettino fornito. Pechino ha deciso di prorogare le festività per il Capodanno cinese di tre giorni fino al 2 febbraio, come parte delle misure del governo per combattere l'epidemia di polmonite virale. Inizialmente i cinesi sarebbero dovuti tornare a lavorare venerdì 31 gennaio, dopo sette giorni festivi che si traducono in centinaia di milioni di viaggi in tutta la Cina. Il premier Li Keqiang, "incaricato dal presidente Xi Jinping", è a Wuhan, epicentro dell'epidemia. Secondo i media ufficiali, Li, a capo di "una delegazione di alto livello", ha visitato pazienti e medici ascoltando e dando istruzioni sulla gestione dell'emergenza. "State facendo tutto il possibile per salvare vite e mentre lo fate dovete proteggere le vostre", ha detto Li al personale del Jinyintan hospital, indossando camice blu e mascherina a coprire naso e bocca. La Mongolia ha chiuso le frontiere stradali con la Cina per il rischio di diffusione del nuovo coronavirus. Per lo stesso motivo è stata decisa la chiusura delle scuole. Le autorità della Costa d'Avorio stanno effettuando controlli per un sospetto contagio da coronavirus che, se confermato, sarebbe il primo nel continente africano. Si tratta di uno studente ivoriano di rientro da Pechino. In Austria si studia un caso sospetto: una cittadina cinese, che vive a Vienna, recentemente in ferie nella zona colpita. La mappa genetica del virus cinese 2019-nCoV indica una somiglianza del 79,5% con il virus della Sars (Severe Acute Respiratory Syndrome) comparsa fra il 2002 e il 2003 e che entrambi utilizzano la stessa arma per aggredire il sistema respiratorio umano.
Guido Santevecchi per il “Corriere della Sera” il 27 gennaio 2020. La comunità internazionale ha chiesto trasparenza a Pechino di fronte all' emergenza sanitaria, al coronavirus che ci allarma. E nella comunicazione verso il mondo esterno si è visto un nuovo atteggiamento. I ricercatori cinesi hanno subito pubblicato e messo a disposizione della scienza globalizzata il genoma del virus, da loro identificato con discreta rapidità. Erano passati mesi di silenzio colpevole nel 2002, ai tempi della Sars. Ma c' è anche la solita reticenza nell' informare la popolazione cinese. E si somma il dubbio che la burocrazia del Partito-Stato sia inadeguata alle ambizioni di una nascente superpotenza politica, al «sogno cinese» di Xi Jinping. È il calendario di questa crisi che spiega il sospetto. Ora sappiamo che il primo paziente con sintomi collegati al virus polmonare a Wuhan è arrivato in ospedale l' 8 dicembre. Un nuovo virus naturalmente va scoperto. Ma si è cominciato a parlare di «malattia misteriosa», con causa sconosciuta. È andata avanti così fino all' 11 gennaio. Poi l' allargarsi dei contagi ha imposto un' accelerazione. È stato decifrato il genoma del virus a forma di corona, pubblicato sul web, sono cominciati i contatti tra Pechino e l' Organizzazione mondiale della sanità. Molto confortante. Però, ancora sabato scorso, il 18, le autorità sanitarie cinesi insistevano a dire che i contagiati erano solo una cinquantina. Ci sono voluti due pronunciamenti dall' estero per richiamare alla realtà. G li americani che hanno cominciato a controllare i passeggeri dei voli in arrivo da Wuhan; gli epidemiologi dell' Imperial College di London i quali, con un semplice calcolo statistico, hanno avvisato che i contagiati in Cina non potevano essere meno di 1.700. E diversi si erano messi in viaggio, portando nei polmoni l' infezione. Subito dopo, il 19, i cinesi hanno «scoperto» che i casi erano diventati più di 200 e c' erano stati i primi morti. Ma ancora ci si illudeva, ci si voleva illudere a Pechino, che il contagio fosse solo circoscritto al mercato del pesce e di esotici animali più o meno commestibili nel mercato di Wuhan. Finalmente, il 20, un benemerito virologo cinese ha detto che si era verificato il «passaggio tra esseri umani». Il medico ha abbattuto la grande muraglia di omertà ed è significativo che fosse stato chiamato al soccorso anche nel 2002, per la Sars. Contemporaneamente ha rotto il silenzio Xi Jinping, ordinando prevenzione e controllo epidemiologico, perché la sicurezza e la salute della popolazione sono la priorità massima. Servire il popolo (anche del mondo), dunque. Trasparenza, un po' tardiva forse, ma nuova per le caratteristiche cinesi. Però, mentre lo scienziato Zhong annunciava il pericoloso salto del virus tra uomo e uomo, a Wuhan si era appena tenuto un enorme banchetto per 10 mila famiglie, 40 mila persone invitate senza alcuna precauzione, su iniziativa dei funzionari locali (servire il popolo anche a tavola può aiutare a far carriera). Mancanza di senso comune, rifiuto di trasparenza verso i propri concittadini radunare una folla del genere a tavola mentre in città si parla ancora di malattia misteriosa. Si è saputo anche che giorni prima erano stati infettati da un solo paziente 15 membri di una équipe operatoria della città. Se il fatto fosse stato comunicato subito, si sarebbe risparmiato tempo prezioso e cruciale nella comprensione dell' evidenza: il passaggio del virus tra persone. Trasparenza, più o meno, verso l' esterno, consueta opacità all' interno, anche nello scambio di dati cruciali tra dipartimenti statali. La svolta: il 21, martedì scorso, il Partito-Stato ha detto ai quadri che «chi nascondesse informazioni sul virus sarà punito severamente e inchiodato per l' eternità alla colonna dell' infamia». Pochi giorni dopo, le stesse autorità del grande banchetto hanno messo in quarantena tutta Wuhan, impedendo di viaggiare a 11 milioni di cittadini. Ora che una dopo l' altra altre città dello Hubei chiudono stazioni e aeroporti per non far viaggiare il virus, ci sono poche speranze scientifiche che il provvedimento sia sufficiente. Dal solo aeroporto di Wuhan, per almeno sette settimane erano partite 30 mila persone al giorno. Il virus non si schiaccia certo nel vetro della nuova trasparenza invocata da Xi. E ci si chiede se a Pechino abbiano numeri ancora più gravi sull' estensione del contagio, per aver preso misure così drammatiche. È un pessimo Anno del Topo che si prospetta per il presidente della Repubblica, nonché segretario generale del Partito e capo della Commissione militare centrale. In pratica un uomo solo al comando. Resta a suo merito il fatto che Xi ha parlato del virus chiedendo una battaglia per arrestarlo, non ha taciuto come i suoi predecessori ai tempi della Sars. Allora, nel 2002, la leadership cinese era collettiva e debole, la burocrazia si dimostrò inadeguata all' inizio dell' epidemia. Ora c' è un presidente a vita, un uomo forte. Perché allora la burocrazia si è dimostrata altrettanto lenta allo scoppio del coronavirus? Un problema di sistema piuttosto che di capi supremi.
Un virus nel potere cinese. Una falla nella seconda economia del mondo che resterà anche quando il virus sarà debellato (speriamo presto). Perché c' è una teoria che circola da mesi: molti funzionari dell' enorme apparato sono terrorizzati dalla possibilità di sbagliare, dalla minaccia di punizione. Sono paralizzati, agiscono solo se c' è un ordine dal centro del potere e perciò tardano a reagire alle emergenze.
Coronavirus, rinviato il Capodanno cinese a Roma. La portavoce della comunità: "Basta intolleranza". La paura del contagio potrebbe essere sfociata in due episodi di razzismo a Venezia e Torino. Lucia King: "E' un virus che può colpire chiunque non dipende dal posto dove si è nati o da dove si proviene". La Repubblica il 26 gennaio 2020. "Abbiamo deciso di rinviare la festa per il Capodanno cinese in programma il 2 febbraio di San Giovanni a Roma". Lo annuncia la portavoce della comunità cinese a Roma Lucia King. "Abbiamo concordato in modo congiunto con tutta la comunità che la festa deve essere rinviata perché c'è gente che sta male e non è il caso di festeggiare - ha aggiunto -. Ci dispiace perché i preparativi duravano da tre mesi, ma in questo momento è la scelta migliore. Comunicheremo in seguito una nuova data". E ancora Lucia King: "In Cina stanno soffrendo in questo momento, ieri sera ho lanciato la richiesta di rimandare alle altre associazioni che organizzano e festa ed hanno subito accettato, rimandiamo e probabilmente doneremo i fondi destinati alla festa per l'acquisto di materiale sanitario da inviare in Cina". Aggiunge: "Quando c'è stato bisogno di aiuto in Italia, come comunità cinese siamo sempre stati presenti, penso agli ultimi terremoti nei quali abbiamo fornito assistenza economica. In questo momento non chiediamo aiuto economico ma vicinanza, comprensione e tolleranza". Anche perché, ancora Lucia King, "in questi giorni ci sono stati episodi spiacevoli con battute sgradevoli come "allontaniamoci che ci sono delle persone cinesi". E' un virus che può colpire chiunque non dipende dal posto dove si è nati o da dove si proviene". La paura del contagio, che in molti casi si concretizza nell'annullare cene al ristorante cinese, potrebbe infatti essere sfociata in due episodi di razzismo. A Venezia una baby gang di adolescenti ha seguito, insultato e sputato contro una coppia di turisti cinesi. E a Torino una famiglia di cinesi che vive in Italia da decenni, parenti di Lucia King, si è sentita dire: "Allontaniamoci che portano la Sars dalla Cina". I due turisti di Venezia stavano passeggiando lungo la riva del Canale della Giudecca, quando il gruppo di adolescenti avrebbe cominciato a insultarli per poi sputargli addosso. Le forze dell'ordine finora non hanno ricevuto segnalazioni sulla vicenda che verrà approfondita ma si ipotizza che l'episodio possa essere legato proprio all'epidemia da coronavirus. "L'umanità deve essere unita per lottare contro questo virus. In questo momento non è il caso di allarmarci in Italia - dice Lucia King - naturalmente è importante prendere le dovute precauzioni. La comunità cinese vive da decenni in Italia. Non esiste nessun pericolo. I ristoranti cinesi acquistano gli ingredienti dagli stessi fornitori di quelli italiani".
Contro il coronavirus la Cina si affida a Zhong, il virologo «eroe» che disse la verità sulla Sars. Pubblicato venerdì, 24 gennaio 2020 su Corriere.it da Guido Santevecchi. Il virologo cinese Zhong Nanshan è stato il primo specialista a dichiarare che il coronavirus «salta da persona a persona». Ora, a 84 anni, il direttore della squadra di ricerca sanitaria nazionale, è a Wuhan. La stampa cinese lo presenta come un eroe che ha già combattuto la Sars, arrestandola nella provincia del Guangdong. «Il combattente è tornato», dice il China Daily. Bravo come virologo specializzato in malattie respiratorie. Ma soprattutto coraggioso nel dire la verità, anche se sgradita al potere politico. È questa la caratteristica che fa di Zhong davvero un eroe in Cina. Nel 2003, quando dopo che la Sars aveva ucciso circa 800 cinesi e spaventato il mondo arrivando in 30 Paesi, Zhong fu chiamato per la prima volta e messo al comando delle operazioni sanitarie nella provincia del Guangdong, epicentro della crisi. Osò dire la verità: che quel virus era stato sottovalutato, che le autorità locali prima non avevano capito e poi avevano cercato di nascondere la gravità della situazione. Allora a Pechino compresero e alla fine la Sars fu messa sotto controllo. Il dottor Zhong, vinta la battaglia disse alla tv cinese: «A che ci serve competere per il primato nel Pil mondiale se poi mangiare, bere e respirare rappresentano un pericolo per i cinesi?». Allora Zhong aveva 67 anni, ora è piuttosto anziano, ma oltre ad essere lucidissimo è anche in perfetta forma fisica, dicono i giornali di Pechino, presentando le sue foto in palestra mentre solleva pesi e sul campo da basket, in sospensione sotto canestro, oltre che sul campo dell’epidemia. È subito andato a rendersi conto di persona, all’ospedale di Wuhan dove 15 membri di una équipe chirurgica sono stati contagiati da un solo paziente. E come valuta la gestione di questa nuova emergenza? «Non c’è stata copertura da parte cinese, abbiamo cercato subito di collaborare con gli esperti del resto del mondo, abbiamo imparato dal 2003», ha assicurato. E non mente, non vuole certo inchinarsi al potere a 84 anni dopo essere stato rigoroso a 67. Resta il fatto che mentre domenica scorsa il dottor Zhong rivelava che il virus si stava trasmettendo tra umani, i dirigenti politici di Wuhan si vantavano di partecipare a una festa con 40 mila invitati per celebrare l’Anno del Topo in arrivo. Volevano entrare nel Guinness dei primati nella sezione «party pubblico» più affollato e invece sono finiti in cronaca nera, costretti ora a mettere in quarantena milioni di concittadini.
Zhong, l’epidemiologo eroe della Sars: «Le autorità di Wuhan non volevano dirci la verità sul coronavirus». Pubblicato lunedì, 18 maggio 2020 su Corriere.it da Guido Santevecchi. La Cina (forse anche il mondo) ha capito che la «misteriosa malattia polmonare» di Wuhan era una bomba solo quando Pechino ha richiamato in servizio permanente effettivo il pneumologo ed epidemiologo Zhong Nanshan, 84 anni, noto come «l’eroe della Sars». Era il 18 gennaio, le autorità della metropoli dello Hubei insistevano a sostenere che solo 41 persone avevano sintomi legati all’affezione «sconosciuta» e che il virus non si trasmetteva tra persone, ma era circoscritto in un focolaio nel mercato di carne selvatica. Il professor Zhong Nanshan quel 18 gennaio andò a Wuhan per indagare e appena arrivato il suo telefono cominciò a squillare: medici e suoi ex studenti lo avvisavano che la situazione in città era molto più grave di quanto si pensasse a Pechino. «Le autorità di Wuhan non avevano piacere di dire la verità, a quel tempo», ha spiegato il professore in una intervista alla Cnn. Zhong non credeva a quel numero 41: i pazienti che i dignitari di Wuhan insistevano a dichiarare; e soprattutto non credeva che l’epidemia a metà gennaio fosse ancora «prevenibile e controllabile». Si era perso troppo tempo dai primi casi rilevati a dicembre, in Giappone e in Thailandia erano stati già individuati dei viaggiatori arrivati da Wuhan con i sintomi polmonari evidenti. «Quel 18 gennaio chiesi alle autorità locali i veri numeri, ma erano riluttanti», ricorda. Così Zhong Nanshan tornò a Pechino, fece rapporto, il 20 gennaio avvisò la Cina (e il mondo) che il coronavirus ancora senza nome di Wuhan si stava trasmettendo tra persone, si rischiava la catastrofe. Su suo consiglio il 23 gennaio Wuhan fu messa in quarantena, per 76 giorni. I capi del Partito nella città e nella provincia dello Hubei sono stati epurati a febbraio. E Zhong dice che i numeri dei contagi e dei morti comunicati da Pechino da allora sono stati trasparenti. Il vecchio epidemiologo assicura che il governo ha imparato la lezione della Sars, la prima epidemia da coronavirus scoperta nel 2002 e durata fino al 2003: «Allora, 17 anni fa, furono occultate alcune notizie, per due o tre mesi», ha detto alla Cnn. Zhong Nanshan è considerato un luminare come epidemiologo specializzato in malattie respiratorie. Ma soprattutto è uno scienziato coraggioso nel dire la verità, anche se sgradita al potere politico. Nel 2003, dopo che la Sars aveva ucciso circa 800 cinesi e spaventato il mondo arrivando in 30 Paesi, Zhong fu chiamato per la prima volta e messo al comando delle operazioni sanitarie nella provincia del Guangdong, epicentro della crisi. Osò svelare la realtà: che quel virus era stato sottovalutato, che le autorità locali prima non avevano capito e poi avevano cercato di nascondere la gravità della situazione. Allora a Pechino compresero e alla fine la Sars fu messa sotto controllo. Il dottor Zhong, vinta la battaglia disse alla tv cinese: «A che ci serve competere per il primato nel Pil mondiale se poi mangiare, bere e respirare rappresentano un pericolo per i cinesi?». Sono passati 17 anni, il Pil della Cina si è triplicato e il numero dei morti di questa pandemia hanno superato i 300 mila. Nel 2003 Zhong aveva 67 anni, ora è piuttosto anziano, ma oltre ad essere lucidissimo è anche in perfetta forma fisica, hanno scritto a gennaio i giornali di Pechino, presentando le sue foto in palestra mentre solleva pesi e sul campo da basket, in sospensione sotto canestro, oltre che sul campo dell’epidemia. Zhong dice che anche questa volta ci sono stati errori a livello locale all’inizio, ma nega che ci sia stata copertura a Pechino: «Abbiamo cercato subito di collaborare con gli esperti del resto del mondo, abbiamo imparato dal 2003». La tv americana ha chiesto al professore il suo parere sul famoso (o famigerato secondo Donald Trump e Mike Pompeo) laboratorio di ricerche virologiche di Wuhan. Zhong respinge i sospetti che il coronavirus sia sfuggito da lì: dice di aver chiesto più volte alla dottoressa Shi Zhengli, che studia i pipistrelli, se il virus sia stato creato in laboratorio e si sia diffuso per errore. «Mi ha assicurato che è assolutamente ridicolo, che non avevano la possibilità scientifica di fare un esperimento del genere». A febbraio le autorità di Pechino hanno indagato e non hanno trovato niente nel laboratorio di Wuhan, conclude Zhong. Nell’intervista di ieri, anche ora che la Cina ha fermato l’epidemia e registra pochissimi casi al giorno, Zhong ha avvertito: «La maggioranza della popolazione cinese è ancora a rischio di contagio da Covid-19, per mancanza di immunità, non penso che ci troviamo in una posizione migliore rispetto agli altri Paesi del mondo al momento».
Coronavirus, a Wuhan ci sono pochi test per la diagnosi. Alessandra Tropiano il 29/01/2020 su Notizie.it. Parla l'infermiere italiano a Wuhan: "i test per la diagnosi sono pochi, vengono usati con parsimonia e solo nei casi più gravi". I test per il Coronavirus vanno usati con parsimonia. Questo è il mantra di Wuhan, centro maggiormente colpito dal virus che sta spaventando tutto il mondo. Nel focolaio dell’epidemia, infatti, i kit disponibili sono limitati e i test vanno effettuati solo sui casi più gravi. Così facendo, però, si corre il rischio di non individuare i casi meno gravi del virus.
Coronavirus Wuhan, test per diagnosi scarseggiano. A riferire che i test per la diagnosi del Coronavirus sono limitatissimi sono stati Francesco Barbero, infermiere, e il medico cinese Xiaowei Yan. Lo riferiscono sul sito del virologo Roberto Burioni, Medical Facts. Alle persone che arrivano nelle 61 “Fever Clinic” viene effettuato un primo controllo: “il percorso per tutti sarà un prelievo, ma solo per vedere se ci sono segni d’infezione batterica. In caso di febbricola, gli esami includeranno anche un test per l’influenza stagionale e persino una tac del torace. Se la trafila risulterà negativa, il paziente sarà rimandato a casa in auto-isolamento, con un cocktail di farmaci per coprire possibili infezioni batteriche e virali” spiegano. Ma il vero e proprio test per il Coronavirus viene effettuato “solo a chi presenta esami alterati e segni di lesione polmonare alla lastra“, cosa che però riguarda soltanto i casi più gravi. “Dato il limitato numero giornaliero di kit disponibili, i medici sono chiamati a esercitare grande parsimonia e questo percorso dovrebbe assicurare per tutti uno standard”. In questo modo, però, la conferma avviene solamente per i casi più gravi “i dati pubblicati finora rappresentano evidentemente solo la punta dell’iceberg, aggiungendo confusione e incertezza davanti alle tante incognite di questo virus” dicono.
Dagonews il 28 Gennaio 2020. Psicosi da coronavirus. E’ corsa alle mascherine protettive monouso non solo in Cina ma anche in Italia. A Roma farmacie prese d’assalto. Migliaia di mascherine monouso esaurite in due giorni. In una farmacia di Trastevere in una mattinata sono finite 1000 mascherine…
Da ecodibergamo.it il 28 Gennaio 2020. Tra venerdì 24 e lunedì 27 la Bongiorno Antinfortunistica è stata travolta da un’ondata di richieste di mascherine, molte direttamente dalla Cina e parecchie anche da cinesi residenti in Italia. «Le hanno comprate da noi per poi spedirle ai parenti in madrepatria» commenta Marina Bongiorno, amministratore dell’azienda. La Bongiorno Antinfortunistica, che è una delle più importanti aziende del settore, ha uffici amministrativi e magazzino a Treviolo e sede legale e supermercato a Curno. Diverse sono state anche le richieste arrivate via web dal Paese asiatico tramite la piattaforma cinese Alibaba.com, sulla quale la ditta è presente da luglio 2018. «Entro pochi giorni avremo la disponibilità di oltre 50 mila pezzi» assicura la titolare, confermando che l’azienda farà il possibile per far fronte al numero esorbitante di richieste ricevute. Le mascherine commercializzate dalla Bongiorno sono di diverso tipo: protettive monouso, maschere a pieno facciale, semi maschere e filtri. Nello specifico, la mascherina consigliata per proteggere dal coronavirus è la classe FFT2, in grado di proteggere da aerosol solidi e liquidi indicati come pericolosi o irritanti.
Emergenza coronavirus, mamma e figlia dalla Cina: "Città deserta e finiti i disinfettanti". Alessandro Barcella su Le Iene News il 28 gennaio 2020. Iene.it inizia un lungo diario di racconto dell’emergenza mondiale da coronavirus, che in Cina ha già ucciso oltre 100 persone e che sta sbarcando anche in Europa. Lo fa pubblicando video-interviste e racconti degli italiani che vivono e lavorano nel paese asiatico da cui è iniziata l’epidemia. Guardate quello che sta accadendo in queste ore a Pechino, raccontato da Nicoletta e dalla figlia Francesca. E ascoltate i consigli di buonsenso per ridurre al minimo la possibilità di essere contagiati (e di diffondere il virus mortale). “La zona di Sanlitun a Pechino, il distretto dei ristoranti di lusso, degli uffici e della vita notturna, è incredibilmente deserta. I marciapiedi e i lunghi viali di solito trafficatissimi sono vuoti: la città è spettrale. Le pochissime persone che si incrociano per strada indossano tutte le mascherine di protezione. Le farmacie di Pechino e i negozi hanno terminato le scorte di disinfettanti”. A parlare, nella video intervista che potete vedere sopra, sono Nicoletta, imprenditrice della provincia di Treviso, che da oltre 20 anni vive a Pechino con il marito, con cui ha aperto uno studio di architettura, e la figlia Francesca. E proprio Francesca, che vive nella capitale cinese da quando aveva meno di un anno e studia ingegneria ambientale, racconta: “Per ora hanno chiuso il campus, hanno rinviato a tempo indeterminato l’inizio del secondo semestre degli studi e hanno chiuso anche tutti i locali pubblici frequentati dagli studenti. Nessuno si fida a frequentare i luoghi affollati”. Cronache quotidiane dall’inferno dell’emergenza coronavirus “2019-nCoV”, che solo in Cina in meno di due settimane ha già fatto 107 morti e almeno 4-500 contagiati, un numero raddoppiato nelle ultime 24 ore. Un virus che si trasmette da uomo a uomo e per il quale, al momento, non esiste alcun vaccino. Un virus che per la sua virulenza, quando infetta qualcuno, porta quel contagiato a poterne infettare almeno altri due. E ora la paura è che dalla Cina il virus possa rapidamente arrivare anche da noi. Un’emergenza che Iene.it seguirà attraverso gli occhi degli italiani che vivono e lavorano in Cina, epicentro mondiale di quella che si preannuncia come una pandemia estremamente allarmante. Trenta province hanno decretato un’emergenza di livello 1, e intere metropoli come la città di Wuhan, da cui il virus sarebbe partito, sono letteralmente “sigillate”, in quarantena. Le autorità hanno isolato decine di milioni di abitanti, bloccando i trasporti pubblici e chiudendo scuole e uffici: il panico. Una misura non del tutto efficace, se come riportano le cronache milioni di ignari “untori” sarebbero riusciti a lasciare Wuhan prima che l’area venisse isolata. E quindi, teoricamente, anche a diventare veicoli ambulanti del virus. In queste ore l’Organizzazione mondiale della Sanità ha corretto il grado di rischio globale, portandolo da moderato a elevato. Al momento, ma la contabilità si aggiorna davvero di minuto in minuto, si registrano almeno 5 casi negli Usa, 4 in Australia e Giappone e 4 anche in Europa (3 in Francia e un uomo in Germania, che incredibilmente non è mai stato nella zona di Wuhan, ma avrebbe ospitato in casa una cinese proveniente da quella zona). Per qualche ora si è temuto anche per un primo caso italiano, dopo che una cantante pugliese reduce da una serie di concerti proprio nella zona di Wuhan aveva manifestato sintomi influenzali sospetti: ma fortunatamente era solo un falso allarme. Intanto le autorità italiane sono alle prese con una difficile decisione: come evacuare, laddove arrivasse il via libera delle istituzioni locali, la cinquantina di nostri connazionali bloccati proprio a Wuhan, epicentro mondiale dell’epidemia. Alcune voci parlano di una possibile evacuazione via terra, con l’obiettivo di condurli in osservazione, in quarantena, per due settimane (il tempo medio di incubazione del virus) presso un ospedale situato in una zona più tranquilla. Abbiamo sentito anche l’opinione di Pietro, un italiano che da 16 anni risiede in Cina, dove ha anche trovato moglie. Pietro oggi è in Italia, appena tornato da Shanghai. E ci racconta: “Per la mia esperienza, se il governo cinese dice 1, vuol dire che è 10, ci metto la mano sul fuoco. Ai tempi della Sars abitavo nel centro di Pechino. Il governo diceva che non esisteva il virus, che non c’erano malati, ma a 100 metri da casa mia c’era una struttura che ospitava oltre 70 persone ammalate di Sars… Oggi il clima è cambiato, c’è una task force appositamente dedicata all’emergenza. Mia moglie ora si trova a Pechino, anche lei ha la febbre. È andata subito in ospedale ma l’hanno tranquillizzata, ha una semplice influenza, oggi sta meglio”. Una delle misure obbligatorie, come ci spiegano anche Nicoletta e Francesca, è l'utilizzo delle mascherine, che in Cina sono andate esaurite nel giro di qualche giorno. Ma sulla loro effettiva utilità c’è chi ha più di un dubbio. Si tratta degli stessi infettivologi cinesi, per i quali la protezione offerta dalle mascherine è solo parziale, perché queste sono prive di filtri per l’aria e non in grado di coprire gli occhi. E allora non resta che affidarsi ad alcuni semplici consigli di buon senso emanati da Croce Rossa e dalla maggior parte dei virologi italiani, per ridurre al minimo le possibilità di entrare in contatto con il virus (e per non trasmetterlo):
1. Evitare laddove non strettamente necessari i viaggi in Cina, soprattutto nelle aree più colpite come la provincia di Hubei. L’elenco completo delle aree a rischio si trova sul sito dell’Oms.
2. In viaggio nelle zone più colpite, indossare sempre la mascherina e non toccarla con le mani, né toglierla per rispondere al telefono.
3. Lavarsi le mani in modo frequente, con acqua calda e sapone (è consigliabile farlo per almeno 20 secondi, da entrambi i lati. Ecco come).
4. Coprirsi naso e bocca quando si starnutisce (altri esperti consigliano una cautela ulteriore: starnutire nel gomito e non nelle mani, di modo da evitare di toccare altre cose. O in un fazzoletto di carta da buttare subito dopo).
5. Se in viaggio nelle zone più colpite, evitare carne cruda o poco cotta, frutta o verdure non lavate e le bevande non imbottigliate. E contatti con animali.
6. Evitare luoghi troppo affollati e tenere una distanza di almeno un metro da persone con sintomi influenzali e respiratori acuti.
7. In caso di sindrome influenzale manifestatasi a seguito di viaggi nei luoghi a rischio e a seguito di contatto con persone provenienti da quei luoghi, avvertire subito il personale sanitario. Continueremo ad aggiornarvi sulla terribile epidemia scoppiata in Cina attraverso i racconti degli italiani lì presenti.
Coronavirus dalla Cina: ecco perché l'Italia potrebbe non essere preparata a una pandemia. Alessandro Barcella su Le Iene News il 29 gennaio 2020. Se domani mattina dovesse arrivare in Italia il coronavirus che ha ucciso nel mondo oltre 130 persone, il nostro Paese sarebbe preparato? Pubblichiamo, nella seconda puntata dell'inchiesta di Iene.it sull’emergenza partita dalla Cina, gli incredibili dati del“Global Health Security Index 2019”, che misura il livello di preparazione di uno Stato a un’epidemia. Dobbiamo iniziare a preoccuparci? Sale l’allarme anche in Europa per l’emergenza coronavirus partita dalla Cina. Se ieri sera la conta dei morti era arrivata a 107, questa mattina ci siamo risvegliati con il numero di 132 decessi accertati. E il numero delle vittime sicuramente è destinato ad aumentare con il passare delle ore e dei giorni. Dopo avervi raccontato com’è la situazione a Pechino nel video e nell’intervista con mamma Nicoletta e la figlia Francesca, noi di Iene.it continuiamo ad aggiornarvi quotidianamente sulla situazione. La domanda che ci poniamo oggi è questa: l’Italia che al momento non ha registrato alcun caso accertato di infezione, è in grado di affrontare un’eventuale pandemia sul proprio territorio? Per provare a rispondere a questa domanda ci affidiamo al data journalism e ai numeri che emergono analizzando il Global health security index 2019, raccolti dal portale Truenumbers. Il report, quello riguardante in particolare il nostro Paese e il rischio epidemia, potete leggerlo cliccando su questo link. Stiamo parlando di un indice che risponde proprio alla domanda, estremamente delicata, che ci siamo posti: l’Italia è davvero in grado di affrontare l’epidemia da coronavirus? Lo facciamo analizzando la situazione italiana rispetto a sei categorie: prevenzione, rilevazione e segnalazione, risposta, sistema sanitario, conformità alle norme internazionali e ambiente a rischio. Questo indice fotografa, a volte impietosamente, la realtà italiana: il nostro punteggio complessivo è di 56,2 punti e ci colloca diciottesimi in Europa (su 28 membri) e 31esimi nel mondo (su un totale di 195 paesi monitorati). A guidare la classifica dei Paesi in grado di fronteggiare un’epidemia sono gli Stati Uniti, con un punteggio di 83, seguiti da Regno Unito (77) e Paesi Bassi (75). Ma è scendendo nel dettaglio delle singole categorie prese in considerazione dall’indice che riusciamo forse a percepire il grado di preparazione dell’Italia. La prima categoria presa in considerazione è quella della prevenzione, che analizza ad esempio il grado di immunizzazione della popolazione e i livelli di bio-sicurezza: siamo 45esimi nel mondo. La seconda riguarda la capacità di individuazione di un’epidemia e tiene conto in particolare della rete di laboratori specializzati, del sistema di sorveglianza in tempo reale e dello stato delle competenze e delle strutture in ambito epidemiologico: una categoria questa nella quale l’Italia registra un buon risultato, attestandosi al 16esimo posto su 195 Paesi. Ma se l’epidemia dovesse davvero arrivare da noi e dilagare? Quale sarebbe la risposta dell’Italia? Ci affidiamo ai numeri della terza categoria, che analizza i piani di emergenza, l’accesso dei pazienti alle strutture di soccorso e di cura e le restrizioni da imporre riguardanti il commercio e i viaggi. Qui non andiamo proprio benissimo, perché con un punteggio di 47,5 ci fermiamo al cinquantunesimo posto nel mondo. Peggio ancora facciamo con la quarta categoria, che analizza le capacità di risposta del sistema sanitario nazionale a un’epidemia. Qui l’Italia deve accontentarsi del cinquantaquattresimo posto (e all’interno di questa macro-categoria il fanalino di coda è rappresentato dall’accesso alle cure sanitarie in questo caso, per cui siamo addirittura 74esimi nel mondo). La quinta categoria del Global Health Security Index 2019 analizza la normativa in ambito sanitario, e per fortuna riesce a portare l’Italia un po’ più in alto: posizione mondiale numero 29. Ma è con il rischio, sesta categoria dell’indice, che il nostro Paese torna a scendere, attestandosi al 55esimo posto su 195 paesi. Qui si analizzano i rischi politici, la sicurezza ambientale, la vulnerabilità della salute pubblica. Argomenti da anni di pubblico dominio e critica, nel nostro Paese, e che sembrerebbero confermare la vulnerabilità dell’Italia. Analizzando altri due dati ci sentiamo leggermente inquieti. Lo sapete a che punto della classifica sono Francia e Germania, gli unici due paesi europei che al momento hanno registrato 8 casi totali confermati di coronavirus? La Germania è al 14esimo posto di questo indice mondiale, mentre la Francia è addirittura all’undicesimo. Ma allora cosa dobbiamo davvero aspettarci in Italia, che questo indice di risposta alle epidemie mette solo al 31esimo posto?
La nostra pelle. Alessandro Bertirotti su Il Giornale il 30 gennaio 2020. È tutta questione di… onnipotenza. Iniziamo da qualche dato significativo: a) L’attuale popolazione cinese è di 1.436.801.015 abitanti, sulla base delle ultime stime (2020) delle Nazioni Unite; La popolazione cinese è pari al 18,54% della popolazione mondiale totale; La Cina è al primo posto nella lista dei paesi più popolati; La densità di popolazione in Cina è 151 per Kmq; La superficie totale della Cina è di 9.388.211 Kmq; Il 59,3% della popolazione della Cina è urbana (838.818.387 persone nel 2018); L’età media in Cina è di 37,3 anni. Ecco perché il Prof. Burioni afferma quanto potete leggere qui. Vorrei solo soffermarmi, al di là delle personali considerazioni che ognuno di noi può fare rispetto a questa situazione, sulla dimensione culturale che caratterizza questa nazione. È un impero, sia dal punto di vista economico che da quello demografico, e dunque i suoi stili di vita, le sue concezioni politiche ed esistenziali vincolano, nolenti o volenti, il mondo intero. Noi ci preoccupiamo, e giustamente, dell’immigrazione africana in Italia, ma non ci siamo mai seriamente occupati di quella cinese, che continua inesorabilmente ad essere presente, senza barconi né troppo clamore in tutta la nazione. Ma questa è un’altra questione, rispetto a quella che voglio trattare qui. Se circa il 60% della popolazione cinese è urbana, il restante 40% è rurale, e vive in condizioni esistenziali decisamente arcaiche, al di fuori di ogni regola igienica contemporanea, in semi-povertà e segue stili alimentari culturalmente accettati e praticati nelle campagne. Questo è il grande, unico e vero problema che il Coronavirus evidenzia, e non solo a livello cinese, ma in grado di riflettersi in tutto il mondo. E il governo cinese non ha mai affrontato la questione seriamente, ossia la dimensione igienico-sanitaria della popolazione rurale, perché sarebbe andato incontro a malumori e rivolte generali. Le conseguenze elettorali e politiche sarebbero state devastanti. Per questo motivo essenziale, hanno preferito non affrontare mai la questione. E poiché il denaro, il potere e lo sfarzo, fanno parte di nuovi efficaci valori globali, il coronavirus ha trovato l’ambiente utile alla sua proliferazione, creando questa situazione. E non sarà cosi semplice risolverla, perché la natura segue sempre il proprio corso, al di là delle conquiste scientifiche, le quali devono comunque e sempre a lei adeguarsi. Insomma, la selezione naturale continua ad agire, e, come sempre, con la nostra inconsapevole collaborazione. Impareremo mai a comportarci come ospiti e non padroni di questo pianeta? A dire il vero, a questo punto, temo di no.
Il coronavirus cinese spaventa l’Africa. Federico Giuliani su Inside Over il 28 gennaio 2020. L’Africa è in allerta per la comparsa del primo paziente contagiato dal nuovo coronavirus. Il ministro della Salute della Costa d’Avorio, Eugène Aka Aouele, ha riferito che una 34enne arrivata ad Abidjan da Pechino è stata ricoverata con sintomi simil-influenzali, tra cui difficoltà respiratoria, tosse, starnuti e naso che cola. Secondo quanto riportato dal South China Morning Post si tratterebbe di una donna, precisamente di una studentessa che vive in Cina da cinque anni. È stata subito isolata e messa in osservazione. Le sue condizioni non dovrebbero essere gravi ma, come ha spietato Aouele, “vi è il sospetto di un caso di polmonite da coronavirus”, ipotesi confermata da una prima diagnosi. In attesa delle ulteriori verifiche ivoriane, diversi Stati africani hanno già emesso allarmi e attivato sistemi di monitoraggio per contenere l’epidemia del virus 2019-n-Cov diffusosi dalla megalopoli cinese di Wuhan. La lista comprende Sudafrica, Nigeria, Etiopia, Ghana, Kenya, Ruanda, Zambia e Uganda. Molti governi locali, come ad esempio quello di Pretoria, sono abituati a far fronte a emergenze sanitarie simili. Tuttavia, se le autorità sudafricane possono permettersi di rafforzare la sorveglianza su tutti i viaggiatori provenienti dall’Asia, con test di temperatura e screening sanitario, altri Stati – molto meno affidabili data la loro situazione socio-politica – si stanno arrangiando come meglio possono e con risorse assai più limitate.
Quegli intensi rapporti commerciali con la Cina. Il rischio più grande riguarda la possibile diffusione su vasta scala del coronavirs cinese in Africa. Il motivo è semplice: la maggior parte dei Paesi africani non sarebbe in grado di sostenere un’emergenza identica a quella che ha messo in ginocchio la Cina. Proprio come accaduto in passato con i focolai di zika, ebola e altri agenti patogeni, l’effetto contagio potrebbe massacrare l’intero Continente Nero. A complicare il contesto ci sono gli ottimi rapporti commerciali tra i governi africani e la Cina. Ricordiamo che l’Africa è diventata la patria di milioni e milioni di immigrati, imprenditori, investitori e lavoratori cinesi. E questo è avvenuto da quando Pechino ha deciso di puntare sul continente, investendo in loco centinaia di milioni e milioni di dollari. Le industrie del Dragone riversano in Africa tonnellate di prodotti made in China. Numerose compagnie aeree locali, come Kenya Airways, Air Algerie, South African Airways ed Ethiopian Airlines, volano regolarmente verso le città cinesi così come, allo stesso tempo, China Southern Airlines e Air China volano altrettanto stabilmente su scali africani. Fino a poche settimane fa i collegamenti tra Cina e Africa erano pressoché giornalieri. Considerando che le drastiche decisioni del governo cinese per limitare l’avanzata del coronavirus – comprendenti blocchi di trasporti pubblici e chiusure di numerosi aeroporti – sono arrivate a fine gennaio e che i primi casi di pazienti infetti dal 2019-n-Cov si sono verificati a dicembre, c’è un lasso di tempo enorme “scoperto” durante il quale innumerevoli soggetti possono aver attraversato i due continenti, trasportando nei loro corpi il virus potenzialmente mortale.
Cina, Africa, Europa. La Nigeria è il Paese più popoloso dell’Africa, nonché il secondo importatore di beni cinesi. Qui le autorità hanno annunciato la massima allerta sanitaria. “Consigliamo ai viaggiatori diretti a Wuhan, in Cina, di evitare contatti con malati, animali (vivi o morti) e mercati di animali”, ha avvertito il governo nigeriano, ben consapevole degli intensi rapporti commerciali attivi con il gigante asiatico. La spinta di Pechino a espandere la sua influenza in Africa significa che adesso gli africani formano una delle più grandi popolazioni di stranieri in Cina. Gli studenti africani sono al secondo posto in assoluto: il loro numero, stando a quanto riferito dall’Afp, nel 2018 era quantificabile intorno alle 80mila presenze, 4.600 delle quali solo nella provincia dello Hubei, dove si trova la “città infetta” da cui è partito il contagio. In vista della festività del Capodanno cinese, molti africani – non tutti studenti – sono tornati nei rispettivi Paesi di origine. Alcuni lo hanno fatto prima che scoppiasse l’emergenza coronavirus. Adesso numerosi governi dell’Africa si stanno preparando per una possibile epidemia ma potrebbe essere troppo tardi; non è infatti da escludere che la malattia possa essere già entrata nel continente. Dulcis in fundo, vale la pena considerare un ulteriore rischio: quello collegato all’immigrazione. Un soggetto infetto potrebbe rientrare in Africa dopo un viaggio in Cina e, in uno degli affollatissimi aeroporti africani, contagiare altre persone. Magari proprio le stesse che starebbero pensando di approdare sulle coste europee.
ANSA il 3 febbraio 2020. - La Cina "necessita urgentemente" di materiale protettivo e di equipaggiamenti medici con l'epidemia del nuovo coronavirus di Wuhan che continua a tenere un passo sostenuto, visto che i 361 morti attuali hanno superato i 349 della Sars del 2003, mentre i contagiati sono più di 17.000. "Quello di cui la Cina necessita urgentemente allo stato sono le maschere mediche, le tute protettive e gli occhiali protettivi", ha commentato la portavoce del ministero degli Esteri Hua Chunying, in un briefing online con i media. Centinaia di medici e paramedici stanno protestando a Hong Kong chiedendo al governo locale la chiusura del confine con la Cina, come misura per bloccare il contagio del coronavirus di Wuhan L'ex colonia britannica ha registrato 15 casi di infezioni accertate, ma la governatrice, Carrie Lam, ha approvato il dimezzamento dei collegamenti aerei e la chiusura di 6 dei 14 ingressi per via terra, oltre allo stop dei collegamenti via treno. La decisione di scioperare è maturata nel corso del weekend. La Russia presto invierà "aiuti umanitari" alla Cina per contrastare il diffondersi del nuovo coronavirus: lo ha annunciato la vice premier russa Tatiana Golikova. "I documenti riguardanti gli aiuti umanitari alla Cina sono praticamente pronti", ha spiegato Golikova durante una riunione dei vice premier con il nuovo primo ministro russo, Mikhail Mishustin. Lo riporta l'agenzia Interfax. La Cina ha accusato alcuni Paesi, specialmente gli Stati Uniti, di diffondere "panico" con le reazioni fuori misura all'epidemia di coronavirus di Wuhan. Gli Usa, includendo anche il bando imposto all'ingresso dei viaggiatori cinesi, "non hanno provveduto ad alcuna assistenza sostanziale", ma hanno creato panico ininterrottamente", ha commentato la portavoce del ministero degli Esteri, Hua Chunying, in un insolito briefing online, nel mezzo dell'emergenza del coronavirus. Il Vaticano ha spedito in Cina circa 600.000-700.000 mascherine per aiutare a prevenire la diffusione del contagio da Coronavirus. Lo scrive il Global Times, tabloid del Quotidiano del Popolo, definendo l'iniziativa, che ha avuto il sostegno dell'elemosiniere pontificio card. Konrad Krajewski, della Farmacia Vaticana e delle comunità cristiane cinesi in Italia, "espressione della preoccupazione della Santa Sede per l'epidemia". Le operazioni sono state coordinate dal vice rettore del Pontificio Collegio Urbaniano Vincenzo Han Duo. Han, responsabile della donazione delle mascherine e della consegna, ha affermato che il card. Krajewski ha espresso il suo desiderio di aiutare la Cina a combattere il virus dopo che lui stesso gli ha raccontato la situazione. Sono stati quindi la Santa Sede e i gruppi cristiani cinesi in Italia a pagare per le mascherine raccolte dalla Farmacia Vaticana a partire dal 27 gennaio (100.000 solo nel primo giorno) da tutta la Penisola. Le confezioni recanti lo stemma dell'Elemosineria sono state quindi trasportate a Fiumicino, da dove compagnie aeree tra cui la China Southern Airlines hanno fornito la spedizione gratuita. Dopo l'arrivo in Cina, le mascherine sono state inviate nella provincia di Hubei, epicentro dell'epidemia da coronavirus, situata nella Cina centrale, e nelle province della Cina orientale dello Zhejiang e del Fujian. "Spero che le scorte possano raggiungere il più presto possibile i luoghi dove sono necessarie, in modo che le persone che soffrono della malattia possano sentire la preoccupazione della Santa Sede. Il mondo intero è unito per combattere il virus", ha commentato mons. Han, vescovo originario proprio del Fujian.
DAGONEWS il 29 gennaio 2020. «La mia ignoranza è una colpa». È stata costretta a scusarsi con i suoi follower la blogger di viaggi Wang Mengyun dopo che il suo video in cui mangia una zuppa di pipistrello è diventato virale in seguito all’epidemia di coronavirus. Nelle immagini girate nel 2016 la donna, che si trovava a Palau, apre con le mani l’animale e ne mangia un pezzo prima di commentare che aveva un sapore di pollo. Le immagini, nell’ultimo periodo sono diventate virali, e Wang è stata costretta a rimuovere il video e a scrivere una lunga lettera dopo che le immagini erano diventate virali. «Quando ho filmato il video, onestamente non sapevo che ci sarebbe stato il virus. La mia ignoranza è una colpa – ha scritto Wang – L’animale proveniva da un allevamento e in molti paesi la zuppa di pipistrello è un piatto che si consuma quotidianamente. Mi dispiace. Non avrei dovuto mangiarlo». Il video di Wang è uno dei tanti in cui commensali sono seduti a tavola a gustarsi zuppe di pipistrello.
Coronavirus, uomo muore in strada a Wuhan: nessuno si avvicina per paura. Laura Pellegrini il 31/01/2020 su Notizie.it. Muore in strada a Wuhan dopo aver contratto il coronavirus: nessuno si è avvicinato all'uomo per paura di essere contagiato. Non è ancora chiara la causa del decesso di un uomo morto per la strada a Wuhan: nessuno dei passanti, tuttavia, ha osato avvicinarsi per l’emergenza coronavirus. I soccorsi giunti rapidamente sul posto hanno messo in atto tutte le procedure previste per i casi sospetti, ma ancora non si hanno certezze. La metropoli cinese epicentro del virus è diventata ormai una zona deserta. Le poche persone che girano per le strade, infatti, indossano una mascherina ed evitano qualunque contatto con estranei.
Coronavirus Wuhan, uomo muore in strada. Il coronavirus ha colpito ormai 10 mila persone, oltre 130 i casi soltanto in Cina e localizzati per la maggior parte a Wuhan. Proprio nella città epicentro dell’epidemia si è verificato un episodio drammatico. Un uomo, ancora con le buste della spesa in mano, muore per la strada deserta a Wuhan e nessuno lo soccorre per paura del coronavirus. All’arrivo dei soccorsi, inoltre, sono state messe in atto le procedure tipiche per i casi sospetti, in quanto non vi è certezza sulle cause della morte. La tragica scena è stata documentata da un fotoreporter che giovedì 30 gennaio ha scattato l’immagine dell’uomo accasciato a terra davanti a un negozio. La vittima, stando alle immagini, è un uomo sulla sessantina, con i capelli bianchi e la mascherina sul viso. Quella in cui si trovava era una delle vie principali della città rimasta deserta per l’epidemia del virus. Il personale medico intervenuto sul posto ha indossato delle tute blu anti-contaminazione e ha provveduto alla disposizione del cadavere all’interno di un sacco sterile. Infine, il corpo della vittima è stato trasferito in ambulanza.
(ANSA il 31 gennaio 2020) - Un ragazzo disabile di 17 anni di un villaggio rurale dell'Hubei è morto a causa dello stato di abbandono dopo che è stata disposta la quarantena ai suoi familiari per il sospetto di contagio del coronavirus di Wuhan. La tragedia è stata riportata dal Beijing Youth Daily, secondo cui le autorità della contea di Hong'an, a circa 80 km a nord di Wuhan, il focolaio dell'epidemia, hanno aperto un'indagine. Il ragazzo, Yan Cheng, affetto da paralisi cerebrale, è stato ritrovato morto mercoledì nel suo letto, sei giorni dopo che suo padre e il fratello di 11 anni erano stati prelevati da casa e trasportati in una struttura a 20 km da casa. Entrambi, infatti, erano febbricitanti ed erano sospettati di aver contratto il virus. Yan, pertanto, era stato lasciato da solo. Inutili i tentativi del padre di chiedere aiuto dalla quarantena postando il suo caso sui social media. Funzionari del villaggio hanno detto di aver visitato il ragazzo a casa, nutrendolo soltanto per due volte negli ultimi 6 giorni.
Coronavirus, a PiazzaPulita le immagini di Wuhan deserta: "Uno scenario apocalittico". Libero Quotidiano il 31 Gennaio 2020. Wuhan, la città nel cuore della Cina, è diventata fantasma, desolata. I suoi 11 milioni di abitanti sono da giorni barricati all'interno delle abitazioni dopo la scoperta che il Coronavirus è partito proprio da qui. "Sembra uno scenario di Walking Dead, sotto la finestra dell'albergo c'è una strada da 8 corsie completamente deserta", riferisce un testimone italiano rimasto bloccato nella città da cui è partito il contagio a Piazzapulita. E ancora, sempre in collegamento: "Si può uscire solo per strette necessità come il cibo. In quel caso mi copro con la mascherina e con il giaccone. Stiamo cercando di tenere duro, ma non è semplice. Tutta la città è in quarantena, i negozi sono tutti chiusi". Nel frattempo anche in Italia cresce la psicosi dopo l'accertamento di due casi e dopo l'annuncio da parte dell'Organizzazione mondiale della Sanità di una vera e propria emergenza globale.
Coronavirus, 10 giorni di silenzio della Cina dietro al contagio: mentre il regime arrestava chi ne parlava...Libero Quotidiano il 31 Gennaio 2020. Un virus insidioso, super-aggressivo, per quanto il tasso di mortalità e le vittime per ora siano relativamente contenute. Si paròa del coronavirus, ufficialmente arrivato in Italia nella serata di giovedì 30 gennaio: a confermarlo Giuseppe Conte e Roberto Speranza, ministro della Sanità. In mattinata, la notizia di un altro caso sospetto. Si poteva evitare? Forse sì. Ma per certo la responsabilità non è del governo italiano (il primo ad aver chiuso il traffico aereo), bensì della Cina. Già, perché come sottolinea Repubblica, "c'è un grande vuoto nella storia del coronavirus". Si tratta di dieci giorni, cruciali, nel corso dei quali il contagio era già in atto ma durante cui le autorità cinesi hanno nascosto le informazioni. Hanno sottovalutato l'emergenza? La hanno ignorata? Hanno preferito tacere? Domande che per ora non hanno una risposta. Di sicuro c'è che gli scienziati del Dragone erano già al lavoro sul virus, stavano cercando di identificarlo: dunque la Cina sapeva, mentre Xi Jinping e gli altri esponenti del partito comunista arrestavano che diffondeva "false voci" sull'epiedamia. Dieci giorni, come detto, decisivi. Dieci giorni durante i quali è stata rimandata la quarantena di Wuhan, luogo dal quale il contagio è iniziato, per arrivarsi ora ad espandere a macchia d'olio.
Cristian Martini Grimaldi per “la Stampa” l'1 febbraio 2020. Il 15 gennaio quando una famiglia si presenta all' ospedale di Wuhan con nausea e forti dolori all' addome nessuno ancora immagina cosa sta per accadere: una metropoli di 11 milioni di abitanti in quarantena, con i trasporti totalmente bloccati. Nessuno pensa a prendere le minime precauzioni: niente mascherine, nessun isolamento per chi mostra sintomi da influenza. Eppure, un segnale c' era stato. Sottovalutato. Anzi, censurato dalle autorità cinesi. Per ricostruire questa vicenda bisogna riportare indietro le lancette di 17 giorni. Il primo allarme È il 30 Dicembre. Su un gruppo wechat chiamato "University of Whuan, clinic 2004" Li Wenliang manda questo messaggio: «Confermati 7 casi di Sars provenienti dal mercato di frutta e pesce». Quindi Wenliang mette in chat la diagnosi e le foto dei polmoni di alcuni pazienti. Altro messaggio di Li: «I pazienti sono ora isolati nella sala di emergenza». Un' ora dopo un nuovo messaggio, che però proviene da un altro dei partecipanti alla chat: «Stai attento, il nostro gruppo wechat potrebbe essere cancellato». L' ultimo messaggio che si legge è di Li: «Confermato che si tratta di coronavirus, ora stiamo cercando di identificarlo, fate attenzione, proteggete le vostre famiglie». Li Wenliang non è una persona qualsiasi ma un medico, e il gruppo wechat è composto dai laureati nel 2004 all' Università di Whuan.
La censura. Pochi giorni dopo questo scambio di messaggi, è il 3 gennaio, la polizia bussa alla porta di Wenliang e gli sottomette un foglio, una cosiddetta «nota di ammonizione». Il testo è lungo ma il contenuto è chiaro: «Stai diffondendo parole non veritiere in rete. Il tuo comportamento ha gravemente disturbato l' ordine sociale. Hai violato il regolamento dell' amministrazione della pubblica sicurezza». Li, in realtà, non è l' unico medico a rendersi conto che si sta diffondendo un nuovo virus pericoloso. Altri otto hanno inviato gli stessi messaggi di avviso. Anche loro inizialmente erano convinti che fosse in corso un nuovo caso di Sars e che si stesse diffondendo molto rapidamente. Ma nel frattempo, anziché ringraziare Li per aver lanciato in tempo l' allarme su una possibile nuova epidemia, le autorità locali decidono di redarguirlo. Il che significa che la sua licenza ora rischia di essere revocata. Intanto, il 3 gennaio le autorità sanitarie dichiarano che non c' è alcun segno evidente di trasmissione da uomo a uomo, che nessuno staff medico è stato contagiato. Eppure, in tanti sono già a conoscenza del rischio: uno studio pubblicato su Lancet il 24 gennaio riferisce che dal 1 all' 11 gennaio i medici contagiati sono già 7 su 248 totali. Eppure, passeranno altri 17 giorni (è il 20 gennaio) prima che il Comitato di Salute cinese dia la conferma che il virus può diffondersi da persona a persona.
L' intervento tardivo. Il 22 gennaio il virus si è già diffuso nelle principali province della Cina - con l' unica eccezione del Tibet - ci sono oltre 570 casi confermati e le morti salgono a 17. A questo punto l' amministrazione locale non può più ignorare la gravità della situazione. Alle due del mattino del 23 gennaio parte un avviso per i residenti della città: trasporti pubblici, autobus, treni, voli e servizi di traghetto verranno sospesi. Lo shutdown totale viene dato alle 2 ma non viene implementato sino alle 10. Per proseguire il racconto di questa storia bisogna ritornare alla vicenda della famiglia che il 15 gennaio si era presentata all' ospedale di Wuhan. I sintomi dei 4 erano quelli di una gastroenterite, ma qualche giorno dopo due dei componenti di quella stessa famiglia vengono contagiati da quello che ancora nessuno sapeva essere il nuovo virus micidiale e che ora viene identificato con la sigla 2019-nCoV il cui profilo genetico è simile alla Sars per quasi l' 80%. Li Wenliang, il medico che per primo ha lanciato l' allarme sul contagio sul gruppo di Wechat, è ora ricoverato in ospedale perché infetto dal coronavirus e così anche la sua famiglia. Poche ore fa ha pubblicato tutti i documenti sul suo blog personale Weibo.
Il primario «distratto» e infettato, il dottorino che aveva capito tutto. Così due medici cinesi spiegano errori e coperture dei primi giorni. Pubblicato domenica, 02 febbraio 2020 su Corriere.it da Guido Santevecchi, corrispondente da Pechino. Nelle guerre ci sono eroi veri e presunti, che spesso si scambiano i ruoli. E presunti traditori che invece combattevano la giusta battaglia. È successo anche in questa crisi del coronavirus. «Fog of war», la chiamano gli strateghi militari. Lentezza dei comandi, comunicazioni e ordini sbagliati hanno creato la nebbia, clinica e politica, sul campo di battaglia. Anche l’Organizzazione mondiale della sanità ha pensato molto alla politica, prima di dichiarare l’emergenza. Il primo caso di «malattia polmonare misteriosa» a Wuhan è stato registrato ufficialmente l’8 dicembre. Altri malati, una decina pare, nel giro di una settimana. E tutti erano passati dal mercato del pesce e della carne selvatica. Ma solo a fine dicembre a Pechino sono stati informati e si sono davvero interessati, o così pare. Il 31 dicembre ha ricevuto la prima comunicazione di problemi sanitari a Wuhan l’Oms di Ginevra. E fino a metà gennaio i malati di «polmonite misteriosa» per Wuhan erano incredibilmente solo 45. Solo ieri, in un giorno solo, hanno perso in altri 45 la battaglia col virus, portando il totale ufficiale dei morti a 259.
Le vicende di due medici riassumono questa storia che sarà oggetto di innumerevoli inchieste e studi scientifici. «Siamo soldati che si muovono sul campo di battaglia, ogni tipo di proiettile vola intorno a noi», dice ora il dottor Wang Guangfa, primario di medicina polmonare alla Peking University della capitale. Non lo dice per vantarsi di essere stato al fronte del virus, anche se incautamente lo ha fatto. Wang ammette di aver sbagliato nelle prime previsioni epidemiologiche. Aveva diagnosticato che il virus non si sarebbe diffuso tra persone, ma solo dalla carne infetta del mercato di Wuhan, da quell’animale «serbatoio» ancora non individuato con sicurezza: serpente, pipistrello? Il professor Wang era andato a Wuhan, da Pechino, dopo metà gennaio, e aveva annunciato che il contagio poteva essere «prevenuto e contenuto». La chiusura del brutto mercato di Wuhan sarebbe bastata. Il sindaco lo aveva già fatto fare a inizio gennaio, e furono cancellate anche le «impronte digitali» del virus, la carne dell’animale che ha causato la prima infezione. Poi erano ripresi i grandi preparativi per il Capodanno lunare, anche un grande banchetto per 10 mila famiglie a spese dell’amministrazione locale. Pochi giorni dopo, in piena epidemia, Wang, tornato a Pechino, scoprì di essere stato contagiato anche lui, durante la missione in un ospedale del ground zero dello Hubei. Non aveva preso precauzioni. Superbia dottorale e sfortuna hanno dato al virus più tempo per diffondersi. Wang in un’intervista alla stampa cinese ora dice di aver sottovalutato i primi sintomi, di aver pensato a una comune influenza e di aver ritardato gli esami. Lo hanno ricoverato, giovedì lo hanno dimesso. Salvo e pentito. C’erano medici ospedalieri a Wuhan, che da fine dicembre credevano di aver individuato la «misteriosa polmonite» di cui parlavano le autorità. Avevano lanciato su una chat il dubbio che si trattasse di un ritorno della Sars debellata nel 2003. Il leader del gruppo era il giovane dottor Li Wenliang, specialista di oftalmologia. Che c’entra l’oftalmologia con il virus? Secondo l’allarme di Li, proprio nel suo reparto erano ricoverati in isolamento sette pazienti con sintomi polmonari gravi. Era il 30 dicembre. Uno screenshot del suo post ha cominciato a circolare: la censura cinese è sempre occhiuta e teme le voci vere e presunte (allo stesso modo le prime e le seconde). Le autorità di Wuhan hanno mandato la polizia ad ammonire i «propagatori di voci» e hanno oscurato la loro chat online. Erano otto quei medici. Breve detenzione per interrogatorio, del dottor Li, poi rilascio e processo per chiudere il caso. Nel frattempo anche Li è stato contagiato da un paziente, ma si è già ripreso. E ora è stato vendicato. La Corte suprema del popolo cinese ha detto che non ha «fabbricato notizie». E, in modo ipocrita, nella sentenza si osserva che comunque aveva sbagliato diagnosi perché non era Sars, ma un nuovo coronavirus sconosciuto.
Il Global Times, giornale comunista e nazionalista di Pechino, conclude che «in retrospettiva, dovremmo elogiarli altamente, erano stati saggi». La Cina si vanta della sua saggezza millenaria, ma è afflitta dal virus dell’opacità e della burocrazia statale. Terreno di coltura fertile per il virus. E l’imperatore Xi Jinping, sconfitto il «demone virus», dovrà affrontare la realtà che lo circonda e che il sistema del Partito-Stato ha coltivato.
Coronavirus, contagiato il medico eroe cinese che per primo lanciò allarme. Li Wenliang venne screditato dalle autorità e minacciato dalla polizia, poi fu riabilitato. Lo scorso 10 gennaio ha contratto il virus. Per lui è stato necessario il ricovero in intensiva. La Repubblica il 4 febbraio 2020. Fu il primo a lanciare l'allarme sulla diffusione della nuova epidemia di coronavirus a Wuhan, in Cina, ma ora si è ammalato. Il medico 34enne Li Wenliang, oftalmologo, venne prima screditato dalle autorità, minacciato dalla polizia (fu arrestato insieme ai sette colleghi che avevano messo in guardia amici e conoscenti, "proteggete le vostre famiglie"), poi la sua posizione fu rivalutata dalla magistratura e dalla società, diventando un simbolo. L'emblema di come all'inizio dell'epidemia, per diversi giorni, la priorità dei funzionari di Wuhan fosse evitare che la città cedesse al panico, piuttosto che informarla a dovere. Ma una volta riammesso in corsia per curare i malati di Wuhan, anche Li Wenliang è stato contagiato dal virus. Lo racconta la Cnn che lo ha intervistato. Il 30 dicembre, Li Wenliang scrisse un messaggio bomba nel suo gruppo di ex studenti di medicina sulla popolare app di messaggistica cinese WeChat: a sette pazienti di un mercato ittico locale era stata diagnosticata una malattia simile alla Sars ed erano stati in quarantena nell'ospedale dove lavorava. Li spiegò che, secondo un test che aveva visto, la malattia era un coronavirus, la grande famiglia di virus che include la sindrome respiratoria acuta grave, l'ormai famosa Sars. Il medico, che lavora a Wuhan, la città cinese epicentro dell'epidemia di coronavirus, scrisse quindi ai suoi amici di avvertire i loro cari in privato. Ma nel giro di poche ore gli screenshot dei suoi messaggi diventarono virali, senza che il suo nome fosse nascosto. "Quando li ho visti circolare online, mi sono reso conto che era fuori dal mio controllo e probabilmente sarei stato punito", ha spiegato poi Li. Poco dopo, venne accusato di diffamazione da parte della polizia di Wuhan. Lo scorso 10 gennaio, dopo aver inconsapevolmente trattato un paziente con il coronavirus, il medico ha iniziato a tossire, poi la comparsa della febbre il giorno successivo. Venne ricoverato in ospedale il 12 gennaio. Nei giorni seguenti, le sue condizioni sono peggiorate, al punto da dover essere ricoverato nel reparto di terapia intensiva. Il primo febbraio è risultato positivo al coronavirus.
Stefano Carrer per ilsole24ore.com il 5 febbraio 2020. «Ci vorrebbero decine di milioni di Li Wenliang per avere un più sicuro ambiente per la salute pubblica». È solo uno dei tanti messaggi di simpatia e solidarietà ricevuti dal medico oftalmologo 34enne del Wuhan Central Hospital che lanciò per primo l’allarme sull’epidemia che sta spaventando il mondo e ora giace in un letto d’ospedale come vittima del contagio. Sono tanti i messaggi sui social network che, anche nella sola espressione di solidarietà, rappresentano una critica severa alle autorità. Già a dicembre, infatti, Li Wenliang aveva notato l’insorgere di casi di virus simile a quello della Sars che causò l’epidemia globale del 2003: il 30 dicembre in una chat inviò un messaggio ad altri medici, avvertendoli e raccomandando l’uso di indumenti protettivi per evitare il contagio. Quattro giorni dopo, ricevette la visita della polizia che lo accusò di diffondere false voci e allarmismo in grado di turbare l’ordine sociale: dovette firmare una lettera in cui riconosceva le sue colpe e prometteva di non replicare i suoi comportamenti, pena l’arresto. In effetti aveva fatto un errore: pensava si trattasse di Sars, non di un nuovissimo coronavirus. Non era l’unico: altre sette persone a Wuhan in quei giorni erano finite sotto torchio con le medesime accuse. A fine gennaio, Li ha avuto il coraggio di pubblicare su Weibo una copia della lettera di forzata autoaccusa e ha spiegato tutto quanto era successo. Nel frattempo, le autorità si erano già scusate con lui. Ma era ormai troppo tardi: la loro priorità era stata prima negare e insabbiare, poi sostenere che il rischio di contagio riguardasse solo persone entrate in contatto con animali. Nulla è stato fatto per varie settimane per proteggere i medici e le stesse linee-guida per la popolazione sono arrivare in grave ritardo. Dopo aver curato una donna affetta da glaucoma poi risultata positiva al virus, fin dall’11 gennaio Li aveva cominciato ad accusare disturbi. Anche i suoi genitori si sono ammalati. Solo il 20 gennaio la Cina ha dichiarato l’emergenza sanitaria. Il 30, con un breve post affiancato da un emoji con un cane, ha informato che le ultime analisi avevano prodotto il risultato più temuto: contagio. Per molti è un eroe e un simbolo. Per le autorità di Wuhan, la testimonianza inequivocabile dei loro fallimenti.
Guido Santevecchi per il “Corriere della Sera” il 2 febbraio 2020. Nelle guerre ci sono eroi veri e presunti, che spesso si scambiano i ruoli. E presunti traditori che invece combattevano la giusta battaglia. È successo anche in questa crisi del coronavirus. «Fog of war», la chiamano gli strateghi militari. Lentezza dei comandi, comunicazioni e ordini sbagliati hanno creato la nebbia, clinica e politica, sul campo di battaglia. Anche l' Organizzazione mondiale della sanità ha pensato molto alla politica, prima di dichiarare l' emergenza. Il primo caso di «malattia polmonare misteriosa» a Wuhan è stato registrato ufficialmente l' 8 dicembre. Altri malati, una decina pare, nel giro di una settimana. E tutti erano passati dal mercato del pesce e della carne selvatica. Ma solo a fine dicembre a Pechino sono stati informati e si sono davvero interessati, o così pare. Il 31 dicembre ha ricevuto la prima comunicazione di problemi sanitari a Wuhan l' Oms di Ginevra. E fino a metà gennaio i malati di «polmonite misteriosa» per Wuhan erano incredibilmente solo 45. Solo ieri, in un giorno solo, hanno perso in altri 45 la battaglia col virus, portando il totale ufficiale dei morti a 259. Le vicende di due medici riassumono questa storia che sarà oggetto di innumerevoli inchieste e studi scientifici. «Siamo soldati che si muovono sul campo di battaglia, ogni tipo di proiettile vola intorno a noi», dice ora il dottor Wang Guangfa, primario di medicina polmonare alla Peking University della capitale. Non lo dice per vantarsi di essere stato al fronte del virus, anche se incautamente lo ha fatto. Wang ammette di aver sbagliato nelle prime previsioni epidemiologiche. Aveva diagnosticato che il virus non si sarebbe diffuso tra persone, ma solo dalla carne infetta del mercato di Wuhan, da quell' animale «serbatoio» ancora non individuato con sicurezza: serpente, pipistrello? Il professor Wang era andato a Wuhan, da Pechino, dopo metà gennaio, e aveva annunciato che il contagio poteva essere «prevenuto e contenuto». La chiusura del brutto mercato di Wuhan sarebbe bastata. Il sindaco lo aveva già fatto fare a inizio gennaio, e furono cancellate anche le «impronte digitali» del virus, la carne dell' animale che ha causato la prima infezione. Poi erano ripresi i grandi preparativi per il Capodanno lunare, anche un grande banchetto per 10 mila famiglie a spese dell' amministrazione locale. Pochi giorni dopo, in piena epidemia, Wang, tornato a Pechino, scoprì di essere stato contagiato anche lui, durante la missione in un ospedale del ground zero dello Hubei. Non aveva preso precauzioni. Superbia dottorale e sfortuna hanno dato al virus più tempo per diffondersi. Wang in un' intervista alla stampa cinese ora dice di aver sottovalutato i primi sintomi, di aver pensato a una comune influenza e di aver ritardato gli esami. Lo hanno ricoverato, giovedì lo hanno dimesso. Salvo e pentito. C' erano medici ospedalieri a Wuhan, che da fine dicembre credevano di aver individuato la «misteriosa polmonite» di cui parlavano le autorità. Avevano lanciato su una chat il dubbio che si trattasse di un ritorno della Sars debellata nel 2003. Il leader del gruppo era il giovane dottor Li Wenliang, specialista di oftalmologia. Che c' entra l' oftalmologia con il virus? Secondo l' allarme di Li, proprio nel suo reparto erano ricoverati in isolamento sette pazienti con sintomi polmonari gravi. Era il 30 dicembre. Uno screenshot del suo post ha cominciato a circolare: la censura cinese è sempre occhiuta e teme le voci vere e presunte (allo stesso modo le prime e le seconde). Le autorità di Wuhan hanno mandato la polizia ad ammonire i «propagatori di voci» e hanno oscurato la loro chat online. Erano otto quei medici. Breve detenzione per interrogatorio, del dottor Li, poi rilascio e processo per chiudere il caso. Nel frattempo anche Li è stato contagiato da un paziente, ma si è già ripreso. E ora è stato vendicato. La Corte suprema del popolo cinese ha detto che non ha «fabbricato notizie». E, in modo ipocrita, nella sentenza si osserva che comunque aveva sbagliato diagnosi perché non era Sars, ma un nuovo coronavirus sconosciuto. Il Global Times , giornale comunista e nazionalista di Pechino, conclude che «in retrospettiva, dovremmo elogiarli altamente, erano stati saggi». La Cina si vanta della sua saggezza millenaria, ma è afflitta dal virus dell' opacità e della burocrazia statale. Terreno di coltura fertile per il virus. E l' imperatore Xi Jinping, sconfitto il «demone virus», dovrà affrontare la realtà che lo circonda e che il sistema del Partito-Stato ha coltivato.
Niccolò Di Francesco per tpi.it il 5 febbraio 2020. La Cina è in piena emergenza a causa della diffusione del Coronavirus, ma il suo presidente, Xi Jinping, sembra essere sparito nel nulla: questo ha dato adito a congetture e dietrologie. Xi Jinping, infatti, non appare in pubblico dal 28 gennaio scorso quando ha incontrato il direttore generale dell’Organizzazione mondiale della Sanità dichiarando di essere “personalmente a capo” delle decisioni prese per contrastare il virus che si è diffuso in Cina dagli inizi di dicembre. Tuttavia, in molti si stanno chiedendo che fine abbia fatto il presidente. L’ultima sua dichiarazione risale alla serata di lunedì 3 febbraio quando i media di Stato hanno letto le sue dichiarazioni al termine della Commissione permanente del Politburo. Le dichiarazioni di Xi Jinping, il quale, per la prima volta, ha ammesso “mancanze e difficoltà emerse nella risposta all’epidemia” aggiungendo anche “questo è un test importante per il sistema cinese e le sue capacità di amministrazione”, non sono state accompagnate da nessuna immagine del presidente nel telegiornale della sera. Un’altra stranezza che ha insospettito i più. Lo scorso fine settimana si era speculato sul fatto che Xi Jinping si trovasse a Wuhan, epicentro del Coronavirus, ma non vi sono state conferme ufficiali in merito. A colpire è soprattutto la mancanza di immagini che ritraggono il presidente della Cina negli ospedali o al fianco dei medici che stanno facendo di tutto per debellare il virus. Secondo alcuni, quella di Xi Jinping è una scelta ponderata: il presidente, infatti, non vuole che la sua immagine venga associata a quella di una delle maggiori crisi che il Paese si è ritrovato ad affrontare. Ma le speculazioni e le congetture sullo stato di salute di Xi Jinping nelle ultime ore si sono moltiplicate.
Il Coronavirus ha ucciso Li Wenliang, il dottore che per primo aveva dato l'allarme (ed era stato «censurato»). Pubblicato giovedì, 06 febbraio 2020 su Corriere.it da Guido Santevecchi. Una pessima notizia dal fronte umano della guerra al coronavirus in Cina. «È morto il dottor Li Wenliang, medico di Wuhan che aveva cercato di dare l’allarme all’inizio dell’epidemia, ma era stato redarguito dalla polizia». Questa #BreakingNews è stata lanciata nella notte (pomeriggio in Italia) dal Global Times, giornale di Pechino controllato dal Quotidiano del Popolo. Il primo caso di «malattia polmonare misteriosa» a Wuhan è stato registrato ufficialmente l’8 dicembre. Altri malati, una decina pare, nel giro di una settimana. E tutti erano passati dal mercato del pesce e della carne selvatica. Ma solo a fine dicembre a Pechino sono stati informati e si sono davvero interessati, o così pare. E fino a metà gennaio i malati di «polmonite misteriosa» per Wuhan erano incredibilmente solo 45. Oggi sono saliti a 563 e più di 28 mila contagiati. C’erano medici ospedalieri a Wuhan che a fine dicembre credevano di aver individuato la «misteriosa polmonite» di cui parlavano le autorità. Avevano lanciato su una chat di giovani dottori che si erano laureati nel 2004 il dubbio che si trattasse di un ritorno della Sars debellata nel 2003. Il leader del gruppo era il dottor Li Wenliang, 34 anni, specialista di oftalmologia. Che c’entra l’oftalmologia con il virus? Secondo l’allarme di Li, proprio nel suo reparto erano ricoverati in isolamento sette pazienti con sintomi polmonari gravi. Era il 30 dicembre. Uno screenshot del suo post ha cominciato a circolare: la censura cinese è sempre occhiuta e teme le voci vere e presunte (allo stesso modo le prime e le seconde). Le autorità di Wuhan hanno mandato la polizia ad ammonire i «propagatori di voci» e hanno oscurato la loro chat online. Erano otto quei medici. Breve detenzione per interrogatorio, del dottor Li, poi rilascio e processo per chiudere il caso. Nel frattempo anche Li è stato contagiato da un paziente. Sembrava che si fosse ripreso e fosse tornato in reparto. Poi altre notizie: si era invece aggravato. Ora l’annuncio della morte. È caduto sul campo. Dopo essere stato vendicato. La Corte suprema del popolo cinese ha detto che non aveva «fabbricato notizie». In modo ipocrita, nella sentenza si leggeva che comunque il dottor Li aveva sbagliato diagnosi perché non era Sars, ma un nuovo coronavirus sconosciuto. Il Global Times, giornale comunista e nazionalista di Pechino, conclude che «in retrospettiva, dovremmo elogiarli altamente, erano stati saggi». La Cina si vanta della sua saggezza millenaria, ma è afflitta dal virus dell’opacità e della burocrazia statale. Terreno di coltura fertile per il virus. E l’imperatore Xi Jinping, sconfitto il «demone virus», dovrà affrontare la realtà che lo circonda e che il sistema del Partito-Stato ha coltivato.
(ANSA il 6 febbraio 2020) - E' morto il medico cinese Li Wenliang, che aveva dato per primo l'allarme sulla diffusione del coronavirus, ma non era stato ascoltato. Lo rendono noto i media locali, spiegando che il medico è morto proprio per il contagio da coronavirus.
Lavinia Greci per ilgiornale.it il 6 febbraio 2020.
L'allarme dell'oculista. La sua storia, qualche settimana fa, aveva fatto il giro del mondo, in quanto il medico era stato tra i primi a parlare della malattia che stava iniziando a diffondersi in Cina. Li Wenliang, un oculista, era convinto che i sintomi riconducessero alla Sars, che nel 2003, sempre nel Paese asiatico, aveva ucciso centinaia di persone, dopo una diffusione altrettanto rapida. Il dottore, il 30 dicembre, aveva pubblicato un post, in una chat tra colleghi, dove diceva ai suoi contatti che a sette pazienti che erano stati nel mercato ittico locale era stata diagnosticata una malattia molto simile alla Sars.
Le accuse e l'arresto. Gli screenshot dei suoi messaggi sarebbero, però, diventati virali senza che il suo nome venisse oscurato. In base a quanto riportato dal quotidiano, le autorità lo avrebbero obbligato al silenzio e la polizia lo accusò di raccontare e diffondere notizie false, arrestandolo con l'accusa (pesante) di procurato allarme. Ma nello stesso giorno, la Commissione sanitaria municipale di Wuhan ha emesso un avviso di emergenza sul virus. Li Wenliang era stato poi scarcerato qualche settimana dopo, quando ormai era evidente che il medico non si fosse sbagliato. Dopo la censura e l'arresto, l'oculista cinese era stato "riabilitato" ed era potuto tornare a esercitare la sua professione all'ospedale centrale di Wuhan.
Il ricovero. A qualche settimana dall'inizio della diffusione del virus, il medico ora si trova tra i pazienti della struttura ospedaliera della città isolata dell'Hubei. Li Wenliang, infatti, sarebbe stato contagiato (probabilmente durante una delle sue visite) e adesso è ricoverato nel reparto di terapia intensiva. In base a quanto riportato dal quotidiano, l'esito della sua diagnosi avrebbe indignato il Paese, dove sta crescendo la convinzione dell'iniziale sottovalutazione delle conseguenze della malattia da pare delle autorità.
Come si è ammalato. Secondo quanto ricostruito, il 10 gennaio, dopo aver trattato un paziente affetto da coronavirus, Li Wenliang avrebbe iniziato a tossire e il giorno seguente avrebbe avuto sintomi di febbre. Due giorni dopo è stato ricoverato in ospedale e, in seguito, le sue condizioni hanno iniziato a peggiorare a tal punto da richiedere il trasferimento nel reparto di terapia intensiva. Il 1° febbraio, infatti, è risultato positivo al virus. Intanto, secondo quanto riportato dal quotidiano, che cita i dati diffusi dalla Commissione sanitaria cinese, il numero di morti continua a salire, con più di 20mila contagi.
Coronavirus, ospedale Wuhan nega morte medico che aveva dato allarme. (LaPresse il 6 febbraio 2020) - L'ospedale di Wuhan, in Cina, nega che Li Wenliang, il medico che per primo aveva cercato di avvertire i colleghi in merito al diffondersi dell'epidemia, sia morto. Lo riporta il South China Morning Post. "Nella lotta contro l'epidemia di polmonite della nuova infezione da coronavirus, l'oftalmologo Li Wenliang del nostro ospedale è stato purtroppo infettato. Attualmente è in condizioni critiche e stiamo facendo del nostro meglio per rianimarlo", riferisce l'ospedale sul suo account Weibo ufficiale. Qualche ora fa alcuni media cinesi, tra cui il Global Times, avevano dato la notizia, ripresa anche dall'Oms, che il medico fosse morto.
Il governo cinese ha aperto un'indagine sul caso del dottor Li Wenliang. Il governo cinese ha deciso di inviare un gruppo d'indagine a Wuhan per far luce sul caso sollevato dai cittadini relativo alla morte del dottor Li Wenliang. Cinitalia, Venerdì 07/02/2020 su Il Giornale. Il 7 febbraio il governo cinese ha deciso di inviare un gruppo d'indagine a Wuhan, nella provincia dell’Hubei, per far luce sul caso relativo al dottor Li Wenliang. Una vicenda, questa, sollevata dai cittadini. Il Dott. Li Wenliang era un oculista che lavorava presso l’ospedale centrale di Wuhan. È rimasto contagiato durante la lotta all’epidemia di polmonite virale causata dal nuovo ceppo di coronavirus. Ogni sforzo per salvarlo è stato inutile. Ha perso la vita la notte del 7 febbraio, all’età di 34 anni. Secondo le notizie pubblicate in rete, l’oculista Li Wenliang, basandosi sulle sue capacità e sensibilità professionali, allo scoppio dell’epidemia aveva lanciato all’estero un'allarme di prevenzione. Purtroppo, in quei giorni, non venne data molta attenzione al suo avviso.
Il governo cinese apre un'indagine. A seguito dell’autorizzazione del Comitato Centrale del Pcc, la Commissione Statale di Supervisione ha deciso di inviare un gruppo d'indagine a Wuhan per far luce sul caso sollevato dai cittadini relativo al dottor Li Wenliang. L'obiettivo è quello di ricostruire i fatti e tracciare le responsabilità, oltre che trarre lezione e apportare quanto prima rettifica. Gli osservatori ritengono che l’invio di un gruppo di così alto livello per l’indagine sul caso di Li Wenliang dimostri la determinazione degli alti gradi della Cina di non tirarsi indietro innanzi alle contraddizioni e ai problemi, e che questo contribuisca anche grandemente ad aumentare la fiducia di tutti settori del Paese nella vittoria finale contro l’epidemia di coronavirus.
La polizia cinese si scusa con la famiglia del medico eroe Li Wenliang. Il Dubbio 19 marzo 2020. Era stato ripreso per aver avvisato i colleghi dei primi casi di Covid-19. È morto per aver contratto il virus il 7 febbraio scorso. Dopo l’ammonimento e la sua “messa al bando”, la polizia di Wuhan si è scusata con il medico-eroe Li Wenliang, che per primo lanciò l’allarme sul coronavirus, morendo in seguito proprio per aver contratto il Covid-19. Li era stato convocato e costretto a firmare un documento col quale si impegnava a non divulgare ulteriori informazioni sulla malattia. Nei suoi confronti e nei confronti di altri sette colleghi, la polizia aveva formulato l’accusa di «diffusione di false informazioni su internet». Ma a seguito dell’indagine di una apposita commissione d’inchiesta, l’Ufficio di pubblica sicurezza della città focolaio ha scritto in una nota che sul caso «ci furono applicazione errata della legge e procedure irregolari». Le scuse arrivano dopo le conclusioni della National Supervisory Commission, secondo cui «l’azione della polizia non fu appropriata». Li aveva inviato un messaggio ai suoi ex compagni di scuola di medicina il 30 dicembre, avvertendo che una manciata di pazienti a Wuhan presentava sintomi simili al virus della sindrome respiratoria acuta grave (Sars) e li esortava a essere cauti. Le schermate del messaggio di Li erano diventate virali online. «Volevo solo ricordare ai miei compagni di classe di stare attenti», ha detto in seguito alla Cnn. «Quando li ho visti circolare online, mi sono reso conto che era fuori dal mio controllo e probabilmente sarei stato punito». Li fu così costretto a firmare una lettera in cui riconosceva che «stava facendo osservazioni false». Il dottore si era recato presso l’ospedale centrale di Wuhan il 12 gennaio, dopo aver rivelato a Weibo che gli era stato diagnosticato il nuovo coronavirus, per poi morire il 7 febbraio. «Durante la lotta contro il nuovo focolaio di coronavirus, Li Wenliang, un oculista del nostro ospedale, è stato infettato – aveva dichiarato l’ospedale centrale di Wuhan poco dopo la sua morte -. Gli sforzi per salvarlo sono stati inefficaci. È morto alle 2.58 del 7 febbraio. Ci rammarichiamo profondamente e piangiamo per la sua morte». La morte di Li ha suscitato indignazione pubblica, spingendo la Commissione centrale cinese per l’ispezione della disciplina a inviare degli investigatori per esaminare «i problemi sollevati in relazione al dottor Li», ha riferito Reuters. Gli investigatori hanno dunque ravvisato che la stazione di polizia di Zhongnan Road ha «impartito istruzioni improprie» e ha seguito procedure di applicazione della legge «irregolari». L’ufficio di pubblica sicurezza della città ha in seguito affermato che il vice capo della stazione di polizia Yang Li aveva ricevuto un demerito e un avvertimento all’ufficiale di polizia Hu Guifeng. Li è stato uno dei numerosi medici detenuti per aver trasmesso informazioni sull’emergenza del coronavirus a Wuhan alla fine di dicembre. Li aveva iniziato a mettere in guardia i colleghi sulla diffusione della malattia in un articolo diffuso su WeChat il 30 dicembre, intitolato «!Sette casi di Sars sono stati confermati nel mercato di frutta e frutti di mare di Huanan”. Li fu così portato alla stazione di polizia di Zhongnan Road, «accompagnato dai suoi colleghi», riporta il rapporto, e lì ha ricevuto un avvertimento scritto. Il rapporto descrive anche in dettaglio come Li fosse stato rimproverato dal suo datore di lavoro del Central Hospital di Wuhan. Dopo la sua morte, tutta la Cina gli ha reso omaggio e ha suscitato l’indignazione di molti intellettuali e accademici che, chiedendo maggiore libertà di parola, hanno sostenuto che la crisi avrebbe potuto essere evitata se Li fosse stato libero di avvertire i suoi colleghi dell’emergere del coronavirus.
Cina, il sospetto sull'Italia: "Coronavirus già a novembre". Siamo l'epicentro dell'epidemia? La tesi distorta. Libero Quotidiano il 22 marzo 2020. “L’Italia potrebbe aver avuto una strana casistica di polmoniti già a novembre e dicembre del 2019 con sintomi altamente sospetti del Covid-19”. Questa news lanciata su Twitter dal Global Times - la versione inglese dell’organo di stampa del Partito comunista cinese - senza fonte né link di rimando, ha lasciato di stucco la stampa internazionale. Perché la Cina ha voluto far intendere che l’Italia è l'epicentro dell’epidemia da coronavirus? È la domanda che tutti si pongono, essendo già stato verificato che il Global Times ha volutamente distorto un’intervista. Quella del professor Giuseppe Remuzzi alla Npr, una popolare emittente statunitense. L’esperto italiano aveva dichiarato di “aver osservato polmoniti molto strane, e molto gravi, soprattutto fra persone anziane già a dicembre e perfino a novembre. Questo vuol dire che il virus circolava, almeno in Lombardia, prima che fossimo a conoscenza della crisi”. In altri termini, il professor Remuzzi ha sostenuto che in Italia il Covid-19 abbia iniziato a circolare prima che la Cina ne ammettesse l’esistenza ed è quindi una tesi molto diversa da quella distorta dal Global Times.
Coronavirus, in Cina 21 milioni di utenze telefoniche in meno: la prova del fatto che hanno insabbiato? Libero Quotidiano il 23 marzo 2020. L'Italia che supera la Cina in termini di contagi? Forse no. Il dubbio che Pechino menta è venuto anche a The Epoch Times, testata newyorchese fondata da un gruppo di cinesi associati ai Falun Gong e vicini all’amministrazione di Donald Trump. L’analisi pubblicata fa uso delle utenze telefoniche. In un paese come quello cinese, tutto si fa attraverso i cellulari: dai biglietti dei treni alle pensioni. “Il regime cinese richiede a tutti i cinesi di utilizzare il proprio cellulare per generare un codice sanitario. Solo con un codice sanitario verde è permesso ai cinesi di spostarsi in Cina ora. È impossibile per una persona cancellare il suo cellulare”, ha spiegato il commentatore Tang Jingyuan. E qui subentra il problema: le autorità di Pechino il 19 marzo hanno dichiarato che il numero di utenze di telefoni cellulari cinesi è diminuito di 21 milioni negli ultimi tre mesi. Questi sono infatti passati da oltre 1,60 miliardi a meno di 1,58. In diminuzione anche il numero di utenze fisse: da 190,83 milioni a 189,99, in calo di 840.000 unità. Qualcosa dunque non torna, a maggior ragione se si osservano le statistiche di un anno prima: a febbraio 2019 sia le utenze fisse che quelle mobili erano in aumento (le prime di 6,6 milioni, le seconde di 24,37). Questo - sottolinea l'analisi - non va di pari passo con il calo demografico. Niente affatto visto che la popolazione è aumentata nel 2019 di 4,67 milioni rispetto all’anno precedente superando 1,4 miliardi, Per The Epoch Times c'è solo una spiegazione: il bilancio di Pechino appare “significativamente sottostimato”. E questa potrebbe essere una prova.
Da “Libero quotidiano” il 7 febbraio 2020. La scure del Partito comunista cinese si abbatte sui funzionari locali colpevoli «di gravi lacune» e «di gestione insoddisfacente» della crisi del coronavirus: secondo i media locali, sono oltre 400 i funzionari di diverso livello a essere stati sanzionati a vario titolo. Le misure sono state adottate a seguito delle indicazioni emerse dalla riunione del 25 gennaio del Comitato permanente del Politburo, con a capo il presidente Xi Jinping. Ieri Xi Jinping ha parlato di «guerra di popolo» contro il morbo: «L'intero Paese ha risposto con tutta la sua forza per rispondere con le più complessive e rigide misure di prevenzione e controllo, intraprendendo una guerra di popolo per la prevenzione e il controllo dell' epidemia». Intanto l'emergenza coronavirus ha reso particolarmente popolare in Cina un videogame che simula la diffusione di virus letali. Si chiama Plague Inc., è stato creato ormai otto anni fa, ma solo negli ultimi due mesi ha raggiunto il suo record di download, arrivando a essere l' app a pagamento più scaricata per iPhone. Il gioco consiste nel tentare di infettare il mondo intero con un virus letale. I giocatori devono essere in grado di creare il proprio virus, modificarlo per renderlo quanto più resistente e letale possibile, diffonderlo e diffondere con esso anche notizie false per screditare gli scienziati che cercano un vaccino, o una cura.
Riccardo Ruggeri per “la Verità” l'1 febbraio 2020. L' Anno del topo è iniziato male. I cinesi associano il topo all' aggressione, alla guerra, all' occulto, e pure (udite! udite!), alla peste. L' ultimo anno del topo fu il 2008, quello della grande crisi. Dopo 12 anni siamo sempre lì, fra il lusco e il brusco. Mi chiedo: questa volta sarà il pettine ad arrivare ai nodi? Ci mancava solo il terzo coronavirus, sempre asiatico, di questi ultimi 30 anni. Ogni volta lo stesso errore dei gerarchi cinesi: nascondere la verità. Questa volta hanno taciuto per almeno un mese. C' è un' intervista di Ilaria Capua, tre minuti tre, e si capisce tutto. Siano gli scienziati a gestire le pandemie, sia vere che presunte, e i politici implementino le loro decisioni. A Natale un episodio micro. Un amico, ormai quasi cinese, mi racconta che a Wuhan all' inizio di dicembre si aveva la sensazione di qualcosa di strano. Sensazione, appunto, ma il pensiero (suo) non poteva che correre al 2002, alla Sars (severe acute respiratory syndrome). L' amico mi diceva: non temo il contagio, ma la burocrazia del Pcc. Le epidemie in Cina, stante il modello in essere, fanno più paura, perché queste sono classificate segreto di Stato. Aveva ragione. Noi della Cina di Xi Jinping non sappiamo nulla, peggio, non vogliamo sapere nulla. Pensiamo che la Cina sia quella che ci fanno vedere. Ma quella è una nazione di 200-300 milioni di persone, tutti delle classi alte, super grattaceli, super treni, super calciatori (finiti), tutto super. Del miliardo di poveracci nulla sappiamo e nulla vogliamo sapere. Poi, siamo condizionati dal terrore di perdere un fatturato diventato via via «strategico». Osservate Angela Merkel come si è auto soggiogata a Xi Jinping, per difendere il suo fatturato virus. Eppure, basterebbe analizzare i suoi «fondamentali» per capire cos' è la Cina: un normale Paese canaglia, dominato da una feroce dittatura burocratico digitale. Anche quando le dittature erano analogiche queste si basavano su un assunto: i sudditi devono tacere, sempre e comunque, e il potere mentire, sempre e comunque. Probabilmente anche l' Organizzazione mondiale della sanità ha subito il fascino perverso di Xi Jinping, definendo il rischio «moderato» per cinque volte (a maggioranza), e solo alla sesta «elevato», con poi le classiche scuse riparatrici. Dove la stampa non è libera, i media scrivono ciò che il comitato centrale del Pcc permette loro di pubblicare. L' amico di Wuhan aveva avuto buon naso, ma ha dovuto attendere il 25 gennaio per la conferma da parte di Xi Jinping, l' unico autorizzato a pensare e a parlare. E allora decisioni drastiche, quarantene fantozziane, per ricuperare credibilità internazionale. Ho colto una chicca, immagino sfuggita alla censura: le code al pronto soccorso sono tali che medici e infermieri sono stati dotati di un «catetere di Stato» per non perdere tempo (neppure il fordismo alla Charlot era arrivato a tanto). La tecnica comunicazionale dei burocrati del Pcc segue quella classica: la menzogna. Tutti ci siamo eccitati perché faranno un ospedale in dieci giorni. Quanti di noi si sono domandati: perché? Eppure puzza di marketing politico lontano un miglio. Se ci fosse un sistema sanitario congruo, visto che stiamo parlando di un' area industrializzata con 60 milioni di abitanti (come l' Italia), trovare un migliaio di posti letto sarebbe gioco da ragazzi. Se invece non l' avessero, allora sì che gli ospedali bisognerebbe farli, ma saremmo in pieno Terzo mondo. Nelle pandemie vere o presunte, gestite da burocrati, il maggior numero di vittime non le fa il virus ma il mix segretezza isteria che trasforma un problema, a volte banale, in una catastrofe, prima comunicazionale, poi, forse, sanitaria di massa. E alla fine il regime che farà per mondarsi? Lo ha detto ieri il solito Xi Jinping: punirà i colpevoli, qualche mini gerarca periferico. Mi sono permesso una battuta tweet: «E se il "corona" fosse uno "spread", mascherato da virus?». Se Xi Jinping fosse stato in difficoltà, per una caduta strutturale del Pil, la presunta pandemia potrebbe essere una giustificazione da cavalcare. Vero? Falso? Nella città proibita nessuno vi ha accesso. E allora, molto più prosaicamente, chiudo dichiarando che mi fido della Federal reserve. Dopo l' accordo Xi Jinping-Donald Trump, favorevole all' America, Fr ha preso una decisione coraggiosa: non tocca i tassi e mantiene un moderato ottimismo, scontando il coronavirus. Grazie America.
Coronavirus: studio pubblicato negli Usa contraddice resoconti iniziali governo cinese. Pubblicato venerdì, 31 gennaio 2020 da Corriere.it. Il nuovo ceppo di coronavirus diffusosi da Wuhan, nella Cina centrale, si stava propagando da persona a persona già all’inizio del mese di dicembre dello scorso anno, settimane prima che il governo cinese desse conferma di tale circostanza. È quanto afferma un’équipe di ricercatori cinesi, in uno studio sulla pubblicazione specializzata «New England Journal of Medicine.» Lo studio analizza i dati relativi ai primi 425 casi confermati di contagio a Wuhan, epicentro dell’epidemia. «Sulla base di queste informazioni, ci sono prove che la trasmissione (del virus) tra esseri umani si è verificata tra individui a stretto contato sin da metà dicembre 2019». Lo studio sottolinea che sette operatori sanitari a Wuhan hanno contratto il virus tra l’1 e l’11 gennaio di quest’anno, una prova lampante della trasmissibilità diretta del virus. I contenuti dello studio contrastano nettamente con i resoconti delle autorità sanitarie di Wuhan, secondo cui sino a metà gennaio non esisteva «alcuna evidenza» del rischio di contagio tra individui. È salito frattanto a 213 il bilancio delle vittime dell’infezione da coronavirus in Cina. Sono invece 9.692 i casi confermati di nuova polmonite da coronavirus in tutto il Paese. Sedici nuovi casi di infezione sono stati confermati a Shanghai il 30 gennaio, portando il numero totale di infezioni a 128 in città, con 5 soggetti dimessi dagli ospedali, 5 in condizioni critiche e 1 morto; 164 casi sospetti sono sotto controllo. La provincia di Hubei ha riferito 1.220 nuovi casi, 42 decessi e 26 casi di recupero del nuovo ceppo di coronavirus, dati aggiornati al 30 gennaio. Nel frattempo, l’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) ieri ha affermato che il nuovo focolaio di polmonite da coronavirus è diventato un’emergenza sanitaria pubblica di interesse internazionale (Was).
Coronavirus, Giorgia Meloni contro Cina e governo italiano: "Cosa ancora non sappiamo". Rischio sottovalutato? Libero Quotidiano il 31 Gennaio 2020. "Enormi responsabilità" sulla psicosi Coronavirus. Punta il dito sul governo cinese, Giorgia Meloni, ma non tralascia i "passaggi a vuoto" delle istituzioni italiane. "Io penso che ci sia un alto tasso di apprensione tra i cittadini. E penso che quel tasso di apprensione sia figlio del fatto che manca l'informazione - spiega la leader di Fratelli d'Italia -. Ci sono, a mio avviso, enormi responsabilità da parte del governo cinese, da parte delle organizzazioni internazionali, per cui nessuno ha informazioni o pare avere informazioni chiare su quello di cui stiamo parlando". "Noi non sappiamo se è una semplice influenza particolarmente forte oppure se stiamo parlando di altro. Non sappiamo qual è il tasso di contagio, non sappiamo quale è l'eventuale tasso di mortalità. Cioè noi - riprende - non sappiamo di cosa stiamo parlando. Allora ovviamente non avere informazione può anche aver portato il governo a sottovalutare i rischi. Però per me la prima cosa che va fatta oggi è che il governo deve chiedere a chi di dovere di avere informazioni certe e deve poi trasferire quelle informazioni certe ai cittadini così ovviamente ciascuno potrà fare il suo lavoro, compresi noi che potremmo valutare, intanto, quale sia stata la risposta del governo e offrire la nostra disponibilità per affrontare questa situazione".
Coronavirus, Maria Giovanna Maglie a Stasera Italia: "Mi fido poco del regime cinese. Perché hanno taciuto?" Libero Quotidiano il 31 Gennaio 2020. Si parla dell'allarme coronavirus nello studio di Barbara Palombelli a Stasera Italia, su Rete 4, e Maria Giovanna Maglie attacca il governo di Pechino: "Io mi fido poco dei silenzi e dei ritardi che arrivano da un regime come quello cinese, perché non c'è dubbio che avrebbe fatto molta differenza dire le cose a Natale (quando era possibile farlo) sulla diffusione del virus e hanno scelto di tacere". Per esempio, conclude la giornalista, "i due cinesi ricoverati allo Spallanzani a Roma, che fortunatamente non sono in pericolo di vita, sono arrivati il 23 gennaio. Insomma se bloccare i voli, come personalmente ritengo, forse è una misura eccessiva, i controlli però potevano cominciare prima".
Coronavirus, il direttore dell’ospedale di Wuhan denuncia ritardi, errori e mancanze della sanità cinese. Pubblicato sabato, 08 febbraio 2020 su Corriere.it da Sandro Orlando. Il decorso del coronavirus è di tre settimane, ma è nella seconda che si decide la vita o la morte del paziente: se il suo sistemo immunitario riuscirà a reagire, o il numero di linfociti continuerà a diminuire, portando al tracollo di organi vitali come polmoni e reni. E in questo caso la morte avverrà molto probabilmente per insufficienza respiratoria, ovvero soffocamento. È drammatica la testimonianza di Peng Zhiyong, il direttore della stazione intensiva del South Central Hospital dell’Università di Wuhan, che in una lunga intervista al settimanale Caixin denuncia tra le righe anche il fallimento del sistema sanitario cinese di fronte all’emergenza in corso. Il dottor Peng è stato il primo a predire che ci sarebbe stata una trasmissione da persona a persona, decidendo di adottare delle misure di quarantena. Era lo scorso 6 gennaio, il primo malato con i sintomi del virus era apparso al Pronto soccorso, e lui aveva dato disposizione di far isolare 16 dei 66 letti della stazione intensiva, in modo che non potesse esserci neanche una circolazione d’aria. Il 10 gennaio tutti i letti erano già occupati e qualcuno cominciava a criticare queste misure di precauzione, giudicandole eccessive. Ancora nelle due settimane seguenti il Comitato sanitario della città di Wuhan avrebbe preteso che il test diagnostico fosse effettuato solo su chi aveva la febbre, e fosse entrato in contatto con il mercato del pesce sospettato di essere il focolaio dell’infezione. 18 gennaio gli specialisti della Commissione sanitaria nazionale venivano a Wuhan per ispezionare l’ospedale. «Ho spiegato loro che i criteri di ricovero erano troppo alti, stavamo disperdendo le infezioni, aumentando il rischio di contagi: se lasciavamo andare i pazienti, mettevamo in pericolo la collettività», ricorda Peng. Il suo appello fu inutile, visto che solo alla successiva ispezione, quando ormai l’epidemia era conclamata, i criteri di ospedalizzazione vennero cambiati. Il direttore racconta di aver pianto ogni volta che era costretto a respingere malati che imploravano di essere ricoverati. E di aver pianto anche dopo che una paziente incinta era morta per l’interruzione delle cure: dopo una settimana in cui era sembrata riprendersi, il marito aveva finito i soldi – la terapia gli era costata quasi 30 mila dollari, presi a prestito da parenti e amici – e si era arreso. E solo il giorno dopo la sua morte, il governo di Pechino annunciò la gratuità delle cure. «Ma ora ho finito le lacrime — dice Peng — Non ho altri pensieri che fare del mio meglio per salvare più vite possibili». Dall’inizio di gennaio nessuno nel suo ospedale si è preso più un giorno di riposo, nemmeno chi ha una gravidanza in corso: con turni di 12 ore durante le quali i medici e infermieri non possono mangiare, bere o andare in bagno, perché altrimenti bisognerebbe cambiarsi le tute di protezione, e non ce ne sono abbastanza. Peng racconta che nei primi 138 casi di contagio accertati, 57 hanno contratto l’infezione proprio in ospedale, e 40 facevano parte del personale medico. In un altro ospedale di Wuhan si è scoperto addirittura che i due terzi dei medici e infermieri della stazione intensiva erano già infetti: perché nessuno adottava protezioni, sapendo che sarebbe stato contagiato comunque per la mancanza di tute e mascherine. Quando un paziente non respira — aggiunge ancora il dottore —, bisogna intubarlo con l’ossigeno: ed è allora che diventa alto il rischio di contagio, perché vomita e sputa. Il dottor Peng però conferma che il tasso di mortalità è contenuto nell’ordine del 3-4%, cioè ai livelli di un’influenza. Per la maggior parte dei contagiati la malattia è finita dopo due settimane. «È più facile contenere l’infezione se la si tratta in una fase precoce — conclude —. Una volta che raggiunge uno stadio acuto diventa tutto più difficile».
Si sarebbe potuto bloccare il Coronavirus? Federico Giuliani su Inside Over 01/02/2020. La Cina ha davvero fatto tutto il possibile per contenere l’epidemia del nuovo coronavirus? Pechino ha realmente agito con i tempi giusti e nel miglior modo possibile? Le due domande restano senza risposta. Certo, l’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) ha spezzato una lancia in favore del Dragone, elogiando le misure d’emergenza attuate da Xi Jinping. Questo, per il governo cinese, ha lo stesso valore di una medaglia. “La Cina – ha dichiarato il direttore generale dell’Oms, Tedros Adhanom Ghebreyesum – ha condiviso subito la sequenza genetica del nuovo coronavirus 2019-nCoV sia con l’Oms che con altri Paesi, adottando una serie di efficaci misure per contenere la diffusione del contagio. L’Oms spera di rafforzare la cooperazione con la Cina ed è disposta a fornire a Pechino tutto l’aiuto necessario per contenere l’epidemia”. Risultato: circa 56 milioni di persone in quarantena (tutti i residenti di Wuhan, la città infetta dal quale è partita l’epidemia, e l’intera provincia dello Hubei), motore economico del Paese bloccato e voli sospesi. Eppure i contagi non si sono fermati. Anzi: sono aumentati giorno dopo giorno, in tutte le province e municipalità cinesi così come all’estero. Per quale motivo? Come sottolinea Repubblica, c’è un grande vuoto nella storia del coronavirus.
Dieci giorni di fuoco. A fine dicembre iniziano a circolare le prime notizie sospette. Una malattia misteriosa, simile a una polmonite, da qualche settimana sta infettando i cittadini di Wuhan. I numeri aumentano quotidianamente, fino a quando le autorità non sono costrette a scendere in campo. I contagi non si fermano e ci sono i primi morti. Il 10 gennaio, circa un mese dopo il primo caso, gli scienziati di Pechino dicono di aver isolato il nuovo coronavirus e condiviso il suo profilo genetico con l’Oms. Tutti si congratulano con la Cina: questa volta non sarebbe andata come nel 2002-2003, quando i funzionari del Partito comunista cinese (Pcc) si trincerarono dietro un silenzio di tomba contribuendo ad aggravare la situazione. Vana speranza: le mascherine vanno a ruba in tutto il Paese, la gente si blinda in casa e le attività chiudono i battenti. I medici non possono parlare: è un ordine che viene dall’alto e va rispettato. La versione del partito è la seguente: mantenete la calma perché il virus non si trasmette da uomo a uomo. Vengono arrestate otto persone accusate di diffondere in rete notizie false sull’epidemia.
Un ritardo inspiegabile. Passano i giorni e aumentano i pazienti infetti ma la versione del governo non cambia. La Commissione sanitaria di Wuhan smette perfino di dare aggiornamenti sul contagio perché la burocrazia impone determinati passaggi. Ogni test va confermato a Pechino (cioè al governo centrale), e per farlo occorrono cinque giorni: un “buco” enorme e inspiegabile data la situazione sanitaria. Dal 12 al 17 gennaio i gli alti papaveri del partito sono in città perché in quel periodo, a Wuhan, si tengono le sessioni annuali dell’assemblea cittadina e provinciale. I media non danno spazio alla notizia del virus, che viene surclassato dalle note politiche. Non scattano misure preventive. Quel che è più sconcertante è che non vengono neppure annullati gli eventi politici in programma, tra cui un banchetto per 40mila persone sponsorizzato dal sindaco Zhou Xianwang. Le autorità distribuiscono anche biglietti omaggio per i monumenti. Sembra che non ci sia alcun allarme epidemia e i medici continuano a visitare senza protezioni. Circa cinque milioni di persone lasciano Wuhan per festeggiare il Capodanno cinese insieme ai loro cari. Nessuno viene controllato. Domenica 19 gennaio riprendono i dati sui contagiati; forse perché ormai non ci si può più nascondere. La crisi vera e propria viene sdoganata solo il 20 gennaio. Il sindaco Zhou dichiara che non poteva fare altrimenti. Solo Pechino poteva dichiarare l’emergenza sanitaria, ma lo ha fatto dieci giorni dopo le prime avvisaglie. Quando forse l’epidemia poteva essere ancora arginata.
Coronavirus, panico a Roma: a gennaio 2.000 cinesi atterrati direttamente da Wuhan. Libero Quotidiano l'1 Febbraio 2020. Panico Coronavirus a Roma: a gennaio, riporta Il Tempo, "sono sbarcati all'aeroporto Leonardo da Vinci di Fiumicino circa duemila cittadini cinesi provenienti direttamente da Wuhan, la metropoli di 11 milioni di persone in cui si è sviluppato e da cui si è diffuso il virus". Ovviamente, non c'è alcuna correlazione diretta tra provenienza geografica e contagio, ma al di là della psicosi l'allerta deve essere massima. Il rischio è che al di là dello "stato d'emergenza" decretato dal governo italiano nel pomeriggio di venerdì, la decisione di bloccare i voli da e per la Cina sia arrivata troppo tardi, visto che nell'ultimo mese, anche a emergenza conclamata in Cina, sono decollati "tre aerei a settimana con destinazione Roma, unico scalo italiano a prevedere voli diretti con Wuhan", sottolinea il quotidiano romano diretto da Franco Bechis. Ora il blocco aereo potrebbe protrarsi fino al 29 aprile. Per gli ultimi atterrati è scattata la procedura di sicurezza: "misurazione della temperatura corporea e richiesta di compilazione del modulo con i dati sulla residenza ed eventuali spostamenti per poterli tracciare in caso di contagio", conclude ancora il Tempo, sottolineando come "nessuno, tra questi mille, presenterebbe sintomi del Coronavirus".
Coronavirus: aumenta il numero di persone guarite in Cina. Debora Faravelli il 31/01/2020 su Notizie.it. Sono decine i casi di persone guarite dal Coronavirus in Cina: presenti anche casi nella provincia adiacente a quella di Wuhan. Stando ai dati che arrivano dalla Cina ci sono già diverse persone guarite dal Coronavirus e il trend è in aumento. Dopo un iniziale isolamento, costoro hanno potuto lasciare gli ospedali in cui si trovavano ricoverati.
Persone guarite dal Coronavirus. Nella provincia orientale cinese dello Jiangxi sono in totale sette i pazienti guariti e dimessi: quattro negli ultimi giorni di gennaio 2020 e tre verificatisi in precedenza. Stando ad un esperto in materia, Zhang Wei, le guarigioni sono dovute alla rilevazione tempestiva dell’infezione e alla rapidità del trattamento con cui è stata curata. Anche nella provincia sudoccidentale cinese del Sichuan c’è stato un caso di paziente guarito dalla polmonite da Coronavirus. L’amministrazione per la medicina tradizionale cinese di quest’area ne ha specificato i dettagli. Si tratta di Yang, un uomo di 34 anni che l’11 gennaio era stato posto in stato isolamento in un ospedale della città di Chengdu. Le analisi condotte su di lui hanno rivelato che fosse affetto dal virus n-CoV e pertanto ha ricevuto sia cure di medicina tradizionale cinese che di medicina occidentale. Dopo diversi giorni l’ha debellato ed è riuscito a tornare a casa. Un’altra dimissione ha avuto luogo nella provincia centrale di Hunan, poco lontana da quella di Hubei, epicentro dell’epidemia. Ad essere guarita è stata una paziente di 57 anni. Anche a Pechino un medico che aveva contratto il Coronavirus dopo essersi recato a Wuhan è guarito e ha potuto lasciare l’ospedale. Prima di lui altri la capitale aveva visto altri quattro pazienti essere ricoverati, guariti e infine dimessi. Contestualmente aumenta anche il numero di decessi. Tenendo conto della sola provincia in cui si torva Wuhan sono 204, pari al 3,51% dei contagi. A questi si aggiungono poi gli altri 9 avvenuti in altre zone della Cina.
La Cina punisce il professor Zhang che ha scoperto la sequenza del virus. Pubblicato sabato, 29 febbraio 2020 su Corriere.it da Alessandra Muglia. La Cina ha chiuso il laboratorio di Shangai che per primo ha isolato e messo a punto la sequenza del genoma del nuovo coronavirus. Il laboratorio del Centro di salute pubblica dove lavoravano i ricercatori coordinati dal professor Zhang Yongzhen è stato chiuso per una non meglio precisata «rettifica» il 12 gennaio scorso, all’indomani della pubblicazione online della loro scoperta: strano modo di «premiare» una divulgazione che ha aiutato la messa a punto di kit diagnostici da parte di diverse società nel mondo. La chiusura del laboratorio, disposta dalla Commissione per la salute di Shangai, pare sia dovuta al fatto che il laboratorio ha pubblicato i dati prima di essere autorizzato, ricostruisce il South China Morning Post. I ricercatori sarebbero stati «puniti» per aver agito in modo unilaterale. Poco importa che non abbiano aspettato il via libera da Pechino, per non perdere tempo prezioso. Zhang e la sua squadra avrebbe insomma interferito con i tempi lunghi della politica, in un primo tempo restia a creare allarme intorno al virus. Il suo laboratorio aveva riferito dell’esito delle sue ricerche alle autorità alla Commissione di salute nazionale il giorno stesso in cui erano state conseguite: il 5 gennaio, precisa il giornale di Hong Kong. Nell’informativa il professore raccomandava anche «misure di controllo e prevenzione del virus» da adottare subito nei luoghi pubblici. Questo due giorni prima dell’annuncio ufficiale di Pechino sul legame tra i misteriosi casi di polmonite di Wuhan e un nuovo coronavirus, quando ancora il contagio da uomo a uomo era messo in discussione. I ricercatori di Zhang, non ricevendo alcun riscontro dalle autorità, sei giorni dopo, l’11 gennaio, dieci hanno divulgato su alcune piattaforme scientifiche online i loro risultati. La direttiva di Xi con le misure per arginare la diffusione dell’epidemia arriverà soltanto il 20 gennaio. Ora che l’emergenza è globale e che la Cina ha superato il picco dei contagi, il professor Zhang e i suoi speravano di poter tornare al lavoro. Invece no. «Hanno inviato quattro richieste di permesso per riaprire il laboratorio, tutte rimaste senza risposta — riporta il giornale di Hong Kong citando una fonte vicina ai ricercatori —. La chiusura ha avuto un grande impatto sugli scienziati e le loro ricerche proprio nel momento in cui dovrebbe esserci una corsa contro il tempo per trovare dei rimedi contro il virus».
Brunella Bolloli per “Libero quotidiano” il 30 gennaio 2020. Oliviero Diliberto in questi giorni è impegnato a Roma, ma non vede l' ora di tornare a Wuhan. «Città infinitamente più pulita della nostra Capitale», mette subito in chiaro. Nella metropoli della Cina centrale da cui è partito il mortale Coronavirus, l' ex ministro della Giustizia è di casa da anni perché le sue competenze in campo giuridico ed accademico sono tali che, diradata l'attività politica, il segretario del fu Partito dei Comunisti italiani è tornato a insegnare Diritto Romano e ha trovato proprio a Wuhan tanti giovani cinesi desiderosi di apprendere da lui. Da preside della Facoltà di Giurisprudenza alla Sapienza, il compagno Oliviero è stato anche designato a capo dell' istituto universitario italo-cinese di Wuhan inaugurato dopo la visita a Roma del presidente Xi Jinping in occasione dell' adesione italiana alla Nuova Via della seta, un' iniziativa nata al fine di cementare la cooperazione tra i due Paesi in campo culturale e scientifico, e per Diliberto, da sempre fan del Dragone, quasi una seconda vita. Ecco perché adesso soffre di non poter andare presto dai suoi studenti. «Manco da novembre e sarei dovuto tornare ai primi di febbraio, ma non mi fanno partire», dice mentre si prepara a fare gli onori di casa, stasera, al convegno "La Sapienza chiede scusa. Leggi razziali, la scuola e l' accademia: riflessioni e testimonianze", in cui interverrà, tra gli altri, la senatrice a vita Liliana Segre.
La prima domanda sorge spontanea: ha imparato il cinese o tiene le lezioni in inglese?
«No, alla mia età sarebbe stato troppo faticoso. Se fosse stato trent' anni fa mi sarei messo di sicuro a studiare il cinese. Sono orgoglioso di affermare che gli studenti laggiù hanno imparato l' italiano. E del resto alcuni termini del Diritto sono in latino, non potrei non citare il Corpus Iuris Civilis di Giustiniano, ad esempio. Ci sono libri di testo in cinese con traduzione in latino».
Dove insegna?
«Sono Chair Professor della prestigiosa Zhongnan University of Economics and Law (Zuel), che è una delle prime 6 università di tutta la Cina, un vero centro di eccellenza. E all' istituto italo-cinese di Wuhan è attivo il primo corso di laurea magistrale della Sapienza in Cina in European Studies, Private comparative Law, in pratica Diritto Privato».
Ci parli di Wuhan.
«È una città giovane, vivace, interessante. Su 11 milioni di abitanti, un milione sono ragazzi che arrivano anche da lontano per frequentare i corsi in una delle 200 università della metropoli. È attraversata dal Fiume Azzurro e bagnata da 80 laghi. Proprio davanti al campus della mia università c' è lo stadio dove si allena la squadra di calcio della città, il Wuhan Zall, il cui allenatore è stato Ciro Ferrara. C' è fermento».
La descrive frizzante e piena di vita, mentre le immagini che vediamo sono di una città fantasma.
«Per forza: è isolata. Le università sono chiuse, le lezioni sospese, i locali sbarrati, le attività ferme. C' è una comprensibile paura per un possibile contagio di questo Coronavirus, ma credo che tutte le ipotesi fantasiose che ho letto in questi giorni lascino il tempo che trovano. Bisogna prima aspettare le indagini accurate di chi ha isolato il virus per avere un' idea chiara e prendere le contromisure».
All'inizio si è parlato di un primo caso di contagio trasmesso al mercato del pesce, poi smentito. Quindi dei serpenti a tavola...
«E perfino del visone, quello delle pellicce, responsabile della trasmissione dell' infezione all' uomo. Ma, senta, io mi sono vissuto anche tutta l' emergenza Sars perché è da vent' anni che vado su e giù dall' Italia alla Cina e le posso dire che il cibo cinese è buono, molto diverso da quello che si mangia nei ristoranti cinesi qui; criminalizzare le usanze di questo popolo è sbagliato e il livello d' igiene a Wuhan è altissimo».
È sicuro? Non tutti sono d' accordo. C' è la famosa usanza dei cinesi di sputare spesso per terra...
«Vivo a Wuhan una settimana ogni tre mesi e posso mettere la mano sul fuoco in quanto al grado di pulizia della città. Che supera di gran lunga quello di Roma dove, qui sì, gli animali fanno ormai parte del contesto urbano. Ci sono topi, gabbiani, cinghiali, maiali: tutta una fauna che pascola perché i rifiuti non vengono raccolti e ne va della salute».
Lo dica alla Raggi.
«La situazione è drammatica, sotto gli occhi di tutti, altro che Cina. A Wuhan l' occupazione è la prima cosa per cui ogni cento metri per strada c' è un signore che raccoglie la carta per terra. In Cina tutti devono avere un lavoro e non esisterebbe un disastro pari a quello della Roma di oggi».
Eppure, il momento è tragico: tante multinazionali hanno chiuso gli stabilimenti, i voli sono interrotti, l' economia rischia. Cosa dicono i suoi amici cinesi?
«Sono in costante contatto con tanti colleghi e amici da Pechino a Wuhan. Soprattutto conosco bene i cinesi: sono di un' efficienza estrema, hanno costruito in sei giorni un ospedale da mille posti, stanno prendendo tutte le misure necessarie per fronteggiare l' emergenza. Sono certo che sapranno risollevarsi più forti di prima».
Ha sentito la storia del Coronavirus creato in laboratorio per scopi militari in una presunta guerra batteriologica contro gli Stati Uniti?
«Scemenze. Non esistono laboratori a Wuhan di armi chimiche. Ripeto: siamo già passati attraverso la Sars e i complottisti parlano sempre, dicono perfino che la terra è piatta, ma sulla salute non si scherza».
Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” il 31 gennaio 2020. Ho molta simpatia per i cinesi. Sono lavoratori indefessi, studiosi accaniti, dotati di una volontà di ferro. Forse per questo non sono vittime di razzismo, vivono appartati nei loro quartieri, si fanno gli affari propri, non disturbano. Mi domando perché gli africani, in linea di massima, non vengano accolti con tanta cordialità nel nostro Paese. E una risposta c' è. Non ho mai visto un giallo bighellonare per strada e chiedere l'elemosina. Dalle mie parti, nei dintorni di Bergamo, fino a qualche anno fa c'era un bar, sembrava un cimitero che, a un certo punto, fu ceduto a una famiglia di pechinesi. All'improvviso, quel locale in procinto di fallire si rianimò. Oggi non chiude mai nemmeno durante le feste raccomandate. È più frequentato del caffè della stazione. Vende tabacchi, giornali, pasticcini, bottiglie di vino pregiato. Insomma smercia di tutto con una gentilezza orientale, non con le maniere brusche tipicamente orobiche. È un esercizio modello, che immagino vada a gonfie vele. Sempre pieno di gente soddisfatta. La sua operosità fa riflettere sul contributo che i cinesi danno alla economia italiana a volte asfittica. Racconto un altro episodio di cui sono stato protagonista. Tempo fa ero direttore del quotidiano Indipendente. Il mio amico Giorgio Forattini mi telefonò e mi disse: «Conosco una ragazza cinese che studia all'università di Bologna e vorrebbe guadagnare qualche soldo per mantenersi. Tu puoi aiutarla?». Risposi: «Scusa, ma come? Avere una cinese in redazione è come avere un rinoceronte in casa. Non vedo quale ruolo sarebbe utile affidarle se non quello della donna delle pulizie». Replica di Forattini: «A me interessa che tu la riceva per dimostrare che mi sono occupato di lei, poi fa ciò che ti pare». La ricevetti. Era una ragazza bella e alta, indossava abiti tradizionali della sua terra, parlava perfettamente la nostra lingua. Non sapendo bene che proporle, le chiesi: scrivimi un pezzo sulla scuola primaria della tua patria, di cui noi non sappiamo niente. La signorina, che aveva il nome più corto del mondo, I, non si scompose. Si ritirò nella stanza dei collaboratori, riuscendone con tre fogli dattilografati che mi porse con un sorriso. Lessi il testo e rimasi sconcertato: erano vergati da Dio, non un errore, prosa limpida. Mentre l'assunsi pensai: hanno vinto loro, i cinesi, sono più intelligenti di noi. Non sbagliavo. Rimase con me un biennio, svolgendo la professione in maniera impeccabile. Quando la portavo con me in un ristorante alla moda di corso Venezia, a Milano, il chiacchiericcio dei commensali, che ci osservavano mentre attraversavamo la sala in cerca del tavolo, si sospendeva. Non si udiva più nemmeno il tintinnio dei bicchieri. I clienti zittivano e guardavano I che con incedere elegante mi seguiva. Era pure molto bella, benché con un fisico morfologicamente diverso da quello delle nostre donne. Al termine degli studi accademici, ella tornò in Oriente, precisamente a Hong Kong, dove le fu offerto il posto di caporedattore della maggiore televisione locale. Mi telefonò un paio di volte per salutarmi, poi persi ogni contatto. Ho narrato questa storia stupefacente per giustificare il fatto che non sono meravigliato del successo che conseguono le persone dagli occhi a mandorla nel mondo intero. Immagino che la piaga del virus Corona sarà presto sanata, sebbene certe notizie che giungono dal Sol Levante siano inquietanti: si afferma che la popolazione si nutra di insetti e animali vivi, ingurgitati senza precauzioni. Tale pratica mi fa orrore, ma non dimentico che nelle valli bergamasche fino al 1970 i miei conterranei si nutrivano di rane e di piccoli volatili, nonché di anguille. Ignoro le cause del diffondersi del morbo che sta terrorizzando milioni di uomini e donne, ma quand' anche esistesse l' abitudine di divorare povere bestie, non avremmo diritto di deplorare i cinesi. Cinesi siamo stati pure noi, nel nostro piccolo.
DAGONEWS il 30 gennaio 2020. Il mondo occidentale è rimasto a bocca aperta quando ha scoperto che si può costruire un ospedale in pochi giorni. Una folle corsa contro il tempo che stupisce noi, ma non i cinesi avvezzi a tuffarsi in imprese architettoniche in pochi giorni. Ma queste strutture sono sicure? Come è possibile erigere ospedali in pochi giorni? Da Wuhan i droni ci hanno mostrato il balletto di bulldozer che scavavano per costruire le fondamenta e una sfilata di camion che trasportavano cavi d'acciaio, cemento, prefabbricati e generatori di corrente mentre centinaia di operai lavoravano duramente per rispettare la scadenza: l'ospedale di Huoshenshan, che è stato inaugurato il 24 gennaio, sarà operativo il 3 febbraio e avrà 1.000 posti letto. Progetto ambizioso anche per l'ospedale Leishenshan, una struttura di 1.300 posti letto la cui apertura è prevista due giorni dopo. Il ritmo di costruzione a Wuhan fa sorgere diverse domande: come possono i cinesi comprimere radicalmente le tempistiche? Un edificio – soprattutto un ospedale - richiede solitamente diversi anni per essere eretto. Una struttura costruita rapidamente può davvero essere sicura? Scott Rawlings, un architetto per HOK, chiarisce che ciò che i cinesi stanno costruendo non è una tipica struttura medica, ma piuttosto un "centro di triage per la gestione delle infezioni di massa". «Esiterei a fare riferimento all'ospedale che è stato eretto a Wuhan come un ospedale permanente, e certamente non è una struttura completa – dice Rawlings a Quartz - Quando progettiamo un ospedale ne prevediamo l’uso 75 anni». Rawlings, che sta attualmente lavorando a un nuovo ospedale da 500 posti letto a Chengdu e in due ospedali a Hong Kong, spiega che per un tipico progetto ospedaliero, si trascorre molto tempo a consultare pazienti, il personale medico, gli amministratori sanitari e la comunità per assicurarsi che sia funzionale. Senza tempo per confrontarsi, i funzionari di Wuhan stanno replicando il progetto dell'ospedale Xiaotangshan, una struttura da 1.000 posti letto nella periferia di Pechino, costruita in una settimana durante l'epidemia di SARS nel 2003.
Ospedali pre-fab: sicuri ma non sempre sostenibili. L'uso di unità prefabbricate è la chiave per accelerare i tempi di costruzione degli ospedali di Wuhan. Le sale completamente assemblate e fabbricate in fabbrica vengono trasportate sul posto e semplicemente assemblate. «Questa tecnica di costruzione è completamente sicura - assicura Thorsten Helbig, ingegnere edile e co-fondatore della società di ingegneria tedesca Knippers Helbig - Puoi sicuramente rendere strutturalmente solidi gli edifici prefabbricati. Le unità sono assemblate in fabbrica, i progettisti e i costruttori possono risolvere eventuali problemi e assicurarsi che tutti i moduli funzionino prima ancora che vengano consegnati». Oggi anche catene alberghiere come Citizen M e Marriott incorporano parti prefabbricate nelle loro strutture. Le costruzioni modulari sono utilizzate già in diverse parti del mondo, ma la storia della Cina è puntellata da epidemie di massa che li hanno preparati ad affrontare questi progetti. A questo si aggiungono le minori restrizioni burocratiche, la mancanza di sindacati, il costante afflusso di manodopera a basso costo proveniente dalle città di provincia e la disponibilità di materiali da costruzione. Ma questo non significa necessariamente che gli standard di costruzione della Cina siano meno sicuri rispetto a quelli occidentali. Helbig, che ha lavorato a diversi importanti progetti infrastrutturali in Cina, tra cui l'aeroporto Shenzhen Bao’an e un resort Disney a Shanghai, afferma di aver scoperto che la sicurezza è una priorità in Cina: «Non fanno più cose folli. Valutano più accuratamente. Sento che negli ultimi 10-15 anni c'è stato un cambiamento di atteggiamento». A questo si aggiunge anche la voglia dei cinesi di sperimentare e aprirsi a nuove tecnologie. Tuttavia questi edifici hanno dei problemi visto che non sono sempre sostenibili. «I loro ospedali soddisfano gli standard in materia di integrità strutturale, ma forse non nel consumo energia - spiega Helbig - Non riescono a essere ottimizzati. L'ospedale Xiaotangshan di Pechino è stato abbandonato dopo l'epidemia di SARS». La difficoltà di adattare una struttura così specializzata a qualsiasi altro uso rende gli ospedali in gran parte inutili dopo l'emergenza.
Rinaldo Frignani per il “Corriere della Sera” il 10 febbraio 2020. A Wuhan, nella provincia di Hubei e più in generale in Cina, non ci sono mai stati. Almeno negli ultimi mesi. Ma in tre su quattro hanno contratto il coronavirus, forse quando hanno fatto scalo a Hong Kong, e i sintomi del contagio si sono manifestati a fine gennaio durante una vacanza in Italia. Solo che allora nessuno se n'è accorto e adesso si corre all' indietro nel tempo per scongiurare qualsiasi rischio contagio. Intanto madre e padre cinquantenni di Taiwan, con uno dei due figli, un 20enne, paziente asintomatico ma con una forte carica di virus, sono ricoverati in isolamento in un ospedale di Taipei, capitale dell' isola indipendente davanti alla Cina, dove i casi sospetti sono 1.400. La donna è grave. Risparmiato l' altro figlio. A tempo di record - dopo la rivelazione della presenza in Italia dei turisti infettati, da parte del ministro della Sanità locale Chen Shih-Chung nella giornata di venerdì scorso - la task force della Protezione civile che si occupa proprio di incrociare i dati per ricostruire gli spostamenti di persone a rischio contagio ha scoperto quando, come, dove e con chi la famiglia ha girato per l'Italia. In particolare fra Lazio e Toscana, e poi di nuovo nel Lazio. Anche se non si esclude una puntata, in treno, a Venezia. Dagli accertamenti - svolti in collaborazione con le Regioni interessate - è emerso che i taiwanesi hanno viaggiato in aereo, da Taipei a Hong Kong nella giornata del 22 gennaio, poi sono arrivati a Fiumicino. Risulta che, dopo un soggiorno nella Capitale, hanno ancora preso il treno per raggiungere Firenze dove sono rimasti per quattro giorni, dal 26 al 29, visitando musei e centri commerciali, nonché le vie dello shopping, mangiando in ristoranti del centro. Due giornate le hanno dedicate a visitare Pisa e Siena, la prima in treno, la seconda in pullman. Non hanno dormito lì perché sono tornati sempre nel capoluogo toscano, dove alloggiavano in un hotel a cinque stelle. A Roma, dove madre e padre avevano già tosse e febbre, si sarebbero invece spostati negli ultimi giorni di permanenza in Italia, utilizzando un'auto a noleggio con conducente. L'autista - così come il personale degli alberghi, di negozi e ristoranti, individuati con le ricevute delle carte di credito, e in certi casi anche con l' analisi della videosorveglianza - è stato rintracciato e sottoposto ai test ai quali è risultato negativo. Lo stesso è successo per i passeggeri che sedevano sui treni attorno alla famiglia di turisti. Quelli di due file avanti e indietro, nonché quelli laterali. Così come, e questa notizia è stata confermata ieri dal ministero della Sanità di Taiwan, i compagni di viaggio in aereo, all' andata, mentre quelli sul volo di ritorno a Taipei del 31 gennaio (con arrivo primo febbraio) devono ancora essere identificati. «Nel caso non fossero taiwanesi - spiegano le autorità di quel Paese - saranno subito informate le nazioni competenti». Fin da venerdì un fitto scambio di messaggi Taipei-Roma aveva allertato l' Italia su quello che era successo qui da noi una settimana prima. C' è ottimismo, soprattutto alla luce del fatto che dall' arrivo della famiglia infettata alla partenza sono trascorsi dai 9 ai 10 giorni, che l' incubazione è di 14 giorni e che finora non c' è stato alcun aumento dei contagi nel nostro Paese. Tanto che per il direttore del Dipartimento di malattie infettive dell' Istituto superiore di sanità Gianni Rezza la storia dei taiwanesi «non sembra destare particolare allarme: i tempi del soggiorno non corrispondono. Però è bene essere sempre attenti e rintracciare eventuali contatti nei luoghi dove hanno soggiornato». «Siamo abbastanza tranquilli perché sta per scadere il periodo dei 14 giorni da quando sono passati per Toscana e per Lazio», conferma il ministero della Salute, mentre il direttore scientifico dell' Istituto Spallanzani Giuseppe Ippolito sottolinea: «Non abbiamo casi acquisiti sul territorio nazionale. I tempi della coppia ci fanno ben sperare ma i controlli verranno ugualmente effettuati».
Da ilmessaggero.it il 9 febbraio 2020. In un video pubblicato dal “DailyMail” si vedono persone portate a forza fuori da casa a Wuhan e rinchiuse in campi di quarantena da agenti in tute antisettiche, come anche una donna trascinata per i piedi fuori da un supermercato perché sorpresa senza mascherina protettiva e messa in isolamento.
Cecilia Attanasio Ghezzi per “la Stampa” l'8 febbraio 2020. «C'è stato un suicidio ieri. Si dice che era un paziente "diagnosticato" non ammesso in ospedale perché non c' era posto. Aveva paura di contagiare sua moglie e suo figlio se fosse tornato a casa". È una delle testimonianze che il disegnatore satirico Badiucao, originario di Shanghai, emigrato in Australia da 10 anni raccoglie nei suoi «Diari di Wuhan».
Come è nata questa idea?
«Quando Wuhan è stata messa in quarantena ho associato le persone alle informazioni: anche queste non avrebbero più circolato liberamente. Ho proposto in rete una piattaforma che raccogliesse le voci degli abitanti di Wuhan. Le persone hanno cominciato a scrivermi in privato e a inoltrarmi brani delle chat di famiglia. Raccolgo tutto ciò che scompare dal web cinese, ovviamente lo pubblico in forma anonima».
Perché proprio lei?
«Faccio da ponte tra la Cina continentale e il resto del mondo. Ho il vantaggio di risiedere all' estero e avere molti seguaci sui social. Inoltre il mio nome è già noto al governo cinese: quest' attività non mi metterà più in pericolo di quanto non lo sia già».
Come è la situazione?
«Chi vive nelle città in quarantena, vive nella paura. Non sa cosa sta succedendo né se si sente al sicuro. C' è carenza di tutto, soprattutto di medicinali, mascherine e guanti protettivi. Anche le verdure scarseggiano. Non è solo il virus che spaventa, è come se tutto potesse scomparire da un momento all' altro senza preavviso».
Le raccontano anche di decessi e contagi non inseriti nelle statistiche?
«È proprio questo il punto. Il mondo intero deve prendere decisioni su come affrontare il coronavirus e l'unico strumento che ha sono i numeri forniti dal governo cinese. Ma siccome non ci sono abbastanza test diagnostici, dottori e posti letto tutto ciò che sappiamo si basa su dati incompleti. Non c'è modo di capire qual è la situazione né come potrebbe evolvere».
Il governo non sta facendo il possibile per fermare l' epidemia?
«Innanzitutto ci sono diverse prove che il governo fosse a conoscenza della situazione almeno una settimana prima di quando ha deciso di chiudere la città di Wuhan. Per il ritardo si è data la colpa al governo locale, ma l' emergenza è diventata immediatamente nazionale e poi globale».
Crede che la quarantena sia un modo per coprire le insufficienze del sistema sanitario cinese?
«È la prima volta che la Cina mette in atto misure di questo genere. Oggi la prima preoccupazione è la salute pubblica, ma sappiamo tutti che isolare intere regioni della Cina avrà un enorme impatto sull' economia. Se la situazione non fosse veramente grave, il governo non si sarebbe infilato in questo vicolo cieco».
Cosa pensa degli episodi di discriminazione che sembrano diffondersi più velocemente del virus?
«Il problema è più complesso e non coinvolge solo il mondo occidentale. Ad Hong Kong e Taiwan si comportano allo stesso modo, il che è imbarazzante per chi come me è sempre stato in prima linea a difendere la libertà di quei Paesi. Confondono il virus con gli esseri umani, e i semplici cittadini con il loro governo. Che poi, in assenza di un sistema democratico, non ce lo siamo neanche scelto il governo, noi»
Ma episodi simili si verificano anche in Cina...
«Sì, le persone della regione di Wuhan sono messe all' indice senza ragione. La gente è nel panico e nei singoli si attiva un istinto barbaro che li porta a denunciare anche il proprio vicino di casa. È come durante la Rivoluzione culturale: siccome non so chi è il mio nemico, è meglio se colpisco per primo».
Coronavirus, l'infettivologo: “Italia non a rischio, sono altre le nostre emergenze sanitarie”. Alessandro Barcella su Le Iene News il 06 febbraio 2020. Tra livelli di mortalità e rischi reali, Matteo Bassetti, presidente della Società di terapia anti-infettiva, ridimensiona l’allarme coronavirus: “Abbiamo molte altre emergenze infettive, la colpa è degli italiani”. Iene.it sta seguendo fin dall’inizio tutte le notizie sul virus cinese che finora ha provocato oltre 560 morti “Le mascherine date in dotazione ai vigili urbani? Buone per il Carnevale: qui si prende in giro la gente!”. Una battuta amara, quella di Matteo Bassetti, Direttore della clinica malattie infettive del Policlinico San Martino di Genova e presidente della Società italiana di terapia anti-infettiva. Intervistato da Iene.it, l’infettivologo vuole restituire la giusta dimensione all’emergenza da coronavirus cinese, che da giorni sconvolge l’intero pianeta. Mentre le ultimissime notizie parlano di un possibile contagio tra i 56 italiani appena tornati da Wuhan, di cui vi abbiamo parlato raccogliendo la testimonianza di Paolo, uno di loro. Matteo Bassetti però sposta con decisione il focus dell’emergenza dal virus cinese: “Mi pare evidente che stiamo esagerando. Credo che quello che è successo in Italia non sia successo in nessun altro paese del mondo al di fuori della Cina: un’infezione che sta a diecimila chilometri di distanza è considerata un’emergenza nazionale, posta addirittura sotto il controllo della Protezione Civile. Il coronavirus in questo momento, evidentemente, è un’emergenza per la provincia cinese dell’Hubei, dove si registra il 95% dei decessi. Facciamo però alcuni conti. Ai 25mila casi accertati a oggi, bisogna aggiungerne almeno altri 75mila, che sono i casi lievi, le persone magari rimaste isolate nella propria abitazione, i casi non visitati negli ospedali. Arriveremo dunque a circa 100mila casi accertati di coronavirus. Ebbene, una mortalità di 450-500 casi, a oggi, significa un tasso di morte attorno allo 0,5%. Se lo paragoniamo a quello della Sars e del coronavirus dei cammelli, il Mers CoV, vediamo che la Sars aveva una mortalità al 10% e l’altra epidemia addirittura al 35%”. Dati che sembrano restituire le dimensioni di un fenomeno anche quando paragoniamo il coronavirus cinese alla classica influenza stagionale. “La forbice di mortalità dell’influenza stagionale va dallo 0,1 allo 0,5%, con punte dell’1% in zone in cui si registrano situazioni di inadeguatezza del sistema sanitario. In una stagione influenzale come quella di quest’anno, in cui abbiamo avuto 4 milioni di casi di influenza, i morti si contano a decine di migliaia! Fuori dalla Cina quanti casi ci sono stati di coronavirus? L’Oms ieri sera diceva 150. E quanti morti nei paesi altamente sviluppati come il nostro? Zero. È evidente che questo virus è decisamente meno aggressivo di Sars e Mers CoV. Che noi infettivologi parliamo di questo virus e ne leggiamo sulle riviste è normale, ma che tutti in Italia , tutti i giorni, ne parlino, mi sembra francamente esagerato. Ripeto: è un problema per il 99,9% esclusivamente cinese. La probabilità di essere contagiati oggi dal coronavirus in Italia? È vicina allo zero! Ci saranno magari sicuramente altri casi sporadici, ma come ha detto anche lo Spallanzani, credo che il peggio sia passato”. Ma allora quali sono le vere emergenze italiane? Matteo Bassetti non ha dubbi:” Abbiamo tanti problemi in Italia dal punto di vista infettivo. Siamo un paese in cui l’esitazione vaccinale ha portato a dover fare una legge, la legge Lorenzin, che obbliga a vaccinare i bambini. Siamo un paese in cui per l’influenza si vaccina un italiano su 5 e, nelle categorie a rischio per cui il vaccino è somministrato gratuitamente, il 50%. Siamo al primo posto in Europa per i batteri resistenti, fondamentalmente secondi solo a Romania e Grecia, perché usiamo male gli antibiotici. Abbiamo tante epidemie in corso tra cui il morbillo nel Salento e il meningococco in Lombardia. Davvero il problema più grande in Italia è il coronavirus? Si sta parlando da giorni di due signori cinesi ricoverati per il coronavirus, ma vogliamo ricordare quanti italiani in questo momento sono ricoverati nelle terapie intensive per polmoniti batteriche, fungine, virali o infezioni, pazienti con bronchite cronica, con fibrosi cistica? Questi sono i problemi: si parla solo di coronavirus, ma gli altri malati chi li cura nel frattempo?”. La critica, ci tiene a sottolineare l’infettivologo, non è alla politica ma agli italiani. “Gli stessi che oggi vanno a comprare le mascherine, si chiudono in casa e non vanno nei ristoranti cinesi sono quelli che poi non si vaccinano, sono gli stessi che prendono gli antibiotici quando non dovrebbero prenderli o che non vaccinano i bambini per l’influenza. Il nostro, su questo argomento, è un paese profondamente immaturo”. Alla fine, una stoccata al sensazionalismo che è seguito all’annuncio della scoperta dello Spallanzani, che ha isolato il nuovo coronavirus: “C’è un documento datato 17 gennaio che attesta che ricercatori cinesi e anche di vari paesi europei avevano pubblicato le regole per poter isolare il virus. L’annuncio dello Spallanzani mi è sembrato un po’ trionfalistico: era una cosa già stata fatta, non abbiamo scoperto niente di nuovo! Hanno lavorato sicuramente bene, ma non si può dire che siano stati i primi”. Iene.it continua a seguire in tempo reale l'evolversi dell'emergenza coronavirus, che dalla Cina si sta diffondendo nel resto del mondo. Al momento si contano 565 morti, 1363 ricoverati e oltre 28.300 contagiati.
Nella prima puntata della nostra inchiesta abbiamo raccolto la testimonianza da Pechino di Nicoletta e Francesca, mamma e figlia trevigiane che da 20 anni vivono nella capitale cinese. “La zona di Sanlitun, il distretto dei ristoranti di lusso, degli uffici e della vita notturna, è incredibilmente deserta. I marciapiedi e i lunghi viali di solito trafficatissimi sono vuoti: la città è spettrale. Le pochissime persone che si incrociano per strada indossano tutte le mascherine di protezione. Le farmacie di Pechino e i negozi hanno terminato le scorte di disinfettanti”, racconta mamma Nicoletta.
Nella seconda puntata della nostra inchiesta, abbiamo mostrato gli incredibili dati di un rapporto, l'indice di sicurezza sanitaria globale 2019, che risponde a questa delicatissima domanda: l'Italia è davvero in grado di affrontare l'epidemia da coronavirus? E quello che emerge dal rapporto è sconsolante : il nostro punteggio complessivo è di 56,2 punti e ci colloca diciottesimi in Europa (su 28 membri) e 31esimi nel mondo (su un totale di 195 paesi monitorati).
Nella terza puntata abbiamo appunto mostrato l'appello di Paolo, uno degli italiani bloccati a Wuhan, la cui situazione è appena sbloccata con il ritorno in patria (ritorno che vi abbiamo mostrato poi in questo altro video).
Nella quarta puntata abbiamo raccontato tutte le notizie false e le assurdità che stanno circolando in rete in questo momento di grande panico per la diffusione del coronavirus: dalla polizia di Wuhan che "spara a chi tenta di scappare" a Bill Gates, fino alle “montagne di cadaveri nascoste negli ospedali cinesi” e all'esperimento “sfuggito di mano”. Tra tutte queste teorie complottiste è anche comparso un audio delirante su WhatsApp.
Dopo avervi raccontato dell’allarme hacker lanciato da una società specializzata nella sicurezza informatica, abbiamo poi raccolto l’appello della Caritas di Hong Kong, “Ci servono le mascherine, vi prego, aiutateci a combattere il coronavirus!”. La situazione nella metropoli cinese è drammatica: mascherine introvabili nelle farmacie, rubate, vendute al mercato nero, dove chi specula triplica i prezzi. Mentre tantissime persone prive di mascherina sono costrette a rimanere chiuse in casa. A parlarci della situazione è Cherry Lee Tai Ying, membro della Caritas Youth and Community di Hong Kong. Iene.it rivolge un appello a chi ci segue: aiutiamo i cittadini di Hong Kong a dotarsi delle necessarie mascherine per evitare il contagio dal coronavirus? Come fare? Acquistando le mascherine modello EN14683, dotati di livello ASTM 2 o 3 e spedendole poi a questo indirizzo: Caritas Jockey club Integrated Service for Young People Tuen Mun. 1/F, Siu Hei Shopping Centre, Siu Hei Court, Tuen Mun, N.T., Hong Kong. Il risk manager Vincenzo Puro dell’Istituto nazionale per le Malattie Infettive "L. Spallanzani" (quello dove sono ricoverati i due primi casi di contagio da coronavirus in Italia, due turisti cinesi che oggi si sono aggravati) ci ha confermato l’efficacia di queste mascherine: “Questo modello di dispositivi è in grado di proteggere le persone, è una ‘barriera’ sia per la persona contagiata che per quella a rischio di contagio. Bisogna inoltre cambiare la mascherina ogni 8 ore. Nei posti con altissimi livelli di umidità va cambiata più spesso”. Abbiamo infine raccontato il ritorno a casa di Andrea Rinaldi, un ragazzo siciliano che viveva a Shanghai da nove anni e che ha documentato per iene.it il suo viaggio dalla metropoli cinese a Catania, un viaggio tra paura di amici e parenti e nessun controllo negli aeroporti. E poi il suo sfogo: “Non sono malato, ma sono costretto a nascondermi”.
Il sacrificio della Cina per debellare il virus. Federico Giuliani su Inside Over l'8 febbraio 2020. La battaglia della Cina contro il nuovo coronavirus prosegue senza interruzione alcuna. Pechino, in risposta a un contagio sempre più massiccio – gli ultimi bollettini parlano di oltre 31mila contagiati, di cui 4.800 in gravi condizioni, e 636 morti – ha stretto le maglie della quarantena nella “zona rossa”, l’area da cui è partita la diffusione del 2019-n-Cov. Wuhan, epicentro del disastro sanitario nazionale (anzi: quasi globale), prima dell’apocalisse era una megalopoli attiva, contava 11 milioni di abitanti ed era un hub logistico chiave nella mappatura dei trasporti cinesi. Già, perché il capoluogo della provincia dello Hubei era situato proprio in mezzo all’incrocio di due importantissime direttrici autostradali: sulla nord-sud, la “città infetta” è a metà strada della tratta che collega la capitale Pechino a Hong Kong, mentre sulla tratta est-ovest è in mezzo alla Shanghai-Chengdu. Il centro della città è poi attraversato dal Fiume Azzurro, il più grande fiume dell’Asia che – nei disegni del Partito Comunista cinese – aveva il compito di collegare l’entroterra cinese alla ricca fascia costiera del Paese. Ma adesso che Wuhan è diventata un buco nero, ogni direttrice, ogni collegamento e ogni via di transito è sbarrata. E lo resterà per chissà quanto tempo.
Hubei “sacrificato” per il bene del Paese. È il sacrificio che la Cina ha scelto di pagare per contenere il coronavirus. Bloomberg ha usato un titolo forte ma chiaro per sottolineare cosa sta accadendo nell’ex Impero di Mezzo: “La Cina sacrifica una provincia per salvare il mondo dal coronavirus”. Il pezzo in questione si riferisce ovviamente alla provincia dello Hubei, dove si è fin qui registrato circa il 97% dei decessi in seguito al contagio del 2019-n-Cov. Il blocco totale di una zona enorme, comprendente quasi 60 milioni di persone, è stata una misura drastica ma probabilmente necessaria. Possiamo discutere giorni se il governo cinese si sia mosso in tempo o meno, ma è indubbio che la scelta di Pechino – mettere in quarantena una provincia che si estende per 185.900 chilometri quadrati, più della metà dell’Italia – risulti radicale quanto emblematica della gravità della situazione. Dall’inferno dello Hubei arrivano testimonianze scioccanti, scene di caos e disperazione. Ci sono ragazzi, febbricitanti, che cercano aiuto negli affollatissimi ospedali per i loro cari, ma che non sono abbastanza forti per restare in fila ore e ore. Ci sono persone anziane più volte respinte dai medici e poi morte da sole, in casa, senza l’aiuto di nessuno. E ci sono medici che, a causa dell’incessante lavoro, riescono a dormire poche ore a settimana. È questo il costo umano della scelta cinese. L’instaurazione della quarantena più grande del mondo è stato l’ultimo tentativo per cercare di contenere la diffusione del virus nel resto del Paese e nel mondo. Missione quasi riuscita, ma a un prezzo enorme.
Il male minore. Lo Hubei, rinomato per le sue fabbriche automobilistiche e per vivacità del suo capoluogo, Wuhan, è letteralmente “fuori servizio” dallo scorso 23 gennaio. Mentre questa zona rossa affonda sempre di più negli inferi, il resto della Cina respira. I numeri parlano chiaro: il tasso di mortalità per pazienti infetti da coronavirus, qui, ammonta al 3,1%. Una cifra enorme se paragonata allo 0,16% misurato nel resto della nazione. Yang Gonghuan, ex vicedirettore del China’s Center for Disease Control and Prevention, ha così spiegato quanto accaduto, riferendosi allo Hubei: “Se la provincia non fosse stata sigillata, alcune persone sarebbero andate in tutto il Paese per cercare assistenza medica e avrebbero trasformato l’intera nazione in un’area colpita dall’epidemia. La quarantena ha causato molte difficoltà a Hubei e Wuhan, ma è stata la cosa giusta da fare”. Wuhan è una città di secondo livello, una dicitura, questa, utilizzata in Cina per indicare quei centri urbani relativamente sviluppati ma ancora al di sotto delle principali metropoli del Paese, come Shanghai, Pechino e Guangzhou (soprattutto per quanto concerne le risorse economiche). “È come combattere una guerra – ha aggiunto il signor Yang – Alcune cose sono difficili ma devono essere fatte”. Resta da capire se l’enorme sacrificio cinese basterà per frenare il contagio del virus 2019-n-Cov.
Mauro Evangelisti per “il Messaggero” l'8 febbraio 2020. Ci sono ancora centinaia di italiani, tra i 500 e i 600, bloccati in Cina (fuori dalla zona chiusa della provincia di Hubei) che non possono tornare in Italia perché i collegamenti aerei sono stati sospesi. Si stanno organizzando voli speciali gestiti dalle compagnie cinesi che poi riportano a casa anche i loro connazionali fermi in Italia, ma c'è ancora molto caos, difficoltà a fare circolare le informazioni, problemi per chi si trovava in città secondarie, lontano da Pechino e Shanghai. A questo si aggiunge l'incognita della quarantena allargata per i nostri connazionali una volta arrivati in Italia. «Si continuerà a lavorare per implementare le misure già attivate nelle ultime settimane». In questa frase del comunicato ufficiale diffuso al termine del vertice della task force istituita dal Ministero della Salute sul coronavirus c'è il segnale di cosa potrebbe succedere nei prossimi giorni se il livello dell'allarme dovesse salire. Ciò che è certo è che alle altre istituzioni sul territorio è stato chiesto di individuare, nel caso dovessero servire, strutture in cui portare persone in quarantena. Attenzione: non significa che serviranno, ma comunque viene applicato un principio di cautela, visto che ad esempio i nove che torneranno domani dalla provincia di Hubei saranno portati all'ospedale militare del Celio. Alle 21 di ieri sera i dati parlavano di 638 morti e 31.530 contagiati. Tra i pazienti infetti, ve ne sono già oltre 300 fuori dalla Cina, di cui 29 in Europa o nel Regno Unito. In Germania e Francia ci sono stati casi di trasmissione del virus avvenuto all'interno dei rispettivi paesi. Questo è lo scenario e fino ad oggi l'Italia, tra tutti i paesi dell'Europa, è quello che ha applicato le misure più severe, bloccando i voli dalla Cina (le altre nazioni del continente non lo hanno fatto). Sullo stop ai voli improvviso che ha causato anche effetti collaterali perché ha impedito agli italiani di tornare e ai turisti cinesi di andarsene, ieri c'è stato un nuovo scontro a distanza. Il console generale della Repubblica popolare cinese, Song Xuefeng, a Milano: «Facciamo un appello forte perché i voli e i collegamenti diretti da e per la Cina tornino a essere effettuati per risolvere la situazione che vede molti turisti cinesi bloccati qui e per recuperare la collaborazione fra i due Paesi. L'epidemia sarà sicuramente sconfitta».
VOLI NON RIATTIVATI. Ma il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, ha confermato: i voli per la Cina non saranno riattivati. Ci sono sì dei voli speciali e c'è caos tra gli italiani bloccati in Cina, ma la linea è quella che prima bisogna alzare una diga, poi si interviene per risolvere i casi specifici. Di Maio: «Il blocco dei voli è una misura presa per affrontare l'emergenza nell'immediato e finché le autorità sanitarie ci diranno che è opportuna continueremo a tenerla in atto. L'Italia ha dichiarato lo stato d'emergenza, privilegiando la massima sicurezza dei nostri cittadini». Bene, ma con i voli bloccati, come si possono accentuare le misure di sicurezza? Già oggi in tutti gli aeroporti italiani sono stati installati i termo scanner, che misurano la febbre ai passeggeri. In questo modo, si spera di intercettare chi arriva in Italia partendo dalla Cina con voli in connessione. Il terreno è scivoloso: nel Regno Unito si parla di un britannico contagiato non dopo un viaggio in Cina, ma a Singapore. Altro fronte da valutare (e per ora escluso): prevedere la quarantena in automatico per chi è stato in Cina negli ultimi 14 giorni (non solo dunque nella provincia di Hubei), a prescindere dalle condizioni di salute. Già oggi la comunità cinese si auto-gestisce e isola chi torna in Italia. Qualsiasi misura dipenderà dall'evolversi del contagio, bisognerà capire se la Cina riuscirà ad arginare la diffusione del virus. Ma a Singapore, ad esempio, dove l'allarme è stato innalzato a livello arancione sono stati registrati tre casi di persone contagiate che non hanno mai viaggiato in Cina, né hanno avuto contatti conosciuti con persone infettate.
Coronavirus, l'odissea di un manduriano: «Bloccato a Pechino con moglie e figlia». L'appello dell'uomo: impossibile prendere un aereo per tornare a casa. Nando Perrone il 02 Febbraio 2020 su La Gazzetta del Mezzogiorno. «Siamo bloccati a Pechino: i voli diretti sono cancellati e quelli con scali in altri Paesi sono stati presi d’assalto da cittadini cinesi che intendono lasciare la loro nazione. Ieri sono stato contattato dalla Farnesina. Spero nel loro aiuto per rientrare in Italia». Gianluigi Perrone, di Manduria, vive a Pechino dal 2012. Ha una figlia (Isabella Luna) di appena tre mesi. Lavora nel mondo del cinema e, da qualche anno, anche nella realtà virtuale. A Pechino ha fondato la sua compagnia (la “Polyhedron VR Studio”), ma lavora in tutta l’Asia, incluse India e Nord Corea. «Pechino si trova al Nord, quindi è molto distante da Wuhan» racconta Gianluigi raggiunto attraverso i social. «Ma la distanza è ininfluente ai fini della sicurezza poiché è il crocevia di molta gente».
Quando e come hai appreso della diffusione del virus?
«A lavoro: di punto in bianco mi hanno portato una mascherina, poco prima del Capodanno cinese. Qui non se ne parlava e comunque il fatto che ci siano infezioni non è poi una cosa così straordinaria nelle news cinesi. Ho capito che era un po’ più seria quando una compagnia per cui lavoro ha comunicato che le vacanze si espandevano fino a metà febbraio. Bisogna cercare di evitare di essere etnocentrici e ragionare con la mentalità cinese, che dà priorità all’apparenza del proprio operato. Ecco perché costruiscono un ospedale inutile in tempo record quando è troppo tardi. Ecco perché blindano la città coi militari. Non sanno che fare, ma fanno vedere che si impegnano».
Nella tua città sono stati registrati molti contagi?
«No. Ufficialmente si registrano 132 contagi e un morto. Però conto di capire la vera entità dopo il rientro dalle vacanze del Capodanno cinese, poiché ci sarà un elevato travaso di persone che tornano dall’esodo festivo».
Dopo quanto tempo le autorità cinesi hanno fornito indicazioni alla popolazione sul contagio?
«Potrei rispondere tempestivamente, visto che presto le mascherine e i dispenser per disinfettarsi le mani sono comparsi subito in giro. Tuttavia ci sono degli indizi sospetti sul fatto che l’informazione girasse già da molto prima. Per prima cosa io avevo un lavoro durante il Capodanno Cinese che è stato cancellato improvvisamente. Inoltre c’è un altro aspetto che mi fa riflettere. La Russia, che ha rapporti stretti con la Cina e moltissimi expat che vivono qui, stranamente non ha avuto casi di Coronavirus. Mi dicono che per motivi misteriosi le comunicazioni via terra tra Cina e Russia erano già state bloccate a dicembre. Questa è una notizia inedita e abbastanza eclatante».
Quando pensi di rientrare in Italia?
«Ho una bambina di 3 mesi e quando abbiamo intuito che avrebbero presto chiuso completamente il traffico aereo, abbiamo deciso di rientrare. La bambina ha già il passaporto italiano, ma la madre no. quindi abbiamo fatto il visto per ricongiungimento familiare che l’Ambasciata italiana ci ha rilasciato in un giorno. È stato però impossibile prendere un volo per rientrare. Il volo con scalo negli Emirati Arabi è stato bloccato poco prima del decollo. Il blocco è risultato un calvario per noi e soprattutto per la piccola Isabella Luna che, a soli tre mesi, deve affrontare tutto questo stress per il suo primo volo in Italia. Ora siamo stati contattati dalla Farnesina. Speriamo che si trovi presto una soluzione».
La Cina cambia (in barba all’Oms) i criteri di classificazione e i casi di coronavirus calano per incanto: ci si può fidare del Dragone? Mauro Bottarelli il 10 febbraio 2020 su it.businessinsider.com. In tempi di pandemia globale, le bufale e le leggende metropolitane trovano terreno fertile. Così come il panico, spesso immotivato. Affidarsi alla scienza, di fatto, rimane l’unico vaccino efficace contro la paura. E proprio per questo, quando un virologo come Roberto Burioni, intervendo a Che tempo che fa, dichiara in maniera netta che “i dati che arrivano dalla Cina possono essere molto poco affidabili e i casi potrebbero essere molti di più”, un campanello d’allarme suona. E a buon diritto. Soprattutto perché il medesimo Burioni, prima di partecipare alla trasmissione di Fabio Fazio, aveva ritwittato sul suo profilo la denuncia del professor Neil Ferguson, definendola fonte autorevole e commentando con un laconico “speriamo non abbia ragione”. Su cosa? “I casi in Cina potrebbero essero sottostimati nell’ordine di 10 volte e quelli fuori dalla Cina di forse 4 volte”. Insomma, con il passare dei giorni, i dubbi rispetto a credibilità e veridicità dei numeri e delle statistiche offerti dalle autorità di Pechino crescono esponenzialmente, anche e soprattutto all’interno della comunità scientifica e in seno ai massimi organismo di controllo. La stessa Organizzazione Mondiale per la Sanità nel corso della sua ultima conferenza stampa a Ginevra ha parlato dei casi di coronavirus emersi al di fuori della Cina come “la mera punta dell’iceberg”, invitando ad alzare la vigilanza e cambiando decisamente tono della narrazione, rispetto a quello quantomeno di sottostima dei primi giorni. Ma che qualcosa davvero cominci a vacillare nel profilo di credibilità delle autorità sanitarie del Dragone lo provano indirettamente questi due grafici, basati proprio sulle cifre ufficiali che arrivano al mondo dalla National Health Commission (Nhc) cinese. La quale, dopo aver certificato un aumento di 15-20mila casi al giorno nel corso delle ultime settimane, a partire dal 5 febbraio scorso ha mostrato al mondo numeri che sembravano certificare il raggiungimento del picco di contagi. Di più, nel corso dell’ultimo weekend, la Nhc ha drasticamente visto al ribasso il numero di casi sospetti, passati nell’arco di una notte da 28.942 a 23.589. Da un giorno con l’altro, oltre 5mila casi in meno. Cosa è accaduto? Scoperta una cura miracolosa? No, semplicemente la National Health Commission ha cambiato i criteri guida di classificazione dei casi definibili come “confermati” e ha clamorosamente ignorato le direttive della stessa Organizzazione Mondiale della Sanità. Come mostra la schermata sopra, a livello globale l’Oms invitava tutte le autorità sanitarie dei vari Paesi a classificare come “confermati” i casi di cittadini positivi al test, a prescindere dall’assenza o presenza di sintomi. I quali, infatti, possono essere latenti per larga parte del periodo di incubazione, anch’esso al centro di un dibattito fra gli studiosi, visto che l’ultima indicazione al riguardo proveniente dalla Cina alzerebbe da 14 a 24 giorni quel lasso di tempo. Nelle ultime linee guida ufficiali, emanate il 7 febbraio ed entrate in vigore dallo scorso weekend, le autorità sanitarie cinesi invitano invece a non classificare come “casi confermati” quelli di pazienti positivi ai test ma asintomatici. Mossa che, a detta di molti studiosi, spiegherebbe lo stop repentino alla crescita quotidiana del contagio e, addirittura, l’aumento dei casi classificati come “guarigione” o “dimissioni”. A denunciare il caso è stato Alex Lam, reporter dell’Apple Daily di Hong Kong, il quale ha pubblicato sul suo profilo Twitter il documento della National Health Commission, nel quale si comunica che “se i pazienti infettati ma asintomatici cominciano a manifestare sintomi, allora la loro classificazione va rivista a caso confermato”. Di fatto, l’ammissione che la mancanza di sintomi viene invece derubricata a stato di non attenzione, almeno fino alla comparsa eventuale degli stessi. Una palese violazione del protocollo dell’Oms e dei criteri guida utilizzati in tutto il mondo, in virtù della delicatezza clinica del periodo di incubazione e latenza sintomatologica. Anche perché, a quanto pare, le autorità sanitarie locali non pubblicano i numeri dei pazienti risultati positivi al test ma asintomatici, di fatto non solo abbassando le statistiche generali ma anche creando un vulnus rispetto a potenziali veicoli di contagio che vengono dimessi dall’ospedale e non classificati/trattati come tali, almeno fino alla fine dell’incubazione. E a far storcere il naso ai più sospettosi, ci ha pensato anche la decisione inaspettata delle autorità cinesi di dare il via libera alla riapertura dello stabilimento Foxconn di Zhengzhou, dove lavorano oltre 3.500 dipendenti e – soprattutto – viene prodotta più della metà degli iPhone al mondo. Di fatto, la notizia è stata poi ridimensionata dalla Reuters, la quale ha certificato come solo il 10% circa della forza lavoro sia tornata effettivamente in fabbrica. “Sufficiente a fare fessi gli algoritmi che sovrintendono gli indici di Borsa ma non certo a rassicurare sui danni alla catena di fornitura globale”, sentenzia Michael Every di Rabobank. E questo ultimo grafico parla al riguardo più di mille parole: il Baltic Dry Index (indice che traccia il costo di noleggio per grandi navi da trasporto di materie prime secche, quindi escluso il petrolio e il gas naturale liquefatto), nella sua ultima rilevazione, ha quasi toccato il minimo storico assoluto, un calo di circa l’83% dal picco dello scorso settembre. Il tutto, in un contesto che vede l’economia cinese pesare del 75% in più sui destini di quella globale rispetto all’emergenza epidemica della Sars del 2003, essendo passata da meno del 4% all’attuale 16%. La domanda, decisamente inquietante, è quindi la seguente: la Cina sta forse facendo di tutto – revisionando criteri di classificazione sanitaria e riaprendo fabbriche, anche solo parzialmente e simbolicamente, a tempo di record – pur di tranquillizzare i suoi principali clienti internazionali, a dispetto della sicurezza?
Mirko Molteni per “Libero Quotidiano” l'11 febbraio 2020. All'epidemia di coronavirus in Cina si accompagna il sospetto che il regime comunista di Pechino non dica la verità. Nel colossale impero si concentra il 99% dei casi globali e si sono toccate ieri nuove vette del contagio, superando l' impatto che aveva avuto 17 anni fa la Sars. Il numero degli ammalati, quelli dichiarati dal regime, ha toccato 37.198, mentre i morti sono arrivati a ben 813. Fra 2002 e 2003 la Sars aveva invece causato 8000 malati in tutto il mondo, con 800 morti. Ma si teme che il vero numero dei contagiati sia molto maggiore. Lo scienziato italiano Rino Rappuoli ha ipotizzato ieri che i malati in Cina possano essere almeno 150.000. Dall'America arriva un allarme ancor più preoccupante, quello dell' esperto Gordon Chang, un sinologo, ossia uno specialista di Cina, di origine cinese, ma nato negli Stati Uniti. Intervistato dalla giornalista Sara Carter, l' esperto ha denunciato, pare anche da fonti della dissidenza, che il regime sta mentendo per nascondere la vera portata dell' epidemia. «Le autorità cinesi sono state soverchiate dal numero di casi - dice Chang - e hanno difficoltà a recuperare tutti i corpi dei deceduti. Molta gente, inoltre, non è riuscita ad avere accesso agli ospedali e sta morendo a casa propria avendo il tempo di infettare altre persone. La situazione è molto peggiore di ciò che appare e le critiche espresse dagli scienziati dell' università di Pechino sugli errori iniziali nell' affrontare l' epidemia stanno facendo perdere la fiducia nel governo». Gordon Chang da anni sostiene che il regime cinese è più debole di quanto appaia. Secondo lui l' epidemia potrebbe rappresentare un ulteriore scossone al potere rosso, che si aggiunge ad altri nodi come la repressione dei diritti umani e il pugno di ferro su Hong Kong. E spiega: «La gente sta cominciando a diventare coraggiosa nel criticare la gestione dell' emergenza da parte di Pechino e lo stesso presidente Xi Jinping teme di perdere il controllo. Nel governo cinese la situazione potrebbe diventare molto fluida». L' esperto rileva che ben 5 milioni di persone hanno lasciato la zona di Wuhan prima dell' imposizione della quarantena, diffondendo potenzialmente il morbo, e che la stessa quarantena, imponendo alla gente di starsene a casa, non potendosi ricoverare milioni di persone in ospedale, potrebbe aggravare il virus fra le famiglie. Chang ricorda che alcuni giornalisti cinesi che seguivano la questione, come Chen Qiushi, sono «spariti nel nulla, forse bloccati dal regime». Il Partito Comunista Cinese starebbe inoltre diffondendo voci propagandistiche secondo cui il virus sarebbe «sfuggito da un laboratorio» o addirittura «rilasciato da un laboratorio americano». Rispolverando quindi complottismi da guerra batteriologica. Gordon riconosce che «non sappiamo l' origine del virus, ma non credo sia sfuggito da un laboratorio, ma ciò che conta non è che sia vero o no, bensì il fatto che molti cinesi ci credono, pensano davvero a un morbo venuto da un laboratorio Usa». Insomma, Chang rileva «falsificazione e propaganda». I sospetti su bugie e segretezza perseguiti dal regime cinese sembrano confermati da una notizia riportata ieri dal Guardian, secondo cui è agli arresti domiciliari l' anziano medico che nel 2003 rivelò i dati reali sull' epidemia di Sars, e che forse il regime temeva potesse far altrettanto col coronavirus. È il medico militare Jiang Yanyong, 88 anni, in pensione col grado di generale, la cui moglie Hua Zhongwei dice: «Non è autorizzato a contatti col mondo esterno. È a casa, la sua salute non è buona. E non sta bene neanche mentalmente. Non sta bene. Scusate, non è opportuno dire di più». Intanto, le autorità cinesi hanno confermato nelle ultime ore che sono ormai quasi 12.000 i medici inviati nella zona di Wuhan e che per il virus è stato scelto il nome ufficiale NCP, "polmonite da nuovo coronavirus".
Giuliana Mazzoni per "il Fatto quotidiano”l'11 febbraio 2020. Insegna Psicologia alla Sapienza di Roma ed è professore emerito all’Università di Hull Ha più di 200 pubblicazioni all’attivo, ed è membro del direttivo della Società italiana di psicologia giuridica e dell’Association for Psychological Science (APS). Ieri in aeroporto, mangiando una brioche di fretta in un bar affollato, mi è andata una briciola di traverso e ho iniziato a tossire. Pur non essendo cinese e pur non venendo dalla Cina, intorno a me si è improvvisamente creato il vuoto. Ho visto una certa diffidenza sul volto delle persone che, con maggiore o minore grazia, si sono allontanate al quarto colpo di tosse. In aeroporto c' è tanta gente che viaggia, sistemi di condizionamento d' aria che notoriamente albergano e diffondono virus Meglio non rischiare. E così, sola, sono rimasta a finire, tossendo, la mia brioche. Tra il 2002 e oggi, il mondo ha conosciuto due epidemie importanti: SARS ed Ebola. Il primo caso di SARS fu dovuto probabilmente a un pipistrello nella provincia di Guandong, in Cina: uccise 349 persone su 5.327 casi dichiarati e si diffuse in 26 altri Paesi, per un totale di circa 8 mila contagi. Per Ebola, 28.600 casi dichiarati con 11.325 morti, a partire dal 2013, in Guinea (un bambino venne infettato da un pipistrello in una foresta), e poi Liberia e Sierra Leone e altri cinque Paesi tra cui l' Italia. SARS , quindi, ha fatto più paura, ma meno danni dell' Ebola. Non si è assistito, però, a un panico diffuso come per il Coronavirus. A ieri, i casi dichiarati sono 40.631 e 910 i morti, su 27 Paesi coinvolti oltre alla Cina. Dobbiamo avere paura? Il timore (precauzione o paura?) della diffusione del Coronavirus ha portato alla cancellazione di viaggi e voli, alla chiusura di fabbriche e di scuole. In Cina, città con decine di milioni di abitanti sono in quarantena. Da quando il virus ha iniziato a diffondersi oltre i confini cinesi si è parlato di possibile pandemia. Su Twitter, diversi giorni fa, un epidemiologo dell' Harvard T.H. Chan School of Public Health, testualmente ha scritto (e poi cancellato): "Santa madre di Dio! Il nuovo coronavirus: quanto è alto il suo valore di riproduzione? È a livello di una pandemia termonucleare!!!! Non sto esagerando!!!! È il virus più virulento che il mondo abbia mai visto!!!!". Nella realtà, a oggi, il Coronavirus avrebbe come valore R0 ("R naught" in inglese), ovvero il numero medio di persone che una singola persona infetta può contagiare, 2.5. Mentre i case fatality, i casi letali, sarebbero 2 ogni 100. Livelli di contagio e tassi di letalità pari quindi a quelli di una epidemia di influenza (non semplice influenza stagionale, ovviamente). Allora perché parliamo senza paura dell' influenza? Perché è familiare, la conosciamo e sappiamo che è controllabile e gestibile dall' Oms e dai sistemi sanitari nazionali. Se ci si pensa un attimo, il caso Coronavirus è in realtà molto interessante e paradigmatico del fatto che, paradossalmente, il vero virus è la paura, il panico. La paura un virus? Sì, la paura è oggettivamente contagiosa. La paura passa di persona in persona, si diffonde nei gruppi e nelle società, diventa la nostra paura. Nel 2008, in una ricerca sui ferormoni è stato raccolto e nebulizzato il sudore delle ascelle di uomini e donne quando stavano per lanciarsi col paracadute (paura), e quando erano in una situazione normale da sforzo (in palestra). I due tipi di sudore, fatti annusare a un gruppo di volontari ignari, hanno attivato in questi aree cerebrali diverse: solo il sudore da paracadute ha attivato parti dell' amigdala e dell' ipotalamo, due aree del cervello tipicamente coinvolte nella paura. La frase banale "l' odore della paura" ha un fondo di verità: la paura dell' altro ha un odore, che trasmettendosi, rende la sua paura nostra. Ma l' odore è solo uno dei possibili veicoli di contagio della paura. C' è anche il fatto che, a molti livelli, gli esseri umani sono esseri sociali e in quanto tali hanno una forma di elevata empatia (nel suo significato neutro). Si parla molto di neuroni specchio, e del loro ruolo nel permettere la relazione sociale. È un dato stabilito che quello che accade all' altro, di fronte a me, in realtà accade anche a me: se vedo una persona afferrare un oggetto si attivano nel mio cervello, benché io resti ferma e non ne sia assolutamente consapevole, le sue stesse aree motorie, come se io stessa afferrassi l' oggetto. In modo simile - e attraverso meccanismi cerebrali in parte sovrapponibili - nella relazione con un altro si vivono, sia pure a un livello più debole, le sue stesse emozioni. Per esempio, nel vedere una persona soffrire si attivano aree cerebrali che suscitano una sensazione di sofferenza. In modo simile, se vedo una persona che ha paura, anche io provo paura: e la sua paura diventa la mia. Il contagio della paura si diffonde come un virus anche a livello sociale. Ne sono testimonianza i fenomeni detti di isteria di massa, che hanno molte manifestazioni interessanti. Tra queste ci sono forme quali le "malattie psicogene di massa" (mass psychogenic illness), un tipo di effetto nocebo. Scoppiano, come vere e proprie epidemie, in luoghi affollati quali fabbriche e scuole, causando sintomi fisici anche gravi. Decine e decine di persone improvvisamente si sentono male, manifestano gli stessi sintomi, e spesso vengono portate in ospedale per accertamenti, senza che venga riscontrato un elemento patogeno reale. La gente si ammala di empatia con gli altri, e della loro paura di ammalarsi. Questi fenomeni sono dovuti a forme di contagio psicologico, in cui difficoltà respiratorie, nausea, vomito, dolori, ipotensione, dipendono dalla capacità dell' individuo di "condividere" la paura e i sintomi osservati nel gruppo. Il fenomeno è talmente ampio ed evidente che, da una decina di anni a questa parte, sono stati sviluppati in epidemiologia modelli matematici che considerano il contagio da paura come fattore cruciale. Nel caso del Coronavirus a questo si aggiunge l' eco mediatica e la trasmissione tramite social media, che, diffondendo notizie in modo "virale" e, come nel caso dell' epidemiologo di Harvard non ben documentate, hanno fatto del Coronavirus un elemento che può causare la distruzione dell' umanità. Come in 28 days later, Outbreak, Contagion. La paura del Coronavirus non nasce dai film, sono i film che nascono dalla paura nei confronti di un qualcosa di alieno, un virus sconosciuto e in quanto tale incontrollabile. Mentre finisco in pace la mia brioche, mi dico che la paura per il Coronavirus svanirà col tempo, come è svanita quella per altre forme di potenziali epidemie, fortunatamente contenute ( SARS , Ebola, influenza aviaria, influenza suina). Ma il contagio della paura, quello, non passerà. Si sposterà semplicemente su altro. La paura è un' emozione di base ed è molto potente. È il campanello di allarme che suona in caso di pericolo, che spinge all' azione ai fini della sopravvivenza individuale e della specie. In quanto tale, è sempre stata e sempre sarà, è necessaria e connaturata con l' uomo e l' animale. E io sono contagiata dalla paura? Non so. Tempo di salire in aereo, e per precauzione metto la mascherina, e mi disinfetto le mani.
Da open.online il 21 febbraio 2020. I cittadini ucraini che si trovavano a Wuhan, epicentro dell’epidemia del nuovo coronavirus, sono atterrati il 20 febbraio 2020 nell’aeroporto di Kharkiv per essere poi trasferiti per un periodo di quarantena nel centro di Novi Sanzhary, situato nella regione di Poltava dell’Ucraina centrale. Dopo un difficile atterraggio, nel corso del trasferimento sono stati presi d’assalto dai loro connazionali con blocchi e lanci di pietre. Un aggressione dovuta alla psicosi, alla paura di portare il virus in Ucraina attraverso le 72 persone appena atterrate, nonostante siano tutte risultate negative al test. Tra questi 27 stranieri, per lo più sudamericani. La polizia, in tenuta antisommossa, ha protetto gli autobus dai contestatori che, nonostante tutto, sono riusciti a colpire i mezzi rompendo i vetri e mandando nel panico i loro concittadini a bordo. Il ministro della salute, Zorina Skaletska, ha annunciato su Facebook che si sarebbe messo in quarantena volontaria per 14 giorni in segno di solidarietà per i rimpatriati nel centro di Novi Sanzhary, nelle loro stesse condizioni e nella speranza di dare un segnale per calmare gli animi.
Marco Pasqua per ilmessaggero.it il 10 febbraio 2020. Un gruppo di cinesi (tra questi anche minorenni) aggrediti verbalmente in strada da tre giovanissimi. Un'aggressione registrata domenica scorsa a Roma, nella zona di Don Bosco, in piazza dei Consoli. Una famiglia di cinesi si trovava in strada quando, all'improvviso, tre ragazzi, intorno ai 15 anni di età, hanno iniziato ad insultarli. Ma non avevano fatto i conti con i cittadini che hanno assistito alla scena e che hanno deciso di intervenire in difesa delle vittime di quell'aggressione verbale. Un signore cerca addirittura di bloccare il ragazzo, che urla: «Lasciami stare, mi devi portare rispetto». Sul posto è intervenuta la polizia del commissariato Tuscolano, anche se i cittadini cinesi non hanno sporto denuncia. «Avete il Coronavirus, andateve via», avrebbe gridato un giovane. «Che sono queste parole?», urla un residente all'indirizzo degli aggressori, faticando non poco nel tenerli a distanza dalla famiglia cinese. «Cinesi di merda», rincara la dose il ragazzo, sui 15 anni di età. Tra le vittime dell'aggressione verbale anche una ragazza incinta. Quando la polizia è arrivata sul posto, ha sorpreso uno dei tre aggressori con un coccio di bottiglia tra le mani: il giovane è stato identificato e poi riaffidato ai genitori. «A Roma un gruppo di ragazzi cinesi è stato aggredito. È vergognoso. Ferma condanna di quanto accaduto: episodi come questo sono frutto di ignoranza e razzismo. Roma è vicina alle vittime di quest'aggressione», scrive su Twitter la sindaca di Roma Virginia Raggi.
Da adnkronos.com il 22 febbraio 2020. Ancora un'aggressione ai danni di una cittadina di origine cinese a Torino, questa volta di giorno e in pieno centro. La donna, una quarantenne, era per strada, è stata prima apostrofata con epiteti come “cinese virus, vai via” da una coppia che poi l'ha aggredita. Dopo essersi fatta medicare in ospedale, per le lesioni riportate e una prognosi di alcuni giorni, la donna ha sporto denuncia alla polizia. Sull'episodio indagano gli agenti del commissariato Dora Vanchiglia. L'aggressione subita dalla signora è la seconda che si verifica nel capoluogo piemontese. La scorsa settimana una coppia di giovani era stata aggredita a tarda sera mentre stava tornando a casa dal lavoro alla periferia nord della città. Dopo essere stati insultati, i due erano stati colpiti con alcune bottiglie da alcuni giovani.
(LaPresse il 20 febbraio 2020) - In Cina il numero delle persone guarite da coronavirus ieri ha superato quello dei contagiati. Lo riferisce la Commissione sanitaria nazionale specificando che ieri 1.824 persone sono state dimesse dagli ospedali dopo essere state curate, mentre sono 1.749 i nuovi casi registrati. In tutto la Commissione cinese ha registrato 2.004 morti e 74.185 casi confermati. Secondo la Commissione sanitaria nazionale cinese, è la prima volta che il numero delle persone guarite da coronavirus supera quello dei nuovi contagi. In tutto, stando ai dati di ieri, i pazienti infetti e poi dimessi dopo la guarigione sono stati 14.376.
(LaPresse/AP il 20 febbraio 2020) - Il ministero della Salute giapponese ha dichiarato che due passeggeri della nave da crociera Diamond Princess colpita dal coronavirus, sono morti in ospedale, portando a tre il numero di morti in Giappone. Nell nave in questione, in quarantena al largo del porto di Yokohama, si registra il maggior numero di casi al di fuori della Cina, con 621 passeggeri e l'equipaggio risultati positivi ai test. Secondo le autorità giapponesi citate da Nhk, si tratta di una coppia di giapponesi, un uomo di 87 anni e una donna di 84.
(LaPresse il 20 febbraio 2020) - La Cina ha revocato la tessera stampa a tre giornalisti del Wall Street Journal a Pechino a causa di un articolo "dal titolo razzista" sugli sforzi del paese nella lotta contro l'epidemia di coronavirus. Lo riporta il Global Times citando il portavoce del ministero degli Ester, Geng Shuang.
(LaPresse/AP il 20 febbraio 2020) - Il titolo fa riferimento all'attuale epidemia di coronavirus, definendo la Cina "il vero malato dell'Asia". Il portavoce del ministero degli Esteri, Geng Shuang, ha affermato che l'editoriale del 3 febbraio "infanga gli sforzi del governo e del popolo cinesi di contrastare l'epidemia". I giornalisti, afferma, "hanno usato un titolo veramente discriminatorio e razzista, scatenando indignazione e condanna tra i cinesi e nella comunità internazionale". L'espulsione, ha aggiunto, è arrivata dopo che il WSJ ha rifiutato le richieste di presentare "scuse ufficiali e far sì che le persone coinvolte ne rispondessero". Il Foreign Correspondents' Club of China ha diffuso una nota in cui esprime "profonda preoccupazione e forte condanna" della decisione di Pechino, sottolineando che i tre giornalisti colpiti non hanno ruolo nell'editoriale né nel suo titolo.
Da “la Stampa” il 20 febbraio 2020. La mail spedita il 2 gennaio dall' Istituto di Virologia di Wuhan metteva in allarme la comunità scientifica cinese ed era perentoria su un punto: vietato divulgare. Niente. Nulla deve uscire dal Paese, su canali ufficiali e non ufficiali. Il mondo non deve sapere. «Il comitato sanitario nazionale richiede esplicitamente che tutti i dati sperimentali dei test, i risultati e le conclusioni relative a questo virus non siano pubblicati su mezzi di comunicazione autonomi», si legge nella lettera, cioé i social media. E ancora, «non devono essere divulgati ai media, compresi quelli ufficiali e le organizzazioni con cui collaborano». Si chiede di «rispettare rigorosamente quanto richiesto». E poi si fanno gli auguri. La direttrice dell' Istituto, Wang Yan Yi, la manda ai vari dipartimenti di virologia e ricerca dopo gli ordini di Pechino. Gli auguri, però, sono fatti al mondo intero, visto che ancora oggi il mondo intero è sconvolto dal coronavirus, che nessuno sa come debellare. Le prime avvisaglie saranno di venti giorni dopo, quando l' epidemia arriva fino negli Usa, con un 35enne americano, che aveva fatto visita ai suoi familiari a Wuhan. Torna a casa malato: il 20 gennaio, in una clinica della contea di Snohomish nello Stato di Washington, il sanitari provano a trattare il paziente con metodi tradizionali, ma lui peggiora. Il 27 gennaio, la decisione di somministrargli un nuovo farmaco ancora in via di sperimentazione e non ancora approvato dalla Fda (l' organo federale di controllo americano). Si chiama «Remdesivir», è un antivirale concepito per contrastare il virus dell' ebola. Così, le condizioni del 35enne migliorano, il 30 gennaio i sintomi spariscono. I risultati vengono pubblicati sul New England Journal of Medicine il giorno successivo. La «ricetta» non resta entro i confini Usa, ma il caso strano è la tempistica con cui la Cina si interessa al remdesivir. Il 21 gennaio, ovvero sei giorni prima che Washington tenti l' uso del farmaco anti-ebola, l' Istituto di Virologia della dottoressa Wang Yan Yi, avanza una richiesta del brevetto. Il motivo? Trattamento di pazienti malati di «nuovo coronavirus». Una richiesta che il centro scientifico tra i migliori al mondo, che fa parte della Cas (Chinese Academy of Science) ovvero la più grande organizzazione di ricerca del mondo, con 60 mila ricercatori e 114 istituti, pubblicherà solo il 4 febbraio sul suo sito. «Per il farmaco Remdesivir non ancora commercializzato in Cina - dicono - e che presenta barriere alla proprietà intellettuale, abbiamo chiesto un brevetto di invenzione cinese il 21 gennaio in conformità con la pratica internazionale e dal punto di vista della protezione degli interessi nazionali (resistenza al nuovo coronavirus nel 2019)». La Cina offriva, inoltre, di far contribuire le società straniere interessate alla prevenzione e al controllo dell' epidemia cinese (a quel punto uscita allo scoperto in tutto il mondo). «Per il momento non avremo bisogno dell' attuazione dei diritti rivendicati dal brevetto», concedevano i cinesi. «Speriamo di lavorare con società farmaceutiche straniere per ridurre al minimo l' impatto della prevenzione del controllo delle epidemie». Tante le domande a cui le autorità cinesi dovrebbero rispondere, a partire dall' invio di nascosto della mail. Come ha potuto l' Istituto di Virologia di Wuhan prevedere che un farmaco ancora in fase sperimentale, e non approvato dalla Fda, potesse essere una soluzione a una materia di sicurezza nazionale, quando ancora il 21 gennaio non si erano neppure adottate le misure di sicurezza (quarantena per la città da cui è partito il contagio) necessarie a dichiarare lo stato di emergenza? Nella lettera, proprio nei giorni in cui Li Wenliang denunciava i casi di una nuova Sars, si fa cenno a una «polmonite le cui cause sono ignote». Si trattava del Covid-19? E perché i risultati dei test sul virus avrebbero dovuto non essere divulgati ai media? Tutte questioni a cui Wuhan e il governo di Xi Jinping, nonostante i rumors sempre più insistenti che circolano tra i loro cittadini, si rifiutano di rispondere.
Francesca Angeli per “il Giornale” il 19 febbraio 2020. Nonostante le rassicurazioni che arrivano dalla Cina il resto del mondo evidentemente non si fida e continua ad aver paura del Coronavirus. Il presidente Xi Jinping assicura che l' impatto sarà «temporaneo» ma la Russia blinda i confini.
LA RUSSIA CHIUDE AI CINESI. La Russia vieterà l' ingresso di cittadini cinesi nel suo territorio da domani per il timore che si diffonda l' epidemia di coronavirus. «L' ingresso di cittadini cinesi attraverso i confini russi è sospeso dal 20 febbraio per viaggi di lavoro, privati, studi e turismo», l' annuncio di Tatiana Golikova, vice primo ministro responsabile della Salute. La Russia aveva già manifestato lavolontà di prendere misure drastiche dopo l' intervento del presidente Vladimir Putin, che aveva esortato il governo a fare tutto il possibile per impedire al coronavirus di arrivare a Mosca. Qualche giorno fa il premier russo Mikhail Mishustin aveva firmato un ordine per chiudere la frontiera limitato però all' estremo oriente per evitare il propagarsi del nuovo coronavirus, in particolare nella regione di Kaliningrad. La Russia, nelle sue regioni più orientali, condivide un confine con la Cina di 4.200 chilometri. Il premier ha anche incaricato la sua vice, Tatyana Golikova, di informare quotidianamente la popolazione sulla situazione e le misure preventive. La popolazione era stati invitata ad evitare comunque i viaggi in Cina a meno che non fossero estremamente necessari. Mosca aveva pure deciso di limitare i collegamenti via treno con la Cina già dal 31 gennaio.
LE TELEFONATE DI XI JINPING. Il presidente cinese Xi Jinping scende in campo per riconquistare la fiducia dei partner europei. Ieri ha telefonato sia al premier britannico Boris Johnson sia al presidente francese Emmanule Macron per rassicurarli sull' andamento del contagio. La battaglia contro l' epidemia è giunta «a un punto cruciale» e ha segnato «progressi evidenti», ha dichiarato il presidente cinese nel corso del colloquio con Johnson. A Macron il presidente ha assicurato che l' impatto del coronavirus sarà «temporaneo» e che la Cina è in grado di raggiungere i propri obiettivi economici e sociali per il 2020.
CONTAGI E DECESSI IN CALO. Scende al di sotto dei duemila casi quotidiani per la prima volta da due giorni il numero dei nuovi contagi da coronavirus (Covid-19). Mi Feng, funzionario della National Health Commission lo ha confermanto ed anche il numero quotidiano di nuovi decessi è sceso a meno di 100 in tutto il Paese. Anche fuori dalla provincia di Hubei, ovvero il focolaio della pandemia, le nuove infezioni confermate sono diminuite per la prima volta ad un numero inferiore a 100. E il governo annuncia che i medici morti per combattere l' epidemia saranno dichiararti «martiri».
BENE GLI ITALIANI ALLO SPALLANZANI. Continuano a stare bene i due italiani ricoverati allo Spallanzani. Il ricercatore risultato positivo al Coronavirus, e anche Niccolò rientrato da Wuhan e al momento risultato negativo al doppio test. Migliorano le condizioni della coppia di turisti cinesi che, probabilmente, domani potrebbero uscire dalla terapia intensiva con lo scioglimento della prognosi. Fino ad ora nell' ospedale romano sono stati valutati 68 pazienti. Di questi 62 sono risultati negativi al test e sono stati dimessi. Sei pazienti sono ancora ricoverati: i tre casi confermati di coronavirus e altri tre per diversi motivi clinici.
TEST RAPIDI PER L' AFRICA. Entro la fine della settimana, 40 Paesi africani e 29 Paesi delle Americhe avranno la possibilità di testare e diagnosticare la Covid-19 direttamente ed in breve tempo. Uno dei problemi di un eventuale contagio in Africa è proprio quello della mancanza di strumenti per monitorare subito il coronavirus. Fino ad ora per molti stati era necessario inviare i campioni ad altre nazioni, attendendo diversi giorni per avere i risultati. Ora potranno fare i test da soli in 24-48 ore.
Agi.it il 21 febbraio 2020. Secondo i dati più aggiornati dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), al 18 febbraio i casi confermati di contagio da nuovo coronavirus erano oltre 73.300 in 25 Paesi del mondo. Di questi, il 98,9 per cento era in Cina, dove a causa del virus si stima siano morte 1.870 persone, mentre sono stati tre i decessi fuori dai confini cinesi. Ma quanti morti ci sono ogni anno a causa dell’influenza stagionale? È possibile fare un confronto con il nuovo coronavirus? Andiamo a vedere che cosa dicono i numeri.
Simone Pierini per leggo.it il 23 febbraio 2020. Il dottor Peng Yinhua ha rinviato le nozze per curare i pazienti infetti dal coronavirus. Ha messo davanti il suo futuro al fianco alla donna che ama per far fronte all'epidemia che ha colpito, prima di espandersi, la città di Wuhan, epicentro del virus in Cina. Giovedì, all'età di 29 anni, è morto dopo esser rimasto contagiato. È una delle tante storie che giungono dall'altra parte del mondo che lasciano il segno nel cuore di chi sta seguendo con ansia l'evolversi del coronavirus. Il dottor Peng Yinhua è una delle vittime più giovani fin qui registrate. Ha contratto l'infezione mortale mentre trattava i pazienti presso l'Ospedale n.1 del Popolo nel distretto Jiangxia di Wuhan. È stato ricoverato il 25 gennaio e trasferito all'ospedale di Wuhan Jinyintan. È morto per il virus alle 21:50 di giovedì, nonostante i tentativi dei colleghi di salvarlo. Il giovane medico aveva pianificato le nozze durante le vacanze del capodanno cinese, ma ha deciso di rimandare la cerimonia per essere in prima linea a compiere il suo dovere, ciò a cui aveva dedicato la vita. Il dottor Peng Yinhua non è mai riuscito a spedire i suoi inviti di nozze, che sono ancora chiusi nel suo cassetto dell'ufficio. Almeno otto medici sono stati rimasti uccisi dal virus, tra cui il 34enne Li Wenliang, la cui morte all'inizio di questo mese ha provocato una protesta pubblica e messaggi anti-governativi sui social media. Wenliang è colui che per primo ha lanciato l'allarme coronavirus.
Mauro Bottarelli per it.businessinsider.com il 14 febbraio 2020. Volendo ricorrere all’ironia, spesso arma di sopravvivenza fondamentale nelle situazioni di panico generalizzato e antidoto alla paura di provata efficacia, potremmo dire che la Cina ha appena vissuto il suo “momento Fausto Tonna” (ex direttore finanziario durante il crac Parmalat). Insomma, dalla denuncia di contabilità creativa nei criteri di classificazione dei nuovi contagiati da coronavirus dovuta ai criteri utilizzati per il computo all’implicita ammissione di sottostima degli stessi sono passate solo 24 ore. E questi due grafici mettono in prospettiva la magnitudo della discrepanza occorsa in un così ridotto lasso di tempo e dopo l’annuncio di una stabilizzazione dell’epidemia, prossima ormai al picco: in un solo giorno, 14.840 nuovi casi di contagio, capaci di portare il numero totale a 48.206. Di più, fra questi 13.332 “clinicamente diagnosticati”, hanno tenuto a sottolineare le autorità sanitarie del Dragone. Excusatio non petita. Ma se questa palese ammissione di leggerezza nel trattamento delle quarantene e nella diagnosi precoce di nuovi, potenziali contagiati apre ulteriori, enormi interrogativi rispetto alla credibilità stessa del governo cinese nella gestione dell’intera vicenda, ormai divenuta emergenza globale, nella vicenda si inserisce questo documento, datato novembre 2015 e relativo a una ricerca internazionale – descritta in un articolo pubblicato su Nature Medicine. Nello studio, infatti, si descrive la creazione di un nuovo virus ottenuto combinando il coronavirus scoperto in una particolare specie di pipistrello cinese con un altro che causa la Sars nei topi da laboratorio. Roba che, già all’epoca, fece esplodere una furente polemica in seno alla comunità scientifica mondiale, tanto che Nature dedicò ampio spazio al dibattito fra scienziati e riportò l’allarme di moltissimi esperti rispetto ai rischi che esperimenti simili possono comportare per la sicurezza e la salute pubblica. Una, di fatto, la domanda che scaturiva: ne vale la pena? La pensava così, ad esempio, il dottor Simon Wain-Hobson, virologo presso l’Istituto Pasteur di Parigi, a detta del quale non solo “occorrerebbe chiedersi seriamente se le informazioni che possiamo ricavare da studi simili valgano il rischio che potenzialmente portano con sé” ma, soprattutto, “se ci fosse una fuga di quel virus, anche minima, nessuno potrebbe predirne la traiettoria“. Ancora più netto il giudizio del professor Richard Ebright, biologo molecolare ed esperto di biodifesa alla Rutgers University, in New Jersey: “L’unico impatto concreto che otteniamo da questo lavoro è la creazione, in laboratorio, di un nuovo rischio non naturale“. E proprio quella definizione – “non-naturale” – oggi apre varchi enormi a scenari formalmente complottistici ma che, nelle ultime ore, sono sbarcati anche nel dibattito politico Usa al più alto livello, dopo che il senatore repubblicano dell’Arkansas, Tom Cotton, ha chiesto ufficialmente che il governo statunitense ottenga da quello cinese la certificazione della natura non di bio-arma del coronavirus. Al centro dell’accusa, la presenza a Wuhan, epicentro della crisi, del famoso laboratorio di massima sicurezza – classificato P4, l’unico del genere in Cina – in cui, a detta di un reportage sempre della rivista Nature del febbraio 2017, vengono studiati gli agenti patogeni più pericolosi al mondo. E proprio in quel laboratorio oggi lavora, dopo anni nei principali laboratori degli Stati Uniti, una delle ricercatrici che ha partecipato allo studio della discordia, la dottoressa Shi Zhengli, affiancata all’epoca nel team anche da un altro virologo cinese, Xing-Yi Ge, anch’egli con anni di esperienza sul campo negli Usa. Ed ecco che, come mostra questa immagine, non più tardi dello scorso 20 gennaio, sempre su Nature, la dottoressa Shi Zhengli appare fra le firme di un articolo nel quale si conferma la natura di mutazione animale del virus e la diretta responsabilità del pipistrello cinese. Insomma, lungi dal voler garantire patenti di agibilità a tesi complottiste degne del Napalm 51 di Maurizio Crozza, forse maggiore chiarezza e trasparenza da parte del governo cinese sull’intera genesi della faccenda sarebbe stata di aiuto proprio allo scongiurare del diffondersi di dietrologie parallele o teorie millenaristiche. Anche perché, stando alla denuncia di alcuni organi di stampa cinesi, dopo la rimozione dei responsabili sanitari della provincia di Hubei, tramutatisi come nella miglior tradizione del Dragone in Monsieur Malaussène della pandemia, ora a capo dell’autorità sanitaria dell’area-epicentro sarebbe stata inviata dal governo centrale la general maggiore Chen Wei, massimo esperto nazionale di armi biochimiche per la difesa. Il suo quartier generale? Il laboratorio P4 di Wuhan, attorniata unicamente da personale militare. Vero? Falso? Per ora, decisamente verosimile, almeno stando alla non smentita di Pechino. Le ombre, comunque, restano. Non fosse altro per quel balzo ad orologeria e al rialzo nella contabilità dei contagiati.
Coronavirus: denunciò di essere stata messa a tacere, scompare medico di Wuhan. Le Iene News il 31 marzo 2020. Ai Fen, capo della terapia d’urgenza dell’ospedale di Wuhan, ha detto di aver scoperto il 31 dicembre in un paziente un virus simile alla Sars e di essere stata subito messa a tacere. Dopo un’intervista a un magazine locale, cancellata subito dal web, la donna sarebbe scomparsa. Mentre a Wuhan è polemica anche sul numero reale dei morti: 42mila invece dei duemila dichiarati? Aveva raccontato che le autorità sanitarie cinesi le avevano impedito di mettere in guardia il mondo su una nuova epidemia simile alla Sars: ora la dottoressa sarebbe scomparsa. La notizia è stata data da 60Minutes Australia, popolarissima trasmissione di giornalismo investigativo: “Solo due settimane fa la responsabile della terapia d’urgenza dell'ospedale centrale di Wuhan Ai Fen è apparsa in pubblico, dicendo che le autorità avevano impedito a lei e ai suoi colleghi di mettere in guardia il mondo. Ora è scomparsa, non si sa dove sia”. La dottoressa Ai Fen aveva raccontato in un’intervista a un magazine locale un episodio accaduto il 31 dicembre scorso. Dopo aver notato la presenza in alcuni pazienti di sintomi parainfluenzali resistenti ai trattamenti sanitari noti, ottiene i risultati di un'analisi di laboratorio che indicano il termine "Sars coronavirus". Il medico avvisa subito alcuni colleghi dell’ospedale di Wuhan e la notizia si diffonde tra gli operatori sanitari. E arriva, dice Ai Fen, anche al comitato disciplinare del suo ospedale, che le intima di non diffondere “voci”, per "non danneggiare la sicurezza". Anche allo staff del suo reparto viene intimato di non diffondere messaggi o immagini sull’accaduto. “Se avessi immaginato quello che sarebbe successo”, prosegue Ai Fen nell’intervista, “non mi sarei curata del rimprovero. Ne avrei parlato a chiunque e dovunque avessi potuto". L’allarme delle autorità sanitarie cinesi al mondo arriverà molto dopo, il 21 gennaio scorso, dopo aver confermato il salto di specie del virus dagli animali selvatici all’uomo. Nel frattempo a Wuhan muore anche il giovanissimo medico Li Wenliang, di 34 anni, il primo a segnalare l’arrivo di un nuovo misterioso virus. Anche lui, come Ai Fen, era stato screditato e minacciato dalle autorità. Poi in seguito è stato “riabilitato”. Subito dopo l’intervista di Ai Fen, l’articolo viene cancellato dal web e ora, secondo 60minutes Australia, sarebbe scomparsa. Intanto a Wuhan è mistero sul numero reale delle vittime da COVID-19, dopo che un giornale locale ha avanzato l’ipotesi che in realtà i decessi non siano i circa duemila come comunicato dalle autorità, ma almeno 42mila.
Coronavirus, Xi Jinping sapeva già dal 7 gennaio: quei 13 giorni di buco nella reazione al «demone virus». Pubblicato domenica, 16 febbraio 2020 su Corriere.it da Guido Santevecchi. «Il 7 gennaio, ho dato ordini verbali e istruzioni sulla prevenzione e il contenimento del coronavirus». Così ha detto Xi Jinping il 3 febbraio in un discorso ai dirigenti comunisti, per sottolineare che non perse tempo nell’intervenire. Le parole del segretario generale sono state pubblicate oraa sulla rivista del Partito Qiushi, che significa «Cercare la Verità». Ed è una Verità controversa questa. Perché finora la narrazione ufficiale datava al 20 gennaio il primo intervento di Xi nella crisi. Bisogna ricordare che il primo caso di «polmonite misteriosa» a Wuhan era stato scoperto a inizio dicembre e che per giorni e settimane la Cina aveva taciuto.
Prima comunicazione da Pechino all’Organizzazione mondiale della sanità il 31 dicembre.
Fino al 20 gennaio a Wuhan parlavano di «45 casi», sempre di «infezione misteriosa».
Il 18 gennaio gli epidemiologi dell’Imperial College di Londra spiegarono che i conti non tornavano: i contagi non potevano essere meno di 1.700, una questione di semplici calcoli statistici considerando che a Tokyo erano stati scoperti tre casi di coronavirus, importato da Wuhan.
Il 20 gennaio la Cina ammise la gravità dello scoppio del coronavirus: era già epidemia, con 4 morti e oltre 200 contagiati, ma la Commissione sanitaria nazionale assicurava ancora che «era prevenibile e contenibile». La stampa di Pechino riferì che quel 20 gennaio il compagno segretario generale aveva presieduto una seduta del Politburo e aveva osservato: «È assolutamente cruciale fare un buon lavoro di prevenzione e controllo epidemiologico, la sicurezza e la salute della popolazione sono la priorità massima».
Il 21 gennaio il Partito-Stato il Partito-Stato disse ai quadri delle lontane province cinesi: «Chi nascondesse informazioni sul virus sarebbe punito severamente e inchiodato per l’eternità alla colonna dell’infamia». Il professor Zhong Nansnhan, l’esperto che aveva lavorato ai tempi della Sars, dichiarò che il misterioso coronavirus partito dal mercato del pesce e degli animali di Wuhan a fine dicembre «salta anche da persona a persona».
Ancora il 23 gennaio, con 25 morti ufficiali, la tv statale non parlava della situazione già tragica di Wuhan, preferiva aprire il tg con le immagini di Xi in ispezione in una lontana provincia, osservava che l’entusiasmo del leader «contagiava la folla». E il leader faceva gli auguri di Buon Capodanno lunare al popolo cinese.
Ma dal 24 gennaio, Wuhan veniva messa in quarantena: 11 milioni di abitanti chiusi in casa, aeroporto e stazione ferroviaria chiusi.
Il 28 gennaio Xi ricevette a Pechino il capo dell’Organizzazione mondiale per la sanità e proclamò: «L’epidemia è un demone, noi non permetteremo a un demone di restare nascosto... fin dall’inizio il governo cinese ha dato prova di apertura e trasparenza per diffondere nel tempo più breve le informazioni sul virus».
Ma quale inizio? Ora, stranamente Qiushi rivela che Xi Jinping aveva dato le prime istruzioni il 7 gennaio. Dunque sapeva già allora, 13 giorni prima dell’allarme generale.
Oggi i morti in Cina sono 1.665, i contagiati 70.000. L’allarme è mondiale, Wuhan e Hubei sono sempre in quarantena, l’economia cinese è ancora paralizzata. Quei 13 giorni potrebbero significare che anche Xi, pure informato, sottovalutò il pericolo del coronavirus. O più probabilmente, l’articolo di Qiushi (che non può essere stato pubblicato senza il visto del potere centrale) vuole costituire una prova a carico delle autorità di Wuhan, che non avrebbero messo in atto le direttive del capo supremo. E infatti il capo del Partito a Wuhan e nella provincia dello Hubei sono stati silurati. È chiaro a tutti, anche nelle stanze del potere di Pechino, che questo disastro naturale ha un impatto politico. Secondo l’agenzia giapponese Nikkei, il vicepresidente Wang Qishan, braccio destro di Xi Jinping ed esperto di crisi (gestì l’uscita dalla Sars nel 2003), ha sconsigliato al leader supremo di esporsi in prima persona, data l’incertezza del momento. Secondo Wang il comandante in capo dovrebbe evitare di farsi coinvolgere troppo, restare distante per non rischiare accuse e in caso di insuccesso. Bisogna essere chiari: la popolarità di Xi resta altissima tra le masse cinesi. Ma è anche impensabile che nelle alte gerarchie del Partito non ci siano dubbi e rancori: Xi è l’uomo che ha fatto cambiare la Costituzione per poter restare leader a vita. Un’intera generazione di mandarini ha dovuto abbandonare le ambizioni di successione immediata (che si sarebbe dovuta svolgere nel 2020). Xi ha un problema immediato: il 5 marzo è in calendario l’apertura del Congresso nazionale del popolo, sessione annuale del Parlamento. Il picco dell’epidemia non è raggiunto e radunare a Pechino tremila delegati, una macchina organizzativa da altre decine di migliaia di funzionari, inservienti, hostess, personale alberghiero a Pechino presenta problemi di sicurezza del tutto nuovi. Che immagine proietterebbe di sé il Partito, la Cina, se nella Grande Sala del Popolo tutti dovessero essere in maschera anti contagio? Lunedì scorso Xi Jinping è uscito da Zhongnanhai per un’ispezione: il leader si è messo la mascherina da chirurgo. Un’operazione politica. Wang Qishan e Xi pensano già al 2020: il Congresso del Partito che dovrà eleggere il nuovo gruppo dirigente. Xi dovrebbe essere tranquillo, presidente a vita. Se il virus non avrà intaccato il suo potere.
Il coronavirus secondo Xi: «La più grande emergenza sanitaria della nostra storia». Pubblicato domenica, 23 febbraio 2020 da Corriere.it. L’epidemia del coronavirus «è la più grande emergenza sanitaria nella storia della Cina», dalla fondazione del sistema comunista nel 1949 a oggi: è quanto ha detto il presidente Xi Jinping, nel corso di un collegamento avuto oggi in videoconferenza con 170mila funzionari statali di livello centrale, locale e militare. Una riunione ad ampio raggio «senza precedenti», secondo il tabloid Global Times, con l’obiettivo di coordinare la risposta dello Stato. Il presidente cinese ha ammesso che la Cina deve trarre una lezione dalle «carenze» emerse nella risposta alla crisi del nuovo coronavirus. Un’ammissione di questo genere è molto rara da parte del leader incontrastato della seconda economia mondiale, in un Paese dove la dirigenza comunista ha ricevuto (altra cosa rara) diverse critiche per le mancate risposte alla crisi. L’epidemia ha contagiato finora 77 mila persone in Cina, uccidendone 2.400. «E’ una crisi, e una grande prova per noi» ha dichiarato il presidente Xi secondo quando riportato dalla tv nazionale. Le autorità di Wuhan, epicentro dell’epidemia con 11 milioni di abitanti, hanno introdotto una quarantena obbligatoria di 14 giorni per i pazienti con coronavirus già guariti, dopo che alcuni di loro una volta dimessi sono risultati positivi. Da oggi, tutti i pazienti che erano stati ricoverati e dimessi devono essere inviati in luoghi designati per due settimane di quarantena e osservazione medica, ha riferito il centro di comando per il trattamento e il controllo del coronavirus della città su Weibo, l’equivalente cinese di Twitter, citato dal South China Morning Post.
Dalla reticenza alla presa di coscienza: Pechino e il coronavirus. Federico Giuliani su Inside Over the world il 15 febbraio 2020. Il coronavirus ha messo a nudo Pechino di fronte al mondo. L’opinione pubblica si è spaccata in due schieramenti: da una parte c’è chi elogia il governo cinese per il mastodontico sforzo messo in campo, dall’altra chi punta il dito contro il Dragone per una pessima gestione dell’emergenza sanitaria. Riavvolgiamo il nastro per analizzare il modus operandi dei vertici del Partito Comunista cinese (Pcc). Alla fine di dicembre la città di Wuhan è scossa dai primi casi di una polmonite virale. Siamo nel cuore della Cina, nella provincia dello Hubei. Il Capodanno cinese è dietro l’angolo e il popolo del Celeste Impero si appresta a inaugurare l’anno del Topo. Dovrebbe essere un periodo di festa, dove milioni di persone godono di una settimana di vacanza necessaria per trascorrere le festività in compagnia dei loro cari. Non sarà così, perché quella malattia si rivelerà essere l’antipasto del Covid-19. Il 30 dicembre il medico oculista Li Wenliang si accorge che qualcosa non va e su WeChat condivide con i suoi ex colleghi la preoccupazione di una nuova Sars. Come ricorda l’Agi, il messaggio si diffonde veloce sulla rete, tanto che le autorità convocano il signor Li per accusarlo di procurato allarme e diffusione di notizie false. La versione di quei giorni era una: niente panico, si tratta soltanto di malattie respiratorie comuni, come l’influenza stagionale. In un secondo momento arrivano nuove disposizioni dall’alto: non ci sono state trasmissioni da uomo a uomo. Il mercato ittico di Huanan, nel centro di Wuhan, viene chiuso per lavori di ristrutturazione. Ma i 31 dicembre i funzionari locali convocano una riunione di emergenza e decidono di avvertire l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms).
La presa di coscienza: è emergenza. Trascorrono almeno un paio di settimane e il 20 gennaio il presidente Xi Jinping entra in campo. Nel frattempo si sono registrati i primi morti. Il leader cinese chiede di mettere in atto “controlli efficaci” per bloccare l’epidemia di polmonite virale. L’istruzione è una: la salute e la vita delle persone deve essere messa al primo posto. Il 23 gennaio Pechino ordina la quarantena per Wuhan; altre tre città vengono bloccate, così come vengono sospesi i trasporti pubblici. Pechino capisce che la situazione è più grave del previsto: entriamo nella seconda fase. Intanto il dottor Li viene riabilitato ma, entrato in contatto con altri pazienti viene contagiato e morirà nel giro di qualche settimana. Il sospetto che la Cina stia nascondendo la reale entità di quanto stia accadendo cresce sempre di più, anche perché il Quotidiano del Popolo, come se niente fosse, dedica la prima pagina del 24 gennaio agli auguri fatti di Xi : il virus di Wuhan trova spazio in secondo piano. Il 25 gennaio scatta la prima riunione del Politburo del Pcc per fare il punto sull’epidemia. Non trapela niente delle decisioni prese ma già il fatto che i 25 più importanti dirigenti a livello nazionale della Cina (presidente compreso) si riuniscano, la dice lunga.
L’ira di Pechino sui funzionari locali. Il numero dei contagiati aumenta, i morti iniziano a farsi consistenti. Il 28 gennaio Xi interviene pubblicamente, lancia l’allarme su “una situazione grave” e paragona il coronavirus (nome in codice 2019-n-Cov) a un demone. Di fronte al direttore generale dell’Oms, Tedros Adhanom Ghebreyesus, Xi promette una politica aperta, responsabile e trasparente. Pechino cambia ancora atteggiamento: adesso il Dragone chiede e ottiene la sponda dell’Organizzazione mondiale della sanità. A febbraio lo scenario è quasi apocalittico. Le megalopoli cinesi sono vuote mentre le misure del governo si fanno sempre più ferree. L’imperativo è contenere il focolaio dell’epidemia solo nello Hubei. Non a caso la Cina opterà di sacrificare idealmente quella provincia come ultima spiaggia.
Dopo giorni difficili, in cui si susseguono voci di ogni tipo, Xi torna a farsi vedere in pubblico. Il 5 febbraio il presidente si fa fotografare a Pechino con la mascherina sul volto. Il capo di Stato ha elogiato Wuhan: “I popoli dello Hubei e di Wuhan sono eroici. Non sono mai stati schiacciati da alcuna difficoltà e pericolo nella storia”. Entriamo nel momento critico: Pechino defenestra i vertici sanitari e del Pcc dell’Hubei e invia i suoi uomini nell’area infetta. Il vice capo della task force per controllare l’epidemia diventa Chen Yixin, fedelissimo di Xi. Adesso l’obiettivo di Pechino è quello di ripartire nonostante le difficoltà.
DAGONEWS il 4 marzo 2020. La Cina ha inasprito le regole per reprimere quella che viene considerata “cattiva informazione” su Internet, puntando il dito contro titoli sensazionali, pettegolezzi eccessivi su celebrities e allusioni sessuali. Gli editori di testate online sono stati avvertiti: non potranno pubblicare "commenti inappropriati" relativi a grandi catastrofi o sulla politica. I funzionari cinesi hanno già inasprito la censura il mese scorso dopo che la gente era andata sui social media per esprimere dissenso contro il governo dopo l’esplosione della crisi sanitaria dovuta al coronavirus. L'ultimo ordine, entrato in vigore lunedì, è stato emanato dalla Cyberspace Administration of China (CAC). Le autorità hanno approvato la direttiva il 15 dicembre dell'anno scorso: il documento ufficiale condanna anche i contenuti "volgari e kitsch", le immagini scioccanti, gli articoli che potrebbero innescare discriminazioni geografiche o indurre gli adolescenti a commettere "atti immorali". Inoltre, avverte gli editori, invitandoli a non attraversare il confine delle "10 linee rosse" che includono incitamento a sovvertire il potere statale, minare l'unità nazionale, istigare ad attività terroristiche ed estremiste, danneggiare le politiche religiose nazionali, promuovere culti e diffamare o negare l’esistenza degli spiriti di eroi e martiri. La Cina ospita la più grande comunità online del mondo. A dicembre, c'erano circa 3,67 milioni di app disponibili nel paese. Con l’esplosione del coronavirus è stata ancora più evidente la mancanza di libertà di stampa e anche di parola sui social media che sono stati censurati. Una breve finestra di libertà si era aperta a gennaio, ma è stata immediatamente repressa dalle autorità. Secondo quanto riferito dai giornalisti cinesi, i censori hanno chiuso gruppi WeChat e cancellato post sui social media. Le autorità hanno anche rimproverato le aziende tecnologiche che hanno dato libero sfogo alla libertà di parola online. In particolare, la macchina della censura cinese è entrata in funzione con la morte del dottor Li Wenliang, il medico cinese che era per primo aveva individuato il coronavirus e che è morto il 7 febbraio, scatenando l’indignazione della popolazione. Ai media online è stato permesso di riferire della morte del dottor Li, ma non della rabbia che aveva scatenato il suo decesso: le prime discussioni sui social media che chiedevano al governo di Wuhan di scusarsi con lui sono scomparse. Chen Qiushi, un cittadino che stava facendo il resoconto di quanto accadeva a Wuhan su Twitter - che in Cina è bloccato – pubblicando tra l’altro immagini di cadaveri negli ospedali della città, è stato messo in quarantena forzata lo scorso 7 febbraio. Da allora non si hanno più notizie.
Da "ilfoglio.it" il 4 marzo 2020. Un rapporto canadese rivela che la Cina ha censurato sui social network le informazioni che riguardavano il nuovo coronavirus, settimane prima di riconoscerlo. L'app di messaggistica cinese WeChat e quella di streaming video YY hanno bloccato combinazioni di parole chiave che includevano critiche al presidente Xi Jinping, ai funzionari locali e alle politiche collegate al virus. Il report di Citizen Lab, un laboratorio interdisciplinare con sede presso la Munk School of Global Affairs dell'Università di Toronto, in Canada, sostiene che i risultati che hanno raccolto tra dicembre e febbraio suggeriscono che le aziende “hanno ricevuto una guida ufficiale” su come gestire i contenuti riguardanti il virus nelle prime fasi dell'epidemia. Il 31 dicembre 2019, un giorno dopo che i medici (incluso il defunto dottor Li Wenliang, ne abbiamo scritto qui) cercassero di avvisare la popolazione dell'esistenza di un patogeno allora sconosciuto, le piattaforme hanno iniziato a censurare le parole chiave correlate all'epidemia. I termini censurati, come “polmonite sconosciuta di Wuhan” e “wet market di Wuhan”, includevano anche combinazioni di parole relative alla salute pubblica e alle norme locali, come “divieto di viaggio” e “trasmissione da persona a persona”. Le due società cinesi, alle quali l'agenzia Reuters ha chiesto un commento, per ora non hanno risposto, così come la cyberspace administration of China, che sovrintende alle leggi sui contenuti online. Le aziende cinesi che si occupano di social media sono soggette a leggi severe che impongono loro di censurare i contenuti che “minano la stabilità sociale” o sono critici nei confronti del governo centrale. Questi controlli ferrei sono stati rafforzati sotto la presidenza di Xi Jinping. Il dottor Li Wenliang, oculista dell’ospedale centrale di Wuhan, “è diventato il tragico simbolo di questo disastro”, ha scritto sul Guardian il dissidente cinese Ma Jian. “Il 30 dicembre ha informato i suoi ex compagni di classe di medicina su WeChat che sette persone con un virus non specificato, che gli ricordava Sars (il virus che ha ucciso quasi 800 persone nel 2003), erano in quarantena nel suo ospedale e ha consigliato loro di proteggersi. In qualsiasi società normale, questo non sarebbe considerato sovversivo, ma in Cina, anche un avviso cauto e riservato ai colleghi può mettere una persona in pericolo. Quando Xi si è degnato di riconoscere pubblicamente l’epidemia, il 20 gennaio, ordinando che fosse ‘contenuto in modo risoluto’, era troppo tardi”. Con oltre un miliardo di utenti attivi mensili, WeChat è l'app di messaggistica più popolare in Cina. Secondo un sondaggio del 2019, oltre il 50 per cento dei corrispondenti ha dichiarato di fare affidamento su WeChat per ottenere informazioni e per comunicare. La piattaforma è diventata sempre più popolare anche tra i medici, che la utilizzano per condividere informazioni professionali con i colleghi.
DAGONEWS il 31 marzo 2020. La Cina si è scagliata contro i politici britannici dopo che ministri e alti funzionari di Downing Street hanno avvertito che ci sarà una "resa dei conti" con la Cina per la gestione dell'epidemia. Pechino oggi ha definito tali avvertimenti "calunnie", "attacchi" e un modo per alcuni leader di "schivare le loro responsabilità" durante la crisi globale, aggiungendo che i politici occidentali dovrebbero sentirsi "in colpa" per aver diffuso tali accuse. Hua Chunying, portavoce del Ministero degli Affari Esteri cinese, stava rispondendo ai recenti commenti fatti da leader americani e britannici quando, come riporta il Pechino Global Times, ha espresso le sue critiche, condannando chi parla di un insabbiamento da parte della Cina sulla reale gravità dell’epidemia: «Incoraggiamo alcune persone ad abbandonare la propensione politica e i pregiudizi e li invitiamo ad agire come il governo cinese e il Partito comunista cinese che danno la priorità alla vita e alla sicurezza della sua gente». Secondo la stampa britannica ministri e funzionari inglesi sono furiosi per la campagna di disinformazione portata avanti dalla Cina. Michael Gove, il Cabinet Office minister, ha rincarato la dose aggiungendo che la colpa è della Cina che non fornendo informazioni chiare, ha rallentato la risposta del Regno Unito alla crisi. Il ministro ha aggiunto che sebbene il primo caso sia stato identificato prima di Natale, lo stato comunista non è stato «chiaro riguardo alle dimensioni, alla natura e all'infettività. Nel nostro Paese ci muoviamo seguendo i pareri scientifici». Una fonte governativa ha dichiarato: «Naturalmente, l'unica priorità ora è affrontare la crisi, ma tutti sanno che deve esserci una resa dei conti quando tutto questo sarà finito». L'ex leader dei Tory Iain Duncan Smith ha dichiarato: «Per troppo tempo, le nazioni hanno avuto contatti con la Cina nella disperata speranza di firmare accordi commerciali. Ma una volta usciti da questa terribile pandemia, è indispensabile ripensare quella relazione e rivederla su una base molto più equilibrata e onesta».
L’Oms: “La Cina verso la guarigione. Gli altri paesi prendano esempio”. Il Dubbio il 25 Febbraio 2020. Il team di 25 esperti ha effettuato una ispezione sul campo di nove giorni a Pechino e nelle provincie di Guangdong, Sichuan e Hube. Le drastiche misure adottate dalla Cina per contenere l’epidemia di Covid-19 hanno prodotto risultati notevoli nel bloccare la trasmissione del virus da uomo a uomo, prevenendo o almeno ritardando centinaia di migliaia di casi. Lo ha affermato il team composto da esperti cinesi e dell’Organizzazione mondiale della Sanità (Oms). La valutazione è stata formulata ieri, nel corso di una conferenza stampa a Pechino, dopo che il team di 25 esperti ha effettuato una ispezione sul campo di nove giorni a Pechino e nelle provincie di Guangdong, Sichuan e Hubei. Il team ha affermato che la Cina sta adottando misure prudenti e ordinate per ripristinare gradualmente l’ordine nei settori sociale, economico, educativo e sanitario, e hanno affermato che altri paesi dovrebbero rivedere rapidamente le misure adottate nei confronti della Cina. Il team ha ammesso che sono necessarie ulteriori informazioni per comprendere meglio le dinamiche di trasmissione e la gravità della malattia, aggiungendo che il lavoro di prevenzione e controllo globale deve ancora affrontare gravi sfide. Il team ha consigliato ai paesi di adottare misure di monitoraggio attive, impegnarsi per la diagnosi precoce, la quarantena e il trattamento e di rintracciare e mettere in quarantena i soggetti a contatto con individui infetti. Ai paesi con casi importati o che scontano un rapido aumento dei casi di infezione l’Oms ha consigliato di attivare immediatamente piani di emergenza nazionali per garantire che i governi ad ogni livello adottino le misure di intervento necessarie a bloccare la diffusione del virus. Il team ha inoltre invitato i paesi a rafforzare lo scambio di informazioni sull’epidemia e rimanere uniti per affrontare congiuntamente le sfide poste dal Covid-19. Al di fuori della Cina, ci sono ora 2.074 casi in 28 paesi e 24 morti. Gli improvvisi aumenti di casi in Italia, nella Repubblica islamica dell’Iran e nella Repubblica di Corea sono profondamente preoccupanti. “C’e’ molta speculazione sul fatto che questi aumenti significhino che questa epidemia è diventata una pandemia”, ha affermato il capo Oms. L’organizzazione ha gia’ dichiarato un’emergenza di sanità pubblica di interesse internazionale – il nostro più alto livello di allarme – quando c’erano meno di 100 casi al di fuori della Cina e 8 casi di trasmissione da uomo a uomo. Ciò a cui assistiamo, prosegue il capo dell’organizzazione, sono epidemie in diverse parti del mondo, che colpiscono i paesi in modi diversi e richiedono una risposta su misura. “L’uso della parola pandemia ora non si adatta ai fatti, ma può certamente causare paura”, ha spiegato Tedros. Il team di esperti ha inoltre spiegato che la mortalità del nuovo coronavirus in Cina è di circa il 3-4 per cento: escludendo la provincia di Hubei tale cifra scende a circa lo 0,7 per cento. Stando ai rapporti dei media, non si è registrata nessuna mutazione significativa al nuovo coronavirus dopo lo studio di 104 ceppi; l’età media dei pazienti è di 51 anni e i pipistrelli potrebbero essere ospiti mentre i pangolini potrebbero essere ospiti intermedi. I team hanno confermato che più del 90 per cento dei casi confermati si trova nella provincia di Hubei e la risposta della Cina allo scoppio ha spostato la curva del rapido aumento di nuovi casi confermati di coronavirus, con un calo dell’80 per cento in due settimane. Gli esperti fanno sapere che la trasmissione del coronavirus in altre province al di fuori di Hubei e’ stata limitata, suggerendo che le misure di controllo del traffico nella provincia di Wuhan e Hubei hanno effettivamente impedito la diffusione dell’epidemia nel resto del paese e del mondo.
· I 65 giorni che hanno stravolto il Mondo.
Pandemia coronavirus, Cina, Wuhan: i 65 giorni che hanno cambiato il mondo. Questo è il racconto che riscrive la sequenza degli eventi a partire dal novembre dello scorso anno, lungo un filo che tiene insieme Asia, Europa e Stati Uniti. È una storia di allarmi ignorati, medici messi a tacere e informazioni censurate. Di Carlo Bonini (coordinamento e testo), Cosimo Cito (Roma), Anais Ginori (Parigi), Antonello Guerrera (Londra), Tonia Mastrobuoni (Berlino), Federico Rampini (New York), Filippo Santelli (Pechino). La Repubblica il 14 maggio 2020.
Sessantacinque giorni hanno cambiato la storia del mondo. Tra il 17 novembre del 2019 e il 20 gennaio del 2020, la Cina viene contagiata da un nuovo tipo di coronavirus – sarà ribattezzato Sars-Cov-2 – di cui tace o comunque ritarda informazioni che, probabilmente, avrebbero modificato il corso della pandemia, il suo diffondersi su scala planetaria e, in ogni caso, concesso un maggiore tempo di reazione a quei Paesi che ne sarebbero stati investiti. Questo è il racconto dei momenti chiave di quei sessantacinque giorni. Ed è un racconto che riscrive la cronologia ufficiale degli eventi così come sin qui consegnati alle cronache, lungo un filo che tiene insieme Asia, Europa, Stati Uniti: Pechino, Parigi, Berlino, Londra e New York. L’Oriente, le principali capitali europee, la porta dell’America. È il racconto di allarmi ignorati, medici in prima linea messi a tacere, di informazioni decisive per la tutela della salute pubblica censurate per proteggere il buon nome di un regime o colpevolmente sottovalutate dalla scienza medica. Di una caccia al “paziente zero”, che dalla Cina avrebbe progressivamente interessato l’intero pianeta, ma destinata per definizione a fallire, perché ne erano stati manomessi i presupposti. E che avrebbe dunque inutilmente girato in tondo alla convinzione, errata, che il contagio fosse sbarcato in Europa tra fine gennaio e febbraio scorsi quando, al contrario, il virus era arrivato nel vecchio continente già nell’autunno del 2019. Certamente, nessuno oggi può dire, sia pure con evidenze mediche a posteriori, in che misura questo sistematico “cover-up” di Pechino abbia ritardato la reazione alla pandemia. E dunque in che misura abbia contribuito al diffondersi del contagio. È un fatto che in quel mese e mezzo che va dall’inizio di dicembre 2019, quando nella città di Wuhan compaiono i primi casi di Covid, al 20 gennaio scorso, quando il presidente cinese Xi Jinping annuncia l’emergenza nazionale, la storia dell’epidemia venga scandita da una narrazione ufficiale, quella del canovaccio scritto dalla propaganda di Pechino, e da una sequenza di fatti che la contraddicono e che ora comincia ad illuminarsi. Una sequenza lastricata da negligenza, pavidità, cinismo, e, in qualche caso, dolo.
La città sul Fiume Azzurro. Nessuno sa ancora con certezza quando e dove l’epidemia di coronavirus si sia sviluppata. Quando, cioè, si sia verificato il passaggio da animale a uomo. Se ha ragione il quotidiano cinese in lingua inglese “South China morning post”, che avrebbe avuto accesso a documenti interni del Regime, il primo caso di Covid in Cina è del 17 novembre 2019. Un mese e mezzo prima, cioè, della data in cui Pechino segnalerà ufficialmente all’Organizzazione Mondiale della Sanità la presenza nel Paese di “casi di polmonite di origine sconosciuta”. E’ certo, al contrario, che il primo focolaio di una qualche consistenza si manifesta nelle prima metà di dicembre a Wuhan, capoluogo della regione dello Hubei. La chiamano la “Città sul fiume”, perché appoggiata sulle sponde dell’immenso e maestoso Fiume Azzurro, l’arteria che attraversa e irriga le grandi pianure della Cina centrale. Wuhan è uno snodo di trasporti e commerci tra l’arido Nord e il Sud subtropicale, tra la ricca costa Est e l’Ovest in via di sviluppo. Un hub, dunque, nevralgico su cui Xi Jinping punta molto. Tanto che, nei mesi precedenti, è qui che ha ospitato i Giochi mondiali militari e un importante incontro bilaterale tra il presidente cinese e il premier indiano Modi. La città di Wuhan, 11 milioni di abitanti.
I giochi militari. I Giochi mondiali militari si aprono a Wuhan il 18 ottobre del 2019 e proseguono fino al successivo 27. Arrivano un mese dopo i mondiali di basket e sono una sorta di Olimpiade riservata agli atleti in uniforme. Hanno una tradizione relativamente giovane (la loro prima edizione risale al 1995 e viene celebrata a Roma). Ma sono un’opportunità perfetta per la campagna con cui la Cina ha deciso di costruire la propria immagine nel mondo. Wuhan, a suo modo, è per altro una location perfetta. Spazi immensi, infrastrutture d’eccellenza, grandi parchi lacustri. Magnifica ospitalità per 9 mila atleti provenienti da 140 Paesi, che vengono accolti con l’inaugurazione di una nuova linea della metropolitana cittadina e alloggiati in blocchi abitativi di dieci o venti piani, con palestre, aree relax con videogiochi e laghetti. Oltre alle discipline tradizionali, i giochi assegnano medaglie anche a discipline tipicamente militari: pentathlon navale, paracadutismo, salvataggio, orienteering. Una grande festa che regala alla nostra squadra azzurra, una delle più numerose (la delegazione conta 139 atleti e poco meno di 70 accompagnatori), diverse soddisfazioni: 4 medaglie d’oro, 12 d’argento e 12 di bronzo, che valgono l’11° posto complessivo in un medagliere dominato dalla Cina (239 podi). Matteo Tagliariol, 37 anni, schermidore, si ammala rientrando in Italia. «Una forma influenzale acuta – ricorda oggi – da cui ho recuperato senza la necessità di alcun farmaco speciale. Ha avuto un’evoluzione normale, è semplicemente stata più lunga del normale. Questa forma influenzale ha colpito i miei polmoni, forse perché sono asmatico. Potrebbe però anche essere il coronavirus, ma non ho fatto i test». Tagliariol aggiunge che in quei giorni di ottobre a Wuhan, «tutti avevamo dei sintomi respiratori. Nel nostro appartamento, 6 su 6». Un ricordo, tuttavia, smentito dal fiorettista Valerio Aspromonte: «Ho fatto un viaggio intercontinentale e, dopo 16-18 ore, sono arrivato al villaggio di Wuhan. Poi, ho dormito tanto per la stanchezza e il jet lag, ma è normale. Non ho avuto sintomi influenzali, né febbre né tosse particolare. Io ero nella stessa camera di Tagliariol. Siamo stati 11 giorni dentro il villaggio, che era pulito e ordinato. Atleti moribondi per il villaggio non ne ho visti, ho sempre mangiato nella mensa. Era tutto nella norma».Anche il nostro Stato maggiore della Difesa, ridimensiona la testimonianza di Tagliariol: «Il personale sanitario militare, come previsto, ha sempre monitorato lo stato di salute della delegazione degli atleti durante la permanenza in Cina e non ha riscontrato alcuna criticità sanitaria individuale o collettiva al rientro in Italia collegabile al contagio da coronavirus». E tuttavia, qualcosa in quei nove giorni in Cina deve essere accaduto. A meno di non voler concludere che anche gli atleti di altre delegazioni europee abbiano sofferto di una sorta di rimodulazione del ricordo a posteriori. Sentite, ad esempio, i due pentatleti francesi Elodie Clouvel, medaglia d’argento a Rio, e Valentin Belaud, cinque volte campione del mondo: «Eravamo a Wuhan e ci siamo ammalati tutti. Valentin ha perso tre giorni di allenamento. Strano. E anch’io, soffrivo di malesseri che non avevo mai avuto. Ma non ci preoccupammo più di tanto». Anche in questo caso, è arrivata la smentita delle autorità militari francesi: «La delegazione ha beneficiato del monitoraggio medico, prima e durante i Giochi a Wuhan, con un team dedicato composto da circa venti persone. Non vi sono stati in seno alla delegazione francese casi dichiarati durante e al ritorno dai Giochi assimilabili, a posteriori, a casi di Covid 19».Il canovaccio non cambia con la delegazione spagnola. Il ministero della Difesa smentisce ufficialmente che i Giochi siano stati l’occasione del contagio. Gli atleti ricordano altro. Ad esempio, che quattro di loro vengono trattati in Cina con amoxicillina dopo aver fatto registrare sintomi di carattere influenzale. O che, il 27 ottobre, rientrando in Spagna con voli di linea Wuhan-Pechino-Madrid, o Wuhan-Parigi-Madrid, in diversi si ammalano. Laringiti, febbre persistente. In un caso, una polmonite. Sicuramente, è pacifico che sono due gli sportivi svedesi rientrati in patria con sintomi riconducibili al Covid 19. Ed è pacifico perché sono le autorità sanitarie scandinave a sostenerlo. Così come è noto il destino che attende al suo rientro negli usa negli Usa la “riservista” e ciclista 52enne Maatje Benassi, presente nella prova in linea dei Giochi. Viene accusata, senza prove, di aver contratto il Covid durante i Giochi e dunque di essere il “paziente zero” americano, il veicolo del virus negli Stati Uniti. Sulla caduta di Benassi a 15 km dal traguardo della prova a Wuhan si affollano una serie di teorie complottiste. La congettura fiorisce su un video cliccatissimo su YouTube. «È caduta perché aveva il fiato corto, stava male come tutta la sua squadra. E al ritorno ha importato negli Stati Uniti il virus creato in Cina, in un “complotto organizzato” con il marito». Lei e il marito lavorano per il governo: Maatje è impiegata civile in una base dell’aviazione in Virginia, Matt lavora al Pentagono. Tutta la famiglia è costretta a lasciare Fort Belvoir, la caserma in Virginia dove vivono, per fuggire le numerose minacce di morte che arrivano soprattutto attraverso i social alla 52enne riservista dell’Esercito.
Maatje Benassi. «È come svegliarsi da un brutto sogno – racconta Benassi, disperata – e ritrovarsi in un incubo, giorno dopo giorno. Vorrei solo che tutto questo finisse, perché il cyberbullismo è sfuggito di mano a qualcuno». Tra gli accusatori di Maatje Benassi c’è un sedicente giornalista investigativo, tale George Webb. Il suo video, “Five Card Benassi”, ottiene più di diecimila visualizzazioni, ed è ancora visibile su YouTube. Webb si scuserà: «Ritiro ufficialmente quel che avevo detto di Maatje Benassi. Mi erano state date informazioni sbagliate. Non è mai stata positiva e non ha mai agito come agente in incognito. Le mie informazioni al riguardo erano sbagliate». Troppo tardi. E comunque, l’ombra su quei Giochi resta. Dunque?
Il misterioso rapporto del Thanksgiving. Dunque – e conviene tenerne conto – non sono solo i Giochi militari di Wuhan a dare da pensare. A suggerire una retrodatazione del contagio. Se è vera la ricostruzione accreditata da un’inchiesta del network televisivo statunitense Abc – ancorché smentita con forza da Casa Bianca e Pentagono – accade infatti che intorno al Thanksgiving, la festa del Ringraziamento, 28 novembre 2019, qualcosa si muova anche dall’altra parte del pianeta. Negli Stati Uniti. Qualche giorno o qualche settimana prima, il ramo sanitario dell’intelligence militare (National Center for Medical Intelligence, NCMI) individua infatti un’epidemia in Cina. La conclusione è sostenuta da un’analisi incrociata di immagini satellitari, intercettazioni di comunicazioni interne al governo e alle forze armate cinesi. La principale preoccupazione del NCMI è che quell’epidemia possa mettere in pericolo i soldati americani di stanza in Asia, soprattutto in Corea del Sud e Giappone. Si prefigura un “potenziale cataclisma”. Il rapporto del NCMI viene fatto circolare prima tra i vertici del Pentagono e quindi, dopo numerose verifiche, arriva alla Casa Bianca, proprio intorno a Thanksgiving. Ne è destinatario il National Security Council (NSC), la cabina di regìa della strategia militare e della politica estera al servizio del Presidente Donald Trump. Che, tra i suoi compiti, ha appunto quello di presentare ogni mattina al Presidente una selezione condensata delle principali informazioni elaborate dall’intelligence. In quel President’s Daily Brief intorno a Thanksgiving fa dunque capolino l’epidemia di quel virus che ancora non ha un nome. E’ un warning. Non servirà. Tiriamo una prima riga. Diciamo pure che non esiste un’evidenza definitiva che gli atleti che parteciparono in ottobre ai Giochi militari avessero contratto il Covid. Anche se, lo abbiamo visto, i sintomi che affliggono alcuni di loro rientrando in Europa sono compatibili con quelli che il mondo imparerà a conoscere e con i tempi di incubazione del virus. E prendiamo pure atto della smentita di Pentagono e Casa Bianca sull’esistenza di un rapporto di Thanksgiving. E’ un fatto che, nella seconda metà di dicembre, nel reparto di Cure respiratorie dell’Ospedale provinciale di medicina integrata dello Hubei, in pieno centro città, a Wuhan, l’epidemia cessa di essere un segreto. Quantomeno all’interno dei confini cinesi. L’ospedale comincia ad accogliere una crescente teoria di pazienti che la prima linea della medicina di prevenzione cinese – le piccole cliniche di quartiere – non riesce più a contenere. Presentano sintomi di quella che appare come una normale influenza: febbre, tosse e debolezza. La stagione, del resto, è quella. Se non fosse che quei sintomi di influenza resistono a qualsiasi tipo di farmaco normalmente utilizzato per quel tipo di affezioni. Nessuno sembra avere anche solo la curiosità di mettere insieme quella sequenza di casi anomali. Di incrociare qualche dato epidemiologico. Nessuno. Tranne una dottoressa.
La dottoressa Zhang Jixian. Si chiama Zhang Jixian. Ha 54 anni ed è la direttrice del reparto di Cure respiratorie dell’Ospedale. Ha una storia professionale peculiare, perché, da giovane medico, ha partecipato alla campagna nazionale contro la Sars, la grande epidemia che sconvolge l’Asia tra il 2002 e il 2003, provocando quasi 800 morti. Il 26 dicembre, visitando un’anziana coppia, si insospettisce. Hanno entrambi la polmonite e mostrano gli stessi insoliti segni sulla Tac. Sa che è raro che membri della stessa famiglia presentino sintomi uguali, a meno che non si siano trasmessi una malattia infettiva. Zhang convoca dunque il figlio della coppia. Non ha tosse né febbre, ma la Tac rivela le stesse macchie nei polmoni. La Tac fissa le stesse macchie polmonari il giorno successivo. E questa volta il paziente è un commerciante del mercato di Huanan, distante poche centinaia di metri dall’ospedale. Zhang avverte la direzione, quindi il Centro per il controllo delle malattie (Cdc) di Wuhan, l’organo tecnico che in Cina coordina la risposta alle malattie infettive. In attesa di una risposta che sa non sarà immediata, dispone che i malati ricoverati in reparto vengano isolati e l’obbligo per il personale sanitario di indossare le mascherine. E’ una decisione che le varrà, qualche mese dopo, un’onorificenza del Regime e la consegnerà agli archivi della storia ufficiale della Repubblica popolare cinese come il primo medico ad aver dato l’allarme sul Covid. Ma Zhangh non è forse né la prima, né la sola. Soprattutto, è già troppo tardi. Il mondo ancora non lo sa. Ma la peste si è già messa in viaggio. Ha già bussato alla porta di una casa di Bobigny, banlieue a nord di Parigi. Ottomila e novecento chilometri a Ovest di Wuhan.
Il miracolato di Bobigny. Amirouche Hammar vive a Bobigny, banlieue nord di Parigi. E’ un pescivendolo di 43 anni. Il 27 dicembre, si ammala di Covid-19 senza sapere che sia quello il male che se lo sta portando all’altro mondo. Perché il Covid-19, in quel momento, semplicemente non esiste. Né per la Francia (solo il 24 gennaio verranno dichiarati i primi tre casi di pazienti Covid19: una coppia di turisti cinesi e un imprenditore di origine asiatica curati tra Parigi e Bordeaux), né per la Cina, né per l’Organizzazione mondiale della sanità.
Amirouche Hammar, venditore di pesce. Oggi, che sono passati oltre quattro mesi da quel 27 dicembre, nel piccolo giardino della sua casa, Hammar scherza giocando con un pallone: “Sono il Ronaldo del Corona”. Il che non è. E’ possibile piuttosto che sia il “paziente zero” francese. O, comunque, tra i primi “pazienti zero” d’Europa. Hammar si ammala il 20 dicembre, dopo che sua moglie ha già avuto una forte tosse secca. Comincia a curare quella che pensa sia un’influenza con olio d’oliva, limone e aglio. “È così che si fa a Cabilia, la mia terra”, racconta. I rimedi delle nonna, però, non bastano. Comincia a sputare sangue, a sentire dolori nel petto, lancinanti “come pugnalate”. Il 27 dicembre si decide ad andare in pronto soccorso. “Pensavo fosse arrivata la mia ora”, ricorda ora Hammar, che soffre di diabete e asma. Ma non è così. Trascorre cinque giorni in terapia intensiva che lo strappano alla morte. Torna a casa, dove comincia una lunga convalescenza e dove dimentica o forse ignora che il medico che lo ha salvato, il dottor Yves Cohen, responsabile della terapia intensiva dell’ospedale di Bondy, lo ha sottoposto a un tampone. Lo stesso che, conservato e riesaminato quattro mesi dopo, dirà la parola definitiva su quella misteriosa malattia di fine dicembre. E’ Covid-19. Ma da chi ha contratto il virus Hammar? Il suo ultimo viaggio all’estero, in Algeria, risale all’agosto 2019. E dunque, dice oggi, resta una sola possibilità. Che a contagiarlo sia stata la moglie. E’ un’ipotesi verosimile. La donna lavora nel reparto pescheria di un Carrefour vicino all’aeroporto di Roissy, dove fino a gennaio scorso atterrano voli giornalieri da Wuhan. “Molti turisti asiatici vengono al Carrefour per comprare salmone e pesce spada prima di ripartire”, racconta Hammar e in un angolo del supermercato – aggiunge – c’è un sushi in cui lavorano dei cinesi.
Fermiamoci per un momento. E mettiamo un primo punto.
27 dicembre, Wuhan, Ospedale provinciale di medicina integrata dello Hubei.
27 dicembre, Parigi, ospedale di Bondy.
Il Covid si è già preso due continenti. Il mondo lo ignora.
Il mercato di Huanan. Il 29 dicembre, sulla base delle segnalazioni della dottoressa Zhang, le autorità sanitarie di Wuhan avviano un’indagine epidemiologica. Dopo la Sars, Pechino ha creato un sistema di allerta precoce e casi come quello che arriva dall’ospedale di Wuhan dovrebbero essere immediatamente segnalati al centro. Ma non è quello che avviene. Soprattutto, il 27 dicembre, è accaduta un’altra cosa che ancora non sappiamo.All’Ospedale centrale di Wuhan, anch’esso vicino al mercato di Huanan, arrivano i risultati di un campione prelevato a un paziente 65enne, cliente abituale del mercato. Le analisi sono state effettuate da un laboratorio privato di Canton. E l’esito, che per qualche strana ragione viene comunicato per telefono, segnala evidenze di un nuovo coronavirus. Una grande famiglia di virus, di cui fanno parte banali patogeni da raffreddore, ma anche quello della Sars. Il 30 dicembre, un’altra dottoressa dello stesso ospedale, la direttrice del pronto soccorso Ai Fen, riceve da un laboratorio di Pechino, il Capital Bio Medlab, il risultato di un secondo test, fatto su un’altra persona. Ai, nei giorni precedenti, aveva visitato una serie di pazienti con una forma di polmonite resistente ai farmaci e le quattro lettere che legge sul responso del laboratorio la fanno sudare freddo. “Sars”. È un errore, un falso positivo. Oggi sappiamo che quel virus è un parente della peste che cambierà la storia del mondo, Sars-Cov-2. Eppure, è quell’errore a convincere la dottoressa che non c’è un momento da perdere. Avverte i vertici dell’ospedale, quindi le autorità sanitarie locali. Chiede che medici e sanitari comincino a indossare mascherine. L’indagine epidemiologica, intanto, punta dritto sul mercato di Huanan. E c’è un motivo. Molti dei primi casi, anche se non tutti, hanno un qualche legame con quel luogo. Il nome esatto del mercato è “Huanan Seafood Market”, ma all’interno non si vende solo pesce. In quel “wet market” in pieno centro città, squallidi capannoni a fianco a grattacieli di lusso, a due strade dalla stazione ferroviaria più trafficata della Cina centrale, si smerciano anche specie di animali selvatici come gli zibetti, che già in passato hanno costituito il serbatoio di patogeni trasmessi all’uomo.
“Nessuna comunicazione senza autorizzazione”. Il 30 dicembre, la commissione sanitaria di Wuhan manda una comunicazione interna a tutte le strutture sanitarie della città. E’ il primo atto ufficiale che segnala un’epidemia in corso. Si chiede ai medici di prendere precauzioni, isolando i pazienti e di comunicare tutti i casi sospetti di polmonite diagnosticati nei giorni precedenti. C’è una seconda direttiva, tuttavia. Che nulla ha a che fare con la protezione della salute pubblica, ma con l’ossessione del Regime per il controllo dell’informazione. Con la pedagogia del governo del popolo. E’ fatto obbligo – questo si legge in quel documento – di non diffondere informazioni sull’epidemia «senza autorizzazione». Il sistema di allarme sanitario precoce, testato solo qualche mese prima e magnificato dalla propaganda, resta dunque muto. La questione non è innanzitutto e soltanto faccenda di medici e infermieri. E’ faccenda che va gestita rispettando i numerosi e multiformi livelli della gerarchia del Partito comunista. Nessuno sa, o immagina forse, che il countdown dell’epidemia ha cominciato a correre da tempo. Che il tempo è già scaduto per la Cina. E non solo per lei.
La strana curva di Colmar. Michel Schmitt è il capo del dipartimento di radiologia nell’ospedale di Colmar, regione dell’Alsazia, Francia orientale, ai confini con la Germania. Ha avuto l’intuizione qualche settimana fa, alla fine di un’altra lunga giornata passata a osservare tac e radiografie dei pazienti Covid ricoverati nell’ospedale di Colmar. Ha ricordato di aver già visto quelle immagini nell’autunno del 2019. Ha così rimesso a posto le lancette dell’orologio del contagio. Un giro più indietro. Forse due. Mentre Wuhan ospita i suoi giochi militari, la Francia è concentrata sulle manifestazioni e gli scioperi per la riforma delle pensioni. Ma nell’ospedale di Colmar si moltiplicano i ricoveri per polmoniti. Polmoniti di nuovo tipo, per lesioni, sintomatologia e durata. Nella sua esperienza decennale – è ormai vicino alla pensione – Schmitt non ha mai visto niente di simile.
Il quartier generale della Webasto a Stockdorf, in Germania. I pazienti ricoverati vengono sottoposti a Tac e radiografie al torace. Centinaia di referti. Che, riletti oggi, danno la vertigine. Passati al vaglio di una tripla lettura sulla base dei criteri internazionali di diagnostica per immagini del Covid-19, quei referti dicono che 482 pazienti erano ragionevolmente positivi al virus. Il 53 per cento era composto da uomini con una media di 65 anni. La “paziente zero” di Colmar, secondo la ricerca che Repubblica ha potuto consultare, è una francese di 28 anni ricoverata il 16 novembre, mai stata in Cina. 16 novembre 2019. Un giorno prima del primo caso accertato di Covid in Cina. Dunque, l’epidemia in Francia ha cominciato a girare ancora prima di quella fine di autunno. “Si – dice il dottor Schmitt – A questo punto, è verosimile che in Cina il virus fosse in circolazione quattro, cinque mesi prima l’inizio ufficiale dell’epidemia. Diciamo durante l’estate”.
Whistleblowers. Il 30 dicembre 2019, il divieto da parte delle autorità cinesi di comunicare “senza autorizzazione” i dati dell’epidemia di un virus di cui ancora si ignora l’esatta natura non fa i conti con un formidabile strumento della contemporaneità – le chat dei servizi di messaggistica – e con la passione che, nelle corsie dell’ospedale di Wuhan, muove la dottoressa Ai Fen. La mattina stessa del 30 dicembre, dopo aver avvertito i responsabili dell’ospedale, Ai ha cerchiato la con un evidenziatore rosa la parola “Sars” sul referto ricevuto dal “Capital Bio Medlab”, il laboratorio di Pechino, e ne ha spedito la fotografia, insieme alle immagini delle Tac dei pazienti, a un compagno della scuola di medicina. Il messaggio inizia a circolare tra i medici dell’Ospedale Centrale, finché non raggiunge un giovane oftalmologo 33enne, Li Wenliang. A sua volta, Li lo inoltra a un gruppo su WeChat, il social media dei cinesi, di cui fanno parte un centinaio di contatti che hanno studiato medicina con lui.
Il medico Li Wenliang. «Sette casi di Sars confermati al Mercato di Huanan. Messi in quarantena nel nostro ospedale», scrive Li Wenliang alle 17 e 43, confermando che in quel momento gli indizi puntano verso un mercato. Ma anche che i medici in prima linea hanno già intuito il livello di rischio. Qualcuno lo avverte: “Fai attenzione a quello che scrivi o cancelleranno il gruppo”. Un’ora dopo, Li risponde. Precisa che il virus è una variante diversa di coronavirus rispetto alla Sars, prega di «non far circolare le informazioni fuori dal gruppo» e consiglia di «avvertire le vostre famiglie e i vostri cari di prendere precauzioni». La Cina ha ufficialmente un whistleblower. E, con lui, un grosso problema. Come spesso succede in questo Paese, dove i social network sono un moltiplicatore potentissimo di informazioni – vere, false, finte, approssimative – il messaggio inizia infatti a diffondersi con una rapidità impressionante. A Wuhan e non solo. Nonostante la precisazione di Li, il messaggio che passa è che quel virus che ha aggredito Wuhan è “Sars”. Quella parola è una cicatrice profonda nella mente di tutti gli asiatici. Un fantasma che all’improvviso torna a prendere corpo. Durante la notte e la mattina successiva, l’allarme di Li, che contribuiscono a diffondere anche altri sette medici, raggiunge e accende migliaia di smartphone. Lorenzo Mastrotto, manager italiano che vive da anni a Wuhan con la famiglia, lo ricorda bene. Come ricorda l’ondata di panico che attraversa immediatamente la città. Comincia la corsa alle mascherine, che vengono rapidamente esaurite. Fino a diventare introvabili.
La dottoressa Ai Fen. Non è chiaro come la notizia delle polmoniti di Wuhan arrivi alle autorità di Pechino. Non fosse altro perché la versione ufficiale del Regime cinese è e resta vaga. È possibile che siano i funzionari locali dello Hubei ad avvisare il centro, come da protocollo. O, al contrario, che abbia ragione un noto economista cinese, Hua Sheng. Se la sua ricostruzione coglie nel segno, è il direttore del Centro per il controllo delle malattie di Pechino a imbattersi nella notizia rilanciata da Li che fluttua in Rete e ad allertare la catena gerarchica del partito, la Commissione sanitaria nazionale, equivalente del nostro ministero della Salute. La macchina si mette comunque in moto e la mattina successiva, il 31 dicembre, un team di esperti viene inviato a Wuhan. In quel momento, come ormai sappiamo, diversi laboratori privati hanno confermato la presenza di un coronavirus. Ci sono anche indizi che la trasmissione possa avvenire all’interno della stessa famiglia, cioè tra uomo a uomo, come dimostrano le precauzioni prese dalla dottoressa Zheng e della dottoressa Ai. Eppure, il primo messaggio pubblico che il Centro per la prevenzione delle malattie di Wuhan recapita alla popolazione è di tutt’altro tenore: «L’investigazione non ha trovato casi evidenti di trasmissione da uomo a uomo o infezioni allo staff medico – si legge – la malattia è prevedibile e controllabile». Se non è una menzogna (il contagio da uomo a uomo sarà conclamato dalla pandemia) è un catastrofico errore scientifico. E, in ogni caso, la cattiva coscienza del Regime è nella comunicazione edulcorata che decide di trasmettere all’ufficio di Pechino dell’Organizzazione mondiale della Sanità: «A Wuhan si sono verificati una serie di casi di polmonite di causa sconosciuta». Il mondo ora comincia a sapere. Non troppo, a ben vedere.Non troppo da guastare le feste di Capodanno di qualche miliardo di essere umani che abitano il pianeta. Abbastanza per convincere le cancellerie europee che qualcosa in Cina non sta andando per il verso giusto.
Il laboratorio BSL-4. Wuhan è la più francese delle città cinesi. Dal tempo in cui venne siglato un partenariato tra il Generale de Gaulle e Zhou Enlai, il primo ministro francofilo di Mao Zedong. Cento gruppi come Psa, Eurocopter, L’Oréal o Pernod-Ricard, hanno sedi operative a Wuhan, che concentra circa il 40 per cento degli investimenti francesi in Cina. E’ anche per questo che è nella capitale dell’Hubei che l’ex premier Bernard Cazeneuve ha inaugurato il 23 febbraio 2017 il laboratorio BSL-4, collegato all’Istituto di virologia e destinato a diventare il perno del dossier con cui la Casa Bianca accusa Pechino. Il luogo dove il Covid-19 sarebbe stato coltivato e da cui sarebbe tracimato per un catastrofico incidente. Il BSL-4 è in ogni caso un regalo francese. Dopo l’epidemia di Sars, l’ex presidente Jacques Chirac aveva voluto aiutare gli amici asiatici, mettendogli a disposizione la sofisticata tecnologia necessaria per la ricerca sugli agenti patogeni più letali. In cambio, la Francia otteneva un avamposto scientifico in Cina in caso di nuove epidemie. La storia era andata e sarebbe andata diversamente. Dopo aver superato molti ostacoli – dai dubbi sollevati dai Servizi segreti francesi alle proteste della diplomazia americana – i vari governi francesi avevano accompagnato il progetto fino al 2017, salvo interrompere subito dopo la collaborazione scientifica. Le autorità cinesi non avrebbero mai accolto i cinquanta ricercatori francesi che dovevano collaborare a formazione e progetti. I cinque milioni di euro che Parigi aveva stanziato sarebbero rimasti congelati. Nel laboratorio, sarebbe stato presente un solo rappresentante del patto bilaterale, nella persona del microbiologo René Courcol.
Il presidente francese Macron. Poco, si dirà. Ma abbastanza, nei giorni a cavallo di Capodanno, perché Parigi comprenda tra le prime in Europa cosa stia accadendo a Wuhan. “Non appena le autorità cinesi hanno annunciato la nuova pneumopatia, il 31 dicembre 2019, il console generale di Wuhan ha allertato contemporaneamente il Centro di crisi e sostegno del ministero e l’ambasciata a Pechino”, spiega un portavoce del Quai d’Orsay. “A partire dall’inizio di gennaio, sono stati poi effettuati diversi aggiornamenti negli avvisi ai viaggiatori”, prosegue il ministero degli Esteri. Sicuramente, il 5 gennaio, la rete diplomatica francese segnala che le autorità cinesi dichiarano 59 persone contaminate, sette delle quali in gravi condizioni. “In quel momento la situazione era tutt’altro che allarmante”, sottolineano oggi le autorità di Parigi. E tuttavia, al Quai d’Orsay, il Presidente Emmanuel Macron viene informato di quanto accade a Wuhan tra il 30 e il 31 dicembre, come racconta una fonte vicino all’intelligence francese a Repubblica: “L’allerta arriva al Presidente attraverso due diversi canali. Uno diplomatico e uno della comunità scientifica”. L’informativa cita una “polmonite atipica con sintomi della Sars” ed è sostanzialmente identica a quella fornita all’Oms in quelle stesse ore.
Laboratorio di ricerca di Wuhan. L’Eliseo – che, al contrario di quanto riferisce la fonte di Intelligence, colloca il pieno coinvolgimento del Presidente soltanto il 23 gennaio, quando la Cina annuncerà il confinamento di Wuhan – deciderà il rimpatrio dei francesi residenti in Hubei solo il 30 gennaio. “Il problema della nostra intelligence, come di molte altre in Occidente, non è l’assenza di informazioni, che sono persino troppe, ma la capacità di leggerle e metterle in ordine di priorità”, chiosa la fonte con Repubblica. In ogni caso, i voli diretti tra Roissy e Wuhan continueranno regolarmente fino al 30 gennaio. E fino a inizio marzo, come ha rivelato un’inchiesta di Le Monde, il ministero della Sanità continuerà a distruggere scorte di milioni di mascherine perché scadute o lasciate ammuffire in qualche deposito. Le stesse che drammaticamente mancheranno negli ospedali durante l’emergenza. Il 30 dicembre del 2019 è anche il giorno in cui si accende una luce a Berlino. L’Istituto Koch (RKI), l’Agenzia governativa tedesca che centralizza i dati sulla sanità, riceve un minuto prima della mezzanotte una mail che avvisa di una “polmonite di origine ignota” che si sta diffondendo a Wuhan. Il mittente della comunicazione è la ProMED-mail, un programma della Società internazionale delle malattie infettive. La Promed rilancia la comunicazione ufficiale delle autorità di Pechino, che parla di quattro casi, appunto, di una misteriosa polmonite. Il “paziente uno”, si legge, “viene dal mercato del pesce di Wuhan”. E tuttavia, secondo quanto Repubblica ha potuto raccogliere da una fonte governativa, già a fine dicembre i servizi segreti interni tedeschi, il “Bundesnachrichtendienst”, avrebbero ricevuto un allarmante mail da Wuhan che racconta del pericolo di un nuovo virus. L’allarme – secondo la ricostruzione della fonte – viene girato al ministero della Sanità e all’Istituto Koch. Che, tuttavia, perdono giorni preziosi, restando inerti fino al 31 dicembre, quando Pechino informa l’Oms e dunque il mondo. Passerà un mese prima di censire il primo paziente Covid tedesco. Ammesso e non concesso che quello sia stato il primo.
In morte del dottor Li. Tra Wuhan e Pechino, quelle tra il 30 e il 31 dicembre, sono ore infernali. Il lavoro degli investigatori sanitari nello Hubei è convulso. I casi su cui indagano sono diversi e localizzati in diversi ospedali. Ed è possibile, perfino naturale, che il loro sguardo sia catturato dal filo che tiene insieme molti degli ammalati con la frequentazione del mercato di Huanan. Si convincono che lì sia l’origine del problema. E, in assoluta buona fede, trasmettono questa convinzione alle autorità centrali. Su una cosa, del resto, centro e periferia sembrano senza ombra di dubbio essere d’accordo: la necessità di tenere sotto controllo le informazioni. Evitare una fuga di notizie che metta in ginocchio il Paese e ne comprometta l’immagine nel mondo. Nel giro di due giorni, la Commissione sanitaria di Wuhan e quella nazionale mandano infatti un messaggio a tutti i centri diagnostici che hanno sino a quel momento rilevato tracce di coronavirus, spiegando che i campioni della misteriosa polmonite devono essere trattati come «microorganismi altamente patogeni e che tutti devono essere spostati ai laboratori approvati oppure distrutti».
Ai Fen. La dottoressa Ai Fen viene convocata dal Comitato di ispezione disciplinare dell’ospedale e duramente rimproverata per aver «diffuso pettegolezzi» e «danneggiato la stabilità» del sistema sanitario di prevenzione. Mentre il dottor Li Wenliang riceve la visita di agenti della polizia locale, che gli notificano una lettera di ammonizione per «aver fatto commenti falsi su Internet» e gli fanno firmare una dichiarazione in cui si impegna formalmente a desistere di lì in avanti da comunicazioni di quel tipo. Sulla televisione di Stato, i telegiornali della sera danno la notizia di otto medici arrestati per aver diffuso dicerie. Pochi giorni dopo, Li tornerà al lavoro. Si ammalerà di Covid-19 e morirà, diventando il simbolo di quale sia il prezzo della verità in un paese come la Cina. Ma la vita di Li conta nulla, evidentemente, nella partita che sta giocando il Regime. Aver chiuso gli spifferi che arrivano da Wuhan ha consentito di spegnere sul nascere un potenziale focolaio di panico tra la popolazione. Il primo gennaio il mercato di Huanan viene sterilizzato distruggendo ogni traccia di organismo animale, comprese quelle che avrebbero potuto aiutare a ricostruire la genesi dell’epidemia. Da allora, per altro, i campioni raccolti al mercato restano un mistero per la comunità scientifica internazionale.
Il dottor Li pochi giorni prima della morte. Alla popolazione viene data notizia che il virus non si diffonde tra gli uomini. Pechino è convinta che la scommessa contro il tempo possa essere ancora vinta. Perché è vero che il Mondo ormai sa di una generica “epidemia di polmoniti di origine sconosciuta”, ma potrebbe dimenticarla se la progressione di quell’epidemia, così come le sue origini possono essere contenute e gestite. E’ una scommessa che, almeno per altre tre settimane, funzionerà con il mondo intero. Non con chi la Cina comunista la conosce bene e le è nemica. Con Taiwan, la Cina democratica, dove, dal 3 gennaio, le autorità dell’isola cominciano a prendere la temperatura a tutti i passeggeri che sbarcano da aerei in arrivo da Wuhan. È una delle primissime mosse di prevenzione messe in campo al mondo. E si rivelerà decisiva. Taiwan sarà uno dei pochi Paesi che è riuscito a contenere il virus senza nessun lockdown.
Batwoman. Bisogna restare al 30 dicembre, perché ne succedono di cose in quelle ore. Shi Zhengli, una delle virologhe più famose di Cina, sta partecipando a una conferenza a Shanghai. Qualcuno la chiama Batwoman, la signora dei pipistrelli. Con qualche ragione. Piccola di statura e minuta di complessione, Shi ha passato anni a infilarsi nelle grotte più oscure, umide e impenetrabili dello Yunnan, per prelevare campioni di pipistrelli “ferro di cavallo” e comporre nell’Istituto di virologia di Wuhan uno dei più grandi archivi di coronavirus al mondo.
La virologa cinese Shi Zhengli nel laboratorio di Wuhan. Lo smartphone di Shi vibra. La cerca il capo del suo laboratorio nello Hubei, quello dell’Istituto di virologia. Le chiede di rientrare immediatamente, per indagare su un nuovo focolaio di polmonite virale scoppiata negli ospedali della città. Shi sale sul primo treno veloce e mette subito al lavoro la sua squadra per isolare il virus e mapparne il genoma. E’ tormentata da un sospetto che si le toglie il respiro. Che quel patogeno possa essere scappato per un incidente proprio da lì, dal laboratorio. Mesi dopo, racconterà di «non aver dormito per giorni», finché, con il genoma alla mano, non avrebbe verificato che il nuovo virus non corrispondeva a nessuno di quelli archiviati nelle sue provette. Lo giurerà sulla sua vita, prima di tutto ai suoi concittadini: la pandemia non è inizia all’Istituto di virologia. Ma questo non basterà, lo vedremo, a far si che quel cubo grigio nel Sud di Wuhan, dono dei francesi, l’unico laboratorio di massima sicurezza biologica in Cina, non resti oggetto di sospetto, e fulcro dell’atto di accusa che gli Stati Uniti si preparano ad istruire contro Pechino. La Cina rivendica la rapidità con cui i suoi scienziati, a cominciare da Shi, hanno identificato il nuovo virus. Anche qui, però, la storia si muove su due piani. Quello dell’ufficialità e quello della verità. Il 5 gennaio, infatti, nonostante non ne abbia i requisiti, un laboratorio dello Shanghai Public Health Clinical Centre, diretto dal professor Zhang Yongzhen, è il primo a isolare il coronavirus, a partire da un campione ricevuto da un ospedale di Wuhan. Il dottor Zhang avverte subito la Commissione sanitaria nazionale, raccomandando di adottare «misure di prevenzione e controllo adeguate».
Laboratorio ad alta sicurezza di Wuhan. I laboratori designati isolano il virus solo due giorni dopo, il 7 gennaio, e la comunicazione ufficiale che annuncia al mondo che ha a che fare con un nuovo coronavirus viene data solo il 9, dopo che un articolo del Wall Street Journal aveva già rivelato la scoperta. Non solo: l’11 gennaio, il dottor Zhang condivide su un database globale, e dunque aperto, il genoma completo del virus. Cosa che le autorità cinesi faranno solo il giorno successivo. L’Organizzazione mondiale della sanità loda il tempismo della Cina, che a suo avviso, dimostra così «l’accresciuta capacità di gestire l’epidemia». Qualche giorno dopo, il laboratorio del professor Zhang verrà chiuso per “rettifica”. Certo, rispetto ai grossolani insabbiamenti agli inizi dell’epidemia di Sars, le capacità scientifiche della Cina e la sua disponibilità a collaborare fanno passi da gigante in quei primi giorni di gennaio. Ma è sul campo, a Wuhan, che l’opacità della gestione cinese emerge nella sua dimensione e volto più evidenti e macroscopici. E dunque conviene ritornare a quel 31 dicembre, quando la versione ufficiale confezionata dal Regime viene recitata con un copione che non ammette improvvisazioni o sbavature. I messaggi sono due. Il primo: la situazione è sotto controllo. Il secondo: il virus non si trasmette da uomo a uomo.
La menzogna. È una menzogna. Da qualunque parte la si voglia guardare. Che – è da dimostrare con quanta dose di consapevolezza – viene puntellata per giorni, contro ogni evidenza, in un misto di incompetenza, presunzione e ottuso ossequio alle priorità dell’agenda politica. Il 3 gennaio, i casi confermati di Covid a Wuhan salgono a 41, e risultano tutti trasferiti all’ospedale che in città si occupa di malattie infettive, lo “Jinyintan”. Ma, da quel momento, il numero dei nuovi contagi non viene più aggiornato per giorni. Occultando così il dato che darebbe al mondo la prova che la situazione è fuori controllo, la commissione sanitaria di Wuhan ha imposto criteri che escludono dal computo dei nuovi contagiati molti degli ammalati. Può infatti essere conteggiato solo chi ha visitato il mercato del pesce di Huanan o chi è entrato in contatto con una persona che lo ha visitato. Uno scherzo, se non fosse vero. Per i medici in corsia, le prove di trasmissione da uomo a uomo sono infatti sempre più evidenti. Ci sono almeno due cluster familiari, ma non possono dirlo: «Sapevo che doveva esserci la trasmissione umana», ammette la dottoressa Ai Fen in una intervista al magazine Renwu, che il periodico cancellerà dai suoi archivi e che verrà “salvata” dagli utenti cinesi in varie forme, tra cui il linguaggio delle emoticon. «Se avessimo avuto un coordinamento migliore avremmo potuto trovare prima la trasmissione tra uomo e uomo», riconoscerà anche il decano degli epidemiologi cinesi, Zhong Nanshan.
Il presidente cinese Xi Jiping per la prima volta in pubblico con la mascherina, il 10 febbraio. Ma ai papaveri di Wuhan va bene così. In ossequio al principio di ogni Regime. Che una cosa, per essere vera, deve essere detta. Altrimenti, è una “diceria”. Dal 6 al 17 gennaio, in città si tengono così le “Due sessioni”, la più importante riunione annuale del parlamento provinciale. I titoli dei giornali di regime sono tutti dedicati a quell’appuntamento. La polmonite di origine ignota sparisce dall’agenda. Cessa di esistere. Il regime farà poi sapere che il 7 gennaio, lassù a Pechino, Xi Jinping è stato per la prima volta informato dell’epidemia e ha dato disposizioni perché venga contenuta con decisione. E’ ragionevolmente il primo chiodo cui appendere un aggiustamento della versione ufficiale che il Regime si prepara a spendere con il mondo e che prevede – anche qui con scarsa originalità – che la responsabilità dei ritardi e le omissioni sul contenimento della pandemia vadano caricate sulle spalle di funzionari locali. Certo, è possibile che i mandarini dello Hubei provino davvero a minimizzare. L’imperatore è lontano, severo, e nessuno ha voglia di guastargli l’umore con delle brutte notizie. Sta di fatto che la cronaca di quei giorni mostra una serie di tentativi di rassicurare, di nascondere un’emergenza ogni giorno più preoccupante. Il 9 gennaio muore ufficialmente il primo paziente: un uomo di 61 anni con patologie precedenti, ma il decesso viene reso noto solo due giorni dopo. Nel frattempo, Wang Guangfa, membro di un secondo gruppo di esperti inviati da Pechino, ribadisce alla tv di Stato che la situazione è «controllabile». Qualche giorno dopo si ammalerà anche lui, diventando oggetto di un rabbioso scherno in Rete. La Cina, del resto, ha un grande alleato: l’Organizzazione Mondiale della Sanità. Ancora il 12 gennaio, l’Oms ribadisce la sua totale fiducia nella versione governativa cinese, «rassicurata dalla qualità delle investigazioni in corso e dalle misure di risposta implementate a Wuhan e dall’impegno a condividere informazioni con regolarità». In un comunicato, l’organizzazione spiega che «le evidenze suggeriscono che l’epidemia è associata con l’esposizione al mercato (…), mentre non c’è chiara evidenza di trasmissione umana».
Il direttore dell’Oms Tedros Adhanom Ghebreyesus. Peccato che il giorno successivo le autorità tailandesi trovino il primo caso positivo di Covid-19 fuori della Cina. È una turista proveniente da Wuhan, che non ha mai messo piede tra le bancarelle di Huanan, anche se è stata in altri mercati della città. Agli occhi di molti epidemiologi questo è un enorme campanello d’allarme. Soprattutto è il momento decisivo in cui la Cina perde il monopolio delle informazioni sull’epidemia. I dati che cominciano ad affluire da altri angoli di mondo contraddicono la versione ufficiale di Pechino. Il 14 gennaio, il ministro Ma Xiaowei, potentissimo capo della Commissione sanitaria nazionale, tiene una conferenza con i leader provinciali in cui li avvisa di prepararsi a un «evento sanitario maggiore». Senza dubbio è al corrente che due giorni prima, a Shenzhen, nel Sud della Cina, sono stati ricoverati due pazienti risultati positivi al coronavirus, familiari. I casi però per il momento non vengono confermati, perché il protocollo prevede che vengano validati da Pechino. Ma per il Regime è la conferma che la scommessa di tenere chiusa dentro i confini dello Hubei e della censura del Paese la peste che sta per abbattersi sul mondo è perduta. Il 15 gennaio, persino l’Oms capisce che è meglio sfilarsi dall’abbraccio mortale con Pechino prima che sia troppo tardi. Un funzionario dell’Organizzazione dice in conferenza stampa che ci potrebbe essere «trasmissione limitata tra uomo e uomo, potenzialmente all’interno delle famiglie» ed è a questo punto che anche la Commissione sanitaria locale di Wuhan decide di allineare la sua versione. Naturalmente, le voci rassicuranti non si spengono. Il rischio è «basso», viene ripetuto. E’ vero, a Wuhan, molti portano la mascherina, ma per il resto la vita scorre normale. Ci si prepara al Capodanno lunare cinese, la più grande migrazione di massa sulla faccia della terra, durante la quale milioni di studenti e lavoratori lasciano le metropoli in cui vivono e tornano nei villaggi d’origine per festeggiare con le famiglie. Le riunioni politiche sono finite il 17 gennaio e il giorno successivo, come ogni anno, il sindaco di Wuhan, Zhou Xianwang, tiene un grande banchetto di Capodanno, a cui partecipano 40 mila famiglie, che si servono da piatti comuni. Non c’era ragione per cancellarlo, sosterrà Zhou, visto che la trasmissione tra uomo era giudicata limitata. Il giorno successivo c’è anche il concerto ufficiale per l’anno nuovo, il suo evento più esclusivo con invitati scelti. Il giornale locale scriverà che molti dei musicisti hanno sfidato «brutti raffreddori».
Gli acerrimi nemici. Se il report del Thanksgiving alla Casa Bianca doveva suonare come un allarme precoce, ha fallito. Nelle settimane che vanno tra la fine del 2019 e la prima metà di gennaio, gli Stati Uniti dormono apparentemente tra due guanciali. Non fosse altro perché quella misteriosa e lontana epidemia di polmoniti di origine ignota nel cuore della Cina centrale cade in un momento politico peculiare. Washington e Pechino stanno negoziando una tregua sulla guerra dei dazi. Il Presidente Trump sta strappando a Xi Jinping delle promesse su un forte aumento delle importazioni di prodotti made in Usa (molte decine di miliardi in derrate agricole, e non solo). E, il 13 dicembre del 2019, è stata firmata una tregua della guerra dei dazi tra i due Paesi – detta anche fase uno – che ha bloccato una nuova escalation dei dazi, poi finalizzata nei dettagli in gennaio. E’ insomma un periodo delicato. Trump sta incassando un risultato per lui strategico, e lo attribuisce in parte a un buon rapporto personale con Xi Jinping. Rovinare l’intesa per un virus ancora “clandestino” agli occhi dell’opinione pubblica americana e mondiale, può essere un errore. Per l’America in senso lato – inclusa tanta parte dell’establishment, e l’intero corpo medico – il coronavirus fa dunque capolino in modo molto discreto l’8 gennaio. I media Usa riportano una notizia data dalla tv governativa di Pechino, la Cctv: la Cina ha identificato un nuovo virus che provoca una malattia polmonare. Non sembra che si trasmetta fra umani, bensì soltanto da animale a uomo. Avrebbe infettato decine di persone in Asia, innescando timori in regioni già colpite dalla Sars nel 2003. “59 ammalati a Wuhan”, è il titolo del notiziario ufficiale cinese. Due giorni dopo, il 10 gennaio, i quotidiani americani riportano la notizia di un morto a Wuhan, “ma – scrivono – non ci sono prove di contagio fra persone”. La fonte è l’agenzia stampa governativa Xinhua, ripresa come tale dai media americani: si ammalano solo persone a contatto con selvaggina viva, in vendita in un mercatino locale. Fine della storia. Nessuno in America mette in dubbio questa versione. Il New York Times si limita a rilevare che mancano due settimane all’inizio delle vacanze del Capodanno lunare, quando, in media, ben tre miliardi di esseri umani si mettono in viaggio in Cina. Osserva che il mercatino di Wuhan è vicino alla stazione ferroviaria. E che nella stessa data, a Hong Kong, ci sono già ricoverati, e che la Corea del Sud ha messo in isolamento totale una donna arrivata da Wuhan. A tranquillizzare i più ansiosi arrivano i primi elogi dell’OMS alle risposte della Cina.
Il mercato di Huanan, serrato. E tuttavia, negli apparati dell’Intelligence americana qualcuno si muove. E’ un uomo che di nome fa Anthony Ruggero, che dirige la sezione specializzata sulle armi di distruzione di massa (e quindi bioterrorismo, guerre batteriologiche) all’interno del National Security Council. Non è d’accordo con l’appeasement e gli elogi di Trump a Xi Jinping, dal quale evidentemente attende gli ultimi dettagli delle concessioni commerciali già stabilite in linea di massima a dicembre. Ruggero mette in allerta la comunità dell’intelligence per saperne di più sull’origine esatta del coronavirus. E trova un alleato prezioso in Matthew Pottinger, ex corrispondente del Wall Street Journal a Pechino durante la Sars, ora numero due del NSC, e, soprattutto, uno degli uomini che hanno maggiore influenza sulla politica cinese di Trump. Pottinger dà ordine a tutte le agenzie d’intelligence americane di indagare sul complesso di laboratori epidemiologici di Wuhan. Nella convinzione che lì sia la chiave dell’epidemia e del pasticcio che la Cina sta nascondendo al mondo.
Laboratorio di analisi della provincia di Jiangsu. Quei laboratori sono una “vecchia conoscenza”, per tante ragioni. Per anni, le loro ricerche – originate dalla Sars – hanno ricevuto finanziamenti dagli Stati Uniti e dalla Francia. E almeno uno di quei laboratori, il BSL-4, è finito sotto accusa da parte degli stessi scienziati cinesi: un documentato rapporto pubblicato da Yuan Zhiming sul Journal of Biosafety and Biosecurity denunciava “carenze e negligenze” proprio negli esperimenti sui contagi da animale a uomo. Non solo. Altri due ricercatori cinesi avevano lanciato l’allarme su incidenti in quel laboratorio. In due saggi pubblicati nel 2017 e 2019, un biologo di Wuhan, Tian Junhua, aveva rivelato di essersi messo in quarantena dopo essere entrato in contatto con dell’urina di pipistrello. C’era poi anche il giallo di uno studio pubblicato e poi eliminato da due scienziati cinesi, Botao Xiao e Lei Xiao, del Politecnico di Guangzhou. “Il coronavirus – si leggeva in quell’analisi – probabilmente ebbe origine in un laboratorio di Wuhan. I livelli di sicurezza vanno rafforzati nei laboratori di biologia batterica ad alto rischio”. L’intero articolo, apparso sul sito ResearchGate, era stato rimosso dagli stessi autori.
Ruspe al lavoro nel cantiere dell’ospedale costruito a Wuhan per i malati di coronavirus. L’NSC non è il solo a lavorare alla pratica Wuhan. Alla Cina cominciano a guardare anche i “Five eyes”, “I Cinque occhi”, i servizi di spionaggio alleati dei paesi anglofoni. E se è vero quello che Trump annuncerà solo tra aprile e maggio, le prove che raccolgono sulla Cina sarebbero concludenti. “Hanno cercato – dice Trump – di insabbiare le notizie, di nasconderle. E’ come cercare di nascondere un incendio. Non ci sono riusciti”. La Casa Bianca avrebbe insomma le prove di come la Cina avrebbe cominciato a fermare le sue esportazioni di materiali medici essenziali e accumulare riserve sanitarie prima ancora di comunicare del contagio all’OMS. Mentre la tesi sull’origine del virus non sarebbe quella di un patogeno fabbricato in laboratorio, bensì di una manipolazione negligente nel corso di esperimenti che hanno provocato il contagio animale-uomo. Sia come sia, quelle evidenze resteranno in un cassetto per un po’. Pronte ad essere brandite come la “pistola fumante” che a molti pure ricorderà la “smoking gun” della guerra contro Saddam Hussein, le false prove presentate dall’Amministrazione di George W. Bush sulle armi di distruzione di massa per giustificare l’invasione dell’Iraq. Difficilmente se ne avrà la prova. Mentre è certo, questo sì, cosa accade a Wuhan in quella metà di gennaio 2019.
Epilogo. A Wuhan, come a Pechino, la versione dell’epidemia sotto controllo sta ormai cedendo da ogni lato. Non può più reggere alla pressione che le si scarica addosso dall’esterno e dall’interno del Paese. Venerdì 17 gennaio, alla fine delle “Due Sessioni”, il numero che indica la progressione dei contagi torna improvvisamente ad essere aggiornato. Si impenna, raggiungendo i 198 malati durante il fine settimana. Un numero che potrebbe essere ben maggiore. Se è vero, come è vero, che un report dell’Imperial College di Londra, redatto da alcuni dei maggiori esperti mondiali di epidemiologia, stima sulla base dei primi tre contagi all’estero, in Thailandia e Giappone, che a Wuhan ci potrebbero già essere già 1700 casi, e spiega che una «sostanziale trasmissione da uomo a uomo non può essere esclusa». L’ultima spallata alla verità ufficiale la dà un nuovo team di esperti, il terzo inviato dalle autorità di Pechino. A guidarlo è una gloria nazionale, l’83enne pneumologo Zhong Nanshan, già in prima linea nella lotta contro la Sars. È informato dei casi di Shenzhen, e gli bastano poche ore a Wuhan per vedere ciò che era già evidente a molti, e che ora non si può più nascondere. In un ospedale della città, 14 membri del personale sanitario si sono infettati durante un’operazione chirurgica. Ci sono diversi focolai familiari e malati senza legami con il mercato di Wuhan. La relazione che Zhong e gli altri presentano alla Commissione sanitaria nazionale, e che ipotizza già la misura estrema della quarantena, non lascia dubbi sulla gravità della situazione: la trasmissione umana non può essere più negata.
Lo peumologo Zhong Nanshan. Non sapremo mai, probabilmente, se l’anziano Zhong Nanshan abbia risparmiato al mondo ulteriori lutti. Se è a lui che deve andare il nostro grazie. Alcuni sostengono che solo una figura come la sua, con il suo carisma e la sua età, potesse guardare negli occhi Xi Jimping e dirgli quello che non avrebbe voluto sentirsi dire. Altri, che l’anziano luminare sia stato chiamato a fare da foglia di fico di un apparato che aveva già compreso la catastrofe. Anche se, forse, non tutto l’apparato. Visto che dal 17 al 19 gennaio, anche a Pechino, si tengono una serie di ricevimenti legati al Capodanno cinese, tra cui quello che il ministro degli Esteri Wang Yi offre a centinaia di esponenti della comunità diplomatica internazionale. Tra gli invitati, quella sera, ci sono anche persone che provengono dallo Hubei. Lo avrebbe fatto sapendo di rischiare così tanto? Di certo, il 20 gennaio, per la Cina e quindi per il mondo, è il giorno della verità senza più infingimenti. Il presidente Xi Jinping parla per la prima volta pubblicamente del virus, ordinando «sforzi risoluti» per contenerne la diffusione. L’epidemia diventa la prima notizia di tutti i telegiornali, l’ossessione di ogni funzionario comunista in ogni angolo della Cina. Poche ore dopo, alla televisione nazionale, lo stesso Zhong Nanshan ha il compito di confermare la trasmissione umana del virus. Wuhan precipita nel panico. In città, abita Wang Fang, una delle scrittrici più note di Cina, che, di lì in avanti, pubblicherà online un Diario della quarantena. In uno dei post descrive lo choc e la rabbia per le informazioni ricevute quel 20 gennaio, «del tutto in contrasto con quello che ci avevano detto fino a quel momento». Qualcuno ancora non vuole credere, né rassegnarsi. La sera del 22, a poche ore dal lockdown della città, mentre negli ospedali già vicini al collasso centinaia di persone fanno la fila per farsi visitare, nei parchi coppie di anziani ballano ancora al ritmo della musica tradizionale, stretti e senza mascherina.
Due infermieri esausti prima di lasciare l’ospedale temporaneo di Wuchang, Wuhan. La città viene chiusa la mattina dopo, 27 giorni dopo il primo allarme ufficiale, 18 giorni dopo che il coronavirus è stato isolato, diversi giorni dopo i primi indizi di contagi tra membri della stessa famiglia. Soprattutto, dopo che 5 milioni di residenti hanno già lasciato la metropoli per le festività del Capodanno. Uno studio dell’Università di Southampton calcola che adottando le misure di contenimento una, due o tre settimane prima, il contagio poteva essere ridotto del 66, dell’86 e del 95 per cento. E lo stesso Zhong Nanshan ha riconosciuto, parlando a un media di regime come il Global Times, che c’è stato un «ritardo» senza il quale i numeri dell’epidemia sarebbero stati inferiori. Il Regime, intanto, riscrive la storia. Vengono epurati i dirigenti di Partito di Wuhan e dello Hubei, due funzionari molto legati a Xi Jinping, che pagano per tutti. Il dottor Li Wenliang viene riabilitato come un martire di Stato, con tanto di punizione esemplare per chi lo aveva messo a tacere. Una sola cosa il Regime di Xi non fa, né può fare. Rispondere a quanto Wang Fang annota nel suo Diario, in una delle pagine della quarantena in cui sogna la liberazione di Wuhan. Un’invocazione che è poi la richiesta del mondo intero. «Tutto quello che abbiamo è una attesa senza fine – si legge – Attesa per la riapertura della città, attesa di una spiegazione». Ecco, la riapertura è arrivata, la spiegazione no.
Cambridge. La Cina non risponderà. L’Occidente continua a provarci. “Se prendiamo per vera l’ipotesi che il virus sia arrivato direttamente dalla Cina nel 2019, allora ne deduco che non si sarebbe diffuso in maniera efficiente. E questo anche sulla base di un’altra considerazione. Le infezioni di oggi in Regno Unito e in Occidente sono più del tipo più dominante di Covid-19”, vale a dire la versione europea “G614”, più letale, che si sarebbe sviluppata in Europa evolvendosi dal tipo base del virus “D614”, più blando e presente in Cina a inizio epidemia. A parlare a Repubblica è il professor Peter Forster, genetista dell’università di Cambridge e autore di uno studio, pubblicato sulla rivista “Proceedings of the National Academy of Sciences”, che individua il momento della prima trasmissione del Covid-19 all’uomo in Cina “in un periodo di tempo tra 13 settembre e il 7 dicembre 2019”.
Peter Foster, genetista dell’Università di Cambridge. Il professor Forster spiega come ha fatto: “Abbiamo studiato circa un migliaio di genomi di ottima qualità del virus, raccolti tra il 24 dicembre e il 24 marzo, tre mesi: abbiamo identificato le mutazioni del SARS-CoV-2, e quante ne sono avvenute al mese. Bene, abbiamo scoperto che c’è una differenza sostanziale tra Asia e resto del mondo. Nell’Asia orientale, il virus registra 1,5 mutazioni al mese, mentre in Europa e Stati Uniti due mutazioni al mese. Ossia, muta molto più velocemente”. E come mai? “Non lo sappiamo ancora. Teoricamente, potrebbe essere il segno di un virus manipolato in laboratorio, ma è l’ipotesi meno probabile. Più credibilmente, in Asia c’è un sistema di replicazione del Dna migliore degli europei. O, forse più probabilmente, il virus deve mutare per diffondersi il più possibile. Forse, nel sistema immunitario asiatico, ha meno bisogno di cambiare, mentre in Usa e Europa, paesi più eterogenei a livello antropico ed etnico, il virus deve adattarsi in più forme”. In ogni modo, continua Forster, “calcolando la “regressione lineare del virus, ossia tornando indietro nel tempo, possiamo risalire al momento in cui il virus aveva zero mutazioni, cioè quando ha infettato per la prima volta un uomo. Secondo i nostri calcoli, e abbiamo un grado di fiducia del 95%, ciò può essere accaduto tra il 13 settembre e il 7 dicembre 2019”.
Il premier britannico Boris Johnson tornato a Downing Street dopo il ricovero per coronavirus. Sorprendente. “No, non tanto”, replica il professor Forster. “Sappiamo che il primo paziente documentato in Cina risale al 1 dicembre o addirittura al 17 novembre, una donna, secondo uno studio locale. Secondo me, invece, è probabile che la prima infezione nell’uomo da Covid-19 sia avvenuta tra fine ottobre e inizio novembre in Cina. Vedremo: la mia stima ha un problema. Presuppone mutazioni costanti del virus, quando in realtà abbiamo visto che spesso sono incostanti. Ma, attualmente, non abbiamo altri dati per condurre ricerche più precise. In questi giorni, è in corso uno studio del professore americano W. Ian Lipkin della Columbia University, che forse potrebbe essere ancora più preciso in questo senso. I risultati dovrebbero arrivare tra qualche settimana”. Il professor Forster è anche scettico sul fatto che il Covid-19 abbia avuto origine a Wuhan: “Purtroppo non abbiamo molti dati. Ma dei ventitré campioni del virus raccolti a Wuhan che ho studiato, solo tre sono del tipo primordiale ‘A’. Mentre per esempio, nel Guangdong, ben cinque su nove sono di tipo ‘A’. E nello Hunan, uno su uno. Ovviamente il campione complessivo è limitato. Ma questi pochi dati mi fanno pensare che il Covid-19 forse non sia apparso nella regione dello Wuhan”. Il che smentirebbe anche l’ipotesi di virus “scappato” dal laboratorio. Già, non è finita. Né la caccia, né lei. La peste del 2020.
· I 47 giorni che hanno stravolto l’Italia.
I due mesi che ci hanno cambiato la vita. Tutto è iniziato con qualche colpo di tosse e finirà con una guerra che ci lascia macerie invisibili e un senso di vuoto. E una scommessa tutta da giocare...Vittorio Macioce, Sabato 02/05/2020 su Il Giornale.
Tutto comincia con un colpo di tosse. Distratto, lontano. È inverno e non sembra diverso dagli altri. Sono appena cominciati gli anni Venti e a chiamarli cosi sa di strano, perché pensi a quelli di cento anni prima, gli anni ruggenti, scapestrati, l'età del jazz, le suffragette, la generazione perduta, che scappa frenetica dai ricordi della Grande Guerra e corre verso un'altra, drammatica, follia. Ti chiedi come saranno questi e cosa ti lasci alle spalle. Non c'è una guerra, piuttosto un senso di vuoto, qualcosa che fatichi a decifrare, come un girare intorno senza sbocchi. È un passato che non porta da nessuna parte. C'è una calamita che ti trascina indietro, vecchi discorsi, parole vuote e ancora le stesse paure, con questi e quelli che urlano esattamente come nell'altro secolo. L'unica differenza è che allora scommettevano sul futuro e hanno perso. E tu? Tu chiudi gli occhi e vorresti dormire, sognare, forse. È che tu il futuro non lo vedi e non si può scommettere sul nulla.
I colpi di tosse diventano due, poi tre e ancora. Sarà un'influenza. Gira. È come se qualcuno stesse bussando con insistenza alla porta. Non è quella solita da fumo. Non passa e ti arriva direttamente dai polmoni. Ci canti sopra una canzone di un Vasco Rossi malinconico. «Vivi in bilico e fumi le tue Lucky Strike. E ti rendi conto di quanto le maledirai». Dicono che in Cina ci sia un nuovo virus. Francamente te ne freghi. Leggi qualcosa senza passione qua e là. Non è per cinismo o strafottenza. È ignoranza o una di quelle notizie che ogni tanto ti arrivano catastrofiche all'orecchio e poi non ti toccano. Restano lì, lontane, in qualche cantuccio del mondo dove ancora non ti è capitato di mettere piede. Wuhan nella tua testa è un pupazzo rosa, come il cane di Bim Bum Bam, quello che parlava con il primo Bonolis. Wuhan come Uan, per quella buffa assonanza delle parole. I virus arrivano, poi fanno un po' di allarme, se ne vanno e nessuno li vede. Ebola, aviaria, Sars, Mers sono tutti nomi che conosci ma non ti hanno messo davvero paura. Non li hai mai sentiti sulla pelle. È un po' come urlare «al lupo al lupo» e sì, insomma, non ci credi. Questo nuovo è un coronavirus. Te lo immagini, non sai nemmeno perché, con la faccia da cartone animato di Giovanni Senza Terra nel Robin Hood della Disney. Ti fa pensare alle tasse.
La tosse prima o poi passerà. L'unica cosa che ti preoccupa sono le coincidenze della storia. È un modo ingenuo di cercare certezze. Gli anni Venti cominciano con l'ultimo giro di valzer della «spagnola». È il colpo di coda della nera signora con la falce. Cinquanta milioni di morti in ogni angolo del mondo. Il virus era una variante del H1N1, lo stesso ceppo di una normale influenza. Non si è mai capito perché fosse così cattivo: una mutazione particolarmente incacchiata. È qui che, incuriosito dalla metamorfosi e stregato da Ovidio, incroci una parola cruciale: spillover, un balzo più in là, un salto oltre la specie. I virus lo fanno spesso, per sopravvivere, per cercare nuovi ospiti, con tentativi ed errori, ostinati e con la furbizia di Ulisse. Quando l' abbordaggio è dall' animale all' uomo possono cominciare i guai. È quello che è successo, di nuovo, in Cina. Forse in un mercato delle carni. Si parla di pipistrelli, di una tappa sugli zibetti e poi eccolo qua. Il nuovo coronavirus, battezzato Sars-Cov-2, è un perfetto sconosciuto. Non sappiamo nulla di lui, come si muove, la sua forza, come e dove colpisce, se torna, se una volta sconfitto dagli anticorpi si resta immuni. Questo virus è Nessuno. È per questo che farà danni.
La tosse si è smorzata. Batte sottovoce. In tv la sera c' è chi guarda Sanremo. Si parla delle mascherate di Achille Lauro. Ma chi ha vinto? No, non te lo ricordi più. Il festival però tiene banco, molto di più di quella coppia di cinesi arrivati a Malpensa con un viaggio organizzato il 23 gennaio, in giro per l' Italia in pullman fino a Roma. Si sentono male prima di partire per Montecassino e finiscono allo Spallanzani. Sono della provincia di Wuhan e, sì, hanno il virus. È lui. È in Italia. Strana questa storia. Se ne chiacchiera, un po' inquieti, però non fa davvero paura. Il virus è un contorno. L' attenzione è tutta sul razzismo. C' è chi dice che bisogna chiudere le frontiere a chiunque provenga dalla Cina e chi corre ad abbracciare tutti i cinesi che passano per strada. È il codice binario di ogni discussione: on o off. Rosso o nero. Non si sfugge. Non ci sono sfumature. Non c' è spazio per una visione quantica della vita. O stai di qua o di là. Tutto questo però non è reale, perché tra lo zero e l' uno ci sono infinite possibilità. C' è l' universo. C' è la legge e il caso. C' è Dio che qualche volta, di nascosto, gioca a dadi. È che se vivi solo di on e off te lo dimentichi. Il quantico è solo un punto impazzito, una trottola che si accende e si spegne e non riesce a fermarsi, accasarsi. È un errore di sistema.
Poi accade. Accade qualcosa che zittisce tutte le certezze. Non ci sono più coordinate e perfino il navigatore della tua auto continua a ripetere ricalcolo, ricalcolo, ricalcolo, come impazzito o spaesato. Nessuno si ritrova più. È il 21 di febbraio, quasi alla fine di un mese bisesto, e sulla mappa si illumina il nome di Codogno. È una cittadina di sedicimila abitanti, messa lì in mezzo tra Lodi e Milano. Qualcuno sostiene che il nome venga dalle mele cotogne, altri dal console romano Aurelio Cotta, un antenato della mamma di Cesare. È qui che si acquartierano i lanzichenecchi e ci portano la peste. Era passata prima per Milano. È quella manzoniana. È qui che un' anestesista si fa venire in testa una domanda: e se fosse coronavirus? C' è un uomo giovane, forte, robusto, che si allena per le maratone e gioca a calcetto, con una strana polmonite. Non si riesce a curare. Non è mai stato in Cina e quindi non è sospetto. Il protocollo dice che non si fanno tamponi senza un ragionevole sospetto. La dottoressa pensa che qualche volta i protocolli sono stupidi. Disubbidisce. Trova il Sars-Cov-2. La tua tosse finalmente non c' è più.
L'ultimo cappuccino. La zona rossa è un fuoco di contagio. Il paziente uno è stato individuato. Chi gli ha passato il testimone? Si va alla ricerca del paziente zero. I sospetti cadono su un suo collega che è stato in Cina. Sono andati a cena una sera insieme. Non lo chiamano untore, ma lo pensano. Ti chiedi come ci si senta con questa etichetta sussurrata addosso. Sono forse io? Come un apostolo all' ultima cena. Come un colpevole senza peccato. Come un nome sull' agenda telefonica di un camorrista. L' uomo tornato dalla Cina è innocente. Non è lui l' untore. È un errore giudiziario. Il paziente zero lo stanno ancora cercando. Diranno che sotto assedio si è tutti più buoni. Non è vero. Ognuno amplifica ciò che è. I timidi si nasconderanno. I misantropi si daranno ragione. Gli egocentrici si incarneranno nel virus. I lussuriosi vedono You Porn. Gli esibizionisti canteranno alla finestra. Gli insicuri cercheranno una guida in ogni direttiva. I pessimisti ti ricordano che devi morire e gli ottimisti che andrà tutto bene. I caporali faranno i caporali. Non aspettavano altro. Stanno lì, con l' occhio a spiare ogni movimento, sicuri che l' altro, chiunque altro, è un farabutto e si appostano, con la voluttà di chi non vive altra gioia che poter puntare il dito e urlare al cielo e allo sciagurato: vergogna. Non gli sfugge nessuno, quello che passa con il cane, quello che non ha la mascherina, quello che corre, quello che starnutisce, quello che sorride e soprattutto chi si ostina a sopravvivere come se nulla fosse. Il caporale ha ritrovato il suo mondo perfetto. Il potere a portata di mano, della porta accanto. Dio benedica i divieti. Sono i giorni della distanza. Tieni il tuo prossimo a un metro da te. I bar sono ancora aperti, ma si consuma fuori ed è vietato mettere il gomito sul bancone. Sono gli ultimi cappuccini che hai bevuto la mattina a colazione. Ti manca la schiuma con il cuore disegnato sopra. I golosi si accontentano di poco.
Il tempo sospeso delle mimose. È pandemia. Il contagio è sfuggito di mano. L' Italia brucia e gli altri ridono. È l' 8 marzo, le mimose sono in fiore e da allora siamo ancora qua. Restiamo a casa, per ordini superiori, per necessità, per salvarci la pelle, per paura, per dovere, come forma d' amore. Ti piacerebbe chiamarla quarantena, perché ti ricorda Venezia, lì dove per la prima volta si sono chiuse le porte per rompere la catena del contagio. Tutti però lo chiamano lockdown. Isolamento. Prigione. Ti sembra quasi di sentirlo il suono del lucchetto che viene giù. Tutto il mondo fuori. Tu ti rinserri e scopri che il lavoro è smart. I capelli si allungano e la barba cresce. Quelli al di là della porta sono ancora vivi? Le immagini arrivano dall' alto e sono strade deserte e piazze vuote. E tutti raccontano sui social la vita quotidiana senza più spazio. Ti svelano la loro intimità. Questo quasi ti imbarazza, perché non ci si abbraccia, non c' è il contatto fisico, ma il confine virtuale tra persona e persona è un perizoma. Siamo tutti avatar senza pudore. Il tempo si è dilatato e non ha più punti fermi. Non distingui i giorni e i mesi di questa primavera di serra sono tutti uguali. È così che non riesci a distinguere i ricordi. Quello che ti resta è una giostra di immagini. La fuga di mezzanotte dei figli del Sud che scappano dal Nord, le conferenze stampa a reti unificate dell'uomo dei decreti, il fuori onda del presidente Mattarella che si aggiusta i capelli e confessa che pure lui da tempo non vede il barbiere, il Papa che predica in una piazza San Pietro deserta e una Pasqua senza messe, gli inseguimenti con droni ai fuggiaschi, l' appuntamento alle sei della sera con la contabilità del virus, la resistenza per la resistenza del 25 aprile e tutto questo si confonde con le serie tv, le maratone di netflix, i virologi a colazione, pranzo, cena, prima e seconda serata, l' Europa in videoconferenza e tutto il calcio secolo per secolo. Non c' è una trama. È un vortice di videoclip, perché l' unica cosa che conta è ingannare l' attesa. È tempo che spendi per ritrovare il futuro.
Per chi suona la campana. No, non hai dimenticato la morte. Ti è stata seduta accanto tutto questo tempo. È il canto delle sirene senza sosta delle ambulanze. È la faccia di medici e infermieri che vorrebbero salvare tutti e cadono come soldati. È la voce dei vigili del fuoco che ti dice di non uscire. È il rintocco delle campane di Bergamo, dove i carri funebri sfilano come in processione, qui dove si piange in silenzio per non disturbare. È l' esercito che porta via le bare, e le ceneri verranno sparse nel vento in qualche angolo della penisola, senza neppure un saluto. È il mattatoio degli ospizi. È il Campo 87 del cimitero Maggiore di Milano, con sessantuno croci bianche, un nome, una data di nascita e una di morte. Lì ci sono i morti che nessuno ha reclamato. La morte, così certa, così scontata, che mai come adesso ti sembra un' abitudine. Non è passata. Siamo ancora qui e c' è chi si sta abituando a non essere libero, come se fosse qualcosa di naturale. Non scegli, non rischi, non ti preoccupi; basta obbedire. È comodo, ma non è vita. Tu vuoi vedere quello che c' è fuori e fuori c' è il deserto. C' è chi non riavrà un lavoro, chi non aprirà il negozio, chi lascia chiusa la bottega, chi ha alzato bandiera bianca. Il sospetto, al di là delle parole, è che nessuno verrà a darti credito o a scioglierti dai debiti, dalle tasse e dalla burocrazia. Ti dicono che non è finita, perché neppure loro sanno davvero come fare. Non importa. Lo devi alle madri, ai padri, ai nonni. Lo devi ai morti. Non ti farai spostare il domani con un altro decreto. È il primo maggio e c' è da ricostruire un paese, a mani nude.
CORONAVIRUS, I 47 GIORNI CHE HANNO STRAVOLTO L'ITALIA.
Daniela Ranieri per il “Fatto quotidiano” il 16 marzo 2020.
29 gennaio. Una coppia di coniugi di Wuhan in vacanza a Roma viene prelevata dall' Hotel Palatino di Via Cavour e portata all' ospedale Spallanzani. Verrà diagnosticata ad entrambi una polmonite da Sars-CoV-2.
30 gennaio Il presidente del Consiglio Conte annuncia i primi due casi di contagio e la chiusura del traffico aereo da e per la Cina.
31 gennaio Una nave da crociera con 6000 persone a bordo viene bloccata a largo di Civitavecchia per due casi sospetti. L' Oms dichiara l' emergenza sanitaria internazionale. Il direttore dello Spallanzani Giuseppe Ippolito riferisce in conferenza stampa il rapporto del Centro europeo per il controllo delle malattie: "Il rischio di ulteriori limitate trasmissioni da persona a persona all' interno dell' Ue è da basso a molto basso".
1° febbraio. Il Consiglio dei ministri dichiara lo stato di emergenza per 6 mesi e stanzia 5 milioni di euro. Viene nominato Commissario straordinario il capo della Protezione civile, Angelo Borrelli.
2 febbraio . Sessantasette italiani vengono rimpatriati da Wuhan e portati nella caserma militare della Cecchignola per la quarantena.
4 febbraio. Il Ministero della Salute istituisce una task force dedicata al virus 2019-nCoV e rafforza i controlli negli aeroporti e porti italiani. I presidenti leghisti di Veneto, Lombardia e Friuli Venezia Giulia e della provincia autonoma di Trento chiedono al governo di imporre la quarantena a chi rientra dalla Cina, compresi gli alunni delle scuole.
5-21 febbraio. Tutto procede in una placida routine. Renzi minaccia battaglia sulla prescrizione. I morti sono oltre 1000 in Cina.
21 febbraio. È il nostro venerdì nero. A 54 minuti dalla mezzanotte l' Ansa batte la prima agenzia: "Coronavirus, un contagiato in Lombardia". È il "paziente uno", un 38enne ricoverato per polmonite all' ospedale di Codogno, nel basso Lodigiano. Nel corso della giornata emergono due casi a Vo' Euganeo, nel Padovano: alle 23.40 uno dei due, un 77enne di Monselice, muore. È il primo morto in Italia. Salvini intima al governo di chiudere tutto: "Chiudere! Blindare! Proteggere! Controllare! Bloccare!".
22 febbraio. Conte firma un decreto: le aree dei due focolai del Lodigiano e di Vo' Euganeo diventano "zone rosse": non si potrà uscire né entrare. Nel corso della giornata i contagi arrivano a 76.
23 febbraio. Vengono chiuse le scuole in sei regioni del Nord.
26 febbraio. Il presidente della Lombardia Attilio Fontana si mette in isolamento in diretta Facebook dopo aver annunciato la positività di una sua collaboratrice.
27 febbraio. Da più parti si grida all' allarmismo ingiustificato. Il sindaco di Milano Sala chiede al governo di riaprire i musei, riapre i locali dopo le 18 (già chiusi dalla Regione), indossa la t-shirt con lo slogan #milanononsiferma, si fa ritrarre mentre prende lo spritz e condivide un video commissionato da 100 brand della ristorazione che esalta i "ritmi impensabili" della capitale morale. Salvini va da Mattarella a chiedere di "Riaprire tutto e far ripartire l' Italia" e intima al governo: "Riaprire tutto quello che si può riaprire. Riaprire per rilanciare fabbriche, negozi, musei, gallerie, palestre, discoteche, bar, ristoranti, centri commerciali!". Il segretario del Pd Nicola Zingaretti va sui Navigli per un simbolico aperitivo coi giovani del partito. Nove giorni dopo annuncerà di essere positivo al Coronavirus.
28 febbraio. Il governo approva il decreto legge "misure urgenti di sostegno per famiglie, lavoratori e imprese connesse all' emergenza epidemiologica da COVID-19 ". Salvini chiede: "Aprire, aprire, aprire! Si torni a produrre, a comprare, si torni al sorriso". Confcommercio stila un decalogo: "Sono gli ultimi giorni di saldi: approfittane! Vai dal parrucchiere o dall' estetista! Incontra gli amici al bar per un aperitivo, non sono più chiusi dopo le 18! Esci a cena, i ristoranti sono aperti! Fai una passeggiata e mangia un gelato prima di tornare a casa". Il presidente di Confindustria Vincenzo Boccia denuncia al Corriere i danni della psicosi da Coronavirus: "L' export e il turismo hanno pesanti contraccolpi". Riapre il Duomo di Milano. Sono 888 le persone contagiate, 64 in terapia intensiva 21 i morti.
29 febbraio. L' Oms eleva il Covid-19 a "minaccia globale molto alta".
1° marzo. Conte firma un decreto su proposta del ministro della Salute Roberto Speranza per il contenimento del contagio nelle regioni maggiormente coinvolte e per il territorio nazionale (sorveglianza per chi proviene da zone a rischio epidemiologico, disciplina del lavoro agile, sospensione dei viaggi d' istruzione, sanificazione dei mezzi pubblici, etc.). L' Italia è divisa in 4. Sono superati i 1.000 contagi in Italia e i 3.000 morti nel mondo.
4 marzo. Chiudono le scuole e le università in tutta Italia.
6 marzo. Il governo stanzia 7,5 miliardi a sostegno di famiglie e imprese. La mappa genetica ricostruisce l' albero genealogico del virus: il "paziente zero" europeo forse è un manager della Baviera.
8 marzo. La Lombardia e 14 province nel nord vengono dichiarate "zona rossa". Bar e ristoranti chiudono alle 18. Chiudono palestre, piscine, cinema, teatri. Vietati funerali e matrimoni. Vietati i colloqui nelle carceri. Le anticipazioni filtrate in serata dal Consiglio dei ministri (la Cnn dice dalla Regione Lombardia) scatenano la fuga in treno di migliaia di persone verso il Sud, che tuttavia prosegue nelle ore, nei giorni e nelle settimane successive.
9 marzo. Conte annuncia che tutta Italia diventa "zona protetta". È il provvedimento "Io resto a casa". Il dpcm prevede: divieto di assembramento; spostamenti solo per lavoro, salute o necessità con autocertificazione; chiusura delle scuole; stop allo sport. L' Italia diventa il secondo paese al mondo per decessi legati al Coronavirus dopo la Cina. Rivolte nelle carceri. Salvini: "Non basta, chiudere tutto".
10 marzo. Aumentano i contagi tra gli operatori sanitari. Il protocollo in uso negli ospedali prevede ancora il link epidemiologico territoriale. Non vengono testati gli asintomatici, anche se sono stati a contatto con contagiati. Sono 10.149 i casi totali. La Sanità lombarda è al collasso.
11 marzo. Alle 22, in diretta tv e Facebook, Conte annuncia che tutta Italia è "zona rossa". Chiudono le attività commerciali, tranne quelle di prima necessità. Le aziende sono tenute ad adottare protocolli di sicurezza. Si può uscire di casa solo per motivi di salute, lavoro o acquisti indispensabili.
12 marzo. Le città si svuotano. Molti italiani cantano sui balconi. Siamo tutti in quarantena.
15 marzo. Viene varato il maxi-decreto (praticamente una finanziaria bis) con misure per contenere l' emergenza e sostenere l' economia. Si prevedono ospedali campali militari. Le persone in terapia intensiva sono 1.672, i morti 1.809, anche giovani e senza alcuna patologia pregressa.
L'EPIDEMIA CHE HA PIEGATO L'ITALIA. Incubo Covid-19. Approfondimento di Giuseppe De Lorenzo, Andrea Indini su Insideover.com il 12 aprile 2020. Se a chiunque, in Italia, si dovesse chiedere dove ha avuto inizio l’incubo, nessuno avrebbe difficoltà nell’indicare un Paese, Codogno, e una data, il 21 febbraio. In realtà, quando abbiamo intravisto le prime fiamme e ci siamo messi a urlare “Al fuoco!”, non sapevamo che ci trovavamo già in mezzo a un incendio tanto vasto quanto tenace da essere estremamente difficile da domare.
L’esplosione dell’epidemia. È da poco passata la mezzanotte del 20 febbraio quando l’assessore al Welfare della Regione Lombardia, Giulio Gallera, dà notizia del primo contagio: un 38enne ricoverato all’ospedale di Codogno (Lodi) è, infatti, risultato positivo a Covid-19. Nel corso della giornata il numero dei contagiati in Lombardia sale drammaticamente a 15. Nelle stesse ore, poi, ci ritroviamo a dover gestire anche un altro focolaio: è a Vo’ Euganeo, in provincia di Padova. Si conta anche il primo morto, un 78enne che è ricoverato proprio nell’ospedale patavino.
Codogno, dove tutto è iniziato. Tutto inizia il 14 febbraio, quando Mattia, un giovane atleta in ottima salute, contrae la “solita influenza” che però non passa. “Il 18 è venuto in pronto soccorso a Codogno e le lastre hanno evidenziato una leggera polmonite – spiega l’anestesista Annalisa Malara a Codogno in un’intervista a Repubblica – il profilo non autorizzava un ricovero coatto e lui ha preferito tornare a casa. Questione di poche ore: il 19 notte è rientrato e quella polmonite era già gravissima”. Il viavai di Mattia dal nosocomio è probabilmente la causa della rapida propagazione del virus tra i medici e i pazienti dell’ospedale. Seguendo il protocollo previsto dal governo, la catena di contagi non può essere affatto evitata. Come rivelato da ilGiornale.it, la circolare ministeriale in vigore allora (quella del 27 gennaio) considera “casi sospetti” solo quelle persone con una “infezione respiratoria acuta grave” che siano anche statae in “aree a rischio della Cina”, che abbiano lavorato “in un ambiente dove si stanno curando pazienti” colpiti da Covid-19 o che abbiano avuto contatti stretti con un “caso probabile o confermato da nCoV”. Solo grazie all’intuito della Malara si arriva a capire cosa sta succedendo. Per farlo, però, deve “chiedere l’autorizzazione all’azienda sanitaria” e assumersi la responsabilità di realizzare il tampone, perché “i protocolli italiani non lo giustificavano”. Nel frattempo si corre a mappare i movimenti di Mattia per risalire ai suoi ultimi contatti. Si cerca il “paziente zero“, quello che lo ha contagiato. Si punta il dito prima su un manager che è da poco rientrato dalla Cina e si arriva addirittura a ipotizzare una correlazione con la soppressione di alcune tratte in seguito al deragliamento del treno a Lodi e le conseguenti calche di pendolari sui treni regionali. Con il passare delle ore, però, questo lavoro appare sempre più fumoso e a stento si riesce a mettere insieme il puzzle. Quello che ancora non si sa è che il contagio è ormai esploso da settimane e che quindi il virus è iniettato nel tessuto del Nord Italia.
La morte arriva in valle. Il caso di Mattia a Codogno ricalca, per tempistiche, il contagio nel nosocomio bergamasco di Alzano Lombardo. In una “relazione temporale sulla prima fase dell’emergenza” datata 8 aprile, la Asst di Bergamo Est spiega che “nel periodo compreso tra il 13 febbraio e il 22 febbraio sono giunti presso il pronto soccorso dell’ospedale alcuni pazienti che venivano ricoverati presso il reparto di medicina generale con diagnosi di accettazione polmonite/insufficienza respiratoria acuta”. Anche qui “nessuno dei pazienti (…) presentava le condizioni previste dal ministero della Salute per la definizione di caso sospetto”. Solo il 22 febbraio, “in seguito all’evidenza del focolaio nel lodigiano, veniva acquisita la consapevolezza (…) che tale criterio epidemiologico non era più da ritenersi totalmente attendibile, sebbene ancora non modificato”. Qualche ora prima, intorno alle due di notte, muore Angiolina, una anziana che è ricoverata dal 12 febbraio. Il marito Gianfranco è morto il 13 febbraio e la sorella il 15. Appena arriva la notizia di Codogno si fiondano a fare i primi tamponi e, quando il 23 arrivano i risultati positivi (sono di Franco Orlandi e Samuele Acerbis, entrambi di Nembro ed entrambi ricoverati da una settimana nello stesso reparto di Angelina e ormai morti di coronavirus), il pronto soccorso viene evacuato e dopo due ore riaperto. Una scelta che farà molto discutere ma che, come vedremo a breve, sarà dettata dall’esigenza di far fronte a un’emergenza che è ormai esplosa e che, quindi, non si può più far nulla per prevenire se non chiudere immediatamente tutto il Paese. Ma la “chiusura totale” è ancora lontana da venire. D’altra parte la ricerca delle cause del proliferare dell’epidemia si perdono in una lunga serie di ipotesi che possono essere prese per vere tutte insieme e che tutte insieme hanno contribuito a far “esplodere la bomba atomica”, per usare una immagine usata da Gallera. Nel fine settimana in cui tutto ha avuto inizio, secondo un’inchiesta dell’Espresso, un ipermercato alle porte di Bergamo viene letteralmente “saccheggiato”: gli scaffali vengono completamente svuotati e si tocca gli 800mila euro di incasso. Un’altra inchiesta, pubblicata da Repubblica, vede nella partita di Champions League Atalanta-Valencia giocata il 19 febbraio a San Siro la minaccia che ha fatto esplodere la bergamasca. Secondo alcuni virologi, la partita Atalanta-Valencia avrebbe innescato la bomba che, 15 giorni dopo, avrebbe messo in ginocchio la Bergamasca. Solamente una settimana prima, proprio nella regione valenciana, la Spagna ha accertato il primo decesso per Covid-19. Al Meazza si accalcano 45mila tifosi nerazzurri: molti arrivano in macchina, ma si contano anche una trentina di pullman. Tuttavia per Massimo Galli, responsabile del reparto malattie infettive dell’ospedale Sacco di Milano, l’epidemia sarebbe “partita prima, nelle campagne, durante le fiere agricole e nei bar di Paese”.
Il caso Piacenza. Il 22 febbraio, lo stesso giorno in cui i medici di Alzano Lombardo scoprono che gli sta per arrivare addosso uno tsunami, l’ospedale di Piacenza riscontra il primo caso positivo. Si tratta di una signora di 82 anni che vive proprio a Codogno. Quando il suo test risulta positivo è ormai troppo tardi per fare qualcosa: l’indomani anche due medici e una infermiera risultano essere stati contagiati. E mentre Codogno, che si trova a soli 16 chilometri di distanza, è già blindato, il governo preferisce aspettare a estendere le restrizioni all’Emilia Romagna. Ci arriverà solo l’8 marzo, quando ormai, in quella che risultava essere la provincia più colpita della Regione con 528 contagiati (sui 1180 casi della regione), si contano già 24 decessi. Il giorno prima, il 7 marzo, quattro uomini e una donna si spengono nei letti dell’ospedale di Piacenza: “Fino al 24 febbraio al pronto soccorso affluivano indistintamente persone che denunciavano febbre e tosse, sia altri con differenti disturbi – racconta un’infermiera del nosocomio che chiede l’anonimato – Fatalmente in molti casi si son verificati contagi sia tra il personale medico ed infermieristico, sia tra coloro che erano stati al pronto soccorso”. La Regione decide comunque di tenere aperto l’ospedale e solo il 5 marzo chiuderà quello di Fiorenzuola d’Arda, altro focolaio. Questo perché, esattamente come ad Alzano, ormai l’epidemia era scoppiata ed era fondamentale tenere aperti i nosocomi per poter curare gli infetti. Per capirlo è necessario guardare ai dati del 9 aprile: Alzano Lombardo e Fiorenzuola, che hanno circa lo stesso numero di abitanti, presentano anche un numero simile di contagiati. Lo stesso risultato si ha se si confrontano Piacenza e Bergamo città. Non solo: se si guarda l’incidenza ogni mille abitanti, la provincia emiliana supera quella lombarda. In numeri assoluti ovviamente Bergamo appare più colpita, ma perché conta 1,1 milioni di abitanti. Piacenza ne ha solo 287mila.
Il focolaio di Orzinuovi. Sono due invece le immagini che compongono il quadro di Brescia. La prima è il trend dei contagi delle province lombarde, quel grafico che ormai tutti hanno imparato a conoscere. Per giorni le curve di Bergamo e Brescia si sfiorano proprio come i due territori, crescono allo stesso ritmo. Poi l’8 aprile arrivano addirittura a toccarsi e Brèsa, così la chiamano in dialetto, raggiunge Bèrghem. E poi la supera. L’altra fotografia sono due container frigorifero parcheggiati di fronte al tempio crematorio della città. La processione di feretri raggiunge il cimitero di Sant’Eufemia ma i forni non riescono più a tenere il ritmo di morte del coronavirus. Prima di essere avvolti dalle fiamme, i corpi devono aspettare anche due settimane nei depositi. Troppo tempo con il caldo afoso che arriva. Così le bare vengono stipate in quelle celle frigorifero che tanto ricordano la carovana di Bergamo. Anche perché i numeri sono quelli di una strage. Una rivelazione dell’Istat ha calcolato che in città i morti rispetto all’anno precedente sono più che raddoppiati, da 134 nel 2015-2019 a 381 nel 2020. In tutta la provincia, nei Comuni compresi nelle statistiche, si è passati dai 466 decessi di marzo 2019 ai 1.345 del 2020. Paesi che di solito vedevano morire una sola persona al mese si sono ritrovati con 11, 12, 20 dipartite. A Corte Franca, per dire, l’incremento è del 1.900%. Come mai Brescia sia stata così colpita non è ancora dato sapere, ma le ricerche epidemiologiche ormai lasciano il tempo che trovano. È un dato incontrovertibile però il fatto che la provincia sia sempre tra i primi tre posti nel ranking lombardo per numeri di contagi settimanali. E che per numero di decessi (oltre 1.900) superi una metropoli come Milano e il suo hinterland. “Non siamo riusciti ad arginare i focolai”, ammette il sindaco Emilio Del Bono. Il primo caso certificato agli Spedali Civili è del 24 febbraio, due giorni dopo Alzano Lombardo. L’uomo è un 51enne di Pontevico, piccolo comune nella bassa Bresciana. È proprio da qui che l’epidemia sembra essere partita per poi investire l’intera provincia. Il primo grande focolaio esplode ad Orzinuovi, 12mila anime e troppi contagi. Il sindaco Gianpietro Maffoni, senatore di Fratelli d’Italia, ha depositato un’interrogazione al ministro della Salute per sapere perché il governo non abbia disposto una “zona rossa” nella sua cittadina. La polemica ricalca quella della Val Seriana, ma con meno carica polemica. Per spiegare il motivo della veloce propagazione su tutto il territorio, qualcuno guarda alla fiera di San Faustino e Giovita come possibile sorgente di trasmissione, un po’ come la partita dell’Atalanta per Bergamo. Il 15 febbraio tra le strette vie piene di bancarelle di Brescia città si sono riversate oltre 250 mila persone. Quattordici giorni dopo, cioè il periodo di incubazione del virus, i contagiati erano già 14.
Lo stato d’emergenza. Il primo vero provvedimento per il coronavirus risale all’ormai lontanissimo 31 gennaio, poche ore dopo il ricovero dei due turisti cinesi allo Spallanzani di Roma. Il consiglio dei ministri dichiara lo stato di emergenza nazionale e nomina Angelo Borrelli come commissario. Solo tre giorni prima Conte era andato in televisione per dire che l’Italia era “prontissima” a far fronte al virus senza sapere che i fatti lo avrebbero smentito. Quel che sorprende è che nonostante lo “stato di emergenza” sia l’esecutivo che Borrelli non fanno praticamente nulla di sostanziale per 15 giorni, finché il treno di Codogno non investe Palazzo Chigi e la Protezione Civile. Il governo rimane silente dal punto di vista normativo fino al 23 febbraio quando, a crisi ormai avviata, dispone le prime zone rosse nel Lodigiano. Solo 21 febbraio, quindi dopo la scoperta del “paziente 1”, Borrelli stanzia 4,6 milioni di euro per l’incremento di personale medico di “massimo di 77 unità” (non tanti, visto come andranno le cose). Da lì a pochi giorni l’Italia si scoprirà sguarnita di ventilatori, mascherine e dispositivi di protezione per i medici. Ma per arrivare all’ordinanza che permetterà alla Protezione Civile di acquistare con “priorità assoluta rispetto ad ogni altro ordine” i Dpi, occorrerà attendere addirittura il 25 febbraio. Quasi un mese dopo lo “stato di emergenza”. E serviranno altri tre giorni per avere la stessa urgenza sulla “acquisizione degli strumenti e dei dispositivi di ventilazione invasivi e non invasivi” o per destinare le mascherine “in via prioritaria al personale sanitario”.
Una sfilza di decreti. Se inizialmente l’Italia paga il ritardo eccessivo sui tamponi da fare ai malati che accorrono negli ospedali, poi deve scontare la completa inesperienza del governo che si incarta approvando una sfilza di decreti che ritardano di troppe settimane l’unica misura necessaria a fermare l’epidemia: la chiusura totale. Il 22 febbraio i contagiati sono già 79 e i morti salgono a due. Il primo provvedimento arriva nella notte ma è limitatato a undici comuni: le aree focolaio del Lodigiano (Bertonico; Casalpusterlengo; Castelgerundo; Castiglione D’Adda; Codogno; Fombio; Maleo; San Fiorano; Somaglia; Terranova dei Passerini) e Vo’ Euganeo. Lo stesso giorno il ministero della Salute, “considerando l’evoluzione della situazione epidemiologica” e “le nuove evidenze scientifiche”, modifica la definizione di caso “sospetto” diramata il 27 gennaio 2020. L’obiettivo è evitare un nuovo caso Codogno e cercare di diagnosticare prima gli infetti. È la prima di una (lunga) serie di disposizioni con cui medici e infermieri dovranno confrontarsi, con continui ritocchi e aggiustamenti. Basti pensare che arriverà una nuova circolare il 25 febbraio e un’altra solo due giorni dopo, quando viene modificata la definizione di il “caso sospetto di Covid-19 che richiede esecuzione di test diagnostico”. Prima il tampone va fatto solo a chi è stato in Cina, a contatto stretto con un caso di infezione da Sars-CoV-2 o lavora negli ospedali in prima linea; poi basta “essere stato in zone con presunta trasmissione comunitaria”. Un’ulteriore modifica arriverà pure il 3 marzo. Il 25 febbraio il contagio si allarga ad altre regioni, i contagiati salgono a 328 e le vittime a 11. Il governo decide, quindi, di varare un secondo decreto che estende a Emilia Romagna, Friuli Venezia Giulia, Lombardia, Veneto, Piemonte e Liguria, le misure che sono in vigore per gli undici comuni-focolaio. Nelle stesse ore, però, esplode il primo grande screzio politico tra l’esecutivo e le istituzioni locali. Dopo che in Lombardia il governatore Attilio Fontana ha chiuso tutte le scuole della Regione, nelle Marche il presidente Luca Ceriscioli firma un’ordinanza per fare altrettanto. In Regione non ci sono ancora contagi, ma il dem vuole essere previdente. A Palazzo Chigi, invece, non sono convinti della necessità della serrata e decidono addirittura di impugnare l’ordinanza che verrà poi sospesa dal Tar. “Sarà l’occasione per vedere chi ha fatto bene, noi o il governo che si oppone”, afferma Ceriscioli in piena polemica e rinnova l’ordinanza prima il 27 febbraio e poi il 3 marzo. La cronaca gli darà ragione. Oggi le Marche, che contano quasi 5mila casi e 669 morti, sono una delle regioni più colpite al Centro-Sud. Ma soprattutto quella più in difficoltà per il rischio saturazione delle terapie intensive. “Disporre la chiusura delle scuole poi crea problemi per i genitori. Ha solo effetti negativi e non positivi”, diceva Conte in quei giorni. Ci ripenserà il 4 marzo, quando con una giravolta sbarra gli ingressi degli istituti scolastici di tutta Italia. Lo scontro tra la presidenza del Consiglio e la Regione Marche si capisce solo andando a ripercorrere il clima che si respira a fine febbraio. Sono in molti, anche tra le fila degli infettivologi, a considerare Covid-19 un virus poco più nocivo di una normale influenza stagionale. I politici non sono da meno. Nel capoluogo lombardo il sindaco Beppe Sala mette la faccia sull’iniziativa “Milano non si ferma”. Il segretario del Pd Nicola Zingaretti brinda in compagnia e posta tweet del tipo: “Ho raccolto l’appello di Sala, non perdiamo le nostre abitudini, non possiamo fermare Milano e l’Italia”. Qualche giorno dopo però annuncia, sempre sui social, di aver contratto il coronavirus. In quelle stesse ore i report della Regione Lombardia segnano Nembro come il quarto Comune più colpito, al pari di Casalpusterlengo che però risulta tra le “zone rosse”. E anche due giorni dopo, il 29 febbraio, mentre vengono chieste a Conte misure più restrittive, la Confindustria di Bergamo pubblica il video “Bergamo is running” e il sindaco Giorgio Gori lo rilancia. Il risultato di questi tentennamenti? Il 4 marzo il numero delle vittime sfonda quota 100. Conte firma, quindi, un nuovo decreto che prevede lo stop fino al 15 marzo per università e scuole in tutta Italia ma ancora non viene fatto nulla per i focolai che divampano in Lombardia. Dalla Regione arrivano dati allarmanti soprattutto su Alzano e Nembro, ma Palazzo Chigi chiede di “acquisire ulteriori elementi per decidere se estendere la "zona rossa" a quei due comuni”. Il 5 marzo il presidente dell’Istituto Superiore di Sanità, Silvio Brusaferro, risponde positivamente, ma l’indomani il premier ribadisce la linea di superamento della distinzione tra “zona rossa”, “zona arancione” e resto del territorio. Tanto che, nella notte tra il 7 e l’8 marzo, annuncia un altro decreto per vietare ogni spostamento in Lombardia e in quattordici province di Veneto, Emilia Romagna, Piemonte, Marche. Nella notte, complice l’improvvisata diretta su Facebook del premier per annunciare le nuove misure, si scatena la “fuga” verso il Sud Italia. Nelle stazioni delle principali città del Nord vengono presi d’assalto i treni. Un esodo che espone l’intero Paese a un contagio che fino ad ora è confinato principalmente nelle regioni del Centro-Nord. A pesare sull’impennata nei contagi, che si rifletterà sulla curva delle prossime due settimane, è anche un altro atteggiamento del tutto sconsiderato. La chiusura delle scuole decisa pochi giorni prima scatena, infatti, un altro esodo: nel fine settimana del 7-8 marzo molti italiani si riversano nelle località sciistiche in Trentino e Valle D’Aosta.
Un Paese allo sbando. Il 9 mattina gli ospiti del carcere di Foggia appiccano il fuoco a lenzuola e materassi: è l’inizio dell’inferno. In 200 si riversano nei cortili, sfondano la cancellata e scappano in strada. La polizia dà la caccia a 72 evasi, mentre lungo lo stivale si moltiplicano le rivolte e le immagini delle devastazioni sconvolgono l’Italia (guarda il video). I motivi ufficiali delle proteste sono la riduzione dei colloqui con i parenti e la paura che il contagio arrivi dietro le sbarre, ma dietro si celano pure manovre mafiose e la speranza di conquistare un’amnistia. In cinque giorni si infiammano le carceri di Treviso, Torino, Rovigo, Potenza, Modena e Napoli. Poi è il turno di San Vittore, Foggia, Bologna, Bari e via dicendo. Bollettino finale: quasi 50 istituti coinvolti, 14 detenuti morti e decine di poliziotti feriti. Il ministro Bonafede decide così di piegarsi ai rivoltosi: per ridurre l’affollamento delle prigioni decide di concedere i domiciliari a chi gli resta da scontare una pena fino a 18 mesi. Nel frattempo Conte si decide a estendere a tutto il territorio nazionale quanto previsto per le ‘zone rosse’. L’Italia è chiusa. L’ennesimo decreto dallo slogan “Io resto a casa” arriva quando in Italia ci sono 463 morti e 9172 contagiati. Di questi la Lombardia, abbandonata a cavarsela da sola, conta 333 morti e 5469 contagiati. Con il passare dei giorni si fanno sentire i risultati di tutti questi cattivi comportamenti. Il 12 marzo si sfonda quota mille morti e la Lombardia resta sempre in cima a questo drammatico bilancio con 744 decessi e 8725 contagi. Se la chiusura del Lodigiano ha dato i suoi frutti, ora il problema arriva da Bergamo e Brescia. I bilanci delle vittime si fanno sempre più drammatici e gli ospedali non sanno come gestire l’elevato numero di cadaveri. Nemmeno i cimiteri riescono a stare dietro a tutte quelle sepolture. Così, è il 18 marzo notte, i camion dell’Esercito attraversano Bergamo per trasportare le salme verso altre regioni dove verranno cremate. Il 19 marzo, con 3.405 italiani morti, superiamo la Cina in questo drammatico primato mondiale. Il bollettino della conta delle vittime per il coronavirus, che ogni sera alle 18 viene fornito dall’Istituto superiore di Sanità e dalla Protezione civile, è un drammatico appuntamento per tutti i cittadini. A un mese dal primo contagio, infine, il governo vara il decreto “chiudi Italia”. Ora la chiusura è totale. Ma quella firma arriva troppo tardi. Il 22 marzo piangiamo 5476 morti e temiamo per la salute di quasi 60mila contagiati. Un numero monstre. Che non ha nulla a che vedere con quello che deve ancora venire.
· A Futura Memoria.
Vittime di covid, 500 famiglie chiedono di essere risarcite. Orlando Trinchi su Il Dubbio il 23 dicembre 2020. Depositato oggi un atto di citazione al premier Giuseppe Conte, al governatore della Lombardia Attilio Fontana e al ministro della Salute Roberto Speranza. «Il Comitato Noi Denunceremo – afferma l’avvocato Consuelo Locati, rappresentante legale del Comitato, nato alla fine di marzo a Bergamo, epicentro della pandemia – ha fino ad ora depositato in sede penale 300 esposti in cui si raccontano storie senza mai identificare reati o eventuali colpevoli. Tuttavia, il lavoro di ricerca svolto in questi mesi ci ha permesso di identificare chiare responsabilità anche in ambito civile». Lavoro di ricerca che culmina nella notifica, il 23 dicembre alle 14, di un atto di citazione al Presidente del Consiglio Giuseppe Conte, al Presidente della Regione Lombardia Attilio Fontana e al Ministro della Salute Roberto Speranza, a nome dei circa cinquecento familiari delle vittime del Coronavirus. Oggetto della contestazione in sede civile, le gravissime omissioni – secondo il comitato – delle autorità pubbliche regionali lombarde e centrali governative, dalla riapertura dell’ospedale dell’ospedale di Alzano il 23 febbraio alla mancata chiusura dei comuni di Alzano e Nembro. A finire sotto accusa anche l’assenza di un piano pandemico nazionale e di un piano regionale aggiornato che avrebbe assicurato una maggiore efficienza e avrebbe garantito alla Regione Lombardia, durante la prima ondata, adeguate scorte di tamponi, reagenti e dispositivi di protezione individuali. «Il comitato Noi Denunceremo – spiega il presidente Luca Fusco – non si costituirà parte civile. Abbiamo sempre detto che il nostro obiettivo non sarebbero mai stati gli indennizzi ma la verità. Allo stesso tempo, abbiamo ritenuto opportuno mettere a disposizione dei nostri associati tutto il know-how del team dei nostri legali a cui potranno affidarsi a loro discrezione. Ci tengo a precisare che il comitato Noi Denunceremo vede in questa azione giudiziaria un chiaro atto politico. Un tentativo per tracciare una linea ben definita tra ciò che è considerato accettabile e ciò che non deve mai esserlo in alcun modo. Queste denunce sono il nostro regalo di Natale a chi avrebbe dovuto fare e non ha fatto mentre in Italia, il 25 di Dicembre, ci saranno 70.000 sedie vuote. Con una adeguata pianificazione, cosi come richiesto più e più volte dall’UE e dall’OMS siamo sicuri ce ne sarebbero state molte meno». Alle autorità verrà chiesto un indennizzo medio di 200.000 euro a persona per un esborso complessivo che sfiora i 100 milioni di euro.
Balla con me. Report Rai PUNTATA DEL 09/11/2020 di Emanuele Bellano, collaborazione di Greta Orsi e Eleonora Zocca. Con oltre 17.000 decessi su una popolazione di 10 milioni di abitanti la Lombardia è una delle aree del mondo in cui il nuovo coronavirus ha ucciso di più. Anche a causa di questo triste primato l'Italia rimane ancora oggi uno dei paesi d'Europa con più morti in relazione al numero di abitanti. Abbiamo ricostruito con dati e documenti inediti la catena di eventi ed errori che hanno contribuito a generare questa situazione. Oggi nel pieno della seconda ondata di Covid19, possiamo chiederci se abbiamo imparato da quanto accaduto a febbraio e marzo scorsi. La Sardegna ad agosto è stata al centro di un ampio dibattito politico dopo che il presidente Solinas aveva chiuso e poi riaperto le discoteche in seguito a un’impennata di contagi provenienti dai locali notturni. Report ha ricostruito le pressioni e i condizionamenti che hanno agito sottotraccia e che hanno indotto la politica a correre seri rischi nella gestione dei contagi. E infine, come si sono comportati i paesi d'Europa in cui i contagi e i decessi si sono mantenuti bassi durante la prima ondata di Coronavirus?
“BALLA CON ME” Di Emanuele Bellano Collaborazione Greta Orsi - Eleonora Zocca Immagini Giovanni De Faveri – Davide Fonda Immagini Andrea Lilli-Fabio Martinelli Montaggio Igor Ceselli.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Quel giorno il pronto soccorso di Piario è così. Ovunque pazienti con Covid attaccati all’ossigeno.
LIDIA POLI Dalla cartella clinica, c’è scritto che la mamma necessitava CPAP, ma il CPAP non era reperibile.
WALTER BASSO RICCI Ricevere una chiamata dicendomi non c’è più niente da fare suo papà sta morendo, è stata una mazzata.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO In quei giorni avere caschi Cpap era un’assoluta priorità ed era impossibile reperirli altrove sul mercato.
INTERVISTA COPERTA Il 14 marzo la Asst Bergamo Est fa richiesta di caschi Cpap per gli ospedali. Due giorni dopo, i caschi non arrivano. Dopo aver parlato con Dimar veniamo a sapere qual è il problema: l’Unità di crisi aveva dimenticato di inviare l’ordine dei nostri caschi alla Dimar.
CONSULEO LOCATI - COMITATO NOI DENUNCEREMO Con quella mail si dichiara che ci si è dimenticati di fare un ordine per un elemento indispensabile per salvare la vita umana.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Dimenticati, dimenticati… mostreremo delle mail inedite che testimoniano quanto la mediocrità di alcuni manager della sanità lombarda, abbia inciso sulla qualità delle cure e anche sul quel confine labile tra la vita e la morte. Ha messo con le spalle al muro, quei medici che sono stati costretti a prendere una decisione che mai avrebbero voluto prendere nella loro vita. Scegliere tra chi abbandonare al proprio destino e chi curare. Insomma, è anche quella che vedremo questa sera, la somma degli egoismi, di chi guarda solo al proprio bacino elettorale e ragiona con una filosofia, io speriamo che me la cavo, ecco. In questa estate in Sardegna, un governatore tormentato, alla fine ha ceduto alle pressioni delle cicale. Ma dietro questa resa, ci sono dei misteri; chi ha fatto delle pressioni. E poi l’altro mistero è quello di un parere di un Comitato Tecnico Scientifico che avrebbe dovuto dare il via libera all’apertura delle discoteche. Ecco, questo parere è al centro di molte discussioni, tutti lo citano, tutti lo cercano, ma questo parere c’è o non c’è? Il nostro Emanuele Bellano.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO È agosto, nelle spiagge della Sardegna, come nel resto d’Italia, si accede con tutte le precauzioni necessarie per arginare il coronavirus.
BAGNINO Eh… la mascherina.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Qualcosa però qui va storto e i contagi in Costa Smeralda iniziano a salire.
MARCELLO ACCIARO - UNITÀ DI CRISI REGIONE SARDEGNA Abbiamo cominciato a vedere tantissime positività. C’era stato un contagio all’interno dei locali.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Il 31 luglio in una discoteca di Carloforte, nel sud della Sardegna, scoppia un focolaio con 21 contagiati accertati e 130 persone in isolamento. Per trovare numeri simili in Sardegna bisogna tornare ad aprile, in piena emergenza covid. Per questo la Regione non proroga l’ordinanza che avrebbe consentito di tenere i locali aperti.
EMANUELE BELLANO Sono rimaste chiuse che voi sappiate oppure comunque hanno aperto, hanno continuato ad essere in attività il 10 le discoteche?
ROBERTO RAGNEDDA – SINDACO DI ARZACHENA (SS) Non c’è stata una direzione univoca da parte dei gestori delle discoteche e quindi qualcuno ha chiuso e qualcuno ha aperto.
EMANUELE BELLANO Cioè cosa vi dicevano? I proprietari delle discoteche?
ROBERTO RAGNEDDA – SINDACO DI ARZACHENA (SS) C’era un’aspettativa da parte degli operatori che si sarebbe divenuti ad una proroga.
EMANUELE BELLANO E questa aspettativa si basava su cosa?
ROBERTO RAGNEDDA – SINDACO DI ARZACHENA (SS) Quello che si diceva è che probabilmente il presidente Solinas era intenzionato a prorogare.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO L’11 agosto l’apertura delle discoteche in Sardegna è al centro di un infuocato consiglio regionale. 11/08/2020
CHRISTIAN SOLINAS – PRESIDENTE REGIONE SARDEGNA E in corso un’interlocuzione col Comitato Tecnico Scientifico della Regione – come abbiamo sempre fatto – che sta valutando con estrema attenzione, visto quello che è successo anche a Carloforte, dove purtroppo i contagi si sono realizzati all’interno di una struttura, in maniera tale da non pregiudicare possibilmente tutti gli investimenti che sono stati fatti in quel settore.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Tra le motivazioni della scelta viene citato il parere del Comitato Tecnico Scientifico regionale.
GIOVANNI SATTA – CONSIGLIERE REGIONE SARDEGNA PARTITO SARDO D’AZIONE Il Comitato Tecnico Scientifico gli diceva, sì lo puoi fare ma a determinate condizioni che devono essere anche abbastanza rigide…
EMANUELE BELLANO Voi come consiglieri avete letto questo parere del Comitato Tecnico Scientifico?
GIOVANNI SATTA – CONSIGLIERE REGIONE SARDEGNA PARTITO SARDO D’AZIONE No, letto no. Non ho avuto tempo di leggerlo però mi è stato raccontato dal Presidente in persona.
EMANUELE BELLANO È possibile leggerlo?
GIOVANNI SATTA – CONSIGLIERE REGIONE SARDEGNA PARTITO SARDO D’AZIONE Penso di sì.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Sul sito della Regione di quel parere scientifico non c’è traccia.
MASSIMO ZEDDA – CONSIGLIERE REGIONE SARDEGNA PROGRESSISTI Stranamente proprio il parere emesso dal Comitato Tecnico Scientifico, nonostante una nostra richiesta del 12 agosto, quindi il giorno dopo l’adozione dell’ordinanza, non ci è mai stato dato.
EMANUELE BELLANO Avete fatto richiesta anche direttamente ai membri del Cts?
MASSIMO ZEDDA – CONSIGLIERE REGIONE SARDEGNA PROGRESSITSI In modo come dire informale, abbiamo chiesto se esiste o meno questo parere.
EMANUELE BELLANO Il risultato?
MASSIMO ZEDDA – CONSIGLIERE REGIONE SARDEGNA PROGRESSISTI Non ci è stata data risposta.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Il sostegno all’ordinanza di Solinas sull’apertura delle discoteche è stato dato da tutta la maggioranza in Consiglio Regionale.
EMANUELE BELLANO Avete preso atto di quello che veniva detto dal Comitato Tecnico Scientifico, cioè dagli esperti?
DARIO GIAGONI – CONSIGLIERE REGIONE SARDEGNA LEGA Abbiamo preso atto, abbiamo l’assessore alla sanità che anche lui ha dato un’indicazione.
EMANUELE BELLANO Cioè lei l’ha letto questo parere del comitato tecnico scientifico?
DARIO GIAGONI – CONSIGLIERE REGIONE SARDEGNA LEGA Ci fidiamo del nostro assessore alla sanità, ci fidiamo dei nostri tecnici.
EMANUELE BELLANO Ok, cioè, di fatto lei personalmente non l’ha letto quel parere?
DARIO GIAGONI – CONSIGLIERE REGIONE SARDEGNA LEGA Mi fido dei miei tecnici.
MASSIMO ZEDDA – CONSIGLIERE REGIONE SARDEGNA PROGRESSISTA Delle due l’una: se il parere è positivo per la riapertura delle discoteche quella del Comitato Scientifico non c’è motivo di non farlo vedere, renderlo pubblico. Inizio a dubitare che esista il parere o che il parere addirittura sia negativo.
EMANUELE BELLANO Vabbè immagino lei come membro della maggioranza ci mette due giorni a recuperarlo questo parere?
GIOVANNI SATTA – CONSIGLIERE REGIONE SARDEGNA PARTITO SARDO D’AZIONE Penso di sì.
EMANUELE BELLANO Mi aiuta a risolvere questo rebus?
DARIO GIAGONI – CONSIGLIERE REGIONE SARDEGNA LEGA Sarà un mio impegno di far avere copia anche all’opposizione e anche a lei.
EMANUELE BELLANO Di questa cosa. Va bene.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Non va bene perché sia il capogruppo della Lega in Regione, che il vice capogruppo del partito Sardo d’Azione, dopo avercelo promesso, il parere del Comitato Tecnico Scientifico non ce l’hanno fatto vedere. Insomma, è così da 3 mesi, non sappiamo se questo parere c’è. C’è ed è positivo per l’apertura delle discoteche in Sardegna, allora ce lo facciano vedere. Altrimenti, viene da pensare che il parere fosse negativo. E questo imbarazzerebbe il governatore Solinas. Con noi non ha voluto parlare, gli avremmo chiesto, ma perché hai deciso di aprire le discoteche mentre il virus stava dilagando? Il premier Conte aveva deciso a luglio di chiudere le discoteche, poi però ha lasciato mano libera ai governatori. Solinas ha deciso di aprire le discoteche a colpi di ordinanza temporale. Ecco. L’ultima scadeva il 9 agosto. Dopo due giorni tormentati, in un consiglio regionale di fuoco, Solinas annuncia: si può ballare in Sardegna fino alla fine di agosto. Perché prende questa decisione? Si appella a quel parere fantomatico ormai del Comitato Tecnico Scientifico, che nessuno però ha ancora visto. Il ministro della Salute Speranza si arrabbia, dopo ferragosto chiude le discoteche senza appello in tutta Italia. Ma cosa è successo tre il 9 e l’11 agosto? Solinas ha ricevuto delle pressioni e da parte di chi? Dai gestori delle discoteche? Chi sono questi gestori? Ha subìto pressioni da parte dei leader politici nazionali? È importante saperlo. Perché quella decisione ha avuto una ricaduta su tutto il paese. Mentre in Sardegna il virus dilaga, si aprono le discoteche e migliaia di turisti al loro rientro presso il porto di Civitavecchia, quello di Napoli, l’aeroporto di Fiumicino e quello di Linate vengono trovati positivi. Dopo tanta omertà qualcuno è stato preso dal rimorso e ha avuto il coraggio, magari anche sottovoce, di denunciare.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO La stagione estiva quest’anno in Sardegna è finita prima del solito. Le spiagge si svuotano e i turisti si riversano sui traghetti per tornare a casa in preda al panico per il rischio contagio.
PASSEGGERO NAVE Faccio una fila per entrare, arrivo due ore prima per le disposizioni, mi misurano la febbre, faccio tutte quelle cose, posso anche farmi un tampone, però non posso fare tutta questa trafila, arrivare a bordo e trovarmi una persona sconosciuta.
PASSEGGERA NAVE Però queste cose si organizzano prima quando ci sono dei contagi, siamo 4 mila persone contagiate al giorno.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Sono talmente tanti i passeggeri risultati positivi al rientro dalla Sardegna che le autorità sanitarie hanno deciso di istituire drive-in per fare tamponi nei principali porti e aeroporti collegati con l’isola. Qui siamo a Civitavecchia.
INFERMIERA DRIVE IN Nel caso di positività di uno o di entrambi venite chiamati, entro un’ora, tornate qui e fate il tampone molecolare.
ELEONORA ZOCCA Ok. Quante persone riuscite a testare?
INFERMIERA DRIVE IN Dipende dalle giornate, circa 2mila al giorno.
EMANUELE BELLANO Quanto ha inciso la movida di quest’estate sulla ripartenza dei contagi che stiamo vedendo oggi e che abbiamo visto nei mesi scorsi?
ANDREA CRISANTI - ORDINARIO MICROBIOLOGIA UNIVERSITÀ PADOVA Guardi io penso che sicuramente hanno avuto un impatto, un impatto importante che chiaramente è stato sottovalutato. Debbo dire la verità, quando io ho sentito che le discoteche erano aperte sono rimasto veramente stupefatto, ho detto ma come è possibile che hanno riaperto le discoteche?
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Balli, assembramenti e poche mascherine sono condizioni che facilmente possono trasformare una discoteca in un focolaio di Covid.
EMANUELE BELLANO Ritiene che sia stato un errore lasciare aperte le discoteche?
ANGELO COCCIU – CONSIGLIERE REGIONE SARDEGNA FORZA ITALIA No, chiudere la Sardegna definitivamente senza aprire le discoteche e poi altri punti di ritrovo estivo dove i giovani e le persone si incontrano, avremo decretato il completo fallimento di tantissimi operatori del settore.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO I contagi nati nelle discoteche però alla fine hanno generato un allarme che ha accorciato di molto la stagione turistica.
PAOLO MANCA – PRESIDENTE FEDERALBERGHI SARDEGNA Purtroppo da circa sei giorni abbiamo dovuto bloccare tutto perché non c’erano prenotazioni sufficienti per andare avanti. Sala ristorante, un albergo che ha 150 posti letto e già tutto preparato per l’inverno e si riparla di riaprire ormai a fine di marzo 2021 se ci sarà un minimo di stabilità nella gestione della pandemia.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Le curve nera e gialla rappresentano gli arrivi dei turisti in Sardegna negli ultimi due anni. Se a inizio agosto non c’è una grande differenza, dopo l’aumento dei contagi la curva gialla del 2020 precipita rispetto all’anno scorso.
PAOLO MANCA – PRESIDENTE FEDERALBERGHI SARDEGNA Di solito le stagioni finivano ad ottobre, purtroppo noi oggi a fine settembre invece ci troviamo con oltre l’80 per cento degli alberghi chiusi. Questo danno si quantifica in oltre 40 milioni di euro diretti nella sola ospitalità e per il solo mese di settembre.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO I turisti contagiati nelle discoteche della Sardegna una volta rientrati a casa hanno diffuso il virus in tutta Italia. Il Presidente Solinas ha deciso di tenerle aperte fino a che non è arrivato il governo a chiuderle definitivamente il 16 agosto.
PAOLO MANCA – PRESIDENTE FEDERALBERGHI SARDEGNA Solinas, la sua posizione era quella piuttosto di chiudere, non voleva riaprire il turismo, quindi figuriamoci…
EMANUELE BELLANO Ma proprio per una questione personale di…
PAOLO MANCA – PRESIDENTE FEDERALBERGHI SARDEGNA Di massima tutela. Quando a maggio c’è stato il contrasto con noi, dove noi gli dicevamo devi dare le date di apertura, c’era il Comitato scientifico che ovviamente gli diceva “ah potrebbe succedere che chiudiamo tutto” e ovviamente ti facevano gli scenari più catastrofici. E Solinas partiva da quegli scenari catastrofici.
EMANUELE BELLANO Quindi lui…
PAOLO MANCA – PRESIDENTE FEDERALBERGHI SARDEGNA Aveva una posizione estremamente prudenziale e questa cosa stride in maniera decisamente stonata con il fatto di, del libera tutti di agosto.
EMANUELE BELLANO A quel punto l’influenza e il condizionamento non può che essere stato nel caso di tipo politico.
PAOLO MANCA – PRESIDENTE FEDERALBERGHI SARDEGNA Noi vorremmo tra virgolette, dormire tranquilli e sperare che non sia avvenuto questo.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Quello che è certo è che a livello nazionale fin da giugno si è creato un’asse tra i gestori delle discoteche e i partiti di centrodestra. A manifestare davanti a Montecitorio con i gestori delle discoteche ci sono il vicepresidente della Camera Fabio Rampelli di Fratelli d’Italia e il leader della Lega, Matteo Salvini.
DAL TGR LIGURIA DEL 19/08/2020 MATTEO SALVINI – SEGRETARIO LEGA Un governo che chiude locali e discoteche, spalanca i porti a decine di migliaia di clandestini che stanno sbarcando che portano caos, problemi e virus, è un governo di incapaci, prima va a casa, meglio è. Prima di chiudere le discoteche, pensino a chiudere i porti.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Contro il decreto firmato dal premier Giuseppe Conte sulle discoteche si scagliano anche imprenditori e gestori.
14/06/2020 FLAVIO BRIATORE – IMPRENDITORE Il cretino che ha scritto questa roba qui ma qui ci pigliano tutti per il culo, non possiamo. Io vorrei vedere la faccia, adesso facciamo di tutto per capire che faccia ha un cretino del genere che scrive una roba del genere che sta ammazzando 2 o 300mila persone che devono iniziare a lavorare. Ma questi sono matti, ma io non lo so come mai nessuno dice niente.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Il 9 agosto quando è ormai chiaro che l’aumento dei contagi in Sardegna è legato alle discoteche, la tensione è altissima. Alcuni consiglieri regionali di maggioranza ci hanno svelato quello che è successo in quei giorni.
GIOVANNI SATTA – CONSIGLIERE REGIONE SARDEGNA PARTITO SARDO D’AZIONE Ricevevamo pressioni, non solo quotidiane ma più volte durante una giornata da parte degli imprenditori che dicevano ma ci rovinate se non ci fate aprire. Questo discorso c’è stato.
EMANUELE BELLANO Queste pressioni quando sono arrivate?
GIOVANNI SATTA – CONSIGLIERE REGIONE SARDEGNA PARTITO SARDO D’AZIONE Ma arrivavano quotidianamente. Posso garantire che ho dei messaggi anche di colleghi della minoranza che mi dicevano: ma è vero che Solinas non riapre, sarebbe il colpo mortale per la nostra economia.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Giovanni Satta, è importante membro del partito Sardo D’Azione, lo schieramento del presidente Solinas. Personaggio controverso, fu arrestato quattro anni fa perché considerato dai magistrati di Cagliari esponente di un’associazione che trafficava cocaina dall’Albania e la rivendeva nei locali della Costa Smeralda ed è attualmente per questo inviato a giudizio. Oggi siede in Consiglio Regionale.
EMANUELE BELLANO Le pressioni sono arrivate dagli operatori del settore del divertimento notturno?
GIOVANNI SATTA – CONSIGLIERE REGIONE SARDEGNA PARTITO SARDO D’AZIONE Certo, certo.
EMANUELE BELLANO Quindi le grandi discoteche della Costa Smeralda.
GIOVANNI SATTA – CONSIGLIERE REGIONE SARDEGNA PARTITO SARDO D’AZIONE Sì, sì. Mi aveva chiamato uno dei soci del Just Cavalli, per esempio, adesso non mi ricordo nemmeno come si chiama.
EMANUELE BELLANO Dicendole?
GIOVANNI SATTA – CONSIGLIERE REGIONE SARDEGNA PARTITO SARDO D’AZIONE Ma è vero che chiudete le discoteche? Noi siamo rovinati, la stagione già è stata… noi abbiamo aperto per metà, chiudiamo, se chiudiamo ora… ma io mi ricordo…
EMANUELE BELLANO Questo quando? Sempre in quel periodo? Tra il 9 e il 10 di agosto?
GIOVANNI SATTA – CONSIGLIERE REGIONE SARDEGNA PARTITO SARDO D’AZIONE Sì, sì, sì, sì. Perché si parlava appunto di una chiusura totale delle discoteche.
EMANUELE BELLANO E queste pressioni le avete trasferite poi in Giunta, poi al Presidente della Regione?
GIOVANNI SATTA – CONSIGLIERE REGIONE SARDEGNA PARTITO SARDO D’AZIONE Si le abbiamo… oggetto di discussione, discussione politica.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Ma quali sono le grandi discoteche della Costa Smeralda e chi sono i loro proprietari? Il Just Cavalli, è il locale di Porto Cervo frequentato da vip e mondo dello spettacolo. Le serate d’agosto si svolgono così, senza precauzioni sanitarie e senza distanziamento sociale. In questo antico forte militare sul mare sul territorio di Arzachena c’è il club Phi Beach. Il 30 per cento è dell’imprenditore Luciano Guidi.
EMANUELE BELLANO Di chi è la restante proprietà di questa discoteca?
GIAN GAETANO BELLAVIA – ESPERTO RICICLAGGIO Non si può sapere perché inizialmente era posseduta da una società delle British Virgin Island, poi da una fiduciaria italiana tramite un’altra società ed infine da una società semplice, diciamo, avente sede in Italia.
EMANUELE BELLANO Che è di?
GIAN GAETANO BELLAVIA – ESPERTO RICICLAGGIO Che non si sa di chi è perché non è iscritta nel registro delle imprese e questo Phi Beach con un capitale bassissimo di 10mila euro guadagna molto bene. Consente di distribuire all’amministratore un emolumento di un milione di euro, che è tantissimo, e dopo aver dato l’emolumento c’è ancora un utile di quasi 900mila euro.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Altro locale storico della movida di Porto Cervo è il Sottovento. Da qui quest’estate sono passati Sinisa Mihailovic e il calciatore Miralem Pjanic, entrambi risultati poi positivi al coronavirus. Come d’altronde lo chef del Sottovento Johnny Micalusi. Il “Re del pesce”, come viene chiamato dai suoi amici, finito nei guai per la gestione del ristorante Assunta Madre a Roma, vicenda per cui ha ricevuto una condanna in primo grado a 8 anni e nove mesi per riciclaggio. Poi c’è il Billionaire con le serate d’agosto senza mascherine né distanziamenti. Un vero e proprio focolaio in Costa Smeralda, con 63 dipendenti contagiati, tra loro anche Flavio Briatore.
GIAN GAETANO BELLAVIA – ESPERTO RICICLAGGIO La srl sarda…
EMANUELE BELLANO Del Billionaire.
GIAN GAETANO BELLAVIA – ESPERTO RICICLAGGIO Del Billionaire era posseduta da una società lussemburghese a sua volta posseduta da un trust, la quale poi cede a una società di Singapore, la quale poi cede a un’altra società lussemburghese che a sua volta è posseduta da un’altra lussemburghese la quale è posseduta da una della Nuova Zelanda a sua volta posseduta da un trust del Belize nonché da un’altra società delle isole Mauritius.
EMANUELE BELLANO Quindi in capo Belize e Isole Mauritius.
GIAN GAETANO BELLAVIA – ESPERTO RICICLAGGIO No! Perché in capo a quest’ultima lussemburghese c’è un’altra lussemburghese la quale si riferisce a una BVI, cioè una British Virgin Island e a una di Singapore.
EMANUELE BELLANO Che livello di offshore?
GIAN GAETANO BELLAVIA – ESPERTO RICICLAGGIO No, totale. Però con la nuova normativa comunitaria si sa chi sono i titolari effettivi delle varie società lussemburghesi e risulta alla fine che questa discoteca sarda è riferibile in parte a Flavio Briatore e in parte a un romano che si chiama Francesco Costa che risiede in Svizzera.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Nella società lussemburghese, in cima alla catena del Billionaire e riferibile a Costa, risultano in bilancio investimenti finanziari per 47 milioni di euro.
GIAN GAETANO BELLAVIA – ESPERTO RICICLAGGIO Quindi è probabile che questo Francesco Costa abbia dato 47 milioni a questa società, non si sa per fare cosa. Ma chi è sto Francesco Costa che ha tutti ‘sti soldi? EMANUELE BELLANO Ma il Billionaire paga imposte?
GIAN GAETANO BELLAVIA – ESPERTO RICICLAGGIO Praticamente è sempre in perdita. Soffre anche lui – ante-virus, figuriamoci con il virus.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO È per venire incontro alle esigenze di questi locali che il presidente della Regione Solinas emana l’ordinanza che l’11 agosto apre le discoteche.
ANGELO COCCIU – CONSIGLIERE REGIONE SARDEGNA FORZA ITALIA Dopo il 7, l’8 di agosto, si è capito che i numeri stavano iniziando ad aumentare e che era un momento di pericolo e un momento di molta attenzione.
EMANUELE BELLANO Perché la regione Sardegna invece fa un’ordinanza in cui decide di lasciare aperte le discoteche?
ANGELO COCCIU – CONSIGLIERE REGIONE SARDEGNA FORZA ITALIA Perché siamo stati contattati, ci hanno fatto presenti quelle che erano le loro difficoltà…
EMANUELE BELLANO Cioè anche Billionaire, Sottovento, Phi Beach, vi hanno contattato chiedendo questo?
ANGELO COCCIU – CONSIGLIERE REGIONE SARDEGNA FORZA ITALIA A me personalmente no, però so che si sono mossi. Si sono mossi tutti.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Angelo Cocciu è capogruppo in consiglio regionale di Forza Italia. Uno dei partititi che sostengono la giunta di Cristian Solinas. E per la prima volta spiega che cosa è successo tra il 9 e l’11 agosto in consiglio regionale.
ANGELO COCCIU – CONSIGLIERE REGIONE SARDEGNA FORZA ITALIA Durante un consiglio regionale sono arrivate 20-25 telefonate, perché anche il mio tipo di elettorato… Angelo dacci una mano, siamo nella merda… Poi quella dei capigruppo, guarda che a me stanno telefonando… e anche a me stanno telefonando… e ci siamo riuniti come capigruppo… Questi contagi stavano salendo, però erano abbastanza contenuti. Quindi mi hanno chiesto quasi tutti, dai Presidente dai qualche giorno in più perché è possibile che ci siano delle problematiche. Poi ho saputo ad esempio che Billionaire, Phi Beach e altra gente avevano dei contratti stratosferici con dj importanti, personaggi del jet set…
EMANUELE BELLANO Ah quindi questi contratti sarebbero stati rescissi…
ANGELO COCCIU – CONSIGLIERE REGIONE SARDEGNA FORZA ITALIA Phi Beach so che ha avuto una marea di problemi.
EMANUELE BELLANO Cioè? ANGELO COCCIU – CONSIGLIERE REGIONE SARDEGNA FORZA ITALIA Mi hanno raccontato anche di 500mila euro, 200mila euro.
EMANUELE BELLANO Per ferragosto? Per la notte di ferragosto?
ANGELO COCCIU – CONSIGLIERE REGIONE SARDEGNA FORZA ITALIA Phi Beach organizzava…aveva Sven Vath, se non ricordo male, l’11 o il 12. Una cosa del genere.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Nella top ten della Vanity Fair dei dj più famosi e più pagati, Sven Vath occupa il quarto posto. Rappresenta il nuovo sound berlinese e le sue serate riempiono le discoteche di tutto il mondo. Motivo per cui, i gestori sono disposti a pagare decine di migliaia di euro una sua performance nel loro locale. Al Phi Beach di Porto Cervo la sua esibizione era programmata per l’11 agosto. E se non si fosse svolta, i proprietari Luciano Guidi e i suoi soci sconosciuti avrebbero pagato penali pesantissimi.
EMANUELE BELLANO In quei casi che sarebbe successo? Avrebbe avuto dei penali?
ANGELO COCCIU – CONSIGLIERE REGIONE SARDEGNA FORZA ITALIA Si, ma non si trattava di arrivare fino al 31, sapevamo che il 31 avremmo ammazzato la Sardegna. Era giusto… l’idea era 2-3 giorni. Gli interventi…
EMANUELE BELLANO Perché avreste ammazzato la Sardegna?
ANGELO COCCIU – CONSIGLIERE REGIONE SARDEGNA FORZA ITALIA Perché ormai i contagi stavano iniziando a crescere.
EMANUELE BELLANO Però avete giocato alla roulette…
ANGELO COCCIU – CONSIGLIERE REGIONE SARDEGNA FORZA ITALIA Abbiamo rischiato un po’. Non è che abbiamo, noi non volevamo rischiare sulle vite umane. È che abbiamo visto che il contagio non era ancora così importante. Abbiamo detto se ci chiedono uno-due giorni magari dal punto di vista economico a loro può aiutarli. SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Angelo Cocciu, è un uomo coscienzioso, prima di essere un politico. E ha fatto alla fine, preso dal rimorso coming-out. Ecco ha detto, sapevamo che i contagi stavano aumentando, volevamo tenere aperti i locali, per altri due-tre giorni. Per dare un po’ d’ossigeno agli imprenditori. Ecco questa, più che una visione politica, è la visione, la logica, del io speriamo che me la cavo. Che non è neppure premiale nei confronti dell’imprenditoria perché se tu fai dilagare il virus, costringi i turisti a scappare e chiudere prima la stagione balneare. Ecco questo lo denuncia proprio il presidente degli albergatori sardi, il quale dice: Solinas era convinto, non voleva aprire le discoteche, ma alla fine ha ceduto alle pressioni dei gestori delle discoteche e speriamo dice il presiedente degli albergatori, non vorrei avesse ceduto anche alle pressioni dei leader politici nazionali perché sarebbe triste. Insomma, i gestori delle discoteche avevano stipulato dei contratti con delle penali importanti da pagare con le star del divertimento. Insomma bisognava aiutarli in qualche modo. Ecco quei proprietari che poi finiscono spesso nell’offshore, noi immaginiamo per contribuire il meno possibile alle spese di uno Stato. Insomma, alla fine tutto ruota intorno al luccichio del denaro.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO In una situazione in cui a Bergamo il virus circola in maniera ignota e silenziosa il 19 febbraio si svolge un evento eccezionale.
PAOLO TINTORI – CLUB AMICI DELL’ATALANTA 45 mila bergamaschi si sono mossi perché giocavamo in casa ma abbiamo dovuto fare 50 chilometri per arrivare a San Siro.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO È la prima volta che l’Atalanta raggiunge gli ottavi di finale della più importante competizione calcistica europea. Lo stadio di Bergamo non è omologato per la Champions League e per questo 45 mila tifosi vanno a Milano.
EMANUELE BELLANO Quanti autobus sono stati organizzati dalla tifoseria?
PAOLO TINTORI – CLUB AMICI DELL’ATALANTA Su quel piazzale, il piazzale di San Siro abbiamo contato 100 bus, non di meno.
EMANUELE BELLANO 100 bus.
PAOLO TINTORI – CLUB AMICI DELL’ATALANTA Dai 100 ai 120 bus.
EMANUELE BELLANO Il viaggio è durato più o meno?
PAOLO TINTORI – CLUB AMICI DELL’ATALANTA Siamo partiti alle 15.45 e siamo arrivati intorno alle 17. EMANUELE BELLANO Nell’autobus qual è il clima prima di una partita come questa?
PAOLO TINTORI – CLUB AMICI DELL’ATALANTA In una partita come questa si comincia con i cori classici già dal piazzale del pullman.
EMANUELE BELLANO Quanto può diffondersi il virus in un ambiente chiuso in cui ci sono molte persone che parlano ad alta voce l’una vicina all’altra?
ANDREA CRISANTI – ORDINARIO MICROBIOLOGIA UNIVERSITÀ PADOVA Ah guardi c’è un caso che in qualche modo è assimilabile e che è accaduto a Seattle, negli Stati Uniti, dove praticamente un coro c’era una persona infetta, praticamente ne ha infettate 30/40 se ben mi ricordo. EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Insieme alla testata BergamoNews abbiamo lanciato un sondaggio tra i tifosi presenti quel giorno allo stadio e abbiamo fatto interpretare i dati dalla società di analisi InTwig.
ALDO CRISTADORO – AMMINISTRATORE DELEGATO IN.TWIG I risultati sono sorprendenti perché abbiamo riscontrato che dei 36mila circa bergamaschi presenti alla partita, uno su 5 dichiara che nelle due settimane successive ha avuto sintomi riconducibili al covid.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO 7.800 tifosi. Sommando i potenziali asintomatici si arriva a uno su tre, cioè circa 10 mila persone.
ALDO CRISTADORO – AMMINISTRATORE DELEGATO IN.TWIG Abbiamo trovato che oltre, fra le duemila e le tremila persone presenti a quella partita hanno fatto un test, in prevalenza la grande maggioranza test sierologici che hanno riscontrato anticorpi da covid.
MARINO LAZZARINI – CLUB AMICI DELL’ATALANTA A Milano l’abbiamo visto passando dal centro, gente che usciva dai metro con la sciarpa atalantina si vedeva questo viavai bergamasco. Poi lì davanti allo stadio naturalmente si era trasferita la città di Bergamo nell’antistadio di San Siro.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Migliaia di tifosi festeggiano per ore in attesa della partita. Col calcio d’inizio il tifo si sposta sugli spalti. Alla fine l’Atalanta vince per quattro a uno, con un risultato storico e inizia la festa.
PAOLO TINTORI – CLUB AMICI DELL’ATALANTA Succede il finimondo. Personalmente ti devo dire che ho abbracciato uno steward che non so neanche chi sia, l’ho preso e quasi vola sotto nel settore sotto perché l’euforia è pazzesca.
EMANUELE BELLANO Ora due giorni dopo succede Codogno, quindi l’Italia insomma si sveglia e capisce che il virus non è più solo in Cina ma anche in Italia… che cosa succede?
PAOLO TINTORI – CLUB AMICI DELL’ATALANTA Nel mio caso specifico, io 15 giorni dopo più o meno ho febbre, e mancanza di olfatto, di gusto scusa.
EMANUELE BELLANO Dopodiché ha fatto un test sierologico?
PAOLO TINTORI – CLUB AMICI DELL’ATALANTA Sono andato ed è saltato fuori che io sono stato positivo.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Grazie ai dati inediti di cui Report è venuto in possesso sappiamo da quali comuni provengono i tifosi che sono andati in trasferta a Milano. 540 tifosi per esempio da Nembro, 610 da Alzano Lombardo, 590 da Albino, 215 da Grassobbio. Sono i luoghi più colpiti dalla pandemia.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Attraverso i dati che possediamo oggi si può stabilire un legame oggettivo tra la diffusione dell’epidemia nella fase iniziale e la provenienza dei tifosi presenti a quella partita.
ALDO CRISTADORO – AMMINISTRATORE DELEGATO IN.TWIG La maggior parte dei tifosi viene dall’area urbana di Bergamo e dalle valli bergamasche: Val Seriana e Val Brembana. Mentre la presenza della pianura e della bassa bergamasca è molto meno rappresentata tra i tifosi presenti alla partita. La stessa mappa è sovrapponibile a quella del contagio.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Grazie a questa ricerca condotta da Report in collaborazione con la testata giornalistica BergamoNews e con il centro di elaborazione dati In.Twig per la prima volta possiamo valutare concretamente l’impatto che la partita dell’Atalanta ha avuto sulla diffusione del virus, almeno nelle zone della bergamasca e forse anche a Milano che poi quei tifosi a Milano sono passati. Ecco, il 19 febbraio, il caso Codogno scoppierà più tardi ovviamente, 36mila tifosi si sono spostati da Bergamo e provincia per arrivare a Milano e vedere la partita, ecco. Da dove vengono questi tifosi? 3800 da Seriate 7420 da Bergamo città 3640 dalla Val Seriana 1410 dalla Val Brembana 3940 dall’Isola Bergamasca Questa mappa che è stata elaborata da In.twig, potete vedere le aree, per la prima volta, potete vedere le aree dove sono stati acquistati i biglietti da parte dei tifosi bergamaschi. Ecco, che cosa abbiamo fatto? Abbiamo sovrapposto questa mappa con quella della diffusione del virus. E siamo al 15 marzo. Non sappiamo come fosse diffuso prima il virus, quello che sappiamo è che sovrapponendo queste due mappe, la coincidenza è abbastanza inquietante. Ancora di più se vediamo, se sovrapponiamo le due mappe nella data del 31 di marzo, dove il virus si è diffuso ancora di più e dove la coincidenza è ancora più ampia. Non sappiamo ovviamente valutare quanto questo sia effettivamente dovuto alla presenza della partita. Certo è che questa coincidenza ci deve far pensare. Poi in quest’altro grafico invece vediamo l’impatto del contagio, l’impatto della partita sulla diffusione del contagio all’interno del gruppo dei tifosi dell’Atalanta. Su 100 tifosi 7 sono risultati positivi al test, sui 36mila invece tifosi bergamaschi, questo si stima, tra i 7mila e 800 e gli 8mila e 200 hanno avuto sintomi nei 15 giorni successivi al contagio. È ovvio che stiamo parlando con il senno di poi, da lì a poche ore scoppierà il caso Codogno. Ora però, una volta diffuso il virus, un certo ruolo lo hanno giocato anche l’impreparazione e la mediocrità di alcuni manager della sanità pubblica lombarda. Vi mostreremo alcune mail inedite, la cui conseguenza è stata quella di mettere con le spalle al muro alcuni medici che hanno dovuto fare delle scelte che mai avrebbero voluto fare nella loro vita.
MAURIZIO CHIESA – MEDICO CODOGNO (LO) Mi è capitato di fare turni di 12 ore per tutta la notte con persone che ti tossivano il Covid in volto con una mascherina e un camice. Non avevamo tamponi, sierologici. Ricordo un collega che ha fatto una diagnosi, risultato positivo il paziente, questo collega che chiedeva… ditemi se posso tornare a casa. A lui non è stato fatto il tampone.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Da gennaio a febbraio l’Italia non fa nessuna scorta di dispositivi di protezione per cui la disponibilità è molto scarsa. E soprattutto le poche risorse spesso non sono dove servono.
MAURIZIO CHIESA – MEDICO CODOGNO (LO) Dove erano questi materiali? Poi li abbiamo trovati, c’erano perché le disponibilità c’erano presso un altro presidio ospedaliero.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Grazie a documenti esclusivi, siamo ora in grado di dimostrare gli errori commessi da regione Lombardia nella distribuzione delle risorse. Tra il 27 e il 29 febbraio Aria Spa, l’ente regionale che acquista il materiale sanitario, distribuisce mascherine ffp2 e tute protettive alle aziende sanitarie della Regione. Questa è la lista di distribuzione di Aria, 35.700 mascherine vanno a Lecco, altre 35.700 a Como, e poi a Monza e a Varese.
EMANUELE BELLANO La zona di Como? Che tipo di diffusione aveva?
ALDO CRISTADORO – AMMINISTRATORE DELEGATO IN.TWIG Bassa.
EMANUELE BELLANO La zona di Lecco.
ALDO CRISTADORO – AMMINISTRATORE DELEGATO IN.TWIG Si, lo vediamo qui non c’era un’emergenza.
EMANUELE BELLANO L’ASST di Monza?
ALDO CRISTADORO – AMMINISTRATORE DELEGATO IN.TWIG Non era sotto pressione minimamente paragonabile alle zone di Bergamo.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO L’impatto dell’epidemia di covid in quei giorni si è già spostato in Val Seriana e sta travolgendo l’ospedale di Alzano Lombardo e di Seriate, appartenenti alla ASST Bergamo Est, alla quale vengono consegnate soltanto 17.800 mascherine ffp2, esattamente la metà di quelle inviate a zone a basso o bassissimo contagio. Stessa cosa per le tute protettive: 4 a Bergamo Est, mentre 17 a Como, a Monza, a Lecco e a Varese. L’11 marzo vengono distribuiti da Aria Spa altri dispositivi di protezione per medici e infermieri.
ALDO CRISTADORO – AMMINISTRATORE DELEGATO IN.TWIG In quel periodo la diffusione nelle aree di Bergamo era fortissima, erano zone assolutamente sotto pressione.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Alle aree di Lecco, Como, Varese, Monza, colpite debolmente dall’epidemia di covid, vengono inviati 110 camici rinforzati ciascuno. A Bergamo Est soltanto 50. Il Direttore Amministrativo della Bergamo Est quel giorno scrive ai colleghi: “Solo un commento: ci daranno lo stesso numero di camici di Valtellina, che ad oggi ha 8 positivi”. Questa distribuzione irrazionale coinvolge tutti i dispositivi e va avanti per settimane: calzari copriscarpa, soluzione idroalcolica, mascherine chirurgiche. A Bergamo, in quel periodo, il risultato è drammatico.
EMANUELE BELLANO C’erano a disposizione un numero sufficiente di dispositivi di protezione individuale?
INTERVISTA COPERTA No.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Il 25 febbraio Marino Signori, il responsabile della medicina del Lavoro della ASST Bergamo Est, alle 7.56 scrive alla direzione amministrativa: “Non posso fare sorveglianza sanitaria in quanto sprovvisto di tamponi”. Cinque ore dopo scrive di nuovo: “Ho un elenco di 31 contatti a cui non posso fare sorveglianza “Confido di ricevere al più presto un numero di tamponi adeguato”. Passano 3 ore e invia un’altra mail: “Vi informo che per domani non ho tamponi a disposizione per la sorveglianza sanitaria dei dipendenti”.
ANGELO MACCHIA – NURSING UP Andavano fatte a tappeto al personale i tamponi.
EMANUELE BELLANO Questa situazione ha creato una diffusione della malattia nel personale e anche dei morti.
ANGELO MACCHIA – NURSING UP Sicuramente, certo, ci sono stati anche dei morti.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Sono i 30 medici deceduti in provincia di Bergamo, tra loro anche Marino Signori. Esattamente in quei giorni Aria Spa distribuisce 240.000 tamponi alle Ats della Regione. Alla Asst Bergamo Est ne invia 5.000, la metà di quelli che vanno a Lecco, Como, Monza, Varese, aree a basso e bassissimo contagio.
EMANUELE BELLANO Eravate sottoposti a tampone, nel caso di una possibile esposizione?
INTERVISTA COPERTA No.
EMANUELE BELLANO Ma perché? Perché non c’erano o perché non era previsto?
INTERVISTA COPERTA All’inizio non c’erano i tamponi.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO In piena emergenza il direttore generale della Asst Bergamo est Francesco Locati lancia l’allarme all’assessorato di Giulio Gallera:
FRANCESCO LOCATI RICOSTRUZIONE MAIL “Questa azienda si trova al centro del focolaio tra i comuni di Alzano Lombardo e Nembro. I quantitativi di cui necessitiamo sono esattamente invertiti rispetto a quelli assegnati ad altre aziende meno colpite dall’infezione. Se non cambierà tempestivamente la lista di distribuzione, riconoscendo il vero, reale fabbisogno di questa Asst per garantire continuità di cura, non oso pensare ai profili di responsabilità nei confronti dell’epidemia in corso”.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO In quei giorni direttore generale della sanità e capo dell’Unità di crisi della regione Lombardia, che distribuiva dispositivi di protezione, era Luigi Cajazzo.
EMANUELE BELLANO Dottor Cajazzo, posso chiederle una cosa? Sono un giornalista di Report, Rai3. Mi sto occupando della vicenda delle liste di distribuzione dei dispositivi personali. Tra febbraio e marzo. Volevo chiederle con che criterio avete fatto queste liste di distribuzione dell’Unità di Crisi regionale.
LUIGI CAJAZZO – DIRETTORE SANITÀ REGIONE LOMBARDIA Guardi, non rilascio nessuna intervista in questo momento.
EMANUELE BELLANO Però è importante questa cosa.
LUIGI CAJAZZO – DIRETTORE SANITÀ REGIONE LOMBARDIA Lo so. Però non ritengo…
EMANUELE BELLANO Riguarda la distribuzione dei dispositivi che potevano salvare la vita delle persone.
LUIGI CAJAZZO – DIRETTORE SANITÀ REGIONE LOMBARDIA Grazie. Sono stati distribuiti secondo criteri assolutamente corretti??. Grazie…
EMANUELE BELLANO Posso farle vedere la lista che abbiamo?
LUIGI CAJAZZO – DIRETTORE SANITÀ REGIONE LOMBARDIA No, no grazie perché ho una riunione in corso sopra. Grazie. Buongiorno.
LIDIA POLI L’incubo inizia il 28 febbraio con febbre alta, tosse. Aveva un respiro un po’ affannoso. La porto io all’ospedale di Piario, le fanno le lastre e il risultato è polmonite bilaterale.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Quel giorno il pronto soccorso di Piario è così. Ovunque pazienti con Covid attaccati all’ossigeno. Per la madre di questa signora non c’è posto.
LIDIA POLI Mentre che sono lì entra un’altra dottoressa e dice “guardi, è fortunata abbiamo trovato un posto all’ospedale di Alzano.
EMANUELE BELLANO Sua madre in che condizioni arriva poi all’ospedale?
LIDIA POLI Allora, ha bisogno dell’ossigeno perché la saturazione era comunque bassa.
EMANUELE BELLANO Le mettono il casco CPAP?
LIDIA POLI Eh magari, no. Alla domenica alle cinque e mezzo dalla cartella clinica, nero su bianco c’è scritto che la mamma necessitava CPAP, ma il CPAP non era reperibile e alle 11.43 c’è scritto paziente in crisi respiratoria. E niente e poi il decesso. Il CPAP per lei non c’è stato. Gli è stata tolta una possibilità, mia mamma aveva 67 anni.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO I caschi Cpap aiutano a respirare coloro che non riescono a inalare sufficiente aria nei polmoni. Erano centinaia in quelle settimane ad Alzano Lombardo e negli altri ospedali di Bergamo.
WALTER BASSO RICCI Mio padre, arrivato in ospedale con un’ossigenazione al 76 percento, era arrivato al 96 percento, per cui è molto importante.
EMANUELE BELLANO Con il casco?
WALTER BASSO RICCI Con il casco. Ricevere una chiamata due giorni dopo dicendomi non c’è più niente da fare suo papà sta morendo, è stata una mazzata.
EMANUELE BELLANO E quindi è andato dai medici?
WALTER BASSO RICCI Che mi hanno detto che praticamente lui aveva voluto togliere il casco per donarlo a persone che probabilmente avrebbero avuto più bisogno di lui e che ce l’avrebbero fatta.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO C’è una testimonianza di cui siamo venuti in possesso che spiega perché i caschi Cpap, in quei giorni, ad Alzano Lombardo non ci sono.
INTERVISTA COPERTA Il 14 marzo la Asst Bergamo Est fa richiesta di caschi Cpap per i gli ospedali di Alzano Lombardo, Seriate e di Piario. Due giorni dopo, il 16 marzo, i caschi non arrivano. Allora chiamiamo la Dimar di Modena, la società che produce i caschi Cpap. La risposta della Dimar è che i caschi non sono nell’ordine che ha ricevuto. Dopo aver parlato con Dimar e aver capito che il nostro ordine non c’era, chiediamo spiegazioni ad Aria e veniamo a sapere qual è il problema: l’Unità di crisi aveva dimenticato di inviare l’ordine dei nostri caschi alla Dimar.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO In quei giorni avere caschi Cpap era un’assoluta priorità ed era impossibile reperirli altrove sul mercato. Per questo la direzione acquisti della ASST Bergamo Est pressa insistentemente Aria con delle mail per avere notizie riguardo al proprio ordine di caschi Cpap. A occuparsi degli ordini dovrebbe essere l’Unità di Crisi. Responsabile del coordinamento operativo è Marco Salmoiraghi, vice di Luigi Cajazzo. Lo incontriamo mentre è impegnato a spazzare le foglie cadute nel suo giardino.
EMANUELE BELLANO Dottor Salmoiraghi? Buongiorno. Salve. Permette una parola?
MARCO SALMOIRAGHI – VICEDIRETTORE GENERALE SANITÀ REGIONE LOMBARDIA … EMANUELE BELLANO Sono un giornalista di Report, Rai3. Emanuele Bellano. Sto facendo un servizio sulla gestione dell’emergenza da parte di…
MARCO SALMOIRAGHI – VICEDIRETTORE GENERALE SANITÀ REGIONE LOMBARDIA Ha già parlato con Cajazzo.
EMANUELE BELLANO Dell’Unità di Crisi… esatto. Volevo parlare con…
MARCO SALMOIRAGHI – VICEDIRETTORE GENERALE SANITÀ REGIONE LOMBARDIA Lei mandi pure le domande che le rispondiamo. Il dottor Cajazzo sta preparando le risposte.
EMANUELE BELLANO Io volevo… esatto. Ha letto più o meno quali sono le domande che ho inviato?
MARCO SALMOIRAGHI – VICEDIRETTORE GENERALE SANITÀ REGIONE LOMBARDIA So che le stavate mandando.
EMANUELE BELLANO Volevo sapere su come sono state organizzate e gestite le liste di distribuzione del periodo tra febbraio e marzo.
MARCO SALMOIRAGHI – VICEDIRETTORE GENERALE SANITÀ REGIONE LOMBARDIA Le sta mandando le risposte.
EMANUELE BELLANO Ma le avete stilate voi all’epoca?
MARCO SALMOIRAGHI – VICEDIRETTORE GENERALE SANITÀ REGIONE LOMBARDIA Le sta mandando le risposte. Questo è quello che le posso dire.
EMANUELE BELLANO Le posso far vedere alcune di queste liste?
MARCO SALMOIRAGHI – VICEDIRETTORE GENERALE SANITÀ REGIONE LOMBARDIA Lei mandi le domande che avrà risposte.
EMANUELE BELLANO Come? C’è una fornitura che riguarda i caschi Cpap per la Asst di Bergamo Est che stanno a noi a quanto risulta è stata dimenticata.
MARCO SALMOIRAGHI – VICEDIRETTORE GENERALE SANITÀ REGIONE LOMBARDIA Voi mandate le domande che le mandiamo tutte le risposte che volete. Tutte.
EMANUELE BELLANO Per iscritto? Non mi vuole… non mi vuole… insomma non vuole parlarne con me di persona.
MARCO SALMOIRAGHI – VICEDIRETTORE GENERALE SANITÀ REGIONE LOMBARDIA Vi mandiamo tutte le risposte che volete.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO La risposta dell'allora capo dell'Unità di Crisi della regione Lombardia, Luigi Cajazzo, arriva in una mail. Sulla distribuzione dei dispositivi di protezione individuale non smentisce le liste di distribuzione da noi rese pubbliche, ma precisa che tali liste “sono state sempre redatte sulla base di criteri oggettivi”. “Soprattutto e naturalmente” scrive, “si è cercato di soddisfare, giorno per giorno, le richieste di forniture, provenienti dalle zone maggiormente colpite dall'epidemia”. “Contemporaneamente all'approvvigionamento regionale – aggiunge Cajazzo - era attivo quello nazionale che incontrava le medesime difficoltà. Ciò determinava una continua richiesta di aiuto da parte della quasi totalità delle Aziende Sanitarie: sempre è stato compiuto ogni sforzo per soddisfare le richieste nel più breve tempo possibile, talvolta anche ricorrendo ad una ripartizione delle piccole scorte residue tra le stesse Aziende”. Riguardo l'ordine di caschi Cpap per la Asst Bergamo Est Cajazzo non smentisce che sia stato dimenticato, ma afferma che “una mancata consegna giornaliera di materiale non può certamente dare il quadro complessivo di quanto sia stato fatto nel periodo dell'emergenza.”
EMANUELE BELLANO Quando chi come voi, leggono delle comunicazioni di questo tipo cosa pensa?
CONSULEO LOCATI - COMITATO NOI DENUNCEREMO È una mail gravissima. Con quella mail si dichiara che ci si è dimenticati di fare un ordine per un elemento indispensabile per salvare la vita umana. Ci sono persone che hanno visto morire i propri cari perché non avevano a disposizione caschi Cpap. Perché i medici erano nelle condizioni di dover scegliere tra una persona da far vivere e una persona da far morire. Mio padre è uno di quelli.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO In sintesi cosa hanno fatto questi manager della sanità pubblica lombarda? Hanno continuato a distribuire dispositivi di protezione personale ai medici, là dove ce n’erano di più, come consuetudine, non dove era scoppiata l’emergenza. Funziona un po’ così la burocrazia, un po’ come i muli no, se devi fargli cambiare strada, hanno qualche ritrosia. Poi si sono dimenticati di ordinare i caschi per l’ossigeno. Il 14 marzo il dirigente, il manager dell’azienda ospedaliera Bergamo Est chiama l’Unità di Crisi nella regione Lombardia. Gli dice, gli scrive che ha bisogno dei caschi per l’ossigeno. Ecco, dopo due giorni vede che questi caschi non arrivano, allora che fa? Chiama l’azienda modenese che li produce, la Dimar. La quale allarga le braccia e dice, guarda mi dispiace, ma a noi non è arrivato nessun ordine. Allora chiama Aria, scrive ad Aria, la centrale acquisti della regione Lombardia e gli manifesta la sua difficoltà. Aria scrive a sua volta alla responsabile della farmacia dell’Unità di Crisi della regione Lombardia, insomma la signora, la dottoressa Di Benedetto, alla fine del giro di giostra, emerge che probabilmente qualcuno si è dimenticato di ordinare i caschi per l’ossigeno. Ora noi non sappiamo se questi caschi, se ordinati, avrebbero salvato la vita a qualcuno, quello che sappiamo di certo è che i medici erano in quel momento con le spalle al muro. Dovevano decidere chi abbandonare al proprio destino e chi curare. Che fine hanno fatto insomma i nostri responsabili della sanità, quelli di cui abbiamo parlato? Cajazzo, dal curriculum ex poliziotto, è stato rimosso dal vertice dell’Unità di Crisi della regione Lombardia, ma è stato promosso a vice segretario generale della Regione con delega alla riforma della Sanità. Ma è anche indagato a Bergamo perché è stato lui a dare l’ordine a riaprire l’ospedale, il pronto soccorso di Alzano dopo che il virus si era diffuso tra gli operatori. Poi c’è Salmoiraghi, anche lui indagato, e la Di Benedetto che al momento non ci risulta indagata che è responsabile della farmacia, quella che avrebbe dovuto in teoria fare l’ordine dei caschi per l’ossigeno. Ecco, era stata chiamata da Salmoiraghi perché lavoravano nello stesso ospedale. Allora, noi gli abbiamo chiesto spiegazioni sul contenuto di queste mail, hanno preferito trincerarsi dietro il silenzio, forse perché pensano che faccia meno rumore.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Mentre in Italia si tiene d’occhio la Cina, il virus da tempo è già sbarcato in Europa. In Germania non stanno a guardare.
GUNTER FRÖSCHL – MALATTIE INFETTIVE LMU MONACO DI BAVIERA Il primo caso in tutta la Germania è stato da noi come paziente, un impiegato dell’azienda Webasto.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO La Webasto è una società che produce componenti per automobili alle porte di Monaco di Baviera. Il 27 gennaio, un suo dipendente contatta il centro per le malattie infettive tropicali. Ha avuto sintomi non gravi, ma è stato in contatto con una manager cinese risultata positiva in Cina, al Coronavirus.
GUNTER FRÖSCHL – MALATTIE INFETTIVE LMU MONACO DI BAVIERA Noi abbiamo fatto i tamponi il 27 gennaio e è rimasto positivo lui. Era il primo caso.
EMANUELE BELLANO Complessivamente, quale era il numero delle persone che insomma sono state coinvolte si è scoperto poi nella diffusione di questo focolaio?
GUNTER FRÖSCHL – MALATTIE INFETTIVE LMU MONACO DI BAVIERA L’azienda… ci lavorano tante persone. Più di mille impiegati. Le autorità hanno eseguito un tampone a tutti.
EMANUELE BELLANO Sono stati testati anche i familiari dei dipendenti?
GUNTER FRÖSCHL – MALATTIE INFETTIVE LMU MONACO DI BAVIERA Una quantità, sì importante.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO In Germania l’epidemia di Covid ha coinvolto finora 580mila casi accertati. INFERMIERA Pronto? Sì, può venire avanti il prossimo paziente, grazie.
OLIVER ABBUSHI – MEDICO DI FAMIGLIA MONACO DI BAVIERA Uno alla volta passano da dietro per fare il test.
EMANUELE BELLANO Quindi non c’è contatto tra i pazienti che devono essere testati e tutti gli altri pazienti.
OLIVER ABBUSHI – MEDICO DI FAMIGLIA MONACO DI BAVIERA Nessun contatto.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Questo studio medico di famiglia in Baviera è uno dei tanti in Germania abilitati per effettuare tamponi molecolari sulla popolazione.
OLIVER ABBUSHI – MEDICO DI FAMIGLIA MONACO DI BAVIERA I pazienti si prenotano online. Mandano una mail e ricevono come risposta una comunicazione con il giorno e l’ora del tampone.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO La Baviera è una delle regioni della Germania più colpita dai contagi. Il governo locale ha deciso di garantire tamponi per tutta la popolazione che ne fa richiesta.
OLIVER ABBUSHI – MEDICO DI FAMIGLIA MONACO DI BAVIERA Al momento tutti i tamponi sono gratis, lo Stato copre del tutto la spesa.
EMANUELE BELLANO Ci sono limiti?
OLIVER ABBUSHI - MEDICO DI FAMIGLIA MONACO DI BAVIERA Durante la prima ondata di Covid, in marzo e aprile, l’80 per cento dei positivi al coronavirus sono stati individuati negli studi dei medici di famiglia.
EMANUELE BELLANO Qual è stata la strategia che vi ha permesso di controllare l’ondata?
THOMAS BENZING - MEDICINA INTERNA MOLECOLARE UNIVERSITÀ DI COLONIA Devi testare in anticipo. Quelli che testi oggi tra un paio di giorni potrebbero essere ricoverati e occupare le terapie intensive.
EMANUELE BELLANO Quanti tamponi in Germania sono stati fatti nella prima fase dell’epidemia?
KLAUS REINHARDT – PRESIDENTE ORDINE DEI MEDICI TEDESCO Nella prima fase abbiamo avuto sui 400, 500mila tamponi alla settimana e alla fine siamo arrivati a un milione alla settimana.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO In Italia nel primo mese di pandemia abbiamo fatto in tutto 230mila tamponi, tanti quanti la Germania ne faceva in soli tre giorni. Alla fine della prima ondata la Germania conta 9.400 morti, l’Italia 36.000, più del triplo. Numeri talmente difficili da spiegare che sulla stampa si rincorrevano le ipotesi di dati tedeschi falsati.
EMANUELE BELLANO Qual è il modo in cui contate i morti di covid in Germania?
CHRISTIAN KARAGIANNIDIS – PRESIDENTE DIVI – ASSOCIAZIONE MEDICINA INTENSIVA Facciamo un tampone molecolare a tutti i pazienti che entrano in ospedale. Quelli che muoiono e risultano positivi vengono conteggiati come morti di covid. EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO L’Istituto di Statistica tedesco, il corrispettivo del nostro Istat, quest’estate ha fatto uno studio per valutare l’attendibilità dei dati ufficiali sui decessi covid.
EMANUELE BELLANO Il numero ufficiale di morti per covid è corretto?
FELIX ZUR NIEDEN – DESTATIS UFFICIO FEDERALE STATISTICA GERMANIA In linea di massima, sì. Abbiamo comparato il numero dei morti di quest’anno con quello degli anni passati. Osservando i dati si nota che il numero ufficiale dei decessi per coronavirus coincide con l’eccesso di mortalità. Questo significa che i decessi sfuggiti al conteggio in Germania sono un numero molto basso.
CHRISTIAN KARAGIANNIDIS – PRESIDENTE DIVI – ASSOCIAZIONE MEDICINA INTENSIVA Questa è una mappa che mette a confronto il numero di posti letto in terapia intensiva nei paesi d’Europa. Quanto più le aree sono verdi tanto più c’è disponibilità. La Germania è completamente verde perché è il paese con il maggior numero di posti in terapia intensiva per abitanti in Europa.
EMANUELE BELLANO Quanti posti c’erano in Germania quando è iniziata la pandemia?
CHRISTIAN KARAGIANNIDIS – PRESIDENTE DIVI – ASSOCIAZIONE MEDICINA INTENSIVA All’inizio di marzo ne avevamo circa 28mila. Volendo eravamo in grado di aumentare in una settimana il numero di terapie intensive fino a 40mila posti.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO In Italia al momento in cui esplode l’epidemia le terapie intensive sono circa 5mila. La Germania pur avendo solo un terzo della popolazione in più dell’Italia ha sei volte in più posti in terapia intensiva.
CHRISTIAN KARAGIANNIDIS – PRESIDENTE DIVI – ASSOCIAZIONE MEDICINA INTENSIVA Se si guarda la mappa si nota che per esempio nel nord Italia ci sono zone con una bassa disponibilità di terapie intensive.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Questo grafico mostra i dati della Lombardia. I ricoveri in casa, in ospedale e in terapia intensiva aumentano di pari passo dall’inizio della pandemia fino a fine marzo. A questo punto, i posti occupati in terapia intensiva si fermano a 1.300 e i ricoveri a 12 mila, aumenta solo il numero di malati tenuti a casa, segno che gli ospedali erano ormai saturi.
CHRISTIAN KARAGIANNIDIS – PRESIDENTE DIVI – ASSOCIAZIONE MEDICINA INTENSIVA Noi siamo arrivati ad avere anche dieci, quindicimila posti occupati in terapia intensiva ma ne avevamo sempre 10 mila liberi. Voi avete dovuto scegliere chi curare in terapia intensiva e chi no. E questa, secondo me, è una delle ragioni per cui il tasso di mortalità in Germania è più basso che in Italia.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Non sono stati costretti a scegliere perché loro hanno un piano contro le pandemie aggiornato al 2017, noi il nostro copia incolla del 2006. Poi hanno investito l’11 per cento del pil sulla sanità, noi a malapena il 6%. Hanno rafforzato la medicina territoriale, noi l’abbiamo sgretolata. Non hanno soprattutto tagliato decine di migliaia di medici, di infermieri, di posti letto. Ecco è per questo, noi per recuperare, siamo lasciando nei nostri ospedali pazienti a terra e stiamo riempendo le chiese di posti letto.
CONTE AD AGOSTO È SPARITO: FINO AL 22 AGOSTO DI CONTE NON C'È QUASI TRACCIA, SE SI ESCLUDE UN'INTERVISTA SULLE ELEZIONI REGIONALI. Estratto del ''longread'' di ''Repubblica'' il 9 novembre 2020 sulla gestione del coronavirus da parte del governo Conte, coordinato da Carlo Bonini. In agosto, per settimane, i vertici del Pd e dei Cinquestelle sembrano come in balia degli eventi, imbambolati dal relax che accarezza il Paese, regalando settimane di respiro dopo l'incubo di marzo. Anche il premier rallenta, fin quasi a fermarsi. "Conte è stanco", "Conte risponde poco al telefono", "servirebbe fare il punto con Conte". Ma anche i ministri dem e M5s, anche i governatori non sembrano esattamente sul pezzo. Come se il peggio fosse ormai alle spalle. Il magazine "Diva e Donna" pubblica le foto del presidente del Consiglio durante un breve soggiorno con la compagna Olivia Palladino presso l'Hotel Punta Rossa di San Felice Circeo. Domenica nove agosto, venti giorni dopo la maratona di Bruxelles, negli Stati Uniti l'epidemia galoppa. Il segnale che la Bestia tornerà. In Francia e Spagna, si registrano focolai sempre più larghi. L'Italia invece festeggia. Il Pil corre. Tutti al mare, mentre Roberto Gualtieri sogna un grande terzo trimestre, che in effetti ci sarà. Sarebbe bene attrezzarsi per fronteggiare la seconda ondata. Ma il governo sembra timido - i governatori addirittura infastiditi dai freni - come se il peggio fosse passato. Conte scompare dalla scena pubblica. Viene avvistato in Puglia, Ceglie Messapica, in un ristorante celebre, una stella e l'ambizione di conquistare la seconda. Sarebbe chiuso, ma per il Presidente riapre. Il menù è ricco: dall'aperitivo di polpettine di carne fritte alle orecchiette di semola integrale e grano arso, fino al doppio dessert, biscotto di Ceglie cotto con la ricetta di nonna Dora e un altro dolce dal nome allegro: "Che fico''. Nessuno immortala la visita: la richiesta dello staff è di evitare i telefonini. Soltanto una foto ufficiale a disposizione dei presenti lascerà traccia dell'evento. Fino al 22 agosto di Conte non c'è quasi traccia, se si esclude un'intervista sulle elezioni regionali. Ed è solo il 30 quando, a fine mese, gli sbarchi di migranti crescono di intensità e Luciana Lamorgese e Luigi Di Maio volano in Tunisia, che il premier si lascia convincere ad affrontare una videoconferenza in cui decidere il da farsi. Settembre, se lo portano via le elezioni regionali. La Sardegna contagiata da un focolaio che si allunga con i rientri dalle vacanze su Roma e Milano viene degradata a faccenda regionale. La convinzione radicata è, Dio solo sa perché, che all'Italia sarà dato un tempo per prepararsi che il virus, in Europa, non ha dato a nessuno. Finché, il 15 ottobre, Dario Franceschini manda un sms a Conte. Gli chiede un vertice urgente. Bisogna fare qualcosa per fronteggiare l'onda montante del virus. Il presidente del Consiglio è a Bruxelles per il Consiglio europeo, prende tempo. Franceschini, siamo al giorno 16, esce allo scoperto pubblicamente: "Ho chiesto ieri al premier un vertice appena farà ritorno in Italia". Conte decide di volare prima in Calabria, per i funerali della governatrice Jole Santelli. Poi di confermare la presenza al Festival di Limes di Genova, alle 20 di venerdì sera. Discute di politica estera e scenari geopolitici globali. A Roma lo attende il resto del governo. Ecco un altro problema: le riunioni notturne. È un metodo, quello di fare tardi. Conte pare l'abbia appreso dalla Cancelliera tedesca, che glie ne ha illustrato i vantaggi. La notte aiuta a piegare le resistenze politiche e ad appianare i conflitti. Solo che decidere in piena notte non è sempre una buona idea. Trasmette l'angoscia dell'emergenza. Toglie lucidità. Se ne lamentano alcuni ministri. Diventa slogan con cui l'opposizione attacca Palazzo Chigi. (…)
Vittorio Feltri e il coronavirus: "Il paziente zero, le bare, il lockdown. Cosa dobbiamo sempre tenere a mente". Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 31 agosto 2020. Ho già sottolineato di recente come uno dei pericoli maggiori per l'umanità sia l'incapacità della nostra specie di ricordare i fatti e mettere a frutto i ricordi, in modo da evitare di ripetere sempre gli stessi errori: un pregio della carta stampata, che il web non possiede, è che un libro è "fisicamente presente", per cui quando si trova su un tavolo è come se lui cercasse noi, mentre online possiamo certamente ottenere in tempi brevissimi una travolgente messe di informazioni disponibili (anche troppe e non tutte vere), ma ogni volta siamo noi a dover cercare qualcosa. Il più delle volte la quantità di risultati è tale da risultare difficile da maneggiare e quando spegniamo i computer, tutto ci sparisce da davanti. Per questo motivo la carta per certi versi è più utile alla memoria di quanto lo sia il digitale: una volta scelto un libro (che per fortuna ha un numero ben delimitato di pagine), quello resta lì. Nicola Apollonio è un giornalista di lungo corso, collabora da sempre con Libero e da una vita ha le mani nella cronaca e nella vita degli italiani, ne ha ricavato 14 libri, e per i motivi che ho testé elencato ho apprezzato particolarmente il nuovo volume pubblicato un paio di mesi fa, Era il tempo della pandemia (Edizioni EspressoSud, 156 pagine, 10 euro). Abbandonando il suo abituale terreno di caccia, il Salento, Apollonio, che deve avere sangue greco nelle vene, ha fatto una cosa che era abitudine nell'antichità e che oggi invece è caduta in colpevole disuso. Una cronaca, in ordine cronologico e tematico, dei fatti, dei problemi, delle discussioni e delle reazioni nei mesi più duri della pandemia di coronavirus. Ha usato come fonti tutto quello che è stato pubblicato giorno dopo giorno, senza mai prendere posizioni ideologiche quando il dibattito si è fatto confuso e tantomeno quando la lotta politica ha preso il sopravvento su quella sanitaria. Chi si ricorda di Erodoto, Tucidide, Polibio? Erano storiografi. Sono giunti fino a noi perché non si sono persi in chiacchiere vane ma, pure con una varietà di stili e intenti, hanno permesso che arrivasse fino a oggi una grande parte della storia dell'Occidente e anche di più, delle sue origini e delle radici, che ci hanno portato a essere quel che siamo oggi, consentendoci di impazzire meno a ricostruirla e a comprenderla. Per questo ho dato del "greco" ad Apollonio. Se sfogliate i giornali e ascoltate i notiziari di questi giorni, avrete chiaro che la lotta politica, l'opinionismo, la tracotanza degli stessi esperti che accavallano teorie e scoperte che il più delle volte scoperte non sono, tendono a seppellire il fluire della realtà, o meglio, accatastarlo in un angolo: quando ne serve un pezzetto per farne un'arma, lo si va a prendere separandolo dal contesto e lo si piega a piacimento. Chi ormai ha la creanza, o la cultura, o l'intelligenza, di considerare che senza il contesto in cui è capitato nessun fatto è vero? È un concetto non abbastanza immediato e soprattutto non è funzionale.
Volume primo - Ecco, i giornalisti come Apollonio e il suo libro sono una piccola (non tanto piccola) cura, purtroppo isolata, a questo malanno. Una cura antica, erodotea, polibiana. Senza dirlo, ci richiama alla calma, all'attenzione, alla prudenza. Per questo è un volume prezioso, anche se il suo resoconto si ferma a inizio maggio, ma io spero sia un "volume 1". Quando l'ho sfogliato, anche a me, che mastico cronaca da sessant' anni, è venuto da far pausa, sedermi e ricordare. Pensate al "paziente 1", quello di Codogno, che non era "uno", il "paziente 0", quello cinese, che non era "zero", tanto che ancora oggi non sappiamo niente di stabile sull'origine del virus: i pipistrelli, i serpenti, gli scimpanzè macellati a Wuhan, il salto dall'animale all'uomo, l'ipotesi della fuga da un laboratorio biochimico militare che sta proprio là, Apollonio ricostruisce tutte le ipotesi e mette loro ordine, ce le restituisce a futura memoria. Il lockdown è stato l'altroieri, un evento traumatico senza precedenti, ma a distanza di due mesi la gente si è riversata nei luoghi di villeggiatura, si è ammassata nelle discoteche, ha affollato i locali e cerca di scrollarsi la responsabilità dalle spalle come un cavallo fa con un ospite sgradito: pare si sia del tutto dimenticata, o che abbia voluto dimenticare che il nemico invisibile è ancora e rimarrà a lungo un nemico alla porta. D'altra parte è un istinto umano cercare di fermare il tempo, rincorrere il passato, calarsi nei panni più confortevoli dell'illusione e dell'amnesia. Apollonio fa il contrario: racconta e spiega, con un linguaggio lineare da cronista, ogni passo dagli antefatti alla chiusura totale e poi alla Fase 3, ogni numero (qualcuno li ricorda? erano spaventosi) di questa tragedia collettiva, i camion di bare, ospedali e cimiteri senza tregua e senza spazio, i miliardi di investimenti promessi ma che non c'erano, la semiparalisi dell'Unione Europea, le ambiguità quando all'emergenza sanitaria ha cominciato ad affiancarsi e infine contrapporsi quella economica. Con date, resoconti, citazioni, contraddizioni che solo in una summa scritta con il distacco di un osservatore posso-no avere evidenza. Il libro riporta anche l'andamento delle politiche internazionali, le posizioni della Chiesa, il dissennato conflitto fra il governo romano e quelli regionali, il dito infisso sulla Lombardia. «Le polemiche sono il sale della vita», scrive Apollonio facendo cenno a un editoriale del tempo, era mio ma poteva, anzi avrebbe dovuto essere di tutti noi giornalisti, «ma quando sono inutili, basate sull'incompetenza, servono solo ad aumentare la confusione». Teniamolo a mente. Apollonio ha costruito un'opera che non ha il vezzo di scalare le classifiche ma l'aspirazione di occupare le nostre case, cosicché rileggendolo potremo far salde opinioni veramente nostre, fondate sui fatti e sui dubbi, e non del primo che capita, anzi dell'ultimo che ha parlato e si è fatto sentire solo perché aveva più decibel.
Coronavirus, la Camera approva giornata in memoria delle vittime. Pubblicato giovedì, 23 luglio 2020 su La Repubblica.it da Monica Rubino. Via libera dell'Aula della Camera pressoché all'unanimità alla istituzione della Giornata nazionale in memoria delle vittime dell'epidemia di Coronavirus. Il testo, approvato a Montecitorio con 418 voti a favore, nessun contrario e tre astensioni (la no-vax ed ex M5s Sara Cunial, Renzo Tondo ed Eugenio Sangregorio, tutti e tre del Gruppo Misto), passa al Senato. Il testo approvato a Montecitorio prevede che la Repubblica riconosca il 18 marzo di ciascun anno come "Giornata nazionale in memoria di tutte le vittime dell'epidemia da coronavirus", al fine di conservare e di rinnovare la memoria di tutte le persone che sono decedute a causa di tale epidemia. In quella giornata in tutti i luoghi pubblici e privati dovrà essere osservato un minuto di silenzio dedicato alle vittime dell'epidemia. La data del 18 marzo è stata scelta poiché fu la giornata in cui si registrò il maggior numero di decessi su scala nazionale. Lo Stato, le regioni, le province ed i comuni potranno promuovere, anche in coordinamento con le associazioni interessate, iniziative specifiche, manifestazioni pubbliche, cerimonie, incontri e momenti comuni di ricordo, favorendo in particolare le attività e le iniziative rivolte alle giovani generazioni. Lo stesso potranno fare le scuole. In quella giornata, infine, la Rai avrà il compito di assicurare adeguati spazi a temi connessi alla Giornata nazionale, nell'ambito della programmazione televisiva pubblica nazionale e regionale. In aula è stato molto toccante l'intervento del deputato del Pd Maurizio Martina, relatore del provvedimento, nell'annunciare il voto favorevole del suo partito: "In quest'aula non sempre abbiamo respirato la giusta consapevolezza del momento che stiamo attraversando. Purtroppo devo constatare che trovo molta più solennità fuori che dentro quest'aula. E non lo dico per polemica, ma perché mi piange il cuore. Non voglio lasciare ai miei figli un Paese dove si immagina che il Parlamento sia un luogo quando va bene vuoto, quando va male inutile. Mentre l'augurio è che questo luogo sia ogni giorno all'altezza del nostro Paese". Anche il ministro della Salute Roberto Speranza esprime la sua soddisfazione per l'ok di Montecitorio alla legge. E scrive su Facebook: "Il 18 Marzo sarà la Giornata nazionale in memoria delle vittime del Covid. Sarà un giorno importante per non dimenticare questa stagione così drammatica e per ricordare tutte le persone che non sono più con noi".
Libri sul Covid? Vietamoli finchè non sarà storia. Gioacchino Criaco su Il Riformista il 16 Luglio 2020. Non ci ritroveremo, più avanti negli anni, seduti da soli dentro un cinema a commuoverci guardando una catena infinita di baci, spezzata a suo tempo da un perfido don Adelfio. Non saremo il piccolo Totò cresciuto di Nuovo Cinema Paradiso che come eredità preziosa riceve i baci proibiti da Alfredo: sequenze mozzafiato che riescono a trasmettere il trasporto di amanti passati. Il morbo che ci è caduto addosso è stato molto più crudele della censura ingenua di un parroco da oratorio. Non abbiamo dato e ricevuto baci, chi è nato non ha potuto sentire l’odore dei suoi parenti più prossimi e chi è morto non si è consolato con le lacrime di chi gli ha voluto bene. Quanti amori non sono nati, quanti sono finiti prematuramente, quanti non sapranno mai di aver perso incontri fondamentali, amicizie che avrebbero segnato l’esistenza? E quanti hanno schivato mani offensive, appuntamenti mortali? Chi non c’è stato compagno di banco, non ha viaggiato con noi sullo stesso treno, nella stessa fila del nostro volo? Il lavoro che abbiamo perso, quello che non abbiamo fatto in tempo a trovare? Il resoconto delle cose perse è quello che a ogni alba si fa un carcerato, coincide in tante cose con quello fatto dai liberi nei mesi della pandemia, solo che in genere l’elenco è più lungo, doloroso. È frustrante, sia quando si ritiene di avere responsabilità e forse di più se si è innocenti. Il resoconto delle cose perse è un diario in cui registriamo la perdita di un pezzo della nostra umanità. E tutti lo incontreremo o l’abbiamo incontrato un frangente che recide, ogni epoca umana passata l’ha incontrato. Superato l’evento c’è una corsa a recuperare il recuperabile, per un’arroganza che è solo dell’uomo: non puoi riprendere l’aria che non hai respirato, non ne puoi riprendere la stessa. E sono inutili i libri sul covid19, torbidi rimestamenti dell’animo proprio con presunzione di universalità. Ogni tempo per il tempo in cui si ferma dovrebbe munirsi di una Legge che vieti i libri sul tempo tagliato, sull’evento nefasto, fino a quando quei giorni saranno storia e avrà senso scriverne con riguardo a tutti. Nell’immediato ognuno ha diritto a un suo diario esclusivo che gli racconti il tempo della cella, il periodo detenzione inflittogli senza una sentenza che lo avesse dichiarato cattivo.
I diari dalla quarantena sono un assist per il riconoscimento sociale: non chiamatela letteratura. Filippo La Porta su Il Riformista il 27 Maggio 2020. Un sito satirico di false notizie – “Lercio” – ha pubblicato una notizia cui molte persone hanno creduto, e subito me ne hanno scritto molto allarmate. Dunque tale notizia – e cioè che a breve usciranno in Italia ben 150 libri con lo stesso titolo, Diario della quarantena – è apparsa ai più del tutto verosimile. Sappiamo invece per certo che è appena uscito il libro Ai tempi del virus. Cento voci fra sentimenti e realtà, e a settembre 100+1 editori pubblicheranno un corposo volume collettaneo sul Covid-19. E sappiamo altresì che non c’è blog, sito, canale dei social, etc. che non ci offra diari e memorie della quarantena. Pestilenze e epidemie ci sono state in passato ma nessuna ha generato uno sconfinato memoir cosmico, una esorbitante pandemia diaristica come il coronavirus. Tutti che ogni giorno ci dicono la loro, che raccontano dettagliatamente la loro percezione personale – ovviamente unica, interessantissima, esclusiva – e ci invitano a condividerla. Ora, perché prendersela moralisticamente con una cosa del genere? Che la gente rifletta sulla propria esperienza, e che scambi questa riflessione con gli altri, potrebbe essere un fatto positivo, il sintomo di una società matura, autoconsapevole. Una volta Sciascia disse di diffidare di un popolo come quello italiano, poco avvezzo a tenere diari. A Pieve Santo Stefano, in Toscana, è stato creato nel 1984 da Saverio Tutino un Archivio Diaristico Nazionale che raccoglie ben 8.000 testi – diari, memorie autobiografiche ed epistolari di gente comune – e che costituisce un patrimonio prezioso. E allora? Dov’è il problema? Credo che su questa pandemia diaristica, che fa prendere per buone bufale e parodie inventate da ingegnosi buontemponi, vadano fatte due considerazioni. Anzitutto, ciò che insospettisce è la bruciante tempistica, permessa dalla Rete: una quasi simultaneità tra diario pubblico ed evento, una immediatezza mai prima sperimentata, una velocità di esecuzione che lascia senza fiato. In un articolo su “Rivista Studio” Francesco Longo fa osservare che Manzoni ha raccontato la peste seicentesca a Milano due secoli dopo, Hemingway scrive della Grande guerra dieci anni dopo, La tregua di Primo Levi e Il giardino dei Finzi-Contini di Bassani hanno visto luce circa venticinque anni dopo i tragici eventi narrati. DeLillo, King ed Ellroy rievocano l’omicidio Kennedy vari decenni più tardi, e perfino la serie Tv su Chernobyl arriva a trentatré anni di distanza dall’esplosione. A questi aggiungo solo Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi, scritto dieci anni dopo il confino e Il partigiano Johnny di Fenoglio, il più bel romanzo della Resistenza, che l’autore scrisse in modo frammentario già alla fine degli anni 40, ma che poi dovette rielaborare e risistemare, tanto che venne pubblicato postumo nel 1968. Conclude Longo: per afferrare il passato «bisogna aspettare uno sguardo in grado di cogliere l’aspetto cruciale di una vicenda». La letteratura non ha fretta, non è fatta di instant book. E l’esperienza deve essere sedimentata per tradursi in scrittura ed esprimere la propria verità. E poi: a Pieve è disponibile un archivio immenso, a disposizione di chiunque voglia approfondire la conoscenza di periodi storici, di eventi collettivi, visti per così dire dall’interno, così come sono stati vissuti dai singoli. Solo così possiamo ricostruire e ricomporre i frammenti della mentalità allora dominante, entrare nel cuore e nella mente delle persone. Un metodo conoscitivo “induttivo”, non lontano dalla scuola francese degli Annales, dalla microstoria di Carlo Ginzburg interessata al quotidiano concreto. Ma nessuno di quegli autori anonimi i cui scritti sono raccolti a Pieve aspirava alla ribalta, nessuno aveva la smania di apparire. Viviamo in un’epoca di narcisismo di massa e di ansia del riconoscimento sociale in cui nessuna opinione singola, anche sul più piccolo evento, resta privata. Tutto diventa subito pubblico: tra le Lezioni americane di Calvino avrebbero dovuto trovare posto, come pilastri del mondo contemporaneo, la Trasparenza e la Simultaneità (temi appena sfiorati nel capitolo sulla Visibilità e in quello sulla Rapidità). Personalmente sento il bisogno di raccontare la mia percezione della quarantena – pensieri (anche molto confusi, o banali) suggestioni, fantasie intime -, ma vorrei raccontarle agli amici, ai miei cari, alle persone che amo e che stimo, e non a tutti, in modo indifferenziato, solo per esserci, per dimostrare che esisto. In questo pervasivo instant diary ci vedo soprattutto una mancanza di pudore. E il pudore è quel sentimento che nasconde qualcosa, o lo lascia nell’ombra, per preservarlo. In questo modo invece portiamo tutto e subito alla luce, e così lo disperdiamo, lo vaporizziamo.
Il Guardian rivela: “La richiesta d'aiuto dell'Italia allo scoppio del coronavirus ignorata dall'Ue”. Le Iene News il 15 luglio 2020. Il quotidiano britannico The Guardian ricostruisce le primissime mosse dell’Unione europea allo scoppio del coronavirus in Italia, e ne emergono diversi fallimenti nell’affrontare la pandemia. “Nessuno stato membro dell’Unione europea ha risposto alla richiesta di aiuto dell’Italia”. Sono le parole di Janez Lenarčič, commissario europeo per la gestione della crisi, riportate dal Guardian in un’inchiesta su come è stata gestita la pandemia a livello europeo da quando tutto è iniziato. La testata britannica ha analizzato registri interni e intervistato decine di funzionari e esperti dell’Unione europea. Quello che emerge è un’Europa che ha risposto con il silenzio alla richiesta di aiuto italiana, lanciata il 26 febbraio scorso agli stati membri dell’Unione dal premier Giuseppe Conte. “Non solo l’Italia non era preparata, nessuno era preparato”, continua Lenarčič. “La mancanza di una risposta alla richiesta italiana non era tanto una mancanza di solidarietà. Era una mancanza di preparazione”. “Abbiamo convocato la prima riunione del comitato di coordinamento della crisi il 28 gennaio. La Commissione aveva preso la minaccia seriamente”, dice Janez Lenarčič. Ma l’interesse dei media, racconta il Guardian, sembrava essere da un’altra parte. E alla conferenza stampa per avvertire l’Europa che bisognava prepararsi per quello che stava arrivando, “la stanza era quasi vuota”, ricorda Lenarčič. “Speravamo che ci fosse comunque qualche eco di quello che avevamo detto sui media il giorno dopo. Ma non abbiamo trovato molto perché tutta l’attenzione dei media a Bruxelles era rivolta all’ultima sessione plenaria del parlamento europeo alla quale hanno partecipato i membri del Regno Unito”. Infatti proprio in quei giorni il Regno Unito stava per lasciare l’Unione Europea e tutta l’attenzione era rivolta alla Brexit. Nel weekend tra il 29 febbraio e il 1 marzo, riporta il Guardian, più di 2mila persone erano contagiate in Europa. In Italia 35 persone erano morte. Gli stati membri europei iniziarono ad agire in solitudine per imporre restrizioni all’esportazione di materiale sanitario essenziale. E presto i dispositivi di protezione individuale così essenziali per affrontare la pandemia erano terminati. Da tutto questo, continua Lenarčič, si è imparato qualcosa: “La logica è di dare alla commissione i mezzi per supportare di più gli stati membri. Perché quando l’Italia ha chiesto aiuto, nessuno poteva aiutarla. Io ci vedo una chiara lezione qui: la maggioranza del pubblico europeo desidera avere più Europa su problemi come questo”.
Da corriere.it il 15 luglio 2020. A fine febbraio l’Italia ha chiesto un aiuto urgente per fronteggiare la diffusione del Coronavirus ma i Paesi dell’Unione Europea hanno ignorato la richiesta mentre il virus attraversava l’Europa. A rivelarlo è un’inchiesta del quotidiano britannico The Guardian e dal Bureau of Investigative Journalism, che ha ricostruito le prime fasi di diffusione del virus in Europa e l’iniziale mancanza di coordinazione nella risposta a livello delle istituzione europee.
La ricostruzione. Il giornale britannico ricostruisce i passaggi di come l’Europa sia diventata l’epicentro della pandemia dopo la Cina e denuncia il «silenzio scioccante» con cui la Ue ha accolto la richiesta di Roma, quando il numero dei contagi in Italia triplicava ogni 48 ore. Il Guardian scrive che, il 26 febbraio, «un messaggio urgente è stato inviato da Roma alla Commissione europea al palazzo Berlaymont a Bruxelles. Le specifiche di quello di cui aveva bisogno l’Italia sono state caricate sul sistema Cecis della Ue (Common Emergency Communication and Information System)».
«Nessuno era preparato». Secondo il Commissario di Bruxelles per la gestione delle emergenze, Janez Lenarcic, all’origine del silenzio europeo davanti alle richieste del governo del primo ministro Giuseppe Conte non ci sarebbe stata «mancanza di solidarietà». Per Lenarcic, ascoltato dagli autori dell’inchiesta, il sostegno non sarebbe arrivato per «mancanza di equipaggiamento». «Non era solo l’Italia a non essere preparata - ha ribadito il commissario - nessuno lo era». Impreparazione quindi, fin dalle primissime fasi di quella che sarebbe poi stata dichiarata a marzo «pandemia» dall’Organizzazione mondiale della sanità.
L’assenza alla prima riunione. Dall’inchiesta emerge che l’Italia non prese parte a una prima riunione indetta dalla Commissione europea per la sicurezza sanitaria, il 17 gennaio, perché i funzionari preposti non si accorsero della mail di invito all’incontro. Tra i temi trattati nel corso della riunione, ci fu anche la gestione dei voli diretti da Wuhan, epicentro della pandemia, verso tre città europee: Londra, Parigi e Roma.
Covid-19 - Situazione in Italia, da salute.gov.it/portale/nuovocoronavirus. Nel nostro Paese è attiva fin dall'inizio della pandemia una rete di sorveglianza sul nuovo coronavirus. Il monitoraggio dell'epidemia dei casi di Covid-19 in Italia viene effettuato attraverso due flussi di dati giornalieri: il flusso dei dati aggregati inviati dalle Regioni coordinato da Ministero della Salute (prima con il solo supporto della Protezione Civile) e dal 25 giugno 2020 anche con il supporto di ISS, per raccogliere informazioni tempestive sul numero totale di test positivi, decessi, ricoveri in ospedale e ricoveri in terapia intensiva in ogni Provincia d’Italia. il flusso dei dati individuali inviati dalle Regioni all'Istituto Superiore di Sanità (Sorveglianza integrata Covid-19, ordinanza 640 della Protezione Civile del 27/2/2020), che comprende anche i dati demografici, le comorbidità, lo stato clinico e la sua evoluzione nel tempo, per un'analisi più accurata. Dal 25 giugno la scheda con l’aggiornamento quotidiano dei dati è stata integrata con i “casi identificati dal sospetto diagnostico” (casi positivi al tampone emersi da attività clinica) e “casi identificati da attività di screening” (indagini e test, pianificati a livello nazionale o regionale, che diagnosticano casi positivi al tampone). Tutti i dati sono consultabili anche sulla mappa interattiva (dashboard) del Dipartimento Nazionale della Protezione Civile.
N.B. La conferma che la causa del decesso sia attribuibile esclusivamente al SARS-CoV-2 verrà validata dall'Istituto Superiore di Sanità. Il numero dei positivi totali può subire variazioni in base ad eventuali ricalcoli da parte delle Regioni interessate.
Report monitoraggio fase 2. Per la gestione della Fase 2 della pandemia in Italia è stato attivato uno specifico sistema di monitoraggio (Sorveglianza settimanale Regioni), disciplinato dal decreto del ministero della Salute del 30 aprile 2020, sui dati epidemiologici e sulla capacità di risposta dei servizi sanitari regionali. Il monitoraggio è elaborato dalla cabina di regia costituita da ministero della Salute, Istituto superiore di sanità e Regioni.
Caratteristiche dei pazienti deceduti COVID-19 positivi. Ecco le principali caratteristiche dei pazienti deceduti sulla base dei dati ISS (ultimo aggiornamento 25 giugno 2020):
Età media 80 anni
Età mediana 82 anni (più alta di quasi 20 anni rispetto a quella dei pazienti che hanno contratto l’infezione e la cui età mediana è di 62 anni)
Sesso
uomini 58%
donne 42%%
Patologie pregresse al momento del ricovero
Pazienti con 0 patologie pre-esistenti 4,1%
Pazienti con 1 patologia pre-esistente 14,5%
Pazienti con 2 patologie pre-esistenti 21,3%
Pazienti con 3 o più patologie pre-esistenti 60,1%
Aree geografiche con la percentuale maggiore di deceduti
Lombardia con 49,5%
Emilia Romagna con il 12,7%
Piemonte con il 8,9%.
Veneto con il 6%
Sintomi più comunemente osservati prima del ricovero nelle persone decedute
febbre 76%
dispnea 73%
tosse 39%
diarrea 6%
emottisi 1%
I primi casi in Italia. I primi due casi di Coronavirus in Italia, una coppia di turisti cinesi, sono stati confermati il 30 gennaio dall'Istituto Lazzaro Spallanzani di Roma, dove sono stati ricoverati in isolamento dal 29 gennaio e dichiarati guariti il 26 febbraio. Il primo caso di trasmissione secondaria si è verificato a Codogno, Comune della Lombardia in provincia di Lodi, il 18 febbraio 2020.
Misure di contenimento. L'Italia ha bloccato il 30 gennaio con un'Ordinanza del ministro della Salute tutti i voli da e per la Cina per 90 giorni, oltre a quelli provenienti da Wuhan, già sospesi dalle autorità cinesi.
Il Governo italiano ha dichiarato il 31 gennaio lo Stato di emergenza, stanziato i primi fondi e nominato Commissario straordinario per l'emergenza il Capo della protezione civile Angelo Borrelli.
Con il decreto del Capo del Dipartimento della protezione civile del 5 febbraio 2020 è stato istituito un Comitato tecnico-scientifico per fronteggiare emergenza, poi ampliato con ordinanza del 18 aprile 2020.
Come previsto dal Decreto legge 18 del 2020, il Presidente del Consiglio dei Ministri con decreto del 18 marzo 2020 ha nominato Domenico Arcuri Commissario straordinario per l'attuazione e il coordinamento delle misure occorrenti per il contenimento e contrasto dell'emergenza epidemiologica Covid-19.
Il Consiglio dei ministri ha varato un primo decreto legge il 23 febbraio 2020 con misure per il divieto di accesso e allontanamento nei comuni dove erano presenti focolai e la sospensione di manifestazioni ed eventi.
Successivamente sono stati emanati i seguenti decreti attuativi: il Dpcm 25 febbraio 2020, il Dpcm 1° marzo 2020, il Dpcm 4 marzo 2020, il Dpcm 8 marzo 2020, il Dpcm 9 marzo 2020 #Iorestoacasa, il Dpcm 11 marzo 2020 che chiude le attività commerciali non di prima necessità.
Tra le misure adottate l'ordinanza 22 marzo 2020, firmata congiuntamente dal Ministro della Salute e dal Ministro dell'Interno, che vietava a tutte le persone fisiche di trasferirsi o spostarsi con mezzi di trasporto pubblici o privati un comune diverso da quello in cui si trovano, salvo che per comprovate esigenze lavorative, di assoluta urgenza ovvero per motivi di salute.
Il Governo ha poi emanato con il Dpcm 22 marzo 2020 nuove ulteriori misure in materia di contenimento e gestione dell'emergenza epidemiologica da COVID-19, applicabili sull'intero territorio nazionale. Il provvedimento prevedeva la chiusura delle attività produttive non essenziali o strategiche. Restano aperti alimentari, farmacie, negozi di generi di prima necessità e i servizi essenziali. Le stesse disposizioni si applicano, cumulativamente al Dpcm 11 marzo 2020 nonché a quelle previste dall’ordinanza del Ministro della salute del 20 marzo 2020 i cui termini di efficacia, già fissati al 25 marzo 2020, sono entrambi prorogati al 3 aprile 2020.
Con il DPCM 1 aprile 2020, tutte le misure per contrastare il diffondersi del contagio da coronavirus sono state prorogate fino al 13 aprile 2020. Il decreto entrato in vigore il 4 aprile sospende anche le sedute di allenamento degli atleti, professionisti e non professionisti, all’interno degli impianti sportivi di ogni tipo.
In seguito con il DPCM 10 aprile 2020 tutte le misure sono state prorogate fino al 3 maggio. Il Decreto ha permesso la riapertura dal 14 aprile dei negozi per neonati e bambini, librerie e cartolibrerie.
Con il DPCM 26 aprile 2020 sono specificate le misure per il contenimento dell'emergenza Covid-19 della cosiddetta "fase due” .
Le disposizioni del decreto si applicano a partire dal 4 maggio 2020 in sostituzione di quelle del DPCM 10 aprile 2020 e sono efficaci fino al 17 maggio 2020, a eccezione di quanto previsto per le attività di imprese, che si applicano dal 27 aprile 2020 cumulativamente.
Il Decreto legge 33 del 2020 disciplina la fine delle limitazioni agli spostamenti e la riapertura delle attività produttive, commerciali, sociali a partire dal 18 maggio e fino al 31 luglio.
Con il DPCM 17 maggio 2020 vengono definite le misure di prevenzione e contenimento per la convivenza con il coronavirus.
Infine, con il DPCM 11 giugno 2020 viene autorizzata la ripresa di ulteriori attività.
COVID-19 / TUTTE LE VERITA’ NASCOSTE – NOMI, SIGLE & AFFARI DEL DRAMMA 2020. La Voce delle Voci il 30 Maggio 2020. Tutto coronavirus, giorno per giorno, dramma per dramma. Le cifre sballate della pandemia, i clamorosi errori di tanti, troppi scienziati. Le sceneggiate tivvù. I tanti affari che già si intrecciano intorno a cure, terapie & vaccini. Nomi, cognomi, sigle, protagonisti di una storia che in 100 giorni sta cambiando il volto dell’Italia piegata non solo da Covid-19 ma anche da politica, burocrazia e scienza che del tutto incapaci e non all’altezza di una situazione del genere: tra norme, codici, protocolli spesso e volentieri ai confini della realtà. Di tutto e di più nell’instant book scritto da una giornalista di razza e, soprattutto, d’inchiesta, la napoletana Serena Romano, per anni firma di punta al Mattino, al Messaggero, all’Europeo; in collaborazione con Francesco Iannello, presidente delle Assise di palazzo Marigliano, storicamente in prima linea nelle battaglie per la difesa di salute e ambiente. Di seguito pubblichiamo due corposi paragrafi di “Se errare è umano, perseverare è contagioso. Anzi sospetto”. Il primo si riferisce al nuovo grande affare, quello del “plasma iperimmune”, gestito dal gruppo Kedrion che fa capo alla famiglia Marcucci, sul ponte di comando Paolo, nel cda i fratelli Marilina e Andrea, capogruppo del Pd al Senato. Pochi conoscono quanto è appena successo nelle ovattate stanze – guarda caso – proprio a palazzo Madama, per l’audizione del Ceo Paolo Marcucci e il maxi business del futuro. Il secondo è dedicato al nuovo vate della sceneggiata a tutto vaccino, e ora a tutto coronavirus, il Mago di Provette & Brevetti Roberto Burioni, che ha appena portato a temine le sue performance nel salottino domenicale di Fabio Fazio: un salottino – vale la pena di rammentarlo – profumatamente pagato dalle tasche dei contribuenti, come del resto ha appena denunciato il Codacons.
Affari all’ultimo sangue. Molti si sono chiesti sulla base di quale motivazione scientifica l’Istituto Superiore di Sanità e l’Agenzia Italiana del Farmaco abbiano scelto Pisa come capofila del progetto sul plasma iperimmune: sfilando la primogenitura a Mantova e Pavia, nonostante Pisa, a confronto con le prime due, abbia esperienza quasi zero. A quanto pare su nessuna motivazione scientifica, come molti avevano intuito: anche se la conferma stavolta, non si trova agevolmente sulla stampa e in tivù. E’ il Giornale (17 maggio) che lancia l’allarme: “Così il business del plasma finisce in mano al senatore Pd” E sotto “La KEDRION della famiglia Marcucci mette a disposizione i propri stabilimenti per produrre sangue iperimmune”. Ma sono soprattutto “La Voce delle Voci” e “Le Iene” ad approfondire questo tema: facendo capire che non è solo questione di business, ma che così si sta mettendo in gioco la salute e la buona fede dei cittadini. Ad approfondire per primo questo scandalo soffocato, è il sito on line la Voce delle Voci: ex “Voce della Campania”, lo storico giornale cui gran parte della stampa da decenni attinge notizie e spunti per inchieste. E’ qui, infatti, che la vicenda viene analizzata in tutti i suoi particolari e correlata con altri link ed eventi: “Un affare gigantesco… Per la corazzata di famiglia Kedrion… Un conflitto d’interessi che fa impallidire persino un esperto del ramo come Silvio Berlusconi…Sotto i riflettori la dinasty dei Marcucci, capeggiata da Paolo, sul ponte di comando di Kedrion, e da Andrea Marcucci, il capogruppo del PD al Senato”. Questa l’apertura ed ecco (in sintesi) il seguito: “La ‘bomba’ scoppia nel corso di una Audizione in Senato, alla quale prende parte, neanche invitato, Paolo Marcucci, che annuncia il maxi progetto griffato Kedrion sulla cura del secolo via plasma iperimmune e immoglobuline, già in fase di start. Senza che fino ad oggi nessuno ne abbia discusso in Parlamento, e nessuno ne abbia mai parlato o scritto a livello mediatico (tranne Libero e il Giornale)…E l’incoronazione dei Marcucci avviene con la benedizione di organismi pubblici, come l’ISS e l’AIFA… in Senato è previsto un primo intervento del presidente di Farmindustria, Massimo Scaccabarozzi che con gran savoir faire lascia la parola alla star però non invitata, Paolo Marcucci. Il quale illustra subito il maxi progetto al plasma … Kedrion con il suo stabilimento di Sant’Antimo, nell’hinterland napoletano, avvierà la raccolta del plasma dei donatori italiani per trasformarlo, “in conto lavorazione”, nel plasma iperimmune industriale. Seguirà poi – illustra il timoniere di Kedrion, Paolo Marcucci – un’altra fase, per la produzione di gammaglobuline iperimmuni, in collaborazione con la società israeliana Kamada. E’ previsto per ottobre l’ingresso del prodotto sul mercato. A tambur battente. Un progetto che fa a pugni con quello più volte illustrato dallo pneumologo dell’ospedale “Carlo Poma” di Mantova, Giuseppe De Donno, che con il collega Cesare Perotti del policlinico “San Matteo” di Pavia ha messo a punto la tecnica del plasma iperimmune che ha un grande pregio: non costa praticamente niente, al massimo 80 euro per una sacca. Forse per questo è stata subito boicottata da Big Pharma?”, si chiede la Voce sottolineando come ora: “Quello stesso prodotto pagheremo (o pagherà, lo Stato) sicuramente un occhio dovendo subire un trattamento “industriale ad hoc”, con un comodo “conto lavorazione”…
La Iena Alessandro Politi. Un aspetto, questo, che manda in bestia i donatori di sangue intervistati nell’imperdibile video delle Iene. Quando l’inviato Alessandro Politi, infatti, chiede loro: “ma voi lo sapete che con il vostro sangue donato gratuitamente rischiate di alimentare un business?” Rispondono tutti risentiti : “Ah, no! Se è così non lo dono più. Ma siamo matti!?” Così, il plasma che aveva dato la speranza agli ammalati di Covid, trasformato in prodotti farmaceutici di vario tipo – non strettamente finalizzati all’utilizzo nell’emergenza – approfitta della rampa di lancio dell’emergenza per decollare verso il business. Non solo: guardando il servizio delle Iene si scopre anche che quel procedimento industriale cui verrà sottoposto il plasma, priverà il prodotto finale di parte delle sostanze benefiche contenute nel plasma originario; e che insieme alle costose sacche di plasma verrà avviata una produzione di gammaglobuline che sono cosa diversa dalla plasmaterapia. “A dirigere l’orchestra, dunque, è l’Istituto Superiore di Sanità (ISS) e l’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA), con un ministro della Salute, Roberto Speranza, incapace di dire una parola su quello che – forse a sua insaputa – gli sta succedendo intorno. AIFA e ISS che come si sa hanno snobbato i primi lavori sul plasma iperimmune effettuati dal tandem De Donno-Perotti, e dopo averli esclusi hanno deciso di avviare una sperimentazione alternativa, affidandola ad un misterioso progetto, “Tsunami”… affidato al reparto di Malattie Infettive dell’Azienda ospedaliera di Pisa, guidata da Francesco Menichetti – si legge ancora sulla Voce – Nella stessa Azienda ospedaliera insegna un altro guru in tema di Covid-19, Pier Luigi Lopalco, ubiqua presenza tivù, consulente della Regione Puglia per l’emergenza coronavirus e grande amico della star Roberto Burioni, con il quale ha appena cofirmato un libro sulla pandemia”. In merito a conflitti di interesse o semplicemente a strane contiguità, va aggiunto che Pier Luigi Lopalco che lavora nell’azienda ospedaliere di Pisa, è anche il presidente del “Patto per la Scienza” fondato da Burioni. Andrea Marcucci, fratello di Marcucci della Kedrion che si è accaparrata il progetto Tsunami, è anche un renziano di ferro: anzi il braccio destro di Renzi, tant’è che molti si sono chiesti come mai non lo abbia seguito quando ha lasciato il PD per fondare un suo partito. E molti hanno anche azzardato una risposta: “A Matteo fa più comodo tenerlo nel PD, così ha un piede e un amico anche sull’altra sponda”. Renzi è anche fra i sostenitori del Patto per la Scienza promosso da Burioni. E su questo virologo, proprio nelle ultime settimane di maggio, si sono abbattute una serie di tegole giudiziarie.
La “Pomona”…della discordia: il Codacons denuncia Burioni. Mentre si allenta la morsa del coronavirus e cominciano a cadere i veli che avvolgono “scienziati” e burocrati di AIFA, ISS, OMS, si scoprono anche i fiancheggiatori esterni. Come riporta “Qui Finanza” il 17 maggio, infatti, scatta una denuncia del Codacons sul presunto conflitto di interessi tra Burioni e la Pomona ricerca Srl “…che intrattiene rapporti di lavoro con grandi multinazionali di farmaci e vaccini… per cui la presenza fissa di Burioni su Rai 2 sarebbe di fatto una pubblicità a vantaggio dei brevetti depositati dallo stesso Burioni tramite il lavoro di Pomona….Al Codacons non è proprio andato giù il “business” (questo il termine usato) che Burioni avrebbe messo in piedi in Rai, servizio pubblico…. con la presenza a “Che tempo che fa” per parlare del Coronavirus e degli sviluppi dell’emergenza sanitaria in corso…” E in un altro esposto contro Roberto Burioni, (su Affari Italiani 28 maggio) che ha per destinatari l’Ordine dei medici di Pesaro e Urbino, il Corriere della Sera e l’Autorità Nazionale Anti Corruzione (ANAC), in merito al “conflitto di interesse a causa di presunti rapporti con case farmaceutiche”, il Codacons elenca “i brevetti di cui il dottor Burioni risulterebbe titolare, e le varie attività e progetti sponsorizzati da colossali aziende farmaceutiche come GlaxoSmithKline Biological e Sanofi-Pasteur MSD”. Dall’esposto emerge anche che sarebbe stato autore del progetto “Dalla vaccine hesitancy alla vaccine recovery”, finanziato con il contributo di Merck&Co erogato da MSD Italia”. All’Ordine dei Medici si chiede di verificare “se nei fatti siano ravvisabili gli estremi della violazione delle norme che regolano il comportamento del medico”.
Roberto Burioni. Quanto ai temi riguardanti possibili conflitti di interessi di Burioni: tornano alla ribalta in questi giorni arricchiti di nuovi aspetti, ma risalgono ai tempi della polemica conclusasi con l’approvazione della legge italiana che ha reso obbligatori 10 vaccini. Polemica svolta in un clima di caccia alle streghe in cui “il virologo Burioni, che si autogiudica l’unico super esperto di vaccini, guida la crociata di coloro che non accettano la minima contestazione… per i medici che osano osservare qualcosa c’è pericolo di radiazione, come sta già succedendo in alcune regioni…” Così esordisce la Voce delle Voci in un’inchiesta in due puntate che risale al 19 aprile 2017 e svela l’esistenza della Pomona ricerca srl “compagnia privata… che opera nel settore delle biotecnologie e impegnata nello studio, sviluppo e produzione di anticorpi umani monoclonali. Fondata nel 2010, nel corso degli anni ha acquisito gli asset e la proprietà intellettuale di diverse piccole compagnie che si occupano di biotecnologie, il tutto basato sulle ricerche di due professori dell’Università San Raffaele. I professori Massimo Clementi e Roberto Burioni considerati tra i ‘key opinion leaders’ (gli esperti ‘chiave’) la cui consolidata esperienza consente a Pomona di occupare una posizione leader nel settore della produzione di vaccini”. Da tale inchiesta Burioni risulterebbe “proprietario di parecchi anticorpi anche per uso vaccinale; e – insieme al collega Clementi, dal 2006 al 2016 – avrebbe deposto numerosi brevetti con committente, non solo Pomona Ricerca srl, ma anche Bracco Imaging spa, Ribovax Biotecnologie SA, Generale Anticorpi e Biotecnologie srl.” E nella seconda puntata del 20 aprile 2017 oltre a Pomona Ricerca srl, la Voce scopre anche “la Fides pharma, società a responsabilità limitata… (che prima era una SpA, con 5 milioni di euro di capitale)… una giovane ‘company‘ dedita allo sviluppo degli anticorpi monoclonali…. che come si legge sul suo profilo, può usufruire di un forte legame con l’Istituto San Raffaele nel Nord Italia, riconosciuto in tutto il mondo, e può contare sul contributo scientifico dei professori Massimo Clementi… e Roberto Burioni… e su una catena di quattro anticorpi monoclonali umani…contro l’influenza e l’HCV, brevettati da Pomona”. Pomona ricerca, quindi, e Fides produce: fra gli obiettivi del suo oggetto sociale, infatti, la Fides ha quello di “commercializzare, produrre e concedere in licenza e comunque valorizzare strategie, tecnologie e brevetti attinenti o anche solo connessi alle attività su descritte. ”
COVID 19 / SCIENZIATI FARLOCCHI & GIALLO IDROSSICLOROCHINA. Andrea Cinquegrani l'1 Giugno 2020 su La Voce delle Voci. Il re è nudo. I virologi “tanto a intervento” in tivvù sputtanati. Scoperti i giochi delle case farmaceutiche sulla pelle dei cittadini a tutto Covid-19. Ci volevano le frasi di Alberto Zangrillo ai microfoni di un’attonita Lucia Annunziata per far capire finalmente agli italiani la verità oltre le cialtronerie e le cifre a vanvera diffuse fino ad oggi dalla crema dei virologi (sic) di casa nostra.
IL VIRUS E’ MORTO. MA LORSIGNORI NON SE NE SONO ACCORTI. “Il virus da un mese è morto. Da trenta giorni non abbiamo più nuovi pazienti nelle nostre terapie d’urgenza al San Raffaele, sono vuote”. Parole, quelle di Zangrillo, che non lasciano spazi a dubbi. Pesate e ripesate dal primario che conosce bene – e lo rimarca a chiare lettere – la valenza delle sue affermazioni. Un autentico ceffone ai tanti saltimbanchi di alambicchi & provette, i soloni che per mesi hanno dato – e continuano a dare – i “numeri” attraverso i media di stato, diffondendo “scientemente” e “scientificamente” una pandemia di paura, di terrore che – a questo punto – non può essere definito in altro modo che del tutto ingiustificato. Con ogni probabilità studiato a tavolino. Fino a prova contraria, la legge italiana prevede espressamente un reato: il procurato allarme, a carico di chi – pur avendo a disposizione gli strumenti di conoscenza ad hoc – semina quel panico, peggiore dello stesso male oscuro che a parole si vorrebbe contrastare. Non è uno scienziato qualunque, Zangrillo, sempre etichettato come “amico e medico personale di Berlusconi”. Avrebbe tutto da perdere, nel pronunciare parole a vanvera. E invece ha il coraggio di esporsi, di schierarsi contro Big Pharma e dei suoi sporchi interessi, contro quei Soloni al soldo che se ne fottono della salute dei loro pazienti, di tutti i cittadini. I media danno subito largo spazio a quei Vate che cercano di ridicolizzare Zangrillo e, soprattutto, la fondatissima tesi che il virus è morto da almeno un mese. Un esempio per tutti: Locatelli-Crozza, che nel suo strampalato “scientifichese” parla di tesi pericolosa e dannosa per tutti. A questo punto, sorge spontanea una riflessione da novanta. A chi spetta, ora, la parola per verificare se ha ragione Zangrillo e quel gruppetto di medici e ricercatori “controcorrente”, come Giulio Tarro e Giuseppe De Donno, i quali hanno sempre teso a gettare acqua sul fuoco e ad indicare vie terapeutiche che fanno a pugni rispetto a quelle espresse da Big Pharma? Oppure quei Soloni che dettano legge ogni giorno in tivvù e sui media, genuflessi davanti alle case farmaceutiche, che parlano tutti lo stesso linguaggio di paura? Deve intervenire al solito la magistratura per far chiarezza? Quella magistratura, fra l’altro, oggi alle prese con la sua stessa Magistratopoli? Certo è che non la potrà passare liscia chi ha procurato quel panico e cerca di lucrare affari sulla pelle dei cittadini.
IL GIALLO IDROSSICLOROCHINA. Così come per il “caso clorochina”. Un altro giallo che più giallo non si può, in grado di riproporre, più o meno, le stesse logiche. Pochi giorni fa la potente AIFA, l’associazione italiana per il farmaco, vieta l’uso dell’idrossiclorochina come farmaco anti coronavirus. A suo parere, infatti, “nuove evidenze cliniche indicano un aumento di rischio per reazioni avverse a fronte di benefici scarsi o assenti”. A quanto pare, si tratterebbe di complicanze cardiovascolari. Giorni prima era intervenuta l’Organizzazione Mondiale per la Sanità a mettere in guardia circa l’utilizzo della clorochina. E alcuni giorni prima, era stato un articolo pubblicato su “Lancet” a puntare i riflettori sullo storico farmaco anti artrite utilizzato in mezzo mondo e “riscoperto” come possibile presidio anti covid – nelle sue fasi iniziali – dal luminare (anche lui controcorrente) francese Didier Raoult, animatore dell’avamposto di Marsiglia sul fronte delle malattie infettive. Uno studio che più “sgarrupato” non si può, quello di Lancet, la celebre rivista scientifica che ogni tanto, però, incorre in clamorosi autogol, pubblicando improbabili studi, caso mai firmati da autori in palese conflitto di interesse. E così è successo per la “fake story” uscita giorni fa sulla rivista. Scrive Maurizio Blondet: “Un articolo imbarazzante, per il prestigio e l’autorità della storica rivista di medicina. Imbarazzante già dagli autori, due cardiologi e un ex chirurgo vascolare, ora uomo d’affari, nessuno dei quali ha mai trattato un malato di Covid, mentre hanno trattato molto la promozione di farmaci, a pagamento; più che scienziati, simili a quegli ‘informatori scientifici’ stipendiati dalle Case, che fanno anticamera negli studi medici per raccomandare ai dottori l’ultimo medicinale. Cosa che risulta, perché i tre hanno dovuto indicare, come si usa, in calce alla pubblicazione, i loro potenziali conflitti d’interesse nella causa”. In questo caso – l’articolo di Lancet – si tratta di una sponsorizzazione al contrario, ossia di una vera e propria delegittimazione della idrossiclorochina, il cui utilizzo nelle fasi iniziali del Covid-19 viene auspicato da moltissimi medici di base e da parte di quei ricercatori non al sevizio di Big Pharma. Ma sapete qual è il reale motivo della guerra tra papaveri della ricerca e sanitari autentici? Il costo del farmaco. Praticamente zero. In farmacia una confezione di Plaquenil costa 1 euro e 20 centesimi: ovviamente viene venduta dietro presentazione di ricetta rilasciata dal medico di base, il quale a sua volta la prescrive in base all’indicazione dello specialista, “per artrite reumatoide”. D’ora in poi, ogni altra prescrizione, ossia come trattamento anti Covid, non verrà più accettata dal nostro sistema sanitario nazionale, dopo il disco rosso decretato dall’AIFA, che ovviamente fa gli interessi non dei cittadini ma delle case farmaceutiche.
Bill Gates. Come del resto l’OMS, il cui finanziatore numero uno è il “filantropo” Bill Gates, oggi tutto alle prese con gli affari per i vaccini sul fronte del coronavirus. Business a palate mascherati – è il caso di dirlo – da interventi sempre tanto umanitari…E’ la stessa storia del “plasma iperimmune”. Così come una confezione di clorochina costa poca più di un euro, costa ben poco una sacca di plasma iperimmune, 80 euro, come fanno sapere gli addetti ai lavori e ha sbandierato ai quattro venti (finendo per subire un processo di crocefissione) lo pneumologo dell’ospedale “Carlo Poma” di Mantova, Giuseppe De Donno. Ovvio che un prezzo così basso sia un pugno in faccia per Big Pharma. E in questo caso per Kedrion, la corazzata di casa Marcucci che si è subito tuffata nell’affare, per “industrializzare” un prodotto altrimenti quasi gratis. Alla “clorochina story” è dedicato l’ultimo capitolo di un fresco instant book scritto dalla giornalista d’inchiesta Serena Romano, titolato “Se errare è umano…”.
Ultimo capitolo … senza titolo. I fatti accaduti nelle ultime settimane non solo hanno fatto slittare la fine di questo instant book (che doveva terminare ai primi di maggio, insieme alla quarantena) ma rendono arduo completare l’ultimo capitolo, abbozzare un titolo e un finale: che perciò restano sospesi. Perché ai drammi della pandemia, ai morti, al disastro economico, alle angosce per il futuro, ora si aggiungono interessi e retroscena che gettano un’ombra cupa sulla storia del coronavirus all’italiana. E perciò cresce anche la preoccupazione che il Caronte scelto dal Governo per traghettarci fuori dall’emergenza, possa rimanere a Palazzo Chigi più del previsto. Comincia a diventare inquietante, infatti, l’accentramento del potere scientifico nelle mani di una burocrazia opaca e scadente – OMS, AIFA, ISS – grazie alla quale il potere si esercita di più e si nota di meno: anche perché l’accentramento in una sola task force la rende più cedevole alle pressioni esterne o delle lobbies per le quali è più efficace operare su una realtà centralizzata che su tante realtà regionali sparse sul territorio. Spaventa, inoltre, questo “Carrozzone di saggi” che sembra potersene fregare delle proteste di cittadini, medici, scienziati, intellettuali, giornalisti al punto da non rispondere alle loro richieste, da non sentirsi in dovere di dare delle spiegazioni sulla situazione sanitaria che abbiamo vissuto e stiamo vivendo. E preoccupa il piacere del comando che può prendere la mano a chi ha assaporato la possibilità di mettere in fila i cittadini come tanti soldatini facendo leva sulla paura: e magari potrebbe cedere alla tentazione di continuare ad alimentarla – pur senza motivazioni scientifiche a sostegno, oltre quelle vaghe e generiche fornite dal carrozzone di saggi – perché così è più semplice ottenere il rispetto delle regole. In altre parole preoccupa la tentazione paternalistica di trattare gli italiani come irresponsabili e inetti, nonostante abbiano dimostrato un senso di responsabilità sicuramente maggiore di coloro che glielo hanno chiesto: rimanendo a casa, per esempio, pur avendo intuito che i tempi della quarantena si allungavano non per colpa del virus, ma di chi forse prendeva tempo perché non sapeva che fare, come fare tesoro degli errori commessi, che cosa diavolo escogitare per avviare la Fase 2. E forse per questo ora i cittadini cominciano ad essere studi e ad arrabbiarsi. Come Massimo Cacciari (25 maggio ad Ottoemezzo La7) che ha dichiarato esasperato: “Questa situazione non può essere più gestita in modo centralistico e burocratico con regolamenti assurdi, grotteschi, di 50 pagine che non tengono conto delle innegabili differenze da regione a regione… è grottesco il tentativo di regolamentare a livello centrale le distanze da tenere – 1 metro, 2 metri – o pretendere di stabilire chi si può frequentare, se congiunto di primo o secondo grado come è stato fatto… Oggi ormai la situazione va gestita a livello regionale, perché è l’unico modo per tentare di farlo in maniera articolata e intelligente: a differenza del centralismo che è l’esatto contrario dell’intelligenza”. E proprio di questo forse, i cittadini sono stufi: di essere trattati da cretini da chi è meno intelligente di loro. E dall’essere stufi ed arrabbiati, a diventare diffidenti verso una scienza poco chiara e trasparente, il passo è breve. Non a caso, dopo la massiccia richiesta di tamponi – negati senza un chiaro motivo – ora gran parte dei cittadini selezionati per il test sierologico si rifiutano di farlo: ci si è chiesti perché? Forse perché la gente non ha capito che cosa succederà se il test risultasse positivo, non si fida di come verrà utilizzato quel dato, ha compreso che è inutile chiedere spiegazioni che non le verranno date, per cui compie l’unico gesto decisionale che le resta: si sottrae. E questo l’ha intuito per esempio il Presidente del Friuli Venezia Giulia, Massimiliano Fedriga, che per evitare altro panico e pasticci inutili, il 28 maggio ha ritirato la disponibilità alla sperimentazione dell’app Immuni. Come spiega in una lettera alla Conferenza delle Regioni: “Immuni prevede non la ricostruzione della catena di contatti dei soggetti risultati positivi, come chiesto dalla Regione per integrare il lavoro oggi svolto manualmente, bensì l’invio di un sms ai cittadini entrati a contatto con un contagiato. Ciò significa che si passerà da una gestione affidata ai Servizi sanitari a un’azione diretta (e priva del supporto di professionisti) dei cittadini, a cui competerà l’onere di chiamare il medico di base: una soluzione poco avveduta che rischia di ingenerare panico o, nel caso in cui il cittadino decidesse di non rivolgersi al medico curante, di vanificare l’efficacia dell’app”. Questo il risultato, dunque, di scelte e informazioni ambigue, carenti, approssimative, cadute a pioggia sulla testa dei cittadini: i quali, però – considerato come hanno utilizzato tanti strumenti tecnologici in questo periodo – sono più preparati e in grado di informarsi di quanto si creda. E forse anche per questo sono stufi dei “salottini della scienza” di “Che tempo che fa” contro i quali alla fine sono partite denunce ed esposti proprio di associazioni di consumatori. Le denunce del Codacons, comunque, non sono riuscite a fermare la messa in onda dell’ultima puntata di “Che tempo che fa coronavirus” (del 25 maggio) in cui, dal servizio pubblico televisivo, è stato dispensato il verdetto finale sulla pandemia e sugli scenari futuri, al quale gli italiani, da bravi cittadini, dovrebbero adattarsi. L’ultima trasmissione da commentare in quest’ultimo capitolo: perche emblematica di certi messaggi poco chiari, a volte contraddittori che generano insofferenza e diffidenza.
Roberto Burioni ospite fisso di Fabio Fazio a Che tempo che fa. Il clima è il solito: salottiero. Burioni, a dimostrazione della grande confidenza che nutrono fra loro “scienziati al massimo livello mondiale” (come li ha presentati Fazio) saluta con un “ciao” i due ospiti che appaiono in collegamento. Il primo è Rino Rappuoli presentato da Fazio rivolgendosi a Burioni “che dici lo possiamo dire… tanto è uno scienziato talmente grande… ma sì…diciamolo…” come direttore scientifico della divisione vaccini della GSR. L’altro è Andrea Antinori direttore immunodeficienze virali dello Spallanzani. Così, con un Fazio raggiante che non sta nella pelle per la voglia di rivelare la grande sorpresa e Burioni, che come un giocatore di poker, si “trizzea” la sorpresa come la carta vincente prima di scoprirla, è stata annunciata la grande notizia: già si è trovato un vaccino. “Eh sì – ha detto Burioni – perché oggi la scienza consente di fare miracoli e di trovare in una settimana quello che in passato richiedeva mesi”. Peccato, però, che andando avanti nella chiacchierata, si scopre che il vaccino non è proprio dietro l’angolo: “Certo, ora la ricerca corre più veloce… sono ottimista… certo tutti lo vorrebbero a settembre o a fine anno… ma non penso per quella data… forse a metà 2021… o forse alla fine del 2021”, butta lì fra un sorriso e l’altro Rappuoli. Come un pallone bucato, la notizia si sgonfia. Ma per fortuna ci pensa Burioni a tirare subito sù il morale riportando gli italiani a sperare: “Insomma, forse questo virus ci creerà ancora qualche problema, ma come si vede ci sono grandi speranze e ottimismo: e anche se ora questa trasmissione è alla sua ultima puntata, noi vi informeremo da Medical Facts seguendo gli sviluppi e tenendovi aggiornati”… Questo il succo. Per cui: meno male che c’è Burioni e la sua rubrica a sopperire al Servizio Pubblico quando questo si interrompe. E quanto a “qualche piccolo problema” – che in questo caso, dato il tema, dovrebbe essere ancora qualche ammalato, qualche morto… – sarà roba da poco, perché poi arriverà il vaccino che SARA’ L’UNICA VERA SOLUZIONE: perché, per dirla con Burioni, “il vaccino non è un’opinione”. E se in tutto questo parlare senza dire niente di concreto, a qualcuno fosse venuto il dubbio che nel frattempo si può sopravvivere grazie a una cura, questa speranza è stata subito smentita dall’altro ospite della trasmissione, Andrea Antinori. Che alla specifica domanda di Fazio sulle cure possibili, risponde, in sintesi, che … noi abbiamo imparato a gestire meglio questa malattia ma dal punto di vista terapeutico non abbiamo terapie efficaci, perché tutte quelle adottate finora sono state consentite, come si suole dire “per uso compassionevole”, perché c’era un’emergenza, ma non sono state sottoposte a studi randomizzati né prove controllate. In realtà, il fatto che manchino “studi specifici, randomizzati” sui farmaci utilizzati in maniera sperimentale durante l’emergenza, ma rivelatisi VITALI per migliaia di pazienti in Italia e nel mondo, non è una scusante, ma un’aggravante per l’AIFA: che, come si è visto, è sollecita o titubante ad approvare o vietare farmaci, a promuovere o ad affossare sperimentazioni, secondo convenienza più che scienza. Ma andiamo avanti: perché Antinori, proprio per esemplificare quanto sia pericoloso l’uso di farmaci non sufficientemente validati, cita l’idrossiclorochina, per la quale, dice, mancano studi specifici sull’uso per il Covid19 e proprio di recente la rivista Lancet ha messo in guardia dai gravi rischi cardiovascolari connessi al ricorso a tale farmaco. Così a trasmissione terminata, seguendo l’incitamento cartesiano – “la mia unica certezza è il dubbio” che in questo caso sconsiglia di prendere per oro colato le affermazioni di Antinori, di Lancet e dell’Aifa – faccio quello che probabilmente avranno fatto altri telespettatori: una verifica con una piccola ricerca via internet su “Lancet e idrossiclorochina” . Ed ecco il succo di uno dei tanti articoli su questo tema, (IL FATTO 26 maggio) qui riportato in sintesi, ma che andrebbe letto INTEGRALMENTE. Questa vicenda, infatti, ha un retroscena politico e scientifico di cui tenere conto, senza il quale la citazione di Lancet rimane incomprensibile. Donald Trump uno dei principali sostenitori dell’idrossiclorochina, ha recentemente sospeso i finanziamenti americani all’OMS che, a sua volta, ha sospeso la sperimentazione già avviata sull’idrossiclorochina. Se l’OMS lo abbia fatto per ritorsione o meno non si sa: bisognerebbe chiederlo a Bill Gates … Ironia a parte, questa presa di posizione dell’OMS avrebbe determinato lo STOP alla sperimentazione anche da parte dell’AIFA. In ogni caso, sia l’OMS che l’AIFA avrebbero giustificato lo STOP anche con l’articolo di Lancet che parla dei rischi cardiovascolari connessi all’uso dell’idrossiclorochina”. Questa dunque è la cornice un po’ più precisa in cui inserire la notizia data da Antinori e da completare con la lettura dell’articolo di Lancet in questione, magari con l’aiuto di qualche commento qualificato: come per esempio, il parere di Andrea Savarino (sul Fatto già citato) il ricercatore dell’Istituto Superiore di Sanità che nel 2003, fu quello che propose l’idrossiclorochina contro Sars1, insieme a Roberto Cauda (Direttore Malattie Infettive del Gemelli) e ad Antonio Cassone (ex direttore del Dipartimento Malattie Infettive di Iss).
Donald Trump. Alla domanda su che cosa ne pensa in genere di questa vicenda, Savarino risponde: “Purtroppo questa ricerca soffre dall’esser stata presa in mezzo nell’agone di una battaglia politica. Donald Trump, uno dei principali sostenitori dell’idrossiclorochina, ha recentemente sospeso i finanziamenti americani all’OMS che, a sua volta, ha sospeso la sperimentazione sull’idrossiclorochina, uno dei farmaci che aveva destato maggiore interesse nei trattamenti precoci contro Covid 19. Di qui lo stop alla sperimentazione anche dell’Agenzia del farmaco… Personalmente ritengo che sia davvero controproducente che ricerche scientifiche, specie quelle con potenziale impatto sulla salute pubblica, vengano prese in ostaggio dalla politica”. Entrando poi nello specifico dello studio di Lancet in base al quale l’Oms ha sospeso lo studio sull’idrossiclorochina, viene chiesto a Savarino: “l’idrossiclorochina aumenta la mortalità nei pazienti trattati”? Savarino risponde: “Da un’analisi dei dati della pubblicazione non è possibile trarre questa conclusione.” Al che l’intervistatore insiste per approfondire: “la randomizzazione, nell’articolo su Lancet, con quale criterio è stata concepita?” Risposta: “Purtroppo non è stata effettuata randomizzazione alcuna. Questo è uno studio osservazionale retrospettico. Non ha la forza di una sperimentazione clinica randomizzata… Lo studio è influenzato da una distribuzione non omogenea di fattori di rischio preesistenti… Infine, i limiti dello studio si evincono dal fatto che ha fallito nel dimostrare il contributo del fumo di sigaretta all’incidenza delle aritmie, un’associazione ampiamente documentata in letteratura, mentre qui scompare”. Ci sono pubblicazioni, come si dice in ambito scientifico “autorevoli” che riportano dati diversi da The Lancet? “Ci sono molte di queste sperimentazioni, alcune randomizzate. Alcune riportano un effetto benefico dell’idrossiclorochina, altre no, per questo sono in corso ulteriori ricerche. Ma un disastro di questo genere in termini di mortalità (come quello segnalato da Lancet ndr) non è stato riportato da nessuno. In Europa è in atto la sperimentazione clinica DISCOVERY, condotta con tutti i dovuti crismi. Anche qui è stata già effettuata un’analisi ad interim, e, di nuovo, se il farmaco avesse avuto qualche effetto collaterale inaccettabile, la sperimentazione clinica sarebbe stata interrotta. Invece, i responsabili del trial RECOVERY, nato come un braccio di DISCOVERY e resosi poi indipendente nel Regno Unito, hanno deciso di continuare con la sperimentazione di idrossiclorochina non considerando lo studio pubblicato su Lancet evidenza sufficiente per comprovare la pericolosità del farmaco”, conclude Savarino. Che dire? Forse è inutile aggiungere altro a quello che qualsiasi persona abituata a farsi guidare dalla logica ha già compreso: per cui avrà capito come interpretare le affermazioni buttate lì da Antinori in prima serata da Rai 2; come interpretare l’ALT dell’OMS prendendo a pretesto un articolo insufficiente a motivarlo; come interpretare la brusca frenata dell’Agenzia del farmaco italiana, sollecita ad obbedire all’OMS nonostante la scarsa affidabilità ormai dimostrata dall’Organizzazione e la sua dipendenza dalle case farmaceutiche; come interpretare l’atteggiamento della “casta farmacologica” dell’AIFA che non riesce MAI a valutare la realtà direttamente, per quello che è, senza la vidimazione burocratica di un pezzo di carta o di qualche pezza di appoggio che in questo caso è l’articolo di Lancet. Eppure, se ci riuscisse, scoprirebbe che la realtà vera, quella non burocratica, se ne frega dell’articolo di Lancet e dimostra tutt’altro. Perché la realtà vera è quella dell’evidenza clinica sperimentata dai medici sui propri pazienti, salvati non dagli studi randomizzati, ma dalla capacità professionale, dall’accortezza e l’oculatezza con cui, valutando caso per caso, in tutt’Italia hanno somministrato questo e altri farmaci. Dal dottor Cavanna a Piacenza a Le Foche a Roma, da Belcastro in Calabria ai camici bianchi del “gruppo Covid 19” nato su Facebook, al dottor Mangiagalli dei “100 medici lombardi in prima linea” che dichiarò: “Ci siamo lanciati senza paracadute. Non avremmo potuto prescrivere l’idrossiclorochina ai nostri pazienti… l’Aifa aveva emanato una direttiva sconsigliandone l’utilizzo…Però far morire la gente senza tentare nulla era contro il nostro codice deontologico…e comunque ci siamo presi questa responsabilità sulla base di una conoscenza clinica approfondita dei nostri pazienti. È chiaro che a pazienti con disturbi del ritmo cardiaco non ci siamo sognati di prescrivere questa terapia. Inoltre, la maggior parte degli studi che mettono in dubbio l’efficacia della idrossiclorochina sono stati realizzati in ospedale o su pazienti in fase più avanzata dei nostri… perché in pratica, se non si interviene per tempo i polmoni, che normalmente sono come un spugna, diventano di cartone. E se si interviene tardi, magari si salva il paziente ma a prezzo di un danno polmonare irreversibile… Ci siamo resi conto che il Covid è una malattia sistemica ad alta letalità e pericolosissima se non trattata nei primissimi giorni. E non avendo fuori dall’ospedale altri farmaci con possibile attività antivirale, abbiamo pensato che nell’emergenza l’idrossiclorochina fosse la miglior strada percorribile: a un costo fra l’altro molto sostenibile”. Queste dichiarazioni fanno intuire non solo il danno alla salute provocato dallo scellerato blocco di questa sperimentazione ma anche l’errore più grave, forse, compiuto nel corso di questa pandemia: far credere che il valore taumaturgico, miracoloso dipenda dal farmaco, mentre come queste esperienze dimostrano, il vero taumaturgo, quello che fa il miracolo è il medico che lo utilizza, tenendo conto della specificità del suo malato: ognuno diverso dall’altro. Ed è questo che accomuna il successo ottenuto con l’uso anche di altre terapie da quei medici quasi tutti più o meno snobbati dall’AIFA e dai vertici sanitari: da Ascierto a Vacca, all’equipe del plasma De Donno-Franchini-Perotti a Mantova e Pavia. Anche per il plasma, infatti, è fuorviante ritenere che è la sacca di sangue che salva la vita e che scegliere Pisa come capofila della sperimentazione equivale a Mantova e Pavia. “La selezione dei pazienti prevede un lavoro certosino… Non solo abbiamo gli esami obbligatori di legge sul plasma per essere trasfuso, ma esami aggiuntivi e il titolo neutralizzante degli anticorpi che è una cosa che facciamo solo noi qui… per cui sappiamo la potenza, la capacità che ciascun plasma accumulato ha di uccidere il virus. Ogni plasma è fatto in modo diverso perché ogni paziente è diverso, ma noi siamo in grado di sapere quale usare per ogni caso specifico”. Queste parole di Franchini e Perotti che hanno lavorato a Mantova e Pavia, fanno capire la differenza con Pisa e sembrano sottolineare che non è corretto far credere che una sacca di sangue vale l’altra. Perché non è il farmaco, il plasma o il vaccino, che salva il malato, ma il medico competente che individua per lui il rimedio più giusto. O per dirla con Zangrillo: non sono 100 ventilatori polmonari in più che salvano più moribondi, ma il personale sanitario capace di farli funzionare. E proprio su queste esperienze e professionalità forse varrebbe la pena investire in futuro: perché, alla luce dei fatti, sembrano il patrimonio più consistente ereditato da questa pandemia. Magari cominciando a dirottarvi una prima cifra significativa: i 130 milioni di euro promessi a Bill Gates per la ricerca di un vaccino. Anche perché sarebbe un modo per disinnescare una pericolosa e generalizzata diffidenza verso farmaci e vaccini: il cui uso oculato e consapevole guidato dalla Medicina – anzichè quello indiscriminato e di massa spinto dalle case farmaceutiche – è sacrosanto quanto innegabile. Sarebbe un modo, insomma, per sciogliere la diffidenza e invertire quella tendenza avviata proprio dalla pseudoscienza inquinata da interessi di parte: che è la perdita di fiducia nella Scienza e nella Medicina che molti cittadini hanno vissuto sulla propria pelle in questa pandemìa. Soprattutto quelli chiusi in casa con qualcuno che gli moriva accanto, sballottati fra pareri contrastanti, abbandonati da un sistema sanitario in tilt che, presi dal panico, anche se sono sopravvissuti a quest’esperienza devastante, forse hanno perso fiducia nella possibilità di rinascita offerta da queste discipline. Una perdita di fiducia che una società come la nostra, però, oggi non può permettersi. Perché la Scienza e la Medicina sono le uniche armi contro il rischio di una nuova dittatura che – a differenza di quelle che si toccano con mano – può essere esercitata attraverso la presenza invisibile di un virus. E per contrastarla, l’unico modo che sembra avere il cittadino, il politico, le istituzioni è alzare le antenne, dubitare, confrontare, distinguere fino a riconoscere e sostenere ciò che è clinicamente, scientificamente attendibile per annientare il virus. Certo è una ricerca che comporta un po’ di fatica: ma in fondo è una fatica che arricchisce, perché è uno sforzo culturale. E del resto non c’è alternativa: perché non hanno ancora inventato le pillole di scienza infusa. Anche se qualcuno tenta di dimostrare il contrario. E soprattutto questo atteggiamento è inevitabile se non si vogliono ripetere gli stessi errori. Come suggerisce il titolo di questo book, che non intende incolpare nessuno, né fare processi: ma solo aiutare a capire dove si è sbagliato per evitare di sbagliare di nuovo. Aiutare a capire che magari, è soprattutto questione di metodo, per dirla con le parole di Alfonso Maria Liquori, una delle più belle menti della chimica e della fisica italiana, prematuramente scomparso: “Questo è il bello della scienza: che le sue evidenze sono sempre scientificamente dimostrabili. La verità scientifica, infatti, a differenza della verità politica, non si basa sulla maggioranza: se una maggioranza sostiene che le foglie degli alberi sono blu e una minoranza che sono verdi, la verità scientifica sta con la minoranza. E grazie al metodo scientifico è sempre dimostrabile”.
CHI PAGA PER QUESTA IMMANE FRODE? E LO STERMINIO? Maurizio Blondet l'1 Giugno 2020. Una settimana. E’ bastata una settimana e lo studio pubblicato su Lancet, che il vostro modesto cronista ha definito ”imbarazzante” – che dimostrava che la clorochina contro il Covid19 uccideva pazienti, sta precipitando in fiamme. Lo studio vanta di aver esaminato le cartelle cliniche di oltre 96 mila pazienti in centinaia di ospedali di tutto il mondo (anche se il 70%, in realtà, da ospedali americani). Il dipartimento sanità australiano, constatato che il numero dei morti citato nello studio era superiore a quelli delle sue risultanze, ha chiesto chiarimenti ai cinque ospedali australiani citati da Lancet . Le direzioni dei cinque ospedali sono cadute dalle nuvole: mai contattati da Surgisphere, la misteriosa startup citata come raccoglitrice dei dati (cartelle cliniche di 90 mila pazienti!), anzi, mai sentita nominare. Richiesta di fare i nomi degli ospedali da cui (a suo dire) aveva avuto i dati, .la Surgisphere s’è rifiutata. Esperti di statistica medica e ed epidemiologica si sono stupiti del fatto che lo studio indicava una mortalità del 16-24% fra i pazienti cui era stata somministrata la clorochina, rispetto al 9% dei controlli. “E’ una dimensione enorme!” Come mai non ce ne siamo accorti? “Non sono molti i farmaci così efficaci nell’ammazzare persone”, ironizza uno. Anche il fatto che lo studio abbia solo 4 autori sembra strano: per 96 mila pazienti in tutto il mondo, in calce all’articolo ci dovrebbero essere una mezza pagina di ringraziamenti a collaboratori sparsi sul globo. Ora dopo ora, si scopre di peggio. La Surgisphere, la startup che avrebbe fatto il grossissimo lavoro di raccolta e digitalizzazione dei dati di 96 mila cartelle cliniche, risulta essere stata messa in liquidazione coatta nel settembre 2015.
Il certificato di liquidazione coatta della Surgisphere. “La società Surgisphere sarebbe stata creata il 1 marzo 2007 dal dott. Sapan Desai, che è uno dei coautori dello studio di The Lancet. Questa azienda sarebbe specializzata in big data e l’uso dell’intelligenza artificiale nell’analisi dei dati. Un’altra società a nome di Sapan Desai, Surgisphere Corporation è stata fondata il 28 giugno 2012 e poi sciolta nel gennaio 2016…Società con lo stesso nome sono state create e cancellate più volte in vari stati per mancata produzione di contabilità”. Quanto al presidente della Surgisphere, Sapan Desai, non risultano al suo attivo quasi nessuna pubblicazione scientifica (salvo qualche scopiazzatura), e invece un giudizio molto negativo di un paziente: “Più uomo d’affari che medico…Very bad experience”.
Insomma un imbroglione. E che dire del primo firmatario dello studio pubblicato da Lancet? Mandeep R. Mehra, è uno specialista sì, ma di cardiologia vascolare; come professore alla prestigiosa Harvard Medical School, è quello che ha dato col suo nome un po’ di lustro allo “studio” della inesistente Surgishpere. Ma intervistato da France Soir, il dottor Mehra conferma la pericolosità estrema della idrossiclorochina (HCQ) per i malati di Covid19, e assicura di aver iniziato “ la raccolta attiva di dati sull’HCQ nel trattamento di COVID-19 dal 20 dicembre 2019”. Ossia in una data in cui il virus era stato a malapena identificato. Insomma un imbroglione anche lui.
Lo studio è risultato pieno di falsificazioni. Il Guardian ha raccontato il fatto, mettendo a segno uno scoop che il resto dei media non sembra desideroso di emulare. Tuttavia, dubbi sulla credibilità dello studio sono stati espressi persino dal New York Times, sicché lo scandalo rischia di diventare da un momento all’altro, nonostante gli sforzi del mainstream di ignorarlo, internazionale. Un LancetGate. Ora, è concreto il sospetto che gli autori siano stati pagati da qualcuno per organizzare questo falso. Ed anche la pubblicazione su Lancet deve essere stata compensata. E profumatamente, se la rivista ha messo in gioco in questa frode il suo antico prestigio. Ma le domande non si possono fermare qui. Con il pretesto di questo articolo edel suo falso allarme, il nostro ministro della sanità, Disperanza da Potenza, ha immediatamente vietato l’uso ospedaliero della idrossiclorochina per il trattamento del Covid; è stato pagato? Quasi c’è da augurarselo per lui, perché se l’ha fatto gratis, conferma di essere un idiota ignorante, uno zombi obbediente roboticamente all’OMS dalla gestione scandalosa. E con ciò si è reso complice dell’immane truffa dolosa che si sta rivelano la questione Covid19, del terrorismo mediatico costruito appositamente a livello sovrannazionale, del progetto di blocco e arresti domiciliari di intere popolazioni, allo scopo di indurle ad invocare la vaccinazione obbligatoria per poter essere liberata e tornare a lavorare – ammesso che trovi ancora il posto di lavoro, nell’economia che questa frode ha devastato. Ora, “Il Covid-19 “dal punto di vista clinico non esiste più”, come ha affermato il primario del San Raffaele di Milano Alberto Zangrillo, direttore della terapia intensiva. “I tamponi eseguiti negli ultimi 10 giorni hanno una carica virale dal punto di vista quantitativo assolutamente infinitesimale rispetto a quelli eseguiti su pazienti di un mese, due mesi fa. Lo […] Non si può continuare a portare l’attenzione, anche in modo ridicolo, dando la parola non ai clinici, non ai virologi veri, ma a quelli che si auto-proclamano professori: il virus dal punto di vista clinico non esiste più”.
Sarebbe da esaminare l’ipotesi che proprio l’autosomministrazione della clorochina a scopo preventivo da parte di milioni di medici e infermieri e personale ospedaliero nel mondo, che si sapevano esposti al contagio, abbia contribuito potentemente a neutralizzare il virus – passato in quegli organismi senza potersi moltiplicare – facendo sparire i malati (con aperta disperazione dei responsabili) prima della messa a punto del vaccino da imporre al genere umano. L’articolo di Lancet potrebbe essere il rozzo, goffo e tardivo tentativo di scongiurare questo esito da parte dell’associazione a delinquere internazionale organizzatrice della pandemia. Ma a questo punto, diventa cruciale l’altra osservazione del dottor Zangrillo: “Terrorizzare il Paese è qualcosa di cui qualcuno si deve prendere la responsabilità. Già. Chi paga? La domanda va estesa. L’economia mondiale è stata bloccata dall’allarme terroristico procurato dall’OMS e dai media, dai “comitati scientifici” che hanno indotto i governi a ordinare di chiudere la popolazione sana (giovanile, capace di lavorare, in cui il Covid19 notoriamente non produce danni gravi) invece di isolare la quota minoritaria veramente in pericolo, gli ultrasettantenni con altre patologie. Chi paga per questo irresponsabile danno all’economia? E finoa che punto è stato consapevole e deliberato? Con la scusa della protezione sanitaria, è stata instaurata l’inaudita dittatura terapeutica globale, con l’imposizione dell’identificazione di ogni persona per mezzo di strumenti digitali.
Chi paga?
In Usa, trenta milioni di disoccupati-. In Italia, uno o due milioni, aziende chiuse per sempre, turismo annichilito per anni, suicidi a catena; aggiungiamo i morti per le terapie sospese a causa della pseudo-pandemia. Chi paga? Chi paga per i divieti assurdi e sadici, le multe pesantissime inflitte ad innocenti innocui, i giochi dei bambini proibiti nei parchi, le violenze dispotiche e arbitrarie alla libertà personale? Chi paga per le schedature, l’intimidazione e la censura di giornalisti che denunciavano la frode, operate dal l noto Centro di Monitoraggio sulla disinformazione relativa al Coronavirus? Un’immane frode sovrannazionale, con complicità nazionali ramificate, dai governi ai media agli “scienziati”, ha distrutto milioni di vite. La Commissione europea ha lavorato ad un certificato di vaccinazione a livello UE dal 2018. Recentemente tutta una serie di politici nostrani, dalla Badanta del Pompetta in sù, si sono schierati per le vaccinazioni obbligatorie dii massa. A che scopo? Imporre la vaccinazione-certificazione liberatoria? Gli esecutori locali li vediamo in tv; e i mandanti chi sono? Perché hanno ordinato freddamente questo criminoso imbroglio e lo sterminio conseguente? Questi hanno commesso un delitto senza precedenti storici, in associazione a delinquere con migliaia di responsabili. C’è qualche giudice che voglia accusarli? Qui da noi no, non abbiamo più una magistratura, ma una palamara. Speriamo (debolmente) in Usa o Regno Unito.
Massimo Falcioni per tvblog.it il 26 maggio 2020. Parole, parole, parole, rafforzate dal senno del poi. Soluzioni a portata di mano, quasi scontate, tanto da pensare a quanto si possa essere stati stolti a non applicarle nell’immediato. I dibattiti televisivi sul coronavirus ci stanno insegnando che tutti avevano capito tutto, con una puntualità che manco un orologio svizzero.
Prendete Atalanta-Valencia, partita da sogno per i tifosi bergamaschi, ma allo stesso tempo divenuta una sorta di bomba del contagio a detta di chi sostiene che sarebbe bastato disputarla a porte chiuse per arginare – se non eliminare – ogni problema. Inutile sottolineare come il match di Champions League del 19 febbraio fosse in programma ben due giorni prima che in Italia venissero registrati i primi casi casalinghi e il primo decesso. Bisognava agire, prendere provvedimenti, afferrare il toro per le corna. Ok, ma in quale contesto? Presto detto. La televisione in tal senso è un preziosissimo archivio. Basta infatti riavvolgere il nastro e tornare a quei giorni per rendersi conto che il tema del contagio era del tutto marginale, se non addirittura assente.
Cominciamo da Quarta Repubblica di lunedì 17 febbraio. Alla data dell’”impatto” mancano quattro giorni e l’apertura del talk di Nicola Porro è tutta per la politica. Sono i giorni dell’alta tensione tra Renzi e Conte e della crisi di governo minacciata da Italia Viva. A tenere banco poi la storia dei decreti sicurezza, dell’immigrazione e del processo a Salvini. Il covid è in scaletta, ma viene circoscritto al continente asiatico. I casi nel mondo sono 71 mila, quasi tutti registrati in Cina. In studio si minimizza: “I morti sono meno di quelli per morbillo”, sussurra Maria Giovanna Maglie. L’unico a fotografare esattamente lo scenario futuro è Alessandro Meluzzi: “Il coronavirus sopravvive sulle superfici, è trasmissibile tra gli asintomatici, tanto da rendere la misurazione della temperatura corporea inutile. La pandemia inesorabilmente arriverà e Paesi come l'Italia saranno fottuti”. Olé.
Il 18 febbraio è il turno di Cartabianca, con la Berlinguer che intervista il ministro Roberto Gualtieri. Attenzione all’inganno: si affronta sì la questione economica legata al virus, analizzando tuttavia le possibili ripercussioni sull’Italia della crisi cinese. “Ad oggi non ci sono elementi di un impatto concreto immediato. E’ assolutamente prematuro, parliamo di una zona limitata, siamo fiduciosi sull’attività delle autorità sanitarie cinesi”. Ad allarmare Gualtieri è piuttosto il testimone lasciato dal precedente esecutivo gialloverde: “Il problema non è l’impatto del virus, ma come affrontare l’eredità di un anno in cui il Paese si è fermato”. Contemporaneamente, a Di Martedì ad accennare al coronavirus è soltanto Enrico Letta all’interno di un lungo intervento incentrato soprattutto sul tema dell’immigrazione. A seguire spazio a Travaglio, Scalfari, Fornero, Cottarelli, Calenda, Senaldi, Damilano per una puntata incentrata su Conte-Renzi, pensioni, vitalizi e i regali di San Valentino.
Arriviamo a giovedì 20 febbraio, ultimo giorno di normalità. Alle 8 ad Agorà dominano sempre Conte e Renzi e le polemiche sulla prescrizione. Il virus è ancora un fatto esclusivamente orientale e Serena Bortone si confronta con l’ambasciatore cinese proponendo filmati sul distanziamento pescati dalla rete, commentati con lo stupore di chi mai avrebbe immaginato di doverci convivere di lì a poco. Non cambia lo spartito nel pomeriggio a Tagadà: c’è Renzi che minaccia di sfrattare Conte da Palazzo Chigi, ci sono le sardine che rifiutano di appoggiare De Luca alle future elezioni regionali in Campania e c’è il coronavirus, confinato però all’interno delle navi in cui ci sono turisti italiani da andare a recuperare con voli speciali. Per l’occasione viene mostrata la mappa del contagio, con i bollini rossi tutti spostati ad est e l’Italia nemmeno segnata sulla cartina. Il sogno prima dell’incubo. Si arriva a sera e l’emergenza sanitaria non trova alcuno spazio all’interno di Piazzapulita che invita Giorgia Meloni e discute di xenofobia e blocchi navali. Sì, c’è il viceministro della salute Pierpaolo Sileri, ma per parlare di disturbi alimentari. Su Rete 4, invece, focus su ‘sardine’, immigrazione, decreti sicurezza, rom e fascismo. “Giusto dare la cittadinanza onoraria a Mussolini nel 2020?”, ci si domanda. Il virus è in scaletta e Del Debbio si collega con la Notte delle Bacchette di Milano, organizzata per solidarizzare con la comunità cinese. “Una bacchettata contro la psicosi, un segnale a non avere paura”, dichiarano i promotori. A notte fonda escono le prime agenzie e Codogno diventa il centro del mondo. Eppure, il mattino dopo a L’Aria che tira l’argomento viene introdotto dopo un’ora di trasmissione. Fabrizio Pregliasco prova a rassicurare tutti: “Ce lo aspettavamo, in Cina non hanno risposto in maniera tempestiva, qui siamo a tre casi. A mio avviso riusciremo a contenere questi numeri”. Gli risponde Myrta Merlino: “In Cina hanno messo in quarantena milioni di persone, ma la Cina è la Cina. Faccio fatica a pensare che in Italia si possano bloccare centinaia di migliaia di persone chiuse in casa”. Come no.
Opinioni e pareri pronunciati tra gli applausi del pubblico che allora ancora invadevano gli studi televisivi. Il primo programma a svuotare la platea sarebbe stato - domenica 23 febbraio alle 19.40 - Che tempo che fa, in seguito alle misure precauzionali prese dalla Rai. Limitazioni rivolte alla Lombardia, che all’inizio marzo avrebbero coinvolto anche gli studi tv del resto d’Italia.
Da ricordare, oltretutto, che nella settimana successiva – il 27 febbraio – Milano avrebbe lanciato l’iniziativa #milanononsiferma, promossa dal sindaco Sala col supporto di qualche volto televisivo.
Ma la colpa, ovviamente, è di chi non ha fermato Atalanta-Valencia.
Dal primo contagiato alla fine del lockdown: quattro mesi (che sembrano lunghi un anno) in quattro minuti. Oggi sono novanta giorni esatti dal primo decreto (numero 6) del premier Conte che stabiliva la chiusura di quei comuni in cui si erano registrati i primi focolai del virus. di AGTW - Antonio Crispino il 23 maggio 2020 su Il Corriere della Sera. Sono trascorsi tre mesi esatti dal primo decreto (numero 6) del premier Conte che stabiliva la chiusura di quei comuni in cui si erano registrati i primi focolai del virus. Da lì in poi c’è stata una sequela impressionante di avvenimenti che sembrano lunghi un anno. Comincia tutto il 20 gennaio, quando viene diffusa la notizia di due turisti cinesi positivi al Coronavirus che alloggiano all’Hotel Palatino di Roma. Il Governo decide poco dopo di chiudere tutti i collegamenti aerei con la Cina. Le immagini degli aeroporti deserti e la lunga liste dei voli cancellati destano scalpore. Ancora pochi giorni e le ricercatrici dello Spallanzani annunciano di aver isolato -per la prima volta in Europa- l’intero genoma del Covid19. È il 2 febbraio. Il Paese tira un sospiro di sollievo, sembra avviato verso una soluzione della pandemia ma venti giorni dopo esplode il focolaio in Lombardia: il «paziente uno» di Codogno costringe le autorità a dichiarare la zona rossa per i comuni del basso Lodigiano. Tra il 7 e l’8 marzo scoppiano rivolte nelle carceri a causa della sospensione dei colloqui con i detenuti. Sono le più gravi che si siano mai registrate in Italia con l’evasione di ben 77 detenuti dal carcere di Foggia. Il 10 marzo l’intera Lombardia viene dichiarata zona rossa e tutta la regione inizia a fare i conti con i controlli delle forze dell’ordine che sanzionano coloro che escono di casa senza un valido motivo. E’ solo l’anticipo di quello che accadrà in tutto il Paese con l’estensione del lockdown e la chiusura di tutte le attività produttive. Il 20 marzo gli italiani tentano una reazione alla quarantena ritrovandosi affacciati al balcone per intonare orgogliosi l’Inno di Mameli. Un tentativo che resiste poco, almeno finché i media non trasmettono le immagini delle colonne di mezzi militari che a Bergamo trasportano centinaia di morti da Covid19 verso i forni crematori. Sempre da quella parte d’Italia arrivano le prime drammatiche testimonianze dei medici, infermieri e farmacisti, una vera e propria trincea. Cesare Maffeis, direttore di alcune residenze sanitarie per anziani in provincia di Bergamo denuncia le difficoltà in cui annaspano: «Siamo costretti a scegliere a chi dare l’ossigeno per mancanza di bombole». Il giorno dopo la Protezione Civile, nella consueta conferenza stampa delle 18,00 annuncia il picco di morti: 969. Immagini potenti, come la preghiera di Papa Francesco in una piazza San Pietro deserta o quelle del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, da solo davanti all’Altare della Patria nel giorno del 25 aprile, giorno della Liberazione. Nel frattempo in tutto il Paese montano le proteste dei commercianti costretti alla chiusura e si allungano le code davanti al Monte dei Pegni di Torino e Roma. L’Italia spera nel vaccino tra una ricerca di una mascherina e le lunghe code ai supermercati. Si guarda con interesse a quello che accade ad Oxford dove un team di ricercatori - di cui fanno parte anche tre italiani - annunciano di aver sperimentato un possibile antidoto su un ragazzo australiano: Edward O’Neill. Il 27 aprile il premier Conte arriva per la prima volta in Lombardia da quando è scoppiato il virus e lo fa per annunciare l’avvio della Fase 2: «E’ la fase di convivenza con il virus non di liberazione dal virus. Non ci sono le condizioni per ritornare alla normalità». Nei giorni successivi, invece, proprio a Milano si registrano assembramenti nei parchi e nei luoghi della movida. Le ultime immagini sono datate 18 maggio quando riaprono le prime attività. Riaprono anche le chiese dopo le opportune operazioni di sanificazione: uomini bardati con tute bianche che purificano gli altari e le statue dei santi.
LA VERITÀ PER POTERSI GUARDARE ALLO SPECCHIO. A nessuno può essere consentito di far passare per morto di raffreddore chi è vittima del Covid-19. Roberto Napoletano il 9 aprile 2020 su Il Quotidiano del Sud. Non sappiamo come dirlo. Noi vogliamo solo che l’Italia possa tornare a guardarsi allo specchio. Soprattutto che possa ritrovarsi unita davanti a quello specchio. Perché ciò accada, a nessuno può essere consentito di fare morire di raffreddore chi è morto di Covid 19. Non è consentito a nessuno di nascondere i morti. Non è consentito a nessuno di fare passare i martiri come eroi. Sono eroi certo tutti, i nostri medici e i nostri infermieri, ma una parte di loro qualcuno li ha mandati a morire. Siamo ancora in piena emergenza e, per questo, non vogliamo alimentare polemiche. Chiediamo solo conoscenza e verità e le chiediamo subito perché non ci siano nuovi martiri. Il secondo report dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS) sui decessi nelle case di riposo degli anziani elenca i dati regione per regione dal 1° febbraio al 6 aprile e rivela numeri agghiaccianti. Non solo i morti reali per Covid nelle case di riposo per anziani risulterebbero in Lombardia potenzialmente 14 volte di più di quelli dichiarati – che sono di loro un’anomalia mondiale – ma soprattutto si scopre che con sintomi simil-influenzali nello stesso periodo in Lombardia sono scomparse 874 persone contro le 152 dell’Emilia-Romagna, le 109 del Veneto, le 9 dell’Umbria, le 7 della Sicilia, le 4 della Campania, addirittura 1 in Puglia. Per nessuna di queste persone è stato possibile fare il tampone e accertare quindi se avevano o meno contratto il Coronavirus e i numeri regione per regione sono il frutto delle risposte fornite dal 27% delle strutture sanitarie interpellate che sono a loro volta il 90% del totale nazionale. Dal ché se ne deduce:
a) l’abnormità assoluta della differenza di decessi per lo stesso motivo (sintomi influenzali) tra una regione e l’altra pone interrogativi sui numeri veri dei morti da Covid 19, sulla gestione dell’emergenza sanitaria e sul coinvolgimento delle case di riposo nei singoli territori;
b) i numeri finali ancorché terribili potrebbero esserlo molto di più perché riguardano un’autocertificazione che esprime comunque meno di un terzo dei dati nazionali.
Anche a tenere conto del tasso di mortalità Covid19+sintomi influenzali, in termini percentuali, il tasso della Lombardia è più del doppio dell’Emilia-Romagna e sei volte di più del Veneto. Massima comprensione per chi ha affrontato una tragedia senza pari. La solidarietà del Paese non è mancata. I pazienti della Lombardia curati in ospedali pubblici di Sicilia, Calabria, Puglia sono tutti guariti o in via di guarigione. Questa è l’Italia che vorremmo rivedere unita davanti allo specchio. Libera dalle ombre del pregiudizio e dalle ipocrisie da talk. Soprattutto di chi meglio di tutti dovrebbe conoscere la realtà ma finge di sorprendersi per auto-legittimarsi. Miserie umane.
Coronavirus, i documenti che inchiodano Conte: primi casi a gennaio, il governo pensava a Sanremo. Alessandro Gonzato il 28 marzo 2020 su Libero Quotidiano. Il Coronavirus stava per travolgerci. Il governo era al corrente del pericolo ma litigava per il festival di Sanremo. Queste, in sintesi, le tappe che hanno portato al disastro. Cinque gennaio 2020. Il ministero della Salute invia un documento di tre pagine all' Istituto superiore di Sanità, all' ospedale "Sacco" di Milano, allo "Spallanzani" di Roma, ad altri sei dicasteri e a una pletora di enti. Il titolo è inquietante: «Polmonite da eziologia sconosciuta». Eziologia, parliamo il linguaggio della gente, significa lo studio delle cause delle malattie. Il governo, dicevamo, in sostanza comunica che in Cina la situazione sta sfuggendo di mano. Cinque gennaio 2020, lo stesso giorno: Cinque Stelle, Pd, Italia Viva e Leu - i partiti che formano l' esecutivo - preferiscono protestare con la Rai per la possibile esclusione dal "festival dei fiori" della giornalista palestinese Rula Jebreal. La sinistra fa fronte comune. Il ministro grillino per il sotto-Sviluppo economico Patuanelli è infuriato: «Siamo al paradosso: non si vuole trasformare la manifestazione in una tribuna politica ma si opera una scelta di esclusione preventiva, detta anche censura». E che cazzo! Protesta anche l' ex presidente della Camera Boldrini. La nota del ministero, 47 giorni prima dell' ufficializzazione del caso numero uno di "Corona" in Italia, chiarisce anche i sintomi provocati dal Covid-19, ma il testo, a Palazzo Chigi, non se lo fila nessuno, e quand' anche qualcuno se lo fosse filato il risultato è che tre mesi dopo contiamo i morti col pallottoliere. Conte è impegnato a flirtare con le "sardine". Di Maio esulta per la cancellazione della prescrizione. Renzi freme per mandare a processo Salvini. Il problema, in Italia, è il razzismo. Da lì a un mese i "compagni", ancora indifferenti all' arrivo della più grande sciagura dal dopoguerra, insulteranno Zaia, Fontana e i colleghi del Nord per aver chiesto una mini quarantena per gli studenti rientranti dalla Cina. Ventotto febbraio. Enrico Bucci, professore di biologia dei sistemi alla Temple University di Filadelfia, sul suo blog "Cattivi Scienziati" evidenzia che nell' ultima settimana del 2019, all' ospedale di Piacenza - a pochi chilometri dal focolaio di Codogno - c' erano già stati 40 ricoveri per polmonite, «un picco assolutamente anomalo e già all' epoca giudicato eccezionale e indipendente da inquinanti o altre condizioni specifiche. Retrospettivamente» aggiunge il professore nell' analisi pubblicata un mese fa «sulla base di ciò che sappiamo dei sintomi causati dal Coronavirus, la cosa non poteva che destare ovvi sospetti: e infatti è risultato che molti "vecchi" pazienti di polmonite oggi presentano anticorpi contro il Coronavirus, a dimostrazione del fatto di essere stati a suo tempo infettati». Sono i giorni in cui il portavoce di Rocco Casalino, l' avvocato di Volturara Appula, va dicendo che il Covid-19 al massimo ci farà il solletico. Di Maio si prepara a chiamare "Vairus" il virus. Ai primi di febbraio l' Istituto superiore di sanità si riunisce almeno tre volte. Alle riunioni, lo riporta il Fatto Quotidiano, partecipa anche il professor Antonio Pesenti, direttore di rianimazione al Policlinico di Milano, il quale avvisa che in caso di contagio le terapie intensive andranno in sofferenza: purtroppo è stato facile profeta. Nel frattempo il ministro dell' Economia Gualtieri annuncia: «Vedrete che il Pil salirà». Previsione azzeccata Robbè! Veniamo a oggi. Il sito dell' università di Padova dà notizia di uno studio firmato da 16 ricercatori in base al quale il primo caso confermato di Covid-19 in Lombardia risalirebbe al primo gennaio. Gli autori, coordinati da Danilo Cereda (dg Welfare della Regione Lombardia), Marcello Tirani (Agenzia per la tutela della salute di Pavia) e Francesca Rovida (Policlinico "San Matteo" di Pavia), riportano l' analisi dei primi 5.830 episodi confermati di Covid in Lombardia dall' inizio dell' anno all' 8 marzo. Il lavoro è disponibile su ArXiv, un database ad accesso libero che comprende opere di ricerca nella versione in cui sono state sottoposte alla revisione delle riviste scientifiche. Degne di nota, soprattutto alla luce della tragica mancanza di mascherine (il governo era impegnato a guardare Morgan e Bugo) anche le analisi dei tamponi nasali, che per i ricercatori non mostrano differenze di carica virale tra sintomatici e asintomatici, confermando che entrambe le tipologie di pazienti sono in grado di trasmettere allo stesso modo l' infezione. Il ministro Boccia, qualche giorno fa, si è presentato in conferenza stampa con una mascherina a penzoloni per prendere per i fondelli l' assessore lombardo Gallera. In realtà ha preso per il culo un intero Paese.
Francesco Borgonovo per “la Verità” il 23 marzo 2020. Gli anticorpi nessuno li aveva. Dal primo all' ultimo, non eravamo pronti, non potevamo esserlo. Il Covid-19 ci ha tirato un primo pugno blando, come per studiarci, poi si è ritratto soltanto per assestarci il cazzotto più forte, quello del ko. Tutti siamo rimasti storditi, con le gambe molli. Abbiamo provato a reagire, e abbiamo sbagliato, ognuno a modo suo. Abbiamo fatto casino noi giornalisti, trascinando i lettori su e giù per le montagne russe dell' ansia. Hanno contribuito gli «esperti», bisticciando fra loro. Non ci hanno capito nulla i politici di ogni colore, compresi quelli che non hanno responsabilità di governo, come Matteo Salvini che prima invitava a chiudere poi spingeva a riaprire. Talvolta, stravolti dalla pressione, hanno sbagliato gli amministratori e le associazioni di categoria. Ha sbagliato - confusa e imbambolata - un' intera nazione, forse perché, in certi momenti, si è abbandonata alla voce suadente che le sussurrava: «Non sta capitando qui, non davvero, è solo un brutto sogno». Però ci sono due modi per sbagliare: con colpa e con dolo. Poiché la confusione l' abbiamo alimentata tutti, siamo comunque colpevoli. Qualcuno, tuttavia, ha consapevolmente insistito nel tentativo bieco di accrescere il proprio capitale politico. La colpa può essere lavata via; il dolo invece rimane. E di chi ha sbagliato con dolo - per arroganza o brama di potere - dovremo avere memoria. Sulla Stampa, Beppe Fiorello ha scritto che «quando tutto questo sarà finito ci sarà necessità di un giorno del ricordo». Le giornate gonfie di retorica ci piacciono poco. Ma quando tutto questo sarà finito, di qualcosa ci ricorderemo senz' altro. Anzi, di qualcuno. Ci ricorderemo del ministro per gli Affari regionali, Francesco Boccia. Ci rimarrà stampata in testa la sua pagliacciata con la mascherina farlocca penzolante da un orecchio, un gesto spaccone fatto per insultare l' assessore lombardo alla Sanità, Giulio Gallera. Quest' ultimo si è lamentato perché la Protezione civile gli aveva inviato mascherine di carta igienica da distribuire negli ospedali. Boccia gli ha fatto il verso tra gli sghignazzi di Angelo Borrelli, evanescente capo della Protezione civile. Il ministro, in questo modo, ha offeso non solo la giunta lombarda, ma tutti coloro che rischiano la pelle lavorando privi delle necessarie protezioni. Boccia ha poi cercato di giustificarsi mentendo: «La mascherina che ho indossato durante la conferenza stampa è del tipo che indosso quotidianamente». Peccato che decine di foto lo smentiscano. Forze politiche di destra e di sinistra hanno chiesto le sue dimissioni, ma Boccia - non pago - ha rilasciato un' intervista al Corriere della Sera da cui trasudava spocchia. «La cattiveria è negli occhi di chi guarda», ha detto. Poi ne ha approfittato per bastonare di nuovo l' opposizione: «Le critiche dei sindaci leghisti sono ingenerose. Se non ci fosse lo Stato sarebbero crollati». Curiosa visione del mondo: lui è libero di insultare chi si ammazza di fatica, ma se qualcuno osa criticarlo, reagisce con la da bestia ferita. Tira in ballo lo Stato, il caro Boccia. Lo Stato che oggi boccheggia pagando anni di austerità feroce. Come quelle praticate a suo tempo da Mario Monti, lo stesso che negli ultimi giorni si è permesso di rifilarci lezioncine sul fatto che «serve più Europa» per salvarsi dall' epidemia. Ci ricorderemo di come Monti ha difeso le scriteriate frasi della presidente della Bce Christine Lagarde («Non siamo qui per ridurre gli spread»), nonostante i danni pazzeschi che hanno provocato. Sì, ci ricorderemo di tutti e due. Terremo a mente pure le intemerate di Giorgio Gori e di Giuseppe Sala, sindaci pd di Bergamo e Milano. Ci ricorderemo di quando invitavano la popolazione ad affollare i ristoranti cinesi, e si preoccupavano di combattere «la discriminazione» invece di correre ai ripari. Faremo un pensiero ai loro ripetuti inviti a «ripartire» che hanno dato forza all' epidemia. Vero, sbagliare si poteva. Ma questi sindaci ne hanno approfittato per fare polemica con la «destra razzista» e, pur di fronte alla drammatica evidenza, hanno accuratamente evitato di scusarsi. Ne avremo memoria. Ci rammenteremo anche di Gad Lerner che, nel pieno del disastro, accusava Luca Zaia di essere un razzista. Di Massimo Giannini, secondo cui «l' untore è Matteo Salvini». Quando sarà finita, la Storia dovrebbe avere già sepolto le sardine, ma se per qualche curioso ricorso così non fosse, ci ricorderemo anche di Mattia Santori e dei suoi, che proposero di combattere il virus «con gli anticorpi della cultura», che venerdì insistevano a dire che «il razzismo è un virus» e ieri avevano ancora il coraggio di sostenere che gli italiani «sono in cerca di un nemico» ma «il prossimo nemico siamo tutti». No cari, il nemico siete voi e le vostre scemenze. Cretinate come quelle di cui si è reso protagonista Nicola Zingaretti, il re degli aperitivi, e con lui tutti i giornalisti e gli attivisti che corsero ad ingozzarsi di ravioli e involtini primavera. Avremo pensieri per costoro, a partire da Romano Prodi, che si complimentò con Pechino per la gestione della crisi, e dal governatore toscano Enrico Rossi che si accordò con il consolato cinese per battere la discriminazione, e intanto il contagio avanzava. Ci ricorderemo di Laura Boldrini, che accusava la destra di «sciacallaggio» e mentre l' epidemia imperversava si è inabissata, uscendo saltuariamente solo per ricordarci «la dignità dei migranti». Terremo a mente lei e i suoi amici delle Ong che - con rare eccezioni - hanno continuato imperterrite a celebrare l' accoglienza anche nei giorni del panico. Ci ricorderemo del governo, del ministro Lucia Azzolina che voleva tenere aperte le scuole «luogo di inclusione» e del ministro Fabiana Dadone che voleva cogliere l' opportunità per rendere permanente lo smart working. E soprattutto ci ricorderemo di lui, di Giuseppe Conte. Dei suoi maglioncini e delle sue inutili conferenze stampa notturne, delle sue smargiassate («siamo i primi in Europa») e della sua smania di apparire, delle sue risposte tronfie alle Regioni, dei suoi decreti pasticciati, delle sue retromarce e ripartenze, del suo rifiuto di nominare un commissario. Quando sarà finita - perché finirà - ci ricorderemo del virus, dei nostri errori, delle nostre colpe. Non cercheremo nemici per assolverci, no. Ma il dolo non si perdona e l' arroganza ancora meno.
Coronavirus, l’errore più grande di Conte è stato fidarsi di noi. Antonio Scarpata il 22/03/2020 su Notizie.it. Coronavirus, l’errore più grande di Conte è stato fidarsi di noi. L'ultimo decreto annunciato da Conte potrebbe essere il colpo mortale per la nostra economia. E, forse, tutti noi avremmo potuto evitarlo. Dopo una nuova, lunga giornata segnata da dati drammatici sul piano dei contagi e dei morti da coronavirus, nella tarda serata del 21 marzo 2020, Giuseppe Conte irrompe con il suo terzo discorso in pochi giorni nelle case degli italiani. Al di là delle novità annunciate però, il premier appare fin da subito diverso da quello visto nei precedenti interventi.
Coronavirus, il discorso di Conte. Facciamo un passo indietro e torniamo all’11 marzo, quando Conte annuncia la chiusura di tutte la attività commerciali non essenziali, causa di inevitabili assembramenti. Nel suo intervento il premier fa leva, energicamente e sin da subito, sui sentimenti. Quelli attorno ai quali ci si stringe in un momento come questo: lo spirito di sacrificio, il senso di gratitudine e l’orgoglio nazionale. Conte spinge sull’emotività ringraziando i medici, gli infermieri ed esaltando l’abnegazione dei cittadini di fronte alla crisi: “L’Italia, possiamo dirlo forte e con orgoglio, sta dando prova di essere una grande nazione, una grande comunità unita e responsabile. Io ho una grande convinzione, vorrei condividerla con voi: un domani ci guarderanno come esempio positivo di un Paese che grazie al proprio senso di comunità è riuscito a vincere la sua battaglia contro questa pandemia”.
Dieci giorni dopo, lo scenario appare radicalmente cambiato. I contagi e le vittime nel Paese sono tragicamente aumentati, così come le persone in giro per le città e fuori dalle proprie abitazioni. Gli effetti che si attendevano dalle prime misure, sembrano ancora lontani. Così diceva Conte, sempre l’11 marzo: “Il risultato di questo nostro grande sforzo potremo vederlo solo tra un paio di settimane. Se i numeri dovessero continuare a crescere – cosa niente affatto improbabile – non significa che dovremo affrettarci a varare nuove misure. Non dobbiamo fare una corsa cieca verso il baratro”.
Due settimane non sono nemmeno passate e Conte è costretto ad arrendersi firmando un decreto che sa di colpo di grazia a un Paese dall’economia già a pezzi. È l’ultimo decreto che avrebbe voluto firmare. La figura che ci si pone davanti è quella di un leader stanco e meno lucido delle volte precedenti. Stavolta non c’è spazio per preamboli, citazioni, frasi fatte, ringraziamenti e celebrazioni. I sette minuti del discorso di Conte hanno dal primo momento il sapore di uno schiaffo in pieno volto, di una verità sbattuta in faccia che troppi italiani continuano però esecrabilmente a ignorare: “Buonasera a tutti. Fin dall’inizio ho scelto la linea della trasparenza, ho scelto di non minimizzare. Di non nascondere la realtà che ogni giorno è sotto i nostri occhi. Ho scelto di rendere tutti voi partecipi della sfida che siamo chiamati ad affrontare. È la crisi più difficile che il Paese sta vivendo dal secondo dopoguerra. In questi giorni durissimi siamo chiamati a misurarci con immagini e notizie che ci feriscono. La morte di tanti concittadini è un dolore che ogni giorno si rinnova. Questi decessi per noi, per i valori con cui siamo cresciuti, non sono semplici numeri. Quelle che piangiamo sono persone, sono storie di famiglie che perdono gli affetti più cari. Le misure fin qui adottate, l’ho già detto, richiedono tempo. Sono misure severe, ne sono consapevole. Ma non abbiamo alternative. Dobbiamo resistere”.
Conte va subito al dunque e prosegue rivolgendosi, con chiarezza e per la prima volta, a chi non fa la propria parte favorendo la diffusione del virus: “Il nostro sacrificio di rimanere a casa è peraltro minimo se paragonato al sacrificio che stanno compiendo altri concittadini. Negli ospedali, nei luoghi cruciali per la vita del Paese, c’è chi rinuncia e chi rischia molto di più. Penso ai medici, agli infermieri, alle Forze dell’Ordine, alle Forze Armate, agli uomini e alle donne della Protezione Civile, ai commessi dei supermercati, ai farmacisti, agli autotrasportatori, ai lavoratori dei servizi pubblici e anche ai servizi dell’informazione. Donne e uomini che non stanno semplicemente andando a lavorare, ma compiono ogni giorno un atto di grande responsabilità verso l’intera nazione”.
Il premier tradisce (comprensibilmente) stanchezza. Così sarebbe per il leader di qualunque fazione politica si trovasse al suo posto, catapultato a gestire una tale emergenza. Una sensazione che trova conferme quando, ancora una volta, Conte si vede costretto a ribadire l’inutilità di riversarsi in massa nei supermercati. Nel suo discorso viene meno l’empatia, il tono si appiattisce e ai consueti appelli alla fiducia e all’unione d’intenti si accompagnano, per la prima volta, note di insofferenza e velata irritazione. Alcuni ritengono la decisione del governo sacrosanta e basta. In molti la considerano giusta ma tardiva. Corretta o sbagliata, puntuale o meno, resta un interrogativo: se avessimo tutti, sin dall’inizio, rispettato le regole, rinunciando ad aperitivi, feste di laurea, fughe di massa e corse al parco con gli amici, saremmo davvero arrivati fino a questo punto?
A futura memoria: dopo la quarantena non dimenticate queste categorie nocive. Da elzeviro.eu l'8 febbraio 2020. Minimizzatori, sbruffoni, antirazzisti paranoici, benaltristi, incompetenti e soprattutto neoliberisti: quando la quarantena sarà terminata, non commettiamo l’errore di dimenticare i responsabili e i complici di una crisi che sarà più sanguinosa del dovuto. Loro, afflitti dai sensi di colpa, stanno già dissimulando. La corrente maggioritaria dell’opinione pubblica sostiene che questo non sia il momento opportuno per critiche o battibecchi. Stando alla vulgata più diffusa infatti, dovremmo sedare tutti quanti la nostra vis polemica, aspettare l’uscita dalle secche e dare spazio, nel frattempo, a sentimenti quali solidarietà, empatia, condivisione e responsabilità. Insomma: l’unione fa la forza, uno per tutti e tutti per uno ecc. Prospettiva del tutto condivisibile in linea di principio, non c’è ombra di dubbio. Purtroppo però, recidere di netto il nostro senso critico per un periodo di tempo apparentemente prolungato (e che potrebbe protrarsi ben più in là rispetto al termine previsto dal decreto), esporrebbe ad un rischio da non sottovalutare. Un rischio stavolta non frutto di un contagio virale, bensì di un handicap congenito che affligge la maggior parte della popolazione: l’assenza di memoria a lungo termine. Un esercizio mnemonico.
Così sentenziava Nicola Zingaretti prima di essere contagiato. Il senso di responsabilità di cui sopra pertanto, non può e non deve escludere un dibattito critico e costruttivo sugli errori marchiani commessi nelle settimane passate; anzi, è necessario che lo includa. Nessuno scaricabarile, nessuna gazzarra, nessuno sciacallaggio mediatico, nessuna aggressione verbale finalizzata alla riscossione di profitto elettorale. Semplicemente, non si può permettere che una volta tornati alla normalità, il tempo ci conduca ad archiviare tutto con una stretta di mano e qualche pacca sulle spalle.
Chi tenta di orientare il dibattito pubblico con il proprio attivismo, chi opera nel settore mediatico e soprattutto chi detiene il potere politico ed economico, ha il dovere di essere sottoposto al giudizio popolare, così come di subire le conseguenze derivanti dal proprio ruolo. Un ruolo che, ça va sans dire, impone delle responsabilità superiori alla media.
Le sardine e il virus del razzismo. Così è bene che, quotidianamente, venga speso qualche minuto per ricordarsi di alcuni individui che condividono questo isolamento forzato con noi. Al termine della quarantena nazionale, ad esempio, vorreste per caso esservi dimenticati dei minimizzatori seriali? Quei soggetti spavaldi che, con estrema sicumera e strafottenza, sminuivano ogni forma di allarmismo anziché invitare alla massima cautela (quanto mai doverosa di fronte ad un virus di nuova formazione sconosciuto alla scienza medica)? Il dietro-front di Santori and co. All’interno di questa categoria c’è un palinsesto piuttosto vasto. Ci si può imbattere nell’ormai conclamato infantilismo analitico delle sardine, con cui Santori e compagnia hanno inquinato l’approccio al Covid-19. Un esercizio retorico – figlio della jihad politicamente corretta dei progressisti occidentali – al quale si sono accodati esponenti politici e testate mediatiche, riassumibile nel motto “il virus più pericolo è il razzismo”. In questo modo, le uniche proposte partorite per contenere il potenziale contagio sono state: “abbraccia un cinese”, “un aperitivo contro il virus”, “l’unica mascherina utile è la cultura”. Il risultato di socialità impegnata e buoni sentimenti? Il virus c’è eccome e anche il populismo – qualsiasi cosa significhi – pare non passarsela tanto male.
La Gismondo e la “semplice influenza”. Se alle sardine e a qualche giornalista/politico altrettanto sprovveduto, può essere tuttavia concesso l’alibi dell’ignoranza scientifica (pur trattandosi degli stessi energumeni che da mesi invocano la tecnocrazia dei competenti), questa giustificazione, al contrario, non può essere certo accordata nei confronti di taluni esperti del settore. Epidemiologi e virologi che, vuoi per approccio sbrigativo, vuoi per un’oncia di visibilità, hanno derubricato il virus ad una “influenza un po’ più seria”. Su tutti, impossibile dimenticarsi della dottoressa Maria Rita Gismondo, assurta a simbolo totemico del centro-sinistra dopo aver ridicolizzato gli allarmisti con sentenze lapidarie quali “a me sembra una follia” questa emergenza o “nell’arco di una settimana non ne parleremo più”. Frasi per le quali entrò in rotta di collisione con il più noto collega Roberto Burioni (non a caso, scaricato in fretta e furia dalla stessa area che lo aveva portato in palmo di mano per anni), il quale contestò alla responsabile del Sacco un approccio irresponsabile e frettoloso: il resto è storia. E coloro che la idolatravano, oggi, hanno i polpastrelli consumati a suon di hashtag #restateacasa.
“E allora il cambiamento climatico?!” Un elenco già corposo, che nonostante tutto è solamente ai titoli di testa. Dopo i virologi dell’antirazzismo e i minimizzatori, una rapida menzione è imprescindibile anche per una nicchia sì ristretta, ma espressione di un fanatismo con pochi precedenti: i talebani ambientalisti. Nei giorni in cui il contagio iniziava già seminare ricoveri a macchia d’olio – oltre ai primi decessi – alcuni sacerdoti green non hanno perso occasione per ridicolizzare nuovamente una causa sacrosanta. Il benaltrismo ha toccato vette himalayane, sintetizzabili con l’assunto “il cambiamento climatico ha fatto molti più morti del coronavirus”; un commento talmente inappropriato nella forma e nei contenuti da non meritare altro se non indifferenza. Se già lamentare scarsa attenzione mediatica nell’anno I Dopo Greta (in cui l’ambiente è stato costantemente in prima pagina) sottende un egocentrismo da prime donne, farlo rivendicando una presunta priorità su un’emergenza così poco conosciuta, così devastante e così (si spera) temporalmente circoscritta, significa non possedere il benché minimo senso della realtà. Senza considerare inoltre come uno dei pochissimi effetti collaterali positivi di questo blocco, sia proprio una drastica riduzione delle emissioni di Co2. Anziché farneticare, rivendicando la proprietà del proscenio, sarebbe molto più utile spendere questo tempo per riflettere. Come mai un virus è stato capace di fare in due settimane quello che un movimento così polarizzante ed incensato da istituzioni e media non è riuscito a fare in un anno? Semplice, perché il virus è indirettamente intervenuto sulle principali cause di inquinamento, completamente ignorate dalle istanze degli ambientalisti pop: globalizzazione e sistema produttivo capitalista.
Le comiche dell’esecutivo. Infine, eccoci giunti al tasto dolente, rappresentato da coloro che ci hanno governato. In primis, i vertici istituzionali in carica, i quali hanno gestito la crisi a suon di piroette, dietro-front, capovolgimenti di fronte, dichiarazioni contraddittorie all’interno della stessa giornata, provvedimenti a singhiozzo e contrasto con gli enti locali. Una tale balbuzie programmatica e comunicativa da aver fatto storcere il naso anche a molti sostenitori del Conte-bis. E persino a qualche suo membro. Si è iniziato, anche in queste sedi, con la preoccupazione che le misure di contenimento potessero degenerare in una deriva di razzismo: e così niente quarantene coatte per chi tornava dalla Cina e niente controlli sugli scali aerei. Fino allo sbarco dei primi due turisti infetti, provenienti nientepopodimeno che da Wuhan. A quel punto la spavalderia è stata sostituita dal legittimo timore di averla fatta fuori dal vaso, con conseguenti stop ai voli, tamponi e prime zone rosse dopo il focolaio di Codogno. La proverbiale chiusura della stalla a buoi già scappati. Dopodiché è stata una comica allo scoperto. Non contento del danno iniziale, il governo ha temuto che le misure potessero danneggiare eccessivamente l’economia; così ha invitato ad un ritorno alla calma e all’ordinarietà, sostituendo la diffusione dei dati sui contagi con quella delle guarigioni. L’ultima di una serie di scelleratezze, che ha prodotto l’impennata finale e costretto ad un valzer di toppe a giorni alterni, iniziato con il “scuole chiuse, poi aperte, poi chiuse” e (non ancora) terminato con il decreto che dichiara l’Italia intera “zona protetta”.
Il criminale per eccellenza: il neoliberismo. In secondo luogo, viene poi la categoria più meschina. Quella di cui nessuno di noi, una volta tornati alla normalità, dovrà dimenticarsi a qualunque costo. Una categoria ben più virulenta e contagiosa del covid-19 stesso. Si tratta di quella classe dirigente, di quei partiti e di quei centri di potere (accompagnati da media conniventi e sostenitori vari) che hanno reso possibile il nostro ingresso nella tenaglia europea, ovverosia la pietra tombale dello stato sociale italiano. Oggi si stracciano le vesti di fronte all’impotenza del nostro sistema sanitario, all’insufficienza dei posti in rianimazione, al personale ridotto all’osso. Oggi si stracciano le vesti per farvi dimenticare che la responsabilità di questo crimine grava sulle loro spalle.
La redenzione di Alan Friedman. Avendo aderito supinamente alle regole comunitarie ed ai vincoli di bilancio imposti dall’UE, il nostro sistema sanitario, a fronte di un avanzo primario nazionale (volgarmente il saldo tra spesa pubblica e tasse) di 700 miliardi dal ‘95 in poi, ha visto: un taglio di 37 miliardi negli ultimi 10 anni, la chiusura di 200 ospedali e 359 reparti, la perdita di 70.000 posti letto (3,2 ogni 1000 abitanti contro i 6 della Francia e gli 8 della Germania), 42.888 professionisti a tempo indeterminato ed un investimento pro capite per la salute di 2.545 euro contro i 5.056 della Germania. Perciò, se oggi siamo costretti a scegliere chi salvare tra vite di serie A e vite di serie B e se siamo costretti ad elemosinare qualche miliardo di deficit – per far fronte ad una calamità economica che meriterebbe investimenti ben più drastici – la colpa è solo loro. Ricapitolando, ora è il momento della responsabilità e della solidarietà. Ma quando la quarantena sarà finita non dimenticatevi di tutte queste categorie, che oggi nascondono i cocci sotto il tappeto. Non fatevi ingannare dai #restiamoacasa, o dalle imprecazioni contro le misure di austerità. Loro faranno finta di nulla: si muoveranno come noi, respireranno come noi e parleranno come noi, ma voi non dimenticate. A futura memoria!
Propaganda. Gianfrancesco Turano il 23 marzo 2020 su L'Espresso. Una lettrice fa una domanda semplice. Se un novantenne malato di cancro finisce sotto un camion, è morto di tumore o per incidente stradale? Muore per il camion o con il camion? Nulla di peggio delle domande semplici perché obbligano a una risposta semplice. Il nesso più importante per capire il Corona virus è la causa della morte. Il Covid-19, d'accordo. Ma perché l'Italia paga il prezzo più alto e la Lombardia un dazio spropositato? Questa è una domanda complessa che consente le risposte più varie, dalla più sincera (non si sa) a quelle concepite per offrire un effetto placebo all'ansia collettiva. Allora proviamo a verificare i punti forti della costruzione propagandistica (su RdC la parola narrazione è bandita) sul virus, tenuto presente che la prima vittima di una guerra è la verità e che la mistificazione del nesso causa-effetto è strumento di regno.
1. L'Italia è un esempio per il mondo ed è all'avanguardia nella risposta contro il Corona virus. L'Italia non è all'avanguardia di nulla e c'è una bella differenza fra essere avanguardia ed essere le cavie umane del globo con migliaia di vecchietti, e non solo vecchietti, che avranno pure avuto tumori, cardiopatie e insufficienze renali ma sono stati comunque ammazzati dal camion.
2. Il sistema sanitario lombardo, con il suo misto di pubblico e privato, sta confermando la sua eccellenza. Il sistema sanitario lombardo nella parte pubblica è stato destrutturato quanto e, forse in relazione ai parametri economici complessivi delle regioni, anche più che nel resto d'Italia. Un esempio su tutti: i medici di base, sia vicino all'epicentro sia in aree periferiche, non sono stati protetti come non sono stati protetti i sanitari di prima linea. Niente maschere, niente guanti, niente di niente. Solo oggi, afferma il commissario Arcuri, e solo dopo un mese abbondante le mascherine saranno consegnate ai combattenti della sanità. Loro stessi, e loro malgrado, hanno fatto da cassa di risonanza al contagio pagando un prezzo altissimo. Emergenza a parte, provate a mettervi in lista d'attesa per un'operazione di ernia inguinale o di cataratta nelle strutture pubbliche.
3. È colpa dei cittadini. Questo è il classico fattoide. Si assumono alcuni comportamenti obiettivamente, soggettivamente e forse inevitabilmente irresponsabili, e si sostituiscono alla causa principale, che è la risposta lenta e inadeguata del sistema sanitario al di là dei mille eroismi individuali. Il lockdown dell'11 marzo per ora non ha portato risultati, salvo un piccolo rallentamento nei dati di ieri, da confermare in tendenza. Soltanto adesso ci si accorge che vanno bloccati decine di piccoli cantieri edili a Milano. Su molte imprese che rifanno facciate e ristrutturano attici senza condizioni di urgenza si è chiuso prima un occhio e poi l'altro. La Confindustria, ente inutile ma nocivo, continua a lamentarsi delle restrizioni alla libertà d'impresa.
4. Si ammalano solo i vecchi. L'età media dei positivi è 63 anni, in calo. Anche sull'età dei deceduti ci sono segnali di ribasso. Nella conferenza stampa di sabato 21 marzo Silvio Brusaferro, presidente dell'Iss, ha parlato di un'età media di poco inferiore agli ottant'anni, senza specificare meglio. La cosa è passata inosservata ma una settimana fa, lo stesso Brusaferro aveva parlato di 80,3 come età media dei morti. Se si verifica il bollettino bisettimanale dell'Iss si trova conferma del fatto che l'età dei positivi sta scendendo. La tabella del 12 marzo dava un aggregato del 78,3% di casi nelle due fasce dai 70 agli 89 anni. Una settimana dopo (bollettino Iss del 19 marzo) la somma è del 76,6%. Dai 69 anni in giù si passa dal 10% del 12 marzo al 14% del 19. L'aumento è ancora più significativo se proiettato da una proporzione a numeri assoluti in grande crescita ( da 81 a 429 casi “sotto fascia” in sette giorni). Ieri è morto un altro trentenne, a Roma, senza altre patologie salvo quella di lavorare in un call center con lo spazio dei polli da batteria.
5. Gli altri paesi calcolano in modo diverso oppure hanno politiche di contenimento differenti. Questo è spesso un fatto che, però, viene utilizzato per fare del sistema italiano l'unico virtuoso e da imitare. Prova ne sarebbe che altri paesi lo stanno usando. Ma altri paesi invece no, non lo stanno usando e, se non stanno imbrogliando come un po' si lascia intendere, forse sono loro da imitare. In realtà, non è possibile imitarli perché il sistema italiano è l'unico compatibile con una situazione pregiudicata in partenza e non esiste un universo sanitario parallelo. Almeno non facciamone un motivo di fierezza.
6. La politica è unita di fronte all'emergenza. La politica ha creato danni ad angolo giro dello schieramento, in sede centrale e locale. E continua con i provvedimenti in ordine sparso presi dal Comune ipsilon alla faccia della Regione zeta o dalla Regione alfa contro il ministro beta, quando l'unica strada è l'estrema centralizzazione. La situazione è quella delle coppie scoppiate che si trovano a una cena con estranei. I due se ne sono combinate così tante che, se parte il gioco della recriminazione e del rinfaccio, l'unico esito certo è la figura di sterco per entrambi. La rissa è sempre sul punto di scoppiare, come ieri tra Fontana e Conte, ma è solo rinviata. Rubrica forse non tutti sanno che. Fioriscono le app come Fila Indiana che danno i tempi di attesa davanti ai supermercati come succede a Gardaland. Rubrica Conferenza stampa delle 18. Venerdì 20 marzo Angelo Borrelli perse la calma per la prima volta a sentirsi apostrofare commissario dai cronisti presenti al rito pomeridiano in Protezione Civile. Ha specificato che lui è capo dipartimento dell'emergenza. Commissario è Arcuri, quello che Giuseppi gli ha messo tra i piedi mentre Borrelli avrebbe preferito il suo mentore Guido Bertolaso, finito nella squadra del governatore Fontana. Un numero da ispettore Clouseau. Pardon, ispettor capo. Rubrica dei numeri. 1444 morti in un fine settimana. Come numero può bastare. Rubrica dell'imbecille terminale. Nonostante la lista di positivi di fama si allunghi (Blaise Matuidi, Paulo Dybala, Daniel Maldini), ogni tanto qualche dirigente del calcio ancora se ne esce a proporre date e modi per concludere il campionato di serie A. Questo campionato è finito. Ripetete con me: FI-NI-TO. Da ogni evidenza, il prossimo si giocherà alla playstation. Rubrica del coccodrillo. È morto Gianni Mura. Nel palazzo milanese del gruppo Gedi, sul ballatoio del terzo piano, c'è stata fino a poco tempo fa una poltronazza color puffo mezza sfondata che tutti conoscevano come “la sedia di Gianni Mura”. Ci passava le ore a fumare, spesso con la mia amica Paoletta Santoro, che lo ha preceduto di qualche mese (Rip). Ricordo personale. Per qualche decennio Mura è stata la mia penna di sport preferita anche perché detestavo Gianni Brera. Mura non era barocco, era molto spiritoso, mai razzista, altamente ironico, quindi in primis autoironico e – oso mettere zizzania nei Campi Elisi – capiva meglio l'evento agonistico, quindi possedeva la qualità assoluta di un cronista sportivo.
Confesso che qualcosa si è incrinato con il ciclismo e, in particolare, con l'epopea di Lance Armstrong. Forse non c'era bisogno che gli togliessero sette Tour e lo riempissero di cause civili e penali per intuire che l'americano era un truffatore, un farabutto e, all'occorrenza, un praticante di metodi mafiosi. Per capire l'imbroglio dovevi leggere Eugenio Capodacqua, che aveva trenta righe in taglio basso. La morale della favola è questa. Meglio non scrivere cose che il lettore non vuole leggere. Lo ha detto persino Seymour Hersch, uno dei più grandi giornalisti di inchiesta viventi, in un'intervista su Repubblica a Stefania Maurizi. Dopo di che, a proposito di fac nius, “ti sia lieve la terra” non è un'invenzione né di Brera né di Mura, come ho letto. È la traduzione di sit tibi terra levis che si trova in acronimo (STTL) su molte epigrafi funerarie di età romana. Era gente che studiava, Brera e Mura. E questo è il migliore esempio che ci lasciano in eredità.
Coronavirus, con gli studi vuoti occhio a cosa dite in tv. Il rumore nelle case si contrappone al silenzio in tv. Dove l'assenza del pubblico plaudente inchioda i protagonisti alle loro parole. E i politici senza claque si mostrano esattamente per quello che sono. Beatrice Dondi il 23 marzo 2020 su L'Espresso. Laddove in un passato ormai infinitamente remoto ci si trastullava ascoltando il brusio scomposto del pubblico negli studi televisivi oggi si sta insieme a guardare il forno. È la pizza che scatena l’applauso incondizionato, per coprire il giudizio ed evitare il confronto con quelle servite nei lontani sabati dei ristoranti. Perché l’applauso offusca il senso critico lasciandolo agli altri, quelli che esultano dagli spalti, a destra e a sinistra, per un ballerino o un cantante, per Salvini o un virologo, in maniera generosa, equidistante e compulsiva. Il silenzio invece, è fragoroso come un evidenziatore che isola e sottolinea ogni parola detta e la lascia, senza scuse, al giudizio altrui. Il motivo per cui nelle sit-com le risate a comando scandiscono il ritmo del copione è proprio quello di suggerire che sì, effettivamente si sta dicendo una battuta e se ride il pubblico nascosto devi farlo anche tu. Ma se scomparissero all’improvviso resterebbe solo il comico, costretto a far divertire sul serio per non mettere in fuga l’ascoltatore a gambe levate. Così quello che resterà di questi giorni di strana tv, dove l’intrattenimento si estingue ora dopo ora, i palinsesti si modificano in corsa e restano milioni di ore da riempire alla ricerca spasmodica dell’opinionista qualsiasi che dica la sua, sarà proprio l’assenza di suono, quell’accondiscendenza scomposta che rendeva plausibile opinioni irricevibili nei talk show, in cui ad azione corrispondeva puntuale una reazione da stadio a prescindere. In un momento in cui il rumore invece si concentra nelle case affollate, scompare in tv la claque entusiasta, spazzando via la capacità di giudizio come una spugna bagnata. E le castronate ordinarie galleggiano in un vuoto pneumatico, un duetto rarefatto tra ospite e giornalista, mostrandosi esattamente per quello che sono. È difficile mandare avanti uno spettacolo senza pubblico a meno che non si ricorra al genio dei cartonati di “Propaganda”, ma lì appunto ci vuole il genio. E senza la guida sentimentale, il conforto che si fa alibi, il conduttore cede, confidando in risibili escamotage alla Mario Giordano, collegamenti improponibili per sopperire all’assenza di assenso. Persino la regina De Filippi, anche se non è il tempo più adatto per parlare di corone, arranca e perde il suo naturale aplomb di fronte agli “Amici “di sempre. Ma chi soffre davvero sono gli intervistati, che nella schiacciasassi dell’informazione si ritrovano sotto un occhio di bue che li inchioda alle loro stesse parole, costretti a essere ascoltati per quello che sono. Vuoti silenti nelle case rumorosamente piene. Aspettando che passi la tempesta.
Il paziente zero. Report Rai. PUNTATA DEL 30/03/2020. Di Giulio Valesini, Emanuele Bellano, Chiara De Luca, Claudia Di Pasquale, Adele Grossi, Paolo Mondani, Rosamaria Aquino. La pandemia di Covid-19.
Andremo dove tutto è cominciato e dove il peggio sembra finalmente passato, a Wuhan, per mostrare con immagini esclusive cosa è realmente successo nei compound blindati durante l'emergenza.
Dopo Sars e Influenza aviaria, l’Oms ha raccomandato a tutti i paesi del mondo di mettere a punto un piano di prevenzione e risposta alle pandemie e di aggiornarlo costantemente. L’Italia lo ha fatto? E come?
Racconteremo come è nato il contagio tra Lombardia, Veneto ed Emilia, prima e dopo la scoperta del “paziente 1” a Codogno. Sarebbe stato possibile fermarlo per tempo? Andremo poi a vedere come le regioni del Sud, dalla Campania alla Calabria, fino in Sicilia, stanno affrontando l’aumento dei casi.
Gli operatori del 118 sono la prima linea della lotta al coronavirus: una ricognizione sui territori per verificare quel che c’è e quello che manca perché lavorino in piena sicurezza. Ricostruiremo infine le difficoltà di un corpo dello Stato in prima linea nelle emergenze: i Vigili del fuoco, coinvolti anche loro nella diffusione del contagio.
- Riceviamo questa precisazione da Casa di Cura Privata Piacenza s.p.a. e Casa di Cura Privata Sant’Antonino.
IL PAZIENTE ZERO Di Giulio Valesini, Emanuele Bellano, Chiara De Luca, Claudia Di Pasquale, Adele Grossi, Paolo Mondani, Rosamaria Aquino Immagini di Davide Fonda, Alessandro Spinnato, Paolo Palermo, Tommaso Javidi, Dario D'India, Alfredo Farina
BILL GATES – TED TALK, MARZO 2015 Quando ero ragazzo la catastrofe che più ci preoccupava era la guerra nucleare, ecco perché avevamo un barile come questo in cantina, pieni di cibo e acqua. Partito l’attacco nucleare dovevamo scendere, accovacciarci e mangiare dal barattolo. Oggi il rischio di catastrofe globale non è più questo. Invece è più simile a questo. Se qualcosa ucciderà 10 milioni di persone nei prossimi decenni, è più probabile che sia un virus altamente contagioso, piuttosto che una guerra. Questo perché abbiamo investito cifre enormi in deterrenti nucleari, pochissimo invece su un sistema che possa fermare un epidemia. Non siamo pronti per la prossima epidemia. Prendiamo l’ebola, il problema non era che il sistema non funzionava, il problema è l’assenza totale di un sistema. Non c’erano epidemiologi pronti a partire, per controllare la diffusione del virus. Le notizie sui contagi arrivavano solo tramite i giornali, messi online con ritardo ed erano anche imprecisi. Nessuno analizzava terapie e diagnosi. Un fallimento globale. Ma potrebbe anche andarci peggio: l’ebola è un virus che non si diffonde per via aerea, e quando i malati diventano contagiosi, non girano, stanno così male da essere costretti a letto e per pura coincidenza non è arrivato nelle aree urbane. La prossima volta potremmo non essere così fortunati e trovarci di fronte a un virus in cui si sta bene anche quando si è contagiosi, tanto da salire su un aereo o andare al mercato. Come l’influenza spagnola del 1918 che ha provocato la morte di più di 30 milioni di persone. Oggi abbiamo la tecnologia per contrastare un’epidemia. Con i cellulari possiamo raccogliere informazioni e trasmetterle, con le mappe satellitari possiamo vedere come la gente si muove. Gli strumenti li abbiamo, ma devono essere inseriti in un sistema sanitario globale. La banca mondiale stima che se ci fosse una pandemia di influenza la ricchezza globale si ridurrebbe di circa tre trilioni di dollari e ci sarebbero milioni e milioni di morti. Per questo bisogna essere pronti.
SIGRIDO RANUCCI IN STUDIO Era il 2015 e Bill Gates, fondatore di Microsoft, annunciava: se c’è qualcosa che potrà uccidere più di 10 milioni di persone probabilmente non sarà un missile, ma un virus molto contagioso. E lo diceva avendo alle spalle un’immagine quasi profetica, quella di un virus che al microscopio evoca tanto quello del COVID-19. Poi ha esortato i politici a investire di più in prevenzione, in termini di gestione dei dati sanitari, di formazione del personale. E invece noi, noi da parte nostra abbiamo fatto tagli alla sanità e non abbiamo investito su quella che è la nostra risorsa più importante: il capitale umano. E il risultato è che non abbiamo potuto e saputo proteggere la nostra prima linea, i soldati di questa guerra con un nemico infame invisibile, medici e infermieri. Ecco e il risultato è stato che non abbiamo potuto proteggere chi è più fragile. Bentrovati, insomma quando ci siamo lasciati non pensavamo di ritrovarci dentro questa che è la più grande crisi dopo la guerra mondiale, dopo la seconda guerra mondiale. Report, ha stravolto il suo palinsesto, la sua programmazione e ha deciso di esserci. La mia squadra di inviati, Filemaker, montatori, la redazione, ha deciso di raccontare da dentro, dalla pancia del territorio questa nuova guerra. Anche perché in questa vicenda, anche chi aveva gli strumenti, non è che ci abbia capito un granché. Tuttavia c’è un detective di virus che può vantarsi e dire, “io l’avevo detto”. Era il 2012.
I nostri Giulio Valesini e Emanuele Bellano.
GIULIO VALESINI Cosa le ha permesso di anticipare la situazione attuale in modo così preciso e puntuale?
DAVID QUAMMEN – DIVULGATORE SCIENTIFICO – AUTORE “SPILLOVER” Lavorando in stretto contatto con i ricercatori che vanno sul campo, che sono come dei detective di virus. Con loro mi sono calato nelle caverne in Cina alla ricerca di pipistrelli, cercano gli animali che portano i nuovi virus, li catturano, prendono campioni di sangue e li analizzano. Uno di loro mi ha detto “dobbiamo stare attenti perché il prossimo Big One sarà probabilmente un virus da un animale selvatico, altamente capace di adattarsi, proprio come i coronavirus e passerà da animali selvatici a umani, probabilmente in un mercato di animali selvatici vivi o in Cina. E se attecchisce sarà particolarmente pericoloso, se il contagio avviene anche da asintomatici.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO È in un mercato di questo tipo che potrebbe essere avvenuto il passaggio del virus dal pipistrello al paziente zero.
MASSIMO CICCOZZI – EPIDEMIOLOGO CAMPUS BIO-MEDICO In questi mercati chiamati wet market, sono chiamati wet, umidi, perché chiaramente c’è questa umidità…
GIULIO VALESINI Ma perché macellano lì sul posto in quel momento?
MASSIMO CICCOZZI – EPIDEMIOLOGO CAMPUS BIO-MEDICO Macellano sul posto perché loro, nella maggior parte dei mercati, non hanno i frigoriferi perché non hanno corrente elettrica. Quindi, se io devo vendere un pezzo di carne, lo devo vendere da vivo, altrimenti come faccio? Non lo posso conservare.
GIULIO VALESINI Andrebbe in putrefazione.
MASSIMO CICCOZZI – EPIDEMIOLOGO CAMPUS BIO-MEDICO E loro macellano a mani nude quindi si imbrattano continuamente di sangue.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Al Campus Biomedico hanno studiato il virus. Sono riusciti a datare la mutazione dal pipistrello all’uomo. Al paziente zero.
MASSIMO CICCOZZI – EPIDEMIOLOGO CAMPUS BIO-MEDICO Se tu hai il genoma completo, sulla base del numero di mutazioni a livello temporale, posso anche andare indietro.
GIULIO VALESINI Certo.
MASSIMO CICCOZZI – EPIDEMIOLOGO CAMPUS BIO-MEDICO E datare esattamente l’inizio di un’epidemia.
GIULIO VALESINI Quindi questo virus era dentro al pipistrello.
MASSIMO CICCOZZI – EPIDEMIOLOGO CAMPUS BIO-MEDICO Esattamente, sì. Lui non ha fatto solo questa mutazione. Ne ha fatte altre due, che abbiamo studiato, importanti. Queste due proteine, che sono due proteine strutturali, una destabilizza e l’altra stabilizza il virus. Allora, in un caso ci fa capire come lui sia molto più contagioso della Sars del 2002-2003. C’ha messo anni.
GIULIO VALESINI Ah sì?
MASSIMO CICCOZZI – EPIDEMIOLOGO CAMPUS BIO-MEDICO A fare una mutazione come quella che vediamo oggi. Questi tre sono i tre pipistrelli, quindi sono i tre coronavirus del pipistrello. Come vedete, stanno alla base di tutto questo triangolo che, se noi andiamo a esploderlo, ci dà l’epidemia del ceppo di coronavirus umano. Vedete? C’ha questo gambo e poi…
GIULIO VALESINI Questa è una proteina o è tutto il virus?
MASSIMO CICCOZZI – EPIDEMIOLOGO CAMPUS BIO-MEDICO Questa è la proteina spike di membrana. La mutazione, se andiamo a zoomare, è avvenuta in questa zona. Esattamente qui. E gli ha fatto riconoscere un recettore specifico, è chiamato ACE2, delle cellule delle basse e alte vie respiratorie. Ed è un recettore che noi abbiamo per tanti motivi, insomma. Per chi è, per esempio, iperteso, è un recettore molto importante per i farmaci per l’ipertensione. Quindi lui che fa? Prende questo recettore, si aggancia, si fondono le membrane. Fuse le membrane, il virus entra e comincia a parassitare la cellula.
GIULIO VALESINI E il coronavirus quando è iniziato?
MASSIMO CICCOZZI – EPIDEMIOLOGO CAMPUS BIO-MEDICO A noi ci risulta metà novembre.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Anche il Politecnico di Zurigo ha confermato i dati del Campus Bio-Medico sull’inizio della pandemia a novembre.
EMANUELE BELLANO Come fate a dire questo?
TANJA STADLER – DIPARTIMENTO SCIENZE DEI BIOSISTEMI – POLITECNICO DI ZURIGO Abbiamo ricostruito le varie azioni del genoma e dei vari ceppi di questo virus e, sulla base di nostri studi, ciò che emerge è che l’epidemia è iniziata i primi di novembre.
EMANUELE BELLANO Avete studiato anche la situazione in Wuhan prima che la città e la regione fossero messe in quarantena?
TANJA STADLER – DIPARTIMENTO SCIENZE DEI BIOSISTEMI – POLITECNICO DI ZURIGO Sì, abbiamo ricostruito con quale velocità il virus si è diffuso a Wuhan. Secondo i nostri calcoli, ogni individuo infetto contagia tra le 2 e le 3,5 persone. È un valore molto alto. Per avere un riferimento, con l’influenza stagionale ogni infetto contagia 1,3 persone.
EMANUELE BELLANO Quante persone, secondo i vostri calcoli, erano infettate in Cina prima del 23 di gennaio, cioè del giorno in cui Wuhan è stata posta in quarantena?
TANJA STADLER – DIPARTIMENTO SCIENZE DEI BIOSISTEMI – POLITECNICO DI ZURIGO A quella data i dati ufficiali parlano di poco meno di 600 casi confermati a Wuhan e, in generale, in Cina. Dai nostri calcoli, invece, i casi reali erano compresi in una forbice tra i 2mila e i 20mila. GIULIO VALESINI Le pandemie sono sempre esistite, cosa le rende oggi diverse da quelle di ieri?
DAVID QUAMMEN – DIVULGATORE SCIENTIFICO – AUTORE “SPILLOVER” Primo, le pandemie tendono a essere di origine virale e non batterica. Secondo, viaggiano in giro per il mondo molto più velocemente. Un virus può viaggiare dalla Cina a Roma in 15 ore. Poi viviamo in città sempre più affollate. 7,7 miliardi di umani sul pianeta vivono in grandi città, queste rende le nostre pandemie peggiori. GIULIO VALESINI Chi poteva intervenire in anticipo e non l’ha fatto secondo lei?
DAVID QUAMMEN – DIVULGATORE SCIENTIFICO – AUTORE “SPILLOVER” Gli scienziati sapevano da ben 17 anni, dall’epidemia della Sars, che i coronavirus possono essere molto pericolosi. I dirigenti della sanità pubblica sapevano che era fondamentale la preparazione, sapevano già che abbiamo bisogno di diagnostica veloce, di test validi, mascherine, guanti, ventilatori, letti in isolamento, capienza ospedaliera. Chi non lo sapeva? Chi non era preparato? I politici.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Il Virus proviene dal pipistrello e, secondo gli studiosi che abbiamo sentito, sarebbe passato all’uomo nelle prime settimane di novembre. Un fatto che sarebbe anche confermato da quanto scrive il South China Morning Post che identifica il primo contagio in un 55enne dell’Hubei, provincia di Wuhan, il 17 novembre sulla base delle informazioni che sono state fornite dalla comunità scientifica cinese. Noi ci siamo tolti una curiosità, siamo andati a vedere quanti passeggeri, tra italiani e cinesi, da metà novembre fino al 30 gennaio, data orno in cui il ministro della Salute italiano ha deciso di bloccare i voli dalla Cina, quanti passeggeri sono arrivati da quei posti? Bene. Allo scalo di Fiumicino sono arrivati 203.894 passeggeri, di cui 15.400 direttamente da Wuahn. Mentre a Milano Malpensa, sono transitati 125.000 passeggeri provenienti da Pechino, Shangai, Hong Kong. Senza contare poi tutti quelli che dopo il blocco l’hanno presa alla larga e sono entrati in Italia. Ecco sono 17 anni che i dirigenti della Sanità sanno che i corona virus sono pericolosi. Avrebbero dovuto fare prevenzione, stoccare mascherine, dispositivi di protezione, guanti, preparare dei test di diagnostica veloci e affidabili, sapere che bisognava fare scorta di respiratori, che 5 bisognava aumentare la capienza della terapia intensiva, la capienza negli ospedali. Ecco la beffa è che avevamo un piano contro le pandemie, l’abbiamo aggiornato e chi avrebbe dovuto applicarlo? Report può cominciare.
Di Giulio Valesini e Emanuele Bellano.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Al forno crematorio di Piacenza, in questi giorni la mattina la scena è questa. In mezz’ora contiamo 5 carri funebri. Dentro fanno fatica a trovare un posto alle salme.
MICHELE MARINELLO - RESPONSABILE FORNO CREMATORIO DI PIACENZA Evidentemente la situazione crea un sovra deposito anomalo che ci sta portando in una fase di emergenza. Per rispondere alle continue richieste delle istituzioni e soprattutto dell’area di Bergamo e Brescia di dare una mano.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Giovedì mattina è arrivata in soccorso la Croce Rossa Militare. Hanno montato celle frigorifere da campo proprio come si fa in una guerra.
MASSIMO SCREMIN - SERGENTE CROCE ROSSA MILITARE Questo è il nucleo di recupero di corpi senza vita: catastrofi, terremoti. Si adoperano per recuperare questi cadaveri e mantenerli in attesa di sepoltura.
MILITARE CON LA TUTA BIANCA Qui abbiamo delle aperture dove vengo inserite le salme.
GIULIO VALESINI Quindi adesso le salme verranno prese da lì e stipate qua dentro?
MILITARE CON LA TUTA BIANCA Verranno stipate qua dentro. Verranno posizionate delle celle… che le celle vengono tutte quante sigillate con i vari compressori. Queste vengono montate, vengono sigillate, vengono telate e poi vanno all’interno.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Sono immagini che non avremmo mai voluto vedere, quelle di Piacenza, che sta raggiungendo purtroppo il primato triste di Bergamo. Forse perché il virus da quelle parti girava ben prima del 20 febbraio, data in cui a Codogno viene trovato positivo il paziente uno, Mattia. I medici avevano riscontrato nel piacentino un numero anomalo di polmoniti. Ma chiedevano, si fermavano davanti alla domanda: “Lei ha la tosse? Sì? Ha difficoltà respiratorie? Viene da Wuhan? Dalla Cina? Ha amici che vengono da quelle parti?” “No” “Grazie, arrivederci”. E avevano tutti la presunzione di trovarsi di fronte il paziente zero. Quando invece magari c’erano già tanti pazienti uno. Report ha individuato uno che veniva definito l’“Untore” e uno che forse è il paziente numero “uno”, prima di Mattia.
I nostri Giulio Valesini e Emanuele Bellano.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Piacenza è a pochi chilometri da Codogno.
MATTIA MOTTA - GIORNALISTA FREELANCE 6 La città è irriconoscibile; oggi abbiamo oltre 400 morti.
GIULIO VALESINI Quanti ospedali ci sono che si occupano di curare i pazienti
COVID? MATTIA MOTTA - GIORNALISTA FREELANCE Beh, a Piacenza appunto questo tsunami ha investito la sanità locale anche proprio per il flusso del basso lodigiano, che si sono sempre venuti a curare qui.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO L’ospedale pubblico ha 7 reparti tutti dedicati ai pazienti malati di COVID-19. Ci sono le bombole di ossigeno parcheggiate perfino lungo i viali.
LUCA BALDINO - DIRETTORE AUSL PIACENZA Allora. Noi oggi abbiamo 200 operatori che positivi al coronavirus su un totale di 3600. Qualcuno in condizioni abbastanza gravi.
GIULIO VALESINI Certo, 200 operatori sono tanti.
LUCA BALDINO - DIRETTORE AUSL PIACENZA 200 operatori sono tanti.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Anche perché non sarebbero stati protetti. Almeno secondo un’infermiera dell’ospedale di Piacenza rimasta contagiata dal virus.
GIULIO VALESINI Dopo il caso di Codogno lei inizia a mettere la mascherina? INFERMIERA Chi la indossava durante il turno veniva ripreso perché dicevano “non c’è bisogno di indossare la mascherina, non dovete creare allarme, non dovete spaventare i pazienti e i loro familiari”.
GIULIO VALESINI Questo chi ve lo diceva?
INFERMIERA Il coordinatore.
GIULIO VALESINI Da quand’è che sta male signora?
INFERMIERA Dal 9 marzo e ho fatto il tampone il 12 perché l’ho chiesto con insistenza non vi dico le risposte.
GIULIO VALESINI No, ce le dica invece…
INFERMIERA Che non avevo i requisiti per farlo perché dovevo avere difficoltà respiratorie. Ve lo chiedo perché so di avere avuto dei contatti molto a rischio con pazienti che si è saputo dopo che erano positivi e io non avevo le protezioni adeguate.
GIULIO VALESINI Quindi lei ha dovuto insistere per farsi fare il tampone.
INFERMIERA Ho insistito, mi ha detto: “io le faccio il tampone, ma se è negativo la mando subito a lavorare”. È stato offensivo.
GIULIO VALESINI La risposta che mi ha stupito è stato: “non mettetela perché tanto è un caso isolato, spaventate i pazienti, si crea allarme”. Che se fosse vera dottore…
LUCA BALDINO - DIRETTORE AUSL PIACENZA Guardi che noi non abbiamo mai dato l’indicazione di non indossare la mascherina perché si spaventava la gente! Abbiamo dato l’indicazione di indossare le mascherine nel modo e nelle modalità più appropriate soprattutto in un contesto in cui… l’approvvigionamento dei dispositivi era molto difficile…
GIULIO VALESINI Quindi lei dice che era un’indicazione giusta quella?
LUCA BALDINO - DIRETTORE AUSL PIACENZA Noi abbiamo sin da subito seguito quelle che erano le indicazioni nazionali e regionali sull’uso dei dispositivi di protezione individuale.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO La nostra infermiera si becca il coronavirus perché si prende cura di pazienti infetti e a proteggerla avevo solo una mascherina chirurgica.
INFERMIERA Mi sono trovata con un paziente agitatissimo. Quindi mettilo a posto, tiralo su… poi si è sporcato di feci. Poi verso la mattina, ha avuto la montata febbrile, quindi una bella virosi, sudato. L’altro paziente ha iniziato a vomitare subito e ho saputo dopo qualche giorno che erano positivi.
GIULIO VALESINI Quindi lei si è trovata a curare due pazienti positivi di COVID con una mascherina chirurgica. Lei quanti giorni ha lavorato da positiva?
INFERMIERA (Tossisce) Nove giorni.
GIULIO VALESINI Con il rischio che pure ha infettato qualche paziente lei, lo sa?
INFERMIERA Eh… questo non glielo so dire.
GIULIO VALESINI 8 Quanti siete in tutto l’ospedale positivi?
INFERMIERA Non lo so; tre quarti degli infermieri a casa non hanno mai avuto un tampone.
GIULIO VALESINI Senta quindi lei adesso ha tosse.
INFERMIERA Adesso ho un po’ di tosse, va viene…
LUCA BALDINO - DIRETTORE AUSL PIACENZA La mascherina chirurgica in alcune situazioni è assolutamente indicata. Guardate quando gli operatori sanitari si contagiano possono essersi anche contagiati fuori, ma posso anche essersi contagiati dentro. Quindi se ci sono operatori…
GIULIO VALESINI Beh se curi due pazienti positivi che vomitano, che hanno dei problemi… te ne prendi cura con una mascherina chirurgica diciamo hai buone possibilità che te lo sei preso lì il COVID…
LUCA BALDINO - DIRETTORE AUSL PIACENZA Può accadere. Noi siamo riusciti a dare i dispositivi previsti dalla norma ai nostri infermieri.
GIULIO VALESINI Quanti tamponi avete fatto al personale?
LUCA BALDINO - DIRETTORE AUSL PIACENZA Questo non lo so. È inutile fare migliaia di tamponi se poi i laboratori sono in gradi di processarne 2-300 al giorno.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Per affrontare le emergenza a Piacenza, si sono affiancate anche le strutture sanitarie private della città. Come la clinica Sant’Antonino e poco dopo la clinica Piacenza, entrambe del gruppo Sanna. E qui la storia si complica: perché i contagi dentro a queste cliniche pare siano iniziati anche prima che emergesse il caso 1 di Codogno. Come ci conferma un medico che lavora nella struttura.
GIULIO VALESINI So che lei ha contratto il coronavirus…
MEDICO CLINICA PIACENZA Sì. Esatto.
GIULIO VALESINI Ma è vero che lei ha iniziato a star male la mattina del 21 febbraio?
MEDICO CLINICA PIACENZA Venerdì 21 cominciavo ad avere i primi sintomi, tipo raffreddore. Pensavo di averlo presi nelle due settimane precedenti.
GIULIO VALESINI Diciamo che se a lei il tampone lo avessero fatto prima, probabilmente lei sarebbe stato il caso uno italiano.
MEDICO CLINICA PIACENZA Sì… probabilmente sarei stato positivo anche io, sì…
GIULIO VALESINI Lei ha visitato molti pazienti di Codogno nei giorni precedenti, prima di scoprire di essere infettato?
MEDICO CLINICA PIACENZA Codogno e Casale, sì sì e sono sicuro che non ho visitato il paziente 1.
GIULIO VALESINI Lo sa che lei è chiamato l’untore a Piacenza?
MEDICO CLINICA PIACENZA Lo dicono, in clinica lo dicono.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Alla clinica Piacenza anche un chirurgo che ha operato fino al 12 febbraio è poi risultato positivo. L’ha scoperto a Tenerife il 25 febbraio. Ma è un’infermiera che lavora nella struttura privata che racconta di un paziente portato via in bio contenimento prima del paziente 1 di Codogno.
INFERMIERA Gli operatori che lo sono venuti a prelevare avevano già le famose tute Ghostbusters quindi vestiti di bianco. Lui è stato portato via subito, velocemente e da lì obbiettivamente poi il silenzio, non si è più saputo nulla.
GIULIO VALESINI Questo era un paziente anziano…
INFERMIERA Sì… GIULIO VALESINI E viene portato via così…
INFERMIERA Sì, sì. GIULIO VALESINI Di sera, di giorno?
INFERMIERA No, era sicuramente mattina o tarda mattinata…
GIULIO VALESINI Lei l’ha visto mentre veniva portato via?
INFERMIERA Io l’ho visto portar via, sì. Questo poveretto secondo me è stato il primo a fare il tampone e che dal tampone han capito che era positivo. Ma soprattutto dal mio punto di vista non si spiega come così tanti operatori sanitari, soprattutto nella mia struttura, si siano poi ammalati esattamente nello stesso periodo del paziente 1.
GIULIO VALESINI Tra 250 dipendenti in quanti siete risultati positivi?
INFERMIERA A casa in malattia quasi 150. È stato concesso ai dipendenti uno screening con una tac e molte tac sono risultate positive per polmonite interstiziale virale.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Il gruppo Sanna in un’email che ci ha inviato il loro avvocato, parla invece di un altro paziente arrivato nella clinica Sant’Antonino il 17 febbraio dall’ospedale Civile e poi mandato al pronto soccorso con il 118 per una febbre persistente. Il paziente è risultato positivo al Coronavirus.
GIULIO VALESINI Dottor Sanna…
MARIO SANNA – PROPRIETARIO CASA DI CURA PIACENZA Sì…
GIULIO VALESINI Io le volevo chiedere un’intervista.
MARIO SANNA – PROPRIETARIO CASA DI CURA PIACENZA Allora guardi. Se l’intervista è una cosa seria, la incontro. Se volete fare dei pettegolezzi io non sono disposto a niente. Io sono uno scienziato.
GIULIO VALESINI Guardi, io non so come lo definisce, se scienza o coscienza; a me interessa la salute pubblica, forse anche a lei…
MARIO SANNA – PROPRIETARIO CASA DI CURA PIACENZA La salute pubblica noi la stiamo già facendo, abbiamo dato 170 posti letto, all’ospedale che ce l’ha chiesto, di Coronavirus.
GIULIO VALESINI Ma il paziente che fu portato via dalla vostra…
MARIO SANNA – PROPRIETARIO CASA DI CURA PIACENZA No guardi, guardi per cortesia. Le ho detto che non sono disposto a rispondere a niente al di fuori dell’attività che stiamo facendo per la clinica.
GIULIO VALESINI È un’attività quella…
MARIO SANNA – PROPRIETARIO CASA DI CURA PIACENZA O per l’ospedale, per la città. Telefonate all’ospedale… No guardi non sono disposto a rispondere.
GIULIO VALESINI Perché non le piace la domanda. Perché non le piace la domanda. Decide lei qual è la domanda buona e qual è la domanda cattiva?
MARIO SANNA – PROPRIETARIO CASA DI CURA PIACENZA Va bene. La saluto.
GIULIO VALESINI Mi dica una cosa. Il paziente portato via dalla clinica…è importante per la salute pubblica.
MARIO SANNA – PROPRIETARIO CASA DI CURA PIACENZA La saluto.
GIULIO VALESINI Dottor Sanna è importante per la salute pubblica…
MARIO SANNA – PROPRIETARIO CASA DI CURA PIACENZA Sto dicendo che la saluto.
GIULIO VALESINI È importante per la salute pubblica dottor Sanna…
MASSIMO VAJANI – PRESIDENTE ORDINE DEI MEDICI - LODI Quest’anno a differenza di tutti gli altri anni ho notato, ma ho avuto riscontro anche da parecchi colleghi della zona, delle forme polmonari insistenti, lunghe, anomale.
EMANUELE BELLANO In qualche maniera voi avete riscontrato una differenza da questo punto di vista rispetto agli altri anni? Alla stessa stagione degli altri anni?
MASSIMO VAJANI – PRESIDENTE ORDINE DEI MEDICI - LODI Sicuramente sì.
EMANUELE BELLANO Qual è il territorio su cui avete verificato questa cosa?
MASSIMO VAJANI - MEDICO DI MEDICINA GENERALE LODI Allora, noi… Il territorio è un po’ il nostro: Lodi, Codogno, Casale, Sant’Angelo. E il sentore di tutti i colleghi che in quel periodo riferivano, era proprio quello del riscontro di queste anomalie polmonari, ecco. Nessuno di noi ovviamente in quel periodo non sospetto pensava di fare indagini di alcun tipo se non quella di seguire un protocollo di indicazioni, a tutti si chiedeva ma sta venendo dalla Cina? Sta venendo da Wuhan? Con un sorriso anche di ilarità.
EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Ben prima del paziente 1 scoperto a Codogno, tra i mesi di dicembre e gennaio, negli ospedali di Piacenza si registrano oltre 40 casi di polmoniti particolarmente virulente, al punto da richiedere il ricovero.
EMANUELE BELLANO Sono state identificate delle polmoniti in quel periodo, cioè parliamo di dicembre, gennaio, che sono teoricamente assimilabili a quelle provocate dal coronavirus?
CLAUDIO MICHELETTO - ASSOCIAZIONE ITALIANA PNEUMOLOGI OSPEDALIERI Non abbiamo ancora i dati, però dall’esperienza dei colleghi, anche dei colleghi di medicina generale, confermano che nella settimana precedente c’è stato un incremento del numero delle polmoniti. Che ripeto, a ritroso noi possiamo dire che hanno delle simili caratteristiche cliniche. Le caratteristiche cliniche derivano della radiografia, la polmonite interstiziale ha appunto queste caratteristiche. Ma non abbiamo la definizione dell’eziopatogenesi perché, ripeto, né su tampone né su secrezioni bronchiali veniva ricercato il virus.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO QUATTRO. Riscontravano delle polmoniti anomale, ma nessuno cercava il COVID. Perché? Il 31 dicembre 2019 la Cina informa l’Organizzazione Mondiale della Sanità del focolaio di polmoniti anomale che stava insorgendo a Wuhan. Il 17 gennaio del 2020, il Centro Europeo di Controllo delle Malattie informa i paesi membri che ci sono casi di polmoniti anomale già dai primi mesi di dicembre e parla poi più tardi, pochi giorni dopo, avverte del pericolo di contagio tra gli operatori sanitari. Il 22 gennaio, con una circolare il ministero della Salute, indica i criteri per individuare i casi sospetti, tra i quali c’è: “Hai la febbre?” “Sì” “Hai un’infezione respiratoria grave con tosse?” “Sì “Vieni dalla Cina, da Wuhan o negli ultimi 14 giorni sei stato in contatto con dei cinesi? Oppure hai solamente i sintomi di una polmonite anomala che non riesci a curare?” “Allora sei un sospetto COVID”. Ma dopo 5 soli giorni, esce una seconda circolare. Il 27 gennaio sparisce il solo sintomo della polmonite che non si cura, rimane solo il link epidemiologico, cioè quello legato alla Cina. Perché sparisce? É un errore? La nostra Giulia Presutti l’ha chiesto al Presidente del Consiglio Superiore di Sanità che è il consulente del ministero della Salute.
FRANCO LOCATELLI - PRESIDENTE DEL CONSIGLIO SUPERIORE DI SANITÀ No però guardi, le garantisco che chiunque ha operato sul territorio nazionale non ha mai scotomizzato casi come questi, insisto: il rischio poteva essere perdere la prima tipologia, non certo perdere la seconda.
GIULIA PRESUTTI Cioè i casi senza contatto con la Cina, senza cause epidemiologiche concorrenti che avevano la polmonite sono stati trattati lo stesso come casi sospetti? Lei questo mi sta dicendo?
FRANCO LOCATELLI - PRESIDENTE DEL CONSIGLIO SUPERIORE DI SANITÀ Beh sì. Assolutamente sì.
GIULIA PRESUTTI Allora io le chiedo: perché è stata fatta una circolare più restrittiva? E se vogliamo anche più presuntuosa perché è come se si cercasse il paziente zero, ma non si andasse alla ricerca del paziente uno, cioè di quello che non aveva contatti con la Cina, ma che comunque stava male?
FRANCO LOCATELLI - PRESIDENTE DEL CONSIGLIO SUPERIORE DI SANITÀ Mi permetto di dissentire su questa sua chiave interpretativa nel senso che quello che viene riportato qui è esattamente quello che viene specificato anche nella circolare successiva. Non vedo assolutamente inconsistenza.
GIULIA PRESUTTI Beh e allora perché cambiarla, comunque, in ogni caso?
GIULIA PRESUTTI Proprio per questo io mi sono stampata pure la circolare del 9 marzo perché voi il 9 marzo ha reinserito la semplice infezione respiratoria senza il collegamento con la Cina o con un caso di Coronavirus. Quindi in realtà il 9 marzo riampliate la casistica.
FRANCO LOCATELLI - PRESIDENTE DEL CONSIGLIO SUPERIORE DI SANITÀ Allora, prima di tutto diciamo che sono le direzioni generali dei ministeri, questo tanto per essere precisi.
GIULIA PRESUTTI Quindi questo lo fa il Ministero?
FRANCO LOCATELLI - PRESIDENTE DEL CONSIGLIO SUPERIORE DI SANITÀ Sì, io poi capisco che lei debba fare il suo lavoro però mi permetto di dirle che non c’è stato nessun caso perso per le due circolari. Mi creda.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Le crediamo, vista la sua autorevolezza, però li abbiamo sentiti con le nostre orecchie: i medici di Lodi e di Piacenza che andavano cercando ancora il link epidemiologico con la Cina. Forse qualche errore di comunicazione c’è stato. Alla fine dobbiamo ringraziare i due turisti cinesi che sono venuti a Roma, che ci hanno ricondotto subito alla Cina, si sono sentiti male, sono stati trovati positivi dallo Spallanzani. Da quel momento, era il 30 gennaio, abbiamo cominciato a vedere i pazienti in modo diverso. Dobbiamo anche ringraziare quell’anestetista di Codogno che è andata oltre il protocollo. E abbiamo scoperto il vaso di Pandora.
GIULIO VALESINI Il caso 1 di Codogno, lo avete trovato perché non aver seguito alla lettera il protocollo nazionale, è corretto?
MAURIZIO CHIESA – MEDICO OSPEDALE CIVICO DI CODOGNO È esattamente così.
GIULIO VALESINI E quindi saremmo andati avanti ancora per molto tempo.
MAURIZIO CHIESA – MEDICO OSPEDALE CIVICO DI CODOGNO Probabilmente avremmo dato l’opportunità a questo virus di fare ancora di più il proprio gioco. Sarebbe sicuramente emerso, ma forse ancora in maniera peggiore, se possibile, rispetto a quello che è accaduto e che sta ancora accadendo.
GIULIO VALESINI Ma voi in questo momento quanti protocolli avete davanti?
MAURIZIO CHIESA – MEDICO OSPEDALE CIVICO DI CODOGNO Se io potessi inquadrarle la scrivania, vedrebbe pile alte… vanno da quelli europei a quelli italiani, a quelli regionali a quelli di ogni singolo ospedale.
GIULIO VALESINI E lei come si regola?
MAURIZIO CHIESA – MEDICO OSPEDALE CIVICO DI CODOGNO Non antepongo mai un protocollo alla mia decisione personale e alla mia attività di medico. Semplicemente questa notte, se io avessi applicato in maniera pedissequa un protocollo, avrei letteralmente regalato il coronavirus a due pazienti.
GIULIO VALESINI Perché?
MAURIZIO CHIESA – MEDICO OSPEDALE CIVICO DI CODOGNO Solo perché il protocollo diceva che i pazienti che debbono essere, ad esempio, ricoverati, come è giusto che sia, debbono essere tamponati e negativi. E ci mancherebbe. Se però io il paziente che debbo tamponare e che riconosco come clinicamente non appartenente a quella classe di persone che sicuramente avranno il coronavirus, se io in attesa della risposta del tampone lo pongo nei pressi di una persona malata di coronavirus, lo condanno all’infezione.
GIULIO VALESINI Quindi se lei avesse applicato il protocollo, lo avrebbe inserito nella stanza con altri positivi e probabilmente avrebbe preso il COVID, sostanzialmente.
MAURIZIO CHIESA – MEDICO OSPEDALE CIVICO DI CODOGNO Sicuro al 101%. Perché un conto - e questo deve essere sottolineato - è scrivere delle regole nero su bianco a centinaia di chilometri di distanza, un conto è passare le notti come le passo io, come le passano tutti i miei colleghi, non solo i medici, là dove c’è il problema.
MARIA RITA GISMONDO – DIRETRICE LAB. MICROBIOLOGIA – VIROLOGIA OSP. SACCO DI MILANO Prima di cominciare una diagnostica mirata, c’è bisogno del caso 0. Nel senso che dovevamo avere la certezza che questo virus stesse circolando.
EMANUELE BELLANO Chi decide quando bisogna iniziare a fare i tamponi?
MARIA RITA GISMONDO – DIRETRICE LAB. MICROBIOLOGIA – VIROLOGIA OSP. SACCO DI MILANO Organizzazione mondiale della Sanità, hub di informazioni. Quando valuta, a livello globale, che c’è la necessità di intervenire con qualche misura, manda agli Stati del mondo, dell’Europa, a seconda della zonalizzazione del pericolo, delle avvertenze e dei suggerimenti.
EMANUELE BELLANO Quindi l’input deve partire dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, deve essere recepita dai ministeri della Salute insomma dei vari Paesi e poi lì a cascata.
MARIA RITA GISMONDO – DIRETRICE LAB. MICROBIOLOGIA – VIROLOGIA OSP. SACCO DI MILANO Non è un osservatorio passivo: recepisce tutte le segnalazioni che i vari ministeri della Salute fanno sul loro territorio. Quindi se il ministero della Salute ha delle informazioni su alcuni casi strani, sulla circolazione di qualche virus nel proprio territorio, lo comunica all’Organizzazione Mondiale della Sanità che emette dei bollettini che arrivano periodicamente.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Ma il nostro ministero della Salute aveva il polso di quei dati? Che cosa stava accadendo sul territorio in materia di polmoniti anomale? Siamo venuti in possesso di una mail nella quale il Vice Ministro della salute Pierpaolo Sileri chiede dati alla direzione generale del Ministero per avere dati sugli ultimi mesi dell’anno, i primi mesi del 2020 e la Direzione Generale dice che non sono disponibili. Ora. Se tu non hai il polso di quello che sta accadendo sul territorio, come puoi informare l’OMS che magari è in atto un’emergenza? E infatti siamo andati a chiedere all’OMS, che con noi ha preferito non parlare, se avessero lei i dati complessivi divisi paese per paese sulle polmoniti. Ci ha girato un link di un articolo della prestigiosa rivista scientifica Lancet. Peccato però che i dati che riportava Lancet erano quelli fino al 2016. Il virus corre più veloce della burocrazia. Eppure bastava fare una rassegna stampa per capire che i segnali già c’erano tutti. Il 30 dicembre 2019: Pronto soccorso di Piacenza oltre 40 casi di polmonite nell'ultima settimana. 7 gennaio 2020: Milano picco di casi di polmonite, gli ospedali milanesi hanno già attivato posti letto extra; all'Ospedale San Paolo sono in aumento i casi di influenza e anche le polmoniti. Si registra una media di 250/280 pazienti al giorno a fronte dei 200 di altri periodi. Record di pazienti al Niguarda tra fine dicembre e i primi di gennaio, il personale è arrivato a curare fino a 350 persone al giorno contro i 280 dei periodi normali. Como, 11 gennaio 2020: all'Ospedale Sant'Anna di Fermo della Battaglia si registra la situazione di sovraffollamento. I medici sono alle prese con casi di polmonite. All'ospedale Valduce la situazione è analoga. Lo denuncia la tv locale “Espansione TV”. Ma i segnali arrivavano anche all’estero: il 26 dicembre la CBS, lancia un allarme di un aumento del 77% a New York; in Irlanda, il 27 dicembre 2019, gli ospedali irlandesi al collasso in seguito a un inaspettata ondata di influenza killer. Poi, tra il 24 e il 25 gennaio ci sono stati dei focolai di polmonite in Francia e in Germania. Insomma, i segnali c’erano tutti. Se li avessimo colti forse non avremmo fatto questa corsa contro il tempo a cercare di preparare di corsa percorsi separati per i malati COVID. Negli ospedali, nei pronto soccorsi. Avremmo stoccato un po’ prima le mascherine e i dispositivi di protezione. Invece il virus corre più veloce di noi e pochi giorni fa nella sala operativa del 118 di Roma è arrivato il virus e si è fermato tutto.
ALESSANDRO SAULINI – SEGRETARIO NURSIND ARES 118 L’azienda ha immediatamente provveduto a una bonifica e sanificazione straordinaria dei locali della centrale stessa. Questo ha comportato una temporanea chiusura dei locali in un orario, in una fascia protetta notturna.
CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Ma nonostante un caso di positività, il personale dell’Ares 118 nelle ore successive, prima che venissero effettuati i tamponi, ha continuato a lavorare sul territorio come questo soccorso, che è stato effettuato il giorno successivo.
ALESSANDRO SAULINI – SEGRETARIO NURSIND ARES 118 Abbiamo colleghi che ci segnalano, lamentano e denunciano ore e ore di vestizione forzata con pazienti che comunque sono all’interno dell’ambulanza e aspettano di essere visitati.
CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO L’ospedale Agostino Gemelli che era stato allestito per ospitare i pazienti affetti da COVID-19 è saturo. Queste immagini le abbiamo girate in settimana: decine di ambulanze, con pazienti in isolamento a bordo, sono costrette a stare ore e ore in attesa. Stessa situazione anche in altri ospedali, come Tor Vergata, Policlinico Umberto I e Sant’Andrea.
ALESSANDRO SAULINI – SEGRETARIO NURSIND ARES 118 Questo comporta delle gravi problematiche della risposta del sistema di emergenza territoriale 118 alle chiamate, alla gestione delle attività ordinarie.
CHIARA DE LUCA Certo perché se le ambulanze stanno ferme ore e ore non possono soccorrere altre persone.
ALESSANDRO SAULINI – SEGRETARIO NURSIND ARES 118 Noi abbiamo, in questo momento come 118 viviamo questa situazione.
CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Negli ospedali mancano i respiratori che vengono addirittura sottratti alle automediche.
OPERATORE DEL 118 Qualche giorno fa siamo stati chiamati per la seconda volta dall’ospedale di Anzio per portare il respiratore che era nell’automedica del 118 in quanto l’ospedale non ha respiratori portatili e il paziente era un COVID positivo e intubato che andava trasferito da Anzio a Tor Vergata e quindi c’era la necessità di assistere il paziente con il respiratore.
CHIARA DE LUCA Quindi adesso voi il respiratore lo avete lasciato all’ospedale?
OPERATORE DEL 118 Sì sì, lo abbiamo lasciato senza far partire la macchina e portarlo ad Anzio, anche perché la macchina è occupata su altri soccorsi e territori e quindi potrebbe non essere disponibile.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Nell’emergenza, la guerra è tra poveri di mezzi e accade che qualche ospedale che è in affanno con i respiratori li prende in prestito da un’ambulanza che rischia però di rimanere ore ferma. E pensare che eravamo partiti alla grande, quando eravamo andati a recuperare gli italiani a Wuhan con un’eccellenza della nostra Croce Rossa, dell’Aeronautica Militare, era partito un aereo con tanto di barella a biocontenimento. E poi? La nostra Claudia Di Pasquale.
CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Lo scorso 15 febbraio, con un volo dell’aeronautica militare, è rientrato in Italia da Wuhan il giovane Niccolò, di soli 17 anni. Per trasportarlo è stata usata una barella hitech, ad alto biocontenimento, cioè in grado di isolare il paziente che, per altro, è risultato negativo. Ad alto biocontenimento era anche l’ambulanza che ha trasportato il ragazzo allo Spallanzani. Da allora non è stata più usata. Oggi si trova parcheggiata presso la sede romana della Croce Rossa.
CLAUDIA DI PASQUALE E quanti mezzi avete così?
VALERIO MOGINI – MEDICO – AREA SALUTE CROCE ROSSA ITALIANA Questo è unico ed è unico nel suo genere, nel senso è fatto dal ministero della Salute e da Croce Rossa Italiana. É un unicum che non è presente sul territorio da nessuna parte.
CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO La Croce Rossa Italiana ha anche a disposizione due pulmini ad alto biocontenimento. Inoltre ha una ventina di barelle ad alto biocontenimento sparse nelle varie regioni italiane.
CLAUDIA DI PASQUALE Qual è la particolarità di questa barella?
VALERIO MOGINI – MEDICO – AREA SALUTE CROCE ROSSA ITALIANA La barella, come vedete, isola totalmente il paziente, nel senso che lo avvolge totalmente, quindi l’aria viene presa dall’interno della barella, forzata a passare attraverso dei filtri e ributtata all’esterno sostanzialmente purificata. Quindi gli eventuali agenti patogeni che vengono rilasciati dal paziente nell’aria, vengono intrappolati nel filtro. I nostri operatori hanno tutti un corso sulle modalità di vestizione e svestizione e dell’utilizzo di questa strumentazione e sulla decontaminazione.
CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Oggi la Croce Rossa sta facendo la sua parte. Per esempio, ha messo a disposizione dell’Ares 118, l’agenzia per l’emergenza sanitaria della Regione Lazio, questa ambulanza con dentro una barella ad alto biocontenimento.
CLAUDIA DI PASQUALE Quest’ambulanza con questa barella serve per tutta la regione?
VALERIO MOGINI – MEDICO – AREA SALUTE CROCE ROSSA ITALIANA Sì, non è l’unica nel senso che Ares ovviamente ha i suoi mezzi con le sue procedure che mette a disposizione, noi forniamo un servizio in più sul biocontenimento.
CLAUDIA DI PASQUALE Scusami, ma Ares ha a sua volta delle barelle ad alto biocontenimento?
VALERIO MOGINI – MEDICO – AREA SALUTE CROCE ROSSA ITALIANA Non è una domanda a cui posso rispondere.
CLAUDIA DI PASQUALE A me risulta di no, però.
VALERIO MOGINI – MEDICO – AREA SALUTE CROCE ROSSA ITALIANA Non era pront… cioè, diciamo non le aveva. Non le aveva.
CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Solo dopo che è esplosa l’emergenza coronavirus l’Agenzia del 118 della Regione Lazio ha comprato due barelle ad alto biocontenimento. Ad oggi ne è arrivata solo una. Intanto, i medici del 118 della capitale, operano così.
CLAUDIA DI PASQUALE Ma voi non avete diritto a una quarantena?
FRANCESCA PERRI – VICEPRESIDENTE SOCIETÀ ITALIANA SISTEMA 118 ANAOO-AMNOS No, si mettono in quarantena gli operatori sanitari solo se sintomatici, anche se sono stati a contatto con un sospetto coronavirus. E questo è sbagliato: almeno fateci il tampone.
CLAUDIA DI PASQUALE Voi non avete neanche diritto al tampone nonostante frequentiate ogni giorno possibili casi?
FRANCESCA PERRI – VICEPRESIDENTE SOCIETÀ ITALIANA SISTEMA 118 ANAOO-AMNOS No, se non veniamo protetti noi per primi, come facciamo a proteggere gli altri cittadini?
CLAUDIA DI PASQUALE L’ambulanza, una volta che torna in postazione, dove viene sanificata?
FRANCESCA PERRI – VICEPRESIDENTE SOCIETÀ ITALIANA SISTEMA 118 ANAOO-AMNO Qui, la sanifichiamo noi stessi.
CLAUDIA DI PASQUALE Cioè non esiste a Roma un posto dove vanno tutte le ambulanze per essere sanificate?
FRANCESCA PERRI – VICEPRESIDENTE SOCIETÀ ITALIANA SISTEMA 118 ANAOO-AMNOS No.
CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO La sanificazione però è un processo delicato, come ci spiega il presidente nazionale del 118.
MARIO BALZANELLI – PRESIDENTE NAZIONALE SOCIETÀ ITALIANA SISTEMA 118 Se ci mettiamo a fare sanificazioni di tipo rudimentale, alla “viva il parroco”, fondamentalmente noi rischieremo che quei mezzi rimangono inoperativi per diverse ore.
CLAUDIA DI PASQUALE Ma deve essere lo stesso infermiere, lo stesso autista, che fa la sanificazione?
MARIO BALZANELLI – PRESIDENTE NAZIONALE SOCIETÀ ITALIANA SISTEMA 118 No, la sanificazione è un procedimento che prevede un tempo dedicato, un luogo dedicato, personale dedicato e apparecchiature dedicate.
CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Anche la provincia di Latina è stata colpita dal Coronavirus. Ma i posti letto a pressione negativa, cioè in grado di isolare i pazienti, non sono molti.
GIORGIO CASATI – DIRETTORE GENERALE ASL LATINA Sono 18 posti, i 18 posti originari delle malattie infettive.
CLAUDIA DI PASQUALE In totale, in tutta la provincia avete questi 18 posti?
GIORGIO CASATI – DIRETTORE GENERALE ASL LATINA Esattamente.
CLAUDIA DI PASQUALE E voi le avete negli ospedali le barelle ad alto biocontenimento?
GIORGIO CASATI – DIRETTORE GENERALE ASL LATINA No. Non ce le abbiamo.
CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Qui l’agenzia regionale del 118 ha dato in appalto il servizio a delle società private, come la Croce Bianca.
CLAUDIA DI PASQUALE Quando andate dal caso sospetto, come vi vestite?
VINICIO AMICI – CONFEDERAZIONE AUTONOMA ITAIANA DEL LAVORO SANITÀ – LATINA Secondo il protocollo dobbiamo indossare una tuta; ce la fornisce l’azienda tutto il kit.
CLAUDIA DI PASQUALE E queste tute come sono?
VINICIO AMICI – CONFEDERAZIONE AUTONOMA ITAIANA DEL LAVORO SANITÀ – LATINA Le tute sono i… le tute sono classiche tute dove, non so se si riesce a vedere, classiche tute dove non filtra nulla comunque; sono tute plastificate.
CLAUDIA DI PASQUALE Ma è quella per l’imbianchino?
VINICIO AMICI – CONFEDERAZIONE AUTONOMA ITAIANA DEL LAVORO SANITÀ – LATINA No, viene utilizzata per tante… credo che viene utilizzata per tante cose.
CLAUDIA DI PASQUALE Guarda che questa tuta non va bene.
VINICIO AMICI – CONFEDERAZIONE AUTONOMA ITAIANA DEL LAVORO SANITÀ – LATINA Ecco perché siamo in mobilitazione contro la Regione, perché non aiuta nessuno.
CLAUDIA DI PASQUALE Queste tute non proteggono nessuno.
VINICIO AMICI – CONFEDERAZIONE AUTONOMA ITAIANA DEL LAVORO SANITÀ – LATINA Che facciamo? Andiamo proprio senza tute? Non ci sono. Il problema grave è che le aziende stanno in affanno e penso che tra una settimana, se non interviene Ares o la Regione Lazio, andiamo in default con tutti i dpi.
CLAUDIA DI PASQUALE Con tutti i dispositivi.
VINICIO AMICI – CONFEDERAZIONE AUTONOMA ITAIANA DEL LAVORO SANITÀ – LATINA Con tutti i dispositivi.
CLAUDIA DI PASQUALE In che senso in default? Che finiscono?
VINICIO AMICI – SEGRETARIO PROVINCIALE DI LATINA SANITÀ CONF. A.I.L. In default, che non abbiamo più nulla.
CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Contattiamo la Croce Bianca. Ci assicura di aver acquistato delle tute idonee. La circolare ministeriale del 22 febbraio 2020 indica quali sono i dispositivi di sicurezza che devono indossare gli operatori delle ambulanze. Maschere con filtro FFP2, protezione facciale, tuta protettiva, doppi guanti e protezione per gli occhi.
CLAUDIA DI PASQUALE Gli operatori del 118 per essere realmente protetti che tipo di tute devono usare?
MARIO BALZANELLI – PRESIDENTE NAZIONALE SOCIETÀ ITALIANA SISTEMA 118 Devono usare tute specifiche che proteggano dalla minaccia biologica, quindi da agenti infettivi le quali sono ben identificate da un simbolo che è valido a livello internazionale.
CLAUDIA DI PASQUALE Che è questo simbolo qua…
MARIO BALZANELLI – PRESIDENTE NAZIONALE SOCIETÀ ITALIANA SISTEMA 118 Che è questo simbolo qui ed ha una certificazione specifica che è la EN14126.
CLAUDIA DI PASQUALE Ma la circolare iniziale del ministero dove si parlava genericamente di tute, indicava secondo lei anche l’obbligo dei calzari?
MARIO BALZANELLI – PRESIDENTE NAZIONALE SOCIETÀ ITALIANA SISTEMA 118 La tuta è comprensiva di tutto il corpo che lo avvolge dalla testa ai piedi.
CLAUDIA DI PASQUALE E le tute che non hanno i piedi?
MARIO BALZANELLI – PRESIDENTE NAZIONALE SOCIETÀ ITALIANA SISTEMA 118 Sono necessari i calzari in quel caso. Anche perché il virus aderisce a tutte le superfici.
CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Ma ognuno fa poi di testa sua. Questa è la centrale operativa del 118 di Benevento. Gli operatori indossano le tute, ma non hanno i calzari.
CIRIACO PEDICINI – RESPONSABILE CENTRALE OPERATIVA 118 BENEVENTO I calzari no, non vengono usati, ma da quello che mi risulta i dispositivi, non sono previsti i calzari.
CLAUDIA DI PASQUALE Quindi lei mi garantisce che uno può anche andare senza calzari, non è rischioso per l’operatore?
CIRIACO PEDICINI – RESPONSABILE CENTRALE OPERATIVA 118 BENEVENTO Guardi, abbiamo tutti delle scarpe anti-infortunistiche certificate CE; ritengo che quelle possano essere soddisfacenti.
CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Non la pensano così i medici del 118 che preoccupati hanno inventato un escamotage: al posto dei calzari indossano dei sacchetti di plastica.
CLAUDIA DI PASQUALE Cioè usate i sacchetti per l’immondizia?
EMILIO TAZZA – SEGRETARIO SINDACATO MEDICI CIMO BENEVENTO Beh, non diciamo proprio così, per i rifiuti speciali, insomma va bene, sì. Sì, è così.
CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Emilio è un medico e un sindacalista del 118. Ci racconta come i sindacati abbiano denunciato il trasferimento di un caso confermato di Coronavirus senza che gli operatori avessero i dispositivi idonei.
CLAUDIA DI PASQUALE E come erano vestiti quindi?
EMILIO TAZZA – SEGRETARIO SINDACATO MEDICI CIMO BENEVENTO Soltanto con il camice. Il nostro responsabile che sosteneva che le tute non ci spettavano, sebbene ci fosse una circolare che le prevedeva esplicitamente.
CLAUDIA DI PASQUALE Alla fine le tute vi sono state date ma perché le avete chieste voi in sostanza.
EMILIO TAZZA – SEGRETARIO SINDACATO MEDICI CIMO BENEVENTO Perché abbiamo evidenziato che sostanzialmente ci spettavano. CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO A mostrarci le tute è proprio il responsabile del 118 con cui si sono scontrati i medici.
CIRIACO PEDICINI – RESPONSABILE CENTRALE OPERATIVA 118 BENEVENTO I kit che diamo ai nostri operatori è praticamente questo, c’è una tuta con cappuccio di terza categoria, di varie taglie e varie misure.
CLAUDIA DI PASQUALE Questa tuta protegge per il rischio biologico?
CIRIACO PEDICINI – RESPONSABILE CENTRALE OPERATIVA 118 BENEVENTO È una tuta di terza categoria, per cui l’istituto di protezione e prevenzione della Asl ce l’ha data garantita per la prevenzione del rischio biologico.
CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Basta però leggere la scheda tecnica di questa tuta per verificare che protegge solo da polvere e schizzi liquidi e non dagli agenti infettivi in quanto non è conforma alla normativa EN 14126. Qualche operatore ha iniziato a protestare e alla fine sono arrivate le tute idonee.
CLAUDIA DI PASQUALE È stato fatto un corso di formazione per spiegare ai vari operatori come bisogna vestirsi e svestirsi?
EMILIO TAZZA – SEGRETARIO SINDACATO MEDICI CIMO BENEVENTO No, non è stato fatto. Assolutamente. Ne avvertiamo la necessità.
CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Non va meglio agli infermieri e agli autisti del 118 di Benevento, che dipendono dalla società Misericordie d’Italia. All’inizio infatti sono state fornite delle tute idonee, ma poi…
CLAUDIA DI PASQUALE Le Misericordie che tipi di dispositivi hanno dato a infermieri e autisti?
GAETANO SIMEONE – DIRIGENTE PROVINCIALE NURSING UP BENEVENTO Tute che non idonee e tant’è che non sono utilizzate.
CLAUDIA DI PASQUALE E invece per sanificare l’ambulanza li hanno dati i dispositivi corretti?
GAETANO SIMEONE – DIRIGENTE PROVINCIALE NURSING UP BENEVENTO No, manco quello. Visto che l’appalto è di un certo valore, Le Misericordie dovevano intervenire ad horas quando è scoppiata l’epidemia e dotare i dipendenti dei dispositivi di protezione idonei.
CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Questa è una delle tute fornite. Ottima per il bricolage e per proteggersi dalle macchie, ma forse non dai virus. L’altro modello distribuito è invece una tuta per l’industria alimentare, ideale per fare torte, ma priva della certificazione contro gli agenti infettivi. Intanto l’Asl di Benevento l’ha dichiarata idonea.
EMILIO TAZZA – SEGRETARIO SINDACATO MEDICI CIMO BENEVENTO Nelle guerre c’è una trincea e delle truppe che stanno al fronte. Ecco, noi medici del 118, gli infermieri, gli autisti del 118, sono in questa trincea. In effetti ci sembra di andare a combattere con delle armi spuntate.
CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO A Benevento il primo morto di Coronavirus è stato proprio il caposala della centrale operativa del 118. Aveva solo 57 anni.
CIRIACO PEDICINI – RESPONSABILE CENTRALE OPERATIVA 118 BENEVENTO Un nostro operatore è stato colpito dal Coronavirus.
CLAUDIA DI PASQUALE Il personale che è stato in contatto con questa persona è andato in quarantena?
CIRIACO PEDICINI – RESPONSABILE CENTRALE OPERATIVA 118 BENEVENTO No, il personale non è andato in quarantena perché nell’ultima Gazzetta, è previsto che il personale sanitario non vada in quarantena.
CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Questo è invece l’ospedale “Vito Fazzi” di Lecce. Anche qui gli operatori del 118 hanno denunciato prima di avere ricevuto delle tute senza protezione per gli agenti infettivi, poi la carenza di mascherine con filtro. In compenso a Lecce i malati di coronavirus saranno trasferiti in questo ospedale nuovo di zecca. Costo: 75 milioni di euro, prima pietra posata nel 2010.
RODOLFO ROLLO – DIRETTORE GENERALE ASL LECCE Qui arriveranno solamente i casi COVID positivi. Qui stanno cominciando l’allestimento delle terapie intensive.
CLAUDIA DI PASQUALE Quanti medici in totale, quanti operatori potranno lavorare qui solo per il Coronavirus?
RODOLFO ROLLO – DIRETTORE GENERALE ASL LECCE Per ogni piano dovrebbero essere almeno dodici medici, tredici medici, al netto di tutti quanti gli anestesisti rianimatori che dovrebbero essere altrettanti.
CLAUDIA DI PASQUALE Ma li avete in questo momento? Ci sono queste persone?
RODOLFO ROLLO – DIRETTORE GENERALE ASL LECCE Per tutto quanto il primo piano sì.
CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO I piani però sono quattro, rischiano di restare vuoti. Mancano i rianimatori. Dall’altra parte diversi medici e operatori sanitari si sono già contagiati e i sindacati hanno 24 denunciato la mancata sanificazione degli ambienti e la costante carenza di dispositivi di protezione.
CLAUDIA DI PASQUALE Noi abbiamo un ospedale meraviglioso, ma se poi i medici non sono protetti…
RODOLFO ROLLO – DIRETTORE GENERALE ASL LECCE Certo. Noi per i prossimi cinque giorni non abbiamo problemi.
CLAUDIA DI PASQUALE Per i prossimi cinque giorni, poi è finita?
RODOLFO ROLLO – DIRETTORE GENERALE ASL LECCE Eh. Se nel frattempo domani o dopodomani non ci arriva una iperfornitura, allora avremo problemi.
CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO La carenza di dispositivi di protezione adeguati per il 118 riguarda tutta l’Italia. È così che lo scorso 14 marzo, l’Istituto Superiore di Sanità ha pensato bene di pubblicare questo rapporto in cui sdogana come misure di protezione per gli operatori delle ambulanze anche i camici, le mascherine chirurgiche senza filtro.
MARIO BALZANELLI – PRESIDENTE NAZIONALE SOCIETÀ ITALIANA SISTEMA 118 L’Istituto superiore di Sanità farebbe bene a vestirsi con quegli stessi dispositivi e ad accompagnarci, se la sentono. Venga sul campo, venga a toccare i COVID e allora vediamo se va bene. Noi stessi abbiamo chiesto un incontro, un tavolo tecnico del Ministero dedicato alle problematiche del 118 e ancora oggi siamo in attesa.
CLAUDIA DI PASQUALE Non vi hanno ascoltato, in sostanza.
MARIO BALZANELLI – PRESIDENTE NAZIONALE SOCIETÀ ITALIANA SISTEMA 118 Quel tavolo tecnico di incontro tra tecnici, non lo abbiamo mai visto.
CLAUDIA DI PASQUALE Quanti operatori del 118 oggi si ritrovano contagiati dal coronavirus?
MARIO BALZANELLI – PRESIDENTE NAZIONALE SOCIETÀ ITALIANA SISTEMA 118 Sono centinaia in tutto il paese, sono centinaia. Il nostro è un lavoro tra vocazione e passione e determinazione. Ma non può e non deve diventare un martirio.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Eravamo partiti alla grande, con la barella a biocontenimento poi è finita che ci sono alcuni operatori del 118 che indossano tute da imbianchino, o da pasticciere. E pensare che ci sono posti che magari ad averle queste tute, sono quei posti dove basta un sospetto paziente COVID per mettere in crisi un’intera struttura. La nostra Adele Grossi.
ADELE GROSSI Posso chiedervi com'è la situazione? OPERATORE 118 Tragica. Siamo disorganizzati. Siamo disorganizzati e non si capisce chi comanda. Non ci sono percorsi stabiliti...
MEDICO 1 OSPEDALE CASTROVILLARI No, c'erano i percorsi stabiliti e che qui qualcuno si sveglia la mattina e pensa diversamente. Sabato siamo rimasti che il percorso era quello di là...
ADELE GROSSI FUORI CAMPO Il 10 marzo, la Regione Calabria chiede alle aziende sanitarie provinciali di individuare le strutture destinate all’emergenza COVID. La provincia più grande, quella di Cosenza, identifica questo ospedale, a Castrovillari.
OPERATORE 118 In realtà abbiamo la tenda pre-triage che non è mai entrata in funzione. Non si sa chi debba prendere in carico questa funzione.
ADELE GROSSI FUORI CAMPO Davanti l’ospedale, un paziente forse contagiato rimane in ambulanza per oltre due ore.
OPERATORE 118 Io sono qui fermo con il paziente dalle 11:05.
MEDICO 1 OSPEDALE CASTROVILLARI Dottore, ma non era avanti il percorso per il COVID? Perché sono venuti qui? Chi gliel’ha detto?
MEDICO 2 OSPEDALE CASTROVILLARI Mah sono equivalenti. È la stessa cosa. Poi facciamo sanificare di qua anziché di là … Il paziente è barellato?
OPERATORE 118 Possiamo farlo scendere.
ADELE GROSSI FUORI CAMPO In questo ospedale, nel 2012, erano state inaugurate 4 sale operatorie costate quasi 5 milioni di euro. Non sono mai entrate in funzione, perché mai collaudate.
ADELE GROSSI FUORI CAMPO Ma voi avete un reparto dedicato?
MEDICO 2 OSPEDALE CASTROVILLARI No…
ADELE GROSSI FUORI CAMPO 26 E dove va adesso il paziente?
MEDICO 2 OSPEDALE CASTROVILLARI A fare una tac.
ADELE GROSSI FUORI CAMPO Dopo la tac, il paziente viene riportato in ambulanza…
ADELE GROSSI Posso chiedere dove andate?
OPERATORE 118 Ancora non lo sappiamo…
FERDINANDO LAGHI - EX PRIMARIO MEDICINA INTERNA OSPEDALE CASTROVILLARI Una volta dato il titolo di Ospedale COVID-19, non sono arrivati immediatamente i dispositivi di protezione individuale. Qui è successo che sono arrivati prima i pazienti.
ADELE GROSSI FUORI CAMPO L’ospedale di Castrovillari ha assolto la sua funzione per soli 7 giorni, per poi essere liquidato.
GIUSEPPE ZUCCATELLI – COMMISSARIO AD INTERIM AZIENDA SANITARIA PROVINCIALE COSENZA Qui c’è stato un grande equivoco: Castrovillari noi abbiamo semplicemente riattivato la pneumologia.
ADELE GROSSI Mi sta dicendo che non è vero che lei aveva identificato la struttura di Castrovillari come…?
GIUSEPPE ZUCCATELLI – COMMISSARIO AD INTERIM AZIENDA SANITARIA PROVINCIALE COSENZA Assolutamente. Qui l’equivoco è a mille e quindi ormai capire come avvengono certe enfatizzazioni di certe notizie…
ADELE GROSSI FUORI CAMPO Più che notizie, in realtà disposizioni ben chiare, dettate in un documento del 12 marzo che ha firmato lui stesso. Evidentemente se n’è dimenticato.
ADELE GROSSI Quando la Regione ha chiesto alle aziende sanitarie: Ditemi le strutture COVID 19 da identificare, lei quale struttura ha indicato?
GIUSEPPE ZUCCATELLI – COMMISSARIO AD INTERIM AZIENDA SANITARIA PROVINCIALE COSENZA Paola e, come si chiama? Cetraro.
ADELE GROSSI FUORI CAMPO …ma Paola, al momento, ha zero posti letto in terapia intensiva e sembra manchino i requisiti minimi per attrezzarli… La tenda del pre-triage appena qualche giorno fa, è stata messa fuori gioco dal maltempo.
OPERATORE OSPEDALE PAOLA Guardate la nostra tenda che fine ha fatto. Non c’è rimasto niente.
ADELE GROSSI FUORI CAMPO All’ospedale di Cetraro, invece, stanno cercando di organizzarsi…
ROBERTO PITITTO - REFERENTE UNITÀ DIALISI OSPEDALE CETRARO In questo ospedale abbiamo avuto il primo paziente COVID. Ora è ricoverato a Cosenza perché lì c’è Malattie Infettive.
ADELE GROSSI FUORI CAMPO Per capirci, gli abitanti di San Lucido, il secondo comune della Calabria chiuso per un focolaio, in caso di bisogno vanno nella vicina Paola, dove però c’è solo il pre-triage; per eventuale TAC, si spostano a Cetraro e infine a Cosenza se serve il ricovero in “Malattie Infettive”.
ADELE GROSSI Lei da dove viene?
UOMO 2 Da Corigliano Calabro.
ADELE GROSSI E da Corigliano quanto dista questo ospedale?
UOMO 2 Eh, siamo nell’ordine dei 100 km.
ADELE GROSSI Ed era l’ospedale più vicino?
UOMO 2 Sì, il centro operativo COVID più vicino, sì.
ADELE GROSSI FUORI CAMPO Le strutture di Paola e Cetraro, secondo il commissario, dovrebbero gestire l’emergenza COVID nei 150 comuni cosentini e ad attrezzarli dovrebbe pensarci lui, che è uno e trino, perché oltre Cosenza, dirige anche due ospedali a Catanzaro. ADELE GROSSI Ma lei sarà andato a vedere la tenda del pre-triage?
GIUSEPPE ZUCCATELLI – DIRETTORE “MATER DOMINI” E “PUGLIESE CIACCIO” - CATANZARO Sì, adesso lei mi segnala di avere questo problema. Io non ho riscontro da questo punto di vista, dopodiché se ci sono dei problemi di difficoltà di accesso al pre-triage, io verificherò quello che lei mi sta dicendo in diretta.
UOMO 4 Devo consegnare dei tamponi, abbiamo l’autorizzazione.
ADELE GROSSI FUORI CAMPO All’ospedale di Catanzaro, la tenda del pre-triage è stata piazzata in un piccolo cortile interno, dove chiunque ha libertà di accesso.
DONNA 1 Devo prendere il risultato?
OPERATORE SANITARIO No, per il risultato chiamano loro…
ADELE GROSSI FUORI CAMPO Nessuna distanza di sicurezza fra chi attende di fare il tampone, chi manifesta sintomi e chi attraversa l’area un po’ per caso.
OPERATORE 118 Una volta era chiuso lì…c’era il nastro all’inizio, poi non so chi l’ha rotto…
ADELE GROSSI FUORI CAMPO L’azienda sanitaria di Catanzaro è stata sciolta per mafia l’anno scorso. Oggi è commissariata così come quella di Reggio Calabria. E proprio in provincia di Reggio Calabria, a Gerace, ecco quello che rimane di questo ospedale. 5 milioni di euro per metterlo in piedi, mai utilizzato. Qui si trovano persino attrezzature mediche ormai logore; alla fine è costato anche 2 milioni di euro per danni erariali. A Rosarno, sempre nel reggino, stessa situazione: miliardi delle vecchie lire… buttati. Porte, attrezzature, brandine: è stato tutto rubato. Sono alcuni dei simboli del fallimento della sanità calabrese: oltre 100 milioni di euro di buco, 10 anni di commissariamento. Il Governatore Santelli, appena eletta, ha alzato le mani perché in Calabria l’emergenza c’è sempre a prescindere dal virus.
JOLE SANTELLI – PRESIDENTE REGIONE CALABRIA Sì, ma una gestione dissennata dei soldi in una regione in cui la politica è commissariata da dieci anni, le chiedo a lei dove sta la responsabilità. Difficilmente si può dare totalmente ai calabresi.
ADELE GROSSI FUORI CAMPO A Scalea, provincia di Cosenza, l’ospedale è costato 20 miliardi delle vecchie lire. Mai entrato in funzione ma oggi è solo apparentemente abbandonato. Girando l’angolo di un corridoio scopriamo che almeno la “disinfestazione dai ratti”, è attiva, così come è attivo nell’ospedale fantasma un poliambulatorio. Attivo si fa per dire.
OPERATORE 118 Questo è un poliambulatorio.
ADELE GROSSI Quindi qui non c’è un Pronto Soccorso?
OPERATORE 118 No.
ADELE GROSSI E la Guardia Medica?
OPERATORE 118 E’ qui accanto.
ADELE GROSSI Ma è attiva?
OPERATORE 118 Credo di sì.
UOMO 1 E’ chiusa per…
ADELE GROSSI Perché è chiusa?
GUARDIA MEDICA OSPEDALE SCALEA Se ne parla lunedì. Lunedì arrivano le mascherine.
UOMO 1 Ah devono arrivare le mascherine? ...
GUARDIA MEDICA OSPEDALE SCALEA Eh sì… Oggi c’è una disposizione dell’azienda che dice che è impedito l’accesso al pubblico perché non abbiamo le mascherine.
ADELE GROSSI Fino a ieri lavoravate qui come Guardia Medica?
GUARDIA MEDICA OSPEDALE SCALEA Certo sì.
ADELE GROSSI Quindi avevate le mascherine?
GUARDIA MEDICA OSPEDALE SCALEA No. Senza mascherina…a rischio.
ADELE GROSSI FUORI CAMPO Oggi invece lavorano in pratica in Smart working: chiami, ti fanno una diagnosi telefonica e alle brutte arriva il 118.
UOMO 1 Quando abbiamo bisogno a volte si va in ospedale: ci sono i Pronto Soccorso.
ADELE GROSSI Ma in quale ospedale andate?
UOMO 1 E c’è questo qui vicino di Praia che mi sembra che funzioni adesso…prima era stato chiuso.
ADELE GROSSI FUORI CAMPO Ma per il COVID, al momento la struttura più vicina…è a 42 km da qui e tre quarti d’ora di statale tirrenica.
MASSIMO SCURA – COMMISSARIO DI GOVERNO SANITÀ REGIONE CALABRIA 2015-2018 La Calabria ha perso interamente un anno, 2018, senza fare nulla, anzi riducendo le persone che lavorano in sanità e quindi non solo non aumentando i posti letto, ma riducendo ampiamente i servizi che venivano erogati.
ADELE GROSSI FUORI CAMPO Nel 2016, il decreto dell’ex commissario alla sanità aveva istituito un totale di 779 posti letto in più da garantire negli ospedali pubblici… 4 anni dopo, buona parte di quei letti è rimasta sulla carta; tuttavia, l’emergenza COVID non doveva preoccupare la Calabria, almeno secondo Antonio Belcastro, che dal 2018 dirige il Dipartimento Tutela della Salute della Regione.
ANTONIO BELCASTRO – DIPARTIMENTO TUTELA DELLA SALUTE CALABRIA (DELEGATO EMERGENZA COVID) I nostri ospedali sono pronti; finora abbiamo risposto con le aziende ospedaliere. Abbiamo avuto anche i complimenti, per la verità, dal Ministero perché li abbiamo seguiti con accuratezza.
ADELE GROSSI FUORI CAMPO Belcastro, da qualche settimana, è stato promosso delegato della neogovernatrice per la gestione dell’emergenza COVID-19. Lo affianca il capo della Protezione Civile regionale, Domenico Pallaria.
ADELE GROSSI Ci sono ospedali che non sono dotati ancora dell’agibilità?
DOMENICO PALLARIA – CAPO PROTEZIONE CIVILE CALABRIA (EMERGENZA COVID) Può darsi… Può darsi. Può darsi, questo sicuramente. La maggior parte non sono accatastati quindi l’agibilità non può essere… ADELE GROSSI Cioè oggi l’emergenza è gestita spesso in delle strutture COVID che sono fra l’altro fantasma o inagibili?
DOMENICO PALLARIA – CAPO PROTEZIONE CIVILE CALABRIA (DELEGATO EMERGENZA COVID) Eh, ma guardi, per esempio sì, posso dire che è così.
ADELE GROSSI FUORI CAMPO A Vibo Valentia, appena l’anno scorso, nell’ospedale oggi chiamato a gestire l’emergenza, risultavano gravi carenze igienico-strutturali. Al momento, però, ci assicurano che è tutto sotto controllo, a parte le mascherine.
GIUSEPPE ZUCCATELLI – COMMISSARIO AD INTERIM AZIENDA SANITARIA PROVINCIALE COSENZA Io mi sono interfacciato con la Protezione Civile regionale, la quale mi ha dato una mail: coordinamento.emergenzaatprotezionecivile.it, a cui i miei collaboratori si stanno rivolgendo per potere sbloccare questa situazione perché diventa paradossale!
ADELE GROSSI Mi faccia capire: in piena emergenza, mancano i presidi sanitari e a lei hanno dato una mail?
GIUSEPPE ZUCCATELLI – COMMISSARIO AZIENDA SANITARIA PROVINCIALE COSENZA Sì, esatto. Questa è alla fine una sintesi molto efficace.
DOMENICO PALLARIA – CAPO PROTEZIONE CIVILE CALABRIA (EMERGENZA COVID) Queste qui non le hanno volute…cioè ne sono arrivate…sono arrivati questi pacchi. 19 mila di queste. Le abbiamo distribuite però quelli delle Asp ce le hanno restituite…
ADELE GROSSI FRUORI CAMPO Il capo della Protezione Civile regionale non deve gestire solo l’emergenza virus; è alle prese anche con altre emergenze croniche.
DOMENICO PALLARIA – CAPO PROTEZIONE CIVILE CALABRIA (EMERGENZA COVID) Veramente io mi occupo anche di altro, quindi… Ho anche i rifiuti.
ADELE GROSSI Anche i rifiuti? Quindi lei ha: lavori pubblici, mobilità, infrastrutture, trasporti, rifiuti, è responsabile per gli ospedali di Vibo, Catanzaro e Gioia Tauro…
DOMENICO PALLARIA – CAPO PROTEZIONE CIVILE CALABRIA (EMERGENZA COVID) Sono responsabile del procedimento proprio…
ADELE GROSSI FRUORI CAMPO Ci informa che pende su di lui una richiesta di rinvio a giudizio per abuso d’ufficio e un avviso di garanzia.
DOMENICO PALLARIA – CAPO PROTEZIONE CIVILE CALABRIA (EMERGENZA COVID) L’indagine giudiziaria è in corso, sì, sì, Ho l’avviso di garanzia per abuso d’ufficio come responsabile del procedimento.
ADELE GROSSI FRUORI CAMPO La neogovernatrice ha comunque deciso di delegargli la gestione dell’emergenza.
JOLE SANTELLI – PRESIDENTE REGIONE CALABRIA Insomma chi dovevo nominare? Chi è il responsabile oggi della Protezione Civile e chi è responsabile oggi del Dipartimento Salute.
ADELE GROSSI FRUORI CAMPO La scorsa settimana, la Regione ha pubblicato una manifestazione di interesse per poter poi procedere all’acquisizione di presidi di sicurezza e macchinari, senza limiti di spesa… L’acquisto di ecografi, ventilatori, caschi sarà autorizzato da lui…
DOMENICO PALLARIA – CAPO PROTEZIONE CIVILE CALABRIA (EMERGENZA COVID) Io non mi sono mai interessato –nemmeno lui- di edilizia sanitaria, di attrezzature sanitarie quindi è una cosa che…io mi occupo di altre cose. In questo frangente siamo stati catapultati quindi se lei mi dice: Che cos’è un ventilatore? Io non le saprei nemmeno dire…
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO La Calabria è chiusa dal 22 marzo, ma molti medici hanno visitato senza i necessari dispositivi di protezione. Ecco, là più che altrove è necessario che il contagio non si diffonda. Poi ci sono anche i medici che sono preparati, quelli dell’ospedale di Castrovillari, che abbiamo visto ma si muovono purtroppo con indicazioni poco chiare… Ci sono poi alcune strutture che non hanno terapie intensive sufficienti né apparecchi per la respirazione, ma verranno comprati senza limiti di spesa anche con la firma di chi ha ammesso di non capire nulla di dispositivi sanitari. Questo da una parte. Invece dall’altra parte dello stretto, c’è uno che sarebbe anche competente, che è in un punto nevralgico del paese perché lì dove c’è il maggior flusso di persone con il Mediterraneo, però a questo i fondi non arrivano.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Eppure sulle epidemie la Sicilia è frontiera d’Europa e tre anni fa a Catania, in questi due edifici, si stava creando il terzo polo nazionale del biocontenimento, dopo il Sacco di Milano e lo Spallanzani di Roma. Sergio Pintaudi ne era l’ispiratore. Ma poi non se ne è fatto nulla. E oggi in Sicilia le camere di biocontenimento sono solo 58.
SERGIO PINTAUDI - EX PRIMARIO RIANIMAZIONE – CONS. SCIENTIFICO MARINA MILITARE Questa idea nasce dalle due fondamentali motivazioni che sono state l’emergenza migranti che noi abbiamo avuto e l’altra l’emergenza ebola del 2014. Perché, vede, non è che le malattie infettive sono scomparse. Un anno si chiama zika, un altro anno si chiama chikungunya, poi si chiama aviaria, poi si chiama suina, poi si chiama H1N1. Ogni anno c’è un evento del genere.
PAOLO MONDANI Insomma c’era tutto per diventare un terzo polo italiano, ma un polo del mediterraneo.
SERGIO PINTAUDI - EX PRIMARIO RIANIMAZIONE – CONS. SCIENTIFICO MARINA MILITARE Certo.
PAOLO MONDANI Che cosa ha bloccato?
SERGIO PINTAUDI - EX PRIMARIO RIANIMAZIONE – CONS. SCIENTIFICO MARINA MILITARE È venuto a mancare la sensibilità culturale a capire che sarebbe arrivato Mers Cov 2 e che ne arriveranno degli altri. Questo è il documento che ogni anno il nostro governo produce alla Nato per eventi importanti quali le migrazioni.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Il documento porta la data del 12 febbraio del 2017. Il ministero della Sanità individuava il terzo polo nazionale del biocontenimento a Catania.
PAOLO MONDANI Leggo che questo documento Nato per la pianificazione delle emergenze nazionali non è mai stato implementato dalla Regione. Anche qui, perché?
SERGIO PINTAUDI - EX PRIMARIO RIANIMAZIONE – CONS. SCIENTIFICO MARINA MILITARE Queste situazioni di interesse internazionale avrebbero bisogno di un’unica regia, che sia nazionale.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO L’ospedale civico di Partinico è il presidio designato dall’Azienda sanitaria di Palermo per curare esclusivamente i malati di Coronavirus. Il direttore generale dell’Asp Daniela Faraoni ha già fatto partire la struttura. Sulla carta si parla di quaranta posti letto tra terapia intensiva e sub intensiva, ma i mezzi e il personale ci sono?
PAOLO MONDANI Ma se dovesse dire quanti giorni avete di autonomia?
DANIELA FARAONI – DIRETTORE GENERALE AZIENDA SANITARIA PALERMO Noi in questo momento non abbiamo giorni di autonomia, noi abbiamo una misurazione delle nostre necessità e periodicamente queste necessità vengono affrontate, ripeto: con misura e razionando quello che abbiamo ma proprio per evitare anche lo spreco, l’uso improprio.
MAURIZIO MONTALBANO – DIRETTORE SANITARIO OSPEDALE PARTINICO Dovremmo avere 24 ventilatori entro giorno uno.
PAOLO MONDANI Quanti ventilatori avete?
MAURIZIO MONTALBANO – DIRETTORE SANITARIO OSPEDALE PARTINICO In questo momento ne abbiamo sei.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Ascoltando medici e anestesisti scopriamo che la struttura è solo sulla carta, il personale manca e andrà persino addestrato. Due ore dopo le nostre interviste parte la protesta dei dipendenti.
SANDRO TOMASELLO – ANESTESISTA SEGRETARIO CIMO PALERMO C’è una carenza cronica di dispositivi di protezione individuale perciò mascherine con filtro, poi le tutine quelle scafandrate, le visiere, gli occhiali, tutto il materiale necessario per la gestione del paziente infettivo.
PAOLO MONDANI Questa mascherina se l’è comprata lei?
ANESTESISTA Sì, questa è una mascherina personale.
PAOLO MONDANI Non c’è qua dentro ancora?
ANESTESISTA Ci son le mascherine però siccome abbiamo pochissime risorse stiamo cercando di utilizzarle nel momento in cui arriverà il primo paziente COVID, perché quella è la vera urgenza.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Eppure il direttore Daniela Faraoni pensa di denunciare i lavoratori in servizio che hanno aderito alla protesta.
PAOLO MONDANI Quanti sono gli anestesisti qua dentro?
SANDRO TOMASELLO – ANESTESISTA SEGRETARIO CIMO PALERMO Allora gli anestesisti sono dodici. Sei posti letto ce li gestiamo con tranquillità. Quaranta posti letto sarebbero ingestibili con dodici persone.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO In una Palermo svuotata si vedono solo barboni e cani con il padrone. Alla stazione arriva l’ultimo intercity da Roma. Scendono i passeggeri, vengono controllate le loro dichiarazioni. Non la temperatura. Chi sa se i trentamila arrivati dal Nord in questi giorni rispetteranno la quarantena. E il piano di emergenza della Regione ha messo in campo nuove risorse?
ANGELO COLLODORO - DIRIGENTE MEDICO - SEGRETERIA CIMO SICILIA Mi perdoni il termine nostro gergale, ma stiamo friggendo con l’olio che avevamo. Non ci sono nuove risorse. Uno dei numeri era per esempio: quanti posti letto di isolamento in malattie infettive abbiamo a Palermo? Otto posti letto. Quanti ne ha Catania? 36.
PAOLO MONDANI Allora vedo che: terapie intensive 346 in Sicilia, dovrebbero essere 428. Perché ci sono poche terapie intensive rispetto al resto d’Italia?
ANGELO COLLODORO - DIRIGENTE MEDICO SEGRETERIA CIMO SICILIA Per drenare risorse si è ritenuto di risparmiare sulla terapia intensiva; risparmiando sulla terapia intensiva ho possibilità di dirottare risorse su altro. Mantengo primariati, magari creo doppioni.
PAOLO MONDANI Creazione di reparti di natura come possiamo dire politica?
ANGELO COLLODORO DIRIGENTE MEDICO SEGRETERIA CIMO SICILIA Politiche, parapolitiche…
PAOLO MONDANI Massonerie? ANGELO COLLODORO DIRIGENTE MEDICO SEGRETERIA CIMO SICILIA Ma anche…
PAOLO MONDANI Mafia? ANGELO COLLODORO DIRIGENTE MEDICO SEGRETERIA CIMO SICILIA Beh, sulla mafia la magistratura ha scritto libri, ha scritto sentenze che ha coinvolto primariati.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Al Policlinico di Palermo, in questo palazzo blu stanno realizzando il reparto solo COVID. Venti letti di degenza e quattro terapie intensive.
RENATO COSTA - DIRETTORE MEDICINA NUCLEARE POLICLINICO PALERMO Viviamo una condizione di caos calmo, cioè siamo in una condizione di attesa perché ci aspettiamo da un momento all’altro che quello che è successo al nord dovrebbe piano piano verificarsi anche da noi. Noi abbiamo cronicamente una condizione deficitaria rispetto a strutture, strutture alberghiere, posti di rianimazione, tecnologia, numero di medici. Però anche questa cosa… magicamente si è verificata una cosa strana: bellissima. Cioè noi in dieci giorni abbiamo avuto o stiamo avendo tutto quello che abbiamo chiesto da dieci anni a questa parte.
PAOLO MONDANI In Lombardia c’è una terapia intensiva ogni 11mila abitanti, nel Lazio una ogni 11mila e rotti, un po’ di più. Sicilia una ogni 14.500. Perché non hanno fatto le terapie intensive in Sicilia?
RENATO COSTA - DIRETTORE MEDICINA NUCLEARE POLICLINICO PALERMO La sanità siciliana è stata tagliata direi quasi costantemente. Però diciamo che le disattenzioni maggiori si sono avute con la conseguenza della 502 che è del ’92. Cioè con i primi processi di aziendalizzazione che si sono verificati in Italia. Non si è parlato più dell’ospedale ma si è parlato dell’azienda. Quella logica ha distrutto tutto quello che poteva essere di buono.
PAOLO MONDANI Il governo Cuffaro?
RENATO COSTA - DIRETTORE MEDICINA NUCLEARE POLICLINICO PALERMO Ma anche prima. C’era il governo Provenzano, credo, prima. Poi ci fu anche un pezzo di governo Capodicasa. Io non assolvo nessuno. Nessuno merita l’assoluzione.
PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Le cose vanno molto peggio al Civico di Palermo, uno dei più grandi ospedali del Sud che sta realizzando 180 posti letto per malati COVID e 38 terapie intensive. Ora non ci sono respiratori e il dottor La Barbera ha lanciato un allarme alla direzione aziendale.
PAOLO MONDANI 36 Quindi non ci sono respiratori.
FRANCO LA BARBERA – SINDACATO FP CGIL MEDICI CIVICO PALERMO Non ci sono respiratori.
PAOLO MONDANI C’è il personale per poterli usare, nel caso arrivassero?
FRANCO LA BARBERA – SINDACATO FP CGIL MEDICI OSPEDALE CIVICO PALERMO Il personale non è stato formato e non viene tuttora formato a usare respiratori. Manca tutto. In molti reparti.
PAOLO MONDANI Un elenco.
FRANCO LA BARBERA – SINDACATO FP CGIL MEDICI OSPEDALE CIVICO PALERMO Mancano le mascherine. Noi abbiamo soltanto mascherine chirurgiche. Mancano le maschere FFP2 e FFP3. Per dire la verità ne hanno data soltanto una negli ultimi 15 giorni. Ma anche in reparti sensibili, i reparti molto delicati come ad esempio le infettivologie, non c’è materiale sufficiente perché ovviamente le persone possano operare in tutta tranquillità. PAOLO MONDANI Non ci sono neppure i camici?
FRANCO LA BARBERA – SINDACATO FP CGIL MEDICI OSPEDALE CIVICO PALERMO Ce ne sono pochi. E, praticamente, non c’è il ricambio.
PAOLO MONDANI Gli occhiali? FRANCO LA BARBERA – SINDACATO FP CGIL MEDICI OSPEDALE CIVICO PALERMO Gli occhiali, ad esempio, che sono secondo le indicazioni dell’OMS dovrebbero essere cambiati e ovviamente buttati. Invece si sente dire, si sente dire, che devono essere riutilizzati.
PAOLO MONDANI Si sente dire. Cioè, c’è un dirigente che ha detto di riutilizzarli.
FRANCO LA BARBERA – SINDACATO FP CGIL MEDICI OSPEDALE CIVICO PALERMO Esattamente. Esattamente. Non c’è, fra l’altro, nei vari reparti, un controllo sui visitatori.
PAOLO MONDANI Per esempio?
FRANCO LA BARBERA – SINDACATO FP CGIL MEDICI OSPEDALE CIVICO PALERMO Mah, ad esempio la gente può entrare negli orari di apertura delle porte, praticamente. Può entrare liberamente e non si controlla che abbia o no la mascherina, che abbia lavato o no le mani con un disinfettante. Quindi va a trovare i propri cari, ovviamente, e in questo modo è chiaro che la possibilità di contagio, qualora ci fosse un positivo, diventerebbero assolutamente enormi.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO È un po’ il risultato di 15 anni di politica che ha alimentato la cultura dello spendere senza un criterio, perché manca una centrale appaltante. È la cultura che ha consentito il moltiplicarsi dei primariati, la frammentazione di piccoli ospedali sul territorio, un po’ in contro tendenza con il resto del paese. Piccoli ospedali che poi sono diventati incubatori di malattie. Perché il paziente sul territorio, in mancanza di altro, va lì a curarsi. Se uno volesse cancellarli dovrebbe pensare a una rete di poliambulatori, a una assistenza domiciliare molto più capillare, all’assistenza specialistica. Ecco e poi questo se dovesse uno cancellarli genererebbe la protesta dei pazienti, dei cittadini, e anche cavalcata in qualche caso da qualche primario che ha qualche rapporto particolare con i fornitori. Sono i primari che decidono gli appalti delle pulizie, gli appalti per l’acquisto dei dispositivi sanitari. Ecco e chi controlla come vengono spesi questi soldi? Se è questa la situazione, questi piccoli ospedali rischiano di diventare una bomba sanitaria, ecco quindi una preghiera, se vogliamo evitare il disastro, rimaniamo a casa.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Bentornati tra gli eroi di questi tempi c’è anche il vigile del fuoco. Per lui mantenere la distanza di sicurezza per evitare il contagio mentre si sposta, mentre opera con i colleghi mentre soccorre una persona è praticamente impossibile.
AUDIO WHATSAPP CHAT VIGILI DEL FUOCO Purtroppo stanno arrivando degli esiti che sono parecchio allarmanti: su 35 tamponi fatti, sette sono positivi, 7 su 35, una percentuale altissima. Credo che il comando di Padova sia altamente compromesso.
AUDIO WHATSAPP CHAT VIGILI DEL FUOCO Ragazzi, ascoltatemi, domani mattina all'adunata io non ci sarò perché una ragazza che sta in camera con me si è sentita poco bene.
AUDIO WHATSAPP CHAT VIGILI DEL FUOCO A quanto ho saputo: soccorso a persona se non sbaglio a Bresso è saltato fuori che la persona aveva già dei sintomi. E adesso l'autopompa di Sesto è in quarantena.
AUDIO WHATSAPP CHAT VIGILI DEL FUOCO Sembra che lui stava male già da una settimana, naturalmente questo a nostra insaputa. Sembra che questi sintomi di tosse con la fuoriuscita del sangue è successo nei giorni passati. Il comando secondo me deve prendere il funzionario di guardia o chi per lui dice vai a casa de sto tipo che è un collega e accertate che gli venga fatto il tampone subito.
ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO 38 Quelle che avete sentito sono le testimonianze dei vigili del fuoco. Scarse o intempestive le informazioni sui colleghi contagiati, turni azzerati o ridotti, la paura di contagiare e contagiarsi a vicenda. Così i vigili si sono affidati ai social, con un importante messaggio: “Attenzione, il contagio possiamo essere noi”.
MARCELLO SERGIO – VIGILE DISTACCAMENTO ROMA Non abbiamo mascherine, non abbiamo guanti, non abbiamo occhialetti. Le uniche mascherine che ci sono state date, ci è stato imposto di utilizzarle solo ed esclusivamente su interventi in presenza di caso di coronavirus conclamato.
ROSAMARIA AQUINO Ma il capo del corpo non ha emanato delle misure?
COSTANTINO SAPORITO – COORDINAMENTO NAZIONALE SINDACATO USB VIGILI DEL FUOCO Sì ci sono delle disposizioni che le acquistano però in molti comandi come ad esempio quello di Roma in realtà scarseggiano.
MARCELLO SERGIO – VIGILE DEL FUOCO DISTACCAMENTO di ROMA Se noi non ci proteggiamo, corriamo il rischio di essere contagiati e di ammalarci. E quando andiamo a fare l'intervento a casa magari della signora anziana che è caduta dentro casa e noi dobbiamo andare a soccorrerla, rischiamo di contagiarla.
COSTANTINO SAPORITO – COORDINAMENTO NAZIONALE SINDACATO USB VIGILI DEL FUOCO A Milano un'intera squadra andando a fare un soccorso a persona si è ritrovata a toccare una persona che era infetta e quindi automaticamente è passata l'intera squadra in quarantena.
ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Alle scuole antincendio di Capannelle, all'inizio di marzo, ci sono due contagiati e 45 finiscono in quarantena... uno di loro, che vuole restare anonimo, racconta dal di dentro, come ci sono finiti...
VIGILE ANONIMO QUARANTENA Il problema è che la struttura non permette di fare questa quarantena. Nei giorni successivi al 28, gli stessi che ora sono in quarantena erano a mangiare insieme nella sala mensa.
COSTANTINO SAPORITO – COORDINAMENTO NAZIONALE SINDACATO USB VIGILI DEL FUOCO Ma vi danno assistenza medica?
VIGILE ANONIMO QUARANTENA Mah guarda io fino ad ora non ho visto nessun dottore.
VIGILE ANONIMO QUARANTENA Vuole sapere come stiamo.
ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Subito dopo la scoperta di questi due casi di COVID-19, 120 allievi sono stati mandati a casa.
VIGILE ANONIMO QUARANTENA Metà della nostra classe è riuscita ad andare via il venerdì, sono partiti tutti quanti come delle schegge. Il problema è che poi qualcuno arrivato a casa, poi si è ammalato.
ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Li hanno spediti nelle varie regioni d'Italia, anche in Veneto e Lombardia. Nella zona più calda del contagio.
ENRICO MONZINI – VIGILE DEL FUOCO MILANO Il primo caso che abbiamo avuto qui a Milano, l'hanno tenuto monitorato per 24 ore. Il problema è che il medico del comando, dopo questa valutazione, gli ha fatto un certificato dicendo che lui avrebbe potuto comunque continuare a lavorare, e quindi ritornare in mezzo a tutto il personale operativo.
ROSAMARIA AQUINO Quindi fammi capire, scusa: gli hanno fatto un tampone, diciamo un vostro tampone e nonostante sia risultato positivo...
ENRICO MONZINI – VIGILE DEL FUOCO MILANO Il tampone esce se non sbaglio con un valore da uno a 10, valore 2, ecco quindi molto basso.
ROSAMARIA AQUINO Ok. ENRICO MONZINI – VIGILE DEL FUOCO MILANO Il medico del comando gli ha detto che poteva rientrare in servizio è andato a cena con dei colleghi.
ROSAMARIA AQUINO Ci sono altri colleghi contagiati quindi?
ENRICO MONZINI – VIGILE DEL FUOCO MILANO Due colleghi in ospedale che sono della sua squadra e lui che è in isolamento adesso nel modulo abitativo.
ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Uno dei colleghi contagiati, che sceglie di restare anonimo, lo abbiamo sentito, qualche giorno prima di finire con una brutta crisi respiratoria in ospedale.
VIGILE ANONIMO CONTAGIATO Il collega che è stato il primo caso fa parte della mia stessa squadra.
ROSAMARIA AQUINO E il Comando che misura ha preso?
VIGILE ANONIMO CONTAGIATO Questo ragazzo viene messo in quarantena in una stanza per 24 ore. Gli hanno fatto fare un primo tampone. È risultato positivo a questo primo tampone, giustamente l'hanno messo fuori ma dopo l'hanno fatto rientrare in servizio.
ROSAMARIA AQUINO E lei ci è entrato in contatto?
VIGILE ANONIMO CONTAGIATO Io ho lavorato fino a venerdì scorso, il sabato scorso, la sera, io mi sono ammalato.
ROSAMARIA AQUINO Pensa che si potesse fare qualcosa per evitarlo?
VIGILE ANONIMO CONTAGIATO Dall'inizio è stato gestito male perché il comando ci doveva chiamare a tuti quanti della squadra, diceva ragazzi venite qua, tampone e tutti in quarantena, immediatamente senza storie.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Ci ha scritto il capo dipartimento dei vigili del fuoco, il dottor Salvatore Mulas, per conto del capo Dattilo, e ci dice che quelle che abbiamo sentito sono esclusivamente posizioni sindacali - che sono state anche denunciate all’autorità giudiziaria – che non ci sono più contagiati, sono in linea con la media nazionale che per quello che riguarda invece i tre contagiati della scuola di Capannelle sono state seguite le misure di sorveglianza e di sicurezza dettate dalla task force della regione Lazio e dai medici dello Spallanzani. Dicono anche che non mancano le mascherine e i dispositivi di protezione e che sono state anche chieste e arriveranno presto le scorte. Bene, così deve essere perché del resto lo prevedeva anche il piano nazionale contro le pandemie. Dopo il 2003, dopo l’aviaria, l’OMS aveva detto a tutti i paesi: “attrezzatevi, preparatevi, per affrontare le pandemie e aggiornate i piani”. Ecco, il nostro è questo, è per le influenze, prevede anche l’utilizzo dei vaccini, ma in questo caso non c’è ancora, ed è del 2010. Però è interessante leggerlo perché identifica quali sono le categorie da proteggere in maniera categorica per non subire l’impatto del virus, e sono, al primo posto, il personale sanitario, quello di ospedali, degli ambulatori, i medici di famiglia. Poi ci sono le strutture a lunga degenza con dentro gli anziani, i servizi di sanità a contatto con il pubblico, le ambulanze, i laboratori clinici, le farmacie. Al secondo posto poi ci sono le forze dell’ordine, quelle che sono a contatto con il pubblico e ci sono anche i vigili del fuoco. Ecco secondo però il piano avemmo dovuto fare una cosa importante – ed è questa che ci interessa di più – avremmo dovuto contare i dispositivi medici da usare in caso di emergenza, tra cui le mascherine per personale sanitario sarebbero queste che hanno il filtro, sarebbero le FFP2 o 3, che sono diverse da quelle chirurgiche come queste. Bisognava stoccarle e distribuirle nelle regioni. Bisognava anche contare i medici e formarli perché è importante anche come utilizzare questi dispositivi di protezione. Nel 2013 il parlamento europeo aveva anche chiesto ai paesi membri di aggiornare questi piani ogni 3 anni e di dare un rendiconto. Noi lo abbiamo fatto Giulio Valesini ha incontrato Donato Greco, che per 20 anni è stato a capo del reparto del dipartimenti di epidemiologia dell'Istituto Superiore di Sanità. G
IULIO VALESINI C’è scritto nel piano “ridurre l’impatto della pandemia sui servizi sanitari e sociali, riassicurare il mantenimento dei servizi essenziali”.
DONATO GRECO – EPIDEMIOLOGO CENTRO EUROPEO PREVENZIONE MALATTIE Prepararsi per la guerra durante il tempo di pace è il comandamento.
GIULIO VALESINI E noi l’abbiamo fatto? DONATO GRECO – EPIDEMIOLOGO CENTRO EUROPEO PREVENZIONE MALATTIE Io non ne ho trovati. GIULIO VALESINI L’ultimo piano scritto organico è questo del 2009.
DONATO GRECO – EPIDEMIOLOGO CENTRO EUROPEO PREVENZIONE MALATTIE Del 2009 con i relativi piani regionali.
GIULIO VALESINI Che sono stati fatti, però?
DONATO GRECO – EPIDEMIOLOGO CENTRO EUROPEO PREVENZIONE MALATTIE Che sono stati fatti con la differenza che le regioni dovevano aggiungere al piano nazionale i dettagli operativi, addirittura i nome e cognome delle singole persone, il numero di telefono, i depositi, quello che serve per affrontare una pandemia.
GIULIO VALESINI Ma il piano lo prevedeva?
DONATO GRECO – EPIDEMIOLOGO CENTRO EUROPEO PREVENZIONE MALATTIE I piani, mancano i piani. Valesi’ gliel’ho detto, lo abbiamo detto chiaro e tondo: mancano i piani di contingenza. I piano di contingenza sono quei piani in cui si dice: “se si schianta un aereo vicino all’ospedale tu come fai ad avere 300 feriti?” Questo è…
GIULIO VALESINI E le pare poco? DONATO GRECO – EPIDEMIOLOGO CENTRO EUROPEO PREVENZIONE MALATTIE Adesso questi piani per i feriti ci sono, per le pandemie, non ci sono.
GIULIO VALESINI E le pare poco?
DONATO GRECO – EPIDEMIOLOGO CENTRO EUROPEO PREVENZIONE MALATTIE E l’abbiamo detto in chiarezza o no?
GIULIO VALESINI Ma piano di contingenza cosa vuol dire? Praticamente.
DONATO GRECO – EPIDEMIOLOGO CENTRO EUROPEO PREVENZIONE MALATTIE Servono 50 infermieri in più, dove li prendo? Servono 30 posti letto? Io ho fatto il colera nel 1973, a un certo punto sono arrivati 120 ammalati di colera, servivano i letti con il buco per raccogliere… e qualcuno li doveva portare. Ci abbiamo messo venti giorni.
GIULIO VALESINI È tutto in pratica.
DONATO GRECO – EPIDEMIOLOGO CENTRO EUROPEO PREVENZIONE MALATTIE È quel complesso di operazioni logistiche che permette di affrontare una catastrofe sanitaria in tempi brevi.
GIULIO VALESINI Quindi, noi ce lo abbiamo su altre cose, ma non ce l’abbiamo sulle pandemie.
DONATO GRECO – EPIDEMIOLOGO CENTRO EUROPEO PREVENZIONE MALATTIE A me non risultano sulle pandemie.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Secondo questo studio GHS Index, indice di sicurezza sanitaria globale che misura la capacità di un paese di garantire la massima sicurezza contro la diffusione di malattie, l’Italia è al 31simo posto nel mondo. Lo studio risale a pochi mesi fa e ci boccia in tema di prevenzione e nella capacità di reagire, segnati con uno zero in materia di operazioni di risposta di emergenza, bocciati anche nella comunicazione del rischio. Un rapporto quasi profetico. Il paese, dicono, non è preparato ad affrontare epidemie o pandemie.
GIULIO VALESINI È questo, no il dato? Giusto? È questo qui, no?
LUCA LI BASSI – DIRETTORE GENERALE AGENZIA ITALIANA DEL FARMACO (2018 -2019) Sì.
GIULIO VALESINI Cioè tu dici: “io ho dei soldati in prima linea, sono in grado di proteggerli in caso in cui ci fosse un’emergenza?” Questo sta dicendo?
LUCA LI BASSI – DIRETTORE GENERALE AGENZIA ITALIANA DEL FARMACO (2018 -2019) Questa è la prima priorità: in caso di epidemia proteggere la prima linea.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO L’ex capo dell’Aifa, l’Agenzia del Farmaco Italiana, ha collaborato con tutte le principali agenzie internazionali per le quali ha gestito anche emergenze di salute pubblica. È un esperto di sistemi sanitari.
GIULIO VALESINI Lo score qui è basso: noi siamo 54esimi. Cioè, lo sapevamo in qualche modo. Lo so che è brutto a dirsi.
LUCA LI BASSI – DIRETTORE GENERALE AGENZIA ITALIANA DEL FARMACO (2018 -2019) Lo vediamo. Vediamo medici e professionisti sanitari senza materiali, senza una protezione adeguata.
GIULIO VALESINI È stato letto questo studio anche dal nostro ministero della Salute?
LUCA LI BASSI – DIRETTORE GENERALE AGENZIA ITALIANA DEL FARMACO (2018 -2019) So e sono a conoscenza che l’Italia stessa, è uno dei paesi che ha risposto con integrazioni e commenti su elementi che potevano essere utili a questa valutazione.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Non ci sono scorte sufficienti di mascherine nel mondo. Non solo in Italia. Lo dichiara l’Organizzazione Mondiale della Sanità in un documento e quindi viene autorizzato un tipo di mascherine che prima non erano idonee a proteggere dal virus.
MASSIMO MINERVA – MEDICO ANESTESISTA Mettetevi d’accordo con voi stessi: o stabilite che le mascherine chirurgiche sono sufficienti e allora dite “se avete delle mascherine chirurgiche andate in giro, mettetele” - perché se proteggono i medici, proteggeranno anche le persone normali che vanno a fare la spesa - oppure no.
GIULIO VALESINI Ma perché allora il decreto del governo dice per il personale sanitario mi sembra che dica “vanno usate le mascherine chirurgiche”?
MASSIMO MINERVA – MEDICO ANESTESISTA Perché quello c’è.
GIULIO VALESINI Scusi. Già nel 2009 il Governo Italiano diceva che per proteggere il personale dall’H1N1, il virus, le mascherine chirurgiche non erano sufficienti.
MASSIMO MINERVA – MEDICO ANESTESISTA Esatto. E diceva esattamente che non proteggeva dalle goccioline del virus.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO La verità è che nel fare scorta di mascherine ci siamo mossi più tardi degli altri paesi. È quello che denuncia a Report, Vittorio De Blasis, presidente di D.P.I., un’azienda che produce e commercializza materiali per la protezione personale, anche in ambito sanitario.
VITTORIO DE BLASIS - IMPRENDITORE Le nostre mascherine vengono dal Vietnam, perché noi prima le facevamo, poi non ci stavamo dentro con i costi. Ma non hai la capacità di far fronte a questa situazione. Se chiudono le esportazioni tutti, tu che fai?
GIULIO VALESINI Secondo lei era una situazione prevedibile?
VITTORIO DE BLASIS - IMPRENDITORE Forse avrebbero dovuto iniziare a cercare e a comprare le mascherine P2 e P3 dal 20 gennaio in poi. Sarebbe stato molto saggio - cosa che hanno fatto ad esempio i francesi - pensare a questi eventi, era successo con la Sars, pensare a questi eventi in anticipo e avere grosse scorte di questi materiali. Che tra le varie cose sono materiali che se comprati in periodi normali sono facilmente reperibili anche a costi molto più bassi.
GIULIO VALESINI Quindi in Italia non c’erano scorte.
VITTORIO DE BLASIS - IMPRENDITORE Assolutamente no.
GIULIO VALESINI A lei nessuno l’ha chiamata per dirle: “aumenta l’approvvigionamento”.
VITTORIO DE BLASIS - IMPRENDITORE No, assiduamente no. Il 20 gennaio, è partita una richiesta, forse è nata per la Cina, quindi da clienti europei, italiani, che comunque vendevano in Cina - perché in Cina c’era il capodanno cinese - e a quel punto il grosso delle scorte è andato lì. Poi è successo Codogno e a quel punto…
GIULIO VALESINI Ci siamo accorti che il virus è entrato da noi però eravamo indifesi.
VITTORIO DE BLASIS - IMPRENDITORE La protezione civile a quel punto ha chiesto a tutti noi di avere disponibilità delle nostre scorte... GIULIO VALESINI È una beffa incredibile.
VITTORIO DE BLASIS - IMPRENDITORE È una beffa incredibile…
GIULIO VALESINI Lei vende che tipo di mascherine?
VITTORIO DE BLASIS - IMPRENDITORE Noi vendiamo Dpi che sono le mascherine P1, P2, P3.
GIULIO VALESINI Mi dicevano che molti medici, ad esempio in Lombardia, che è per noi l’eccellenza sanitaria, ai medici non è stato fatto alcun corso per indossare una mascherina.
VITTORIO DE BLASIS - IMPRENDITORE Seguiamo tutti per fabbricare dpi, delle norme molto severe e uno degli aspetti più importanti dei dpi è indossarli nella maniera corretta.
GIULIO VALESINI Perché se no faccio più danno, perché penso di essere protetto…
VITTORIO DE BLASIS - IMPRENDITORE …e non è protetto. Un aspetto purtroppo che esiste, è che adesso è molto diffuso avere la barba… ce l’ho anche io… e il problema è che con la barba, le mascherine, i dpi, non fanno tenuta.
GIULIO VALESINI Quanto sarebbe costato, approvvigionare non dico tutti gli ospedali, ma insomma in maniera sufficiente il sistema sanitario?
VITTORIO DE BLASIS - IMPRENDITORE Un’enormità di meno di quanto costa adesso. Ma in questo momento il problema primario non è tanto quanto sarebbe costato: quante persone non proteggiamo.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Vabbè insomma le nostre mascherine sono volate in Francia e in Cina, però torneranno magari con calma. Ma il problema, come dice l’imprenditore, “nessuno me le ha chieste prima di Codogno”. E invece forse sarebbe stato il caso, perché il piano di prevenzione contro le pandemie questo avrebbe previsto. Ma chi avrebbe dovuto attuarlo il piano? Ecco. Sostanzialmente 3 enti: uno, il ministero della Salute, poi le Regioni e poi il CCM, il Centro Nazionale per la prevenzione e il controllo delle Malattie. É un ente che negli anni è stato un po’ svuotato, è diventato quasi un ente fantasma, invece sarebbe stato fondamentale per coordinare le attività tra il ministero della Salute e le Regioni che, abbiamo visto, è un coordinamento che non ha funzionato tanto bene, anche per logiche di orticello. Ecco il CCM avrebbe dovuto anche svolgere un’attività di contrasto alla diffusione del virus. Il direttore operativo del CCM è anche il direttore della Prevenzione Sanitaria del Ministero, il dottor Claudio D'Amario, prima al suo posto c’era Raniero Guerra, oggi ai vertici dell’OMS. Ecco insomma, abbiamo visto che nessun Paese però al mondo era preparato per affrontare la pandemia, ognuno ha le sue lacune da colmare, chi più, chi meno ne uscirà con le ossa rotte. La Francia e la Gran Bretagna il loro piano lo avevano aggiornato al 2011, la Germania nel 2016. L’Olanda nel 2014, la Spagna nel 2006. Ecco e abbiamo anche visto purtroppo i risultati, il prezzo che deve pagare. Ora passiamo al piano di contrasto alle pandemie più imponente della storia dell’umanità.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Bentornati. Allora, Dopo circa due mesi di chiusura totale, Wuhan, la prossima settimana riaprirà. Come hanno fatto a sconfiggere il virus? Il sospetto è che non è che ce l’abbiano raccontata proprio tutta. I nostri corrispondenti, chiusi all’interno dei compound blindati, ci raccontano il lockdown da dentro. A partire dal mercato di Wuhan, quello del pesce da dove sarebbe partita la pandemia. E dove però ci hanno assicurato che là non macellano pipistrelli.
I RECLUSI DI WHUAN VOCE NARRANTE FUORI CAMPO Alla fine della via Fazan, continuando per un chilometro, si arriva laddove è cominciato l’incubo globale: il mercato Huanan. Hanno rimosso l’insegna con il nome. Dietro le barriere gialle c’è l’ingresso. I poliziotti controllano che nessuno si avvicini. Si era sparsa la voce che sarebbe stato demolito e invece è ancora in piedi. Lo stanno disinfettando. Sono chiuso nel compound da oltre due mesi. Cerco di capire com’è la situazione al mercato interno. Da un po’ di tempo il cibo scarseggia. La voce di una radio incita alla resilienza.
SLOGAN TRASMESSO DALLA RADIO IN SOTTOFONDO Le persone anziane devono lottare insieme.
VOCE NARRANTE Vendete anche delle verdure?
PROPRIETARIO DELL’ALIMENTARI Le verdure arrivano domani, tu chi sei?
VOCE NARRANTE Per oggi ho ordinato riso e pollo. Mi è arrivato dopo solo 20 minuti. Salve.
RAGAZZO DELLA CONSEGNA È il numero 35?
VOCE NARRANTE Sì, è il 35. A che ora iniziate a lavorare? Ragazzo della consegna Circa alle 8 del mattino.
VOCE NARRANTE E a che ora finite la sera?
RAGAZZO DELLA CONSEGNA Le 22 circa.
VOCE NARRANTE Ma la situazione sta migliorando?
RAGAZZO DELLA CONSEGNA Non lo so, io mi fermo ai cancelli e non entro nei compound.
VOCE NARRANTE Dovete usare la mascherina e il disinfettante quando siete a lavoro vero?
RAGAZZO DELLA CONSEGNA Sì, certo.
VOCE NARRANTE Chi verifica che usiate tutte le precauzioni?
RAGAZZO DELLA CONSEGNA Ci pensiamo da soli, però prima che iniziamo il servizio controllano che ognuno di noi sia pronto.
VOCE NARRANTE FUORI CAMPO Chi acquista paga con un’applicazione, come Alipay. Per trasferire il denaro senza passaggio di mani ed evitare possibili contagi. Questa è la mia cena. Ha un doppio sigillo. Il virus si trasmette anche con il cibo. Con i residenti del compound acquistiamo in gruppo, attraverso WeChat. Ci sono iscritte più di 500 persone, l’amministratore condivide un link dove selezioniamo quello che vogliamo mangiare. Lo utilizzano anche gli anziani. Oggi ho acquistato la carta igienica con un signore e gli assorbenti con una ragazza. Puoi comprare anche le mascherine. In questi periodi è difficile però trovare la carne. Ho ordinato quella essiccata, un po’ di verdura e la frutta. Il mio è il 266esimo ordine e il QR code mi serve per ritirare presso il cancello. Finalmente l’amministratore mi ha comunicato che è in arrivo il mio ordine. Ma per ritirarlo devo essere controllato presso il pick-up point che si trova all’ingresso del compound. Devo dimostrare che non ho la febbre. Le consegne le smistano qui. Al supermercato all’interno del compound.
VOCE NARRANTE Ho visto che non è molto facile trovare la carne di manzo e maiale.
DONNA NEGOZIO Prova a vedere su altri siti, la carne viene venduta subito.
VOCE NARRANTE Quali sono i vostri orari di lavoro?
DONNA NEGOZIO Non abbiamo orari quando finiamo di smistare gli ordini finiamo di lavorare.
VOCE NARRANTE FUORI CAMPO Impossibile uscire dal compound. Due signore anziane hanno ritirato il loro ordine.
VOCE NARRANTE Solitamente passeggiavate all’interno del compound, ora che fate?
DONNA ANZIANA Non possiamo più. Siamo scese solo per comprare qualcosa. E ci siamo sedute per riposarci. Ma rispettiamo il protocollo. Siamo sedute ad un metro di distanza.
VOCE NARRANTE Come ha funzionato l’assistenza medica?
DONNA ANZIANA È molto efficiente: le persone che hanno la febbre devono immediatamente avvisare il servizio e appena chiami arrivano in soccorso. Ma tu chi sei, da dove vieni?
VOCE NARRANTE Sono un giornalista.
DONNA ANZIANA Lavori per una TV?
VOCE NARRANTE Sì, ma non preoccuparti, puoi dirmi quello che vuoi.
DONNA ANZIANA In questo momento l’unica cosa che possiamo fare è aiutare il paese ad uscire il prima possibile da questa situazione. Abbiamo più di 70 anni e in fin dei conti dobbiamo solo riposarci. Sono i medici che stanno lavorando senza sosta.
VOCE NARRANTE Quanto la sua vita è stata influenzata dal virus?
DONNA ANZIANA All’inizio non pensavo fosse così grave. Ci sono persone che conoscevo che avevano poco più di 50 anni che sono morte in due, tre giorni.
VOCE NARRANTE FUORI CAMPO I controlli all’entrata del compound sono severissimi.
UOMO IN MOTORINO Devo entrare per prendere dei farmaci nell’ospedale di medicina tradizionale.
ADDETTO ALLA SICUREZZA Quale ospedale?
UOMO IN MOTORINO Quello all’interno del compound ho un forte dolore alla spalla.
ADDETTO ALLA SICUREZZA1 Qui entra solo chi è autorizzato.
UOMO IN MOTORINO Ma può vedere il messaggio che mi ha inviato il dottore.
ADDETTO ALLA SICUREZZA 2 Allora contatti il dottore e si faccia portare le medicine qui fuori.
UOMO IN MOTORINO Basta che riesco a vedere il dottore, ho un forte dolore alla spalla.
ADDETTO SICUREZZA Sbrigati a lasciare la roba e vai via!
VOCE NARRANTE FUORI CAMPO Anche le persone anziane fanno la fila per ritirare i viveri. Chi vive nel compound ha diritto a una mascherina al giorno che viene consegnata all’interno di un volantino che informa sui comportamenti da tenere. Anche gli addetti alla sicurezza sono reclusi. Comprano il cibo senza mai uscire dal compound. Questo è uno dei condomini più abitati di Wuhan: vi abitano circa 5000 persone. È chiuso con un cancello. Anche le uscite dalle singole abitazioni sono controllate. Una donna stremata dalla reclusione, non ne può più. Esce di casa calandosi da un balcone. Dove non è possibile blindare con i cancelli o con i muri, tirano su barriere di plastica e chi viene trovato senza mascherina, anche se anziano, viene portato via dalla polizia. Ogni giorno, lungo le strade si vedono le ambulanze in fila. Raccolgono i corpi di chi è deceduto in casa. Questa invece sta lasciando un malato oncologico rifiutato dagli ospedali pieni di pazienti contagiati dal COVID-19. È stato riportato nel compound dove risiede dove morirà poco dopo.
VOCE ALTOPARLANTI Per favore evitare di uscire, se avete la febbre fatelo subito presente!
VOCE NARRANTE FUORI CAMPO Di notte quando la sorveglianza sembra allentarsi si accendono le luci degli esercizi clandestini. Nonostante i divieti un negozio vende tabacchi e liquori. Una signora tenta di vendere prodotti alimentari. Viene immediatamente allontanata dalla polizia. Cerca di proteggersi dal contagio con una busta di plastica in testa.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Certo, con certi metodi è più semplice interrompere il contagio. Noi invece dobbiamo rimanere a casa, dobbiamo dimostrare di meritare quei valori per i quali i nostri genitori, i nostri nonni si sono battuti: la libertà. Ecco, quei genitori, gli anziani che non abbiamo saputo proteggere, che stanno pagando un prezzo altissimo in questa guerra con un nemico invisibile. Il virus è come una livella, colpisce politici, reali, vip, ma ha infilato il dito nella piaga di quelle criticità croniche del Sistema Sanitario. 37 miliardi di tagli alla Sanità Pubblica, la mancanza di investimenti sulle risorse umane, sulla formazione, sulla specializzazione, la mancanza di visione. Non avere la possibilità di gestire dal punto di vista digitale i dati sanitari. Li raccogliamo qua e là con telefonate, mail, fax e questo produce ritardi, errori, imprecisioni. Un’opera da amanuense nell’età digitale. Ma quando tutto questo finirà - e finirà - troveremo un mondo diverso dove dovremo mettere in gioco la parte migliore di noi stessi. Noi di Report abbiamo preferito entrare nel virus con gli occhi aperti, per continuare ad essere un romanzo dei fatti, denunciare gli errori che sono stati fatti per evitare che vengano fatti in futuro e consegnare un mondo migliore ai nostri figli. E credo il miglior tributo è dare anche un senso a quelle morti senza il conforto dei familiari. C’è da tenere botta, rimaniamo solidali e uniti, tutti, anche l’Europa, perché questa battaglia la vinci sull’equilibrio della parola “insieme”. C’è da vincere una guerra contro un virus infame che vive grazie a noi, un parassita che vive minando quello che abbiamo di più intimo: il contatto con i nostri cari. Fuori c’è tanta bellezza che ci aspetta. Rimaniamo uniti, restiamo a casa che torneremo presto a fare quello che più ci manca.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Bene, la nostra puntata termina qui, la potete rivedere sul nostro sito o sabato in replica alle 16:30. Lunedì prossimo parleremo della guerra dei tamponi, siamo andati a vedere anche perché in alcune province il virus ha contagiato più che in altre parti. Poi cominceremo a pensare come si ricostruisce, perché bisogna uscire presto da questa situazione. L’offerta di Rai 3 continua, rimanete qui, con Lessico Civile, Massimo Recalcati, è un focus sul rapporto tra l’individuo e gli altri, la collettività, proprio in un momento in cui sta emergendo forte lo spirito di collettività. Grazie per averci seguito.
· Quello che ci dicono e quello che non ci dicono.
L’OMS che indaga sul COVID: una risata ci seppellirà! Mirko Giordani il 6 agosto 2020 su Il Giornale. L’economia dell’occidente è crollata e i vari paesi, tra cui anche l’Italia, stanno entrando in una grave depressione economica. Tutto per colpa di un virus che è nato a Wuhan, in Cina. Se il virus sia naturale o artificiale, per ora, non lo sappiamo. Sta di fatto che si è sviluppato in Cina, che ha fornito subito informazioni sbagliate e ha fatto di tutto affinché il virus non si propagasse in altre zone della Cina (ben per loro), ma poco o nulla hanno fatto per non appestare mezzo mondo. Tutto con la complicità dell’OMS del leninista e pro-cinese Tedros Gebreyesus. Ora il nostro parlamento nei giorni ha discusso due mozioni, una di Lega e FdI e una della maggioranza. La prima mozione impegnava il Governo a chiedere i danni al regime di Pechino per la mala gestione del COVID, la seconda invece impegnava il Governo a supportare un’indagine internazionale gestita nientepopodimeno che dall’OMS stessa. Ora molto probabilmente la mozione di Lega e FdI avrebbe incontrato qualche problema di diritto internazionale, ma votarla sarebbe stato un atto politico importante ed un atto d’accusa pesante dal popolo italiano verso il regime del partito comunista cinese. La mozione della destra, ovviamente come succede nel gioco democratico, è stata affossata ed è passata quella dell’opposizione. Ci sta, c’è chi governa e chi no. Il problema però è che la maggioranza di Governo ha dato le chiavi in mano a Tedros Gebreyesus per un’indagine delicata, molto probabilmente tra le più importanti del secolo, e la gestirà un marxista leninista etiope che è praticamente a libro paga di Xi Jinping. Solo io vedo dei problemi mastodontici? Solo io penso che tutto questo sia una farsa bella e buona e che tutto finirà come è iniziato? Cioè nel silenzio più assordante. Fatemi sapere.
Michelangelo Cocco per “Il Messaggero” il 23 dicembre 2020. È tutto pronto per la missione dei dieci esperti dell'Organizzazione mondiale della sanità (Oms) che il mese prossimo sbarcheranno in Cina per far luce sull'origine del Sars-Cov-2. In un'intervista pubblicata ieri dalla Bbc, la scienziata Shi Zhengli, a capo dell'istituto di virologia di Wuhan (la metropoli nella quale il Covid-19 si è manifestato per la prima volta), ha assicurato: «Ho comunicato agli esperti dell'Oms che saranno benvenuti» nella struttura che complottisti, avversari della Cina e lo stesso ex presidente Usa Donald Trump hanno additato come responsabile della fuoriuscita, accidentale o intenzionale, del virus. Un'accusa respinta con sdegno dal governo cinese che ha contribuito a politicizzare il virus e ha ritardato la missione dell'Oms, che partirà quando ormai dall'inizio della pandemia sarà passato un anno, e alla Casa Bianca si sarà insediato un nuovo inquilino, Joe Biden. La scienziata ha aggiunto però che la pianificazione di un sopralluogo dell'Oms nel laboratorio leader nella sperimentazione per prevenire la diffusione dei virus «non è una decisione che spetta a me». È chiaro infatti che - dopo che l'immagine internazionale della Cina è crollata a causa della pandemia - ogni passo della squadra dell'Oms sarà seguito e autorizzato direttamente dalla leadership di Pechino. E a destare perplessità sull'indipendenza del team è la presenza al suo interno dello zoologo britannico Peter Daszak. Anni fa il professor Daszak lavorò nell'ambito di un progetto internazionale proprio con la professoressa Shi e il suo laboratorio di Wuhan, e nei giorni scorsi ha bollato l'ipotesi che il virus Sars-Cov-2 sia fuoriuscito dal suo Istituto come una «totale fesseria». «Non ho visto ancora alcuna prova di una fuoriuscita dal laboratorio o del coinvolgimento del laboratorio nella diffusione del virus - ha dichiarato Daszak -. Mentre ho visto prove evidenti che si tratta di fenomeni naturali causati dallo sconfinamento degli esseri umani nell'habitat di specie selvatiche, riscontrabile in tutto il Sud-Est asiatico». Ma allora perché non richiedere l'accesso al laboratorio incriminato, per scartare una volta per tutte le teorie cospirazioniste? «Non fa parte del mio compito - ha tagliato corto lo zoologo britannico -. L'Oms ha negoziato (con le autorità di Pechino, ndr) i termini della missione e ci hanno detto di seguire le prove, ed è ciò che faremo». E i termini della missione non prevedono alcuna visita al laboratorio in questione. Da quando - nel 2012 - tre minatori morirono dopo aver lavorato in cave piene di pipistrelli nella provincia dello Yunnan, la professoressa Shi, studiando quei pipistrelli, ha identificato 293 tipi di coronavirus, tra i quali uno simile al Sars-Cov-2. Di quella gigantesca ricerca è stato pubblicato solo un breve paper. Ma la stessa scienziata è stata la prima al mondo a tracciare la sequenza genetica del Sars-Cov-2. Eppure sull'origine di quest'ultimo non vi è ancora alcuna certezza. Ironia della storia, al team dell'Oms sarà garantito pieno accesso al mercato del pesce di Wuhan indicato in un primo momento come il primo focolaio del virus, ipotesi in seguito scartata dalle autorità cinesi.
La rete di “intelligence” dell’Oms chiusa prima della pandemia. Mauro Indelicato , Sofia Dinolfo su Inside Over il 3 dicembre 2020. Era il novembre del 2002, negli uffici del ministero della Sanità canadese alcuni funzionari avevano iniziato a fare anche le ore piccole. Si lavorava e si elaboravano dati fino a notte fonda. C’era qualcosa che non quadrava: dalla provincia cinese del Guandong arrivavano informazioni strane su una possibile nuova epidemia. I funzionari in questione erano quelli dell’agenzia Gphin, acronimo di Global Public Health Intelligence Network. Un vero e proprio servizio di intelligence per scovare le pandemie. Da quegli uffici canadesi il mondo scientifico ha intuito di ritrovarsi davanti a una grave epidemia da coronavirus. Perché 17 anni dopo la stessa cosa non è accaduta con il Covid-19? Semplice: il Gphin nel maggio del 2019 aveva chiuso i battenti, salvo poi riaprirli 440 giorni dopo. Quando oramai il mondo era in piena pandemia.
Come nasce il Global Public Health Intelligence Network. Era la metà degli anni ’90 quando il Canada è stato travolto dalla paura dell’improvvisa epidemia di peste polmonare scatenatasi in India. Quel virus non previsto ha messo in discussione tutto o quasi, comprese la possibilità di continuare i viaggi e le relazioni economiche con il Paese asiatico. Da quel momento si è compresa la necessità di dar vita ad un sistema capace di individuare in tempo possibili focolai generati dai virus, in modo da poter intervenire in tempo nel sistema di prevenzione e promulgazione di un allarme generale. Un sistema di difesa ideato e voluto dai funzionari sanitari canadesi che pochi anni dopo è divenuto realtà con la fondazione del Global Public Health Intelligence Agency (Gphin). Il principio dell’idea era semplice: prevenire la diffusione di un virus per contenerlo il più possibile. Nel 2000 il Gphin è stato assorbito dal Global Outbreak Alert and Response Network (Goarn), un sistema composto da numerose istituzioni del campo della salute pubblica per prevenire e contenere le minacce pandemiche, appartenente all’Organizzazione Mondiale della Sanità. Nel 2002, la conferma che quel sistema poteva veramente funzionare: il Gphin è stato in grado di individuare e contenere il focolaio di una grave epidemia, ovvero quella della Sars. Da quel momento l’agenzia è stata fortificata attraverso l’assunzione di medici ed epidemiologi specializzati con la funzione appunto di rilevare in tempo i focolai.
L’importante ruolo del Gphin nelle pandemie. Reso più sofisticato dopo l’allarme Sars, il Gphin ha intensificato la sua attività di intelligence grazie al personale altamente specializzato. Un’attività basata su una serie di algoritmi attraverso i quali esaminare le più importanti notizie di tutto il mondo grazie al lavoro degli esperti che analizzano in nove lingue indizi attraverso i social, i blog, i dati ospedalieri e le fonti mediche. Un tipo di lavoro che ha consentito di prevenire o contenere gravi problemi, alcuni meno noti agli occhi della comunità mondiale fino ad arrivare a quelli che hanno messo in allerta il mondo. Al Gphin si attribuisce infatti il merito di aver individuato in tempo il pericolo legato all’epidemia del virus Zika in Africa nel 2007, dell’influenza suina del 2009 in Messico, del virus H5N1 in Iran nel 2006, del Mers nel 2012 in Arabia Saudita, dell’Ebola nel 2014 in Africa occidentale. Il 20% delle informazioni avute negli ultimi anni dall’Oms, si legge nelle informazioni delle istituzioni sanitarie canadesi riportate nei media locali, proviene dal Gphin.
Perché il Gphin ha chiuso? Nonostante l’importanza rivestita dall’agenzia canadese a livello globale, qualcosa ha iniziato a cambiare sul finire del 2018. A ricostruire la vicenda è stato il giornalista canadese Grant Robertson sul Globe and Mail: “Alla fine del 2018 – si legge nell’articolo – agli analisti è stato detto di concentrarsi su progetti considerati più preziosi per le priorità del governo”. Secondo il governo di Ottawa non c’erano minacce pandemiche globali: “Per questo i federali hanno deciso – sottolinea ancora Robertson – di orientare l’attività del Gphin verso incarichi di monitoraggio interni”. È stato il preludio della fine. Il 24 maggio 2019 l’agenzia canadese ha terminato la sua attività, tutti i suoi dipendenti sono stati spostati verso altre mansioni e non è stato più emesso alcun avviso. Mai decisione è stata forse meno opportuna. Perché appena pochi mesi dopo il mondo all’improvviso si è ritrovato immerso nella più grande pandemia degli ultimi cento anni. In proporzione, è come se un Paese si privasse di un sistema di intelligence alla vigilia di una guerra mondiale. Nessuno però si era accorto della chiusura dell’agenzia. Soltanto il 25 luglio scorso lo stesso Grant Robertson ha portato sotto i riflettori la vicenda, scatenando aspre polemiche in Canada e non solo. L’opinione pubblica ha puntato il dito contro una scelta che ha privato il mondo scientifico della possibilità di intercettare, con un certo anticipo, l’insorgere del coronavirus. La domanda a molti è arrivata spontanea: perché chiudere un servizio che aveva già mostrato la propria vitale funzione? Un vanto del sistema sanitario canadese ridotto in cenere nonostante gli allarmi su possibili pandemie in realtà non sono mai stati ridimensionati: “Già dal 2007 – ha ricordato lo studioso Pierluigi Fagan su InsideOver – ci sono allarmi sui coronavirus”. Le polemiche hanno portato alla riapertura del Gphin già ad agosto. Ma su quei 440 giorni di silenzio dell’agenzia adesso anche la magistratura canadese vuole vederci chiaro. Il premier Justin Trudeau ha accusato i tagli alla sanità effettuati dal predecessore, Stephen Harper. Quest’ultimo a sua volta ha incolpato il governo in carica.
Forse si poteva intervenire prima. Se tra i politici canadesi è iniziato il rimpallo di responsabilità, a livello obiettivo è indubbio che la scelta politica di chiudere il Gphin è stata a dir poco infelice. Torniamo per un attimo al novembre del 2002. Scandagliando media locali e informazioni tra i medici cinesi, l’agenzia ha potuto lanciare l’allarme sulla Sars. L’Oms già a dicembre di quell’anno ha chiesto informazioni al governo cinese, mettendo in pre-allerta l’intero pianeta. Quando l’epidemia nel marzo 2003 è diventata un caso mediatico, il mondo scientifico già sapeva che qualcosa in Cina non andava. Il Covid-19 ha invece colto tutti di sorpresa. Ancora oggi uno dei misteri irrisolti è quando realmente l’epidemia è iniziata. L’assenza di attività del Gphin probabilmente non farà mai rispondere a questo quesito. Chiudendo i battenti nel maggio 2019, nessun funzionario ha potuto prendere visione della situazione a Wuhan nell’estate successiva, nessuno scienziato ha avuto la possibilità di capire che qualcosa forse non andava bene prima del novembre 2019, mese in cui ufficialmente le autorità cinesi hanno registrato il primo caso di contagio. Il silenzio dell’agenzia canadese non ha permesso di rintracciare in tempo il sorgere dei primi sospetti. Ed è forse questo che ha impedito alla comunità internazionale di evitare la pandemia.
Radio Maria: "Il coronavirus è un complotto sotto l'impulso di Satana". Il direttore dell'emittente, don Livio Fanzaga: "Questa epidemia è un progetto del demonio che attraverso menti criminali prepara un colpo di Stato sanitario o massmediatico". La Repubblica il 15 novembre 2020. La pandemia di coronavirus è effetto di un complotto mondiale delle elites per conquistare, sotto l'impulso di Satana, il mondo entro il 2021. Lo sostiene, parlando dai microfoni della sua emittente, il direttore di Radio Maria, don Livio Fanzaga. "A livello religioso si è già detto che la pandemia non viene da Dio. Dal punto di vista umano non si è voluto approfondire da dove venga, questa epidemia", ha spiegato, "ho insistito sul fatto che la Cina abbia testato un'arma tecnobiologica, che sarebbe proibita, ma la Cina non ha firmato la Convenzione di Ginevra". Secondo Fanzaga "questa epidemia è un progetto che io ho sempre attribuito al demonio che agisce attraverso menti criminali che l'hanno realizzato con uno scopo ben preciso: creare un passaggio repentino, dopo la preparazione ideologica, politica e mass mediatica, per un colpo di Stato sanitario o massmediatico". Vale a dire "un progetto volto a fiaccare l'umanità, metterla in ginocchio, instaurate una dittatura sanitaria e cibernetica, creando un mondo nuovo che non è più di Dio Creatore, attraverso l'eliminazione di tutti quelli che non dicono sì a questo progetto criminale portato avanti dalle élites mondiali, con complicità magari di qualche Stato." Obiettivo quello di "costruire un mondo nuovo senza Dio. Il mondo di Satana. Dove saremmo tutti degli zombie. È un progetto, non una cosa campata per aria. Vorrebbero realizzarlo entro il 2021, a mio parere". Quanto al neopresidente degli Usa Joe Biden, la sua elezione sarebbe "la ciliegina sulla torta".
Un complotto dietro il Covid. In Francia sta spopolando il documentario Hold Up. Adele Sirocchi sabato 14 Novembre 2020 su Il Secolo d'Italia. Il Covid è strumentalizzato dalle lobby finanziarie internazionali. Dietro il virus c’è un complotto, una cospirazione, un tentativo di manipolare le popolazioni. E’ questo il “succo” del documentario che sta spopolando in Francia. Il complotto dietro il virus: un film uscito online il 9 novembre. Si chiama Hold Up e, come spiega Stefano Montefiori sul Corriere, è “un film francese di quasi tre ore realizzato, con meno di 200 mila euro in crowd-funding, da Pierre Barnérias, un ex giornalista della rete tv Tf1 che da qualche mese, sul canale youtube Thana Tv, rilancia le critiche e gli attacchi alla gestione dell’epidemia. Il documentario è uscito il 9 novembre su diverse piattaforme online tra le quali Odysee, e migliaia di persone lo stanno rilanciando sui social media”. Già i media mainstream hanno bollato il documentario come negazionista, accusandolo di essere pieno di fake news. Da notare che Pierre Barnérias aveva realizzato, nel 2013, un documentario sugli abusi legati all’eutanasia in Belgio. Si tratta di un giornalista di esperienza: ha lavorato per 23 anni per diversi televisioni francesi come France 2, France 3, TV5 Monde, TF1 e molte altre. Ma nessuno ha voluto la sua inchiesta. Pubblicata lo stesso su internet. «Sono rimasto perplesso dal rifiuto delle televisioni di mandare in onda la mia inchiesta – affermò in un’intervista – Ci ho messo due anni, dal 2011 al 2013, e ho raccolto testimonianze incredibili, di veri e propri omicidi mascherati. Il mio obiettivo non era quello di bloccare la legge, ma solo di far riflettere sulla libertà di morire e sul potere incontrastato di cui godono i medici». Ora col suo documentario sul Covid Barnérias può contare anche sull’appoggio di attrici famose che stanno contribuendo alla diffusione del film. Come Sophie Marceau che – ricorda ancora il Corriere – “qualche anno fa si è schierata al fianco del professor Henri Joyeix, un oncologo di Montpellier radiato dall’ordine dei medici per avere organizzato una petizione, sostenuta dall’estrema destra, contro i vaccini sui neonati”. Contro la versione ufficiale sul Covid si schierano anche altre due attrici: Marion Cotillard e Juliette Binoche. Marion Cotillard ha contratto il virus in forma lieve lo scorso maggio, insieme al suo compagno. L’attrice è stata, tra l’altro, protagonista del film Contagion. Diretto del 2011 da Steven Sodenberg. Nel film interpretava una dottoressa in cerca del paziente zero colpito da una misteriosa malattia contagiosa. Juliette Binoche è stata la promotrice lo scorso maggio, con l’astrofisico francese Aurélien Barrau, di un appello per non tornare alla “normalità” dopo il coronavirus: un monito affinché ognuno cambi il proprio stile di vita e abbandoni l’attuale sistema basato su un mero consumismo, disuguaglianze sociali ed economiche e soprattutto sul mancato rispetto dell’ambiente.
F. Bor. per “La Verità” il 20 dicembre 2020. Sembra proprio che il tanto decantato «modello Italia» abbia smesso di suscitare ammirazione e consenso in tutto il mondo. Anzi, pare che gli altri Stati stiano esaminando la gestione italiana dell'emergenza Covid non per prendere esempio, ma per capire che cosa non si debba fare. Da almeno una settimana, i giornali di tutta Europa stanno scrivendo del famoso report dell'Oms curato da Francesco Zambon, pubblicato e subito censurato. E non usano toni dolci. Ieri della faccenda si è occupata Abc news, che si è aggiunta a una lunga di lista di testate gallonate come il Guardian. Sul sito dell'emittente americana è apparso un lungo articolo che riassume così la storia di Zambon: «L'autore di un rapporto ritirato dall'Oms sulla risposta italiana al coronavirus avvertì i suoi capi a maggio dicendo che sarebbero potute morire delle persone e che l'agenzia delle Nazioni Unite avrebbe potuto subire danni "catastrofici" alla reputazione se avesse consentito di sopprimere il documento per via di preoccupazioni politiche». L'Abc conferma, di fatto, la versione di Zambon, il quale ha sempre dichiarato di essersi immediatamente rivolto ai suoi capi per denunciare la censura del rapporto. «Il funzionario che ha coordinato il lavoro», spiega l'emittente Usa, ha fatto «appello direttamente al capo dell'Oms, Tedros Adhanom Ghebreyesus, il 28 maggio. E ha avvertito che la scomparsa del rapporto stava minando la credibilità dell'Oms. Ha avvertito inoltre che qualsiasi ulteriore tentativo di censura avrebbe compromesso l'indipendenza dell'agenzia e le sue relazioni con i Paesi donatori che hanno finanziato la ricerca». In effetti, tra le email scoperte nelle scorse settimane da Report se ne trova una di Zambon indirizzata ai suoi superiori, che ora viene ripresa anche da Abc. In quel messaggio, il ricercatore spiegava che la censura del suo rapporto avrebbe potuto provocare «uno scandalo di proporzioni enormi in un momento delicato per l'agenzia». Insomma, i vertici dell'Oms sapevano tutto fin dall'inizio. Sapevano, soprattutto, che non pubblicare il rapporto avrebbe impedito di migliorare la gestione dell'emergenza, evitando così un cumulo di morti. Ma non hanno fatto nulla. Ed ecco che - come ha certificato la Johns Hopkins university - l'Italia è arrivata al primo posto nel mondo per numero di morti ogni 100.000 abitanti. Per la precisione, abbiamo 111,23 morti ogni 100.000 abitanti: nessuno ha fatto peggio di noi. Al secondo posto della macabra classifica c'è la Spagna (104,39 morti) seguita da Gran Bretagna (99.59 morti) e Usa (94,97 morti). Un bel risultato, non c' è che dire. Come abbiamo scritto più volte, il numero dei decessi avrebbe potuto essere minore se il governo e i gestori del sistema sanitario avessero applicato un piano pandemico adeguato. Ma non lo hanno fatto e nemmeno hanno applicato il piano vecchio (del 2006) che avevano a disposizione. Tutto questo - seppur con toni morbidi - veniva messo in luce nel report realizzato da Zambon e colleghi. Ma il report è stato rimosso. E l'Oms continua a fare muro sulla vicenda. Prima ha impedito per ben tre volte al ricercatore italiano di recarsi in Procura a Bergamo per fornire la sua versione dei fatti (Zambon ha poi coraggiosamente deciso di presentarsi lo stesso). Quindi ha diffuso un vademecum interno rivolto a tutti i membri dello staff e contenente risposte preconfezionate con cui evitare eventuali domande indiscrete dei giornalisti. Infine, tramite la sua succursale europea, ha diffuso un comunicato stampa per difendere il governo italiano, spiegando che a Roma non hanno mai chiesto di censurare il report «imbarazzante». Non solo. L'Oms ha anche sostenuto che il lavoro di Zambon fu ritirato perché conteneva inesattezze, e che non fu più ripubblicato perché - mentre i ricercatori correggevano - è cambiato il meccanismo di valutazione interno, cosa che avrebbe reso obsoleto il report. Peccato che, in realtà, tale meccanismo cambiò soltanto due mesi dopo la presentazione del rapporto incriminato. Per farla breve: l'Oms non parla, e quando parla lo fa per rendere più torbide le acque. Lo nota anche Abc: «Le preoccupazioni per il rapporto ritirato sono aumentate nelle ultime settimane, alimentando critiche alla leadership dell'Oms sulla risposta globale alla pandemia, cosa che ha portato l'agenzia ad accettare un'indagine indipendente sulle sue prestazioni». I giornalisti americani aggiungono poi: «L'agenzia delle Nazioni Unite è stata riluttante a criticare pubblicamente i Paesi che risultano fra i suoi principali donatori, anche quando le loro politiche hanno messo a rischio la salute pubblica. Durante le fasi iniziali dell'epidemia a gennaio, ad esempio, i funzionari dell'Oms erano (in privato) frustrati dalla mancanza di informazioni condivise dalla Cina, ma lodavano pubblicamente il Paese per la sua trasparenza. Mentre la pandemia aumentava di ritmo in Europa, gli scienziati dell'Oms mettevano in discussione internamente le politiche della Gran Bretagna - come quando suggerì che avrebbe perseguito l'immunità di gregge - ma enfatizzavano pubblicamente il loro sostegno. Il rapporto sparito ha puntato i riflettori sulla preparazione dell'Italia, Paese in cui si è verificata l'epidemia più mortale d’Europa». Chiaro? Per non turbare i suoi finanziatori, l'Oms avrebbe di proposito svicolato di fronte a questioni scottanti. Se le avesse affrontate, avrebbe potuto evitare ulteriori morti. Zambon aveva avvertito i suoi capi. Il 27 maggio scrisse in una email: «Un grande team di esperti ha lavorato letteralmente giorno e notte con una sola motivazione: fare in modo che quello che è successo in Italia non si ripeta nei Paesi che ancora sono indietro nella curva epidemica». I messaggi del ricercatore, tuttavia, sono stati ignorati. A quanto pare, ha prevalso l'interesse politico ed economico. Il risultato sono le cataste di morti.
Covid, quanto sapeva Bruxelles? Giallo sulle carte fornite da Roma. Piano segreto, la Commissione Ue risponde ad una interrogazione. Ma il contenuto sorprende. E la Sardone inchioda Conte: "Troppe le ombre del governo italiano". Giuseppe De Lorenzo e Andrea Indini, Sabato 19/12/2020 su Il Giornale. Non vedo, non sento, non parlo. Dico ma non dico. Un po' fingo di non capire. E rispondo con tante parole senza mai entrare nel merito. Deve essere stata questa la linea seguita dagli uffici della Commissione europea quando si sono messi alla scrivania per redigere la risposta all'interrogazione parlamentare presentata dall'eurodeputata Silvia Sardone. L'obiettivo della leghista era quello di avere un quadro più chiaro sull'ormai famoso "piano segreto" anti Covid annunciato urbi et orbi dal direttore generale del ministero della Salute, Andrea Urbani: "Il governo vi aveva fatto sapere qualcosa? - si era domanda l'onorevole - Oppure anche a voi ha tenuto nascosto il documento"?. La commissaria Stella Kyriakides, o chi per lei, si è allora seduta al tavolo, ha preso carta e penna e ha vergato 278 parole per non dire praticamente nulla: nessuna risposta precisa. Così ancora oggi restano gli stessi dubbi di prima. E forse pure qualcuno in più. Eppure le domande erano chiare. L'Italia, dopo aver redatto il "Piano operativo di preparazione e risposta a diversi scenari di possibile sviluppo di un'epidemia da 2019-nCov”, lo ha fatto sapere all'Europa? Ha detto a Bruxelles che i calcoli degli epidemiologi prevedevano migliaia di infetti e di morti? Ha spiegato alla Commissione come avrebbe voluto agire, anche solo per aiutare le altre capitali Ue a rendersi conto del pericolo? Domandare è lecito, rispondere sarebbe in questo caso un dovere. Per capire la replica dell'Ue partiamo da quanto chiesto due mesi fa dalla Sardone. Il testo dell'interrogazione era piuttosto limpido (leggi qui): "Nello scorso aprile - si leggeva - Andrea Urbani, membro del Comitato tecnico scientifico italiano, ha rivelato l'esistenza di un documento, redatto nei mesi precedenti, su cui gli esperti assicurano di essersi basati per guidare le scelte dell'esecutivo nei mesi più neri del contagio. Questo documento non è mai stato presentato in via ufficiale né ai cittadini né ai parlamentari italiani che lo hanno richiesto". Per rendere più chiaro il concetto, la leghista spiegava che "nel libro, dal titolo Libro nero del Coronavirus, di Giuseppe De Lorenzo e Andrea Indini, si parla della strana decisione del governo di tenere nascosto il "piano" anche ai governatori delle Regioni e, allo stesso tempo, delle manovre per non divulgarlo alla stampa e al Parlamento italiano". Ciò premesso, voleva sapere: a) "I piani di gestione dell'emergenza degli Stati membri sono stati condivisi con la Commissione?"; b) "La Commissione ha mai inviato agli Stati membri delle linee guida su come affrontare la pandemia nei primi mesi dell'emergenza?". Più chiari di così si muore. Ecco invece la replica europea (leggi qui). L'Ue ricorda che ogni tre anni gli Stati membri devono riferire a Bruxelles "in merito alle disposizioni relative alla pianificazione della preparazione e della risposta" alle gravi minacce transfrontaliere a livello sanitario. Le ultime relazioni risalgono al 2017. La Commissione spiega che "gli aggiornamenti sulla pianificazione della preparazione contenuti nelle relazioni trasmesse dagli Stati membri sono stati discussi dal comitato per la sicurezza sanitaria, anche nel contesto della pandemia". Cosa ne è emerso? Nella sua risposta l'Ue non lo dice. Però precisa di non avere il potere di "effettuare verifiche delle informazioni contenute nelle relazioni periodiche trasmesse dagli Stati membri". Come a dire: se Roma ci ha mentito, non potevamo saperlo. Tutto bello. Ma che c'azzecca con l'interrogazione posta dalla Sardone? Che c'entra il "Piano segreto" realizzato tra febbraio e marzo con le relazioni del 2017? "Nulla", dice la leghista al Giornale.it. Nelle 278 parole della risposta Ue, infatti, non viene mai citato né il "piano" di Urbani né qualcosa di simile. L'unica rivelazione è che "all'inizio della pandemia da Covid-19" Bruxelles sostiene di aver "chiesto agli Stati membri di comunicare se fossero in corso aggiornamenti o revisioni dei rispettivi piani di preparazione alla pandemia". Bene. A quanto pare "la maggior parte dei paesi, compresa l'Italia, ha comunicato che erano in corso revisioni del piano per la pandemia di influenza o dei piani nazionali di preparazione". Ottimo. Vero è che in Italia ad aprile del 2019 alcuni gruppi di lavoro si riuniscono allo scopo di mettere a punto una "Revisione del piano nazionale di risposta ad una pandemia influenzale" (leggi qui). Ma questo riguarda il piano pandemico influenzale generico (quello, per intenderci, che l'Italia pare non avesse più aggiornato dal 2006), non il "piano operativo" contro il Covid di cui parlò Urbani. Si tratta di due documenti distinti. Le opzioni allora sono tre: o la Commissione non ha capito bene le domande (ne dubitiamo); o ha ricevuto il "piano segreto", ma non intende farlo sapere a nessuno; oppure il governo oltre alle Regioni e ai cittadini, ha tenuto all'oscuro di tutto pure l'Unione Europea. “Finalmente ho ricevuto risposta da parte della Commissione Europea – attacca la Sardone – Peccato che la risposta sia molto evasiva: si parla di una revisione del piano per affrontare la pandemia di influenza da parte dell'Italia, anche se la mia richiesta era molto specifica, ovvero sapere se esiste un piano di gestione dell'emergenza condiviso con l'Unione Europea. Le cose sono due: o il famoso documento di cui ha parlato Andrea Urbani, membro del Comitato tecnico scientifico italiano, su cui gli esperti assicurano di essersi basati per guidare le scelte dell'esecutivo nei mesi più neri del contagio, non è mai stato trasmesso dall'Italia all'Ue oppure l'Ue non ne vuole parlare per chissà quale motivo. Una cosa è chiara: la gestione della pandemia da parte del governo Conte non è trasparente e molte sono le ombre. È grave il fatto che gli italiani non possano essere informati delle scelte del governo, specialmente vista la particolarità del momento”.
Covid, è il giorno della verità: il ministero davanti ai giudici. L'udienza sulla mancata pubblicazione del "piano segreto". L'ultima mossa del ministero della salute: ecco le carte. Giuseppe De Lorenzo, Martedì 22/12/2020 su Il Giornale. Il giorno della verità. Forse. Almeno quello in cui sapremo di più sulla querelle che da giorni contrappone il ministero della Salute e due parlamentari di FdI. Chi segue ilGiornale.it lo sa: la III sezione quater del Tar del Lazio oggi si riunisce per discutere il ricorso presentato da Galeazzo Bignami e Marcello Gemmato che da mesi chiedono al governo di fornire loro il "piano segreto" contro la prima ondata del coronavirus. La vicenda è nota. E tutto ruota attorno al documento dal titolo "Piano operativo di preparazione e risposta a diversi scenari di possibile sviluppo di un'epidemia da 2019-nCov". L'atto viene citato più volte nei verbali del Cts, venne realizzato da un folto gruppo di lavoro, venne presentato a Speranza il 20 febbraio (prima dunque del primo caso di Codogno) ed era - come rivelato dal Giornale.it - una preparedeness in previsione dell'arrivo della pandemia. Normale amministrazione, in teoria. Solo che il Cts sin da febbraio ne ha predisposto la riservatezza, firmata all'unisono da tutti gli autori del testo. Perché? Il mistero resta ancora. Stando ai verbali l'obiettivo era quello di evitare che "i numeri arrivassero alla stampa". Gli scenari immaginati prevedevano infatti migliaia di casi di infezione in Italia, il tutto mentre nel Paese regnava una certa tranquillità. Così alla fine nessuno ne ha saputo nulla. Almeno finché Andrea Urbani, direttore generale al ministero e membro del Cts, per smentire le voci di presunti "vuoti decisionali" nella prima fase dell'emergenza, decise di rivelare che in realtà sin dall'inizio "avevamo un piano secretato e quel piano abbiamo seguito". Di che documento parlava? Anche questo, ad oggi, è un mezzo segreto (di pulcinella). Il ministero infatti si ostina a derubricarlo a "studio" e più di una volta ha finito col confonderlo con un'analisi matematica realizzata da Stefano Merler. Lo ha fatto anche nelle memorie difensive (ben 3) presentate dall'avvocatura generale dello Stato al Tar del Lazio (leggi qui e qui). L'ultima mossa risale a giovedì. Per "confutare" la contromemoria depositata dai parlamentari Fdi (leggi qui), il ministero della Salute torna a sostenere la tesi "dell'infondatezza del ricorso" al Tar e del "difetto" dell'istanza di accesso agli atti con cui i deputati avevano chiesto copia del "piano segreto" citato da Urbani. Per l'avvocatura la richiesta era troppo "generica" e non riferibile "ad un atto specificamente individuato". E visto che non si può costringere l'Amministrazione a ricerche infinite, il "silenzio" ministeriale era giustificato. Dunque: niente "piano". Il ministero per provare a chiudere la partita nei giorni scorsi aveva depositato una copia dello studio di Merler (leggilo qui), sostenendo fosse quello l'atto che "sembrava essere stato richiesto". Era andato addirittura a recuperarlo al Cts. Stavolta "a titolo di cortesia istituzionale" allega invece i due documenti di preparazione predisposti in vista dell'autunno-inverno. Che c'entrano? Nulla. Perché allora depositarli? Vallo a capire. E se hanno fatto tanto sforzo per togliere dal cassetto ben tre dossier, perché non trovare quello giusto chiesto dai ricorrenti? Bella domanda. C'è un passaggio della memoria che però desta una certa curiosità. Ed è l'ultimo paragrafo. L'avvocatura scrive infatti che "gli atti depositati" sono stati predisposti "sulla base degli elementi di studio e degli approfondimenti contenuti in un documento istruttorio (così detto “Piano di emergenza”)". Un "documento istruttorio", quindi. Cos'è? È il "piano segreto" citato da Urbani? È il "Piano operativo" approvato dal Cts? È un ulteriore dossier di cui nulla si sa? Chissà. Cioè che assicura l'avvocatura è che tale atto "non è mai stato formalizzato dal Ministero della salute, né dal Dipartimento di Protezione civile della Presidenza del Consiglio dei Ministri, che lo ha formato e lo detiene, essendo esso acquisito agli atti del Comitato tecnico scientifico, dal quale, come risulta dai verbali del medesimo Comitato, che vengono resi pubblici, viene utilizzato come riferimento per le raccomandazioni circa il contenimento e gestione dell’emergenza nelle aree interessate disposte nei Decreti e nelle Ordinanze via via emanati". Quindi è stato usato per varare i dpcm, è stato realizzato dal Cts e acquisito agli atti, ma non è un atto formale di nessuno. Possibile? In quale cassetto si trova allora? "La trasparenza è un problema serio per il governo Conte - attaccano Bignami e Gemmato - Con l’ultima memoria il ministero cerca di alzare una cortina fumogena per impedirci di capire, di conoscere. Non ci rimane che sperare nei giudici: se un piano esiste il governo deve darcelo, se non esiste il governo deve dircelo".
Ora lo ammette pure il ministero: "Piano pandemico fermo al 2006". Al Tar l'udienza sul "piano segreto" anti-Covid. Ma l'avvocatura si lascia scappare una ammissione sul piano influenzale. Giuseppe De Lorenzo, Martedì 22/12/2020 su Il Giornale. Forse l'avvocatura dello Stato non si è resa conto del peso delle parole dette durante l'udienza. Perché tra le cose emerse oggi nell'aula (virtuale) del Tar del Lazio, è uno il passaggio politicamente scottante e che probabilmente farà discutere. Come ilGiornale.it è in grado di ricostruire, infatti, l'avvocato che rappresentava il ministero della Salute ha detto che il dicastero è al lavoro per frenare diffusione del Covid. Fin qui, nulla di strano. Poi ha però aggiunto che l'obiettivo è quello di intervenire, sulla base dell'esperienza acquisita, per aggiornare il piano pandemico anti influenzale che è fermo dal 2006. Esatto: fermo a 14 anni fa. Ora, di per se questa non è una novità assoluta. Sono molti quelli che da tempo denunciano questa anomalia. Ma stavolta ad affermarlo in un' udienza, alla presenza dei giudici e dell'avvocato della difesa, è un legale che rappresenta in tutto e per tutto lo Stato. In questo caso il ministero retto da Roberto Speranza. L'avvocatura ha pure aggiunto che dal 2006 ad oggi nessun ministro, da Storace alla Lorenzin, avrebbe provveduto ad aggiornarlo. Di chi è allora la colpa? Ed è qui che la faccenda si fa interessante. Perché se le parole dell'avvocato non incidono nel merito della questione discussa al Tar (cioè la mancata pubblicazione del "piano segreto" anti Covid), di fatto irrompono in un'altra questione spinosa: quella del mancato aggiornamento del piano pandemico influenzale e di tutto ciò che gli ruota attorno. Come la querelle che contrappone Ranieri Guerra e Francesco Zambon (leggi qui) sull'ormai famoso report dell'Oms sulla gestione italiana della pandemia, prima pubblicato sul sito dell'Organizzazione e poi stranamente scomparso. All'interno era proprio scritto che il piano pandemico nel 2016 era stato solo "riconfermato", ma non "aggiornato". Ricostruzione smentita da Guerra, a quel tempo direttore della Programmazione al ministero, su cui pendono le accuse di aver fatto "pressioni" per eliminare il dossier. A questo va aggiunto che, sempre in udienza, l'avvocatura ha pure aggiunto che le le operazioni per aggiornare il piano pandemico non sono ancora sfociate in un provvedimento completo e formale. Tradotto: tutto ancora da concludere. "È da mesi e ben prima di alcune inchieste giornalistiche che in perfetta solitudine Fratelli d'Italia sta denunciando l'assenza del Piano pandemico e i silenzi omertosi del Governo - dice Giorgia Meloni - Proprio oggi si è tenuta l'udienza al TAR del Lazio per il ricorso promosso dai deputati di FdI Bignami e Gemmato per avere il 'Piano Segreto' di cui parlò sulla stampa nazionale il Direttore Generale della Programmazione sanitaria al Ministero della Salute, Andrea Urbani, e l'Avvocatura dello Stato ha ammesso che il Piano pandemico non è mai stato aggiornato dal 2006 e che ancor oggi il Governo non ha prodotto, sulla base dell'esperienza derivante dalla pandemia, un provvedimento completo e formale". In sostanza, aggiunge la leader di Fdi, "ancora oggi l'Italia non ha un piano completo e formale. A questo punto il governo deve venire a rispondere urgentemente alle Camere per dirci con chiarezza come stanno le cose".
"C'è il timbro della protezione internazionale...". Ecco chi copre le colpe di Conte. Storace "accusato" dall'avvocatura dello Stato di non aver aggiornato il "piano pandemico". Ma fu lui a firmarlo da ministro. La rivelazione su Speranza: "Mi chiamò..." Giuseppe De Lorenzo, Mercoledì 23/12/2020 su Il Giornale. L’avvocatura dello Stato lo ha tirato in ballo, come si fa quando si finisce nell'angolo e si cerca di trascinare nella melma pure gli avversari. Muoia Sansone con tutti i filistei. Come rivelato ieri dal Giornale.it, infatti, durante l’udienza al Tar sulla mancata pubblicazione del piano segreto anti Covid, il legale che rappresenta il ministero della Salute ha allargato le colpe del mancato aggiornamento del piano pandemico influenzale a tutti i ministri del passato, partendo da Storace fino ad arrivare alla Lorenzin. Un fallo di reazione poco istituzionale. Soprattutto se ci si ferma a ragionare un attimo: Storace, infatti, il piano pandemico non l’ha "aggiornato" semplicemente perché fu lui a firmarlo. Ministro della Salute dall’aprile 2005 al marzo 2006, era a viale Lungotevere Ripa 1 quando 14 anni fa il Belpaese realizzò il documento che poi altri avrebbero dovuto rendere attuale.
Storace, alla fine sul famoso piano pandemico danno la colpa pure a lei?
"Quando ho letto le dichiarazioni dell’avvocatura davanti al Tar sono rimasto sorpreso. Perché avrei dovuto aggiornarlo? A febbraio 2006 ho apposto la firma al varo del documento, poi poco dopo, a marzo, mi sono dimesso per quel processo-bufala finito, sette anni dopo, con l’assoluzione. Non sarebbe stato curioso aggiornare un piano approvato solo un mese prima?"
Direi di sì: non avrebbe avuto senso.
Cosa ha provato quando ha letto la ricostruzione dell’udienza al Tar?
"Mi sono sentito abbastanza offeso. Non si può arrivare fino a quel limite: lo Stato non può fare così. È l’ennesima conferma di che tipo di governanti ci ritroviamo: perché qualcuno glielo avrà detto all’avvocatura dello Stato di tenere questa linea, no? Non se la sarà mica inventata da solo. L’aggiornamento di un piano comunque si fa dopo tre anni almeno. Quanto successo è un segno di malafede. E sulla malafede si è fondata tutta l’azione di questo governo”.
Uno sgarbo istituzionale.
"La cosa grave di questa vicenda è che il ministero, oltre a non aver fatto il suo dovere aggiornando negli anni il piano pandemico, ma non si è mai neppure preoccupato, per una questione di stile, di rendere merito a chi quel piano lo firmò. Ma questo fa capire in che mani siamo".
In che mani siamo?
"Siccome devono sfuggire alle loro responsabilità, generano confusione così che si possano condividere le colpe. Ma non è vero. Non voglio prendermi il merito di essere stato il ministro che ha firmato il Piano pandemico: perché probabilmente il merito è dei dirigenti di allora. Ad occuparsi del dossier fu il direttore Donato Greco: l'onore va riconosciuto a lui. Certo io diedi le indicazioni, ma non ho la presunzione di afferrmare di averlo scritto personalmente. In questi mesi nessuno ha mai spiegato chi fu a firmarlo, e ora mi attribuiscono pure la responsabilità di non averlo aggiornato? Questo fa capire la miseria in cui siamo precipitati”.
Quello dell’avvocatura mi è sembrato una sorta di fallo di reazione. Per ridurre le responsabilità dell’attuale ministro e di quelli precedenti, ha messo dentro un po’ di tutto da destra a sinistra…
"Sì, ma con questa logica si poteva tornare fino ai tempi di Mussolini. Però l’Oms è a loro che ha aiutato, non noi… L'Organizzazione ha fatto da copertura a governo".
Parla del famoso report dell'Oms misteriosamente scomparso dal sito dell'Oms, immagino. Lì in effetti era scritto che il piano nel 2016 è stato solo "riconfermato" ma non "aggiornato".
"È questo il limite di Speranza: deve chiarire perché si è fatto coprire dell’Oms. Poi potrà anche dire di essere arrivato al ministero solo da tre mesi quando è esplosa la pandemia. Vero. Ma allora sarà colpa della Grillo? O della Lorenzin? Qualcuno le deve spiegare queste cose, altrimenti non si capisce nulla. Siccome sono morti 65mila cristiani, credo sia d'obbligo il dovere dell’etica e della responsabilità".
Perché l’Oms avrebbe coperto il ministro Speranza?
Questo è un governo che nasce col timbro della protezione internazionale. La genesi dell’esecutivo di Conte è quella: serviva ad evitare governi sgraditi o ciò che si poteva profilare all’orizzonte con il centrodestra. La sanità non è l’ultimo dei servizi da rendere al cittadino ed è un importante potere".
Lei era ministro ai tempi di un'altra pandemia, quella aviaria. Come la affrontò?
"In quei giorni emerse la necessità di garantire le carni italiane perché volevano distruggere tutto. La famosa campagna sui polli buoni, ricorda? Al vertice dei ministri della Salute europei a Bruxelles misi il veto alla decisione comune perché non si voleva introdurre l’etichettatura obbligatoria delle carni, a beneficio dei prodotti italiani super controllati. I paesi del Nord non volevano le etichette, perché non hanno controlli sanitari come i nostri, così io mi impuntai finché non aggiunsero al documento finale anche quest’obbligo. Cosa intendo dire: se vai lì a testa alta, alla fine ottieni ciò che vuoi. Questi invece stanno sempre a testa bassa".
L’udienza al Tar di ieri non riguardava però il piano pandemico influenzale, ma il misterioso “piano segreto” citato da Andrea Urbani in un’intervista di aprile. Come mai ancora oggi il ministero insiste nel ribadire che non esiste alcun atto?
"Il fatto che secretano tutto è indicibile, una vergogna vera: non si può sapere nulla quel che fanno. Sembra di essere al Pentagono: il luogo depositario dei segreti di Stato. Ma qui stiamo parlando della salute dei cittadini, non ci possono essere misteri. Lo stesso discorso vale per i verbali del Cts: ad ogni dpcm Conte si è rifugiato dietro quei documenti, poi però abbiamo scoperto che sui ristoratori gli esperti dicevano esattamente il contrario di quello che ha fatto il governo. Vuol dire che siamo di fronte ad una manica di imbroglioni”.
Si metta nei panni del governo. Cosa avrebbe fatto al loro posto?
“Sicuramente avrei evitato di esaltare il modello italiano. E non ci avrei neppure scritto un libro”.
Parla di quello del ministro Speranza, subito ritirato dalle librerie non appena è scoppiata la seconda ondata?
"Lui si è arrabbiato perché io sono stato uno dei primi a trovare il libro, a farne la recensione e a criticarlo. Queste cose vanno avanti solo per vanagloria personale. Mi dispiace perché Speranza aveva iniziato bene".
In che senso?
"Nei primissimi giorni di febbraio mi arrivò una telefonata da Speranza: ‘Guarda ti volevo dire, come ex ministro, che sta succedendo questa cosa…’. La chiamata mi fece piacere, perché sembrava volesse coinvolgerci. In realtà voleva solo associarci alle sue responsabilità. Come si dice: socializzare le perdite e privatizzare i profitti”.
Dopo quanto successo al Tar, ora cosa intende fare?
"Se trovo il tempo, un libro su Speranza, Grillo e Lorenzin lo scrivo io".
La rivelazione dell'uomo dell'Oms: "Dopo quel dossier, al ministero..." L'intervista a Report di Francesco Zambon, il ricercatore che ha firmato il dossier sulla risposta italiana scomparso dal sito dell'Oms. Bartolo Dall'Orto, Lunedì 21/12/2020 su Il Giornale. La versione di Francesco Zambon. Potremmo chiamarla così. Mentre ieri Ranieri Guerra è andato a Non è l'Arena per rispondere alle accuse sul mancato aggiornamento del piano pandemico (leggi qui), oggi il ricercatore dell'Oms con sede a Venezia trova spazio su Report. Una sorta di scontro tra le diverse anime dell'Organizzazione per mezzo stampa, con la procura di Bergamo alla finestra e i familiari delle vittime che chiedono chiarezza. Partiamo dal report dell'Oms sulla risposta all'epidemia dell'Italia (definita "improvvisata, caotica e creativa"), prima pubblicato sul sito e poi stranamente scomparso. "Più volte Ranieri Guerra, sia via mail che per telefono - racconta Zambon - mi ha chiesto di modificare la datazione del piano pandemico italiano. Lui voleva che io scrivessi nel rapporto che il piano, dal 2006, era stato aggiornato, usando proprio le parole updated and reconfirmed. Consultandomi con tutti gli autori del rapporto, abbiamo deciso assolutamente che potevamo scrivere reconfirmed perché in effetti non era cambiato neanche di una virgola dal 2006, ma certamente non potevamo scrivere updated cioè aggiornato. Questo sarebbe stato dichiarare il falso ed io non me la sono sentita". Il motivo è chiaro: se l'Italia avesse avuto un piano aggiornato, dice Zambon, avrebbe affrontato meglio l'ondata di coronavirus. "Non è possibile che un piano di 14 anni fa possa essere attuale - afferma - Il piano pandemico dell'influenza è la base per prepararsi alle pandemie che sono causate da diversi agenti virali. Peraltro ce ne sono stati diversi che sono stati causati da Coronavirus: la Sars nel 2003, poi la Mers nel 2014-2015 anche quello era un campanello d'allarme, e poi è arrivato questo Coronavirus nel 2019".
Il rischio licenziamento. Guerra - a dire il vero - ieri ha smentito le "minacce" di licenziamento a Zambon, così come di aver fatto ritirare il report. Ma il ricercatore dell'Oms Europa racconta una versione diversa: "Mi telefonò Ranieri Guerra e mi disse che era sulla porta del direttore generale e che se non avessi modificato il testo come richiesto, avrebbe detto che c'ero io dietro la puntata di Report che metteva sotto accusa l'Oms. Ma io della puntata di Report di quella sera non sapevo assolutamente niente. E solo, poi guardandola, capii perché: si facevano pesanti accuse sui legami tra Cina, Etiopia e altre cose e c'era anche una parte dedicata al piano pandemico. A Ginevra c'era una grandissima apprensione per l'inchiesta e quindi anche Tedros certamente lo sapeva, cosa che ovviamente mi avrebbe messo in una posizione estremamente difficile, potevo essere licenziato in qualsiasi momento".
L'incendio al Palazzo a Roma. L'intervista di Zambon a Report è però piena di altre novità. Soprattutto sul rapporto tra il governo e l'Oms. "Dopo la pubblicazione - rivela il ricercatore - si è innescato un incendio in varie istituzioni di Roma. So per certo che c'era grande subbuglio. Questo devo dire che mi fece molto male". Non solo. Nella puntata, infatti, Report ha mostrato una e-mail che porterebbe la firma del direttore dell'Oms Europa, Hans Kluge: "È la questione chiave - si leggerebbe nella missiva - la mia relazione con il ministro che era molto infastidito". E ancora: "Scriverò al ministro che istituiremo un gruppo di esperti Ministero/Istituto Superiore di Sanità/Oms per rivedere il documento". Una proposta che Zambon ha trovato "strana". "Quando mi venne chiesto il testo per fare evidentemente delle modifiche - spiega - io insieme tutti gli autori eravamo tutti concordi nel dire che l'Oms può fare assolutamente quello che vuole ma senza il nostro nome".
La mail (ignorata) al capo dell'Oms. Nell'intervista, infine, Zambon torna anche su un'altra questione. Il ricercatore spiega di aver informato il vertice dell'Organizzazione, il direttore Tedros, su quanto stava accadendo in relazione al report ritirato. Si legge nella missiva del 28 maggio: "E' stata ritirata una pubblicazione dell'Oms (approvata a tutti i livelli, compreso il Chief Scientist) danneggiando di fatto la credibilità dell'Oms. C'è il rischio di danni catastrofici in termini di indipendenza e trasparenza se una versione “censurata” della pubblicazione fosse modificata'". A questa mail, rivela però il ricercatore, "non ho mai ricevuto risposta".
I segreti dell'Oms. Report Rai PUNTATA DEL 21/12/2020 di Cataldo Ciccolella, Norma Ferrara, Giulio Valesini. Esclusiva di Report: una mail prova che Tedros, il direttore generale dell'Oms, sapeva già dal 28 maggio della censura dello studio sulla gestione italiana della pandemia. Ma l'Oms, con la scusa della confidenzialità, ha rifiutato di rispondere sulle violazioni del proprio codice per la ricerca responsabile che sanziona la falsificazione dei dati e i conflitti di interesse. Una eccezionale intervista a uno degli autori del dossier ricostruirà cosa è accaduto davvero dentro l'Organizzazione mondiale della sanità e come il tentativo di censurare la verità si è trasformato in una catastrofe reputazionale per l'indipendenza dell'ente. Infine Report svelerà una delle ragioni chiave per cui agli autori del dossier è stato chiesto di non presentarsi alla Procura di Bergamo.
I SEGRETI DELL’OMS. Di Giulio Valesini e Cataldo Ciccolella Collaborazione di Norma Ferrara SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO A proposito di piani nazionali andiamo sul piano pandemico, al dossier ritirato dall’OMS. Abbiamo l’autore di quel dossier, Zambon, che ha deciso, violando il veto dell’OMS di andare a testimoniare alla procura di Bergamo e poi a venirci a raccontare la sua verità in un’intervista esclusiva. Mostreremo anche altre email che imbarazzano l’OMS.
GIULIO VALESINI Dottor Guerra… lei chiese ai ricercatori di correggere il piano pandemico, perché eravate finiti sui denti di Report, ce lo spiega questo? Lei di questa strategia della “foglia di fico” ne avrebbe parlato persino con Tedros? Perché non dovevamo urtare la sensibilità politica del ministro Speranza, dottor Guerra? Sono morte 50mila persone, dottor Guerra… una risposta.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO DA REPORT DEL 30 NOVEMBRE 2020 È l’11 maggio. Poche ore prima della puntata di Report dedicata all’Oms e al mancato aggiornamento del piano pandemico. “Stasera andiamo sui denti di Report e non possiamo essere suicidi”. “Adesso blocco tutto con Soumya. Fammi avere la versione rivista appena puoi. Così non può uscire”. "Devi correggere subito".
GIULIO VALESINI Quindi Ranieri Guerra le chiede di modificare il rapporto, scrivere una datazione falsa del piano pandemico.
FRANCESCO ZAMBON - RICERCATORE OMS Ci sono state delle email e anche una comunicazione poi dopo telefonica a me, chiedendo di modificare il testo che parlava del piano pandemico, che era la parte proprio iniziale della pubblicazione chiedendo di cambiarlo e mettendo che era stato nel frattempo dal 2006 aggiornato, usando proprio le parole updated and reconfirmed. Consultandomi con tutti gli autori abbiamo deciso assolutamente possiamo mettere reconfirmed perché in effetti non era cambiato neanche di una virgola dal 2006, ma certamente non potevamo scrivere updated cioè aggiornato. Questo sarebbe stato dichiarare il falso ed io non me la sono sentita.
GIULIO VALESINI Guerra le disse che nel rapporto andava cambiata la data, la vera data del piano pandemico italiano, ma arrivò a minacciarla per questo?
FRANCESCO ZAMBON - RICERCATORE OMS Sì sì è corretto. Dove lui dice che era sulla porta del direttore generale e che se non avessi modificato il testo come richiesto, avrebbe detto che avrei io messo sotto accusa l’OMS, considerando la puntata di Report che sarebbe stata trasmessa quella sera, io non sapevo assolutamente niente. La sera, guardando la puntata di Report capii perché, si facevano pesanti accuse su legami tra Cina, Etiopia e altre cose e anche c'era una parte dedicata al piano pandemico. A Ginevra c'era una grandissima apprensione per il documentario e quindi questa anche Tedros certamente lo sapeva, ovviamente mi avrebbe messo in una posizione estremamente difficile perché chiaramente potevo essere licenziato in qualsiasi momento.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Non potevamo dichiarare il falso dice Zambon che ammette però le pressioni che ha subito, ricevuto dal direttore aggiunto dell’OMS Ranieri Guerra, che gli ha chiesto di cambiare alcuni contenuti critici contenuti in quel dossier. A partire dalla data del piano pandemico. Pubblicare quella reale, del 2006 avrebbe messo in grande imbarazzo il governo italiano e tutti quei dirigenti che si sarebbero dovuti occupare di prevenzione: Ranieri Guerra stesso, Ruocco e anche D’Amario. Ha chiesto anche di cambiare, togliere il riferimento al professor Curtale, un esperto che aveva ad aprile scritto un articolo nel quale dice “abbiamo un piano pandemico inadeguato, vecchio”. Tuttavia se lo avessimo messo in pratica, avremmo potuto limitare, almeno in parte, la diffusione del virus. Sono elementi che confermano la strategia di Ranieri Guerra., una strategia che lui stesso dice di aver attuato per trasformare l’OMS in una consapevole “foglia di fico” delle decisioni criticate dal governo italiano. L’OMS, applicando questa strategia in realtà ha anche coperto sé stessa. È per questo che ha cercato di impedire che Zambon e i ricercatori andassero a testimoniare presso la procura di Bergamo sollevando il problema dell’immunità diplomatica; non volevano che Zambon andasse lì a raccontare le pressioni e che cosa intendeva quando aveva scritto nel dossier che la reazione italiana era stata una reazione al virus caotica, improvvisata, creativa. Ora Report però è venuta in possesso di alcune email che imbarazzano l’OMS. Sono le email che ha scritto il capo dell’ufficio legale di OMS Europa e dice: l’OMS in questo momento, per via della diffusione del Virus, è sotto il tiro incrociato di richieste di risarcimento danni, cause legali, interrogazioni parlamentari; per questo motivo bisogna essere attenti a non creare un precedente. Scrive e dice: vi chiediamo di non presentarvi all’interrogatorio della Guardia di Finanza. Hanno il timore di finire sotto richieste di risarcimenti milionari e, per questo, preferiscono seppellire la verità. Ora. Zambon invece ha disobbedito all’ordine dell’OMS, rischia il licenziamento ma ha deciso di andare a testimoniare in questi giorni ai magistrati di Bergamo la sua verità questo perché, dice, vuole che la sua gente, i cittadini italiani, la conoscano. I nostri Giulio Valesini e Cataldo Ciccolella.
GIULIO VALESINI Quindi in teoria è una relazione che doveva salvare letteralmente vite umane?
FRANCESCO ZAMBON - RICERCATORE OMS Sì, questa era la nostra speranza.
GIULIO VALESINI Se lei tornasse indietro riscriverebbe “improvvisata, caotica e creativa”
FRANCESCO ZAMBON - RICERCATORE OMS Io francamente vado molto fiero dei contenuti, di come la pubblicazione appare. Volevo che fosse letto dalla gente e dalla gente non solo da ministri e decisori politici, volevo che fosse letto dalle persone perché potessero essere preparate anche da un punto di vista emotivo.
GIULIO VALESINI Secondo lei quanto ha pesato il fastidio del Ministro, delle autorità italiane sulla non ripubblicazione del rapporto?
FRANCESCO ZAMBON - RICERCATORE OMS Dopo la pubblicazione si è innescato un incendio direi penso in varie istituzioni di Roma. So per certo che c’era grande subbuglio. Questo devo dire che mi fece molto male.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO È un dettaglio confermato da questo carteggio del 15 maggio, quando il rapporto è stato appena censurato dall’Oms. Kluge è preoccupato per la reazione del ministro Speranza, tanto da scrivere “è la questione chiave, la mia relazione con il Ministro che era molto infastidito”, poi Kluge aggiunge “Scriverò al Ministro che istituiremo un gruppo di esperti Ministero/Istituto Superiore di Sanità/OMS per rivedere il documento”. Cioè, pur di ricucire il rapporto con Speranza, Kluge arriva a ideare una sorta di gruppo di revisione concordata del lavoro.
GIULIO VALESINI Queste non sono pressioni dal punto di vista politico rispetto al ritiro del rapporto?
FRANCESCO ZAMBON - RICERCATORE OMS Il Ministro stesso e anche l’Istituto Superiore di Sanità dovevano essere informati della pubblicazione del rapporto da Ranieri Guerra. Me lo chiese proprio lui, un mese prima del lancio della pubblicazione, era circa metà aprile, mi chiese un indice dettagliato della pubblicazione da condividere con il ministro Speranza. E io mandai l'indice che non è un semplice indice, ma anche con i contenuti che sarebbero stati inseriti sotto a ogni capitolo.
GIULIO VALESINI Ma è normale secondo lei che il vertice dell’OMS Europa concordasse con il ministro della Salute le correzioni da fare a un rapporto indipendente?
FRANCESCO ZAMBON - RICERCATORE OMS Io l’ho trovata una cosa strana. E infatti poi dopo quando mi venne chiesto il testo, per fare evidentemente delle modifiche, io insieme a tutti gli autori eravamo tutti concordi nel dire che l’OMS può fare assolutamente quello che vuole, ma senza i nostri nomi.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Il 17 maggio David Allen, direttore delle Business Operations Europe di OMS, ha un’idea precisa sulla mancata ripubblicazione del dossier: “Credo che la ragione del continuo ritardo sia assicurare che il governo padrone di casa, abbia la possibilità di rivedere e fornire input”.
FRANCESCO ZAMBON - RICERCATORE OMS A un certo punto nonostante fossi il coordinatore della pubblicazione la cosa viene tolta dalle mie mani e gestita altrove.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO In una mail del 28 maggio Zambon avvisa il direttore generale Tedros che il ritiro del dossier critico nei confronti della gestione in Italia rischia di compromettere la reputazione dell’OMS: “si è ostacolata la condivisione di lezioni chiave apprese dall’Italia nella risposta al Covid-19, impedendo la salvezza di vite umane, è stata ritirata una pubblicazione dell’OMS approvata a tutti i livelli, compreso il Chief Scientist, danneggiando di fatto la credibilità dell’OMS, c’è il rischio di danni catastrofici in termini di indipendenza e trasparenza se una versione censurata della pubblicazione fosse modificata”.
FRANCESCO ZAMBON - RICERCATORE OMS A quella mail non ho mai ricevuto risposta.
GIULIO VALESINI Lei ci sta dicendo è che il direttore generale Thedros pur informato di ogni singola questione, non mosse un dito per salvaguardare la reputazione dell’Organizzazione mondiale di Sanità di fronte di fronte anche alle minacce subite da un suo ricercatore?
FRANCESCO ZAMBON - RICERCATORE OMS Sì. Questo è quello che è successo.
GIULIO VALESINI Lei mi conferma che in seguito alle sue numerose segnalazioni all’interno dell’OMS non è stata mai aperta un’istruttoria formale su quanto è successo?
FRANCESCO ZAMBON - RICERCATORE OMS Io ho mandato numerosissime segnalazioni a tutti gli organi competenti, comitato etico, investigation, direttore di business operation fino ad arrivare al Segretario Generale delle Nazioni Unite. A tutt'oggi non so se siano state fatte delle investigazioni.
GIULIO VALESINI Lei mi conferma che in una email Ranieri Guerra le parlò dei 10 milioni che l’Italia diede all’OMS? Come dire, mi dica lei se dico male ma: non possiamo permetterci di far indispettire il governo italiano perché ha appena donato 10 milioni di euro all’OMS.
FRANCESCO ZAMBON - RICERCATORE OMS La mail io l'ho ricevuta dove si fa accenno ai 10 milioni. Non c'è scritto per quale utilizzo erano destinati, certamente viene messo nel contesto della pubblicazione del fatto, sì, che la pubblicazione non doveva essere critica.
GIULIO VALESINI L’OMS e anche lo stesso Ranieri Guerra in questi giorni stanno dicendo che il rapporto è stato ritirato pieno di inesattezze. A noi non hanno mai volute dire quali nel dettaglio, lei sa, conosce quali erano queste gravi inesattezze del rapporto?
FRANCESCO ZAMBON - RICERCATORE OMS No, io non sono assolutamente a conoscenza di gravi inesattezze del rapporto che escludo ci siano.
GIULIO VALESINI Senta l’approvazione del Comitato diretto da Soumya Swaminathan al rapporto che noi abbiamo mostrato, era piena o era un'approvazione con riserva?
FRANCESCO ZAMBON - RICERCATORE OMS L’approvazione era un’approvazione piena. Solo due piccoli commenti vennero fatti relativamente alla coerenza stilistica, quindi fare in modo che lo stile fosse lo stesso in tutto il testo diciamo e l'altra relativamente alla cronologia della pandemia.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Da quanto ci risulta il team di Zambon accolse prima della pubblicazione anche diverse note di Ranieri Guerra: “sono state apportate 160 modifiche rispetto alla versione che hai visto, sono stati aggiunti due riferimenti e 32 punti del testo modificati dopo avere esaminato i tuoi commenti”. Il 5 gennaio dopo l’allerta dell'OMS sul diffondersi di una polmonite di origine sconosciuta in Cina, il ministero della Salute avrebbe dovuto far scattare le misure del piano pandemico, fase tre, livello uno, avrebbero dovuto verificare le scorte dei dispositivi di protezione e di antivirali. Noi avevamo quelle stoccate nel 2006. Report è in grado di mostrarvele in esclusiva. Sono conservate in questo deposito. É nella periferia di Roma ed è di proprietà del ministero della Salute. Tutto intorno il terreno è inquinato da mercurio e fitofarmaci, come dimostrano i teli che coprono l’area che non è ancora stata bonificata.
GIULIO VALESINI Ma qui sono stoccati gli antivirali in caso di pandemia, no?
CUSTODE MAGAZZINI MINISTERO C'è un minimo di piano, c’è sempre stato. É chiaro che se poi scoppia la pandemia…
GIULIO VALESINI Comunque, il Remesdevir adesso ve l'hanno portato.
CUSTODE MAGAZZINI MINISTERO L’hanno prodotto loro dall'Irlanda.
GIULIO VALESINI Però io ho letto una cosa, che da quella parte lì c'è una zona inquinata, ma che cos'è s'inquinamento? Che roba è?
CUSTODE MAGAZZINI MINISTERO C'erano delle cose, credo che abbiano già risolto.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Del deposito ha parlato anche Ranieri Guerra ai magistrati di Bergamo, aveva assicurato che l’Italia aveva pronta la scorta di antivirali in caso di una pandemia. Report è in grado di documentare in quali condizioni è conservata dentro il deposito del ministero della Salute. Dal 2005 il nostro paese acquistò dalla Roche per milioni di euro centinaia di chili di principio attivo per confezionare il Tamiflu oggi conservati in questi barili. Nei documenti, acquisiti dalla Guardia di Finanza su ordine della Procura di Bergamo, poche settimane fa, emergerebbe che la maggior parte dei lotti del principio attivo è scaduta nonostante la Roche avesse già ritestato una volta il suo principio attivo.
GIULIO VALESINI Senta, un piano pandemico aggiornato sarebbe servito all’Italia per affrontare meglio il Covid?
FRANCESCO ZAMBON - RICERCATORE OMS Ma io penso di sì, non è possibile che un piano 14 anni fa possa essere attuale. Il piano pandemico dell’influenza è la base per prepararsi alle pandemie che sono causate da diversi agenti virali. Peraltro, ce ne sono stati diversi che sono stati causati da Coronavirus: la SARS nel 2003, poi la MERS nel 2014-2015 anche quello era un campanello d’allarme.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Report è in grado di spiegare perché l’OMS tenta di vietare ai suoi ricercatori di andare a testimoniare alla Procura di Bergamo. Questa è una mail del capo dell’ufficio legale di OMS Europa: “Attualmente ci sono diverse cause legali in tema COVID-19 contro l'OMS e numerose inchieste parlamentari che coinvolgono l'OMS a livello globale. Dobbiamo stare attenti a non creare un precedente. Per questi motivi, vi chiediamo di non presentarvi all’interrogatorio con la Guardia di Finanza”.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO L’OMS teme che la sua risposta al Covid finisca nei tribunali di tutto il mondo. Ma nonostante gli avvertimenti e l’immunità sollevate Francesco Zambon pochi giorni fa ha deciso di presentarsi lo stesso, davanti ai magistrati.
FRANCESCO ZAMBON - RICERCATORE OMS Io certamente non mi tiro indietro.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Abbiamo il record mondiale di morti per il Virus. Oltre 111 per ogni 100 mila abitanti. È quello che scrive in uno studio la Johns Hopkins University. Ci sarà un perché. I 70mila morti, tra cui centinaia di medici e infermieri e i loro familiari una risposta la dovranno pur avere. Noi non possiamo che dire “grazie” a Zambon per essere andato a testimoniare nonostante il divieto dell’OMS la cui mission sarebbe quella di alzare il livello della salute di tutti i paesi membri. Anche Ranieri Guerra era andato a testimoniare dai magistrati di Bergamo e aveva detto che noi avevamo un piano pandemico ancora valido e aveva detto anche noi abbiamo un deposito con degli antivirali. In che condizioni è quel deposito lo abbiamo visto. Un magazzino in mezzo a una discarica con dentro dei farmaci dei principi attivi che la Roche dichiara scaduti. La procura di Bergamo vuole vederci chiaro e ha chiesto all’AIFA, all’agenzia per il farmaco italiano, di capire se quei principi attivi che hanno natura diversa rispetto al farmaco, possano essere ancora testati. L’AIFA pare che dopo settimane non sia ancora in grado di rispondere e ha girato la questione all’EMA, l’agenzia europea. Pensa se dovevamo utilizzarli tempestivamente quei principi attivi. Quel deposito avrebbe rappresentato la speranza di un paese di contrastare una pandemia seppur influenzale. É invece la peggiore metafora, rappresentazione dell’inadeguatezza di un Paese a contrastare un virus.
Francesco Borgonovo per “la Verità” il 22 dicembre 2020. «Questo non è uno scontro tra me e Ranieri Guerra. Ci sono in gioco cose molto più importanti. Parliamo di conflitto di interessi e di meccanismi interni dell' Oms che hanno fallito. E se questi meccanismi falliscono, significa che la situazione può potenzialmente ripetersi». In effetti, stando a quello che esce sui giornali, sembra quasi che la storia del report sull' Italia pubblicato e poi fatto sparire dall' Oms sia una diatriba interna tra il vicedirettore aggiunto Ranieri Guerra e il curatore Francesco Zambon. Ma sul piatto c' è molto, molto di più. E Zambon - che ora ha deciso di parlare - lo spiega bene.
Partiamo dal conflitto d' interessi.
«Il report tratta anche di una questione che riguarda direttamente Guerra, cioè l'aggiornamento del piano pandemico. L' Oms avrebbe dovuto intervenire subito e dire: in questa faccenda non puoi pronunciarti perché riguarda funzioni da te precedentemente svolte in questo Paese e proprio su questi argomenti».
Invece è intervenuto eccome. Partiamo dal giorno fatidico, l' 11 maggio 2020.
«Giornata interminabile. Ormai il report era pronto, stavamo solo aspettando che arrivasse l'ultima autorizzazione (la quarta) alla pubblicazione, e in effetti è arrivata».
L'Oms sostiene che fu una approvazione condizionata.
«No, era piena e a tutti i livelli. Ci veniva fatto un appunto, che però non interferiva con la approvazione della pubblicazione. Ci chiedevano due verifiche: una sulla coerenza dello stile, e abbiamo aggiustato qualcosa. La seconda riguardava il box sulla Cina. In quel caso sarebbe stato necessario passare dall' ufficio legale».
Ma voi avete ritenuto di non fare modifiche al box per accelerare i tempi.
«Il tempo era fondamentale. Ogni ora persa era tempo che si sarebbe potuto usare per passare le lezioni accumulate in Italia ad altri Stati che erano desiderosi di averle. Dobbiamo pensare a com' era la situazione in quel periodo. Volevamo evitare che il virus arrivasse nei Balcani, nei Paesi dell' Est, nelle repubbliche ex sovietiche. Infatti fu approntata una traduzione simultanea in russo, cosa per niente semplice».
Ranieri Guerra era informato di tutto questo?
«Certo. Le dico come è iniziata. Il 25 marzo ho scritto una mail a Guerra dicendogli: perché non mettiamo insieme in modo sistematico le informazioni su ciò che sta facendo l'Italia nella prima fase di pandemia così che possa servire di lezione agli altri Paesi, mettendo in evidenza anche le criticità?».
Lui che disse?
«Disse sì, assolutamente. Rispose che era un' ottima idea, che sarebbe stata la legacy del nostro Paese al resto del mondo. Del resto la pubblicazione rende anche giustizia degli enormi sforzi fatti dall'Italia, non ci sono solo critiche, anzi. Se ha uno stile a volte accorato è perché volevamo arrivare al pubblico più ampio possibile, far breccia nelle persone affinché adottassero comportamenti preventivi efficaci».
Guerra sapeva dall' inizio.
«A metà aprile gli abbiamo inviato l'outline della pubblicazione, che non è un semplice sommario, ma qualcosa di più. Presenta indicazioni sui capitoli e il loro contenuto».
Guerra condivise queste informazioni con il ministero della Salute?
«Non l' ho capito».
L'Oms ha prodotto un documento interno che contiene risposte preconfezionate da fornire ai giornalisti. Lì si fa capire che informare il ministro toccava a lei.
«No, non sono autorizzato a parlare con il ministro. Guerra invece è venuto in Italia proprio per tenere i rapporti diretti con il ministro, è scritto nel suo mandato».
Forse Guerra non era informato di tutti gli sviluppi del report.
«Tutte le settimane noi di Venezia, con il team di Copenaghen e con i consulenti che lavoravano sull' emergenza Covid in Italia, abbiamo fatto riunioni a cui Guerra è sempre invitato. Ad alcune ha anche partecipato. Le riunioni servivano proprio per coordinare le azioni Oms in Italia. Ogni settimana rendevamo conto del nostro lavoro a Copenaghen, da cui dipendiamo, e inviavamo rapporti dettagliati. Guerra era sempre in copia».
Torniamo all' 11 maggio. Tutto era pronto e poi?
«Alle 9.13 di mattina Guerra mi manda una mail in cui mi dice che il lavoro è straordinario e mi chiede di mandargliene 50 copie. Dopo due ore arriva una nuova mail».
Quella in cui le chiede di cambiare la data di aggiornamento del piano pandemico, mettendo 2016.
«Quando ho letto le sue osservazioni ho pensato che fosse in buona fede. Così siamo andati subito a controllare. E abbiamo verificato che quello del 2016 di cui aveva fornito il link era lo stesso piano del 2006. Era stato riconfermato nel dicembre 2016 e l' upload era avvenuto nel 2017. Guerra voleva che scrivessimo che il piano era stato "updatet" e "reconfirmed"».
Cioè aggiornato e riconfermato.
«Ma non potevamo scrivere che fosse stato aggiornato. Infatti nel report abbiamo messo soltanto "riconfermato"».
Guerra l' ha anche chiamata al telefono?
«Sì. Mi ha chiamato e mi ha detto: sono sulla porta dell' ufficio del direttore generale (Tedros Adhanom Ghebreyesus, ndr). Se non modifichi il rapporto come chiesto dirò che sei tu a mettere in difficoltà l' Oms nella puntata di Report di stasera. Io nemmeno sapevo che Report avesse fatto un servizio molto critico sull' Oms».
Guerra dice di non averla minacciata e che lui non avrebbe potuto licenziarla.
«Lui non può licenziarmi. Ma il direttore generale può farlo. E se uno va a parlare al direttore generale...»
Ha denunciato le pressioni?
«Sì. Ho avvisato il mio direttore delle risorse umane e questi ha riferito a Hans Kluge (direttore regionale Europa dell' Oms, ndr). Entrambi mi hanno chiamato per sapere come stavo e sono stati molto comprensivi. Kluge mi disse: non tollero che un dipendente del mio staff venga trattato così».
Nel frattempo il report proseguiva il suo percorso.
«Sì. Sono arrivate altre segnalazioni da Guerra e da Cristiana Salvi (programme manager external relations health emergencies dell'Oms Europa, ndr). Ricordo che tali segnalazioni arrivarono dopo che la pubblicazione era già stata approvata a tutti i livelli».
Che osservazioni le ha fatto la Salvi?
«Non le piaceva lo stile. Mi disse che il report era pieno di "bombe mediatiche". Risposi che le bombe ci sono se qualcuno le innesca. Se il rapporto fosse uscito a maggio sono certo che sarebbe stato letto con altri occhi, non come un atto di accusa».
Qualcuno si è preoccupato di notare il conflitto di interessi di Guerra?
«No. Il numero 2 dell' Oms che prima lavorava in Italia nella direzione prevenzione (che fra l' alto si occupa del piano pandemico) manda un certo tipo di mail proprio su quell' argomento? Secondo me avrebbe dovuto scattare subito l' investigazione interna».
Il direttore generale Tedros fu informato della faccenda?
«Gli scrissi una mail che anche voi avete mostrato, spiegando che obiettivo del report era quello di salvare vite. Non ha risposto. Solo dopo ho avuto un colloquio con il suo capo di gabinetto. Nel frattempo a Ginevra mi dissero che la storia che veniva racconta era un' altra, molto diversa dalla mia».
Il report è stato finanziato dal Kuwait. Come hanno reagito al ritiro?
«Quando gli abbiamo inviato il report ci hanno risposto dicendo che era un ottimo lavoro e che erano contenti. Poi qualcuno da Copenaghen ha inviato una persona a Ginevra, alla loro rappresentanza permanente, per ritirare le 5 copie che avevamo mandato. Risposero che a loro il lavoro piaceva e chiesero di avere le nuove copie corrette. Poi a maggio hanno scritto per chiedere lumi e gli è stato risposto che stavamo lavorando per modificare il report. Poi non ho più saputo nulla. Suppongo che anche a loro qualche dubbio sia venuto, specie quando hanno letto gli articoli sulla stampa internazionale. In fondo hanno donato 60 milioni all' Oms».
In una mail Guerra dice che l' Italia ha donato «sulla fiducia» e «come segno di riconoscenza» 10 milioni, cosa che non avveniva da tempo.
«Non è vero che l' Oms non riceveva fondi dall' Italia. Li ha sempre avuti dal ministero e dalla Regione Veneto per la sede di Venezia. Hanno poi puntualizzato che quei soldi servivano per le vaccinazioni in Africa. Nella mail di Guerra non era specificato. Ma non so altro. So però che il rinnovo della sede di Venezia dove lavoro non avviene tramite ratifica parlamentare. Quella c' è già stata nel 2015. Trattano ministero e Oms per scambio di lettere, e mi risulta che tutto stia avvenendo tranquillamente».
Teme che l' Oms la licenzi?
«Nell' immediato non credo possa avvenire. Non credo di aver fatto nulla di male, ho agito per tutelare l' Oms. Cosa avverrà poi, quando di, questa storia non si parlerà più non lo so. Io sono preoccupato, perché vedo che non ho protezione, anzi ci sono atteggiamenti ritorsivi».
Le è stato detto di non parlare con la stampa. C' è una mail di Chantal Streijffert Garon, dell' ufficio legale dell' Oms Europa, che invita a «non rispondere alla convocazione della polizia giudiziaria». Cioè a non andare in Procura a Bergamo. «Mi dissero che ogni intervista doveva essere vagliata da Copenaghen. E io sono rimasto su questa linea, come pure sulla Procura. Poi ho visto che Guerra andava dai magistrati e rilasciava interviste. E l'ho fatto anche io. Soprattutto per difendermi dalle dichiarazioni diffamatorie che cominciavano a circolare. Se sarò punito per questo allora dovrà esserlo anche lui. Non possono esserci due pesi e due misure».
Sembra che l' Oms abbia sposato la versione di Guerra.
«È una scelta. Il lavoro del rapporto viene screditato in maniera sistematica. Io non ho niente da nascondere. Anzi ho l' obbligo morale di tutelare la reputazione dei 9 autori del report. Non ho alcun problema a fornire informazioni sulle azioni che ho intrapreso. L'ho fatto per la difesa dei valori dell' Oms oltre che dei miei propri».
Ranieri Guerra è nel Cts. E se è lui a non raccontarla giusta, la cosa non è molto rassicurante.
«A ritirare le sue deleghe può essere solo Tedros. Potrebbe farlo se fosse Speranza a chiederlo oppure se decidesse da solo di agire in questo senso dopo aver esaminato la situazione».
In queste settimane qualcuno dal ministero della Salute l' ha chiamata?
«No. Ho sentito Brusaferro a maggio. Anche pubblicamente ha dichiarato di non aver nulla da ridire sul report, ma di essere stato colto di sorpresa. Però doveva essere Guerra a informarlo».
Senta, ma perché sta facendo tutto questo? Che ci guadagna?
«Niente. Potevo tacere. Ora rischio tutto. Però io all' Oms ci tengo. Condivido i suoi valori di integrità e penso che vadano rispettati».
Maurizio Belpietro per “La Verità” il 17 dicembre 2020. Esiste ancora un ministro della Salute in Italia? La domanda potrà sembrarvi provocatoria, ma è semplicemente legittima, in quanto da giorni attendiamo che il responsabile della sanità si pronunci e chiarisca il giallo del rapporto sul nostro Paese redatto e poi censurato dall'Organizzazione mondiale della sanità. Scoprire che cosa sia accaduto, quali fossero i giudizi dei funzionari dell'Oms contenuti nel documento scomparso e le ragioni per cui a un certo punto il report sia stato insabbiato, dovrebbero essere questioni che stanno a cuore allo stesso Roberto Speranza, il quale però latita, quasi che non ritenga di alcun rilievo la faccenda. E dire che in quella relazione ci potrebbe essere la chiave per capire che cosa sia successo in Italia da quando si è diffuso il coronavirus. Perché il nostro Paese sia stato colpito più di altri e come mai si siano registrati più decessi che nel resto d'Europa. Sì, il rapporto sarebbe fondamentale, così come sarebbe decisivo comprendere chi abbia deciso di farlo sparire, se non addirittura correggere, per presentare agli italiani una realtà edulcorata. Anche i magistrati pare siano curiosi di leggere ciò che è stato scritto lì dentro e per questo da giorni vorrebbero poter interrogare i personaggi coinvolti ma, a quando pare, l'Oms ha intenzione di opporre l'immunità diplomatica per tutti i suoi dipendenti, così da impedire che qualcuno squarci il velo sul mistero. Finora tutti hanno tenuto la bocca tappata, quasi che attorno al caso ci fosse la consegna del silenzio. L'unico che ufficialmente ha commentato è stato il direttore aggiunto dell'Oms, quel Ranieri Guerra che in precedenza è stato dirigente del ministero della Salute, il quale ha consegnato alle agenzie di stampa una versione light del caso. Nessuno scandalo, nessuna manipolazione del report: semplicemente la relazione avrebbe contenuto alcune inesattezze e per tale motivo l'ufficio di Copenhagen, dove è dislocata la sede europea dell'organizzazione, avrebbe deciso di ritirarlo, per poi ripubblicare il tutto in una nuova versione migliorata, non senza che un paio di esperti dell'Istituto superiore di sanità vi avessero messo mano. Tutto chiaro? Tutto trasparente come l'acqua? Neanche per sogno, in quanto l'andirivieni del rapporto ha destato l'attenzione della Procura di Bergamo che indaga su errori e omissioni nel periodo della pandemia. I pm martedì hanno chiamato Francesco Zambon, il ricercatore autore dello studio oggetto di tanta attenzione, e lo hanno ascoltato. A quanto pare, per settimane l'Oms avrebbe impedito all'esperto di farsi sentire dai magistrati, al punto che era perfino stato sollecitato a intervenire il ministero degli Esteri, che però non pare essere riuscito a togliere il bavaglio con cui si è tappata la bocca allo studioso. Alla fine però Zambon, a dispetto di tutti i divieti, ha comunque deciso di presentarsi dagli investigatori, raccontando la sua versione dei fatti e, a quanto risulta alla Verità, confermando il tentativo di manipolazione del report. Ai magistrati, il ricercatore avrebbe confermato che la relazione era stata approvata dalla catena di controllo dell'Oms già a metà maggio, ma poi, dopo il via libera dei vertici, a Zambon sarebbe giunta la richiesta di cambiare la data del piano pandemico italiano, correggendo il 2006 con il 2016. Tuttavia, nonostante l'invito a falsificare un riferimento importante, il documento il 13 maggio viene pubblicato, anche se la sua circolazione ha vita brevissima. Il giorno dopo, infatti, la relazione viene ritirata. Ufficialmente per un box dedicato alla Repubblica popolare cinese, che nel contesto però era marginale. Il problema è che nonostante i ricercatori abbiano dato via libera alla rimozione del box dal resto della relazione, questa non è stata più pubblicata. E qui, dopo che la vicenda è stata denunciata in tv durante una puntata di Report, iniziano le giustificazioni. Secondo l'Oms, il rapporto conteneva «inesattezze fattuali», ma nessuno sa dire con certezza quali siano questi errori grossolani che sarebbero stati commessi. Al momento si sa solo che il documento è in finito in una specie di limbo: c'è, ma l'Oms non lo pubblica. A questo punto, una sola cosa è certa: Ranieri Guerra, ex dirigente del ministero e direttore dell'Organizzazione mondiale della sanità, aveva chiesto di scrivere che il piano pandemico risaliva al 2016, quando in realtà era di 10 anni prima e nessuno si era ricordato di aggiornarlo. La faccenda non sembra cosa da poco, perché smentirebbe tutte le tesi circa la preparazione ad affrontare il Covid che il governo ha sempre sostenuto fin da gennaio. Dunque, Roberto Speranza non può continuare a trincerarsi dietro la linea del silenzio. Ci sono decine di migliaia di famiglie che vogliono sapere. Hanno perso i loro cari e hanno il diritto di essere informate. Capisco che il ministro si voglia sottrarre alle domande, ma ci sono 65.000 morti che esigono una risposta.
Ecco le carte a confronto che smontano Speranza & Co. Qualcosa non torna nella difesa del ministero. Tra pochi giorni l'udienza di fronte ai giudici sul mistero "piano segreto". Giuseppe De Lorenzo, Venerdì 18/12/2020 su Il Giornale. Qualcosa non torna. O non è così chiaro. Certo saranno solo i giudici del Tar del Lazio a dire chi ha ragione e chi torto. Ma l'analisi della memoria difensiva depositata dall'avvocatura dello Stato per conto del ministero della Salute qualche domanda la fa porre. Il 22 dicembre ci sarà l'udienza del ricorso presentato da due deputati FdI che chiedono alle toghe amministrative di obbligare il dicastero guidato da Roberto Speranza a pubblicare il "piano segreto" anti-Covid. L'attesa è tanta. Il ministero non intende cedere. E lo ha fatto capire. Così si preannuncia una battaglia legale che merita un approfondimento. La linea difensiva dettata dall'avvocatura generale dello Stato si delinea, in sintesi, lungo tre direttive. Primo: il ministero sostiene che il "piano secretato" citato dal suo direttore generale Andrea Urbani in un'intervista al Corriere era solo lo studio realizzato da Stefano Merler della Fondazione Kessler. Secondo: l'analisi di Merler "non è un piano pandemico approvato dal ministero della salute, né un atto elaborato da una p.a., né (...) è detenuto dal ministero". Terzo: l'analisi viene presentata da Merler "per la prima volta il 12 febbraio 2020" ai membri del Cts e solo "in tale occasione" anche il ministero ne viene "a conoscenza". Per questi motivi - sostiene l'avvocatura - i ricorrenti non si sarebbero dovuti rivolgere in viale Lungotevere Ripa 1, che non "detiene" il documento, ma alla Protezione Civile. Come dire: avete sbagliato indirizzo, bussare a Palazzo Chigi. Torniamo allora al 21 aprile. Quel giorno il Corriere pubblica l'intervista ad Urbani in cui emerge l'esistenza di un "piano secretato" che sarebbe stato "seguito" dagli esperti per gestire la prima fase dell'epidemia. Nessun "vuoto decisionale", insomma. Poche ore dopo, visto il vespaio di polemiche che ne nasce (le Regioni protestano perché non ne sapevano nulla), il ministero della Salute pubblica sul suo sito istituzionale un comunicato stampa che nelle intenzioni avrebbe dovuto spegnere ogni bollore. Nel testo si legge che "durante i lavori della task force sul nuovo coronavirus, istituita al Ministero della Salute il 22 gennaio" era "emersa la necessità di elaborare, a cura della Direzione Programmazione del Ministero della Salute, dell’Istituto Superiore di Sanità e dell’INMI Spallanzani, uno studio sui possibili scenari dell’epidemia e dell’impatto sul Sistema sanitario nazionale, identificando una serie di eventuali azioni da attivare in relazione allo sviluppo degli scenari epidemici, al fine di contenerne gli effetti". La "prima versione di questa analisi", si legge, il 12 febbraio viene "presentata al Comitato tecnico scientifico per il necessario approfondimento", per poi essere successivamente aggiornata fino al 4 marzo. Ora mettiamo a confronto le due versioni. Nella difesa al Tar l'avvocatura sostiene che lo studio di Merler venne presentato dal ricercatore al Cts il 12 febbraio, e che solo in quella occasione il ministero ne sarebbe venuto a conoscenza. Bene. Anche nella nota di aprile si cita la data del 12 febbraio, ma in modo diverso: in quella riunione - si legge - il trio "ministero-ISS-Spallanzani" avrebbe presentato al Cts "la prima versione" della analisi, la cui necessità era emersa già nei giorni precedenti in seno alla task force. Ed è qui che sorgono alcuni dilemmi. Lo studio citato nella nota di aprile e lo studio di Merler sono la stessa cosa? Se è così, allora appare impossibile immaginare - come invece scritto dall'avvocatura - che il ministero non ne sapesse nulla prima del 12 febbraio e che non l'abbia mai visto né approvato. Le due dichiarazioni (la memoria difensiva e la nota di aprile) sembrano insomma in contraddizione. Se invece non sono lo stesso documento, le opzioni sono due: o esiste un terzo dossier misterioso, prodotto da Iss, ministero e Spallanzani, presentato al Cts il 12 febbraio e - come scritto nella nota - aggiornato fino al 4 marzo. Oppure quell'atto nato dalla task force è il famoso "Piano operativo di preparazione e risposta a diversi scenari di possibile sviluppo di un’epidemia da 2019-nCov” poi approvato dal Comitato. Guarda caso i verbali del Cts dicono proprio che il 12 febbraio Merler presentò i sui studi epidemiologici, subito dopo il Cts diede mandato a un gruppo (formato da Iss, ministero e Spallanzani) di produrre un "piano operativo" che venne approvato il 2 marzo e di nuovo aggiornato il 4 marzo. Stesse date della nota di aprile. E se lo "studio" citato nel comunicato fosse in realtà il "piano" approvato dal Cts? Allora la memoria difensiva depositata al Tar peccherebbe di imprecisione: l'avvocatura infatti scrive chiaramente che quanto citato da Urbani è solo lo studio Merler e che non esiste nessun altro "piano". Dove sta la verità? L'unica cosa certa, come ricostruito nel Libro nero del coronavirus (leggi qui), è che un "Piano" esiste eccome. Lo dicono i verbali del Cts e le rivelazioni esclusive riportate dal Giornale.it. Non solo. Speranza quel "piano" lo vide in bozza già il 20 febbraio, quando due esperti andarono lì a presentarglielo con tanto di slide. Ora non resta che sapere chiaramente quale è stato il ruolo del ministero e leggere liberamente i contenuti dell'atto per farsi un'idea. Magari dentro non c'è niente di scandaloso. Ma allora perché non pubblicarlo e diradare la nebbia che avvolge questo mistero?
Speranza vide il piano segreto: ecco le prove che inchiodano il ministro. Una fonte del giornale.ti smonta tutta la memoria difensiva del governo. L'inchiesta esclusiva. Giuseppe De Lorenzo e Andrea Indini, Mercoledì 16/12/2020 su Il Giornale. Le domande si accavallano una sopra l’altra. Il “piano segreto” anti-Covid esisteva? Se sì, perché il governo l’ha tenuto riservato? Come mai non l’ha inviato alle Regioni? E perché dopo averlo sbandierato ai quattro venti sui giornali con un'intervista di Andrea Urbani, il ministero della Salute da tempo fa marcia indietro smentendo di averlo mai scritto, visto o avuto? Ancora: per quale motivo se un documento simile, realizzato in vista della seconda ondata, è stato caricato tranquillamente caricato online sul sito dell’Iss, l’esecutivo non fa un’operazione verità e divulga al grande pubblico anche quel misterioso dossier di febbraio? Se siamo ancora qui a parlare del “piano segreto” anti-Covid lo si deve in larga parte proprio alla cortina di fumo alzata da Conte, Speranza e soci. Manca solo una settimana all’udienza al Tar del Lazio che dovrà decidere se “condannare” (o meno) il ministero della Salute a rendere noto il “piano”. Ma i contorni della vicenda sono ancora fumosi. Le prime notizie sull’esistenza del documento risalgono ad aprile, quando Urbani, direttore della Programmazione al ministero e membro del Cts, rilascia un’intervista al Corriere dove per smentire “vuoti decisionali” nella prima ondata rivela che “già dal 20 gennaio avevamo pronto un piano secretato e quel piano abbiamo seguito”. Le rivelazioni, come noto, provocano un pandemonio. E sebbene quel dossier non abbia all’interno chissà quale segreto di Stato, sulla sua natura si stenderà una nebbia fittissima che ancora oggi fatica a diradarsi: il ministro Speranza lo derubrica a banale “studio”; il dicastero lo spaccia per l’analisi realizzata dal ricercatore Stefano Merler; e quasi nessuno ci capisce un fico secco. Chiamato di fronte al Tar, viale Lungotevere Ripa 1 assume una curiosa strategia difensiva: affermare che tutto sarebbe sorto da "erronee interpretazioni delle dichiarazioni rese" da Urbani, ribadire che il testo di cui tanto si parla è solo lo studio di Merler e assicurare che non esiste alcun “piano”. IlGiornale.it, grazie ad informazioni riservate, è in grado però di ricostruirne nel dettaglio la nascita, la crescita e l’inconsistente difesa del ministero della Salute. Partiamo dall'inizio. Il 22 gennaio Roberto Speranza annuncia la nascita di una task force ministeriale. Il virus è ancora solo una lontana malattia cinese. Alla riunione partecipano i vertici del ministero, i carabinieri del Nas, esponenti dello Spallanzani, l’Umsaf, l’Aifa, l’Agenas e pure un consigliere diplomatico. Durante i lavori della task force, dirà il ministero in una nota, emerge “la necessità di elaborare, a cura della direzione Programmazione del ministero della Salute, dell’Istituto Superiore di Sanità e dell’INMI Spallanzani, uno studio sui possibili scenari dell’epidemia e dell’impatto sul Sistema sanitario nazionale, identificando una serie di eventuali azioni da attivare in relazione allo sviluppo degli scenari epidemici, al fine di contenerne gli effetti”. La prima versione di questa analisi, stando alla nota, viene presentata al Comitato tecnico scientifico il 12 febbraio per poi essere “successivamente aggiornata fino al 4 marzo”. Un “lavoro di studio” che avrebbe contribuito “alla definizione delle misure e dei provvedimenti adottati a partire dal 21 febbraio, dopo la scoperta dei primi focolai italiani”. Le date coincidono. Come ricostruiro nel Libro nero del coronavirus (leggi qui), il 12 febbraio infatti Merler presenta al Cts le sue analisi contenute nel dossier dal titolo Scenari di diffusione di 2019-nCov in Italia e impatto sul sistema sanitario, in caso il virus non possa essere contenuto localmente. Lo stesso giorno, come si legge nei verbali, il Cts dà mandato a un gruppo di lavoro interno di “produrre, entro una settimana, una prima ipotesi di Piano operativo di preparazione e risposta a diversi scenari di possibile sviluppo di un’epidemia da 2019-nCov”. Questo dossier viene citato nei verbali altre volte: il 24 febbraio, il 2 marzo (quando viene adottato nella sua “versione finale”), il 4 e il 9 marzo. È lo stesso Cts a chiedere la massima riservatezza. Il ministero, come si legge nella memoria depositata al Tar, ritiene che il “piano secretato” citato da Urbani sia lo studio di Merler e che “detto documento non è un piano pandemico approvato con atto formale del ministero della Salute né un atto elaborato da una P.a., né è detenuto dal ministero”. Tanto che per mostrarsi diligente di fronte ai giudici riesce a farsi inviare dal Cts lo studio Merler e a depositarlo agli atti. Bella mossa. Peccato che lo studio di Merler e il “piano segreto” siano due cose ben distinte. Una fonte accreditata del Giornale.it assicura che nella relazione di Merler del 12 febbraio non si parlava affatto di “piano” bensì di soli numeri, di casi di incidenza in base a diversi possibili Rt calcolati sulla base dei dati cinesi. Indici, indicatori e previsioni di impatto sulla popolazione. È insomma solo la parte “epidemiologica” di un lavoro ben più complesso. Quello realizzato dalla squadra del Cts (composta da una decina di persone) invece è un’altra cosa, visto che all’interno vi sono una serie di azioni da intraprendere in base ai vari scenari ipotizzati. In gergo si chiama “preparedness”. Si tratta di attività preventive, con un orizzonte temporale di un anno, pianificate a puntino nella (vana) convinzione che Covid-19 possa arrivare nell'arco di qualche mese. Così non è stato. Il ministero può dire di non aver nulla a che fare con il “piano” realizzato dal Cts? Non proprio. Del gruppo infatti fanno parte tra gli altri anche l’Iss, Urbani con tutti i suoi collaboratori, il delegato delle Regioni Alberto Zoli e un esponente dello Spallanzani. È soprattutto grazie alle pressioni dei dirigenti del ministero se il gruppo di lavoro si mette all’opera e produce in breve tempo un dossier di circa 40 pagine. Non solo. Il 20 febbraio la prima bozza del “Piano” viene presentata, con tanto di slide, da Merler e Zoli direttamente al ministro Speranza. Che dunque dovrebbe conoscere bene, almeno nel titolo, la differenza tra lo studio del ricercatore e il piano presentatogli quel giorno. Dopo che cosa succede? Come detto, il Cts cita il "piano" nei verbali il 24 febbraio, scrivendo che deve essere “ancora completato”. Ormai è tardi: il contagio ha già raggiunto la Lombardia e Dpi, respiratori e stock vari mancano come l’aria. Si può fare poco, nonostante il “piano” appena redatto: quello prevede la risposta a focolai divampati nel corso del tempo, non una moltiplicazione dei casi di tipo pandemico (come accade a febbraio). Il plico comunque il 1 marzo plana sulle scrivanie degli esperti in busta chiusa con la bollinatura della Presidenza del Consiglio dei ministri. Chiunque lo abbia tenuto in mano, sia come bozza che nella verisione finale, è chiamato a rispettare un patto di riservatezza. Perché? Secondo alcuni, i numeri contenuti all’interno avrebbero fatto trasalire chi si aspettava di cavarsela con un quadro molto più modesto di quello previsto. Ricordate il “siamo prontissimi” di Conte e Speranza? Bene. Comunque, nessuno degli esperti viola l’accordo, tranne Urbani che il 21 aprile si azzarda a parlarne con i cronisti. Provocando una frittata. Intanto Speranza ripete più volte che un “piano secretato” non sia mai esistito, e lo derubrica a banale studio. Ai cronisti che lo domandano, il ministero - proprio come farà con i ricorrenti di FdI, Bignami e Gemmato - risponde picche e li dirotta sulla Protezione Civile che a sua volta invia solo l’analisi di Merler. Perché? È difficile che la Salute possa dire di non sapere nulla del “piano operativo” se ha partecipato con i suoi uomini materialmente alla stesura, no? Se nel gruppo di lavoro c’era anche Urbani, come può il ministero affermare di non averne almeno una copia? Come avrebbe fatto a parlarne Urbani se non era coinvolto? Qui occorre fare una precisazione. Urbani nella sua intervista afferma che il “piano secretato” era pronto dal 20 gennaio, motivo per cui l’avvocatura dello Stato si trincera dietro lo studio Merler, assicurando che a quello il direttore generale della Programmazione faceva riferimento. Qualcuno, anche nel Cts, ritiene tuttavia si sia trattato di un errore di datazione: proprio perché l’analisi di Merler era solo un insieme di scenari, non sarebbe quello il documento che - diceva Urbani - “abbiamo seguito” per contenere il contagio. A battere un sentiero nei primi giorni di infezione sarebbe stato invece il “Piano” presentato il 20 febbraio (non gennaio) a Speranza e poi approvato dal Cts. Anche perché appare difficile immaginare che questo "piano secretato" possa essere nato due giorni prima (20 gennaio) della nascita della task force ministeriale (22 gennaio). Quel che è certo è che per chiudere la vicenda basterebbe poco. Sarebbe sufficiente pubblicare sul sito del ministero quel plico che i membri del Cts ancora conservano nella busta chiusa. Anche la procura di Bergamo ha indagato sulla questione, sebbene oggi i pm siano più interessati ai risvolti penali dei presunti ritardi sull'aggiornamento del “piano pandemico influenzale”, che però è un’altra storia (leggi qui). Per dipanare la matassa “piano segreto” basterebbe infatti un po’ di chiarezza. In fondo hanno fatto tutto da soli: prima lo tengono riservato, poi rivelano l’esistenza, infine fanno di tutto per chiuderlo nel cassetto. Perché, dopo aver lanciato il sasso, il ministero e il Cts sollevano così tanto fumo per nascondere la mano? Perché spacciarlo per lo studio Merler? Perché non renderlo pubblico? In vista della seconda ondata, peraltro, gli esperti hanno redatto un dossier simile al “piano segreto”: è il famoso documento che contiene i 21 indicatori che oggi colorano le regioni di rosso, arancione e giallo. Se questo è pubblico, perché non alzare il velo pure sul “piano” di febbraio?
L’OMS SMENTISCE IL GIALLO. ECCO IL REPORT ORIGINALE. Luca Fazzo per “il Giornale” il 15 dicembre 2020. E adesso l' Organizzazione mondiale della sanità cerca di uscire dall' impaccio sostenendo che non è successo nulla: nessun giallo, nessuna «manina» dietro la repentina sparizione dal suo sito, tra il 13 e il 14 maggio, del dossier sulla risposta alla prima ondata del Coronavirus in Italia. Solo una scelta tecnica, dovuta alla modifica delle procedure interne. E soprattutto nessuna pressione da parte del governo italiano per la retromarcia. Il documento ieri viene reso disponibile dall' Oms nella sua versione originaria, ora abiurata dall' organizzazione (che ne prende esplicitamente le distanze, «questo documento non è avallato dall' Oms e l' Oms non ne è responsabile»). E si capisce bene il perché della rimozione: il rapporto va giù pesantemente sulla gestione italiana dell' emergenza, citando le minimizzazioni della prima fase, i «Milano non si ferma» e le «happy hour contro il virus»; stigmatizza il caos nel tracciamento dati, «un patchwork di dati raccolti con carta e penna e di fogli Excel». E soprattutto si disegna un Paese impreparato al disastro, con un piano pandemico fermo al 2006, con gli aggiornamenti «rimasti più teorici che pratici», con «pochi investimenti o traduzione in misure concrete». E ancora: «La reazione iniziale degli ospedali è stata improvvisata, caotica e creativa», mentre negli ospizi «il pericolo dell' epidemia per gli ospiti, lo staff e i familiari non è stato subito riconosciuto in tutta la sua grandezza e le procedure di protezione sono arrivate tardi». Affermazioni che ora l' Oms si rimangia, dicendo che il rapporto era basato in parte su errori di fatto. La presa di posizione dell' Oms potrebbe a questo punto salvare la posizione di Ranieri Guerra, il direttore aggiunto dell' organizzazione finito nel mirino proprio per la sparizione del rapporto dal sito. Ieri la revoca delle deleghe a Guerra era stata data da alcune fonti per imminente. Invece ora la sparizione del documento viene rivendicata dall'Oms, secondo cui «dopo la pubblicazione sono state riscontrate inesattezze fattuali per cui il documento è stato rimosso con l' intento di correggere gli errori e ripubblicarlo. Nel frattempo l' Oms ha introdotto un nuovo strumento per i paesi per valutare la loro risposta e le lezioni imparate, per cui il documento Una sfida senza precedenti non è mai stato pubblicato». E poi la ciambella lanciata al nostro governo: «In nessun momento il governo italiano ha chiesto all' Oms di rimuovere il documento». Resta il fatto che nei giorni scorsi il ministero della Salute aveva cercato persino di sostenere che il rapporto comparso e sparito non era un documento dell' Oms, mentre ora viene confermata l' ufficialità del report; ed è provato che il presunto aggiornamento nel 2016 del piano pandemico nazionale è consistito in realtà in una semplice ripubblicazione, senza alcuna modifica, del piano del 2006. Non è un caso d' altronde che tra le modifiche pretese da Guerra al rapporto ci fosse l' eliminazione di ogni riferimento a «quello scemo di Curtale»: ovvero a Filippo Curtale, il funzionario dell' Inmp che nel suo testo dall' eloquente titolo «C' era una volta il piano pandemico» scriveva «si è scambiata una emergenza, che era di sanità pubblica, per una emergenza di terapie intensive». In questo pasticcio, l'Oms rivendica che «la trasparenza in tutte le comunicazioni è essenziale per assicurare la credibilità dell' organizzazione». Ma continua a non spiegare come questo impegno si coniughi con il rifiuto di fare interrogare i propri funzionari dalla procura di Bergamo.
Enza Cusmai per “il Giornale” il 15 dicembre 2020. «Tutto questo polverone è un attacco personale pilotato in tempi e in modi aggressivi e violenti». Ranieri Guerra, direttore generale aggiunto dell' Oms, da giorni è stato messo sotto accusa mediatica per il caso del Piano pandemico anti-influenzale italiano, fermo al 2006 e per la presunta sparizione di un documento dell' Oms molto duro nei confronti del nostro Paese.
Professore, il responsabile europeo dell' Oms, Hans Henri Kluge, vuole ritirare le sue deleghe?
«Io non ne so niente. Kluge è il direttore dell' ufficio regionale Oms di Copenaghen. Io dipendo dal direttore generale dell' Oms a Ginevra, non ci sono deleghe o altro, ma solo una disposizione del mio direttore che mi incarica di garantire il collegamento tra Oms e governo italiano nel contesto della lotta alla pandemia. Tutto il resto sono false informazioni, di cui però mi domando l' origine e lo scopo».
Ha letto il dossier di alcuni ricercatori veneti dell' Oms, coordinato da Zambon, molto critico sulla gestione della pandemia in Italia, pubblicato il 13 maggio e ritirato il giorno dopo?
«Certo, qualche ora prima della pubblicazione, e ho consigliato di rinviare di due giorni la pubblicazione stessa, perché era pieno di inesattezze, suggerendo anche di informare il ministero della Salute di questo report sull' Italia. C' erano parecchie imprecisioni e inconsistenze. Io e altre due colleghe abbiamo dato suggerimenti per migliorare il testo. Ma il responsabile del documento ha deciso di pubblicare lo stesso».
Però quel testo è stato ritirato dall' Oms dopo 24 ore.
«Erano state riscontrate inesattezze fattuali ed è stato ritirato dal sito web per correggere gli errori e ripubblicarlo. Nel frattempo è stato adottato un nuovo strumento standard per l' Europa per valutare le loro risposte e condividere le lezioni apprese».
Dunque lei non ha fatto pressioni per ritirare il testo?
«Non ho nessuna autorità sull' operato di un dipendente dell' ufficio di Venezia che risponde a Copenaghen. E non ho minacciato nulla. Questo è estraneo al mio modo di fare».
Però si è scambiato con Zambon delle mail. Un paio imbarazzanti in cui lei chiede di correggere la data del piano pandemico anti-influenzale, fermo al 2006.
«Ci siamo scambiati oltre 25 mail, precedenti e successive a quel messaggio e il tono era assolutamente collaborativo. Però si è voluto estrapolare solo una parte di una mail e presumo che qualcuno avrà cercato un bersaglio. Non faccio maldicenze, ma mi sembra ovvio ci sia un attacco personale pilotato in tempi e modi piuttosto violenti nei miei confronti».
Questo attacco potrebbe mirare a indebolire anche la figura del ministro Speranza magari ad opera di frange interne all' attuale maggioranza?
«Non lo so. Io svolgo un lavoro tecnico».
Resta comunque il pasticcio del piano pandemico, rimasto immutato dal 2006.
«Come Direttore generale della prevenzione ho lavorato dal 2014 al 2017 e me ne sono andato dopo aver avvertito il ministro Lorenzin che il piano pandemico andava ormai aggiornato. Chiediamoci piuttosto il motivo perché non sia stato pienamente attuato».
Non è successo nulla neppure dopo il 2017.
«Perché a fine anno l' Oms ha annunciato di cambiare la struttura dei piani per coerenza con i regolamenti sanitari internazionali. E nel 2018 ci sono ben tre documenti Oms, con linee guida per la programmare protocolli per la lotta alle pandemie influenzali».
Però il piano pandemico del 2016 che lei ha confermato è la fotocopia di quello del 2006.
«Se nel 2016 non avessi verificato l' attualità del piano e non fosse stato dichiarato vigente, l'Italia si sarebbe trovata senza piano. Nel frattempo ho seguito diverse emergenze, tra cui Ebola per cui abbiamo controllato ben 3000 rientri in Italia. Ma il piano è comunque riferito alle pandemie influenzali che non riguardano i virus sconosciuti. E per l'influenza abbiamo ancora pieni i depositi del Ministero della Salute di Tamiflu, il farmaco che avevamo stoccato per l' emergenza dell' aviaria».
Il ministro Di Maio chiede all' Oms di rinunciare all' immunità dei suoi membri. Lei è d' accordo?
«Non entro in valutazioni di ordine politico. Sono certo che l'Organizzazione risponderà».
Come pensa di contrattaccare alle accuse lanciate a mezzo stampa?
«Sono molto addolorato nel subire questi attacchi che ritengo di parte e ingiustificati e non credo che questo sia sinonimo di buona informazione. Quando viene dichiarato il falso, e questo è facilmente documentabile, la parte offesa reagisce con gli strumenti che la legge mette a disposizione. Giletti e Report si amplificano a vicenda e di questo mi dispiaccio molto, perché sono sicuramente persone che cercano di fare il proprio lavoro, ma in questo caso sbagliando bersaglio, con un approccio di giornalismo di strada gridato e molto aggressivo, a cui non ritengo di dover rispondere, ma non mi nego certo al confronto civile».
Che fa, querela?
«Vedremo, dipende anche dalla mia istituzione. Non ho niente da nascondere, potrei pubblicare mail, messaggi personali, documenti di vario tipo per smontare un castello di accuse francamente doloroso, ma sarebbe un gioco troppo facile. Non trasgredisco all' etica istituzionale e soprattutto non voglio crearmi una visibilità in una situazione epidemica così grave e ancora incerta, durante cui ho anche perso mia madre.
Non speculo sui malati e su un' opinione pubblica facilmente influenzabile data la situazione di crisi in cui tutti viviamo».
"Siete pregati di non andare dai pm". Schiaffo Oms ai familiari delle vittime. La mail dell'Oms per chiedere ai funzionari dell'Oms Europa di non rispondere alla convocazione della procura di Bergamo. E intanto è scontro Guerra-familiari delle vittime. Bartolo Dall'Orto, Lunedì 21/12/2020 su Il Giornale. Da una parte Ranieri Guerra, dall'altra Francesco Zambon. Nel mezzo i familiari delle vittime, che chiedono se non giustizia almeno chiarezza, e la procura di Bergamo. La partita del famoso rapporto dell'Oms pubblicato sul sito e poi misteriosamente scomparso continua a far parlare l'Italia. Ogni giorno ormai è un capitolo nuovo. Ieri Guerra, direttore aggiunto dell'Organizzazione e membro del Cts, è andato da Giletti a Non è l'Arena per difendersi dalle accuse di chi lo considera l'autore di pressioni per far cancellare un dossier troppo critico nei confronti della gestione italiana alla pandemia. Il Comitato "Noi denunceremo" oggi ha replicato a stretto giro. E ora spunta una mail, rivelata dall'Agi, con l'Oms avrebbe chiesto ai suoi funzionari di "non rispondere alla convocazione" dei pm bergamaschi. Partiamo da Guerra. Ieri la posizione dell'esperto del Cts è stata chiara. Primo: il piano pandemico influenzale doveva essere "aggiornato nel 2018", non quando lui era a capo del dipartimento per la Prevenzione ("mi sono limitato a lasciare un'allerta). Secondo: "Non ho mai fatto ritirare alcun rapporto, non ho potestà su questo, che è competenza dell'ufficio di Copenaghen che decide nel merito". Terzo: non ho minacciato nessuno di licenziamento. Anzi. Guerra sostiene di aver cercato "di salvare" il report quando "mi era stato chiesto di correggere persistenti imperfezioni". Perché però chiedere di spostarne la pubblicazione di due giorni? "Ho chiesto di spostarlo - ha detto - perché un mese prima della pubblicazione Zambon mi ha chiesto di far vedere al Ministro l'indice e la copertina del rapporto e avere un gradimento preliminare, come si fa abitualmente". Peccato che Sileri, viceministro a viale Lungotevere Ripa 1, abbia saputo dell'esistenza di quel documento solo a novembre. "Il mio suggerimento forte al collega è stato di avvisare il Ministro che il rapporto stava per uscire - ha ribadito Guerra - era corretto informarlo, non certo per farglielo vedere o correggere. Il Ministro non ha mai interferito. A me Zambon ha chiesto di intervenire per accelerare l'autorizzazione e solo a quel punto vengo messo a conoscenza che esiste un testo. Suggerisco correzioni e a lui di informare il Ministro. Ho tentato perfino di salvarlo quel rapporto perché mi era stato chiesto di correggere persistenti imperfezioni". Da eslcudere anche presunte pressioni e minacce di licenziamento, come denunciato nei giorni scorsi dal ricercatore dell'Oms dalla sede di Venezia, Zambon: "Ci sono procedure di tutela nei confronti del personale che sono rigorissime - ha spiegato Guerra - Nessuno può minacciare qualcun altro di licenziamento se non al momento in cui si conclude un'istruttoria interna da parte di organismi indipendenti. Poi, se Zambon si è sentito minacciato, e non capisco come e perché, ha lo strumento per ricorrere, per attivare una procedura interna". Non solo. Anche sul contenuto delle mail, alcune delle quali rivelate da Report nei giorni scorsi, Guerra ha da ridire: "Ci sono venti mail prima e venti dopo con Zambon oltre a quella nota, tutte in tono assolutamente amichevole, propositivo e collaborativo come sempre è stato. A un certo punto il collega sparisce dai radar e sono ancora a chiedermi cosa sia successo nella linea di comando che lui ha, che non passa da Ginevra ma che va direttamente su Copenaghen, che ha portato a questo tipo di situazioni". Insomma: una difesa su tutta la linea. La performance di Guerra da Giletti ha indisposto e non poco il Comitato dei familiari delle vittime. "Il vice-direttore dell'OMS - scrivono in un comunicato - ha inscenato una a dir poco vergognosa rappresentazione teatrale. Gli va riconosciuta una spiccata capacità dialettica che lo mette nelle condizioni di raccontare spiazzanti nonsense senza che l'interlocutore se ne accorga e che va in giro a raccontare per mezzo stampa, senza contraddittorio, da una settimana a questa parte. Tra queste, che qualcuno lo abbia accusato di aver fatto sparire il rapporto scritto da Francesco Zambon. È bene precisare che nessuno ha mai accusato Ranieri Guerra di avere fatto sparire quel rapporto, quanto piuttosto di avere esercitato pressioni affinché fosse fatto sparire per un ipotizzabile conflitto d'interessi e per non urtare la sensibilità del Ministro della Sanità (come testimoniato dalle innumerevoli email di Report)". Sul mancato aggiornamento del piano pandemico, invece, il Comitato fa notare che l'Oms aveva "stravolto l'approccio alla pandemia nel 2013, con nuove linee guida ad interim, in virtù delle lezioni apprese dalla pandemia H1N1. Non da ultimo, non ci capacitiamo di come possa insistere sul fatto che il piano per la pandemia influenzale doveva essere aggiornato solo a partire dal 2018, dimenticandosi della Decisione UE 1082 del 2013, che trasforma i suggerimenti sugli aggiornamenti del piano pandemico influenzale in obblighi di legge, come ricordato dallo stesso Piano Nazionale per la Prevenzione 2014-2018". Lo scontro, come detto, oggi di si colora di un nuovo capitolo. La procura di Bergamo, come noto, dopo aver sentito Guerra proprio sull'aggiornamento del piano pandemico aveva invitato i ricercatori dell'Oms, autori del report scomparso, di presentarsi per una audizione. Ma l'Oms aveva fatto notare al ministero degli Esteri che i suoi funzionari godono dell'immunità diplomatica. "Siete pregati di non rispondere alla convocazione della sezione di polizia giudiziaria della Guardia di Finanza e di inviarci senza indugio la richiesta ricevuta dai pubblici ministeri di modo che possiamo allegare questa richiesta alla nostra lettera alla Procura e al Ministero degli Esteri", si legge nella mail in possesso dell'AGI e di cui parlerà stasera la trasmissione 'Report'. A firmare la missiva sarebbe il capo dell'ufficio legale dell'Oms Europa, Chantal Streijffert Garon. "È importante notare - si legge - che ci sono diverse cause legali in corso collegate al Covid-19 e numerose inchieste parlamentari che coinvolgono l'Oms. Dobbiamo stare attenti a non creare un precedente o a rinunciare in modo implicito alle immunità partecipando agli interrogatori". La mail è datata 1 novembre 2020. Una lettera considerata "riservata, urgente e confidenziale". "Sappiamo che fate parte del team che ha scritto il report 'An unprecedent challenge: Italy's first response to Covid-19', che è stato coordinato da Francesco (Zambon, ndr). Sappiamo che la Procura di Bergamo sta svolgendo un'indagine sulla risposta del Governo italiano al Covid-19. In questo contesto, vi informiamo che i membri dell'Oms e i suoi consulenti sono protetti dalla Convenzione che prevede l'immunità diplomatica nell'ambito delle funzioni ufficiali svolte per conto dell'Oms. Pertanto, membri e consulenti non possono essere chiamati dai tribunali in base alla giurisdizione nazionale a meno che l'Oms non rinunci a privilegi e immunità in seguito a una richiesta tramite i canali diplomatici che coinvolga il ministro degli Esteri". Zambon, dopo tre convocazioni andate a vuoto, ha detto di voler rinunciare all'immunità per poter fornire la sua versione ai procuratori bergamaschi.
Un terremoto ora investe l'Oms. l'uomo del Cts rischia di saltare. Il piano pandemico non aggiornato e il report sull'Italia fatto sparire. C'è un'inchiesta in corso ma l'Oms silenzia i ricercatori. E ora vuole pure far saltare l'incarico a Guerra. Andrea Indini, Lunedì 14/12/2020 su Il Giornale. Adesso che i riflettori puntano dritti sull'Organizzazione mondiale della sanità, qualche testa rischia di saltare. I fatti ormai sono tristemente noti. E non riguardano solo il mancato aggiornamento del Piano pandemico, fattore che ha sicuramente contribuito ad affrontare in modo caotico la pandemia lo scorso marzo e ha portato a livelli di mortalità impressionanti, ma anche (e soprattutto) il rapporto che la divisione europea dell'ente ha redatto sulla risposta dell'italia alla pandemia. Risposta che Francesco Zambon, coordinatore degli autori del documento pubblicato l'11 maggio e fatto sparire nel giro di poche ore, definisce "caotica" e "improvvisata". Cosa è successo in quelle settimane? Nessuno lo vuole dire. Le versioni sono tante e non combaciano. E, quando i pm di Bergamo hanno provato a vederci chiaro, ecco che l'Oms ha silenziato la verità obbligando i ricercatori a usare l'immunità. Non solo. Nelle ultime ore, secondo quanto apprende l'agenzia LaPresse da fonti vicine al dossier, il responsabile europeo, Hans Henri Klug, sarebbe in pronto a ritirare le deleghe all'attuale vice presidente della sezione europea, Ranieri Guerra.
Il giallo del report sparito. Sin dall'inizio, come ricostruito nel Libro nero del coronavirus (clicca qui), l'Organizzazione mondiale della sanità non ha fatto altro che fare passi falsi nella gestione del coronavirus. C'è il tweet del 14 gennaio in cui nega la trasmissione del virus da uomo a uomo. Ci sono le inesattezze contenute nel report redatto dopo aver mandato i propri delegati a Wuhan per capire contro quale nemico avevamo iniziato a combattere. Ci sono pacchi di documenti sull'uso delle mascherine che non hanno fatto altro che creare malintesi e imbarazzi. E poi ci sono le ombre che, come già anticipato nei giorni scorsi dal Giornale.it, hanno portato i nomi dei vertici di Ginevra a finire non solo sul tavolo dei magistrati bergamaschi, ma anche su quello di altre procure del Belpaese. Nel mirino degli inquirenti ci sarebbe il rapporto intitolato Una sfida senza precedenti: la prima risposta al Covid-19. A incuriosire inizialmente era stata la frettolosa cancellazione dal sito dell'Oms dopo essere stato messo online solo poche ore prima. Il perché di questo passo indietro potrebbe essere spiegato da alcuni passaggi scottanti. Tra questi il mancato aggiornamento del "piano pandemico". Nonostante le normative europee ed internazionali, l'Italia si è trovata ad affrontare la pandemia con linee guida vecchie che risalivano a quattordici anni fa.
Lo scontro con la procura. Per vederci chiaro lo scorso 5 novembre ha convocato Guerra per una audizione. Il direttore aggiunto dell'Oms si è presentato davanti ai pm, ma "a titolo personale". Questa presa di posizione ha probabilmente iniziato a far sgretolare il muro di silenzi che si è costruito attorno al palazzo di Ginevra. Tra le accuse che gli vengono mosse c'è anche quella di aver fatto pressioni per cancellare il rapporto. A inchiodarlo ci sarebbero anche delle mail che Report ha reso pubbliche e su cui ora balla una querela. "Se anche Oms si mette in veste critica non concordata con la sensibilità politica del ministro che è certo superiore alla mia non credo che facciamo un buon servizio al Paese", avrebbe scritto. "Ricordati che hanno appena dato 10 milioni di contributo volontario sulla fiducia e come segno di riconoscenza per quanto fatto finora, dopo sei anni di zero". Cosa c'è davvero dietro al rapporto censurato? Cosa ha spinto l'Oms a spubblicarlo in fretta e furia? Il ministro della Salute Roberto Speranza ne era davvero a conoscenza? Ma soprattutto: perché non è mai stato aggiornato il piano pandemico? Se lo avessero fatto si sarebbe evitata l'ecatombe dello scorso marzo? Molto probabilmente sono queste le domande che i pm di Bergamo avrebbero voluto fare agli undici ricercatori dell'European Office for Investment for Health and Development di Venezia per vederci chiaro. Ma nei giorni scorsi i vertici di Ginevra hanno invocato l'immunità diplomatica, impedendo loro di presentarsi di fronte ai magistrati guidati dal procuratore Antonio Chiappani.
Il terremoto nell'Oms. "Ho ricevuto pressioni e minacce di licenziamento affinché modificassi il rapporto e scrivessi che il Piano pandemico risale al 2016 e non al 2006, come invece è". Zambon, che coordina la sede veneziana che ha redatto il documento, non si fa troppi problemi a dirlo. E probabilmente lo avrebbe anche detto davanti ai pm di Bergamo che lo hanno già convocato almeno tre volte (l'ultima il 10 dicembre). Il problema è che i vertici dell'Oms non glielo lasciano fare. Nelle scorse ore è intervenuta anche la Farnesina. Sabato scorso, secondo quanto anticipato da Massimo Giletti a Non è l'Arena, infatti, il ministro degli Esteri Luigi Di Maio avrebbe chiesto all'Organizzazione mondiale della sanità di "considerare la possibilità di permettere a funzionari ed esperti di acconsentire alla richiesta del procuratore di essere sentiti come persone informate sui fatti". A Ginevra, però, la procedura non ha sortito grandi effetti. E se da una parte l'Oms ha assicurato che il documento è stato rimosso dopo che "sono state riscontrate inesattezze fattuali" e che l'obiettivo era di "di correggere gli errori e ripubblicarlo", dall'altra ha già preso i primi provvedimenti facendo saltare l'incarico a Guerra che, oltre a lavorare per l'organizzazione, fa anche parte del Comitato tecnico scientifico ed è, quindi, a stretto contatto con il ministero della Salute.
"Speranza finge di non capire": mossa a sorpresa dai giudici sul piano segreto. Il ministero della Salute deposita al Tar lo studio di Merler. Ma FdI aveva chiesto il Piano segreto anti-Covid. Giuseppe De Lorenzo, Lunedì 14/12/2020 su Il Giornale. La mossa è curiosa e coglie di sorpresa pure i ricorrenti. Dopo aver depositato una prima memoria difensiva, l'avvocato che difende il ministero guidato da Roberto Speranza venerdì scorso ha inviato al Tar del Lazio una seconda memoria corredata da un "deposito documentale". Sono due pagine, ma di importanza non indifferente nella querelle che ruota attorno al "piano segreto" anti-Covid. Presentandosi come "parte diligente", il dicastero della Salute ha provveduto al "deposito in giudizio" di un file: è forse il tanto misterioso "Piano operativo" realizzato nei primi giorni di febbraio e mai reso pubblico? No. È di nuovo lo studio di Stefano Merler. Il prossimo 22 dicembre il dicastero dovrà presentarsi di fronte ai giudici del Tar laziale per via del ricorso presentato da due deputati di Fratelli d'Italia. Galeazzo Bignami e Marcello Gemmato, dopo aver fatto un accesso agli atti per ottenere il "piano segreto" anti-Covid, si sono rivolti al tribunale amministrativo affinché le toghe costringano il ministero a pubblicare il documento. L'obiettivo è quello di ottenere il dossier citato da Andrea Urbani, direttore della Programmazione al ministero, in una intervista al Corriere di aprile, quando smentì l'esistenza di "vuoti decisionali" nella prima ondata rivelando che "già dal 20 gennaio avevamo pronto un piano secretato e quel piano abbiamo seguito". Come rivelato dal Giornale.it, dalle parti di viale Lungotevere Ripa 1 hanno risposto picche alla richiesta di trasparenza e nella prima memoria difensiva l'avvocatura dello Stato ha mostrato i denti. La linea difensiva è questa: affermare che tutto sarebbe sorto da "erronee interpretazioni delle dichiarazioni rese" da Urbani, che il testo richiesto dai ricorrenti sarebbe solo lo studio realizzato da Stefano Merler e che dunque non esiste alcun "piano". Posizione già in passato tenuta sia dal ministro che da altri esponenti del governo, così come da Agostino Miozzo del Cts, sebbene una fonte altamente qualificata del Giornale.it e i verbali del Cts dicano il contrario. Un Piano operativo di preparazione e risposta a diversi scenari di possibile sviluppo di un’epidemia da 2019-nCov esiste eccome, e sebbene tutti ne parlino ancora non è stato reso noto ufficialmente. Per il ministero però "Piano" e "l'analisi" di Merler sono la stessa cosa. Viale Lungotevere Ripa ammette che il 12 febbraio è “venuto a conoscenza” dello studio, ma nega che fosse “ad esso diretto” o che lo abbia “acquisito”. Ad averlo sarebbe il Cts, che è parte della Presidenza del Consiglio dei ministri. Dunque: bussare pure a Palazzo Chigi. Letta questa memoria, Bignami, Gemmato e l'avvocato Marzot Silvia che li assiste si erano messi l'anima in pace e attendevano l'udienza fissata per martedì prossimo. Invece venerdì è spuntata la "seconda memoria". L'avvocatura dello Stato, per mostrarsi come "parte diligente" ha fatto lo sforzo di chiedere al Cts "il documento di cui era stato chiesto l'accesso (cioè lo studio elaborato dalla Fondazione Bruno Kessler di Trento dal titolo Scenari di diffusione di 2019-NCOV in Italia e impatto sul Servizio sanitario, nel caso in cui il virus non possa essere contenuto localmente)" e lo ha depositato. Come a dire: partita finita e tutti contenti. Il problema è che Bignami, Gemmato e tanti cittadini di quello studio non se ne fanno nulla. Oltre ad essere già stato pubblicato, i parlamentari non ritengono sia quello il "piano" di cui parlava Urbani nell'intervista. Una fonte del Giornale.it assicura infatti che i due documenti sono distinti. Quello che Merler presenta il 12 febbraio al Cts è una relazione fatta di proiezioni e studi matematici. Ma si ferma lì e non dà indicazioni. Niente a che fare, quindi, con le linee guida e gli scenari che verranno poi inseriti nel piano elaborato interno al Comitato tecnico scientifico. Quello che ne esce fuori (oltre due settimane dopo l'analisi di Merler), infatti, è un lavoro molto più complesso. Una bozza di quel "piano" il 20 febbraio viene presentato con tanto di slide al ministro Speranza, come riportato nel Libro nero del coronavirus (leggi qui). Possibile che Urbani, o il giornalista che ha riportato l'intervista, volesse dire "20 febbraio" invece di "20 gennaio" riferendosi al "piano secretato" utilizzato per rispondere al coronavirus? Può darsi. "Adesso basta - attacca Bignami - Il Ministero sta prendendo in giro gli italiani e fa finta di non capire. E anche l’avvocatura dello Stato risponderà di quello che ha scritto e prodotto. Perché questa volta portiamo tutto alla Procura Penale. Lo avevamo detto fin dall’inizio: non provassero a produrre lo studio Merler, vogliamo il piano segreto di cui da aprile parla Urbani, dirigente del ministero. Lo studio Merler è un modello predittivo che ipotizza scenari sulla diffusione del Covid. Urbani parla in diverse interviste del piano di contrasto al Covid. Sono due cose radicalmente diverse. Nei prossimi giorni formalizzeremo le denunce penali perché evidentemente è l’unica soluzione che ci lasciano tutti coloro che stanno nascondendo questi domunenti. Perché l’alternativa è che non esista alcun piano di contrasto alla pandemia e che quindi gli alti funzionari del Ministero abbiano mentito agli italiani. Quindi o c’è incompetenza o c’è malafede. Comunque Speranza e i vertici del ministero devono rispondere".
"Dentro c'erano degli scenari...". Il pm rivela il "piano segreto" anti Covid. La procura di Bergamo indaga. Il pm Chiappani rompe il silenzio: "Eravamo impreparati". Ipotesi indagini da trasferire a Roma. Giuseppe De Lorenzo e Andrea Indini, Mercoledì 09/12/2020 su Il Giornale. Le indagini sono in corso. Per ora si conosce solo il contorno di questa inchiesta incardinata alla procura di Bergamo. Si sa che nei mesi scorsi sono stati ascoltati il governatore lombardo Attilio Fontana, il suo assessore Giulio Gallera, il premier Giuseppe Conte e altri ministri di peso del governo. Si sa che di fronte ai pm sono andati anche Ranieri Guerra, direttore aggiunto dell'Oms e membro del Cts, e Stefano Merler, autore di uno dei primi studi sul possibile impatto del coronavirus in Italia quando ancora tutto sembrava solo un lontano problema "cinese". E' ormai chiaro che preme per andarci pure Francesco Zambon, coordinatore del gruppo di studiosi dell'Oms che ha redatto il report critico sulla gestione italiana del contagio e che un paio di cosette le avrebbe da dire. Nessuno di loro, ovviamente, per ora ha fatto emergere molto di quanto detto di fronte ai magistrati: l'inchiesta resta segreta, come giusto che sia. A sopresa, invece, in modo un po' irrituale a parlare dei lavori in corso è il procuratore che si sta occupando di questa delicata indagine: Antonio Chiappani. E le sue rivelazioni sono importanti.
"Ha nascosto i verbali all'Ue?". Ora Conte è messo alle corde. Al centro dell'attenzione in questi giorni è la grana "piano pandemico". O forse bisognerebbe dire "piani pandemici": uno, quello "che riguarda l'influenza"; e l'altro, quello ormai definito "piano segreto" anti-Covid. Per quanto riguarda il primo, il procuratore conferma quanto scritto in questi giorni e già rivelato nel Libro nero del coronavirus (clicca qui). L'Italia aveva sì un piano "datato 2017 che riguarda l'influenza", peccato fosse la copia della versione precedente, del 2006, come confermato nel rapporto dell'Oms (secondo cui il documento sarebbe stato solo "riconfermato" a fine 2016). "Effettivamente molte parti sono identiche - dice Chiappani - Ci sono delle irregolarità, stiamo ancora verificando". I pm stanno controllando se il mancato aggiornamento possa configurarsi come un’omissione in atti di ufficio. Di chi è la colpa? Chi ne deve rispondere? Certo non esponenti lombardi: l'aggiornamento spetta al ministero della Salute. Se vi fossero irregolarità, dunque, la procura di Bergamo dovrebbe alzare bandiera bianca e inviare tutte le carte ai colleghi di Roma, competenti territorialmente a indagare su viale Lungotevere Ripa 1. "Stabiliremo chi doveva predisporlo e perché non è stato fatto -spiega Chiappani - Se riterremo che le indagini vadano svolte a Roma saranno quei magistrati a decidere come procedere". Certo è che se le accuse dovessero ricadere su Guerra, all'epoca direttore della Prevenzione al ministero, un problema per i giudici potrebbe esserci: "Il professor Ranieri Guerra, proprio perché membro dell’Oms, gode dell’immunità diplomatica". Dunque potrebbe non essere perseguibile.
Cosa era il "piano segreto"? Il livello di segretezza era rinforzato. La rivelazione sul "Piano segreto" anti Covid. Arriviamo ora al capitolo "piano segreto", di cui ha parlato diffusamente ilGiornale.it. Per Chiappani il "piano pandemico" del 2017, aggiornato o meno, in quanto dedicato alle epidemie influenzali "non contemplava quanto accaduto con il Covid-19". Chiaro. "Solo in seguito, dopo la comunicazione dei casi in Cina, l’Istituto superiore di sanità ha presentato un piano strategico che ha però deciso di secretare". Nell'attesa che il governo risponda alla decina di interrogazioni presentate da FdI, chiarisca perché quel documento non venne fornito neppure alle Regioni e magari lo renda pure pubblico, Chiappani sostiene che non fosse un vero e proprio "piano di intervento" ma "rappresentava possibili scenari". Cosa significa? Il pm sta dando ragione al ministro Speranza&Co., che da tempo derubricano quel documento a semplice "studio"? Perché a onor del vero nel verbale della riunione del cts del 12 febbraio, il Comitato decise di dare “mandato ad un gruppo di lavoro interno al Cts di produrre, entro una settimana, una prima ipotesi di piano operativo di preparazione e risposta a diversi scenari di possibile sviluppo di un’epidemia da 2019-nCov". Le parole sono importanti. Certo si parlava di "deversi scenari" su un "possibile sviluppo" del morbo, ma è anche vero che ad essere richiesto era di un “Piano operativo”, dunque con azioni e misure da mettere in atto, e non una banale analisi. A leggere una delle versioni del documento trapelate ai media, infatti, quel dossier si accosta più a un "piano" che a un lavoro accademico: lo scopo infatti era quello di "garantire un’adeguata gestione dell’infezione in ambito territoriale e ospedaliero senza compromettere la continuità assistenziale, razionalizzando l’accesso alle cure, per garantire l’uso ottimale delle risorse". Tant'è che, come rivelato dal Giornale.it, su quel plico il livello di segretezza imposto ai membri del Cts era "doppio" e "rinforzato". Vedremo come procederanno le indagini. Quel che appare chiaro anche a Chiappani è che "eravamo impreparati". "Finora abbiamo rilevato purtroppo che c’è stata tanta improvvisazione", sentenzia. Questo significa che ci sono i presupposti per formalizzare accuse di rilievo penale? La mancata esistenza di un piano di intervento specifico per il Covid potrebbe "assolvere" dirigenti, manager e soprattutto decisori politici? "I piani per combattere una normale influenza già prevedono la sanificazione dei reparti, l’evacuazione di alcune sale, percorsi differenziati per i malati - è il ragionamento del pm - Noi stiamo verificando se queste misure siano state prese, dobbiamo scoprire come sia stato possibile che in questa zona ci sia stato il numero più alto di contagiati, malati, vittime". A lavorare sul dossier è Andrea Crisanti, padre del Metodo Vo' e microbiologo ormai di fama. Il suo scopo è quello di capire se effettivamente le decisioni prese (o non prese) in Lombardia e in tutta Italia abbiano "inciso in maniera determinante sulla diffusione del virus", così da "accertare eventuali responsabilità rispetto ai reati di epidemia colposa, omicidio colposo e falso". Nel mirino c'è ovviamente la chiusura e riapertura immediata dell'ospedale di Alzano Lombardo. Ma anche la mancata zona rossa in Val Seriana. Non resta che attendere gli sviluppi.
Fiorenza Sarzanini per corriere.it il 10 dicembre 2020. Ha acquisito relazioni, interrogato testimoni, letto denunce, fatto sopralluoghi. Ha parlato con i consulenti, concesso altro tempo ai periti per capire che cosa sia davvero accaduto in Val Seriana all’inizio della pandemia da Sars-CoV-2. E soprattutto se l’Italia fosse preparata ad affrontare una simile emergenza. Se il piano pandemico di cui tanto si parla fosse adeguato ad affrontare quel che è accaduto a partire da gennaio. Le indagini sono in corso, ma il capo della Procura di Bergamo Antonio Chiappani fa ben comprendere quale potrà essere la loro evoluzione, seguendo il filo di quanto è stato scoperto. Il reato ipotizzato è l’epidemia colposa, ma altre contestazioni potrebbero essere mosse contro i responsabili degli ospedali, delle aziende sanitarie e soprattutto della Regione se fosse accertato che non hanno seguito i protocolli stabiliti. E dunque che le loro scelte, sbagliate o inopportune, hanno contribuito alla diffusione dei contagi e alla morte di migliaia di persone.
Procuratore, l’Italia aveva un piano pandemico?
«Ne esiste uno datato 2017 che riguarda l’influenza».
A leggerlo sembra copiato da quello del 2006.
«Effettivamente molte parti sono identiche».
Sembra che in alcuni capitoli siano addirittura rimaste le date sbagliate. È così?
«Ci sono delle irregolarità, stiamo ancora verificando. Sicuramente il piano del 2017 non contemplava quanto accaduto con il Covid-19. Solo in seguito, dopo la comunicazione dei casi in Cina, l’Istituto superiore di sanità ha presentato un piano strategico che ha però deciso di secretare».
È il famoso «piano segreto» preparato dal ministero della Salute che disegnava diversi scenari. Si può ritenere un piano di intervento?
«In realtà rappresentava possibili scenari».
Eppure l’Oms aveva lanciato un allarme specifico sul virus proveniente dalla Cina.
«Sì, l’Organizzazione mondiale della sanità lo aveva fatto il 5 gennaio, e il 31 gennaio il governo italiano ha dichiarato lo stato di emergenza».
Lei ritiene che a quel punto il nostro Paese fosse pronto?
«Eravamo impreparati. Questo ormai mi pare un dato acquisito. Finora abbiamo rilevato purtroppo che c’è stata tanta improvvisazione».
La mancanza di un piano di intervento potrebbe diventare l’alibi di direttori sanitari, manager delle Asl e politici?
«I piani per combattere una normale influenza già prevedono la sanificazione dei reparti, l’evacuazione di alcune sale, percorsi differenziati per i malati. Noi stiamo verificando se queste misure siano state prese, dobbiamo scoprire come sia stato possibile che in questa zona ci sia stato il numero più alto di contagiati, malati, vittime».
Vi siete affidati al professor Andrea Crisanti, a che punto è il suo lavoro?
«Ci ha chiesto una proroga, l’attività da svolgere è ancora lunga, tante le verifiche da effettuare. Si deve scoprire che cosa ha inciso in maniera determinante sulla diffusione del virus. Accertare eventuali responsabilità rispetto ai reati di epidemia colposa, omicidio colposo e falso».
L’assenza di un piano pandemico rappresenta un’omissione in atti di ufficio?
«Lo stiamo verificando. Se così fosse trasmetteremo questa parte dell’inchiesta per competenza ai colleghi della Procura di Roma».
Per indagare sul ministero della Salute?
«Stabiliremo chi doveva predisporlo e perché non è stato fatto. Se riterremo che le indagini vadano svolte a Roma saranno quei magistrati a decidere come procedere».
All’epoca il direttore generale della Prevenzione era Ranieri Guerra, ora direttore aggiunto dell’Oms, componente del Comitato tecnico-scientifico. Voi l’avete già interrogato. Tutto chiarito?
«Esiste il segreto istruttorio, su questo non ho niente da dire. Vorrei comunque precisare che il professor Ranieri Guerra, proprio perché membro dell’Oms, gode dell’immunità diplomatica».
Quindi la vostra inchiesta dovrà in ogni caso fermarsi?
«Noi arriveremo fino in fondo, ricostruiremo ogni passaggio. Dobbiamo contestualizzare i ruoli, capire che cosa è accaduto. Individuare i cluster. Le valutazioni le faremo alla fine. Lo dobbiamo alle vittime e ai loro familiari».
Francesco Gentile e Francesco Malfetano per “Il Messaggero” l'1 dicembre 2020. Immunità diplomatica. Questo è l' istituto di diritto internazionale che l' Organizzazione mondiale della sanità ha opposto ai pm della Procura di Bergamo, che volevano interrogare alcuni ricercatori come testimoni nell' indagine sui morti della prima ondata. Dalla sede europea di Copenaghen, come ha rivelato ieri sera Report su Rai 3, è infatti arrivata una nota ai magistrati e ai ministri degli Esteri Di Maio e della Salute Speranza in cui si rivendica lo speciale status dei propri dipendenti. «Il nostro interesse - spiega il procuratore capo Antonio Chiappani - è accertare l' esistenza o meno di un piano pandemico e quando sarebbe stato redatto. Questo è importante per le valutazioni nell' ambito dell' indagine sull' ospedale di Alzano e sulla gestione dell' epidemia nella Bergamasca. Non c' è alcun braccio di ferro o scontro in corso con chicchessia. Non c' è nessuna indagine sull' Oms o sulle strutture tecnico-scientifiche o politiche oppure su politici italiani». La Procura ha però inviato una lettera in merito al ministero degli Esteri per chiedere delucidazioni. I pm lamentano che l' audizione di alcuni testimoni, fissata per la settimana scorsa, sarebbe saltata all' ultimo. In particolare, mancherebbe all' appello Francesco Zambon, capo dell' ufficio europeo per i piccoli stati dell' Oms. Ora sarà la Farnesina a doversi esprimere in merito, chiarendo se questo tipo di funzionari sia o meno protetto da immunità. La versione dei tecnici dell' Oms - seguito della testimonianza già raccolta il 5 novembre scorso da Ranieri Guerra, vicedirettore generale per le iniziative speciali dell' Oms e membro del Cts - sarebbe fondamentale per capire la storia del rapporto intitolato Una sfida senza precedenti: la prima risposta dell' Italia al Covid-19 pubblicato e poi eliminato dal sito dell' organizzazione. Secondo l' inchiesta di Report, lo studio, finanziato con circa 100mila dollari da un grant del Kuwait, descriveva luci e ombre della preparazione e gestione italiana della crisi da Covid-19. Doveva servire ad altri Paesi e più in generale agli stakeholders del mondo della sanità per trarre lezioni utili dalle buone prassi e dagli errori del primo grande Paese occidentale che si è confrontato con il virus. Ma il 14 maggio, appena un giorno dopo la pubblicazione, viene ritirato. «Dal leak in nostro possesso deduciamo - hanno spiegato da Report dopo aver avuto accesso a delle comunicazioni interne dell' Oms - che il motivo della censura è che il rapporto metteva in imbarazzo il governo italiano e ancor più il Direttore Aggiunto dell' Oms Ranieri Guerra». Il faro della Procura di Bergamo è ora puntato sulla data del protocollo che, stando alla ricostruzione della trasmissione tv, sarebbe risalente addirittura al 2006 e quindi non sarebbe mai stato aggiornato come previsto. Un compito, questo, che rientrava nelle competenze di Guerra, tra il 2014 e il 2017 a capo della Prevenzione del ministero della Salute e, quindi, responsabile della strategia. Contattato, Guerra, al pari del ministero della Salute, non commenta. In ogni caso al momento non è chiaro se l' assenza di un piano aggiornato abbia avuto o meno un ruolo nella gestione della prima fase dell' emergenza da parte del ministero della Salute. E comunque le indagini proseguono nonostante il dribbling dell' Oms.
Stefano Filippi per "la Verità" il 4 dicembre 2020. Si è aperta una crepa nel muro di imbarazzato silenzio eretto nel governo e nel Comitato tecnico scientifico a difesa di Ranieri Guerra, il numero due dell' Oms che ha insabbiato un dossier parzialmente critico verso il ministero della Salute e la gestione della prima ondata di contagio. È il viceministro Pierpaolo Sileri a rompere la cortina di omertà. «Che il piano pandemico fosse vecchio è vero», ha detto Sileri, che di professione è medico e in passato era già stato piuttosto critico con l' Organizzazione mondiale della sanità. Il viceministro sconfessa dunque l' operato di Guerra svelato da un' inchiesta del programma Report di Rai3. Il direttore aggiunto dell' Oms aveva fatto pressioni per manipolare quanto scritto nel dossier finanziato dal Kuwait per capire come l' Italia aveva affrontato la pandemia. Dal rapporto, secondo Guerra, doveva risultare che il piano pandemico nazionale era aggiornato al 2016 mentre in realtà non era mai stato toccato dopo il 2006. Questo piano è un documento che l' Oms raccomanda ai Paesi di aggiornare almeno ogni tre anni. E Guerra era stato direttore del Dipartimento prevenzione del ministero della Salute dal 2014 al 2017 (governi Renzi e Gentiloni), perciò in quel triennio toccava proprio a lui metterci le mani, cosa che egli non fece. In primavera l' alto funzionario Oms voleva far credere che il ministero, ligio alle consegne, nel 2016 avesse effettuato l' adeguamento. Guerra ha scritto mail minacciose ai responsabili del rapporto, un documento chiesto all' Oms dal Kuwait che aveva dato 100.000 dollari per la stesura. Il dossier doveva servire come bussola per i Paesi ancora risparmiati dalla pandemia. Imparare dalla reazione del primo grande Paese occidentale investito sarebbe stato di grande aiuto per loro. Ma Guerra voleva che la ragion di Stato prevalesse sul rigore scientifico, pretendendo che dal rapporto fosse cancellata ogni ombra sull' operato del governo italiano. Giuseppe Conte e Roberto Speranza dovevano soltanto fare bella figura agli occhi del mondo. Le pressioni di Guerra furono pesanti. «Dovete correggere subito il testo», scriveva nelle mail svelate da Report. «Non fatemi casino su questo. Non possiamo essere suicidi. Così non può uscire». E in effetti quel rapporto non uscì. Gli estensori del rapporto resistettero alle pressioni e non modificarono il dossier, che fu pubblicato il 13 maggio. Ma il giorno dopo fu ritirato. Tutte le copie cartacee furono fatte sparire. Al Kuwait furono chieste di ritorno perfino le 10 copie a stampa già spedite. Report ha rivelato le mail di Guerra lunedì. Da allora tutti hanno taciuto: governo, Oms, Comitato tecnico scientifico di cui Guerra fa parte. Finalmente ieri il vice del ministro Roberto Speranza ha aperto uno squarcio di trasparenza. «Si dice che l' Italia non fosse pronta, ma abbiamo visto che non era pronto nessuno quando è arrivato questo virus. Il fatto che il piano pandemico fosse troppo vecchio è vero», ammette Pierpaolo Sileri. Che aggiunge: «Credo che qualche spiegazione da questo punto di vista dovrebbe essere data». Ma se occorrono spiegazioni, vuol dire che il caos è totale. Sileri suggerisce anche la strada che Guerra dovrebbe seguire: «Credo che si debba semplicemente rilasciare un' intervista per spiegare quello che è accaduto, quello che è stato fatto, quelle che sono le lacune, non credo che ci siano segreti». Le parole di Sileri sono gravissime.
Primo: il viceministro riconosce che il piano pandemico era vecchio e non aggiornato. Se al dicastero della Salute avessero fatto ciò che dovevano, non ci saremmo trovati totalmente impreparati all' arrivo del coronavirus. L' Italia avrebbe avuto le mascherine, i guanti, i camici di cui per settimane gli operatori sanitari sono rimasti privi; medici e infermieri sarebbero stati sottoposti per tempo a corsi di aggiornamento per imparare in anticipo come comportarsi; gli ospedali sarebbero stati dotati di posti letto e di macchinari. Si sarebbero potute salvare almeno 10.000 vite, secondo quanto ha dichiarato alla Verità l' ex generale Pier Paolo Lunelli.
Secondo: «Vanno date spiegazioni», cioè il comportamento di Guerra è incomprensibile perfino per Sileri, numero due del ministero.
Terzo: dev' essere Guerra a chiarire, per togliere dall' imbarazzo il governo. Da parte sua, l' Oms non fa una piega. L' Organizzazione esce malissimo da questa faccenda: nelle mail Guerra la definisce «la foglia di fico» per le scelte del governo italiano, lasciando intendere che i 10 milioni di euro donati lo scorso maggio coprono un tacito accordo per cui l' Oms deve portare in palmo di mano il governo Conte (e viceversa) nonché coprire le inefficienze del nostro sistema senza urtare «la sensibilità politica» del ministro. Ebbene, quella foglia di fico non si è avvizzita, tutt' altro. La riprova viene da un annuncio dato ieri dal direttore regionale dell' Oms per l' Europa, Hans Kluge: Speranza e lo stesso Kluge la prossima settimana presiederanno in coppia un vertice europeo dell' Oms. È la seconda riunione (a distanza) sulle scuole e la loro gestione in pandemia, alla quale parteciperanno i ministri della Salute e dell' Istruzione dei 53 Paesi europei «per approfondire quali misure sono da mettere in atto» per proteggere le strutture scolastiche. Il primo incontro, sempre presieduto dal tandem Kluge-Speranza, si è svolto a fine settembre. Il suo esito è sotto gli occhi di tutti: l' Italia è l' unico Paese europeo che ha chiuso le scuole e non sa ancora quando le aprirà. Ma l' Oms non batte ciglio.
Felice Manti per “il Giornale” il 2 dicembre 2020. È bufera sul dirigente Oms Ranieri Guerra e sul suo tentativo, documentato ieri sera da Report, di modificare dal 2006 (all'indomani dell'epidemia Sars) al 2016 la data di aggiornamento del Piano pandemico italiano (della cui redazione si era occupato anche lui nelle vesti di dirigente del ministero della Sanità tra il 2014 e il 2017), perché evidenziava gli errori commessi dall'Italia nella gestione del Covid, dopo che un rapporto indipendente Oms l'aveva definito «inadeguato». «Il governo deve aiutare i pm a capire come sono morte più di 50mila persone. È vero che avrebbe cercato di modificare il report che noi abbiamo ritrovato? Ora l'Oms gli revochi l'immunità». È una furia Consuelo Locati, legale del Comitato Noi Denunceremo, che rappresenta i familiari delle vittime del Covid il giorno dopo il servizio che ha gettato una luce oscura su come l'esecutivo ha gestito la pandemia e sugli strani rapporti tra Palazzo Chigi, ministero della Sanità e Oms, che non vuole collaborare con la Procura di Bergamo. È d'accordo anche l'ex ministro degli Esteri Giulio Terzi di Santagata: «L'Oms ha delle gravi responsabilità verso i Paesi per la gestione della pandemia almeno nei primi mesi, dettata dall'influenza della Cina, interessata a nascondere le sue responsabilità». Contro il ministro della Salute Roberto Speranza tuona anche Forza Italia: «A lui chiederemo di dare spiegazioni su una vicenda che lascia sconcertati», annuncia il deputato Giorgio Mulé. Guerra si difende e minaccia querele, definendo su Facebook gli autori del servizio come «gente indecente che cerca di farvi bere anche l'arsenico per tv pubblica». Intanto i pm di Bergamo insistono: vogliono interrogare Francesco Zambon, ricercatore Oms a cui Guerra avrebbe chiesto di correggere il report.
Alessandro Rico per “la Verità” il 2 dicembre 2020. Chi è l'uomo che, secondo Report, ha imposto che venisse censurato il documento dell'Oms che smontava il «modello italiano»? Ranieri Guerra, medico, laurea e specializzazione a Padova con il massimo dei voti, ha perfezionato la sua formazione tra Londra e Washington. Negli anni Ottanta, ha iniziato a operare per la Farnesina in vari Paesi, come consulente per la pianificazione dei sistemi sanitari. Collabora con l' Oms dal 2005. Nel 2014, diventa direttore della Prevenzione al ministero della Salute. Tre anni dopo, nel maggio 2017, il governo italiano lo fa inserire nel Consiglio esecutivo dell' agenzia Onu per la salute: si tratta di un secondment, un distacco, pratica comune, per cui ogni Stato, ammesso nell' Executive board dell' ente, nomina un suo rappresentante «di fiducia». Ma già a ottobre, il nuovo direttore generale dell' Oms, Tedros Adhanom Ghebreyesus, chiama Guerra come Assistant director general per le iniziative speciali nel gabinetto dell' Oms. Nel febbraio 2020, infine, il supertecnico torna in patria ed entra nel Comitato tecnico scientifico. Un passaggio per certi versi anomalo. «Di solito, il secondment avviene quando un Paese invia un suo rappresentante, dalle riconosciute competenze, nel Comitato esecutivo dell' Oms», spiega alla Verità Nicoletta Dentico, già direttrice di Medici senza frontiere. Giusto ciò che è accaduto quando, nel maggio 2017, l' Italia indicò Guerra. «Ma poi quest' ultimo è stato scelto da Tedros perché diventasse il suo numero due: tanto che, nell' Executive board dell' Oms, è subentrato Walter Ricciardi. Da quel momento, Guerra è diventato a tutti gli effetti un membro dell' Oms». Pertanto, «ci siamo ritrovati, stranamente e incomprensibilmente, con un secondment in senso opposto: non più un rappresentante dell' Italia nell' Oms, bensì un rappresentante dell' Oms in Italia». Perché? Mistero. Fatto sta che la nomina non è passata inosservata: «Lo staff del ministero della Salute non l' ha presa bene». In effetti, i rappresentanti dell' Oms si mandano anzitutto nei Paesi in via di sviluppo. L'Oms certificava che l'Italia non era in grado di affrontare l'emergenza Covid? Quand'anche fosse, mancherebbero comunque dei passaggi formali: «Un country representative dell'Oms è una figura ufficiale, con un quartier generale, un mandato limitato nel tempo ed è preferibilmente di una nazionalità diversa rispetto a quella del Paese in cui viene inviato». Nel caso di Guerra, questi crismi mancano. Anzi, riferisce la Dentico, «ho appreso che l'Oms non ha termini di riferimento per il mandato di Guerra» nel Cts. L'anomalia si allarga: anziché spedire un nostro uomo all' Oms, ne abbiamo messo, in una struttura creata dalla Protezione civile, uno che dell' Oms è un membro organico - e di altissimo livello. Solo che l'Oms si comporta come se l'incarico del suo vicedirettore non la riguardasse. Resta da capire come mai, stando alle email di Guerra divulgate da Report, Adhanom si sia prestato a fare da «consapevole foglia di fico» per l'esecutivo giallorosso. Il legame tra i due è così forte, da aver indotto l'etiope a tollerare una «cortesia» del suo numero due a Roberto Speranza? O a Tedros interessava coprire le presunte responsabilità di Guerra, che da direttore della Prevenzione al ministero della Salute, non ha aggiornato il piano pandemico italiano? O, infine, è lo stesso capo dell' Oms ad avere a cuore il buon nome del governo di Roma, che ne ha sponsorizzato la nomina - nonché alla luce dei buoni rapporti con Paolo Gentiloni, maturati quando entrambi erano ministri degli Esteri dei rispettivi Paesi? Un chiarimento è auspicabile. Intanto, il comitato Noi denunceremo, che riunisce i familiari delle vittime del Covid, ha chiesto che la Farnesina faccia «pressione sull' Oms affinché revochi a Ranieri Guerra l' immunità diplomatica». Invero, dovrebbe revocarla anzitutto agli autori del report censurato: l' agenzia delle Nazioni Unite pare non abbia piacere che parlino con i pm di Bergamo. Ai quali potrebbero raccontare cosa sanno sugli errori fatali del «modello italiano».
Alessandro Mantovani per ilfattoquotidiano.it il 2 dicembre 2020. Si fa un po’ scomoda la posizione di Ranieri Guerra, direttore generale aggiunto dell’Organizzazione mondiale della sanità. Il tema è sempre il piano italiano contro l’influenza pandemica che non sarebbe mai stato aggiornato dal 2006 e il rapporto dell’Oms sulla reazione “improvvisata, caotica e creativa” del nostro sistema sanitario al nuovo coronavirus, pubblicato e fatto sparire in 24 ore nel maggio scorso. Dove si legge appunto che il piano del 2006 era stato solo “reconfirmed in 2017”. “Devi correggere subito”, scriveva Guerra a Francesco Zambon, coordinatore dei ricercatori dell’Oms autori del dossier. Era l’11 maggio, poco prima della pubblicazione. Non andava bene la data, il 2006 appunto: bisognava aggiungere “ultimo aggiornamento dicembre 2016”. “Non fatemi casino su questo – scriveva ancora Guerra –. Stasera andiamo sui denti di Report e non possiamo essere suicidi (…) Adesso blocco tutto (…). Così non può uscire. Evitate cazzate. Grazie e scusa il tono. Ranieri”. Il testo non cambierà e sarà ritirato subito. È stata ancora Report, ieri sera, a tornare sul tema con un nuovo servizio di Giulio Valesini e Cataldo Ciccolella sulle email di Guerra a Zambon e non solo. Dal 9 marzo Guerra è stato inviato dall’Oms a Roma a supporto del ministero della Salute. Ma al ministero è stato direttore generale per la Prevenzione dal 2014 al 2017. Gli aggiornamenti del piano, in quegli anni, spettavano anche a lui. Secondo il perito interpellato da Report il file .pdf è sempre quello del 2006, a cambiare è solo la pagina che lo linka sul sito del ministero della Salute. Ancora nel 2020 sarebbe stato linkato un testo in cui si legge che un “primo stock farmaci” al ministero “sarà completato entro il 2006”. Quanto fossimo pronti, purtroppo, l’abbiamo visto a febbraio, anche a causa delle circolari che, su indicazione dell’Oms, indicavano come “caso sospetto” solo chi avesse avuto rapporti con la Cina. È un “lavoro sicuramente pregevole”, concedeva Guerra a Zambon a proposito del rapporto. Ma lo invitava a riflettere sulle “questioni politiche”. Scriveva: “Uno degli atout di Speranza è stato sempre il poter riferirsi a Oms come consapevole figlia (sic, si suppone per foglia, ndr) di fico per certe decisioni impopolari e criticate (…). Se anche Oms si mette si mette in veste critica non concordata con la sensibilità politica del ministro (…) non credo che facciamo un buon servizio al Paese. Ricordati che hanno appena dato 10 milioni di contributo volontario sulla fiducia e come segno di riconoscenza”. In un’altra email in possesso di Report Guerra scriveva a Zambon: “Come sai, sto per iniziare con il ministro il percorso di riconferma parlamentare (e finanziaria) del centro di Venezia e non vorrei dover subire ritardi o contrattacchi”. Il centro di Venezia è il posto di lavoro di Zambon. All’Oms, secondo Report, c’è stato uno scontro sul dossier. Una ricercatrice europea, sentita in forma anonima, aggiunge: “Ranieri Guerra ha minacciato pesantemente l’autore del rapporto: ‘O ritiri la pubblicazione o ti faccio cacciare fuori dall’Oms’”. “Non ho mai minacciato nessuno”, dice Guerra al Fatto Quotidiano, ma preferisce non entrare nel merito della vicenda e dei rapporti tra Oms e governo. Report coinvolge anche Cristiana Salvi, responsabile della comunicazione dell’Oms Europa: “Ranieri e io – scriveva in un’altra email – abbiamo cercato di arginare le critiche che questo rapporto denuda completamente”. “Crolla così la terzietà dell’Oms”, conclude Sigfrido Ranucci. Qualche domanda se la fanno anche i magistrati di Bergamo che indagano su presunti errori e omissioni nella prima gestione della pandemia. Guerra è stato già sentito come testimone. Per Zambon e per i ricercatori suoi colleghi, l’Oms invoca invece l’immunità diplomatica per proteggere, scrive l’agenzia, “l’imparzialità e l’oggettività dell’Oms”. Il sospetto è che protegga, piuttosto, equilibri politici.
Dagospia il 29 novembre 2020. Report tornerà a raccontare con documenti esclusivi cosa è successo davvero nelle stanze dell’Oms e perché il rapporto scomparso è una bomba mediatica, tra incidenti diplomatici, cattivo uso di fondi della cooperazione, immunità diplomatica usata da scudo contro le convocazioni della procura di Bergamo e una curiosa comunione di intenti tra i pezzi grossi dell’Oms e il nostro ministero della Salute. Il 5 novembre scorso Ranieri Guerra si è presentato alla procura di Bergamo. Nei confronti degli autori del rapporto l’Oms ha spedito una nota ai magistrati e ai ministri Di Maio e Speranza: i suoi ricercatori godono di immunità diplomatica e dunque non sono tenuti a rispondere alla procura. Insomma, l’Oms li ha invitati a non presentarsi, anche contro la loro volontà di testimoniare.
Da adnkronos.com il 30 novembre 2020. Report nella puntata di stasera, anticipa la redazione, "rivelerà una serie di e-mail riservate ricevute tramite un leak. Si tratta di comunicazioni interne dell’OMS riguardanti la gestione di una bomba mediatica, il rapporto “An unprecedented challenge - Italy’s first response to COVID-19” a cura di un team di ricercatori della divisione europea dell’Oms. Lo studio, finanziato con circa 100mila dollari da un grant del Kuwait, descriveva luci e ombre della preparazione e gestione italiana della crisi da Covid-19. Doveva servire ad altri Paesi e più in generale agli stakeholders del mondo della sanità per trarre lezioni utili dalle buone prassi e dagli errori del primo grande Paese occidentale che si è confrontato con il virus. Ma il 14 maggio, appena un giorno dopo la pubblicazione, viene ritirato e mai più messo a disposizione. Uno sfregio al governo del Kuwait che lo aveva pagato". "Dal leak in nostro possesso deduciamo - proseguono da 'Report' - che il motivo della censura è che il rapporto metteva in imbarazzo il governo italiano e il Ministro della Salute Speranza e ancor più il Direttore Aggiunto dell’OMS Ranieri Guerra. Infatti, tra le varie criticità annotate dai ricercatori, si certifica che il piano italiano di prevenzione delle pandemie era vecchissimo, del 2006. E mai aggiornato". "Uno dei dirigenti che avrebbe dovuto aggiornarlo era proprio Ranieri Guerra, che tra il 2014 e il 2017 era Dg Prevenzione al Ministero della Sanità. E questi l’11 maggio, poco prima della pubblicazione del rapporto, e a poche ore da una puntata di Report che avrebbe denunciato l’arretratezza del piano pandemico, nella sua veste di top official di Oms scriveva a uno degli autori di indicare come data del piano il 2016 invece del 2006. Ma il 2016 è solo la data di aggiornamento della pagina web e non quella del piano. Un gioco di prestigio: 'devi correggere subito nel testo: 1. Piano nazionale di preparazione e risposta ad una pandemia influenzale; Ministero della Salute; 2006 (…) E riportare quanto disponibile al sito minsalute (…) Ultimo aggiornamento dicembre 2016. Non fatemi casino su questo. (…)Stasera andiamo sui denti di Report e non possiamo essere suicidi. (…) Adesso blocco tutto con Soumya. Fammi avere la versione rivista appena puoi. Così non può uscire." "Guerra minaccia di bloccare tutto con Soumya Swaminatham, il chief scientist dell’OMS centrale, dando per scontato che la prestigiosa scienziata era a sua disposizione per cambiare un testo non per motivi scientifici ma per ragioni politiche. In un’altra comunicazione racconta l’esistenza di un presunto tacito accordo tra l’Oms e il governo italiano, di cui l’organizzazione dell’Onu sarebbe la consapevole foglia di fico: 'Uno degli atout di Speranza è stato sempre il poter riferirsi a OMS come consapevole figlia (sic) di fico per certe decisioni impopolari e criticate da vari soggetti. Questa è stata materia di discussione e di accordo con Tedros, anche attraverso chi ti scrive e la Missione a Ginevra.'(…) 'Se anche OMS si mette in veste critica non concordata con la sensibilità politica del Ministro che è certo superiore alla mia, non credo che facciamo un buon servizio al Paese. Ricordati che hanno appena dato 10 milioni di contributo volontario sulla fiducia e come segno di riconoscenza per quanto fatto finora, dopo sei anni di zero'". Report "spiegherà anche come l’Oms sta impedendo agli autori dello studio di presentarsi alla Procura di Bergamo, che li ha convocati per ascoltarli come persone a conoscenza dei fatti in un’inchiesta per falso ed epidemia colposa. L’ente si rifugia dietro trattati internazionali che garantiscono immunità diplomatica e quindi dovrebbero 'scudare' i ricercatori anche dalla semplice testimonianza in tribunale. Eppure, tra i convocati, a uno solo l’Oms ha dato il via libera a parlare coi Pm: proprio Ranieri Guerra".
La consapevole foglia di fico. Report Rai PUNTATA DEL 30/11/2020 di Cataldo Ciccolella, Giulio Valesini, collaborazione di Norma Ferrara, Eva Georganopoulou e Alessia Pelagaggi. Un documento dell’Oms denunciava che il piano pandemico italiano è del 2006, come scoperto da Report. Poche ore dopo la sua pubblicazione viene rimosso. Secondo le stime del Generale Lunelli, esperto di difesa batteriologica, un piano aggiornato avrebbe salvato diecimila vite. Report tornerà a raccontare con documenti esclusivi cosa è successo davvero nelle stanze dell’Oms e perché il rapporto scomparso è una bomba mediatica, tra incidenti diplomatici, cattivo uso di fondi della cooperazione, immunità diplomatica usata da scudo contro le convocazioni della procura di Bergamo e una curiosa comunione di intenti tra i pezzi grossi dell’Oms e il nostro ministero della Salute.
“LA CONSAPEVOLE FOGLIA DI FICO” di Giulio Valesini e Cataldo Ciccolella collaborazione di Norma Ferrara, Eva Georganopoulou, Alessia Pelagaggi immagini di Alfredo Farina, Paolo Palermo montaggio di Riccardo Zoffoli grafica di Giorgio Vallati.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Dal quartiere generale di Ginevra l’Oms a settembre ha elogiato la risposta del governo italiano alla prima ondata della pandemia.
SILVIO BRUSAFERRO - PRESIDENTE ISTITUTO SUPERIORE DI SANITÀ L’Italia è stato il primo tra i paesi occidentali che si è trovato di fronte alla pandemia.
ROBERTO SPERANZA - MINISTRO DELLA SALUTE Dobbiamo essere orgogliosi della qualità del nostro Servizio Sanitario Nazionale che è all’altezza ed è pronto ad affrontare anche questa emergenza.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Il video viene rilanciato dal premier Conte e dal Ministro della Salute, Roberto Speranza. È un riconoscimento mondiale per l’immagine dell’Italia e del suo governo nel mondo. Ma il perché l’OMS realizza e diffonde quel video, in realtà ha poco a che vedere con la capacità italiana di affrontare il Virus. Per capire il retroscena bisogna entrare in questo storico palazzo di Venezia. È la sede del distaccamento europeo dell’Oms. Una decina di ricercatori ha lavorato alacremente a un dossier. Titolo: “Una sfida senza precedenti, la prima risposta dell’Italia al Covid”. Viene pubblicato, ma dopo un solo giorno una manina lo fa sparire. Incontriamo il coordinatore dell’Ufficio europeo dell’OMS per i piccoli stati. È lui che ha guidato il gruppo di ricerca che ha redatto il dossier scomparso.
FRANCESCO ZAMBON - ORGANIZZAZIONE MONDIALE DELLA SANITÀ È stato un lavoro immenso. Lavoravamo 24 ore al giorno con tutto il team con dati aggiornati a un giorno prima: una cosa mai successa nell’OMS.
GIULIO VALESINI Ma non è piaciuto?
FRANCESCO ZAMBON - ORGANIZZAZIONE MONDIALE DELLA SANITÀ È stato approvato e poi dopo ritirato.
VALESINI FUORI CAMPO Francesco Zambon, non nasconde la sua amarezza per il comportamento dell’OMS.
GIULIO VALESINI L’email dell’OMS ci dice che voi siete 20 persone, che avete scritto cose non controllabili. Tanto è vero che loro prendono le distanze dal rapporto dicendo “Scusate lo abbiamo pubblicato per errore!”
FRANCESCO ZAMBON - ORGANIZZAZIONE MONDIALE DELLA SANITÀ Il rapporto ce l’ha?
GIULIO VALESINI Io sì.
FRANCESCO ZAMBON - ORGANIZZAZIONE MONDIALE DELLA SANITÀ Lo legga!
GIULIO VALESINI Così alimentate dei sospetti incontrollati.
FRANCESCO ZAMBON - ORGANIZZAZIONE MONDIALE DELLA SANITÀ Me ne rendo perfettamente conto. Togliere il rapporto chiaramente alimenta dei sospetti...è ovvio. Di tutta questa storia non si sa come andrà a finire, glielo posso dire?
GIULIO VALESINI Sì. FRANCESCO ZAMBON - ORGANIZZAZIONE MONDIALE DELLA SANITÀ Che io verrò licenziato.
GIULIO VALESINI Perché dovrebbe essere licenziato? Lei dice che verrà scaricato lei per difendere qualcun altro…
FRANCESCO ZAMBON - ORGANIZZAZIONE MONDIALE DELLA SANITÀ Io sono il pesce piccolo.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO E chi è invece il pesce grande? Per scoprirlo bisogna capire cosa c’era scritto nel rapporto di così compromettente da spingere l’OMS a rimuoverlo immediatamente. I ricercatori certificavano che l’Italia non aveva un piano pandemico aggiornato, riconfermavano sempre lo stesso, quello del 2006. Come avevamo sostenuto a Report. E questo imbarazzava il pesce grosso, l’ex direttore del ministero della Salute oggi direttore aggiunto dell’OMS: Ranieri Guerra.
GIULIO VALESINI L’OMS Europa smentiva l’OMS generale perché Ranieri Guerra, che è il vostro assistente direttore generale, diceva che lui i piani pandemici li aveva aggiornati.
FRANCESCO ZAMBON - ORGANIZZAZIONE MONDIALE DELLA SANITÀ Domandate anche di quella che è la vostra ipotesi a Tedros. Dovranno dare delle risposte. Immagino che abbiate sentito anche Ranieri Guerra.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Ranieri Guerra è tra i revisori del rapporto sparito, ma oggi nega di saperne qualcosa.
GIULIO VALESINI Senta, io ho trovato questo qua che è il report dell’OMS, ma è stato lei a farlo ritirare?
RANIERI GUERRA - DIRETTORE AGGIUNTO OMS No.
GIULIO VALESINI Perché è stato ritirato?
RANIERI GUERRA - DIRETTORE AGGIUNTO OMS Prego?
GIULIO VALESINI Perché è stato ritirato?
RANIERI GUERRA - DIRETTORE AGGIUNTO OMS Lo chieda a chi l’ha ritirato.
GIULIO VALESINI Non è che è stato ritirato perché c’era scritto che il piano pandemico italiano era uguale dal 2006?
RANIERI GUERRA - DIRETTORE AGGIUNTO OMS … ancora con ‘sta storia?
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Sì. Perché abbiamo le prove che lei, dottor Guerra, non ci dice la verità. Dopo la puntata di lunedì 2 novembre, Report è entrato in possesso di un leak nel quale sono contenute delle mail che provano in maniera inconfutabile che lei ha fatto delle pressioni sui suoi ricercatori, in particolare su Zambon, perché non emergesse la verità. Non emergesse cioè che l’Italia aveva un piano pandemico non adeguato, vecchio perché non avevamo fatto scorte di dispositivi, per proteggere i nostri medici, le nostre persone più fragili. Lei, proteggendo il governo italiano dall’opinione pubblica, in realtà non fa altro che proteggere se stesso. Perché è stato fino al 2017 direttore generale del ministero della Salute e quel piano pandemico, lei come altri, avrebbero dovuto adeguarlo. E allora che cosa fa: chiede ai suoi ricercatori che stavano redigendo quel dossier di inserire come data del piano pandemico, quella più aggiornata, cioè quella del 2016. Ha fatto pressioni per questo. Ma non è riuscito perché i ricercatori hanno mantenuto la schiena dritta e allora da quel momento ha cercato di brigare per farlo ritirare quel dossier. E abbiamo anche scoperto oggi con quelle e-mail che tra le preoccupazioni di Ranieri Guerra c’era anche Report perché nel maggio scorso eravamo stati i primi a denunciare che il piano pandemico era vecchio, quello italiano e le responsabilità di Ranieri Guerra che ci aveva fatto anche scrivere dal suo avvocato e ci aveva detto no, dite che il piano pandemico è stato aggiornato al 2016. Ma il destino è cinico e baro. E, a poche ore dalla messa in onda di quella puntata di maggio, Ranieri Guerra scopre che proprio i suoi ricercatori, in quel dossier dell’OMS, stavano certificando che Report aveva ragione. E scrive in una e-mail: “Stasera andiamo sui denti di Report non possiamo suicidarci”. Insomma, fa di tutto per cambiare le carte in tavola. I nostri Giulio Valesini e Cataldo Ciccolella.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO È l’11 maggio. Poche ore prima della puntata di Report dedicata all’Oms e al mancato aggiornamento del piano pandemico. “Stasera andiamo sui denti di Report e non possiamo essere suicidi”. “Adesso blocco tutto con Soumya. Fammi avere la versione rivista appena puoi. Cosi non può uscire”. "Devi correggere subito".
RICERCATRICE – OMS Il rapporto faceva una fotografia impietosa della risposta italiana con aggettivi come "improvvisata, caotica, creativa".
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Un ricercatore ci confida che proprio intorno alla rimozione del dossier si è scatenato un conflitto all’interno dell’Organizzazione Mondiale della Sanità che ha coinvolto anche Roma, il ministero della Salute.
GIULIO VALESINI Io so che è successo anche qualcosa di molto più grave con Ranieri Guerra.
RICERCATRICE – OMS Ranieri Guerra ha minacciato pesantemente l’autore del rapporto: “O ritiri la pubblicazione o ti faccio cacciare fuori dall’Oms”.
GIULIO VALESINI Senta, il direttore generale dell’Organizzazione Mondiale, Tedros, conosce questa storia?
RICERCATRICE – OMS Sì, la conosce. Lo informò Hans Kluge, il capo della divisione europea. Gli parlò della questione. Ovviamente lo fece anche Ranieri Guerra, ma a modo suo: Tedros appoggia sempre Ranieri Guerra.
GIULIO VALESINI Senta, ma gli infermieri e i medici che sono andati al pronto soccorso senza…
RANIERI GUERRA - DIRETTORE AGGIUNTO OMS La prego di starmi a distanza.
GIULIO VALESINI Che lavoravano senza dispositivi medici…
RANIERI GUERRA - DIRETTORE AGGIUNTO OMS Sì, chieda a chi doveva fornire i dispositivi.
GIULIO VALESINI Perché non c’erano le scorte? Chi doveva provvedere?
RANIERI GUERRA - DIRETTORE AGGIUNTO OMS Chieda al governo.
GIULIO VALESINI A chi?
RANIERI GUERRA - DIRETTORE AGGIUNTO OMS Al governo. C’è un governo, no?
GIULIO VALESINI Quindi al ministro attuale della Salute?
RANIERI GUERRA - DIRETTORE AGGIUNTO OMS C’è il governo della Repubblica.
GIULIO VALESINI Senta, quanto è grave il fatto che sia stato censurato un rapporto indipendente dell’Oms?
RANIERI GUERRA - DIRETTORE AGGIUNTO OMS Ma cosa ne so io?
GIULIO VALESINI Ma quanto è grave?
RANIERI GUERRA - DIRETTORE AGGIUNTO OMS Cosa ne so io?
GIULIO VALESINI Ma come? Lei è assistente generale.
RANIERI GUERRA - DIRETTORE AGGIUNTO OMS Cosa ne so io?
GIULIO VALESINI Dicono che sia stato lei a chiederlo.
RANIERI GUERRA - DIRETTORE AGGIUNTO OMS Ma che cosa sta dicendo?
GIULIO VALESINI Qui c’è scritto che il piano non era aggiornato.
RANIERI GUERRA - DIRETTORE AGGIUNTO OMS Che cosa sta dicendo?
GIULIO VALESINI La verità.
RANIERI GUERRA - DIRETTORE AGGIUNTO OMS No, lei non sta dicendo la verità.
GIULIO VALESINI Allora mi dica lei quale è la verità, quale è la verità allora?
RANIERI GUERRA - DIRETTORE AGGIUNTO OMS Non la so io la verità, lo chieda a chi lo ha ritirato.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO C’è un’e-mail che smentisce il numero due dell’OMS: alla vigilia della pubblicazione del dossier critico nei confronti dell’Italia Ranieri Guerra ordina con tono minaccioso di modificare la vera data del piano pandemico, invece di quella reale del 2006, sul rapporto bisogna indicare un frontespizio con la data del 2016. Era lo stesso maldestro gioco di prestigio con cui il dirigente OMS aveva cercato di sviare Report. Quando ci aveva diffidato ad andare in onda e dopo postando su Facebook a commento della nostra inchiesta. Peccato che il piano pandemico indicato dal numero due dell’OMS fosse il copia e incolla del vecchio come ha dimostrato un nostro perito.
CLAUDIO AGOSTI – RICERCATORE UNIVERSITÀ DI AMSTERDAM Questo qui è il sito che utilizziamo per consultare la pagina che ci ha indicato Ranieri Guerra. Grazie a un meccanismo di analisi che si chiama “analisi dei metadati”, noi possiamo vedere quando questo pdf è stato generato.
GIULIO VALESINI Una sorta di carta di identità del documento.
CLAUDIO AGOSTI – RICERCATORE UNIVERSITÀ DI AMSTERDAM Sì, sì… E scopriamo che il file risale al 2006, e che anche nelle versioni precedenti del ministero della Salute c’era sempre un link che riportava allo stesso file. E il file è sempre lo stesso. Ecco qui, qui abbiamo fatto uno storico delle copie di questo piano: 2011, 2015, 2017, 2020. Eppure, il computo crittografico, si chiama “checksum”, mostra che è lo stesso file fino all’ultimo bit. Non è mai cambiato.
GIULIO VALESINI Sono 14 anni che facciamo un copia-incolla.
CLAUDIO AGOSTI – RICERCATORE UNIVERSITÀ DI AMSTERDAM Quello che cambia è solamente la pagina che lo linka. Però il file linkato è sempre lo stesso.
GIULIO VALESINI Ma è vero che ci sono addirittura dei riferimenti temporali scritti nel file? E c’è scritto che il primo stock di farmaci, pari a 170mila cicli di antivirali “già costituito presso il ministero della Salute”, questo “stock sarà completato entro il 2006”. Siamo nel 2020, quindi…
CLAUDIO AGOSTI – RICERCATORE UNIVERSITÀ DI AMSTERDAM Sì. Questo è un esempio del fatto che il piano pandemico non venisse mai aggiornato e parla ancora di un’epoca ormai passata.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Nonostante le pressioni del numero due dell’OMS i ricercatori di Venezia tengono duro e scrivono che il piano italiano risaliva al 2006: mai aggiornato. Una verità che dava fastidio.
FRANCESCO ZAMBON - ORGANIZZAZIONE MONDIALE DELLA SANITÀ Basta chiedere, che intervisti un responsabile degli ospedali “Ma lei aveva gli stock o no?”. Le risponderà: “No”. Ma di quanto era elastica la possibilità di espandere le terapie intensive? “Ok la mia terapia intensiva da 400 posti in Regione può andare a 800 posti, 200 di semi intensiva”: questi calcoli devono essere fatti. Perché un piano pandemico deve fare anche questo, deve fare in modo che il personale sia formato su tutte quelle che sono IPC, cioè prevenzione e controllo dell’infezione, che è una cosa fondamentale. Perché io so di persone che venivano spostate da un reparto all’altro.
GIULIO VALESINI Senza formazione.
FRANCESCO ZAMBON - ORGANIZZAZIONE MONDIALE DELLA SANITÀ Cosa può succedere? Cioè questi sono stati veramente degli eroi.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Nel carteggio inedito spedito a Report, Ranieri Guerra sembrerebbe il tessitore di una strategia che tende a coprire le inefficienze del nostro paese nell’affrontare il virus. Una strategia di cui lui appare il garante. Lui stesso scrive in un’e-mail che, grazie ai suoi uffici, l’Oms è la consapevole foglia di fico del governo italiano. È di fatto il parafulmine delle critiche al ministro Speranza durante la prima ondata Covid. Una strategia che Ranieri Guerra dice di aver concordato con il direttore generale Tedros. Anche per questo il dossier sarebbe stato ritirato: per non mettere in difficoltà il ministro italiano.
GIULIO VALESINI Dottor Guerra me la spiega in che consiste la strategia della foglia di fico?
RANIERI GUERRA – DIRETTORE AGGIUNTO OMS Le chiedo la cortesia di lasciarmi stare.
GIULIO VALESINI Senta, io ho le prove che lei provò a far cambiare il report ai ricercatori dicendo: il piano pandemico mettete quello del 2016 aggiornato, che in realtà è il copia e incolla... Ho le prove.
RANIERI GUERRA – DIRETTORE AGGIUNTO OMS Adesso io la registro, così poi… visto che voi manipolate tutto.
GIULIO VALESINI No, ma lei risponda alle domande… io non manipolo nulla. Lei registri tutto quello che vuole. Ma l’Oms è un organismo delle Nazioni Unite indipendente, come fa ad essere stato ridotto alla foglia di fico del governo? Dottor Guerra… allora, risponda a questa domanda: ci spieghi cos’è la strategia della foglia di fico e come ha fatto l’Oms a diventare da organismo tecnico indipendente delle Nazioni Unite alla foglia di fico del governo italiano? Risponda… Senta, a che titolo l’Italia ha dato un contributo volontario di 10 milioni di euro all’Oms? Lei chiese ai ricercatori di correggere il piano pandemico perché eravate finiti sui denti di Report, ce lo spiega questo? Lei di questa strategia della foglia di fico ne avrebbe parlato persino con Tedros? Perché non dovevamo urtare la sensibilità politica del ministro Speranza, dottor Guerra? Risponda a una domanda… Io non manipolo nulla. Se lei risponde alle domande… L’Oms può diventare la foglia di fico di un governo, dott. Guerra, risponda. L’ha scritto lei. Sono morte 50mila persone, dottor Guerra… una risposta.
GIULIO VALESINI E oltre a Ranieri Guerra, chi altro alzò il telefono per, diciamo, lamentarsi?
RICERCATRICE - OMS COPENAGHEN So che il presidente dell’Istituto Superiore di Sanità, Silvio Brusaferro, chiamò Ranieri Guerra e poi il ministro Speranza. Brusaferro e il ministro erano infastiditi perché volevano essere informati prima del dossier. Ma il rapporto è indipendente e pagato con i soldi di un altro Stato. Inoltre, per quello che ne so, Ranieri Guerra aveva ricevuto con largo anticipo la sinossi del documento e diceva in giro che aveva condiviso i contenuti con il ministro Speranza.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Anche se il ritiro del dossier avrebbe fatto arrabbiare il governo del Kuwait che aveva investito centinaia di migliaia di euro per realizzare la ricerca.
RICERCATRICE - OMS COPENAGHEN Il governo del Kuwait era già nervoso con l’OMS perché non spendono i soldi dei loro grant. Allora l’idea di qualche funzionario fu quella di mettere un po’ dei fondi del Kuwait sul rapporto sull’Italia: ben 102 mila dollari!
GIULIO VALESINI E come l’hanno presa quelli del Kuwait la censura del documento che poi per loro era anche un bello spot filantropico.
RICERCATRICE - OMS COPENAGHEN Lo può immaginare. Pensi che dopo averlo letto si erano perfino congratulati ufficialmente della qualità del rapporto e poche ore dopo hanno scoperto che i loro soldi erano finiti nel cestino. Vuole ridere?
GIULIO VALESINI Se ci riesce… RICERCATRICE - OMS COPENAGHEN L’OMS ha ritirato perfino le copie stampate per paura che circolassero. E allora hanno chiamato quelli del Kuwait e gli hanno detto: “Hey, c’è un errore, rispediteci le dieci copie che vi abbiamo inviato, paghiamo noi il corriere!”
GIULIO VALESINI Farebbe anche ridere se non fosse che quel documento doveva salvare vite umane…
RICERCATRICE OMS COPENAGHEN …ma per l’Oms contava di più non irritare il governo italiano!
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Per capire l’origine della vicenda bisogna riavvolgere il nastro e arrivare al 30 gennaio: la vigilia della dichiarazione dello stato d’emergenza in Italia. Il ministro Speranza fa una comunicazione urgente in parlamento sul Covid19.
ROBERTO SPERANZA, MINISTRO DELLA SALUTE - COMUNICAZIONE ALLA CAMERA DEL 30 GENNAIO 2020 Noi siamo in costante collegamento con l'Organizzazione Mondiale della Sanità. Alla riunione della nostra task force del 27 gennaio scorso ha partecipato l'Assistant director general Ranieri Guerra, che ha dichiarato: “Tra i paesi occidentali, l'Italia è la più fornita e la più attenta”.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Il numero di contagi e di morti che da lì a poche settimane conteremo dimostreranno che le valutazioni ottimistiche dell’OMS e di Ranieri Guerra sulla bontà della preparazione italiana ad affrontare il virus erano lontane dalla realtà. Ma quelle valutazioni positive ostentate non sarebbero altro che il frutto di un patto tacito che non poteva essere incrinato con le dure verità contenute nel rapporto. Su questa vicenda abbiamo chiesto più volte conto all’ Organizzazione Mondiale della Sanità. Che su questa storia ha deciso di alzare una cortina di fumo. Abbiamo chiesto un commento anche al direttore generale Tedros, che conosce bene la vicenda e avrebbe avallato la strategia di essere la consapevole foglia di fico in favore dell’Italia.
TEDROS GHEBREYESUS - DIRETTORE GENERALE ORGANIZZAZIONE MONDIALE DELLA SANITA’ Pronto?
CATALDO CICCOLELLA Ho bisogno di un veloce commento sul perché l’OMS ha rimosso il suo rapporto sulla gestione italiana del Covid?
TEDROS GHEBREYESUS - DIRETTORE GENERALE ORGANIZZAZIONE MONDIALE DELLA SANITA’ Può chiamare il nostro dipartimento comunicazioni per favore.
CATALDO CICCOLELLA Quale persona?
TEDROS GHEBREYESUS - DIRETTORE GENERALE ORGANIZZAZIONE MONDIALE DELLA SANITA’ Sono in riunione. Abbiamo un direttore delle comunicazioni.
CATALDO CICCOLELLA Chi devo chiamare?
TEDROS GHEBREYESUS - DIRETTORE GENERALE ORGANIZZAZIONE MONDIALE DELLA SANITA’ Parla con loro.
CATALDO CICCOLELLA Chi devo sentire?
TEDROS GHEBREYESUS - DIRETTORE GENERALE ORGANIZZAZIONE MONDIALE DELLA SANITA’ Per favore parla con loro.
CATALDO CICCOLELLA Grazie però voglio sapere…
TEDROS GHEBREYESUS - DIRETTORE GENERALE ORGANIZZAZIONE MONDIALE DELLA SANITA’ Grazie mille, per la tua comprensione.
CATALDO CICCOLELLA Prenderà delle misure nei confronti di Ranieri Guerra per quello che ha fatto?
TEDROS GHEBREYESUS - DIRETTORE GENERALE ORGANIZZAZIONE MONDIALE DELLA SANITA’ Potete mettermi in contatto ora?
CATALDO CICCOLELLA Sì, perché Guerra ha fatto pressioni sul rapporto, poi rimosso. Prenderà delle misure?
TEDROS GHEBREYESUS - DIRETTORE GENERALE ORGANIZZAZIONE MONDIALE DELLA SANITA’ Ok. Devo andare ora.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Si proteggono l’uno con l’altro, fanno bordone. Abbiamo provato da Copenaghen a Ginevra a spiegare che i nostri fatti, quelli che abbiamo evidenziato, hanno una grande importanza, rilevanza, ma hanno detto: “Non partecipiamo al vostro programma, cordiali saluti!”. Come se i 50mila morti del nostro Paese non meritassero una risposta. Perché è stato ritirato il dossier critico nei confronti dell’Italia? Forse perché Ranieri Guerra non è riuscito a far cambiare idea ai suoi ricercatori, a Zambon, ecco hanno mantenuto la schiena dritta. Però ufficialmente il dossier è stato ritirato “perché è pieno zeppo di errori”, questa è stata la versione ufficiale. Ma insomma, che cosa hanno detto invece al governo del Kuwait che quel dossier l’aveva finanziato? Noi abbiamo chiesto al Kuwait: ma sapete perché è stato ritirato quel dossier? Non ne sapevano nulla e hanno chiesto spiegazioni per iscritto a Tedros, vedremo cosa risponderanno. Quello che è certo, invece, è che l’OMS decidono loro qual è il palcoscenico giusto dove rappresentare la loro realtà comoda dei fatti, la loro versione più comoda dei fatti. Noi abbiamo capito che quando abbiamo mandato una e-mail alla responsabile della comunicazione per l’Europa, la dottoressa Cristiana Salvi, la sua risposta è scaduta un po’ nel ridicolo. Perché? Perché abbiamo chiesto: ma questo dossier dell’OMS perché è stato ritirato? Lei che cosa ci ha risposto? Che quel dossier non era riferibile all’OMS. Alla luce delle e-mail di cui siamo venuti in possesso, capiamo anche il perché di quella risposta. La dottoressa Cristiana Salvi collabora con Ranieri Guerra e come Tedros aveva cercato di edulcorare la pillola cinese e come Ranieri Guerra cerca di mettere il bavaglio a Zambon nel tentare di edulcorare quel dossier così critico nei confronti della situazione italiana.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO La responsabile della comunicazione dell’OMS Europa è l’italiana Cristiana Salvi. Che a febbraio, alla trasmissione “Agorà”, mostrava ottimismo sul contenimento dell’epidemia e ringraziava la Cina.
CRISTIANA SALVI, DIRETTORE COMUNICAZIONE OMS EUROPA - DA AGORA’ 3 FEBBRAIO Abbiamo circa 15 mila casi accertati in tutto il mondo, in 24 paesi nel mondo di cui il 99 percento in Cina e questo ci dice che il contenimento dell’epidemia, l’epicentro ha il suo effetto. Siamo grati alla Cina di aver condiviso in tempi record la sequenza genomica del virus in modo da permettere di sviluppare test diagnostici che stanno aiutando altri paesi ad individuare nuovi casi...
GIULIO VALESINI Chi è Cristiana Salvi?
RICERCATRICE - OMS COPENAGHEN È a capo delle comunicazioni europee dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, è quella che vi ha scritto “Questo non è un documento OMS”! Ha fatto un bel casino perché con quella risposta ha messo nei guai tutti. Lo sa che si era già spesa prima della pubblicazione per eliminare i passaggi più imbarazzanti per il governo italiano?
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Cristiana Salvi scrive che il rapporto va modificato perché i contenuti “sono bombe mediatiche per l'Italia”. Si sarebbero “denudate completamente le critiche al nostro governo” che proprio lei e Guerra avevano cercato per mesi di limitare. Per questo andavano mitigate le parti più problematiche del rapporto.
RICERCATRICE - OMS COPENAGHEN La consegna è di tenere la bocca chiusa, anche perché preferiscono lavare i panni sporchi in casa.
GIULIO VALESINI Ma che tipo di panni sporchi?
RICERCATRICE - OMS COPENAGHEN Beh, Ranieri Guerra per convincere Zambon ad ammorbidire il suo testo scriveva che era in ballo il rinnovo della sede OMS di Venezia. Oltre a ricordargli i 10 milioni di euro che il governo italiano aveva appena deciso di regalare all'Organizzazione Mondiale della Sanità. Ha capito ora? Lei questo come lo definirebbe?
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO In un’altra e-mail Ranieri Guerra mostra la sua preoccupazione che il dossier dell’OMS urtasse la sensibilità politica del ministro Speranza. Temeva che si sarebbero rovinate le relazioni politiche tra OMS e Italia, che dopo le elezioni di Tedros hanno permesso situazioni particolari.
NICOLETTA DENTICO - DIRETTRICE HEALTH INNOVATION IN PRACTICE Tedros ha scelto Ranieri Guerra e aveva assegnato a Ranieri Guerra alcuni dossier anche molto importanti. Il dossier sulle questioni strategiche, la polio, il dossier sull’immigrazione e la salute.
GIULIO VALESINI Lei l’ha capito il ruolo di Ranieri Guerra?
NICOLETTA DENTICO - DIRETTRICE HEALTH INNOVATION IN PRACTICE No, non l’ho capito il ruolo di Ranieri Guerra. Oggi lui è di fatto una specie di attaché dell’OMS presso il governo italiano nella gestione di Covid 19.
GIULIO VALESINI Ma è normale? NICOLETTA DENTICO - DIRETTRICE HEALTH INNOVATION IN PRACTICE Questo è un caso unico. In genere sono i paesi che distaccano il loro personale scelto da loro presso l’OMS come forma di assistenza all’organizzazione. Questo è un po’ un caso rovesciato: Ranieri guerra è pagato dall’OMS ed è una specie di distaccamento dall’OMS all’Italia. In genere una delle regole fondamentali diciamo è: se tu mandi una persona della tua organizzazione, in genere si predilige il fatto che non sia del paese nella quale tu la mandi per evitare interferenze di qualunque tipo. Quindi è strana questa cosa, è oggettivamente abbastanza strana.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO È strana. Ma alla luce anche di quello che abbiamo scoperto grazie a queste e-mail, il ruolo di quella anomalia, Ranieri Guerra, è di evitare che una persona terza, imparziale, ficcasse il naso nella gestione della pandemia italiana. Ecco, crolla così la terzietà dell’OMS. L’abbiamo sentito dallo stesso ministro della Salute Speranza, il 30 gennaio, dopo che erano stati trovati positivi al virus i due turisti cinesi dire in parlamento: “Ranieri Guerra e l’OMS ci dicono di stare tranquilli, tra “i Paesi occidentali, l'Italia è quella più fornita e la più attenta”. Ma fornita di cosa? Che non avevamo neanche il piano pandemico aggiornato… Ci siamo risvegliati qualche giorno dopo con uno schiaffo, il virus, eravamo appestati e non ce ne eravamo accorti. Mancavano mascherine, mancavano dispositivi di protezione per i medici, mancavano caschi per l’ossigeno, sale di terapia intensiva, abbiamo trasformato le Rsa in cimiteri. Cinquantamila morti e oltre, una strage. State tranquilli, ci ha detto. In un contesto normale, un governo dovrebbe dire: dottor Guerra la ringraziamo per la collaborazione, prego si accomodi. E invece noi che cosa abbiamo fatto? Abbiamo dato un contributo volontario all’Oms, alla sua organizzazione, per dieci milioni di euro. In cambio di cosa? Quello che ci ha colpito è quello che ha scritto lo stesso Ranieri Guerra in una mail. Si vanta che, grazie ai suoi uffici, “L’Oms di Tedros è la consapevole foglia di fico delle criticate decisioni del governo italiano”. Lo scrive lui stesso. E su questo, dice, ci sarebbe anche un accordo personale con Tedros. In cambio cosa abbiamo ricevuto? Abbiamo ricevuto un bel video spottone sulle qualità del nostro governo nel gestire la pandemia e poi la possibilità, grazie a Ranieri Guerra, di poter continuare a silenziare quelle voci critiche all’interno dell’Oms anche sventolando come una clava quei 10 milioni di euro di contributo. Se critichiamo il governo italiano rischiano di saltare. Insomma, ha tentato di silenziare la verità dei fatti. Però in questo momento sta avvenendo una cosa che riteniamo molto più grave. La procura di Bergamo, che sta indagando per epidemia colposa e per falso, vuole vederci chiaro sulla vicenda del dossier e del piano pandemico. E ha convocato per ben due volte Ranieri Guerra e i ricercatori dell’OMS, tra cui anche Zambon. Solo che mentre Ranieri Guerra è andato a testimoniare a spese dell’OMS, sugli altri ricercatori l’OMS l’ha impedito. Sollevando il problema dell’immunità diplomatica. Ora, ma che senso della giustizia hanno lassù a Ginevra?
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Dopo la nostra inchiesta, Ranieri Guerra è stato interrogato per cinque ore dai magistrati di Bergamo. Ranieri Guerra non è indagato, ma quando esce dalla procura è quasi sera, e non ha più voglia di parlare.
GIULIO VALESINI Lei è venuto a testimoniare, ma gli altri collaboratori dell’Oms no: come mai?
RANIERI GUERRA – DIRETTORE AGGIUNTO OMS Non lo so.
GIULIO VALESINI Ma hanno chiesto l’autorizzazione al consolato e al ministero degli Esteri per la sua testimonianza, come per gli altri? Ma perché non risponde su questo? Senta ma le han chiesto almeno di dimettersi all’Oms?
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Ranieri Guerra dai magistrati si è presentato, eppure l’OMS pochi giorni fa ha spedito questa nota alla procura di Bergamo e ai ministri Di Maio e Speranza. L’OMS mostrava una certa irritazione nei confronti della procura lombarda. Ricorda che i suoi ricercatori e funzionari godono di immunità diplomatica e dunque non sarebbero tenuti a rispondere ai magistrati italiani. L’OMS ha invitato i ricercatori a non presentarsi davanti ai giudici anche contro la loro volontà di testimoniare.
GIULIO VALESINI Perché per lei non valeva l’immunità diplomatica, che invece vale per i ricercatori di Venezia? Lei lo ha detto, all’OMS, che a Bergamo è andato a testimoniare? L’immunità perché per lei non valeva e per loro sì? Perché loro non riescono ad andare a testimoniare, a dare la loro versione dei fatti? Non risponde?
FUNZIONARIA MINISTERO DELLA SALUTE In questo momento l'Italia è al centro di uno scontro istituzionale e diplomatico, di livello internazionale. GIULIO VALESINI Ma è per via dell'indagine della procura di Bergamo?
FUNZIONARIA MINISTERO DELLA SALUTE Esatto. I magistrati, oltre a Ranieri Guerra, avevano chiamato a testimoniare il 5 novembre anche gli autori del rapporto poi censurato. Ma l'OMS non vuole che si presentino e ha creato ostacoli. La procura allora ha fatto una seconda convocazione, stavolta tramite la Farnesina: per il 25 di novembre. Anche in questo caso l’OMS ha messo un veto, facendo intendere ai ricercatori che se fossero andati il loro posto di lavoro sarebbe stato a rischio!
GIULIO VALESINI E come fanno a fermarli? Ad essere di ostacolo per la giustizia italiana anche di fronte alle migliaia di morti che abbiamo avuto per il Covid in Italia?
FUNZIONARIA MINISTERO DELLA SALUTE L’OMS sta facendo scudo con la giustizia italiana invocando l'immunità diplomatica per tutti i suoi uomini. Legga, legga questa comunicazione che gira nei nostri uffici, l'OMS dice che preferiscono rispondere per iscritto. Si appellano ai trattati internazionali.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Uno dei ricercatori per i quali l’OMS ha sollevato l’impedimento a testimoniare per l’immunità diplomatica è Francesco Zambon, colui che aveva scritto che eravamo impreparati e che il piano pandemico era vecchio e risaliva al 2006. È colui che più di altri ha subito le minacce di Ranieri Guerra. Perché l’OMS sta impedendo che parli con i magistrati?
GIULIO VALESINI Dottor Zambon, Valesini, Report. Perdoni il disturbo. Perché non si è presentato in Procura? Lei è stato convocato due volte dai magistrati di Bergamo: il 5 novembre e il 25. Perché non ci è andato?
FRANCESCO ZAMBON - ORGANIZZAZIONE MONDIALE DELLA SANITÀ No, veramente non voglio rispondere a questa domanda.
GIULIO VALESINI Perché non ci è andato dai magistrati scusi? È stato chiamato due volte…non ci vuole andare lei?
FRANCESCO ZAMBON - ORGANIZZAZIONE MONDIALE DELLA SANITÀ Della seconda convocazione l’ho saputo solo il giorno prima. Io non lo sapevo. Quindi no…
GIULIO VALESINI Chi è che glielo avrebbe dovuto dire?
FRANCESCO ZAMBON - ORGANIZZAZIONE MONDIALE DELLA SANITÀ La procura o l’OMS. GIULIO VALESINI Ma lei ci vuole andare o no dai magistrati?
FRANCESCO ZAMBON - ORGANIZZAZIONE MONDIALE DELLA SANITÀ Se mi chiedono di andare e se posso andare certamente vado, senza dubbio.
GIULIO VALESINI Perché Ranieri Guerra è andato e lei no, scusi?
FRANCESCO ZAMBON - ORGANIZZAZIONE MONDIALE DELLA SANITÀ Questo non lo so. Non bisogna chiederlo a me.
GIULIO VALESINI Ma lei ha qualcosa da dire ai magistrati?
FRANCESCO ZAMBON - ORGANIZZAZIONE MONDIALE DELLA SANITÀ Mah, io la prima volta sono stato convocato come persona informata sui fatti. Se vogliono sentirmi io certamente vado. Adesso al momento non…
GIULIO VALESINI Io ho trovato questo, io so che l’OMS ha posto la questione diplomatica. Cioè ha detto che voi ricercatori avete l’immunità diplomatica in quanto dipendenti dell’Organizzazione Mondiale della Sanità.
FRANCESCO ZAMBON - ORGANIZZAZIONE MONDIALE DELLA SANITÀ I dipendenti hanno l’immunità diplomatica, sì…
GIULIO VALESINI Perfetto, quindi, dal mio punto di vista l’OMS sta ponendo degli ostacoli alla sua testimonianza. Dal mio punto di vista…
FRANCESCO ZAMBON - ORGANIZZAZIONE MONDIALE DELLA SANITÀ Guardi non lo so, perché io e Guerra siamo dipendenti alla stessa misura, i dipendenti hanno l’immunità.
GIULIO VALESINI E perché Guerra è andato e lei no?
FRANCESCO ZAMBON - ORGANIZZAZIONE MONDIALE DELLA SANITÀ Questo non glielo so dire.
GIULIO VALESINI Senta a me risulta un’altra cosa: che Guerra ha detto ai magistrati che il rapporto, quello famoso ritirato era pieno di inesattezze.
FRANCESCO ZAMBON - ORGANIZZAZIONE MONDIALE DELLA SANITÀ Questo assolutamente è una cosa che respingo fermamente al mittente. Il rapporto è stato scritto da una persona che ha scritto quattro rapporti mondiali sulla salute. Scrive su British Medical Journal, su Lancet. Assolutamente questa è una cosa inaccettabile, non è assolutamente pieno di inesattezze, e questa è una cosa che non è assolutamente possibile dire. GIULIO VALESINI Io ho evidenze che Ranieri Guerra ha fatto effettivamente pressioni perché lei, voi, avete detto che il piano pandemico italiano non era aggiornato ma che era stato semplicemente riproposto dal 2006, sempre lo stesso. Noi avevamo detto la verità.
FRANCESCO ZAMBON - ORGANIZZAZIONE MONDIALE DELLA SANITÀ Guardi, questo … ci sono state delle altre puntate di Report che hanno detto questo e io su questo veramente non voglio parlare. Non voglio commentare.
GIULIO VALESINI Lei ha subito pressioni?
FRANCESCO ZAMBON - ORGANIZZAZIONE MONDIALE DELLA SANITÀ Non voglio rispondere mi dispiace.
GIULIO VALESINI Lei si sente ancora sotto…rischia ancora il licenziamento? Ha paura?
FRANCESCO ZAMBON - ORGANIZZAZIONE MONDIALE DELLA SANITÀ Diciamo che è una situazione da maggio, certamente non è una situazione piacevole. Io… Sì, non so dove andrà a finire, nel senso che… sono tanti mesi, io sono stufo francamente.
GIULIO VALESINI È finito forse in qualcosa di più grande di lei?
FRANCESCO ZAMBON - ORGANIZZAZIONE MONDIALE DELLA SANITÀ Non lo so. Sicuramente in qualcosa sono finito. Ma non so in cosa.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Non è una sensazione piacevole, pensava di aver fatto semplicemente il suo lavoro. Si ritrova in una situazione più grande di lui. La procura di Bergamo che indaga per falso ed epidemia colposa, vuole vederci chiaro sulle responsabilità della diffusione del virus e l’incapacità a contrastarlo. E cioè vuole vederci chiaro sul piano pandemico e su quel dossier dell’OMS ritirato. Ha convocato per ben due volte i ricercatori dell’OMS. E anche Ranieri Guerra. Solo che mentre per Ranieri Guerra ha pagato le spese per andare a testimoniare per gli altri ha sollevato il muro dell’immunità diplomatica. Perché? Perché consente a Ranieri Guerra di andare a dire la sua senza avere il contraddittorio di quei ricercatori che lui stesso ha minacciato e ha tentato di silenziare? L’Oms dovrebbe essere terzo, un arbitro in questa vicenda. Invece è come quell’arbitro che è sul ring mentre ci sono due pugili blocca uno all’angolo e consente all’altro di picchiarlo in maniera indisturbata. In un tweet di pochi giorni fa Tedros ha auspicato di poter continuare la collaborazione con il governo italiano: bene siamo felici, dia il via libera alla testimonianza dei ricercatori perché sapere la verità su questa vicenda sarebbe già un passo importante. Poi bisogna anche capire da che parte stare. Il ministro della Salute Speranza e il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, ai quali è arrivata la comunicazione dell’Oms in merito all’immunità diplomatica, da che parte stanno? Dalla parte dei ricercatori e Zambon che rispondono solo a scienza e coscienza, e hanno cercato di raccontare la verità dei fatti, o dalla parte di chi ha cercato di dare una falsa rappresentazione della verità? Noi, per quello che conta, la nostra scelta di campo l’abbiamo già fatta.
RISPOSTA DELL’UFFICIO STAMPA DEL MINISTERO DELLA SALUTE Salve, le rispondiamo dall’Ufficio Stampa: a quanto ci risulta non si tratta di un documento ufficiale dell’OMS e non è mai stato trasmesso al Ministero della Salute che quindi non lo ha mai né valutato, né commentato. Ogni informazione in merito deriva da fonti non istituzionali. Per quanto riguarda la risposta al Covid-19, il piano dell’Italia è declinato nel documento “Prevenzione e risposta a Covid-19: evoluzione della strategia e pianificazione nella fase di transizione per il periodo autunno-invernale” realizzato da Ministero della Salute, Istituto Superiore di Sanità, Consiglio Superiore di Sanità, AIFA, INMI Lazzaro Spallanzani, Protezione Civile, Inail, Conferenza Stato Regioni, AREU 118 Lombardia, Fondazione Bruno Kessler (FBK), Struttura commissariale straordinaria per l’attuazione e il coordinamento delle misure occorrenti per il contenimento e contrasto dell’emergenza epidemiologica COVID-19 e altri. Il documento è disponibile sul sito internet del Ministero della Salute: salute.gov.it. Vorremmo precisare, inoltre, che per “piano pandemico” l’Oms, l’Ecdc e l’Italia fanno riferimento al Piano Pandemico Influenzale che è un documento pubblico consultabile sul sito del Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie ECDC (ecdc.europa.eu/en/seasonalinfluenza/preparedness/influenza-pandemic-preparedness-plans) e sul sito del Ministero della Salute (salute.gov.it/imgs/C_17_pubblicazioni_501_allegato.pdf). Attualmente è in corso l’aggiornamento del Piano presso la Direzione Generale della Prevenzione del Ministero della Salute. Come Ufficio Stampa del Ministero della Salute ricordiamo che l'Oms, l’Ecdc e le altre organizzazioni internazionali, come compete loro, definiscono gli standard e le strategie di contenimento raccomandate, in un costante confronto con tutti i Paesi membri. L'Italia, su numerosi aspetti legati alla sfida pandemica ha recepito, nelle misure adottate, le indicazioni di Oms ed Ecdc. L’Italia, attraverso un capitolo di spesa del Ministero della Salute, versa il contributo obbligatorio previsto e calcolato secondo le norme OMS. In applicazione della Notice of Assessment for the Biennium 2020-2021, l’Italia ha versato tale contributo per l’anno 2020, suddiviso parte in dollari e parte in franchi svizzeri: · USD $ 7.911.430,00 · CHF 8.077.570,00 · pari rispettivamente a € 7.257.526,83 e € 7.572.485,23 · per una somma complessiva di Euro € 14.830.012,06.
LE DOMANDE DI REPORT AL MINISTERO DELLA SALUTE - secondo una testimonianza che abbiamo raccolto, l’Oms si sarebbe prestato a fare da consapevole parafulmine a decisioni impopolari e criticate del ministro Speranza e del governo durante la prima ondata Covid. Su questo punto, chiediamo un commento al ministro Roberto Speranza. - chiediamo di conoscere l'elenco puntuale delle donazioni fatte dall'Italia all'Oms negli ultimi due anni, con le date e i relativi importi (e le eventuali destinazioni vincolate); – Il Ministro Speranza conosce il rapporto dell’Ufficio regionale europeo OMS intitolato “An unprecedented challenge - Italy’s first response to COVID-19”? Il Ministro ha letto e valutato i contenuti del documento? - Il Ministro è stato informato della sua rimozione improvvisa dal sito OMS dopo circa 24 ore dalla pubblicazione? Ne conosce le ragioni? – Al Ministro risulta che il rapporto sia stato rimosso perché ne emergeva un quadro oggettivo critico della “preparedness” italiana? – Qual è il commento del Ministro sulla rimozione del documento? – Al Ministro risulta sia stata ultimata la stesura di un piano pandemico aggiornato? – Esistono piani di gestione della pandemia in corso riservati o tutelati da confidenzialità?
La sempre più consapevole foglia di fico. PUNTATA DEL 07/12/2020 di Cataldo Ciccolella, Giulio Valesini, collaborazione di Norma Ferrara, Eva Georganopoulou e Alessia Pelagaggi. Report tornerà a raccontare con nuovi documenti esclusivi la vicenda del rapporto ritirato dall'Oms sulla gestione della pandemia in Italia che ha messo in imbarazzo i funzionari ai vertici dell'organizzazione mondiale della Sanità. Report ha pubblicato le email che provano le pressioni esercitate del direttore aggiunto dell'Oms Ranieri Guerra sui ricercatori di Venezia per far correggere prima della pubblicazione il rapporto indipendente e che hanno svelato come l'Organizzazione mondiale della sanità sarebbe diventata la "consapevole foglia di fico" per le decisioni criticate e impopolari del ministero della Salute. Il rapporto, ritirato poche ore dopo la pubblicazione, denunciava il mancato aggiornamento del piano pandemico in Italia, fermo al 2006, come aveva scoperto Report.
“LA SEMPRE PIÙ CONSAPEVOLE FOGLIA DI FICO” Di Giulio Valesini e Cataldo Ciccolella Collaborazione Norma Ferrara Eva Georganopoulou Alessia Pelagaggi Immagini di Alfredo Farina – Paolo Palermo Montaggio di Riccardo Zoffoli Grafica Giorgio Vallati.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Adesso vedremo invece un’altra vicenda, dove sapevano tutto anni prima. E sono stati con le mani conserte. GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Undici maggio. Poche ore prima della puntata di Report dedicata all’Oms e al mancato aggiornamento del piano pandemico. “Stasera andiamo sui denti di Report e non possiamo essere suicidi”. “Adesso blocco tutto con Soumya. Fammi avere la versione rivista appena puoi. Cosi non può uscire”. "Devi correggere subito".
RICERCATRICE – OMS Il rapporto faceva una fotografia impietosa della risposta italiana con aggettivi come "improvvisata, caotica, creativa".
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Un ricercatore ci confida che proprio intorno alla rimozione del dossier si è scatenato un conflitto all’interno dell’Organizzazione Mondiale della Sanità che ha coinvolto anche Roma, il ministero della Salute.
GIULIO VALESINI Io so che è successo anche qualcosa di molto più grave con Ranieri Guerra.
RICERCATRICE – OMS Ranieri Guerra ha minacciato pesantemente l’autore del rapporto: “O ritiri la pubblicazione o ti faccio cacciare fuori dall’Oms”.
GIULIO VALESINI Senta, il direttore generale dell’Organizzazione Mondiale, Tedros, conosce questa storia?
RICERCATRICE – OMS Sì, la conosce. Lo informò Hans Kluge, il capo della divisione europea.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Alla vigilia della pubblicazione del dossier critico nei confronti dell’Italia Ranieri Guerra ordina con tono minaccioso di modificare la vera data del piano pandemico, invece di quella reale del 2006, sul rapporto bisogna indicare un frontespizio con la data del 2016. Nonostante le pressioni del numero due dell’OMS i ricercatori di Venezia tengono duro e scrivono che il piano italiano risaliva al 2006.
FRANCESCO ZAMBON - ORGANIZZAZIONE MONDIALE DELLA SANITÀ Basta chiedere, che intervisti un responsabile degli ospedali “Ma lei aveva gli stock o no?”. Le risponderà: “No”. Ma di quanto era elastica la possibilità di espandere le terapie intensive? “Ok la mia terapia intensiva da 400 posti in Regione può andare a 800 posti, 200 di semi intensiva”: questi calcoli devono essere fatti. Perché un piano pandemico deve fare anche questo.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Nel carteggio inedito spedito a Report, Ranieri Guerra sembrerebbe il tessitore di una strategia che tende a coprire le inefficienze del nostro paese nell’affrontare il virus. Una strategia di cui lui appare il garante. Lui stesso scrive in un’e-mail che, grazie ai suoi uffici, l’Oms è la consapevole foglia di fico del governo italiano. È di fatto il parafulmine delle critiche al ministro Speranza durante la prima ondata Covid. Una strategia che Ranieri Guerra dice di aver concordato con il direttore generale Tedros. Anche per questo il dossier sarebbe stato ritirato: per non mettere in difficoltà il ministro italiano.
GIULIO VALESINI Dottor Guerra… allora, risponda a questa domanda: ci spieghi cos’è la strategia della foglia di fico e come ha fatto l’Oms a diventare da organismo tecnico indipendente delle Nazioni Unite alla foglia di fico del governo italiano? Risponda… Senta, a che titolo l’Italia ha dato un contributo volontario di 10 milioni di euro all’Oms? Lei chiese ai ricercatori di correggere il piano pandemico perché eravate finiti sui denti di Report, ce lo spiega questo? Lei di questa strategia della foglia di fico ne avrebbe parlato persino con Tedros? Perché non dovevamo urtare la sensibilità politica del ministro Speranza, dottor Guerra? L’Oms può diventare la foglia di fico di un governo, dott. Guerra, risponda. L’ha scritto lei. Sono morte 50mila persone, dottor Guerra… una risposta.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Ranieri Guerra con noi non parla, quello che però pensa di noi lo abbiamo letto sul suo profilo Facebook. Ci definisce gente indecente. Tuttavia in questi giorni non ha fornito alcuna spiegazione sui contenuti delle email che abbiamo pubblicato lunedì scorso. Mail dell’11 maggio scorso nelle quali emergevano pressioni fatte sui suoi ricercatori, quelli che avevano scritto il dossier che criticava la gestione italiana della pandemia. Ecco, non ha fornito spiegazioni sul perché ha chiesto di cambiare la data del piano pandemico, un piano pandemico vecchio, come avevamo scoperto noi di Report, del 2006, un copia incolla maldestro che è stato poi ripetuto e consegnato anche alle autorità. E poi non ha dato spiegazioni su quello che consideriamo l’aspetto più importante: perché ha scritto in una mail che grazie ai suoi uffici l’OMS è diventato la consapevole foglia di fico delle gestioni criticate del governo italiano della pandemia. Ecco, a tutto questo non ha dato alcuna risposta. Abbiamo provato a chiederlo anche al ministero della Salute che ci ha scritto sabato scorso attraverso l’ufficio stampa e ci dice che il dossier non è un rapporto ufficiale dell’OMS. Non ne sanno nulla. E non lo hanno mai ricevuto, né valutato. Ecco, pochi giorni dopo, però, il ministro Speranza è andato in un’altra trasmissione e ha raccontato una versione leggermente diversa dei fatti. I nostri Cataldo Ciccolella e Giulio Valesini però sono venuti in possesso di altre mail.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Nonostante la rimozione e le pressioni politiche, la pubblicazione del rapporto scritto dal team di Venezia, da un punto di vista scientifico era blindata.
RICERCATRICE – OMS COPENAGHEN In OMS c’è un comitato chiamato PRC, che poi è la squadra di Soumya Swaminathan, che dà il via libera alla pubblicazione dei documenti. Il rapporto sull’Italia era stato approvato, con la richiesta di modifiche minime, e certamente non di cambiare la vera data del piano pandemico. Insomma da un punto di vista tecnico il lavoro era ineccepibile.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO La prova è in questo documento arrivato a Report: è il verbale dell’11 maggio del comitato guidato da Soumya Swaminathan, il capo scientifico OMS: si legge che mentre altri lavori venivano bocciati, quello del team di Venezia riceveva il semaforo verde. Abbiamo chiesto proprio a Soumya Swaminathan, perché un rapporto appena approvato ai massimi livelli è stato poi ritirato, e se lei stessa ha cooperato al ritiro per motivi politici. Non ha negato il suo coinvolgimento, né si è dissociata da Guerra. E non sarà un caso che tra le deleghe affidate da Tedros a Soumya Swaminathan c’è anche quella di mitigare l’impatto politico dei documenti OMS! Il ministro Speranza con Report non ha voluto parlare della vicenda, ma poi giovedì su La7 risponde così alla domanda sul rapporto ritirato.
PIAZZA PULITA LA7 – 3/12/2020 ROBERTO SPERANZA – MINISTRO DELLA SALUTE Guardi, io ho visto questo documento di cui lei parla ed è un documento che non parla in nessun modo in maniera negativa dell’Italia. Dopodiché l’OMS che ha scelto autonomamente, senza alcuna pressione di alcun tipo di toglierlo dal proprio sito. E su questo è chiaro che l’OMS dovrà fare chiarezza. Quanto invece al piano antinfluenzale, a quello che viene detto piano contro le influenze, l’Italia aveva un piano che è stato approvato che è riscontrabile ancora sul sito del ECDC.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Il piano pandemico citato dal Ministro e pubblicato sul sito del Centro Europeo per il controllo delle malattie, riporta la data dell’aggiornamento al 2010, ma è sempre lo stesso. Il copia incolla di quello del 2006. E oggi scopriamo che tra OMS e Ministero, il dossier censurato era un argomento caldo.
RICERCATRICE- OMS COPENAGHEN Io so che a fine maggio Ranieri Guerra ha incontrato personalmente il presidente dell’Istituto Superiore di Sanità e poi il capo di gabinetto del Ministro della Salute per parlare del rapporto OMS. Peraltro lo stesso direttore europeo Kluge ne aveva parlato al telefono con il ministro Speranza per sistemare, diciamo, l’incidente diplomatico.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO È un dettaglio confermato da questo carteggio del 15 maggio, quando il rapporto è stato appena censurato dall’Oms. Kluge è preoccupato per la reazione del Ministro Speranza, tanto da scrivere “è la questione chiave, la mia relazione con il Ministro che era molto infastidito”, poi Kluge aggiunge “Scriverò al Ministro che istituiremo un gruppo di esperti Ministero/Istituto Superiore di Sanità/OMS per rivedere il documento”. Cioè, pur di ricucire il rapporto con Speranza, Kluge arriva a ideare una sorta di gruppo di revisione concordata del lavoro. Il problema quindi sarebbe soprattutto il contenuto del rapporto, non solo il mancato preavviso. E due giorni dopo David Allen, direttore delle Business Operations Europe di OMS, è molto esplicito sulla mancata ripubblicazione: “credo che la ragione del continuo ritardo sia assicurare che il governo padrone di casa abbia la possibilità di rivedere e fornire input”.
RICERCATRICE - OMS Consideri che il rapporto faceva una fotografia impietosa della risposta italiana con aggettivi come "improvvisata, caotica, creativa".
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Da quello che dicono, al Ministero il rapporto non gli sarebbe mai stato trasmesso.
RICERCATRICE- OMS COPENAGHEN Le ho già detto che ad aprile Ranieri Guerra diceva di aver parlato del rapporto al Ministro Speranza.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO E in effetti dalle e-mail riservate che abbiamo ottenuto, vediamo che il numero 2 dell’Organizzazione, il 14 aprile, se ne vantava con i ricercatori del team di Venezia.
MAIL RANIERI GUERRA 14 APRILE 2020 “Ti ho aperto un ́autostrada sulla narrazione, ma bisognerebbe anche condividere con Speranza un indice più aggiornato di quello che volete fare, così che benedica anche questa parte.”
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO La procura di Bergamo finora ha ascoltato solo la versione di fatti di Ranieri Guerra sentito dai magistrati per 5 ore. Per il ricercatore Francesco Zambon l’OMS ha sollevato per due volte l’immunità diplomatica alla testimonianza facendosi scudo sulla convenzione del 1947.
ANTONIO CHIAPPANI - PROCURATORE CAPO DI BERGAMO L’allegato 7 riguarda l’Organizzazione Mondiale della Sanità.
GIULIO VALESINI Il caso nostro.
ANTONIO CHIAPPANI - PROCURATORE CAPO DI BERGAMO Io leggo al punto “iii”: l’Organizzazione può e deve - c’è la parolina “deve” - revocare l’immunità concessa a un esperto in tutti i casi in cui ritenga che essa ostacoli l’azione della giustizia. È una valutazione che deve fare l’Organizzazione non l’autorità giudiziaria italiana e neppure il Governo italiano.
GIULIO VALESINI Lo spaccato che emerge da questa situazione è che il dottor Ranieri Guerra viene a testimoniare, a dare la sua versione, il dottor Zambon non può dare la sua versione: questa non è giustizia.
ANTONIO CHIAPPANI - PROCURATORE CAPO DI BERGAMO Questo bisognerebbe chiederlo al professore Ranieri Guerra.
GIULIO VALESINI E all’OMS!
ANTONIO CHIAPPANI - PROCURATORE CAPO DI BERGAMO E chiaramente all’OMS. Posso dire che formalmente nella lettera che l’OMS ha mandato al ministero degli Esteri non faceva alcun riferimento a Ranieri Guerra.
GIULIO VALESINI Secondo lei, a suo parere, l’Organizzazione Mondiale della Sanità sta ponendo un ostacolo oggettivo al corso della giustizia italiana in questo modo?
GIULIO TERZI DI SANT’AGATA - EX MINISTRO DEGLI ESTERI Io penso proprio di sì. Nella convenzione sulle immunità diplomatiche dei funzionari delle organizzazioni delle agenzie dell’Onu, delle Nazioni Unite, c’è, dopo gli articoli che sono stati citati, da Ginevra, non citano la sezione 23. Che dice: le organizzazioni, le agenzie delle Nazioni Unite si impegnano a cooperare sempre con le competenti autorità degli stati membri, per facilitare l’adeguata amministrazione della giustizia.
GIULIO VALESINI Non le sembra un atteggiamento grave, perché ostacolare la verità sull’origine anche della pandemia?
GIULIO TERZI DI SANT’AGATA - EX MINISTRO DEGLI ESTERI Non nasce un po’ a tutti l’impressione che un OMS a guida cinese in pratica, cerca di coprire qualsiasi elemento indiziario che possa suffragare, dimostrare che è vera la tesi che il virus è nato da errori fatti, da gravissimi errori fatti dal Governo cinese nel contenere e addirittura prima, nel prevenire la pandemia.
ANTONIO CHIAPPANI - PROCURATORE CAPO DI BERGAMO Abbiamo fatto una richiesta al ministero degli Esteri di interpretare o di dirci qual è l’esatta posizione Zambon ai fini della testimonianza.
GIULIO VALESINI Il ministero vi ha risposto?
ANTONIO CHIAPPANI - PROCURATORE CAPO DI BERGAMO Noi non abbiamo ancora, a tutt’oggi, ricevuto una risposta.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO La procura di Bergamo da mesi indaga per falso ed epidemia colposa. E nel rapporto censurato dall’OMS sta cercando molte risposte.
ANTONIO CHIAPPANI - PROCURATORE CAPO DI BERGAMO Io devo rispondere ad un perché di 3100 morti e 21 mila contagiati nel territorio di Bergamo. Che sono lo stesso numero dei morti delle Torri Gemelle credo, grosso modo.
GIULIO VALESINI Una strage.
ANTONIO CHIAPPANI - PROCURATORE CAPO DI BERGAMO Una strage.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO A Bergamo i parenti delle vittime intanto non aspettano e si preparano a citare in giudizio anche i vertici del governo.
LUCA FUSCO - PRESIDENTE COMITATO NOI DENUNCEREMO Stiamo praticamente depositando delle denunce in sede civile.
GIULIO VALESINI Quante?
LUCA FUSCO - PRESIDENTE COMITATO NOI DENUNCEREMO Attorno a 700. Verranno depositate a Roma perché chiaramente sono contro organi dello Stato. Non ci interessa che qualcuno vada in galera, ci interessa cambiare questo sistema che racconta bugie, che nasconde le cose.
ANTONIO CHIAPPANI - PROCURATORE CAPO DI BERGAMO C’era o no un piano pandemico, un piano di emergenza? È questo che stiamo valutando. E, andando alla ricerca di queste chiamiamole linee guida, di queste disposizioni, ma soprattutto di un piano di emergenza ci imbattiamo nella non esistenza di piani di emergenza.
GIULIO VALESINI Ma lei l’ha capito se esisteva?
ANTONIO CHIAPPANI - PROCURATORE CAPO DI BERGAMO …ride
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Una risposta può arrivare da questo documento del Ministero, di cui Report è venuto in possesso. È del settembre del 2017 ed è firmato dallo stesso Ranieri Guerra. Ammette la necessità di aggiornare il piano pandemico per poter affrontare una prossima pandemia.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO I magistrati di Bergamo vorrebbero sapere quale piano pandemico era stato attuato. Ecco insomma…. Quale piano pandemico? Il copia incolla del 2006 perché se noi siamo tra i paesi che hanno contato più morti in proporzione dei contagiati un motivo dovrà pur esserci. Ora, il dossier dei ricercatori dell’OMS certificava proprio la nostra inadeguatezza a fronteggiare il virus. Per ricostruire la vicenda, è importante seguire la cronologia dei fatti. L’11 maggio alle 9 e 30 circa, alle 9 e 13, Ranieri Guerra scrive ai suoi ricercatori. Hanno appena consegnato il dossier come vi mostriamo in questa mail esclusiva. Ranieri Guerra è entusiasta, dice avete fatto un lavoro fantastico, datemi 50 copie, voglio distribuirle all’interno del comitato tecnico scientifico, addirittura a tutti i dirigenti del ministero della Salute. Poi, poco dopo, cambia idea. Che cosa accade? Che si rende conto che su quel dossier c’era scritta la data esatta del piano pandemico. Risaliva al 2006. Sa che noi dobbiamo andare in onda la sera proprio denunciando questo fatto. Chiede, ordina ai suoi ricercatori, cambiate immediatamente quella data, non possiamo andare a finire sui denti di Report, non possiamo suicidarci, dice addirittura. Insomma, i ricercatori mantengono la schiena dritta, e minaccia di bloccare tutto, avvalendosi degli uffici del capo del dipartimento di tutti gli scienziati, la dottoressa Swaminathan. Noi abbiamo chiesto conto a lei, abbiamo detto: ma lei ha cooperato con Ranieri Guerra nella rimozione del dossier? E lei ci risponde attraverso OMS Europa, quel dossier era pieno di errori. Non si dissocia da quello che abbiamo detto, tuttavia non dicono forse la verità. Perché noi abbiamo mostrato la prova, nel corso dell’inchiesta di Giulio Valesini e Cataldo Ciccolella, che quel dossier era stato approvato per ben due volte. L’ultima proprio l’11 maggio. Insomma, forse la chiave dei motivi della rimozione di quel dossier vanno ricercati in un’altra mail. Quella del capo dell’OMS Europa Kluge che scrive: la questione chiave è la mia relazione con il Ministro, sottinteso ministro Speranza, che era molto infastidito. Ora il ministro Speranza ha detto in un’altra trasmissione di non aver fatto pressioni. Il suo ufficio stampa ha detto invece che quel dossier non era dell’OMS, che non è stato neppure valutato. Insomma… come se ne esce? Forse l’unico che potrebbe fare chiarezza è il ricercatore Zambon. Potrebbe andare a testimoniare alla procura di Bergamo, ma l’OMS ha sollevato il muro dell’immunità diplomatica. Ecco invece ha consentito che andasse a testimoniare, a dire la sua solo Ranieri Guerra. L’OMS dice, ma l’ha fatto a titolo personale. Non è vero perché Report ha la prova che le spese per la trasferta di Ranieri Guerra le ha pagate l’OMS. Insomma, adesso la procura ha chiesto anche una mano alla Farnesina e al ministero della Salute perché venga favorita l’audizione di… la testimonianza del ricercatore Zambon. Per quello che riguarda invece le minacce che Ranieri Guerra avrebbe fatto nei confronti di Zambon, minacce di licenziamento, l’OMS dice: è solo una divergenza di opinioni all’interno dello staff. Ecco, qualche divergenza di opinioni l’ha avuta anche con noi di Report, ha minacciato querela, ci definisce gente indecente, però non pretendiamo certo la sua simpatia, ma di conoscere effettivamente qual è il suo ruolo, visto che le sue decisioni ricadono sulla salute pubblica, quello sì. Anche perché è grazie al suo ruolo che lui si sente un intoccabile, lo dice chiaramente in una mail a Zambon. Intanto ancora siede lì, nel Comitato Tecnico Scientifico. E poi dice chiaramente: qualunque cosa accada, io rimarrò lì a garantire la mediazione con gli americani fino a quando non si sarà svolto il G20 in tema di salute. Ma a garantire chi?
Covid, c'era un'alternativa al lockdown. Ma Conte ha ignorato il piano. Lo studio inviato a marzo al premier e a Speranza. L'ipotesi "Case finding and mobile tracing". E quel "fattore s" che boccia il "modello Italia". Giuseppe De Lorenzo, Giovedì 12/11/2020 su Il Giornale. Esisteva un’alternativa al lockdown? Si potevano evitare le batoste inflitte all’economia e la crisi di interi settori? Con i “se” e con i “ma” non si fa la storia. Certo. Eppure qualcuno un’idea diversa ce l'aveva, frutto di un approfondito studio matematico. In poche parole: più tracciamento e meno chiusure indiscriminate, per evitare i decessi e salvare l'economia. Il suggerimento, firmato da sei autorevoli scienziati, è stato recapitato agli indirizzi di Giuseppe Conte e del ministro Speranza. Ma il governo lo ha sostanzialmente ignorato. All'origine vi è un paper scientifico, che ilGiornale.it ha avuto modo di leggere, firmato dai fisici Antonio Bianconi, Augusto Marcelli, Gaetano Campi e Andrea Perali. Studiando l’evoluzione dei casi di Covid-19 nelle prime fasi in Cina, Corea del Sud e Italia, lo scoro marzo gli studiosi hanno appurato che nel Belpaese “l’epidemia si sarebbe potuta fermare in tempi dell’ordine di 20 giorni”. Sarebbe bastato realizzare “test veloci, usando tecnologie di tracciamento dei contagi basata sui cellulari, e isolando le persone contagiose dalle loro famiglie”. Un “sistema alternativo di contenimento”, ben diverso dal lockdown, che gli autori chiamano “Case finding and mobile tracing” (CFMT). E che avrebbe avuto molta più efficacia di tanti dpcm. Per quantificare l'efficacia delle politiche di contenimento, i ricercatori hanno coniato - sulla base di calcoli complessi - un indicatore chiamato “fattore s”. Più basso è questo numero, migliore è la lotta alla pandemia. Va detto che in tutti e tre i Paesi i governi alla fine sono riusciti a frenare la corsa del virus. Nessuno lo mette in dubbio. Quello che la ricerca evidenzia è la “rapidità”, e dunque l’efficienza, delle misure adottate per “piegare” la curva dei contagi. I numeri parlano chiaro: la Cina si attesta a un valore pari a 9, la Corea del Sud a 5, mentre l’Italia è la peggiore con un “fattore s” a 31. Tradotto: la strategia coreana ha permesso di raggiungere l’obiettivo ben sei volte più rapidamente delle politiche messe in campo dal premier Conte. Il successo, dicono gli autori, deriva dal fatto che Seul ha subito “effettuato oltre 250mila test corrispondenti allo 0,5% circa della sua popolazione, identificando rapidamente un gran numero di infezioni asintomatiche che sono state messe in quarantena”. Il monitoraggio dei movimenti dei casi positivi, infatti, “è chiaramente correlato con l’arresto del tasso di crescita” dei contagi, mentre “il solo confinamento spaziale della popolazione”, come fatto dall’Italia, “non è sufficiente”. Più che un lockdown generale, quindi, servirebbero quarantene selettive e test mirati. Un modello che non solo può arrestare l'epidemia "in breve tempo (2τ = 14 giorni), come mostrato sia in Cina che in Corea", ma che può anche aiutare a "mantenere la diffusione dell'epidemia sotto la soglia, fermando così l'esplosione della crescita esponenziale come mostrato sia a Singapore che in Israele”. In Italia invece la politica sul contact tracing è stata piuttosto ballerina, come rivelato nel Libro nero del coronavirus. In principio il ministero prescriveva i tamponi col contagocce, poi il Veneto ha preso una via diversa, infine quasi tutti si sono convinti della bontà di tracciare i contagi. Ma in estate qualcosa è andato storto e in autunno il sistema è saltato del tutto. Un'occasione sprecata. “Questo studio - scrivevano infatti a marzo gli autori - suggerisce fortemente di estendere l'approccio del mobile tracking alle regioni italiane e ovunque nel mondo, in particolare quando il numero complessivo di persone contagiose è limitato e la diffusione del processo è nella fase pre-soglia (PTP) o nella fase di crescita vicino alla soglia”. L’Italia dopo l’estate si trovava insomma in una fase perfetta per applicare il modello "mobile", grazie al basso numero di infetti facilmente rintracciabili. Sarebbe stato necessario un uso più intelligente delle app di tracciamento (non come Immuni, diventata una barzelletta), un aumento massiccio dei test a tutti gli asintomatici (non le code ai drive in) e l'isolamento dei contagiati fuori dai contesti familiari per evitare cluster familiari e condominiali. Cosa è andato storto?
Per capirlo torniamo al 29 marzo. Quel giorno i quattro ricercatori, insieme ad Andrea Crisanti e Giampietro Ravagnan, inviano una lettera a Conte e Speranza per illustrare i risultati della ricerca. Le loro fatiche hanno prodotto un sistema alternativo al lockdown, utile non solo nel pieno della prima ondata ma anche per il futuro. E vogliono metterlo a disposizione. Sono anche disponibili a “fornire liberamente” il codice del programma sviluppato. Ma l'offerta viene ignorata. Perché? Domani ne parleremo con Bianconi e Ravagnan in una diretta, online dalle 15 sul Giornale.it, promossa da Eureca e moderata dal presidente Angelo Polimeno Bottai. I due studiosi ci spiegheranno perché secondo loro il mobile tracing avrebbe non solo ridotto le vittime, ma anche preservato il sistema produttivo. E magari proveremo a capire perché, nonostante quello studio, il Paese dopo un’estate di speranza ora si trova di nuovo sull’orlo del lockdown.
Documento top secret. Il Covid è falso allarme globale. Redazione su La Voce delle Voci il 3 Agosto 2020. Pubblichiamo questo articolo che circola negli Stati Uniti su un esplosivo Rapporto redatto nel maggio scorso da un team istituzionale di ricercatori tedeschi censurato dal governo della Merkel. Alla guida del team il ricercatore Stephen Kohn, costretto dal governo a lasciare l’incarico. L’articolo originale, che ci è stato segnalato da Umberto Pascali, è a firma del giornalista Daniele Pozzati. Funzionario tedesco fa avere confidenzialmente alla stampa il Rapporto che denuncia il Coronavirus come “un falso allarme globale”. Il governo federale tedesco e i media mainstream sono impegnati nel controllo dei danni dopo un rapporto che sfida la narrativa Coronavirus consolidata trapelata dal ministero degli interni. Alcuni dei passaggi chiave del rapporto sono:
La pericolosità di Covid-19 è stata sopravvalutata: probabilmente il pericolo rappresentato dal nuovo virus non ha mai superato il livello normale.
Le persone che muoiono per Coronavirus sono essenzialmente quelle che morirebbero statisticamente quest’anno, perché hanno raggiunto la fine della loro vita e i loro corpi indeboliti non possono più far fronte a qualsiasi stress casuale giornaliero (compresi i circa 150 virus attualmente in circolazione).
In tutto il mondo, nel giro di un quarto di anno, non sono stati registrati più di 250.000 decessi per Covid-19, rispetto a 1,5 milioni di decessi [25.100 in Germania] durante l’ondata di influenza 2017/18. Il pericolo ovviamente non è maggiore di quello di molti altri virus. Non ci sono prove che questo fosse più di un falso allarme.
Un rimprovero potrebbe seguire questa linea: durante la crisi di Coronavirus lo Stato si è dimostrato uno dei maggiori produttori di notizie false. Finora, così male. Ma peggiora.
Il rapporto si concentra sulle “molteplici e pesanti conseguenze delle misure Coronavirus” e avverte che queste sono “gravi”.
Più persone muoiono a causa delle misure della corona imposte dallo stato di quante ne vengano uccise dal virus.
Il motivo è uno scandalo in corso: Un sistema sanitario tedesco incentrato su Coronavirus sta posticipando la chirurgia salvavita e ritardando o riducendo il trattamento per i pazienti non-Coronavirus. Berlino in smentita. Gli scienziati reagiscono.
Inizialmente, il governo ha cercato di liquidare il rapporto come “il lavoro di un dipendente”, e il suo contenuto come “la sua opinione” – mentre i giornalisti hanno chiuso i ranghi, senza fare domande, con i politici. Ma il rapporto di 93 pagine intitolato “Analisi della gestione delle crisi” è stato redatto da un panel scientifico nominato dal ministero degli interni e composto da esperti medici esterni di diverse università tedesche. Il rapporto era l’iniziativa di un dipartimento del ministero degli interni chiamato Unità KM4 e responsabile della “Protezione delle infrastrutture critiche”. Questo è anche il luogo in cui il funzionario tedesco si è trasformato in informatore, Stephen Kohn, lavora (a cura di), e da dove l’ha diffuso ai media. Gli autori del rapporto hanno già pubblicato un comunicato stampa congiunto l’11 maggio, rimproverando il governo per aver ignorato la consulenza di esperti e chiedendo al ministro degli Interni di commentare ufficialmente la dichiarazione congiunta degli esperti: “Le misure terapeutiche e preventive non dovrebbero mai portare più danni della malattia stessa. Il loro obiettivo dovrebbe essere quello di proteggere i gruppi a rischio, senza compromettere la disponibilità di cure mediche e la salute di tutta la popolazione, come purtroppo si sta verificando”. “Noi nella pratica scientifica e medica stiamo vivendo i danni secondari delle misure Coronavirus sui nostri pazienti su base dialy”. “Chiediamo pertanto al Ministero federale dell’interno, di commentare il nostro comunicato stampa e speriamo in una discussione pertinente in merito alle misure [Coronavirus], che porti alla migliore soluzione possibile per l’intera popolazione”.
Al momento della stesura del documento, il governo tedesco non ha ancora reagito. Ma i fatti stanno – purtroppo – giustificando le preoccupazioni degli esperti medici. Il 23 maggio il quotidiano tedesco L’immagine si intitolava: “Conseguenze drammatiche delle misure corona: 52.000 operazioni di cancro ritardate”. All’interno, un medico inesperto avverte che “sentiremo gli effetti collaterali della crisi Corona per anni”. Sparare all’informatore. Ignorando il messaggio. Come riportato da Der Spiegel il 15 maggio: “Stephen Kohn [l’informatore] da allora è stato sospeso dal servizio. Gli fu consigliato di procurarsi un avvocato e il suo portatile da lavoro fu confiscato. “. Kohn in origine ha divulgato il rapporto il 9 maggio alla rivista liberale conservatrice Tichys intuendo uno dei media alternativi più popolari della Germania. La notizia del rapporto è diventata mainstream in Germania durante la seconda settimana di maggio – ma già nella terza settimana media e politici hanno smesso di discutere la questione rifiutandosi di commentarla. Emblematico è stato l’approccio adottato da Günter Krings, rappresentante del ministro degli Interni Horst Seehofer, il capo degli informatori: Alla domanda che avrebbe trattato seriamente il documento, Krings rispose: “Se inizi ad analizzare documenti del genere, molto presto inviterai i ragazzi con i cappelli di stagnola alle audizioni parlamentari”. Uomini in cappelli di stagnola – Aluhut in tedesco – è un termine usato per descrivere le persone che credono nelle teorie del complotto. In effetti un articolo di Der Spiegel che si rivolge al movimento di protesta Corona e le conseguenze del rapporto trapelato conteneva la parola “cospirazione” non meno di 17 volte! E nessuna discussione sulle questioni sollevate dal rapporto stesso. Fuori dalla Germania la notizia non è stata praticamente segnalata.
Il documento originale: 2KM 4 – 51000/29 # 2 KM4.
Analisi della gestione delle crisi (versione breve) Osservazione preliminare: il compito e l’obiettivo delle squadre di crisi e di qualsiasi gestione delle crisi è identificare i pericoli speciali e combatterli fino a quando non si raggiunge nuovamente la condizione normale. Uno stato normale non può essere una crisi. Sintesi dei risultati dell’analisi.
1. In passato (purtroppo contrariamente a una migliore conoscenza istituzionale) la gestione delle crisi non ha sviluppato strumenti adeguati per l’analisi e la valutazione dei pericoli. Le relazioni sulla gestione, in cui tutte le informazioni rilevanti ai fini del processo decisionale dovrebbero essere sintetizzate, trattano solo una piccola parte della gamma minacciosa di rischi nell’attuale crisi. Sulla base di informazioni incomplete e inadatte nelle immagini della situazione, non è generalmente possibile valutare il pericolo. Senza una valutazione del rischio correttamente valutata, non può esserci una pianificazione dell’azione adeguata ed efficace. Il deficit metodologico influenza un livello superiore ad ogni trasformazione; Fino ad ora, la politica ha avuto una probabilità notevolmente ridotta di prendere le giuste decisioni.
2. Gli effetti osservabili e gli effetti di COVID-19 non forniscono prove sufficienti per dimostrare che si tratta di qualcosa di più di un falso allarme in termini di effetti sulla salute sulla società nel suo insieme. Il nuovo virus presumibilmente non ha mai rappresentato un rischio per la popolazione che ha superato il livello normale (il dato comparativo è il normale tasso di mortalità in DEU). Corona essenzialmente uccide le persone che muoiono statisticamente quest’anno perché hanno raggiunto la fine della loro vita e i loro corpi indeboliti non possono più far fronte a uno stress quotidiano casuale (compresi i circa 150 virus attualmente in circolazione).
La pericolosità di Covid-19 è stata sopravvalutata. (Non più di 250.000 decessi con Covid-19 in tutto il mondo in un quarto di anno, rispetto a 1,5 milioni di decessi durante l’ondata di influenza 2017/18). Il pericolo ovviamente non è maggiore di quello di molti altri virus. Probabilmente avremo a che fare con un falso allarme globale che non è stato rilevato per molto tempo. – Questo risultato di analisi è stato verificato da KM 4 per verificarne la plausibilità scientifica e sostanzialmente non contraddice i dati e le valutazioni del rischio presentate dall’RKI.
3. Il fatto che il presunto falso allarme sia rimasto inosservato per settimane è essenzialmente dovuto al fatto che il quadro d’azione applicabile da parte della squadra di crisi e la gestione della crisi in una pandemia non contiene strumenti di rilevazione adeguati che innescano automaticamente un allarme e avviano l’immediata cessazione delle misure. non appena un’avvertenza di pandemia si rivela un falso allarme o è prevedibile che il danno collaterale – e in particolare le parti che distruggono la vita umana – minaccino di diventare più grandi della salute e in particolare del potenziale mortale della malattia in esame.
4. Il danno collaterale è ora superiore al beneficio apparente. Questa affermazione non si basa su un confronto tra danno materiale e lesioni personali (vita umana)! Un confronto tra decessi precedenti dovuti al virus e decessi dovuti alle misure protettive ordinate dallo stato (entrambi senza un database sicuro) conferma la scoperta. Di seguito è riportata una raccolta di tipo di danno collaterale relativo alla salute (compresi i decessi) che è stata verificata per plausibilità dagli scienziati.
5. Il danno collaterale (completamente non intenzionale) causato dalla crisi della corona è ora diventato gigantesco. Gran parte di questo danno si manifesterà solo nel prossimo e lontano futuro. Questo non può più essere prevenuto, ma solo limitato.
6. Le infrastrutture critiche sono le linee di vita vitali delle società moderne. Con le infrastrutture critiche, l’attuale sicurezza dell’approvvigionamento non viene più fornita come al solito a seguito delle misure di protezione (finora una graduale riduzione della sicurezza dell’approvvigionamento di base, che può riflettersi nelle situazioni di stress imminente, ad esempio). La resilienza del sistema globale altamente complesso e fortemente interdipendente di infrastrutture critiche è diminuita. La nostra società ora vive con una maggiore vulnerabilità e maggiori rischi di default delle infrastrutture vitali. Ciò può avere conseguenze fatali se si presenta una pandemia davvero pericolosa o un’altra minaccia al livello di resilienza ora ridotto di KRITIS. Il segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres ha sollevato un rischio fondamentale quattro settimane fa. Guterres ha dichiarato (secondo un rapporto del 10 aprile 2020): “Le debolezze e la preparazione inadeguata rivelate da questa pandemia forniscono informazioni su come potrebbe essere un attacco bioterroristico – e [queste debolezze] possono aumentarne il rischio.” Le nostre analisi sono una grave carenza della DEU, la mancanza di un adeguato sistema di analisi e valutazione dei pericoli in situazioni di crisi (vedi sopra).
7 . Le misure di protezione ordinate dallo stato, nonché le diverse attività e iniziative sociali che originariamente hanno causato il danno collaterale ma che ora hanno perso ogni significato, sono ancora ampiamente in vigore. Si raccomanda vivamente di eliminarli completamente a breve termine al fine di evitare danni alla popolazione – in particolare morti addizionali non necessarie – e stabilizzare la situazione potenzialmente precaria nell’infrastruttura critica. 8. I deficit e i fallimenti nella gestione delle crisi hanno conseguentemente portato alla trasmissione di informazioni errate e provocato così la disinformazione della popolazione. (Un rimprovero potrebbe essere: lo stato ha dimostrato di essere uno dei maggiori produttori di notizie false nella crisi della corona.)
Da questi risultati ne consegue che:
a) La proporzionalità delle interferenze con i diritti di es. Attualmente non ci sono cittadini perché lo stato non ha adeguatamente valutato le conseguenze. Il BVerfG richiede un’adeguata ponderazione delle misure con conseguenze negative (sentenza PSPP del 5 maggio 2020).
b) I rapporti sulla situazione della squadra di crisi BMI-BMG e i rapporti dello stato federale agli stati federali devono quindi immediatamente condurre un’analisi e una valutazione dei rischi adeguate. o contenere un dipartimento aggiuntivo con dati significativi sui danni collaterali (vedere ad es. spiegazioni nella versione lunga) e sono privi di dati e informazioni non necessari che non sono necessari per la valutazione dei pericoli perché rende difficile mantenere una visione d’insieme. o Le figure chiave dovrebbero essere formate e posizionate di fronte.
c) Un’analisi e una valutazione dei pericoli appropriate devono essere eseguite immediatamente. Altrimenti lo stato potrebbe essere responsabile per eventuali danni subiti.
4 Spiegazioni per una migliore comprensione delle interdipendenze in una pandemia Una pandemia grave è molto rara e quindi una grande sfida. Le autorità responsabili devono far fronte a una situazione di crisi per la quale non esiste esperienza. I dipartimenti di emergenza, i piani di pandemia e altri quadri organizzativi e legali per combattere la pandemia sono regolarmente sviluppati nel dipartimento BMI dell’IMC e nel BBK (insieme ad altre autorità come l’IRC, in alcuni casi guidati dal partner della cooperazione). In passato, occasionalmente sono stati condotti studi sullo scenario pandemico, sono stati eseguiti meno frequentemente esercizi su larga scala e sono state condotte analisi di rischio dettagliate anche meno frequentemente. Ma tutto questo lavoro potrebbe offrire poco più che un quadro approssimativo nell’attuale crisi. Perché una buona gestione delle crisi senza intoppi richiede soprattutto molta esperienza in situazioni di crisi e di esercizio simili e il costante miglioramento delle condizioni quadro. Nel settore dei vigili del fuoco e dei servizi di salvataggio, questo è stato continuamente ottimizzato nel corso degli anni. In caso di pandemia, non è possibile costruire una routine, il che significa che la maggior parte degli attori sarà scarsamente preparata e sopraffatta e che la gestione delle crisi farà errori. Il punto di partenza di un intervento di crisi è sempre l’esistenza di una situazione di rischio speciale. Identificazione di una situazione di pericolo speciale (pandemia) L’identificazione di una situazione di pericolo speciale non presuppone necessariamente che si sia già verificato un danno. In caso di sospetta pandemia, viene effettuata una valutazione di possibili danni che potrebbero verificarsi senza misure di protezione. Questa stima deve… (…)
La resa dei conti interna al mondo scientifico nel dopo Covid. Mauro Indelicato , Sofia Dinolfo su Inside Over il 5 novembre 2020. Dilaga il coronavirus e, con esso, anche la confusione nel mondo scientifico e, di conseguenza, fra i cittadini che un giorno seguono la linea espressa dai più ottimisti e, un altro, il filone dei pessimisti. Il settore scientifico risulta diviso e questo accresce le perplessità di tutti in merito a come affrontare la propria quotidianità con il virus. La spaccatura dai piani alti della scienza ha la conseguenza di favorire nel popolo la libera interpretazione circa la pericolosità del coronavirus. Una situazione questa che fa pensare a cosa accadrà nel post pandemia, con domande che sorgono spontanee: alla fine dell’emergenza sanitaria ci sarà una resa dei conti nel mondo scientifico per accertare eventuali responsabilità sulla confusione?
Le notizie non univoche.
Da quando è esplosa la pandemia la maggioranza della popolazione si è incollata ai televisori ascoltando una vasta moltitudine di pareri. Ma di fondo c’era e c’è tutt’oggi un problema: la mancanza di un’informazione univoca. E che questa lacuna arrivi proprio dal mondo scientifico è un aspetto che ha un impatto rilevante fra i cittadini i quali, di conseguenza, preferiscono prendere scelte in modo autonomo nonostante l’esistenza dei protocolli anti Covid. C’è così chi, per troppa paura, si isola da tutti e chi, invece, su una linea del tutto opposta adotta comportamenti poco prudenti. Poi c’è anche la linea estrema dei negazionisti che negano appunto la presenza della pandemia e la necessità delle conseguenti misure di sicurezza per prevenirne i casi di contagio. La comunicazione mai come adesso ha acquisito un ruolo di fondamentale importanza ed invece, proprio in questa fase, sembra si stia manifestando impreparata. Una giustificazione poteva essere accettata ad inizio pandemia, quando il mondo è stato travolto dalla morsa del virus. Ma adesso, dopo la tregua estiva che doveva consentire di fare il punto della situazione con una strategia condivisa da tutti, la situazione appare peggiore di quella della scorsa primavera. Che la mancanza di una comunicazione unitaria sia stata determinante lo ha confermato gli scorsi giorni lo studioso Pierluigi Fagan su InsideOver: “Sin dall’inizio c’è stato un grosso problema di comunicazione. Su tutti i canali televisivi – ha detto l’esperto di comunicazione – ci sono stati e ci sono epidemiologi, virologi, che esprimono il loro punto di vista alimentando diversi pensieri, in alcuni casi contrapponendosi. Manca una comunicazione centrale, affidabile e credibile espressa in termini semplici ma diretti verso la popolazione in modo da far capire veramente il problema”.
“L’Oms un organismo più politico che scientifico”.
Quanto accaduto in questi mesi potrebbe aver avuto conseguenze anche all’interno dello stesso mondo scientifico. L’arrivo della pandemia ha evidenziato come qualcosa evidentemente non sia andata per il verso giusto. A partire dal ruolo e dalle responsabilità dell’Organizzazione Mondiale della Sanità: “Quando tutto questo sarà finito – ha dichiarato a InsideOver il virologo Massimo Clementi – Occorrerà capire cosa è successo in Cina e perché l’Oms si è mossa così in ritardo”. Una posizione, quella del professore del San Raffaele, che è arrivata anche da un’oggettiva constatazione: “Nel 2009, in occasione dell’epidemia da A/H1N1, ci si è mossi per tempo – ha fatto notare Clementi – Oggi no. Forse perché oggi l’Oms è più un organismo politico che scientifico”. E del resto dubbi sull’operato dell’organizzazione sono stati avanzati da più parti negli ultimi mesi. A partire dall’ambito politico, con in testa il presidente Usa Donald Trump che ha più volte accusato l’Oms di aver nascosto i veri dati su pressione della Cina. Nel Libro Nero del Coronavirus di Andrea Indini e Giuseppe De Lorenzo è stato messo in evidenza come tra gennaio e febbraio i delegati dell’Oms abbiano più volte elogiato gli sforzi cinesi per il contenimento dell’epidemia, senza rilevare grandi criticità. Osservazioni però ben smentite dai fatti, visto che il virus non è stato affatto contenuto e si è dovuto attendere l’11 marzo per dichiarare la pandemia. In quel momento il Covid era già diffuso in buona parte del pianeta. A gettare ulteriore sospetto sulle azioni dell’Oms in Cina, anche la figura del segretario Tedros Adhanom Ghebreyesus. Eletto al vertice dell’organizzazione nel 2017, da ministro degli Esteri dell’Etiopia, come raccontato da Gian Micalessin su IlGiornale, è risultato molto vicino alla Cina e anche sulla sua nomina ci sarebbe lo “zampino” di Pechino. Da qui le critiche verso la sua azione, ritenuta profondamente orientata verso gli interessi cinesi soprattutto a inizio emergenza.
Le tensioni interne al mondo scientifico.
Ma non è soltanto l’Oms ad essere potenzialmente nel mirino di una possibile vera e propria resa dei conti all’interno del mondo scientifico. L’impressione è che la comunità scientifica al momento si sforzi di apparire compatta soltanto perché impegnata a combattere contro il nemico comune rappresentato dal coronavirus. Una volta terminata l’emergenza però, i nodi potrebbero salire tragicamente al pettine. Un buon numero di virologi sta iniziando a chiedersi se forse non sia il caso di fare “mea culpa”, usando ancora una volta le parole di Maurizio Clementi. Questo perché le avvisaglie su una possibile pandemia c’erano tutte e da tanti anni. Eppure non si è riusciti a intervenire per tempo. La Sars del 2003 e la Mers del 2012 non sono servite da monito, le lezioni di quelle epidemie non sono state imparate. Forse i focolai spenti relativamente presto hanno repentinamente fatto passare le paure, portando quindi a una fatale sottovalutazione del problema. Fatto sta che quando il coronavirus è arrivato ci si è fatti cogliere di sorpresa, a livello sia politico che scientifico. E c’è già chi ha iniziato a pensare al dopo emergenza, quando da più parti si chiederà conto delle responsabilità dell’attuale situazione e dei disastri procurati dal non controllo della pandemia. In poche parole, non è dato sapere se il mondo post Covid sarà o meno uguale a quello di prima, mentre è assai probabile che il panorama scientifico subirà scossoni molto profondi.
Coronavirus, non tutti i dati sono pubblici. E questo è un problema per la scienza (e per noi). Le Iene News News il 05 novembre 2020. Dall’Accademia dei lincei alla Società italiana di statistica, sono mesi che gli scienziati che chiedono al governo di rendere pubblici tutti i dati sul coronavirus. Il presidente Conte l’ha chiesto all’Istituto superiore di sanità. Ma perché è importante?
“Ho chiesto al ministero della Salute e anche al direttore dell’Iss di condividere i dati del monitoraggio. Vogliamo che siano accessibili alla comunità scientifica e a tutti i cittadini”. Finalmente ieri il presidente del Consiglio Conte è intervenuto sulla questione dei dati. È da mesi, infatti, che la comunità scientifica chiede al governo che i dati epidemiologici siano pubblici. È sulla base di questi, categorizzati in 21 indicatori, come la percentuale di tamponi positivi e i ricoveri in ospedale, che l’Italia è stata divisa in regioni gialle, arancioni e rosse. E sulla base dei colori, che segnano il diverso tipo di allarme, si decidono le chiusure di ristoranti, bar e attività commerciali. I dati vengono raccolti dalle Regioni, che poi li trasmettono all’Istituto superiore di sanità. Il fisico Giorgio Parisi è stato uno dei primi a chiedere che tutti questi dati siano pubblici e a giugno l’Accademia dei lincei di cui è presidente ha pubblicato un appello rivolto al governo. Un esempio su tutti sono i dati delle terapie intensive: sappiamo quanti sono in terapia intensiva, ma non sappiamo quanti entrano e quanti escono. In Francia, per dire, questi dati si trovano in rete. Andrea Crisanti, il virologo dietro al successo del modello veneto, in un’intervista a La Stampa ha messo in guardia: “le Regioni potrebbero truccare i numeri per evitare il lockdown”. E Salvini si è spinto a dire che i dati su cui si basa il nuovo dpcm “sono inaffidabili”, e “sono vecchi di dieci giorni”. Quello della tempestività dei dati è un vero problema per la gestione dell’epidemia. “In Germania la stima delle persone che sono contagiate si riesce a fare con tre quattro giorni di ritardo e non dieci, quindi c’è una stima fresca sull’andamento dell’epidemia”, spiega Parisi a Giulia Innocenzi. Il nuovo dpcm che entrerà in vigore domani si baserebbe sui dati raccolti fino al 25 ottobre, che è la data in cui Conte ha firmato lo scorso dpcm. Quindi come facciamo a sapere se le misure già adottate in alcune regioni, come il coprifuoco e la chiusura di bar e ristoranti alle 18, hanno avuto effetto? “Non abbiamo nessuna certezza che queste misure servano a niente”, spiega Enrico Bucci, professore associato della Temple university di Philadelphia. “I dati che noi abbiamo sono inutili”. Per esempio l’Rt, che indica quante persone mediamente un infetto infetterà, che secondo Bucci quello pubblicato dall’Iss “è una fandonia”. “È calcolato sui sintomatici con un ritardo di due settimane e non rende conto dell’andamento epidemico. Gli unici dati che per ora funzionano sono i dati di riempimento degli ospedali”. Il problema è che con i dati che abbiamo a disposizione non è chiaro da dove si propaghi il virus. Per esempio, la chiusura dei ristoranti è una misura efficace oppure no? “Questo non lo sa nessuno al mondo in realtà”, risponde il professor Parisi alla Innocenzi. “Il luogo più importante per la diffusione del virus sono i mezzi pubblici, secondi i ristoranti, terzo il lavoro”. Purtroppo però nessun paese sta raccogliendo i dati per sapere, per esempio, “quanto tempo ciascuna persona positiva ha passato in autobus, che lavoro fa e così via…”, spiega Parisi. Che dall’inizio della pandemia continua a chiedere la disponibilità dei dati. Quelli dell’Istituto superiore di sanità “sono sotto forma di grafico e non sotto forma digitale. Una cosa è vedere una bella figura e una cosa è studiarli scientificamente”. Anche Marco Cappato, leader dell’Associazione Luca Coscioni, chiede “un unico database nazionale dove convergano i dati, e che siano pubblicati in formato aperto e disaggregati, per consentire a ciascun ricercatore di fare le proprie ricerche utilizzando liberamente quei dati”. Dalle pagine del Corriere della sera due ex presidenti dell’Istat, Giorgio Alleva e Alberto Zuliani, hanno chiesto “un sistema di raccolta di dati che consenta un monitoraggio accurato”. E cioè basterebbero 10.000 tamponi a settimana su un campione statistico ben fatto, così da verificare in tempo reale come sta andando la diffusione del virus. Ora anche Conte chiede che vengano resi pubblici tutti i dati sul coronavirus. Se non dovesse succedere l’associazione Luca Coscioni è pronta a chiedere “a chiunque abbia la disponibilità di quei dati grezzi di inviarceli, noi li verificheremo e li daremo a disposizione del pubblico”. Un vero e proprio invito ai delatori da parte di Marco Cappato, in favore della scienza e di tutti noi cittadini. Anche perché il disagio e la violenza nascono se i cittadini non sanno se i loro sacrifici portano a dei risultati misurabili.
Il sistema sanitario italiano è collassato perchè non esisteva un piano pandemico. Claudio Marincola su Il Quotidiano del Sud il 5 novembre 2020. Altro che modello da seguire, altro che esempio virtuoso di contrasto al Covid-19. È vero esattamente il contrario. È scritto nero su bianco in un report di 102 pagine redatto in lingua inglese dall’Ufficio regionale europeo dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms). L’Italia s’è fatta cogliere impreparata. Non aveva un piano nazionale anti-pandemico aggiornato. Ha risposto in modo «improvvisato, caotico e creativo». I contrasti tra governo e regioni hanno ritardato i provvedimenti di restrizione e giocato a favore della diffusione del virus alimentando la paura di quanti nel febbraio scorso guardavano al nostro Paese e generando panico nel mondo intero. Il dossier è firmato da dieci esperti coordinati da Francesco Zambon, coordinatore dell’Ufficio europeo di Venezia. Con impietosa cronologia e senza troppi giri di parole, si ricostruiscono i giorni della prima ondata. Si racconta come la nostra sanità sia collassata già nei primi giorni, quando nei magazzini dei nostri ospedali erano terminate le scorte. Un allarme messo a tacere che se avesse suonato ci avrebbe fatto trovare più pronti in vista della seconda ondata. Il documento – la cui esistenza è stata svelata dagli inviati di Report, nell’ultima trasmissione in onda lunedì scorso su RaiTre – era scomparso. Era stato regolarmente inviato al Regional office di Copenaghen e visionato da Soumya Swaminatham, l’indiana che guida il gruppo di scienziati del World Hearth organization. Era scomodo. Descriveva un’Italia inguardabile ma era scomparso, fatalmente, da tutti i radar. Non pervenuto. Il documento parte da una premessa. Il ministro della Salute e le Regioni nel 2017, anno della scadenza, non hanno aggiornato (uptaded) un nuovo piano anti-pandemico ma sic simpliciter riconfermato (reconfirmed). Un copia e incolla del vecchio piano risalente addirittura al 2008. Eppure, una disposizione Ue, nel 2013, alla luce di quanto era accaduto per la diffusione della epidemia aviaria, aveva richiesto l’aggiornamento come requisito essenziale. Non avere piani pandemici vuol dire rimanere senza reagenti e tamponi. Non poter tracciare il contagio, non raccogliere sufficienti informazioni dai territori.
SOLO TEORIE. Mai tenero, anzi durissimo sulla dissennata gestione italiana della pandemia, il dossier sin dalle prime pagine chiarisce che alle enunciazioni del nostro governo e dei nostri governatori regionali quasi mai è seguita una conseguenza. «Un piano – si legge – più teorico che pratico, con pochi investimenti e molte dichiarazioni di intenti. Destinato perciò a non incidere con misure concrete». Dispositivi sanitari carenti, esercitazioni e simulazioni mai fatte. Un quadro in cui è persino difficile distinguere tra le responsabilità del ministero della Salute e le corresponsabilità dei presidenti delle Regioni. Test che variavano da regione a regione, senza un protocollo che chiariva come farli, dove e quando. Con misure di prevenzione scattate in ritardo, quando «le autorità erano già in allerta e sapevano che l’epidemia circolava in Italia». Più che un documento – verificato rigo per rigo si premette nell’introduzione – suona come un atto d’accusa. Un atto che a quanto pare potrebbe avere sin dai prossimi giorni conseguenze sul piano giudiziario. «Nonostante lo stato di emergenza – si legge ancora nel documento degli esperti Oms, la vita delle persone, dal 31 gennaio – giorno in cui una coppia di cittadini cinesi risultò positiva e fu posta in isolamento in un albergo romano – è andata avanti senza troppe conseguenze. Anzi, la carenza di comunicazioni corrette ha ingenerato la convinzione che si potessero mantenere comportamenti “poco prudenti”. Nel dossier si fa riferimento alle iniziative “Bergamo non si ferma”, “Milano non si ferma”, “Brescia non si ferma”. Tre aree che senza una giusta informazione sarebbero poi state praticamente votate al martirio.
IL MINISTERO DELLA SALUTE IGNORAVA IL NUMERO DEI POSTI LETTO. Dal verbale del Cts del 29 febbraio, ad un mese dunque dalla dichiarazione dello stato di emergenza, viene fuori che il ministero della Salute non sapeva ancora con certezza il numero dei posti letto nelle rispettive regioni. Figuriamoci quello delle terapie intensive. Un piano pandemico aggiornato sarebbe servito a questo. Avrebbe permesso lo stoccaggio dei Dpi per gestire l’emergenza nella prima fase secondo il principio Test race isolate. L’Italia è stato il primo Paese europeo in cui si è diffuso il virus. Ma quando il Covid 19 ha fatto il suo ingresso ufficiale, il nostro sistema sanitario, considerato tra i più validi, è collassato. Un cedimento strutturale. La segretezza dei verbali del Cts e il timore di generare ondate di panico hanno determinato una mancanza di trasparenza. Dire al mondo che non avevamo mascherine, che mancavano i ventilatori polmonari, che non c’erano reagenti, che molti pazienti risultavano falsi negativi, che le regioni partecipavano alle aste in concorrenza tra loro, avrebbe moltiplicato la paura e affondato l’immagine del Paese. Per non parlare del caos causato dalle ordinanze. Mascherina facoltativa, mascherina obbligatoria, guanti sì, guanti no, con gli addetti dei supermarket – citiamo il documento – costretti «a riusare le mascherine monouso e i guanti per trasmettere un falso senso di sicurezza». La controversia governo-regioni in un momento in cui l’unica risposta possibile doveva venire da un’unica cabina di regia centralizzata è la classica ciliegina sulla torta.
IL DECRETO SEGRETO: PER DUE SETTIMANE ABOLITO “IL FREEDOM INFORMATION ACT”. In questo quadro confuso e sparso, in cui ogni equilibrio era saltato, il Dipartimento di Protezione civile ha assunto il controllo per supportare il presidente del Consiglio ma limitando di fatto le autonomie regionali. Il diverso potere di intervento – leggiamo ancora nel documento – ha generato uno scontro tra potere centrale ed enti locali. Uno scontro riverberato sui social media. Ogni regione ha deciso “indipendentemente quali dati condividere” e quali nascondere. Morti di Covid spacciati per altre patologie di tipo influenzali. Il governo alla fine di marzo ha sospeso perciò il “Freedom of information act”, la possibilità di accedere ai dati della pubblica amministrazione, ripristinandolo solo il 15 aprile. Un atto inedito, passato inosservato o sottaciuto, alla stregua di un Paese in guerra. Un altro buon motivo per spiegare la misteriosa scomparsa del dossier.
Giusy Caretto per startmag.it il 2 novembre 2020. L’Italia non aveva un piano pandemico (aggiornato) a gennaio 2020. Ecco perché la risposta del Governo e del sistema sanitario al Covid-19 è stata confusa, improvvisata ed inadeguata. Il rapporto in cui si smascherano magagne e incertezze italiane in tema sanità è “Una sfida senza precedenti, la prima risposta dell’Italia al Covid”, realizzato da un gruppo di dieci ricercatori e firmato dal direttore regionale dell’Oms per l’Europa Hans Henri P. Kluge. Quel rapporto, però, sul sito dell’Oms resta per meno di 24 ore, prima di sparire e lasciare posto agli elogi al nostro Paese per quanto fatto. Tutti i dettagli tratti da un’inchiesta di Report su Rai3. Partiamo dal principio. Il 13 maggio scorso è finito sul sito dell’Organizzazione Mondiale della Sanità un rapporto dal titolo “Una sfida senza precedenti, la prima risposta dell’Italia al Covid”. In 100 pagine, 10 ricercatori che lavorano presso il distaccamento dell’Oms, in un palazzo storico di Venezia, hanno fotografato la risposta italiana alla pandemia. Quella che ne viene fuori è però una fotografia impietosa. L’Italia era impreparata: i ricercatori confermavano che il nostro Paese non aveva un piano pandemico aggiornato ed adeguato. L’obbligo di avere un piano per eventuali pandemia veniva assolto riconfermando un piano del 2006, come dimostrato da Report, programma di Rai3. In quel piano vecchio ed inadeguato, sostiene la trasmissione, c’era scritto di fare entro il 2006 le scorte di anti-virali. Il dossier sosteneva che medici ed infermieri si contagiavano perchè mancano i dispositivi di protezione e racconta anche i garndi ritardi sui tempi di reazione delle autorità sanitarie, con una guida che è arrivata solo dopo diverso tempo. “Come dire, Ministero della Salute e Regioni non pervenuti”, sostiene il servizio di Report. “L’Italia ha uno dei sistemi sanitari più forti, ma quando il Covid-19 è arrivato alle sue porte, il sistema italiano ha sfiorato il collasso. E questo ha creato il panico nel mondo. Al termine della prima fase ed entrando in una fase di transizione verso la cosiddetta normalità, è tempo che l’Italia rifletta sulla sua riposta”, scrive il quel rapporto il direttore regionale dell’Oms per l’Europa Hans Henri P. Kluge. La pessima immagine dell’Italia, però, rappresentava la realtà dei fatti. “Ho visto questo report, mi è sembrato fatto bene, è molto interessante. Una descrizione quasi in tempo reale, cosa che raramente succede con i documenti scientifici”, ha detto Stefanai Salmaso, ex direttrice del Centro Nazionale di Epidemiologia a Report. “Descrive letteralmente quello che è successo”. Il rapporto Oms, però, viene censurato. Quel documento, sul sito dell’Oms, è rimasto meno di 24 ore. E a denunciare la scomparsa, in piena emergenza sanitaria, era stato Luca Fusco, il presidente del Comitato “Noi denunceremo” che assiste le famiglie delle vittime del Covid-19. Il documento scomparso, sostiene Report, “imbarazzava il pesce grosso” Ranieri Guerra, ex direttore del ministero della Salute oggi direttore aggiunto dell’Oms. Il compito di aggiornare il piano pandemico spettava al Dipartimento Prevenzione del ministero. Tra il 2014 e il 2017, ha raccontato Report nelle scorse puntate, a guidarlo c’era Ranieri Guerra. Guerra ad inizio marzo era stato inviato a Roma per volere del direttore generale Oms, Tedros Adhamon Ghebreyesus, in supporto al governo contro l’emergenza Covid-19, ma proprio sotto la sua direzione, come si legge in questo articolo di Start Magazine, i piani non sono stati aggiornati né le autorità sanitarie hanno pensato di fare stock di mascherine e altri Dpi per fronteggiare l’epidemia. Guerra che, incalzato dalle domande di Report sulla vicenda, risponde con una grassa risata e con un “Ancora questa storia? E vabbè. Andate avanti così”. E poi: “L’obbligo era di avere un piano. Il piano c’era?”, dice Guerra.
Gestione della pandemia in Italia, il mistero del dossier dell'Oms sparito. Un documento analitico che criticava la gestione italiana dell’emergenza. Carenza di personale, scorte di mascherine esaurite, terapie intensive intasate. Medici e pazienti al martirio. Claudio Marincola su Il Quotidiano del Sud il 4 novembre 2020. Il mistero del dossier scomparso. C’è anche questo nel vortice di sospetti e indagini avviate dalla magistratura sul collasso della sanità nazionale e in particolare lombarda e i morti della bergamasca. Un documento che criticava in modo analitico la gestione italiana della pandemia prodotto della divisione europea dell’Oms che ha sede a Venezia. Una struttura considerata fino a ieri un fiore all’occhiello. Era stato redatto da dieci ricercatori e firmato dal responsabile Francesco Zambon, coordinatore dell’Ufficio regionale per l’Europa. È sparito. Era stato inviato alla sede Oms di Copenaghen e alla sede di Ginevra. Si è dissolto. Conteneva riferimenti precisi, dettagliati, sul mancato aggiornamento del Piano pandemico italiano e sull’inosservanza delle regole basilari di contenimento dell’infezione. Un preciso atto d’accusa che chiama in causa il numero 2 dell’Oms, Ranieri Guerra e membro del Cts. Ma poiché il diavolo fa le pentole ma non i coperchi, ecco che una manina segreta lo ha fatto avere alla redazione di Report, la stessa che nell’aprile scorso aveva condotto un’inchiesta sul mancato aggiornamento del piano pandemico nazionale rimasto quasi identico alla formulazione del 2008. Carenza di personale, scorte di mascherine esaurite in pochi giorni, terapie intensive intasate. La prova che medici e pazienti sono andati al martirio senza possibilità di scampo in assenza di un piano aggiornato.
L’INSOSTENIBILE INUTILITÀ DEL CCM: UN ORGANISMO FANTASMA. Ma per capire cosa davvero non ha funzionato forse bisogna partire da un acronimo: Ccm. La sigla dell’organismo tra il ministero della Salute e le regioni istituito 16 anni fa per contrastare le emergenze di salute pubblica con particolare riferimento alle malattie infettive e al bioterrorismo. Opera in base ad un programma annuale ed è guidato da un comitato strategico e da un comitato scientifico. I membri vengono nominati dal ministro della Salute ed è composto dal coordinatore degli assessori alla Sanità, due assessori regionali alla sanità nominati dalla Conferenza dei presidenti delle regioni, dai capi dipartimento del ministero della Salute. Da un rappresentante del ministro degli Esteri, dal presidente dell’istituto superiore di sanità e dal presidente del Consiglio superiore di Sanità e da un direttore operativo. La mission sarebbe – condizionale obbligatorio e imprescindibile – quella di definire obiettivi di interessi nazionale e fare in modo che ogni regione segua un identico tracciato. Obiettivo clamorosamente fallito. Ogni governatore è andato per conto suo.
NEL CCM RAPPRESENTATE SOLO LE REGIONI DEL NORD. Il coordinatore degli assessori è Antonio Saitta, ex assessore alla Sanità della Regione Piemonte e per dieci anni presidente della Provincia di Torino. Del Comitato strategico – ma poi si è visto quanto poco strategico sia stato – fa parte anche Lucio Coletto, assessore alla Sanità della Regione Veneto, ex sottosegretario alla Salute, nonché esponente di punta della Lega Nord; Stefania Saccardi, ex assessore alla Sanità della Toscana e vicepresidente renziana della Regione. Ci sarebbero poi i presidenti dell’Istituto superiore della sanità e del Consiglio superiore. E le regioni dell’Italia centrale e Meridionale? Zero rappresentanti. Resta il fatto che mentre il Covid 19 a loro insaputa era già tra noi, cioè nell’autunno dello scorso anno, questo prestigioso raggruppamento di esperti – completato da Giuseppe Ruocco, segretario generale del ministero della Salute, Marco Leonardi, capo del Dipartimento della Protezione civile e da Roberta Lecce, designata dal ministero degli Esteri – si occupava soprattutto a livello regionale di altro. Igiene della salute orale; impatto dei cambiamenti climatici; promozione dell’attività fisica nel setting scolastico, promozione di uno stile di vita sano ed equilibrato. Eppure, c’era stata già l’emergenza viaria. E il piano pandemico? È stato del tutto ignorato proprio da chi aveva compiti di organizzazione, coordinamento e prevenzione.
LA FIRMA CONGIUNTA. Il 5% del Fondo sanitario nazionale assegnato ogni anno ad ogni regione per la prevenzione viene utilizzato per altri scopi. Solo il 2,9% in media va alla prevenzione contravvenendo alle linee indicate dall’Ocse. E in questa percentuale gli enti locali includono anche lo screening oncologico. Ci sarebbe poi il vertice di ieri, l’ennesima zuffa governo-governatori. Che cosa è successo? Che mentre il virus avanza, costringendo così gli altri i reparti a sloggiare e a riconvertirsi al Covid-19, governo e regioni continuano a sfidarsi in surplace. Come certi ciclisti che in cerca di equilibrio si scrutano a vicenda sulla pista. Chi lancia per primo la volata potrebbe vincere ma anche esaurire le energie e perdere. Ecco allora la mandrakata: la richiesta che sulle chiusure ci debba essere la firma congiunta del ministro della Salute e del presidente della Regione. Il prezzo da pagare al federalismo all’italiana. In questo gioco a chi dà il peggio di sé vince per distacco il governatore della Lombardia Attilio Fontana. Ma chi lo segue a ruota è il suo omologo campano Vincenzo De Luca. Dopo aver rivendicato per mesi la peculiarità della Campania, eccolo invocare come se nulla fosse il ritorno al centralismo statale. «Servono provvedimenti su base nazionale, senza differenti misure a seconda delle regioni». E tanto per cominciare visto la crescita esponenziale dei contagi e la situazione degli ospedali dove ormai vige una sorta di numero chiuso, lo sceriffo salernitano ha lasciato in vigore le sue ordinanze più restrittive sulle lezioni in presenza chiudendo anche gli asili, decretando lo stop alla mobilità interprovinciale. De Luca nell’incontro con il governo ha rinnovato le sue richieste: la modifica dei congedi parentali, un bonus famiglia ai lavoratori autonomi e il cento per cento degli stipendi ai genitori che abbiamo figli da zero a 16 anni. De Luca per una volta non si è beccato con il sindaco di Napoli de Magistris. I suoi raccontano però che vedendo le immagini del lungomare partenopeo nero di folla e gli assembramenti nelle piazze sia sbottato di brutto chiedendo alle forze dell’ordine un piano straordinario per garantire il rispetto delle ordinanze. Controfirmate dal governo.
Virus e segreti di Stato. Report Rai PUNTATA DEL 02/11/2020. Cataldo Ciccolella, Giulio Valesini collaborazione di Roberto Persia e Alessia Pelagaggi. Perché l'Organizzazione mondiale della sanità censura un suo documento, critico della gestione italiana della pandemia? Report svelerà i retroscena e i conflitti di interesse che mettono in pericolo la credibilità dell'Oms. Attraverso documenti esclusivi sarà rivelata anche la storia del piano nazionale del Comitato tecnico scientifico del ministero della Salute, partorito con ritardo e rivelatosi una semplice analisi di scenari senza veri obiettivi gestionali. Secondo le stime elaborate dal Generale Pier Paolo Lunelli e depositate al Tribunale di Bergamo, almeno diecimila morti si sarebbero potuti evitare. Chi pagherà ora e quali rischi corrono i dirigenti che non hanno aggiornato per anni il piano pandemico italiano?
“VIRUS E SEGRETI DI STATO“. di Giulio Valesini e Cataldo Ciccolella Collaborazione Roberto Persia- Alessia Pelagaggi Immagini Alfredo Farina- Cristiano Forti Montaggio Riccardo Zoffoli Grafica Giorgio Vallati
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Durante l’estate il ministro Roberto Speranza ha trovato il tempo di scrivere un libro. Titolo: “Perché guariremo”. Il 20 settembre ne aveva anche annunciato, dal suo profilo Instagram, l’imminente uscita prevista per il 22 ottobre. Evidentemente immaginava di presentarlo in uno scenario diverso.
ROBERTO PERSIA Cercavo il libro del ministro Speranza, quello edito da Feltrinelli.
COMMESSA FELTRINELLI Sì, però è stata rimandata l’uscita.
ROBERTO PERSIA Quando doveva uscire?
COMMESSO FELTRINELLI Giovedì scorso, non si sa quando esce.
COMMESSO FELTRINELLI 2 “Roberto Speranza” eccolo qua. Aspetta che devo chiedere alla collega. Ma il libro di Speranza quando deve uscire?
COMMESSA FELTRINELLI C’è qualche problema e non lo fanno uscire.
COMMESSO FELTRINELLI Per il momento no.
COMMESSA FELTRINELLI Ce l’abbiamo, ma non lo possiamo vendere.
ROBERTO PERSIA Ma è un problema di stampa? O è un problema…
COMMESSA FELTRINELLI No, no, no, non è un problema di stampa, è un problema politico. Noi l’abbiamo in magazzino però non lo possiamo distribuire.
ROBERTO PERSIA Vi è arrivata una comunicazione, una email?
COMMESSA FELTRINELLI Sì. Così ho sentito dai miei colleghi del magazzino che non lo possiamo vendere. Adesso hanno deciso di distribuirlo il 30 novembre.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Il libro di Speranza è apparso sabato 22 ottobre solo in qualche libreria e solo per poche ore. Poi è stato immediatamente ritirato dal mercato per evitare imbarazzi. La stessa sorte è toccata anche a un dossier dell’OMS, ma siccome era molto critico nei confronti del nostro paese sulla gestione della pandemia, anche questo è stato fatto sparire. Molto più rassicurante è invece un video dove si elogiano le nostre capacità di reazione.
SILVIO BRUSAFERRO - PRESIDENTE ISTITUTO SUPERIORE DI SANITÀ L’Italia è stato il primo tra i paesi occidentali che si è trovato di fronte alla pandemia.
ROBERTO SPERANZA - MINISTRO DELLA SALUTE Dobbiamo essere orgogliosi della qualità del nostro Servizio Sanitario Nazionale che è all’altezza ed è pronto ad affrontare anche questa emergenza.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Il video viene rilanciato via social dal premier Conte e dal ministro della Salute, Roberto Speranza. Un successo per l’immagine dell’Italia e del suo governo nel mondo. Ma sono pochi quelli che conoscono l’altra parte della storia. Tutto ha inizio in questo storico palazzo di Venezia. È la sede di un distaccamento dell’OMS. Un gruppo di dieci ricercatori ha lavorato durante la pandemia a un dossier. Titolo: “Una sfida senza precedenti, la prima risposta dell’Italia al Covid”. Cento pagine. Viene pubblicato, ma dopo un solo giorno una manina lo fa sparire.
GIULIO VALESINI Lei l’ha mai visto questo Report pubblicato dall’OMS…
STEFANIA SALMASO - EX DIRETTRICE CENTRO NAZIONALE DI EPIDEMIOLOGIA Si, l’ho visto e mi è sembrato fatto bene, molto interessante. Era una descrizione quasi in tempo reale. Cosa che raramente succede con i documenti scientifici.
GIULIO VALESINI Ma lei come se lo spiega che questo rapporto è sparito. Letteralmente sparito.
STEFANIA SALMASO - EX DIRETTRICE CENTRO NAZIONALE DI EPIDEMIOLOGIA Io non ho riscontrato errori. Conosco il gruppo di Venezia che l’aveva curato e mi è sembrato un lavoro fatto bene comunque.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Se era fatto bene quel dossier che era critico nei confronti del nostro paese, perché l’OMS l’ha fatto sparire? E per ordine di chi? Insomma, abbiamo chiesto spiegazioni alla direzione europea dell’Organizzazione Mondiale della Sanità e ci ha risposto con una nota, a dire il vero un po’ stitica. Ci ha scritto: quel dossier “è stato pubblicato per errore, anzi non è un documento dell’OMS”. Falso. Anche perché porta la firma dei suoi dirigenti, quelli anche più prestigiosi. Allora, qual è la verità? È che qualcuno ha esercitato delle pressioni per farlo togliere quel dossier, ne sarebbe a conoscenza anche il direttore generale dell’Organizzazione, Tedros. Ecco a discapito poi di un valore della Costituzione, quello del diritto dei cittadini ad essere informati sulla gestione della pandemia. E un ruolo in tutta questa vicenda l’ha avuto anche Report, quando pochi mesi fa, all’inizio della pandemia abbiamo denunciato che l’Italia aveva un piano pandemico vecchio e inadeguato, risalente addirittura al 2006. Tra coloro che avrebbero dovuto adeguarlo c’è l’ex direttore generale del ministero della Salute, oggi numero due dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, voluto proprio da Tedros, Ranieri Guerra. Ecco, lui ci ha accusato di aver detto delle falsità, tuttavia in quel dossier c’era la prova che Report aveva ragione e il piano italiano era vecchio e inadeguato. Poche ore dopo la nostra trasmissione una manina ci ha inviato una mail: dentro c’era il dossier. È il momento di vedere cosa c’era dentro questo dossier ed è il momento anche di fare vedere un altro documento su cui è stato posto la riservatezza: un nuovo piano pandemico. Era il frutto di un’elaborazione di uno studio fatto da un ricercatore che ai primi mesi, ai primi giorni di febbraio, prima che scoppiasse il caso Codogno, aveva ipotizzato uno scenario. L’aveva fatto basandosi sui numeri dei contagi in Cina. Ebbene questo scenario prevedeva la morte di 35mila fino a 70mila italiani a causa del virus. Più che uno scenario, si è rivelata una triste profezia. Una grande inchiesta dei nostri Giulio Valesini e Cataldo Ciccolella.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO A Venezia incontriamo il coordinatore dell’Ufficio europeo dell’OMS per i piccoli stati. È lui che ha guidato il gruppo di ricerca che ha redatto il dossier scomparso.
FRANCESCO ZAMBON - ORGANIZZAZIONE MONDIALE DELLA SANITÀ È stato un lavoro immenso. Lavoravamo 24 ore al giorno con tutto il team con dati aggiornati a un giorno prima: una cosa mai successa nell’OMS.
GIULIO VALESINI Ma non è piaciuto?
FRANCESCO ZAMBON - ORGANIZZAZIONE MONDIALE DELLA SANITÀ È stato approvato e poi dopo ritirato.
VALESINI FUORI CAMPO Francesco Zambon, non nasconde la sua amarezza per il comportamento dell’OMS.
GIULIO VALESINI L’email dell’OMS ci dice che voi siete 20 persone, che avete scritto cose non controllabili. Tanto è vero che loro prendono le distanze dal rapporto dicendo “Scusate lo abbiamo pubblicato per errore”!
FRANCESCO ZAMBON - ORGANIZZAZIONE MONDIALE DELLA SANITÀ Il rapporto ce l’ha?
GIULIO VALESINI Io sì.
FRANCESCO ZAMBON - ORGANIZZAZIONE MONDIALE DELLA SANITÀ Lo legga! Spero di fare bene il mio lavoro, non mi faccia dire altro…
GIULIO VALESINI Così alimentate dei sospetti incontrollati.
FRANCESCO ZAMBON - ORGANIZZAZIONE MONDIALE DELLA SANITÀ Me ne rendo perfettamente conto. Togliere il rapporto chiaramente alimenta dei sospetti...è ovvio. Di tutta questa storia non si sa come andrà a finire, glielo posso dire?
GIULIO VALESINI Sì. FRANCESCO ZAMBON - ORGANIZZAZIONE MONDIALE DELLA SANITÀ Che io verrò licenziato.
GIULIO VALESINI Perché dovrebbe essere licenziato? Dice che verrà scaricato lei per difendere qualcun altro?
FRANCESCO ZAMBON - ORGANIZZAZIONE MONDIALE DELLA SANITÀ Io sono il pesce piccolo.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO E chi è invece il pesce grande? Per scoprirlo bisogna capire cosa c’era scritto nel rapporto di così compromettente da spingere l’OMS a rimuoverlo immediatamente. I ricercatori certificavano che l’Italia non aveva un piano pandemico aggiornato, riconfermavano sempre lo stesso, quello del 2006. Come avevamo sostenuto a Report. E questo imbarazzava il pesce grosso, l’ex direttore del ministero della Salute oggi direttore aggiunto dell’OMS: Ranieri Guerra.
GIULIO VALESINI Non è che il rapporto è stato tolto perché voi smentivate il numero due dell’OMS? Cioè: l’Oms Europa smentiva l’Oms generale perché Ranieri Guerra, che è il vostro assistente direttore generale diceva che lui i piani pandemici li aveva aggiornati.
FRANCESCO ZAMBON - ORGANIZZAZIONE MONDIALE DELLA SANITÀ Domandate anche quella che è la vostra ipotesi a Tedros. Dovranno dare delle risposte. Immagino che abbiate sentito anche Ranieri Guerra.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Ranieri Guerra è tra i revisori del rapporto sparito, ma oggi nega di saperne qualcosa.
GIULIO VALESINI Senta, io ho trovato questo qua che è il report dell’OMS, ma è stato lei a farlo ritirare?
RANIERI GUERRA - DIRETTORE AGGIUNTO OMS No.
GIULIO VALESINI Perché è stato ritirato?
RANIERI GUERRA - DIRETTORE AGGIUNTO OMS Prego?
GIULIO VALESINI Perché è stato ritirato?
RANIERI GUERRA - DIRETTORE AGGIUNTO OMS Lo chieda a chi l’ha ritirato.
GIULIO VALESINI Non è che è stato ritirato perché c’era scritto che il piano pandemico italiano era uguale dal 2006? RANIERI GUERRA - DIRETTORE AGGIUNTO OMS (risata) ancora con ‘sta storia?
GIULIO VALESINI Sì.
RANIERI GUERRA - DIRETTORE AGGIUNTO OMS E vabbè, andate avanti così.
GIULIO VALESINI Qui c’era scritto così, lo sa?
RANIERI GUERRA - DIRETTORE AGGIUNTO OMS No, non lo so.
GIULIO VALESINI Ah, non l’ha letto? Lei l’ha firmato questo report.
RANIERI GUERRA - DIRETTORE AGGIUNTO OMS No, non l’ho letto. Io ho contribuito, non l’ho firmato. GIULIO VALESINI Perché non l’ha aggiornato il piano pandemico?
RANIERI GUERRA - DIRETTORE AGGIUNTO OMS Di che cosa sta parlando?
GIULIO VALESINI Del piano pandemico.
RANIERI GUERRA - DIRETTORE AGGIUNTO OMS Sì. Se lo è letto?
GIULIO VALESINI Sì.
RANIERI GUERRA - DIRETTORE AGGIUNTO OMS Se lo vada a leggere.
GIULIO VALESINI Per tre anni lei avrebbe dovuto aggiornare i piani pandemici.
RANIERI GUERRA - DIRETTORE AGGIUNTO OMS No.
GIULIO VALESINI Sì. RANIERI GUERRA - DIRETTORE AGGIUNTO OMS L’obbligo è di avere un piano.
GIULIO VALESINI Eh!
RANIERI GUERRA - DIRETTORE AGGIUNTO OMS Il Piano c’era?
GIULIO VALESINI Era vecchio e inadeguato. Perfino c’era scritto di fare le scorte entro il 2006 degli antivirali, dottor Guerra.
RANIERI GUERRA - DIRETTORE AGGIUNTO OMS Lo dice lei. Prego! Mi stia a distanza.
GIULIO VALESINI Senta…
RANIERI GUERRA - DIRETTORE AGGIUNTO OMS Mi deve stare a distanza, va bene? Lei mi deve stare a distanza, la prego.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Il rapporto censurato dall’OMS puntava l’indice sulla mancata capacità dell’Italia a contrastare la diffusione del virus. Medici e infermieri si contagiavano perché mancavano i dispositivi di protezione. I test per scovare i positivi erano scarsi. Il dossier esprime un giudizio negativo anche sui tempi di reazione delle autorità sanitarie: “Ci è voluto del tempo prima che una guida formale fosse disponibile”. Come dire ministero della Salute e regioni non pervenuti. Il dossier portava la firma autorevole di Hans Kluge capo della divisione europea dell’OMS.
RICERCATRICE - OMS Consideri che i giorni in cui avete mandato in onda le due puntate sul piano pandemico coincidevano con la preparazione e l'inizio dell'Assemblea mondiale dell'Organizzazione Mondiale della Sanità. Il rapporto faceva una fotografia impietosa della risposta italiana con aggettivi come "improvvisata, caotica, creativa".
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Un ricercatore ci confida che proprio intorno alla rimozione del dossier si è scatenato un conflitto all’interno dell’Organizzazione Mondiale della Sanità che ha coinvolto anche Roma, il ministero della Salute.
GIULIO VALESINI Io so che è successo anche qualcosa di molto più grave con Ranieri Guerra.
RICERCATRICE - OMS Ranieri Guerra ha minacciato pesantemente l’autore del rapporto: “O ritiri la pubblicazione o ti faccio cacciare fuori dall’OMS”. E quando l’ha detto era sulla porta dell’ufficio di Tedros a Ginevra, ma non pensi solo a Ranieri Guerra. Il rapporto lo hanno letto anche all'Istituto Superiore di Sanità, anche il Ministro Speranza conosce la vicenda.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Nel dossier rimosso, i ricercatori dell’OMS avevano sottolineato che l’Italia aveva un protocollo che non aiutava a individuare i malati di Covid. In sintesi, non trovavamo il virus perché lo cercavamo male. Ecco perché il paziente uno di Codogno viene scoperto tardi.
RICERCATRICE - OMS Lo studio ammette che la scoperta è stata fatta grazie a un dottore che ha disobbedito alle linee guida nazionali!
GIULIO VALESINI Governo italiano che poi seguiva le linee guida dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, spesso ondivaghe. Si stava creando una serie di, una catena di errori incredibile. Un cortocircuito pazzesco. RICERCATRICE - OMS Questi studi devono passare diversi livelli di certificazione. Con il Covid ne hanno aggiunto uno, il più autorevole. Il rapporto sull’Italia lo ha approvato anche Soumya Swaminathan, il capo scienziato dell’OMS.
GIULIO VALESINI Senta, il direttore generale dell’Organizzazione Mondiale, Tedros, conosce questa storia?
RICERCATRICE - OMS Sì, la conosce. Lo informò Hans Kluge, il capo della divisione europea. Gli parlò della questione. Ovviamente lo fece anche Ranieri Guerra, ma a modo suo: Tedros appoggia sempre Ranieri Guerra.
GIULIO VALESINI Senta, ma gli infermieri e i medici che sono andati al pronto soccorso senza…
RANIERI GUERRA - DIRETTORE AGGIUNTO OMS La prego di starmi a distanza.
GIULIO VALESINI Che lavoravano senza dispositivi medici…
RANIERI GUERRA - DIRETTORE AGGIUNTO OMS Sì, chieda a chi doveva fornire i dispositivi.
GIULIO VALESINI Perché non c’erano le scorte? Chi doveva provvedere?
RANIERI GUERRA - DIRETTORE AGGIUNTO OMS Chieda al governo.
GIULIO VALESINI A chi?
RANIERI GUERRA - DIRETTORE AGGIUNTO OMS Al governo. C’è un governo, no?
GIULIO VALESINI Quindi al ministro attuale della Salute?
RANIERI GUERRA - DIRETTORE AGGIUNTO OMS C’è il governo della Repubblica.
GIULIO VALESINI Senta, quanto è grave il fatto che sia stato censurato un rapporto indipendente dell’OMS?
RANIERI GUERRA - DIRETTORE AGGIUNTO OMS Ma cosa ne so io?
GIULIO VALESINI Ma quanto è grave?
RANIERI GUERRA - DIRETTORE AGGIUNTO OMS Cosa ne so io?
GIULIO VALESINI Ma come? Lei è assistente generale.
RANIERI GUERRA - DIRETTORE AGGIUNTO OMS Cosa ne so io?
GIULIO VALESINI Dicono che sia stato lei a chiederlo.
RANIERI GUERRA - DIRETTORE AGGIUNTO OMS Ma che cosa sta dicendo?
GIULIO VALESINI Qui c’è scritto che il piano non era aggiornato.
RANIERI GUERRA - DIRETTORE AGGIUNTO OMS Che cosa sta dicendo?
GIULIO VALESINI La verità.
RANIERI GUERRA - DIRETTORE AGGIUNTO OMS No, lei non sta dicendo la verità.
GIULIO VALESINI Allora mi dica lei quale è la verità, quale è la verità allora?
RANIERI GUERRA - DIRETTORE AGGIUNTO OMS Non la so io la verità, lo chieda a chi lo ha ritirato.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO L’Organizzazione Mondiale della Sanità sul dossier censurato ha alzato un muro di gomma. Il capo della comunicazione a Ginevra è Gabriella Stern, che prima di arrivare all’OMS guidava le relazioni esterne della fondazione Bill e Melinda Gates, primo finanziatore dell’ente.
CATALDO CICCOLELLA Dicono che quel documento non è all’altezza degli standard dell’OMS, ma nei ringraziamenti c’è scritto che è stato ricontrollato.
GABRIELLA STERN - DIRETTORE DELLA COMUNICAZIONE OMS Perché dovrei darti un commento dal quartier generale quando questa cosa è stata gestita dall’ufficio regionale?
CATALDO CICCOLELLA Perché noi abbiamo ragione di credere che la rimozione sia dovuta a ragioni politiche. E io penso che questo danneggi la reputazione dell’OMS.
GABRIELLA STERN - DIRETTORE DELLA COMUNICAZIONE OMS Tu non vuoi un solo un commento, è noioso, tu vuoi sapere qual è la verità.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Certo che ci piacerebbe sapere la verità. Ecco un ricercatore dell’OMS ci parla di presunte pressioni fatte da Ranieri Guerra esercitate per far sparire quel dossier, arrivando fin anche a minacciare il coordinatore di quella ricerca, Zambon. L’abbiamo visto, Zambon placcato dal nostro Giulio Valesini, messo un po’ alle strette, ammettere le sue difficoltà e dice: va a finire che mi licenziano. Ecco, speriamo di no, perché il paese, l’OMS ha bisogno di scienziati, ricercatori indipendenti dalla politica. Certo, converrebbe molto di più levare le castagne dal fuoco, e magari dare in pasto all’opinione pubblica un video rassicurante e adulante sulla gestione della pandemia. Magari anche con il logo autorevole dell’OMS. Peccato che sia una falsa rappresentazione e il regista secondo questo consulente che abbiamo sentito, questo ricercatore, sarebbe proprio Ranieri Guerra. Perché? Perché coprendo le pecche del nostro governo nella gestione pandemica avrebbe anche coperto le sue pecche, quelle cioè di non aver rinnovato il piano pandemico nazionale. Ed è un falso quando lui dice che non doveva essere rinnovato, perché lo impone esso stesso, le linee guida del suo stesso Oms, ecco ogni 3 anni andrebbe aggiornato. E l’Europa dal 2013 chiede agli stati membri: comunicatemi i vostri aggiornamenti, l’ultimo dell’Italia risale al 2017, peccato che nessuno si sia accorto che era un maldestro copia incolla di quello del 2006. La Direzione Salute della Commissione Europea ci ha detto che non è suo compito controllare. Anche l’ente indipendente l’ECDC, che però pubblica l’elenco dei piani pandemici europei, non ha verificato che quella italiana, data 2010, è sbagliata di fatto. Insomma, è la Waterloo dei sistemi di controllo in tema di sanità. Quella mondiale, europea, italiana. Ma qualcuno avrà anche delle responsabilità? Dopo che Ranieri Guerra ha lasciato il posto da direttore generale del ministero della Salute è subentrato Claudio D’Amario, ecco. Anche lui avrebbe dovuto aggiornare il piano pandemico, anche lui oggi è diventato un ex.
GIULIO VALESINI Ma questo piano pandemico perché non era stato aggiornato?
CLAUDIO D’AMARIO - DIRETTORE GENERALE MINISTERO DELLA SALUTE 2018-2020 Io mi sono occupato del piano pandemico all’arrivo al ministero con una serie di riunioni e interventi che sono tutti documentati.
GIULIO VALESINI Quanto tempo ci si mette ad aggiornare un piano pandemico?
CLAUDIO D’AMARIO - DIRETTORE GENERALE MINISTERO DELLA SALUTE 2018-2020 Ci si mette molto tempo…
GIULIO VALESINI Dal 2006?
CLAUDIO D’AMARIO - DIRETTORE GENERALE MINISTERO DELLA SALUTE 2018-2020 Io rispondo di quello che è la mia competenza e la mia professionalità.
GIULIO VALESINI Senta, qui eravamo impreparati su tutto: non avevamo stoccato le mascherine, non avevamo i reagenti per i tamponi.
CLAUDIO D’AMARIO - DIRETTORE GENERALE MINISTERO DELLA SALUTE 2018-2020 No… Allora… Allora, la produzione dei test diagnostici non è di competenza né del ministero, né di una singola nazione.
GIULIO VALESINI Ma eravamo pronti secondo lei? Scusi.
CLAUDIO D’AMARIO - DIRETTORE GENERALE MINISTERO DELLA SALUTE 2018-2020 Non è che i piani pandemici scadono. Non sono yogurt.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO A smentire D’Amario e Ranieri Guerra è un componente del Comitato Tecnico Scientifico di oggi. Chiede di parlarci in anonimato perché ha sottoscritto un accordo di riservatezza.
COMPONENTE COMITATO TECNICO SCIENTIFICO Il piano del 2010, quello ufficiale, era uguale a quello del 2006. Dopo la dichiarazione dello stato d'emergenza guardi i documenti a disposizione, ci chiedevamo: da cosa partiamo? Bene, abbiamo detto, c’è questo piano. Invece lo apri e lo chiudi perché è del tutto inutile.
GIULIO VALESINI E voi nel comitato tecnico scientifico non sapevate che non avevamo un vero piano?
COMPONENTE COMITATO TECNICO SCIENTIFICO No. Lo aprimmo e lo buttammo nel cestino dopo due minuti. Il paese ha pagato un prezzo molto alto per questo.
GIULIO VALESINI Inadeguato? Vecchio? Da aggiornare? Qual era il problema di questo piano?
COMPONENTE COMITATO TECNICO SCIENTIFICO Quel piano non entra nei dettagli. Invece quello che fai in quei momenti dipende proprio da queste cose. Insomma, ti prepari in base agli scenari: le terapie intensive, le mascherine. Quello del ministero della Salute era un piano che a livello operativo valeva zero.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO La prova di quello che ci dice il nostro testimone è nei verbali rimasti a lungo secretati del Comitato Tecnici Scientifico. Anche D’Amario era presente in quelle riunioni. E alla fine la responsabilità è sempre di qualcun altro. Perché,per esempio, la Germania a fronte dei contagi ha avuto meno morti in proporzione? Pensate che noi avremmo potuto utilizzare un software, pensate un po’… dell’Oms che ci avrebbe aiutato a calcolare quello di cui avremmo avuto bisogno per tentare di fermare l’epidemia. Perché non lo abbiamo utilizzato?
GIULIO VALESINI Ma lei li ha letti i verbali? Lei partecipava alle riunioni del comitato tecnico scientifico.
CLAUDIO D’AMARIO - DIRETTORE GENERALE SANITÀ REGIONE ABRUZZO Come no, ma allora guardi. Noi stiamo parlando di una malattia che non si conosceva per la quale c’è stato bisogno di fare approfondimenti e conoscenza clinica.
GIULIO VALESINI Noi dovevamo avere stoccate mascherine...
CLAUDIO D’AMARIO - DIRETTORE GENERALE SANITÀ REGIONE ABRUZZO Ma stoccate che vuol dire scusi?
GIULIO VALESINI Stoccate vuol dire messe da parte.
CLAUDIO D’AMARIO - DIRETTORE GENERALE SANITÀ REGIONE ABRUZZO Ma guardi che le mascherine hanno delle scadenze! Cioè i dispositivi hanno delle scadenze.
GIULIO VALESINI Ma ho capito, e vabbè, ma si comprano tutti gli anni, dottor D’Amario… qual è il problema?
CLAUDIO D’AMARIO - DIRETTORE GENERALE SANITÀ REGIONE ABRUZZO Le mascherine sono dei dispositivi, che alla pari di tutti i dispositivi, vengono acquistati e gestiti nelle farmacie e nelle strutture logistiche regionali. Non dobbiamo dimenticare che c’è ancora il Titolo V in Italia.
GIULIO VALESINI E vabbè…
CLAUDIO D’AMARIO - DIRETTORE GENERALE SANITÀ REGIONE ABRUZZO No, aspetti. Il Titolo V è stato uno dei problemi principali di questa pandemia perché ogni attività va negoziata e discussa con le Regioni.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Avremmo potuto utilizzare anche un software dell’OMS da dieci anni a disposizione degli Stati, che è in grado di calcolare il fabbisogno di scorte di dispositivi di protezione in caso di pandemia. Basta inserire dei dati.
CLAUDIO GALBIATI - PRESIDENTE SEZIONE SAFETY ASSOSISTEMA CONFINDUSTRIA Simula l’andamento della pandemia in un paese in funzione del tasso di contagiosità, del numero dei posti letto, della popolazione, anche della distribuzione della popolazione per fasce d’età. Quindi io posso fare una simulazione di questo e dello scenario e di conseguenza usando questa base come scenario avendo il numero di operatori sanitari, avendo il numero degli addetti al pronto soccorso, terapie intensive ecc., posso andare a stimare quanti sono i dispositivi di protezione individuale che ho bisogno.
GIULIO VALESINI Perché non lo facciamo?
CLAUDIO GALBIATI - PRESIDENTE SEZIONE SAFETY ASSOSISTEMA CONFINDUSTRIA Perché non lo facciamo è una domanda che sarebbe interessante porre al ministero della Salute.
GIULIO VALESINI Voi quindi anche in tempi, tra virgolette, di pace avevate chiesto al ministero “Forniteci dei dati precisi per poter pianificare una produzione di scorta”?
CLAUDIO GALBIATI - PRESIDENTE SEZIONE SAFETY ASSOSISTEMA CONFINDUSTRIA Sì. Questo è un dialogo che abbiamo sempre avuto.
GIULIO VALESINI La risposta quale è stata?
CLAUDIO GALBIATI - PRESIDENTE SEZIONE SAFETY ASSOSISTEMA CONFINDUSTRIA La risposta è sempre stata un po’ vaga.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Ma quante persone sarebbero morte perché non avevamo fatto nulla per prepararci ad affrontare il virus? A fare una stima è il generale Pierpaolo Lunelli, l’ex Comandante della Scuola per la difesa Nucleare, batteriologica e chimica. Nella sua lunga carriera ha contribuito a scrivere i protocolli militari contro le pandemie per alcuni Paesi. Ha stilato un rapporto indipendente di 60 pagine depositato in Procura a Bergamo.
PIERPAOLO LUNELLI – EX COMANDANTE SCUOLA DIFESA NUCLEARE BATTERIOLOGICA E CHIMICA C’erano 3 paesi, in particolare l’Italia, il Belgio e la Spagna i quali avevano un piano pandemico aggiornato al 2006. Se noi confrontiamo il dato di questi tre paesi con il dato della Svizzera o della Germania, che avevano i piani aggiornati, ne vien fuori che la Germania ha avuto un tasso di mortalità di circa 100 persone per un milione di abitanti che se l’avessimo avuto noi avremmo avuto meno di 7mila morti. Se avessimo seguito il sistema olandese, per esempio, che ha avuto qualche problema, arrivavamo sotto 20 mila morti. Allora se noi ne abbiamo avuti 35mila lei fa subito la differenza.
GIULIO VALESINI Un piano pandemico aggiornato avrebbe potuto evitare morti, detto proprio chiaramente.
PIERPAOLO LUNELLI – EX COMANDANTE SCUOLA DIFESA NUCLEARE BATTERIOLOGICA E CHIMICA Certamente sì, ma anche se ne avessimo salvati 1000, lei non crede che ne sarebbe valsa la pena?
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Eh beh insomma… secondo le stime del Generale Lunelli, che ricordiamo è stato a capo della scuola militare per la difesa batteriologica, chimica e nucleare, se avessimo avuto un piano aggiornato, avremmo potuto evitare la morte di almeno 10mila persone, ecco, il suo dossier è finito sui tavoli della Procura di Bergamo, l’aria più colpita, che sta indagando per falso ed epidemia colposa. Ma non è solo il ministero della Salute che avrebbe dovuto aggiornare quel piano pandemico. Dovevano farlo anche le Regioni. Per questo ogni Regioni ha un suo rappresentante che avrebbe dovuto quantificare i fabbisogni, capire quali ospedali destinare alle pandemie, quali reparti, formare gli infermieri, fare scorte di mascherine e comunicare i dati allo Stato centrale. Dal 2006 al 2020 in pochi l’hanno fatto e l’hanno fatto anche in maniera frammentata ecco. E non solo non l’hanno fatto, ma non sono stati neppure sollecitati. E pensare che è stato anche concepito un coordinamento tra Stato e Regioni, il CCM che doveva mettere insieme appunto tutte le autorità sanitarie, tutti coloro che avrebbero dovuto contribuire in caso di pandemia. Chi era a capo del CCM in questi anni? Sempre loro, Ranieri Guerra e Claudio D’Amario. Ora proprio nella Regione più colpita 10 anni fa in occasione della pandemia aviaria, erano andati a vedere come aveva tenuto il piano delle pandemie e scoprono e prendono atto che è vecchio e inadeguato. Chi avrebbe fatto più le spese in caso di pandemia sarebbe stato… sarebbero stati i più fragili, gli ospiti delle rsa e come hanno provveduto?
FRANCESCO ZAMBON - ORGANIZZAZIONE MONDIALE DELLA SANITÀ Di chi è la responsabilità esatta? Perché non sono partiti gli avvisi di garanzia?
GIULIO VALESINI Ma è così come dico io?
FRANCESCO ZAMBON - ORGANIZZAZIONE MONDIALE DELLA SANITÀ Potreste anche intervistare alcuni dei medici e degli infermieri di Bergamo, Brescia e chiedere: “Ma voi avevate la formazione?”. Basta chiedere, che intervisti un responsabile degli ospedali “Ma lei aveva gli stock o no?”. Le risponderà: “No”. Ma di quanto era elastica la possibilità di espandere le terapie intensive? “Ok la mia terapia intensiva da 400 posti in Regione può andare a 800 posti, 200 di semi intensiva”: questi calcoli devono essere fatti. Perché un piano pandemico deve fare anche questo, deve fare in modo che il personale sia informato su tutte quelle che sono IPC, cioè prevenzione e controllo dell’infezione, che è una cosa fondamentale. Perché io so di persone che venivano spostate da un reparto all’altro.
GIULIO VALESINI Senza formazione.
FRANCESCO ZAMBON - ORGANIZZAZIONE MONDIALE DELLA SANITÀ Cosa può succedere? Cioè questi sono stati veramente degli eroi.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Anche in Lombardia il piano per affrontare le pandemie era fermo al 2006. A Bergamo il Covid finora ha fatto più di 3mila morti.
GIULIO VALESINI Voi avete mai fatto un'esercitazione?
GUIDO MARINONI - PRESIDENTE ORDINE DEI MEDICI DI BERGAMO Ma assolutamente no. Stiamo facendo la guerra, no le esercitazioni.
GIULIO VALESINI Dovevamo farle prima le esercitazioni?
GUIDO MARINONI - PRESIDENTE ORDINE DEI MEDICI DI BERGAMO Un’omissione gravissima che era quella di essere pronti, ma operativamente.
GIULIO VALESINI Il ministero ce l’ha un piano pandemico oggi?
GUIDO MARINONI - PRESIDENTE ORDINE DEI MEDICI DI BERGAMO Non lo so bisognerebbe chiederlo al Ministero.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Eppure, già nel 2010, in occasione dell’influenza aviaria la giunta regionale guidata da Formigoni aveva valutato la tenuta dell’applicazione del piano pandemico del 2006. E fu giudicata critica.
MASSIMO TEDESCHI - AUTORE DE “IL GRANDE FLAGELLO” Non hanno funzionato le linee di comando, sono mancati i piani dei posti letto nei singoli ospedali, è mancato lo stoccaggio degli antivirali quindi dei medicinali e dei sistemi protettivi. Non è stata potenziata l’assistenza domiciliare integrata, quindi è mancato l’apporto dei medici di base. E c’è un punto che è veramente inquietante, è mancato il rapporto con le Rsa, le case di riposo degli anziani.
GIULIO VALESINI Possiamo dire che a distanza di 10 anni è un’autovalutazione quasi profetica.
MASSIMO TEDESCHI - AUTORE DE “IL GRANDE FLAGELLO” E sì, è impressionante perché tutte le lacune che allora si manifestarono di fronte ad una mite pandemia, di fronte al SARS CoV 2, al Covid-19, sono diventati problemi drammatici che hanno avuto effetti esplosivi, effetti tragici sulla popolazione lombarda.
GIULIO VALESINI Le risulta che la regione Lombardia abbia aggiornato il piano?
MASSIMO TEDESCHI - AUTORE DE “IL GRANDE FLAGELLO” La regione Lombardia ha in mano, ha in dotazione, un piano che risale al 2006 che nel 2010 era stato giudicato sostanzialmente fallimentare dalla stessa giunta regionale.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Avevano già testato nel 2010 quanto fosse inadeguato quel piano. Non aveva retto neppure di fronte ad una debole pandemia come l’aviaria. Tuttavia, non prendono un solo provvedimento per adeguarlo. E intanto la procura di Bergamo da mesi indaga. Ha il delicato compito di capire chi e perché ha fatto sparire i dossier dell’OMS. Su questi temi i familiari delle vittime da Virus hanno presentato degli esposti.
LUCA FUSCO - PRESIDENTE ASSOCIAZIONE “NOI DENUNCEREMO” Proprio in maniera che sia evidenziata la responsabilità politica partendo dalla mancata chiusura di Alzano e Nembro e arrivando al piano pandemico che manca. Tutto quello che c’è in mezzo è una gestione eroica di medici, infermieri, operatori sanitari, guidatori delle ambulanze che hanno cercato di fare quello che potevano, con quello che avevano. È per quello che continuiamo a insistere sulla responsabilità politica, questa è una responsabilità politica.
CONSUELO LOCATI - LEGALE ASSOCIAZIONE “NOI DENUNCEREMO” Questa è l’omissione, diciamo così, più grave. Perché da lì poi è derivata l’impreparazione totale da parte del sistema territoriale. Ci stiamo attivando per fare una sorta di class action in sede civile.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Una class action nei confronti di chi non ha adeguato i piani pandemici, ma c‘è un secondo piano nazionale antiCovid che è stato a lungo tenuto riservato. Questo, di cui Report è venuto in possesso. La storia riguarda un ricercatore, un consulente del comitato tecnico scientifico Stefano Merler. Studia la diffusione del virus in Cina ed elabora un modello, uno scenario per l’Italia. Anzi tre scenari, applicando un modello matematico, ecco. Secondo lo studio di Stefano Merler, quello che viene ipotizzato nello scenario più tragico, conta dai 35mila ai 70 mila morti. Guardando i numeri di oggi, quello scenario si è dimostrato una triste profezia. Quello studio viene messo nelle mani dell’Istituto Superiore di Sanità, siamo ai primi giorni di febbraio, che lo gira immediatamente ai propri tecnici, quelli del Comitato Tecnico Scientifico. Elaborano in un mese un piano pandemico nuovo, tarato su questi numeri, anzi ipotizzano anche un terzo scenario bis, di cui vi diamo in esclusiva i numeri: ecco. Si parla di 3 milioni di contagi in un anno, 200mila in terapia intensiva con picchi di 42mila in contemporanea, ecco, quando avevamo all’epoca un massimo di 6mila terapie intensive. Capite da soli che difronte a questo scenario il nuovo piano antiCovid è inapplicabile al nostro sistema sanitario, quindi che cosa fa il governo? Anche consigliato dai tecnici? Declassa il nuovo piano antiCovid a semplice scenario, lo rinfila in un cassetto, ci mette un sigillo di riservatezza, ma il nostro Giulio Valesini è riuscito ad averlo.
COMPONENTE COMITATO TECNICO SCIENTIFICO Credevamo tutti di avere più tempo per agire.
GIULIO VALESINI Nel documento tenuto segreto c’è scritto che si sarebbe arrivati a mille casi di contagio in due mesi, invece ci siamo arrivati dopo pochi giorni, erano sbagliate le previsioni quindi?
COMPONENTE COMITATO TECNICO SCIENTIFICO Le spiego. Eravamo convinti di partire da un livello zero, poi se le cose fossero peggiorate saremmo passati, saremmo andati ai livelli successivi. Invece la situazione è che ci siamo trovati subito nello scenario peggiore dopo Codogno. GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Dunque dopo il 20 febbraio. Si sono trovati non all’inizio della pandemia, ma nel pieno. Il consulente, Stefano Merler, della fondazione Kessler aveva informato l’Istituto Superiore di Sanità già i primi giorni di febbraio su quali scenari sarebbe andato incontro il nostro paese. Il Comitato Tecnico Scientifico aspetta una settimana per cominciare a valutarli, il 12 febbraio. Chiede a un gruppo di lavoro di scrivere un piano di risposta entro 7 giorni. Il piano arriverà solo il 4 marzo. Quasi un mese dopo. Ma è tardi. Per questo quel piano imbarazza e oggi viene negata l’esistenza.
GIULIO VALESINI Perché ancora oggi viene negata l’esistenza di questo piano?
COMPONENTE COMITATO TECNICO SCIENTIFICO Non lo so. Ma lì c’è tutta la verità: è scritto che le tempistiche del contagio dipendevano da quando sarebbe entrato in Italia il primo caso. Secondo lei quando è iniziata la pandemia in Italia? Certo non il 20 febbraio a Codogno. A gennaio c’erano già molti casi. Ormai è sicuro.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Gli scenari descritti dal documento tenuto riservato dal governo sarebbero esatti. Una verità che emerge anche da uno studio realizzato da alcuni ricercatori della regione Lombardia.
MARCELLO TIRANI - EPIDEMIOLOGO REGIONE LOMBARDIA Noi il primissimo caso lo troviamo al primo di gennaio. Noi a partire dal primo caso, in Lombardia sono iniziate quelle che sono delle azioni di contact-tracing, di indagine epidemiologica sui contatti stretti dei soggetti che di volta in volta risultavano positivi, ritornando indietro nel tempo si è potuto sostanzialmente ricostruire quella che era un po’ la storia clinica di questi soggetti.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Altri ricercatori hanno trovato tracce del virus in Italia prima di Codogno, analizzando i campioni delle acque di scarico delle fogne prelevati nei depuratori tra ottobre e febbraio e poi conservati presso l’Istituto Superiore di Sanità.
MARCELLO TIRANI - EPIDEMIOLOGO REGIONE LOMBARDIA In 3 grosse città del nord Italia che erano Milano, Torino e Bologna si è potuto notare come effettivamente alcuni di questi campioni erano positivi per il virus in particolar modo, su Milano e Torino il 18 di dicembre.
VALESINI FUORI CAMPO NUOVO Della possibilità che il virus fosse già in giro da tempo chi ha redatto il piano pandemico sulla base degli scenari catastrofici di Merler, non ha tenuto conto e alla fine hanno preferito segretarlo.
GIULIO VALESINI Il piano segreto c’era o no?
RANIERI GUERRA - DIRETTORE AGGIUNTO OMS Ma perché lo chiede a me? Ma non lo so…
GIULIO VALESINI Perché lei ad un certo punto ha detto che c’era un grado di riservatezza.
RANIERI GUERRA - DIRETTORE AGGIUNTO OMS La riservatezza è una cosa.
GIULIO VALESINI Lei faceva parte del Comitato Tecnico Scientifico.
RANIERI GUERRA - DIRETTORE AGGIUNTO OMS No, no, no. Io sono entrato l’undici di marzo a far parte del Comitato Tecnico Scientifico.
GIULIO VALESINI Ma esiste o no? Questo me lo può dire?
RANIERI GUERRA - DIRETTORE AGGIUNTO OMS Ma non lo chieda a me.
GIULIO VALESINI Lei faceva parte del Comitato Tecnico Scientifico.
RANIERI GUERRA - DIRETTORE AGGIUNTO OMS Lo chieda a chi l’ha detto, l’ho detto io?
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Sì, l’aveva detto proprio lui in una delle tante trasmissioni a cui aveva partecipato.
SERENA BORTONE- DA AGORÀ Report ieri dice che il piano pandemico italiano, non è stato aggiornato dal 2010. Lei ,professor Guerra, era fino al 2017 direttore generale per la salute preventiva del Ministero della Salute, quindi in qualche modo era anche responsabile di questo piano pandemico. È vero che non lo avete aggiornato?
RANIERI GUERRA- DA AGORÀ Non è così, Report può dire quello che vuole, ma sa ci sono anche dei livelli di confidenzialità che devono essere rispettati
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO L’hanno tenuto segreto perché era l’ammissione al fatto che l’Italia non l’aveva e quando l’hanno finito in fretta e in furia era stato già sorpassato dagli eventi. Lo dice tra le righe lo stesso ex direttore generale del Ministero.
CLAUDIO D’AMARIO - DIRETTORE GENERALE SANITÀ REGIONE ABRUZZO Il piano AntiCovid è stato praticamente maturato in seguito all'osservazione dei modelli matematici che sono stati poi con gli esperti di questi, diciamo, modelli matematici e quindi è stato sviluppato in base a quelle che erano le problematiche assistenziali e intensità di cura. È stato messo in piedi con poco tempo.
GIULIO VALESINI Ma è stato messo in piedi o no? Perché il ministro Speranza dice che non esiste?
CLAUDIO D’AMARIO - DIRETTORE GENERALE SANITÀ REGIONE ABRUZZO No, no. Questo piano di programmazione esiste.
GIULIO VALESINI Il ministro Speranza sta mentendo? No, no, è interessante saperlo.
CLAUDIO D’AMARIO - DIRETTORE GENERALE SANITÀ REGIONE ABRUZZO No, no… Io dico solamente che questo piano è stato poi recepito. Ognuno di noi ne ha ricevuto una copia da parte del Ministero. Ognuno di noi ha letto questo piano lo ha condiviso, e validato, punto.
GIULIO VALESINI Questo a marzo.
CLAUDIO D’AMARIO - DIRETTORE GENERALE SANITÀ REGIONE ABRUZZO Sì. E questo piano praticamente era a disposizione della politica: noi siamo tecnici, quindi…
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Dunque, il nuovo piano per rispondere alla pandemia in base agli scenari del documento segretato era a disposizione del ministro della Salute. Ma quando Speranza viene convocato dal Copasir la sua audizione viene segretata.
CLAUDIO BORGHI - PARLAMENTARE MEMBRO COPASIR Io non posso venire a dire a lei una discussione che è coperta da segreto di Stato.
GIULIO VALESINI Perché negare qualcosa che si è scritto e a cui si è lavorato?
CLAUDIO BORGHI - PARLAMENTARE MEMBRO COPASIR Io quello che posso dirle è che ci sono state una serie di analisi di scenario rispetto alle quali il governo si è assunto determinate responsabilità.
GIULIO VALESINI Di non crederci?
CLAUDIO BORGHI – PARLAMENTARE MEMBRO COPASIR Rispetto alle quali il governo si è assunto determinate responsabilità.
GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Ma dai documenti che Speranza deposita emerge che di fatto un nuovo piano, non era stato completato. Neppure dopo l’esplosione della pandemia e ad ammetterlo è Agostino Miozzo, il coordinatore del Comitato Tecnico Scientifico, in un verbale del 27 aprile, che Report vi mostra. “Un piano non c’è mai stato, si trattava solo di scenari di studio”, questa è la versione che Miozzo suggerisce e che sarà ripetuta anche dal ministro Speranza. L’anomalia è che sul frontespizio del documento di 53 pagine del 2 marzo di cui Report è venuto in possesso si usi proprio la parola “piano nazionale”. Perché il Comitato Tecnico Scientifico lo declassa a scenario? Forse perché non era in grado di applicarlo, come richiedeva la legge.
GIULIO VALESINI Il 7 febbraio voi chiedete all’Istituto Superiore di Sanità, al ministero, di fare un nuovo piano pandemico, poi dite al ministro Speranza: no, non c’è il piano pandemico segreto. Eccolo! Perché mi guarda cosi? La verità al paese la vogliamo raccontare o no?
AGOSTINO MIOZZO - COORDINATORE COMITATO TECNICO SCIENTIFICO Non ti dico niente, non ti dico niente.
GIULIO VALESINI Ma cosa avete da nascondere?
AGOSTINO MIOZZO - COORDINATORE COMITATO TECNICO SCIENTIFICO Io non ho niente da nascondere. Ti rispondo solo se mi autorizzano.
GIULIO VALESINI Ma cosa c’è da nascondere?
AGOSTINO MIOZZO - COORDINATORE COMITATO TECNICO SCIENTIFICO Ahia…
GIULIO VALESINI Allora, il piano pandemico non c’era. Il ministero non l’aveva: giusto, dottor Miozzo?
AGOSTINO MIOZZO - COORDINATORE COMITATO TECNICO SCIENTIFICO Aridanghete.
GIULIO VALESINI Voi d’urgenza…
AGOSTINO MIOZZO COORDINATORE COMITATO TECNICO SCIENTIFICO Non ti rispondo...è inutile che ci provi.
GIULIO VALESINI Come abbiamo fatto a non avere avuto un piano pandemico aggiornato?
AGOSTINO MIOZZO COORDINATORE COMITATO TECNICO SCIENTIFICO Posso andarmene? Ma non ci provare! Non ci provare! Ti ripeto che rispondo se mi autorizzano a rispondere.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Se mi autorizzano dice Miozzo Invece il ministero della Salute a cui abbiamo chiesto se dava l’autorizzazione a Miozzo, dice, no, dipende da Miozzo, non ha tempo. Abbiamo capito che c’è un po’ il gioco dello scaricabarile e un certo imbarazzo di parlare del nuovo piano antiCovid. Ranieri Guerra quando il nostro Giulio Valesini gliel’ha fatto vedere, ha fatto lo gnorri. Invece l’altro ex direttore generale del ministero della Salute D’Amario ha detto, no, il piano nuovo c’è. L’abbiamo fatto, preparato, l’abbiamo messo a disposizione della politica, del ministro della Salute. Invece quando poi Speranza è andato in audizione al Copasir, al Comitato Parlamentare per il Controllo sulla Sicurezza, che cosa ha fatto? È stato secretato la sua audizione. Ha depositato anche due documenti tra cui lo scenario di Merler e il nuovo piano antiCovid, declassato però a mero scenario. Perché? Ecco su questo sta cercando di fare chiarezza la procura di Bergamo, un pool di magistrati coordinati dal procuratore Antonio Chiappani e da Maria Cristina Rota con l’aiuto della Guardia di Finanza che pochi giorni fa è entrata nell’Istituto Superiore di Sanità e ha sequestrato il materiale, le mail, i documenti presenti sul PC del presidente Silvio Brusaferro e anche le sua chat dal 21 febbraio al 30 giugno. Brusaferro, lo diciamo, non è indagato. Ma la procura di Bergamo vuole anche vederci chiaro su quello che è il dossier dell’Oms fatto sparire. Quanto è credibile l’Oms guidato da Tedros che ha consentito quelle pressioni, di far sparire il dossier critico nei confronti del nostro paese sulla gestione della pandemia umiliando anche i suoi ricercatori. E la sparizione del dossier è stato anche oggetto anche al nostro scambio di email con il ministro della Salute Speranza. Ecco anche lui sa, ma non ha voluto rispondere. Così come non ha voluto rispondere del perché il nuovo piano contro le pandemie era stato declassato a scenario. Ecco, forse è il momento di dire la verità, nient’altro che la verità. Se non altro per rispetto, per la memoria di quei fragili che non abbiamo saputo difendere.
Da "lastampa.it" l'11 ottobre 2020. «Altro che Immuni. Altro che tracciamento. Vi promettono che tracciano i contatti dei malati: balle. Vi raccontano che useranno la app Immuni: fantascienza. Vi dicono che vi seguiranno mentre siete malati a casa: aspetta e spera». Così il consigliere regionale ed ex candidato presidente della Regione Liguria per l'alleanza centrosinistra-M5S Ferruccio Sansa oggi pomeriggio via Facebook racconta la sua esperienza con il Covid dopo che uno dei suoi figli lunedì scorso è risultato positivo al tampone. «La Asl ci ha convocato per il tampone in auto. Noi e i nonni. La persona che ci ha telefonato non ha fatto alcun tracciamento di nostro figlio e nemmeno dei nostri contatti. Ha chiesto soltanto che scuola fa. Nessuna domanda sulle palestre che frequentiamo, il calcio, gli scout. Zero. Per fortuna ci abbiamo pensato noi ad avvertire subito tutti – commenta Sansa –. Abbiamo chiesto se possiamo comunicare i dati di Immuni visto che abbiamo scaricato la app tutti (genitori e figli). Risposta: Immuni? non sappiamo cosa bisogna farne. Da allora comincia il vuoto. La Asl scompare. Non richiama più. Non risponde alle telefonate. Arriva l'esito di alcuni degli esami: io risulto negativo ma ho 38 di febbre da giorni. Non sento più gli odori, respiro male e ho le ossa rotte. - sottolinea - Mia moglie ha avuto la febbre per giorni, ferma a letto spossata. L'olfatto azzerato. Ha il Covid? I sintomi ci sono ma dopo quattro giorni attende ancora l'esito del tampone».
Lo studio in esclusiva su Byoblu: “Virus mai isolato: una dittatura basata su tamponi non convalidati” – Stefano Scoglio, candidato Premio Nobel per la medicina nel 2018. Virginia Camerieri su Bioblu di Claudio Messora il 7 settembre 2020.
Candidato al premio Nobel per la medicina nel 2018, Stefano Scoglio pubblica su Byoblu il suo ultimo studio dal titolo “La pandemia inventata, la nuova patologia dell’asintomaticità e la non validità del test per il Covid19”. Il ricercatore scientifico e Direttore del Centro di Ricerche Nutriterapiche di Urbino arriva ad affermare con certezza che: “Il SarsCov2 non è mai stato isolato”.
Sintesi-scientifico-epidemiologica-Covid-19. In una lunga intervista su Byoblu il professore, con dati e carte alla mano, spiega che sebbene ci siano degli studi che affermino il contrario, il processo di separazione del virus non sarebbe mai stato realizzato: “Ho esaminato gli studi che affermano di aver isolato e persino testato il virus, ma tutti hanno fatto qualcosa di molto diverso: hanno preso il liquido faringeo o bronco-alveolare dei pazienti, lo hanno centrifugato per separare le molecole più grandi dalle molecole più piccole, come appunto i presunti virus; hanno poi preso il surnatante (la parte superiore del materiale centrifugato) e hanno chiamato quella matrice estremamente complessa ‘virus isolato’”. Il fatto che il SarsCov2 non sia stato separato dall’organismo da cui proviene pone ulteriori dubbi sulla veridicità-efficacia dei tamponi e dei test sierologici, spiega Scoglio, rivelando un altro fatto estremamente grave: “Esistono 78 tipologie di tamponi, alcune delle quali importate dalla Cina; nessuna di queste è mai stata controllata o ispezionata né convalidata, è la Commissione europea ad affermalo” nel Working Document del 16 aprile scorso. Ma proprio su questa molteplicità di test non controllati né convalidati si è deciso di chiudere un intero Paese come afferma Stefano Scoglio nelle pagine del suo lavoro: “Qui non si tratta di un prodotto voluttuario lasciato alla gestione del libero mercato, ma di uno strumento che è stato essenziale per giustificare il potere dei governi di imporre la peggiore chiusura dittatoriale dei diritti civili ed economici che si possa ricordare a memoria d’uomo!”
Dagospia il 25 settembre 2020. Testo di Paolo Becchi e Giovanni Zibordi. Il SI era la solita trovata demagogica per cui Grillo e DiMaio sono famosi e che li ha portati (vedi il taglio degli stipendi dei parlamentari ora quasi dimenticato) a governare l’Italia negli ultimi quattro anni con risultati deprimenti. Su “Facebook” o su “Twitter” sembrava che il NO avrebbe vinto con il 90%,ma gli italiani che lavorano e tirano su famiglia e specialmente i più anziani passano il loro tempo libero altrimenti e se hanno l’occasione di protestare contro i politici (“ne riduciamo il numero ?”) non stanno molto a pensarci. E così è stato. Amen. Anche l’impressione che la maggioranza del paese fosse stufa del governo Conte e del suo lockdown e avrebbe usato elezioni regionali per cercare di mandarli a casa era un pio desiderio che non teneva conto della realtà della maggioranza degli italiani. Questo governo “del lockdown” in queste elezioni regionali ha tenuto, contro molte aspettative a contrario, proprio perché ha bloccato e chiuso mezza Italia e anche adesso cerca di tenere vivo l’allarme su una emergenza sanitaria che non c’è più, prolungando con buone probabilità ulteriormente lo stato di emergenza. Gli italiani però in estate hanno potuto di nuovo avere il sollievo di uscire liberamente di casa e fare vacanze per cui si è creato l’effetto psicologico positivo dell’”uscita di prigione”. Ma la cosa che più gioca al momento per Conte, Grillo, DiMaio e Zingaretti è che possono approfittare della “sospensione” di tante attività connessa all’emergenza. Innanzitutto, una parte dei lavoratori dipendenti e non solo nel settore pubblico, ha lavorato di meno (“a distanza”, che però è qualcosa che funziona veramente a Google o se sei un programmatore, non all’ufficio del registro o nelle scuole elementari di Palermo). Più in generale, l’insieme delle misure di emergenza ha creato una situazione di sospensione o “limbo” non solo per il lavoro negli uffici pubblici, scuole, università, banche (senza sospendere gli stipendi), ma anche per il pagamento delle rate dei mutui sospeso per cinque mesi da maggio, per licenziamenti e sfratti, sospesi fino a fine anno, pignoramenti, sospesi fino al 15 ottobre. Anche se uno non pagava le bollette finora di fatto il taglio del servizio era sospeso. Chi non pagava fatture o altro da qualche mese non doveva temere decreti ingiuntivi avendo in sostanza paralizzato i tribunali per mesi con il lockdown. Quindi è vero che c’è stata un enorme perdita di reddito e produzione (le statistiche parlano di quasi 300 miliardi di euro in meno rispetto all’anno scorso), ma a parte che sono anche stati distribuiti un poco di sussidi e la cassa integrazione è stata utilizzata pesantemente, c’è anche che chi aveva pagamenti di tasse, affitti e mutui in arretrato non ha dovuto finora preoccuparsi. Questo è stato possibile ovviamente perché il deficit pubblico si è espanso di 100 miliardi circa senza che succedesse niente allo “spread”. Questa sospensione del lavoro da una parte e del pagamento dei debiti o anche tasse o bollette o rate dall’altra ovviamente non serve molto a chi ha avuto una attività o azienda distrutta o danneggiata dal lockdown o a chi lavorava in nero e si è ritrovato di colpo senza reddito. Ma il piccolo segreto dell’economia è che se il PIL crolla del 17%, come accade quest’anno per l’Italia, questa contrazione cade addosso in gran parte alle aziende, lavoro autonomo e parte del lavoro nero, cioè su una minoranza statistica degli elettori. Non ai dipendenti pubblici, non a molti dipendenti privati e non ai pensionati e quindi non alla maggioranza degli elettori. Dulcis in fundo, per la fascia più benestante c’è stato anche un rialzo spettacolare dei mercati globali specialmente quelli americani e anche dei titoli di stato in eurozona e quindi un aumento del valore dei loro fondi o titoli o azioni. Come forse si è letto l’indice delle borse mondiali è tornato ai livelli pre-Covid. Un dato poi abbastanza incredibile, riportato di recente sul Sole24ore da Vito Lops, è che da marzo i BTP sono aumentati di valore (incremento di quotazioni e quindi capital gain) di 150 miliardi. Questo enorme guadagno patrimoniale ha beneficiato oltre che le Banche Centrali, banche, assicurazioni, fondi (oltre che investitori esteri). Conte, DiMaio e Zingaretti hanno avuto in sostanza fortuna: le elezioni regionali sono cadute nel momento più favorevole, al ritorno delle vacanze e non a dicembre o gennaio nel mezzo di molto probabili licenziamenti, pignoramenti, sfratti e fallimenti. Anche i mercati finanziari che indirettamente contano parecchio, sono risaliti per tutta l’estate e solo da qualche giorno si avvertono sintomi di smottamento che possono provocare un altro panico come a marzo. Questa situazione di “limbo” è resa possibile solo dalla famosa politica di “QE” delle Banche Centrali, che hanno creato centinaia e centinaia di miliardi dal niente, usandoli per sostenere banche, titoli di stato e mercati finanziari e in pratica finanziando i deficit. Questa creazione di denaro dal nulla sfugge ai nostri esperti economici che parlano sempre del debito pubblico e finora non provoca conseguenze negative evidenti. Fino a quando è in vigore consente di sospendere pagamenti di tasse, mutui e prestiti, bollette e rate e anche (per alcuni) di lavorare meno. Ecco dunque il miracolo: si producono e vendono meno beni e servizi, causa lockdown, e lo stesso si sta a galla perché non si pagano (si rimandano) debiti e (alcune) tasse e si danno sussidi in più. Il governo Conte ha finora fortuna anche perché, a differenza di altri paesi dove c’è opposizione al “lockdown” sui media e in politica, in Italia non lo si critica per avere chiuso tutto senza motivo (noi siamo modestamente tra i pochi che ci proviamo). Caparbiamente, cerchiamo di richiamare l’attenzione sul fatto che in realtà la mortalità è tornata normale dopo due mesi anche da noi, come era successo in Cina e Asia e come è sempre successo nei casi di pandemie precedenti nella storia (quella del 2003, del 1968, del 1958…). L’Osservatorio Europeo sulla Mortalità, EuroMoMo, che raccoglie i dati ufficiali sulla mortalità settimanale in tutti i paesi europei, è a disposizione di tutti con un paio di click euromomo.eu/graphs-and-maps e mostra anzi che in settembre la mortalità ha toccato il livello più basso mai registrato in Europa. Si dirà che in marzo e aprile non era così, ma appunto questo accadeva sei mesi fa e anche allora al centro-sud la mortalità non è mai aumentata (neanche quando a Bergamo, Lodi e Piacenza esisteva una emergenza sanitaria). In Italia i decessi annuali oscillano tra 550mila e 590mila negli ultimi anni e quest’anno l’incremento totale sembra possa essere di circa 30mila. Questo però si è già verificato in passato, ad esempio nel 2015 quando l’incremento rispetto al 2014 fu di oltre 45mila morti. Nel 2015 quindi ci fu un incremento di decessi maggiore che nel 2020 (+45 mila morti da gennaio ad agosto, contro +30 mila circa nel 2020, sempre da gennaio ad agosto). Questo dato da solo, che nessun giornale a citato e solo noi su alcuni social richiamiamo, è sufficiente a capire che la psicosi del Covid che ha fatto chiudere tutti in casa è stata costruita ad arte. Questo lo si capisce ora perché quasi tutti gli articoli e servizi delle TV citano i numeri dei “positivi” e non più dei decessi e anche i grafici di questi ultimi siano spariti. Perché se li si andasse a cercare si vedrebbe che da fine maggio i morti che risultano “positivi”, quindi classificati come “Covid” sono quasi spariti. Da mesi il loro numero è statisticamente irrilevante, parliamo di 1 o 2 decessi al giorno ogni 10 milioni di abitanti. La stessa cosa è avvenuta in tutta Europa (dopo che era accaduta in Cina e Est-Asia), vedi qui il grafico della mortalità giornaliera nei principali paesi europei). Si può obiettare che comunque dei morti Covid ci sono anche oggi, anche se molto pochi. Se si scava però nelle notizie degli 8 o 9 decessi del Bollettino giornaliero, si scopre che si tratta di 87enni o 90enni che risultano anche positivi, persone con un aspettativa di vita minima e di cui è difficile stabilire la causa precisa del decesso. Perchè l’età media dei pazienti deceduti positivi al Covid è di 79 anni per gli uomini e di 85 anni per le donne e l’aspettativa di vita media in Italia è di 80 anni per gli uomini e di 85 anni per le donne. Per cui l’aspettativa di vita media dei pazienti deceduti con Covid è quasi zero. Questi dati mostrano che, dal punto di vista sociale ed economico, cioè dal punto di vista di un intera nazione di 60 milioni di persone, il Covid-19 non è più da mesi un fenomeno rilevante (in rapporto agli altri problemi sanitari, sociali ed economici dell’Italia). Anche in America quando vengono pubblicati referti di decesso “Covid” si nota che si tratta spesso di 87enni e si indica come Causa A:“complications of Covid” e come Causa B ”dementia, Hypertensive and atherosclerotic cardiovascular disease, chronic renal failure”. Se però accendi una TV o apri un giornale trovi sempre e ogni giorno il conteggio dei “positivi” come se fosse un numero di ammalati o di morti, anche se in realtà ora si tratta di giovani e adulti che non soffrono di niente di rilevante, sono sani perché privi di sintomi e non contagiano. Ci si dimentica che di virus ne circolano sempre tanti, della tipologia “coronavirus” ce ne sono sei o sette in giro da anni, ma solo se fanno ammalare e morire migliaia di persone sono un problema sociale. E se anche fosse un problema la “seconda ondata” dei contagi bisognerebbe chiedersi perché ha avuto ragione la Svezia, che come qualche giornale timidamente ora menziona, l’ha evitata sembra, a differenza di Spagna, Francia, UK, Italia, grazie al fatto che non ha chiuso niente e ha lasciato quindi diffondere il virus. Il Covid-19, passato il picco che in tutti i paesi sembra duri al massimo due mesi, contribuisce al decesso di un numero statisticamente non rilevante (2 decessi al giorno x 10 milioni di abitanti al momento) di 80enni con altre patologie gravi. Da mesi quindi il Covid concorre (forse) alla dipartita di qualche centinaio di 80enni già malati gravi, sia in Italia che in America. Ma in Italia si verificano comunque circa 600 mila decessi per altre cause, oscillazioni annuali di 30 o 40 mila sono già capitate (vedi 2015) e milioni di persone affette da varie patologie sono state trascurate per la psicosi del Covid, anche nel CentroSud dove non c’era nessuna emergenza. Nel frattempo si legge di casi di ricoverati urgenti a cui ci si limita di fare il tampone e poi non vengono assistiti e muoiono nell’attesa. Adesso sono passati quasi 9 mesi da quando il Covid-19 è apparso in Wuhan e come si sa in Cina è scomparso e sono passati circa 6 mesi da quando ha smesso di provocare mortalità sopra la media in Italia. Rispetto agli altri problemi sociali dell’Italia i “contagi” di positivi del Covid di cui si parla ossessivamente non sono un problema rilevante, come ad esempio invece lo è il crollo di 140mila nascite all’anno che si è verificato dal 2008 ad oggi. Anche prima del Covid gli italiani stavano sparendo al ritmo di oltre 300mila in meno l’anno causa crisi economica senza fine, ma si parla solo del fatto che ora qualche centinaio di persone oltre gli 80 anni che muore assieme ad altre patologie può essere stata anche affetta da un virus. Se si passa però di nuovo ora al livello politico, Conte, Di Maio e Zingaretti beneficiano dell’impressione che i media hanno instillato: “chiudendo tutto abbiano però evitato migliaia di morti”, anche se l’esempio della Svezia che senza chiudere niente ha avuto lo stesso andamento smentisce questa tesi (come si può vedere dal grafico di cui sopra). La psicosi dei “positivi” in aumento dopo l’estate, per cui fa notizia la chiusura di una scuola perché un solo studente è positivo, distoglie l’attenzione dell’opinione pubblica dallo tsunami economico in arrivo (licenziamenti, fallimenti, pignorament, crac finanziarii…). In America Trump e molti altri chiedono di riaprire tutto, fanno dimostrazioni senza mascherina e denunciano ad esempio il fatto che molti decessi Covid sono classificati tali perchè si ottengono così molti più soldi coi rimborsi pubblici. In Italia pochi hanno il coraggio di dire chiaramente queste cose e anche l’opposizione in Italia pare ancora molto timida su questo. Di conseguenza la propaganda sui “positivi” e i tamponi continua ad occupare le prima pagine e di riflesso al governo Conte viene perdonato il disastro economico e passa indenne alle elezioni. Il conto alla rovescia però dei conti da pagare, dei licenziamenti, fallimenti, pignoramenti e sfratti in arrivo e del probabile crash dei mercati è partito. Il segnale nel mondo di oggi lo danno non più i movimenti politici o di piazza come una volta, ma i mercati finanziari, che da metà settembre cominciano a scricchiolare. Il gioco dell’allarmismo sui contagi probabilmente verrà tenuto vivo fino al 4 novembre, all’elezione di Trump, perché è considerato come il nemico numero uno dell’élite globalista e immigrazionista. Basta vedere come i Democratici Biden, Harris o Pelosi si mostrino sempre, anche in comizi dove parlano a distanza di 20 metri da qualche giornalista presente, sempre con la mascherina di rigore. Questo gioco che l’élite globale per diversi motivi sta giocando è distruttivo per l’economia. L’Italia, che è in crisi da quando è entrata nell’euro e perde quest’anno più del 15% del PIL, con questo governo è alla deriva e sarà la prima in Europa a collassare.
Il documento che inguaia il governo: la verità sul contagio nelle Rsa. Nel Libro nero del coronavirus il racconto inedito dei ritardi e delle retromarce di marzo che costarono la vita a migliaia di anziani. Giuseppe De Lorenzo e Andrea Indini, Lunedì 12/10/2020 su Il Giornale. Pubblichiamo un estratto da Il libro nero del coronavirus (Historica Edizioni, 350 pagine, 20 euro), scritto da Giuseppe De Lorenzo e Andrea Indini. Sfogliando le cronache di quei primi giorni di marzo, sembra quasi che nessuno avesse messo a fuoco che per evitare migliaia di decessi si dovesse agire con maggiore incisività nelle strutture per anziani. Se alle persone in strada si chiedeva di ridurre i contatti, forse sarebbe stato necessario vietare sin da subito le visite dei parenti nelle Rsa. Se negli ospedali si invitavano medici e infermieri a indossare le mascherine davanti a casi sospetti, forse sarebbe stato utile imporre l'uso del Dpi anche nei corridoi delle Rsa. E invece non è andata così. La prima «rigorosa limitazione» all'accesso di visitatori nelle case di riposo viene inserita solo nel Dpcm del 1° marzo ed è riferita esclusivamente ad alcune regioni. L'indicazione generalizzata alle residenze di tutta Italia di limitare «l'accesso di parenti e visitatori» arriverà solo con il Dpcm del 4 marzo. Per quasi due settimane, dunque, i parenti continuano a fare avanti e indietro nelle strutture, rischiando di portare con loro il contagio. Non sarebbe stato meglio agire subito in tutto il Paese? Senza contare che il primo rapporto dell'Iss dedicato alla prevenzione e al controllo dell'infezione nelle Rsa arriverà addirittura il 16 marzo, due mesi dopo la dichiarazione dello stato di emergenza. Non si poteva predisporre prima? Le indicazioni dell'Iss meritano di essere citate non solo per la tempistica ma anche per il contenuto. Queste suggeriscono troppo genericamente di indossare «dispositivi di protezione individuale appropriati» in «relazione alla valutazione del rischio». Non si parla mai di indossare i Dpi per «prevenire» l'ingresso del morbo. Anzi. Anche per i pazienti le mascherine vengono suggerite solo «in presenza di sintomi di infezione respiratoria acuta». Il documento dell'Iss verrà rivisto il 17 aprile in una versione aggiornata e molto, molto più dettagliata. Perché non farla subito così? Quando ormai la strage nelle Rsa è il tema centrale del dibattito politico, infatti, l'Istituto rende più dure le indicazioni rivolte alle strutture sanitarie. Tra le regole non inserite nella prima versione viene per esempio scritto di «evitare per quanto possibile l'invio di residenti in ospedale per visite specialistiche ed esami strumentali» e viene chiesto a fornitori, manutentori e altri operatori di indossare la mascherina chirurgica. Peccato fosse ormai troppo tardi. «Le prime indicazioni ci dicevano che la mascherina non andava messa», racconta un operatore sanitario di una Rsa emiliana. Nel primo rapporto indirizzato agli operatori sanitari (14 marzo) viene infatti spiegato che, vista la scarsa disponibilità di Dpi, è bene «ottimizzare il loro utilizzo» per «garantirne la maggiore disponibilità possibile agli operatori maggiormente esposti al rischio di contagio». Tradotto: ridurre al minimo l'uso delle mascherine se non si è impegnati a trattare un contagiato. Nelle aree di transito di un ospedale, in assenza di pazienti Covid, l'uso dei Dpi viene, quindi, ritenuto «non necessario». Il rapporto verrà rivisto il 28 marzo. «In alcuni ambiti assistenziali sanitari - viene aggiunto - si valuti la possibilità di uso della mascherina chirurgica come presidio da utilizzare all'interno dell'ospedale tout court per tutti i sanitari». L'esempio calza a pennello per le Rsa. La domanda è: perché non suggerirlo sin da subito e scriverlo nelle istruzioni dedicate agli operatori delle strutture per anziani?
Il dossier di Bergamo che fa tremare il Governo: “10 mila morti evitabili”. Manuela D’Alessandro per Agi su affaritaliani.it Giovedì, 20 agosto 2020. Pier Paolo Lunelli spiega perché la storia del virus in Italia poteva essere molto diversa e chiede di desecretare il piano di emergenza nazionale di gennaio. Sul suo dossier agli atti dell'inchiesta della Procura di Bergamo, che ha portato all'audizione anche di Giuseppe Conte a Palazzo Chigi, puntano moltissimo i familiari della vittime, raccolti nel Comitato 'Noi Denunceremo', per dimostrare che la conta dei morti sarebbe stata molto più contenuta, se si fosse fatto quello che ci veniva chiesto da anni dall'Oms: un piano pandemico adeguato a prevenire un'epidemia influenzale, come quelli elaborati da altri Paesi, a cominciare dalla Germania. Pier Paolo Lunelli, ex generale dell'Esercito, già responsabile della Scuola interforze per la Difesa Nbc, la struttura che forma il personale militare e quello ministeriale al contrasto delle minacce di tipo biologico, chimico e radiologico e autore di diversi di protocolli pandemici per vari Stati Europei, spiega all'AGI perché la storia del coronavirus in Italia avrebbe potuto essere diversa.
Nel suo paper, Lei sostiene che avere un piano pandemico efficace avrebbe consentito all’Italia di evitare 10mila morti. Perché?
«Nel mio testo utilizzo il termine "verosimile", non il termine "certo". Confrontando le performance in termini di vittime ogni milione di abitanti dei vari Paesi europei (è certamente brutto accostare performance con vittime) ho soltanto rilevato l’esistenza di una correlazione tra la data di aggiornamento dei rispettivi piani e il tasso di mortalità di quel Paese, inteso come numero di vittime per milione di abitanti. In poche parole, chi aveva piani più recenti ha avuto meno, anzi molti meno, morti. In questa prospettiva, se avessimo avuto le performance dei tedeschi, che nei loro piani sono inflessibili e tremendamente organizzati, avremmo avuto in totale intorno a 6mila vittime anziché 35mila. Tuttavia, senza puntare così in alto e accontentandoci delle performance medie dell’Olanda, forse avremmo potuto risparmiare 10mila vite. Ma anche se ne avessimo salvate soltanto mille ne sarebbe valsa la pena».
L’Oms aveva avvertito più volte della necessità di dotarsi di un piano, ma l’Italia non ha risposto in modo adeguato. In capo a chi ricadono le responsabilità di questa lacuna? Solo alla politica o anche alla Protezione Civile o altri enti "tecnici"?
«Il mio paper si basa esclusivamente su fatti tratti da fonti aperte e sufficientemente affidabili. Non ho informazioni per stabilire se la responsabilità sia politica o della burocrazia ministeriale e una risposta in questo senso sarebbe soltanto un’opinione. Tuttavia, sulla base di quanto riportato nel suo sito, la Protezione civile non appare essere responsabile in materia di pandemie. E’ invece responsabile della pianificazione di tutte le altre calamità, escluse quelle pandemiche. Quello che affermo è confermato dal rapporto internazionale del 2019 sulle capacità di rispondere alle emergenze sanitarie (Ghs) di tutti i Paesi. Inoltre, in tutti gli Stati europei l’emergenza pandemica è gestita dal Ministero della Salute, che è l’unico organo che risulta essere interfacciato con l’Organizzazione Mondiale della Sanità e con il Centro europeo per la prevenzione delle malattie. L’autorità politica, in tutti i Paesi europei, è chiamata in causa nella decisione sul rischio da assumere, semplicemente perché un rischio alto comporta maggiori costi e risorse da allocare per prepararsi a questa emergenza».
L’assenza del piano pandemico ha comportato una centralizzazione delle decisioni. E’ anche per l’assenza di un piano che stabilisse a chi spettasse cosa che ora, per la magistratura e per l’opinione pubblica, è molto complicato stabilire delle responsabilità?
«Questa domanda centra un punto chiave ma posso dare soltanto una risposta tecnica. Più centralizzazione o più decentralizzazione è la sostanza del dilemma che ci si para quando dobbiamo prendere decisioni in una grave situazione di incertezza come quella pandemica.
Con la centralizzazione vi è un unico organo che decide anche cosa si deve fare fino al singolo Comune. La gerarchia Stato, Regioni, Province, Comuni viene quasi azzerata. La direzione e il controllo accentrati sono la migliore soluzione in un ambiente esterno stabile, ma non in una ambiente che sta diventando caotico come una pandemia. Nel caso di ambiente fortemente perturbato e in situazioni particolarmente complesse, la soluzione ottimale è la decentralizzazione, assicurando alle regioni e alle Asl un’autonomia decisionale per assolvere al meglio il compito affidato. Tuttavia, una premessa indispensabile per applicare la decentralizzazione è la disponibilità di un binario su cui muoversi, un binario tracciato da precisi compiti e da piani coordinati e armonizzati ai diversi livelli: centrale, regionale e locale. In altre parole, in situazioni di grande complessità e incertezza come le pandemie, la decentralizzazione appare la miglior soluzione, con il presupposto che siano già stati attivati piani coordinati a livello centrale, regionale e locale. Questa soluzione, naturalmente, presume di fare riferimento su subordinati capaci, attivi ed esperti nel decidere bene e rapidamente nella specifica materia».
Che obblighi avevano le Regioni, le Ats e le Asst in relazione ai protocolli di attuazione del piano pandemico? Sono completamente esenti da responsabilità visto che è mancato "il primo" anello della catena di comando, cioè il Governo? Oppure potevano fare in autonomia delle scelte? Per esempio, Asst di Bergamo est, sollecitata da AGI sul punto, ha risposto di “non essere tenuta ad adottare un piano” e che “il piano nazionale fa riferimento all’aviaria, da non potersi comparare alla pandemia da Covid 19”. Altre Ats, come quella di Lodi, hanno perlomeno tentato di disciplinare in anticipo l’emergenza.
«Ha perfettamente ragione. Ho avuto modo di leggere qualche giorno fa il piano pandemico degli Spedali di Brescia datato circa cinque anni fa. Un’iniziativa eccellente: punti di contatto, azioni preliminari e molto altro; mancavano solo le ipotesi sui parametri epidemiologici (tasso di attacco, di ospedalizzazione e di terapia intensiva, di mortalità ecc.) che qualcun altro avrebbe dovuto loro fornire. Questi parametri variano. In una città come Milano il tasso di attacco è inevitabilmente più alto (metropolitana, movida) ma a Madesimo o nell’alta Val Chiavenna sono sicuramente inferiori (eccetto il caso di forte afflusso di sciatori come è accaduto a cavallo tra gennaio e marzo). Circa le responsabilità delle Asst, in tutti i Paesi europei è il Ministero della Salute che dialoga con l’Organizzazione Mondiale della Sanità e il Centro europeo per il controllo delle malattie. Non ho idea se questa possibilità in Italia è data anche alle Ats, ma non credo, se non ai fini informativi (questa è una mia opinione, nel mio paper le chiamo ancora Asl ma è una vecchia abitudine)».
Esiste un piano di emergenza di gennaio che è stato secretato. Pensa che andrebbe desecretato e perché viene nascosto all’opinione pubblica? Esistono altri Paesi dove questi piani vengono secretati?
«Non credo esistano Paesi democratici, nel vero senso della parola, almeno in Europa, dove questi piani vengono secretati. La secretazione può essere legittima, se è connessa a gravi esigenze di sicurezza nazionale. Tuttavia, dopo il passaggio alla fase due, questi documenti, che non riguardano cose militari, dovrebbero essere resi pubblici».
Perché Gran Bretagna e Usa, pur avendo dei buoni piani, non sembrano aver gestito l’emergenza in modo consono?
«Gb e Usa - e questa è la mia opinione - hanno commesso gravi errori nel passare dalla teoria dei piani all’azione sul campo. Boris Johnson a fine gennaio decise di non presiedere una riunione del Comitato di emergenza del governo, dove si discuteva sull'opportunità di effettuare test diagnostici a tappeto, di potenziare le scorte per la protezione individuale del personale sanitario e di predisporre un eventuale lockdown. Da allora, il primo ministro ha continuato a stringere ogni mano a portata di braccio confidando “nell'immunità del gregge", così come Donald Trump. Il 12 marzo (noi avevamo già chiuso tutto) annunciò che la Gran Bretagna sarebbe passata dalla fase di "contenimento" dell'emergenza alla fase di "ritardo". Questa decisione significava che il tracciamento dei contatti sarebbe stato abbandonato e i test sarebbero stati limitati a solo ai ricoverati in ospedale con sintomi. Soltanto 23 marzo, quando la situazione era ormai andata fuori controllo, ha attivato il lockdown del Paese. Quattro giorni dopo è stato testato positivo al Covid e il 5 Aprile ricoverato per tre giorni in terapia intensiva. Il 10 maggio, ripresosi dalla malattia, ha cambiato completamente approccio allineandosi agli altri Paesi europei. Ma ormai era troppo tardi. L’orgoglio personale, il sentirsi superiori agli altri, l’eccessiva sicurezza in sé stessi (il “bias dell’overconfidence”), la hubris, quella tracotanza che caratterizza molti politici del mondo anglosassone, hanno portato a commettere gravissimi errori nella gestione della pandemia, hanno reso inutile l’accurata pianificazione. E infine hanno causato un elevato numero di vittime e un tasso di mortalità perfino superiore al nostro».
Stefano Filippi per ''La Verità'' il 30 settembre 2020. Con un bel «vaffa» alla trasparenza che doveva essere la cifra distintiva dei 5 stelle al governo, la Camera ha bocciato la mozione presentata dall'opposizione che chiedeva la pubblicazione automatica e integrale di tutti i verbali delle riunioni del Comitato tecnico scientifico. Una richiesta semplice, motivata dal fatto che «tale pubblicità è necessaria all'esercizio dell'ordinario controllo politico-democratico da parte dei cittadini e dei loro rappresentanti»: così si legge nel testo depositato dalla presidente di Fratelli d'Italia, Giorgia Meloni, seguita dai capigruppo a Montecitorio dei tre partiti di centrodestra (Riccardo Molinari della Lega, Mariastella Gelmini di Forza Italia e Francesco Lollobrigida di Fdi). Seguono la bellezza di 157 firme, cioè i tre gruppi parlamentari praticamente al completo. «Questa è una questione di rispetto. Per il Parlamento e per la democrazia. Se questa non viene rispettata, allora diventa una dittatura. Una dittatura a fronte di un'emergenza sanitaria», ha detto l'onorevole Maria Teresa Bellucci (Fdi), presentando la mozione in Aula. Ma la maggioranza ha risposto di no, che non ci dev' essere automatismo tra i lavori del Comitato tecnico scientifico e la loro comunicazione al Paese. Il voto in aula parla chiaro: 241 voti contrari e 199 favorevoli oltre a 5 astensioni. Lo scrutinio dice che la mozione ha convinto quasi 40 deputati in più rispetto ai 161 sottoscrittori originari: dunque, l'esigenza di chiarezza non è sentita solo dalla minoranza in Parlamento, che in realtà è maggioranza nel Paese. La risposta è il muro di gomma, la trincea dei silenzi. Nessuno deve parlare al conducente.Il Comitato tecnico scientifico non è solo l'organismo che ha suggerito al governo gran parte delle decisioni di questi mesi. È anche quello che non ha consigliato di prendere altre scelte. Per esempio, dai verbali finora resi noti non ci sono state raccomandazioni esplicite del Comitato per disporre subito il lockdown nazionale: il governo lo decretò il 9 marzo dopo che l'epidemia era scoppiata in Veneto e Lombardia il 20 febbraio e stava già dilagando. Il 7 marzo, il Comitato aveva raccomandato «almeno» l'applicazione delle misure proposte per la Lombardia, non la chiusura totale decretata dal premier Giuseppe Conte due giorni dopo.Non è ancora chiaro se in quelle settimane si sia parlato o no di istituire la zona rossa in Val Seriana, omissione per la quale è indagato il governatore lombardo Attilio Fontana oltre che lo stesso presidente del Consiglio, benché per un «atto dovuto» come i suoi difensori d'ufficio si affrettano a precisare in ogni occasione possibile. Invece è molto chiara un'altra circostanza: il 12 febbraio il Cts ricevette uno studio dettagliato di un matematico, Stefano Merler della Fondazione Bruno Kessler, che anticipava con singolare preveggenza quello che sarebbe accaduto di lì a pochi giorni: un milione di persone contagiate, oltre 35.000 morti, un fabbisogno di letti di terapia intensiva pari almeno a 60.000. Un documento del quale non si fa menzione in nessuno dei verbali del Comitato finora pubblicati: come mai?È chiaro come il sole che la totale trasparenza sull'azione del Cts è un elemento chiave per valutare il comportamento del governo nell'affrontare l'emergenza sanitaria. Eppure, dalla maggioranza ci si ostina a contrapporre la linea d'ombra. «Il governo ha già scelto, lo scorso 4 settembre, di pubblicare i verbali del Cts decorsi 45 giorni di tempo dalla data della relativa riunione», ha detto alla Camera la sottosegretaria alla presidenza del Consiglio Simona Malpezzi, nel corso della discussione sulla mozione. Quindi niente comunicazioni immediate al Paese. Peraltro, questi verbali sono pieni di omissis: niente generalità dei soggetti privati, delle società, dei prodotti sanitari; niente allegati né documenti di valutazione del Cts.L'opacità non è una novità circa le sedute del Comitato coordinato da Agostino Miozzo. Coloro che volevano aprire il Parlamento «come una scatoletta di tonno» per trasformarlo in una «casa di vetro» si erano già opposti alla prima richiesta di fare luce sull'operato dell'organismo su cui si sono basati i ripetuti dpcm emessi durante il periodo di isolamento. Questa istanza non era venuta dalla politica ma da un'autorità scientifica. Era stata infatti la Fondazione Luigi Einaudi a chiedere l'accesso agli atti del Cts, e il governo vi si era opposto. E quando il Tar del Lazio ha accolto il ricorso della Fondazione, il governo si è opposto una seconda volta schierando l'Avvocatura dello Stato. Soltanto dopo le polemiche sollevate dall'ostinazione di Conte e dei suoi ministri, Palazzo Chigi ha deciso di inviare i verbali alla Fondazione, che successivamente li ha pubblicati sul suo sito Internet. Ma nemmeno questa è stata un'operazione di trasparenza completa, perché il governo ha spedito soltanto alcuni verbali, quelli richiesti. Quali segreti custodirà mai il Cts per impegnare l'esecutivo in un insabbiamento così ostinato?
Fiorenza Sarzanini e Monica Guerzoni per il “Corriere della Sera” l'8 settembre 2020. Un documento di 40 pagine, tre scenari di rischio, grafici e tabelle per mettere a punto le misure contro l' epidemia da coronavirus. Eccolo il «Piano Sanitario nazionale per la risposta a un' eventuale pandemia da Covid-19», che il governo ha secretato e del quale il ministro della Salute Roberto Speranza ha continuato a smentire l' esistenza fino a due giorni fa, derubricandolo a «studio in itinere» le cui valutazioni erano «ipotetiche, aleatorie». Il Piano è stato redatto il 19 febbraio, la stesura finale è datata 22 febbraio 2020. L' obiettivo è dichiarato: «Garantire un' adeguata gestione dell' infezione in ambito territoriale e ospedaliero senza compromettere la continuità assistenziale, razionalizzando l' accesso alle cure, per garantire l' uso ottimale delle risorse. L' erogazione di cure appropriate ridurrà la morbilità e la mortalità attenuando gli effetti della pandemia». Il dossier fissava le priorità: avere scorte adeguate di mascherine, tute e guanti, ma soprattutto maggiore disponibilità dei posti in terapia intensiva. Dotazioni che nelle prime settimane non sono state sufficienti, né per il personale sanitario né per i malati. L' esistenza del Piano pandemico nazionale fu svelata dal Corriere della Sera il 21 aprile. L'intervista al direttore generale per la Programmazione sanitaria del ministero della Salute scatenò una bufera politica. Andrea Urbani faceva riferimento a tre scenari e spiegava che il piano era stato secretato «per non spaventare la popolazione» con proiezioni e numeri troppo drammatici. Elaborando le cifre della riproduzione del virus in Cina in base all' indice di contagio R0, il piano simula il possibile andamento dell' epidemia in Italia. Il «livello di rischio 1, sostenuta ma sporadica trasmissione e diffusione locale dell' infezione», è indicato quasi come caso di scuola, perché l' attenzione degli studiosi si soffermerà sugli scenari più difficili da affrontare. «Livello di rischio 2: diffusa e sostenuta trasmissione locale con aumentata pressione sul Ssn che risponde attivando misure straordinarie preordinate». «Livello di rischio 3: diffusa e sostenuta trasmissione locale con aumentata pressione sul Ssn che risponde attivando misure straordinarie che coinvolgono anche enti e strutture non sanitarie». Questi ultimi due scenari - con indice di contagio rispettivamente a 1,15 e 1,25 - sono quelli che in proiezione producono il gap più ampio di posti in terapia intensiva. Il documento si apre con alcuni «messaggi chiave», il primo dei quali è che la Cina ha dimostrato l'«elevato potenziale epidemico» del virus Sars-CoV-2. Ne consegue che «le misure di contenimento tempestive e radicali sono efficaci nel ridurre l' R0 sotto il livello soglia e nel tenere sotto controllo l' epidemia». In neretto è sottolineato come «dalla conferma del primo caso di trasmissione locale diventa fondamentale attivare tempestivamente misure di contenimento». Gli esperti avevano sottolineato come «le procedure applicate nelle strutture intensive sono ad alta invasività». E per questo prevedevano di «dotare queste unità operative di scorte adeguate di tute "coverall", maschere, shields (scudi, ndr ), cappe, guanti e altri presidi nelle diverse misure e taglie. Le scorte devono essere adeguate al volume atteso di pazienti secondo il livello di attività previsto dall' organizzazione». Scrivono gli esperti: «Dall' analisi dell' offerta assistenziale-ospedaliera riferita alla terapia intensiva, è emersa una dotazione complessiva nazionale di posti letto pari a 5324 (di cui 687 in isolamento semplice e a pressione negativa) con un tasso di occupazione dell' 85%. Ipotizzando di poter fruire del 15% dei posti letto disponibili con una riduzione dell' attività di chirurgia elettiva del 50% (come previsto negli scenari 2 e 3), si potrebbero liberare progressivamente fino a 1597 posti letto in TI di cui 103 in isolamento». Il punto più politico riguarda il coordinamento tra Stato e Regioni. I «governatori», soprattutto in fatto di chiusure e riaperture - dalla circolazione delle persone alle discoteche - si sono troppe volte prodotti in fughe in avanti che hanno innescato frizioni istituzionali. «È attivato un Coordinamento nazionale che opera secondo un modello decisionale centrale ben definito e un mandato forte e direttivo che, nel rispetto delle singole organizzazioni regionali, definisca l' efficienza degli interventi da attuare ma soprattutto l' efficacia delle azioni pianificate». Poi l' invito ad attenersi alla linea del governo: «In stato di emergenza nazionale, le Regioni e le Province autonome devono superare le regole, i principi e le attuali differenze programmatiche che derivano dall' adozione di modelli organizzativi fortemente differenti soprattutto per le attività di emergenza». Parole da rileggere con il senno del poi.
Pierluigi Lopalco a Piazzapulita: "Abbiamo detto che le mascherine non servivano perché la priorità era darle agli operatori sanitari". Libero Quotidiano il 09 ottobre 2020 . Perché gli esperti di coronavirus per settimane, all'inizio dell'epidemia, hanno detto agli italiani che le mascherine non servivano? Semplice, spiega Pierluigi Lopalco, "perché le mascherine non c'erano". L'epidemiologo divenuto una celebrità durante l'emergenza e che nel frattempo ha guadagnato una poltrona politica nella giunta di Michele Emiliano in Regione Puglia, ospite di Piazzapulita, viene incalzato da Valentina Petrini. "Perché avete detto che non servivano invece di dire di non metterle perché non c'erano?". "Io non l'ho mai detto - risponda imbarazzato il professore -, ma la priorità era dare le mascherine agli operatori sanitari". Al di là del fatto che le forniture agli operatori sanitari erano responsabilità di Stato e ospedali, e che quindi l'acquisto "sul libero mercato" dei dispositivi di sicurezza non avrebbe inficiato in alcun modo l'approvvigionamento, è lapalissiana la confusione che regnava tra gli addetti ai lavori che avrebbero dovuto mettere in guardia gli italiani e che invece per alcune fondamentali settimane hanno mandato al macello una buona parte di Paese.
Ora pure Lopalco ammette le bugie sulle mascherine. "Le mascherine non c'erano", ha spiegato il virologo, neo assessore alla sanità della regione Puglia governata da Michele Emiliano. Federico Garau, Venerdì 09/10/2020 su Il Giornale. Il neo assessore regionale della Puglia governata da Michele Emiliano, vale a dire il virologo Pierluigi Lopalco, rivela finalmente perché nelle fasi più drammatiche della pandemia da Coronavirus si fosse sentito ripetere spesso che le mascherine non servissero poi tanto: "Perché non ce n'erano". Un'ammissione che lascia di stucco non solo gli ospiti di "Piazzapulita", programma televisivo condotto da Corrado Formigli e in onda sulle frequenze di La7, ma anche i cittadini che da casa hanno potuto udire quella esternazione. L'epidemiologo dell'Università di Pisa viene incalzato da una serie di domande proprio sull'uso dei dispositivi di protezione individuale e sulla loro necessità, fino a che non arriva quella più scomoda da parte di Valentina Petrini:"Perché voi in un primo momento avete detto alla popolazione di non mettere le mascherine? Che non dovevano comprarle? Non lei in particolare. Ma perché tra marzo, aprile, maggio abbiamo assistito a questo? Chiedo a lei. Perché è stato grave". "Perché non c'erano", risponde senza mezzi giri di parole Lopalco."Molto semplice, perché in sanità pubblica in quel momento la priorità era dare le mascherine agli operatori sanitari". "Proprio all'inizio di questa epidemia, quando ancora non era arrivato lo tsunami, io ricordo che feci una riflessione. Dissi: 'Tremo all'idea che questo virus arrivi negli ospedali italiani, dove è così scarsa la cultura del controllo infezioni'", ha raccontato Pierluigi Lopalco nel corso della trasmissione. "Tenete presente che l'Italia, in Europa, è uno dei Paesi che ha il più alto tasso di infezioni in ambiente assistenziale. Manca la cultura, lo dico da medico e lo dico da igienista". L'Italia è il Paese che consuma meno gel idroalcolico, aggiunge ancora l'epidemiologo dell'università di Pisa nello spiegare il perché dei ritardi e delle inadeguatezze nella risposta alla pandemia. "C'era una condizione culturale, non negli ospedali della Lombardia ma in tutti gli ospedali italiani, che sicuramente ha favorito in parte la circolazione di questo virus. Però attenzione, questo virus è entrato nei nostri ospedali durante l'epidemia influenzale". In una condizione del genere, e senza nessuna avvisaglia, era improbabile che si potesse sospettare cosa stava accadendo e ci si potesse quindi organizzare per tempo, magari indossando delle mascherine del tipo FFP-2 in reparto dinanzi a pazienti che starnutivano, spiega Lopalco. "Però non facciamo polemiche. Qui non si tratta di capire di chi è stata la colpa, dobbiamo solo imparare la lezione. E questo perché, ed è un'altra riflessione importante, le pandemie non arrivano mai con un'unica ondata. Non c'è mai un'unica ondata pandemica e poi tutto sparisce. Normalmente abbiamo anche una seconda ondata", precisa il virologo. "E se noi vogliamo prevenire la seconda ondata dobbiamo assolutamente imparare la lezione", conclude.
Valentina Santarpia per corriere.it il 6 ottobre 2020. «Alla fine si è dovuto ricorrere al lockdown, misura di cieca disperazione». La considerazione è firmata anche dal consulente del governo Walter Ricciardi in un articolo scientifico del 2 aprile 2020 citato in una nota del rapporto pubblicato dall’Oms il 13 maggio, poi sparito nelle successive 24 ore dal sito dell’organizzazione mondiale della sanità. Il testo, che è stato ottenuto dall’Agi attraverso il Comitato dei familiari delle vittime, si intitola «Quello che gli altri Paesi possono imparare dall’Italia durante la pandemia» ed è siglato, oltre che da Ricciardi, da altri due studiosi, Stefano Boccia e John P.A. Iannidis. «I Paesi con un’aggressiva politica di tracciamento dei contagi e con ampie possibilità di effettuare test di laboratorio (per esempio Taiwan e Corea del Sud) sembrano offrire esempi di successo del contenimento del virus - si legge- In confronto a loro, in Italia sia il tracciamento che i test di laboratorio sono molto limitati e alla fine si è dovuto ricorrere al lockdown, misura di cieca disperazione». Ma Ricciardi, interpellato dal Corriere, spiega: «Cieca nel senso di estrema: non essendo riusciti a contenere il virus attraverso quelle misure di contenimento, abbiamo dovuto far ricorso alle misure di mitigazione: non si poteva far altro». In un passaggio precedente a questo, i tre autori spiegavano che in quella fase, in mancanza di dati precisi, «è difficile predire gli effetti delle decisioni come il lockdown sull’andamento della pandemia. Per esempio, non si sa se l’attuazione di un lockdown conduca a una situazione in cui molte persone possono infettare gli altri e potrebbe portare le persone a passare più tempo in stretto contatto con gli anziani e con coloro che sono più vulnerabili. Allo stesso modo, non è dato sapere se una nuova ondata epidemica possa riemergere quando vengano rimosse le misure di isolamento. Ci sono anche domande senza risposta sul fatto che lo stress e il panico di una crisi pubblica che porta a gravi disordini e all’isolamento possano avere aumentato la vulnerabilità degli anziani e delle persone fragili rispetto a un virus respiratorio».
Walter Ricciardi contro Trump e l’Oms prende le distanze: «Non ci rappresenta». «Mi stupiscono le dichiarazioni sul fatto che si ritenga il lockdown una misura estrema proprio a fronte e in conseguenza di come è stata gestita la parte sanitaria relativa al tracciamento dei tamponi - è il commento dell’avvocato Consuelo Locati, legale del Comitato "Noi Denunceremo" che ha presentato decine di denunce, ipotizzando responsabilità di Governo e Regione Lombardia - Invero, tale dichiarazione può essere considerata ed interpretata come atto di `accusa´, segnatamente individuando e attribuendo responsabilità a chi aveva l’obbligo normativo di intervenire e gestire il tracciamento e prima ancora il reperimento di reagenti per effettuare i tamponi sui cittadini. È lapalissiano che il contenimento del virus passi e possa essere attuato attraverso il tracciamento a tappeto e nelle regioni ove ciò è stato attuato i casi d Covid si sono ridotti e/o contenuti nell’immediato». Locati ricorda che «nel verbale del CTS del 04 marzo 2020 le carenze del sistema emergono, come emergono le carenze di comunicazione e di attivazione della catena di comando, laddove, in particolare, si evidenziano criticità nel passaggio delle informazioni dal livello regionale a quello centrale-governativo, ma, dato ancora più importante, si dichiara l’assenza di un piano pandemico e si dichiara che la risposta all’emergenza sanitaria pandemica viene approntata di fatto day by day». Ma, secondo Ricciardi, quella del legale è una forzatura giuridica: «Da manualistica, prima si contiene, poi si mitiga: per questo stiamo spingendo su Immuni, per aumentare il tracciamento e fare di tutto per evitare una nuova chiusura».
Piena di omissis. La finta trasparenza del governo Conte: dati secretati e pieni di cancellature. Andrea Pruiti Ciarello su Il Riformista il 7 Ottobre 2020. Lo scorso lunedì 28 settembre è stata discussa alla Camera dei Deputati la mozione presentata dai deputati Meloni (FdI), Molinari (Lega), Gelmini (Forza Italia) e Lupi (Misto) concernente iniziative volte a garantire la pubblicazione dei verbali delle riunioni del Comitato tecnico-scientifico istituito dal Capo del Dipartimento della protezione civile. Quella mozione prendeva le mosse dalla Sentenza del 23 luglio 2020, con la quale il TAR Lazio, su impulso di alcuni giuristi siciliani, facenti capo alla Fondazione Luigi Einaudi, aveva obbligato il Governo a rendere disponibili all’accesso quei verbali del Comitato Tecnico Scientifico, che erano stati oggetto di specifica richiesta di ostensione da parte dei giuristi. Quei verbali furono “desecretati” e inviati ai richiedenti, che li misero a disposizione di tutti, sul sito della Fondazione Luigi Einaudi. La pubblicazione di quegli atti imbastì una serrata polemica nei confronti del Governo, in particolare sulla scelta adottata con DPCM del 9 marzo 2020 di serrare il Paese in un “lockdown” nazionale, nonostante il CTS avesse sconsigliato tale soluzione, avendo il 7 marzo suggerito al Governo una limitazione delle restrizioni da “zona rossa” da attuare soltanto in Lombardia ed in altre poche province di Emilia Romagna, Piemonte e Veneto. Per sedare quella polemica, il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte, durante un’intervista rilasciata il 9 agosto a Ceglie Messapica, ha assicurato «che quando c’è un processo decisionale così delicato io rivendico che quei verbali restino riservati. E vi annuncio che sono il primo che consentirà la pubblicazione di tutto, non abbiamo nulla da nascondere». Un’assunzione di responsabilità politica rispetto alle scelte operate ma anche una rassicurazione rispetto alla trasparenza dell’attività del Governo. Il 4 settembre, a distanza di quasi un mese da quell’annuncio, sul sito della Protezione Civile sono stati pubblicati i primi 100 verbali del CTS, ovvero quelli riguardanti il periodo 7 febbraio-10 agosto 2020. A discapito delle premesse governative, però, i verbali del CTS non sono stati pubblicati integralmente, bensì infarciti di omissis e cancellature che non consentono l’esercizio di quella attività di controllo generalizzato, che era stata riconosciuta con la sentenza del TAR Lazio. Le domande che, a questo punto, sorgono prepotentemente sono: se l’obiettivo della pubblicazione dei verbali è quello di rendere trasparente l’operato del Governo, a cosa servono gli omissis? Quali sono gli interessi che meriterebbero di essere tutelati con gli omissis a discapito del diritto dei cittadini italiani di avere accesso a tutte le informazioni riguardanti la gestione scientifica, politica e amministrativa della pandemia da Covid-19? Chi ha deciso di apporre quegli omissis ai verbali del CTS e in base a quale potere? Interrogativi legittimi che tuttavia non trovano riscontro negli atti pubblicati e che fanno emergere più di qualche dubbio sulla reale intenzione del Governo, di conformare ai principi di trasparenza la propria attività amministrativa. In questi giorni è nuovamente tornata di stretta attualità la questione della proroga dello stato di emergenza, disposto per la prima volta il 31 gennaio di quest’anno e già prorogato dal Consiglio dei Ministri fino al prossimo 15 ottobre, con delibera del 29 luglio. Nelle motivazioni della delibera di proroga dello stato di emergenza del 29 luglio si leggeva che la necessità di prorogare quella condizione straordinaria fosse necessaria per garantire la continuità degli interventi allora in corso “per il superamento del contesto di criticità” e per “adottare le opportune misure volte all’organizzazione e realizzazione degli interventi di soccorso e assistenza alla popolazione di cui al decreto legislativo n. 1 del 2018, nonché di quelli diretti ad assicurare una compiuta azione di previsione e prevenzione”. Cosa abbia fatto il Governo per dare seguito a quelle necessità e quali siano state, al riguardo, le indicazioni del Comitato Tecnico Scientifico non è dato saperlo. La pubblicazione degli atti del CTS si ferma al 10 agosto e quindi non possiamo sapere quali siano oggi gli “interventi in corso per il superamento delle criticità”, né quali dovranno essere le “ulteriori misure organizzative per il soccorso e l’assistenza alla popolazione” individuate dal CTS. Da una parte il Governo vuole prorogare lo “stato di emergenza” ma dall’altro non solo non rende noto cosa abbia fatto fin qui per evitare la proroga ma nemmeno cosa abbia intenzione di fare per evitare che di proroga in proroga lo “stato di emergenza” divenga una prassi amministrativa accettata come normale dalla popolazione. Il rischio, in questo caso, non è solo la terribile pandemia da Covid-19, il rischio è lo slittamento sul terreno scivoloso dello Stato di Diritto, sul quale ogni distrazione può essere fatale. L’interventismo sanitario ed assistenziale dello Stato, promosso dal Governo di Giuseppe Conte, attraverso l’impiego massivo di DDPCM, per potere essere sostenuto nell’ambito di un Ordinamento Giuridico che non vuole rinunciare ad essere manifestazione di uno Stato di Diritto, deve necessariamente essere temporalmente circoscritto. Non si deve essere seguaci di Friedrich von Hayek o di Luigi Einaudi per sostenere che il ruolo principale dello Stato è il mantenimento dello Stato di Diritto. Con uno Stato di Diritto in perenne ostaggio di uno “stato di emergenza”, i cittadini non potranno esercitare quelle libertà e quei diritti che la nostra Costituzione riconosce come inviolabili, a partire proprio dal diritto alla salute, che è quello che in questo momento si vorrebbe più tutelare. E così, la mozione presentata dalla minoranza parlamentare non è stata accolta dalla maggioranza, che anzi l’ha contestata e minimizzata. L’on. Stefano Ceccanti (PD), intervenendo in aula ha minimizzato l’importanza della pubblicazione degli atti del CTS ma soprattutto ha definito la richiesta di trasparenza, sostenuta nella mozione della minoranza, come un «mito semplicistico», che può «disorientare e creare problemi immediati», aggiungendo anche che è «il Governo che prende le decisioni, il Governo, che è responsabile verso il Parlamento, finché ha la fiducia, e che non può non avere un margine di discrezionalità nei tempi di divulgazione». A chi formula queste osservazioni nella maggioranza parlamentare, bisogna ricordare che l’Italia è una repubblica parlamentare, la funzione legislativa è esercitata dalle due camere del Parlamento (art. 70 Cost.) e non dal Governo e che la libertà personale è inviolabile e potenzialmente coercibile soltanto per atto motivato dell’Autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge (art. 13 Cost.). Un’impostazione verticistica dello Stato, con la centralizzazione decisoria in capo al Governo, non è in linea con la nostra Costituzione, a nulla rilevando che il Governo abbia la fiducia del Parlamento, giacché la fiducia attiene alla legittimazione politica del Governo, mentre la centralità del Parlamento afferisce alla forma di stato e garantisce, mediante la rappresentanza della nazione, la difesa dello Stato di Diritto. In frangenti come quello attuale, il ruolo della minoranza parlamentare è fondamentale quale presidio critico, così come fondamentale è il ruolo dell’opinione pubblica, al fine di evitare che la dovuta e tempestiva trasparenza amministrativa possa essere considerata un “mito semplicistico” e non per quello che invece è: un preciso dovere del Governo e dello Stato, nei confronti dei cittadini, sancito dalla Costituzione. Non è una questione di merito delle scelte del Governo, è una questione di metodo: la trasparenza è tale solo se è tempestiva, ogni intempestività, soprattutto al di fuori di chiari perimetri normativi e costituzionali, è arbitrio autoritario, che sgretola pericolosamente lo Stato di Diritto.
I verbali del Cts: “Governo decise di tenere il piano anti-Covid segreto”. Redazione su Il Riformista il 5 Settembre 2020. Tutti i verbali del Comitato tecnico scientifico istituto dal governo per affrontare l’emergenza coronavirus sono stati desecretati e pubblicati sul sito della Protezione civile. Unica eccezione, gli allegati e qualche omissis relativo a valutazioni di dispositivi medici da acquistare per gli ospedali italiani, presi d’assalto da tanti pazienti. La decisione è arrivata dopo che giovedì un ordine del giorno su questo tema è stato presentato da Fratelli d’Italia e approvato dalla Camera dei deputati. L’iniziativa ha preceduto di poco il ministro della Salute, Roberto Speranza, che aveva preannunciato l’intenzione di rendere note tutte le fasi della gestione della pandemia. Tanti i passaggi delicati per il nostro Paese contenuti nei 95 documenti diffusi on-line a 45 giorni di distanza dalle riunioni a cui si riferiscono. L’ultimo è del 20 luglio e definisce, tra le altre cose, le precauzioni da adottare nei seggi elettorali il 20 e 21 settembre per le elezioni regionali e il referendum. Dal verbale numero 15 della riunione del 2 marzo emerge quindi come il Cts abbia sottolineato la necessità di mantenere “riservato” il contenuto del Piano di organizzazione della risposta dell’Italia in caso di epidemia. Una scelta motivata dalla presenza di tre scenari al suo interno, di cui uno troppo drammatico per essere divulgato. “La linea — confermò il 21 aprile il direttore generale del ministero della Salute Andrea Urbani in una intervista al Corriere della Sera – è stata non spaventare la popolazione e lavorare per contenere il contagio”. Numerose polemiche si erano sollevate sui verbali nei gli gli esperti si pronunciavano sull’opportunità di isolare paesi o intere zone d’Italia, in particolare su quello del 3 marzo in cui consigliavano di “di adottare per Alzano Lombardo e Nembro, venti contagi a testa, le stesse misure restrittive adottate per gli altri comuni delle zone rosse“. Indicazione che poi non verrà recepita. Nei verbali, però, c’è molto di più. A più ripresa viene sollecitata la massima riservatezza da parte dei membri del Cts sull’andamento del contagio, in particolare sui dati relativi alle terapie intensive. La scuola è tra le preoccupazioni principali del pool di scienziati scelti dal governo, tra cui figurano Silvio Brusaferro, presidente dell’Istituto superiore di sanità, e Giuseppe Ippolito, direttore scientifico dell’ospedale Spallanzani. Già nel verbale della riunione del 7 dicembre il Cts consiglia le prime restrizioni “a gite scolastiche e ai viaggi di cultura” e non esclude che i giorni e le settimane successive “saranno determinati dal livello di diffusione” del virus pari a quello della Cina. Proprio per questo vengono bloccati i voli diretti da Pechino. L’indicazione di chiudere tutte le scuole, però, arriva solo un mese dopo e non senza discussioni. Il Cts il 4 marzo manifesta perplessità sulla proposta del ministro della salute Roberto Speranza di non fare più lezioni di persona. “Le scelte di chiusura dovrebbero essere proporzionali al contagio”, scrive il Cts, e “non esistono dati che ne indichino la inconfutabile utilità”. Infine, la chiusura della scuola “è efficace solo se prolungata”. La scelta, però, sarà quella di passare all’istruzione on-line. Il 7 luglio, a due mesi d’anticipo sulla prima campanella, i tecnici definiscono la distanza di sicurezza “di almeno un metro” tra gli alunni e di almeno 2 metri trai primi banchi – rigorosamente singoli – e la cattedra. Tra le tante decisioni, anche quelle sull’uso della mascherina sui luoghi di lavoro. Il 13 marzo per il Cts “non vi è evidenza per raccomandare indiscriminatamente ai lavoratori di indossare le mascherine. Anzi. Al contrario è stringentemente raccomandato solo per gli operatori sanitari e per chi ha sintomi respiratori“. In ogni caso il Cts si oppone al riutilizzo delle mascherine, in particolare le Ffp2 e Ffp3, in particolare per gli operatori sanitari nonostante in quel periodo scarseggino. Nei documenti, c’è anche traccia del diverbio tra il commissario straordinario Domenico Arcuri, che in una lettera del 2 maggio chiedeva al Cts di velocizzare le procedure per approvare mascherine e Dpi da distribuire in Italia e gli esperti, che si sentono “delegittimati” e minacciano le dimissioni. Decisioni arrivano anche sui tamponi: nei verbali del 14 e 15 marzo il Cts sottolineano che “non necessari su soggetti asintomatici anche se contatti stretti di caso positivo” . Indicazione che poi è stata superata nei mesi successivi. Con il passare delle settimane, e le prime denunce da parte dei familiari ricoverati nelle strutture per anziani tra cui il Pio Albergo Trivulzio, l’attenzione degli esperti si appunta anche sul problema delle Rsa. L’11 aprile il Cts sollecita “una maggiore incidenza dell’azione delle istituzioni” sulle Rsa. “Sono utili le iniziative di monitoraggio suggerite – si legge nel verbale di quel giorno – ma anche iniziative concrete di verifica sul posto ed assistenza potrebbero essere valutate e se del caso promosse, prevedendo un ruolo attivo dei medici di base”.
Coronavirus, Roberto Speranza: "Cosa non rifarei? Potrei scriverci un libro". Libero Quotidiano il 07 settembre 2020. “Cosa non rifarei sul Covid? Potrei scriverci un libro…”. Ecco l'ultima gaffe del ministro della Salute Roberto Speranza. In visita a Siena, nella sede di Toscana Life Sciences, polo tecnologico e della ricerca, il ministro ha risposto così ai giornalisti che gli chiedevano un commento sulle scelte fatte in questi mesi di emergenza per arginare la diffusione del coronavirus nel Paese. Le sue parole ci rimandano ai mille decreti del Presidente del Consiglio, ai numerosi stop and go su diversi temi, ai verbali secretati del Comitato tecnico-scientifico da poco resi pubblici. Speranza ha poi affrontato anche il tema vaccini. E ha voluto rassicurare tutti in merito a eventuali problemi di sicurezza: "Tutti i percorsi in campo hanno una validazione. C’è l’Ema e c’è l’Aifa e posso assicurare che terremo i livelli di cautela più alti possibili. Non siamo arrivati al traguardo, ma il mondo della ricerca globale sta facendo passi avanti". Non è mancata inoltre qualche parola sul Servizio Sanitario Nazionale. Il ministro ha ribadito la sua posizione favorevole rispetto ai fondi del Mes e del Recovery Fund, purché però siano indirizzati alla sanità pubblica. Infine un ultimo ripasso delle misure da applicare per limitare i contagi, quindi uso della mascherina e distanziamento di almeno un metro.
Così il governo sabotò le regioni. La verità sul piano Covid-19. Il Piano pronto a febbraio. Ma non arrivò mai alle regioni, nemmeno in Lombardia dove il Covid stava iniziando a mietere morti. Ecco tutta la verità. Giuseppe De Lorenzo e Andrea Indini, Mercoledì 09/09/2020 su Il Giornale. La nebbia inizia a diradarsi. E si affaccia un po’ di chiarezza sul piano anti Covid realizzato dagli esperti per conto del governo. All’interno erano previsti scenari e indicazioni di reazione in caso l’epidemia colpisse l’Italia, ma non è stato condiviso con le regioni. Neppure con la Lombardia. “Un piano di emergenza sanitaria sicuramente non lo abbiamo ricevuto”, dice Vittorio Demicheli, membro della task force lombarda. La rivelazione, che ilGiornale.it può anticipare in esclusiva, è contenuta nel “Libro nero del Coronavirus. Retroscena e segreti della pandemia che ha sconvolto l’Italia”, edito da Historica Edizioni e in uscita a inizio ottobre.
Breve riassunto. Di questo fantomatico piano si parla ormai da aprile. Lo rivelò il dg Andrea Urbani, membro del Cts, assicurando che il governo vi si era attenuto per affrontare l’emergenza. Disse però che conteneva scenari troppo gravi per mostrarli a tutti e che dunque venne tenuto segreto. Poi Repubblica ne pubblicò alcuni stralci, il governatore Fontana chiese lumi e il ministero, convocato dal Copasir, iniziò a derubricarlo a “studio di previsione” sui “possibili scenari dell’epidemia”. Niente di più. Posizione ribadita pochi giorni fa, quando Speranza lo ha definito uno “studio in itinere” con “valutazioni ipotetiche, aleatorie”. Eppure il “Piano”, così si chiama, esiste. È stato realizzato da Iss, ministero della Salute, ospedale Spallanzani e infine validato dal Cts. Contiene sì scenari e livelli di rischio, ma anche fasi operative e indicazioni pratiche. Ieri ne è stato finalmente pubblicato il testo. Resta il mistero per cui, ai cronisti che avevano fatto un accesso agli atti, il ministero della Salute non lo abbia fornito e la Protezione Civile abbia invece inviato lo studio realizzato da Stefano Merler della Fondazione Kessler. I due testi infatti sembrano diversi. Forse uno ispira l’altro. Di certo, come emerge dai verbali del Cts, il 2 marzo il “Piano” viene approvato nella “versione finale” e presentato al governo. Su queste certezze ne è nata una bagarre politica. Salvini è andato all’attacco, accusando Conte di non aver condiviso “ufficialmente le informazioni nemmeno con i presidenti di Regione”. Speranza gli ha risposto per le rime, affermando che “lo studio a me è stato presentato dal delegato delle Regioni. La persona che me l’ha presentato è stato un esponente della Lombardia”. Come a dire: poteva essere lui a dirlo a Fontana. La persona cui fa riferimento il ministro si chiama Alberto Zoli, 65anni, direttore generale dell’Areu lombarda e soprattutto delegato di tutte le regioni al Cts (non solo la Lombardia). In realtà non ha colpe. Dopo aver letto il lavoro di Merler, il Cts forma un gruppo di studio col compito di stilare il “piano operativo” entro una settimana. Il 19 si tiene una riunione. Nasce la prima bozza. E, stando a quanto riporta il Corriere, il 20 febbraio Zolli viene scelto insieme a Merler per presentare il dossier al ministro. “Io sono semplicemente stato uno degli speaker”, si sarebbe sfogato Zoli con i suoi. La versione definitiva la riceve il 1° marzo “in busta chiusa” e con il vincolo di riservatezza cui sono costretti tutti i membri del Cts. Quindi se ne sta zitto nonostante abbia un ruolo pure nella task force del Pirellone. “Mai mi sarei sognato di violare il segreto per riferire al governatore Fontana”, avrebbe affermato. “Il documento non l’ho mai nominato né consegnato. Ma i presenti alle riunioni lombarde sanno che ho messo il mio sapere a disposizione di tutti. La gravità della situazione e dei numeri non l’ho mai nascosta”. Il giorno dopo, il 2 marzo, il “Piano” viene approvato nella sua “versione finale” dal Cts che decide di presentarlo, via Angelo Borrelli, al ministro Speranza. Il governo assicura di non averlo secretato, e che la riservatezza fu decisa dal Cts, eppure non lo condivide con le regioni. “Quello di cui avevamo consapevolezza erano scenari, non "piani" - dice Demicheli nel libro, intervistato a fine aprile - Un ‘piano’ intende una successione di cose da fare sulla base di ipotesi di comportamento del virus”. Quello che il Pirellone riceve, invece, sono solo “scenari previsionali costruiti dall’Iss e da Stefano Merler” (il matematico non collabora solo con il Cts, ma anche con l’Unità di crisi lombarda): “Sono cose arrivate dopo il 20 febbraio - afferma - e man mano che mandavamo i dati a Merler, lui li adattava alla nostra situazione facendo vedere che se non si interveniva in fretta le dimensioni (del contagio, ndr) sarebbero diventate impressionanti”. “L’unica cosa che ricordo - insiste - è che questi scenari ipotizzavano diffusioni ampie ma con velocità decisamente inferiori". Il virus lombardo, infatti, ha avuto "una velocità di diffusione sueriore a quella che ha avuto in Cina", ma "i modellisti nelle loro previsioni infilavano i parametri di riproducibilità e di intervallo seriale di Wuhan". Quindi non si sono rivelati precisi. "Questi scenari spaventavano per i numeri, e ahimè si sono rivelati veri, ma tranquillizzano dal punto di vista dei tempi. Perché sembrava ci sarebbe stato un po’ più di tempo, che i focolai crescessero più lentamente. Poi è diventato chiaro che non era così: ogni 3 giorni raddoppiava il numero dei malati, quindi quella velocità lì non era realistica”. Scenari a parte, comunque Demicheli è certo: “Io di piani non ne ho visti”. Ad aprile l’epidemiologo dubitava addirittura che ne esistesse uno. "Si fanno i piani pandemici dell’influenza perché è più o meno si sa cosa fanno quei virus", con Sars-CoV-2 invece è diverso. Eppure il governo un “Piano”, per quanto ipotetico, lo aveva. E conteneva alcune indicazioni su come reagire ad un eventuale contagio: fare scorta di mascherine, aumentare le terapie intensive, incrementare i posti letto in ospedale. Se non divulgarlo al pubblico per ragion di Stato può pure avere una logica, perché però non condividerlo con i governatori?
Coronavirus, i documenti segreti del governo: tre scenari e proposte a febbraio. Redazione su Il Riformista l'8 Settembre 2020. Il ministro per la salute Roberto Speranza lo ha definito uno “studio in itinere”, ma si tratta di un documento in 40 pagine che delinea tre scenari di rischio con tanto di grafici e tabelle per capire come fare a fronteggiare l’epidemia di coronavirus in Italia. Il “Piano sanitario nazionale per la risposta a un’eventuale pandemia da Covid-19”, scritto tra il 19 febbraio e il 22 è un vademecum di come fare a “Garantire un’adeguata gestione dell’infezione in ambito territoriale e ospedaliero senza compromettere la continuità assistenziale, razionalizzando l’accesso alle cure, per garantire l’uso ottimale delle risorse. L’erogazione di cure appropriate ridurrà la morbilità e la mortalità attenuando gli effetti della pandemia”. Nel dossier si legge che come prima cosa l’Italia doveva dotarsi di mascherine, tute e guanti e ampliare i posti nelle terapie intensive. Tutte cose che all’inizio della pandemia misero in crisi tutto il sistema sanitario. Gli scenari delineati dal piano sono tre, studiati sulla base di quanto accadeva in Cina. Il “livello di rischio 1, sostenuta ma sporadica trasmissione e diffusione locale dell’infezione”, “Livello di rischio 2: diffusa e sostenuta trasmissione locale con aumentata pressione sul Ssn che risponde attivando misure straordinarie preordinate” e infine “Livello di rischio 3: diffusa e sostenuta trasmissione locale con aumentata pressione sul Ssn che risponde attivando misure straordinarie che coinvolgono anche enti e strutture non sanitarie”. Gli esperti indicano anche linee guida essenziali: “le misure di contenimento tempestive e radicali sono efficaci nel ridurre l’R0 sotto il livello soglia e nel tenere sotto controllo l’epidemia”. In neretto è sottolineato come “dalla conferma del primo caso di trasmissione locale diventa fondamentale attivare tempestivamente misure di contenimento”. Poi c’è la parte che riguarda il coordinamento delle Regioni. Parla di un “modello decisionale centrale ben definito e un mandato forte e direttivo” a cui si invitano i governatori regionali a far riferimento. “In stato di emergenza nazionale, le Regioni e le Province autonome devono superare le regole, i principi e le attuali differenze programmatiche che derivano dall’adozione di modelli organizzativi fortemente differenti soprattutto per le attività di emergenza”.
Dal ''Corriere della Sera'' il 6 settembre 2020. «Se noi abbiamo questa ripresa del Covid-19 è anche per effetto di una propaganda scriteriata di alcune forze politiche del Nord che doveva dire che il virus non esiste e che quindi potevamo tornare a curarci nelle cliniche del Nord perché sono sicure». L' affondo di Pier Luigi Lopalco, già coordinatore della task force pugliese per l' emergenza Covid, è pesante. Un vero e proprio attacco politico che si può spiegare con il fatto che il virologo sia stato arruolato tra i candidati a sostegno del governatore uscente Michele Emiliano. Proprio il suo ingresso in politica, infatti, aveva destato nelle scorse settimane pesanti polemiche da parte del centrodestra che ha accusato il professore di mescolare i ruoli a proprio vantaggio. Ma a Lopalco il ruolo del candidato piace e non si tira indietro. E dopo il primo attacco, alza ancora di più il tiro. Secondo lui la fine della pandemia è «una bugia che hanno provato a venderci nelle televisioni dicendo che il virus fosse clinicamente morto o si era indebolito: avevano bisogno di far ripartire un mercato che è importantissimo, il mercato della sanità». Il bersaglio è chiaro, il virologo alza lo sguardo verso il Nord e spara le sue cannonate: «Per alcune regioni del Nord la sanità non è servizio sanitario, ma mercato sanitario. In Lombardia la sanità è una macchina da prestazione. Entri, ti curo e te ne vai velocemente perché... avanti un altro. In questo modo la Puglia, verso le regioni del Nord, spende 250 milioni e 100 milioni sono per il privato».
Berlusconi positivo, la bomba di Bruno Vespa: Coronavirus, Pierluigi Lopalco spara: "Politica e tv hanno favorito il nuovo contagio per aiutare le cliniche del Nord". Libero Quotidiano il 06 settembre 2020. "Se noi abbiamo questa ripresa del Covid-19 è anche per effetto di una propaganda scriteriata di alcune forze politiche del nord che doveva dire che il coronavirus non esiste e che quindi potevamo tornare a curarci nelle cliniche del nord perché sono sicure". Ma non è finita: "Ci troviamo di fronte a una bugia che hanno provato a venderci nelle televisioni dicendo che il virus fosse clinicamente morto o si era indebolito: avevano bisogno di far ripartire un mercato che è importantissimo, il mercato della sanità". Queste le farneticanti dichiarazioni di Pierluigi Lopalco, epidemiologo assurto a star tv all'epoca del coronavirus e oggi candidato in Puglia con il Pd di Michele Emiliano. Bene, secondo Lopalco chi sostiene che il coronavirus sia meno aggressivo, calato o addirittura - come lui afferma - "sparito" lo avrebbe fatto per favorire il nord e le sue cliniche. Un piano perfetto ordito da politica e televisione. Come se le terapie intensive, per esempio, non fossero sostanzialmente vuote rispetto a quanto accadeva tra febbraio e marzo. Parole sconcertanti, quelle di Lopalco. Un chiaro attacco politico, completamente sgangherato. Nessuno ovviamente sostiene che il coronavirus non esista, forse neppure i bislacchi "no-mask", ma non si può neppure negare che la situazione attuale sia differente rispetto al picco dell'emergenza. Eppure per il candidato democratico tanto basta per affermare ciò che ha affermato. Lopalco poi aggiunge: "Per alcune regioni del nord la sanità non è servizio sanitario, ma mercato sanitario. In Lombardia la sanità è una macchina da prestazione. Entri, ti curo e te ne vai velocemente perché,... avanti un altro. In questo modo la Puglia, verso le regioni del nord, spende 250 milioni e 100 milioni sono per il privato". Altre frasi con cui rilancia il teorema del "coronavirus sparito per favorire il Nord". Agghiacciante.
Di chi è davvero la colpa dei 35 mila morti? Franco Battaglia il 6 settembre 2020 su Nicola Porro.it.
1. Nessuna buona azione rimane impunita.
2. Il metodo scientifico non è il solo strumento di conoscenza, però è il più potente.
3. La più grande invenzione della medicina non è la vaccinazione contro i virus, né gli antibiotici contro i batteri, né la tecnica dei trapianti, ma il metodo in doppio cieco, che altro non è che l’applicazione del metodo scientifico per decidere la bontà di una qualche pratica medica. Per esempio, se si desidera sapere se un farmaco funziona contro una malattia, si somministra il farmaco a un gruppo di malati e un placebo ad un secondo gruppo di malati, in modo che né il medico né il paziente (doppio cieco, appunto) sa chi riceve il farmaco e chi il placebo, e si vede cosa succede. Il collegamento fra queste tre affermazioni è presto detto.
Il 4 giugno, ospite di Bianca Berlinguer, l’On. Pierluigi Bersani affermava: «Se avessero governato loro [cioè il centro destra, NdR), non sarebbero bastati i cimiteri. Un giorno di fine agosto, credo a una qualche festa dell’Unità, l’On. Nicola Zingaretti avrebbe affermato: «Noi non siamo il Paese di Bolsonaro, che ha fatto le fosse comuni nelle spiagge». Naturalmente la frase di Bersani vale tanto quanto ogni valutazione di fatti storici che cominciasse con un “se”, cioè vale nulla. Quanto a quella di Zingaretti, la verità è che a oggi, per milione d’abitanti, il Brasile ha pianto meno morti dell’Italia: Zingaretti se ne faccia una ragione. I due mammasantissima del Pd non deve essere così cretini da ignorare entrambe le cose e allora il vero messaggio che essi vorrebbero veicolare con le loro affermazioni è: «le misure del governo Pd-5s per fronteggiare la pandemia hanno salvato decine di migliaia, se non centinaia di migliaia, di vite umane». Attenzione: non semplicemente “migliaia”, perché i morti finora sono quasi 36 mila, e qualche semplice migliaio non farebbe la differenza. Allora perché i due Cric&Croc non l’hanno detto chiaramente: «Con le misure adottate, il governo Pd-5s ha salvato decine di migliaia di vite». I cretini – che non sono pochi – ci avrebbero creduto. Ma i nostri cretini non sono e, anche se non sprizzano certo intelligenza, di furbizia ne hanno da vendere, a cominciare dalla consapevolezza della pletora di cretini tra i loro elettori, in crescita esponenziale se si aggiungono anche gli estimatori di Conte. I due sanno benissimo che l’attuale governo, lungi dal salvare alcuno, ha la responsabilità morale dei quasi 36 mila morti reali, che pesano sulla coscienza di Conte e di Speranza come macigni. E che le cose siano così sta scritto sui dati. Naturalmente mi rapporto a quelli ufficiali, i soli degni di essere considerati. Riporto cifre tonde, le uniche necessarie per valutazioni di stima. Non vogliamo, non possiamo, non dobbiamo dimenticare che alla fine di gennaio, ospite da Fabio Fazio, Speranza assicurava che l’Italia non era a rischio e che il lockdown adottato allora dalla Cina era dettato dalle multinazionali. Cominciamo col dire che nel mondo vi sono stati 25 milioni di casi, il 4% dei quali (1 milione) sono morti. In Italia vi sono stati 273 mila casi con 36 mila morti, cioè il 13% dei casi: non è un buon inizio per il governo Conte II. Ma continuiamo. Dopo il Belgio che ha pianto 850 morti per milione d’abitanti, i Paesi europei che hanno avuto più decessi per milione d’abitanti sono stati, nell’ordine, Spagna, Regno Unito, Italia, Svezia (tutti con circa 600 morti per milione d’abitanti) e Francia (con 500 morti per milione d’abitanti). Affermare che le misure del governo italiano abbiano salvato qualcuno è un colossale azzardo, già così. Ma v’è ben più di così. Tra i Paesi citati v’è un intruso: la Svezia. A differenza di tutti gli altri, che hanno adottato misure simili a quelle italiane, cioè lockdown indiscriminato e totale, in Svezia non v’è stato alcun lockdown e, a parte chiusura delle scuole superiori e suggerimenti di distanziamento, la vita s’è svolta normalmente. La politica è stata: ognuno sia poliziotto di sé stesso. Hanno fatto male, non perché avrebbero dovuto fare quel che abbiamo fatto noi e gli altri Paesi citati, ma perché avrebbero dovuto fare quel che neanche noi abbiamo fatto, ma altri hanno fatto, come vedremo. In buona sostanza è come se, tra Svezia da un lato e gli altri Paesi citati dall’altro, si fosse fatto un esperimento del tipo di quelli del metodo in doppio cieco: una coorte – Spagna, Regno Unito, Italia, Francia – ha avuto la cura (lockdown indiscriminato e totale); l’altra coorte – la Svezia – ha avuto il placebo (cioè niente). L’evoluzione virale è stata la stessa nelle due coorti: tutti hanno avuto il loro primo caso positivo tra l’ultima settimana di febbraio e la prima di marzo, la curva dei decessi è, per tutti, la classica curva a campana con un massimo tra l’ultima settimana di marzo e la prima d’aprile e, per tutti, i decessi giornalieri sono ora ridotti a poche unità. Siccome entrambe le coorti hanno registrato 600 morti per milione d’abitanti, è evidente che la presunta cura non ha funzionato. Ma cosa non ha funzionato? Per saperlo, basta notare che molti Paesi asiatici ne sono usciti, in proporzione, quasi indenni. La Sud Corea, per esempio, all’8 di marzo aveva circa 7000 casi, tanti quanti ne aveva, quel giorno, l’Italia. Ma a oggi la Sud Corea piange 300 morti, l’Italia 35 mila! Come mai? Primo perché la Sud Corea (e altri Paesi asiatici) chiudevano alla Cina già dall’8 febbraio, giorno in cui i politici del Pd lanciavano su Twitter l’hashtag #ioabbracciouncinese. Poi perché la Sud Corea effettuava 20 mila tamponi al giorno mentre il governo italiano aveva sospeso i tamponi alla fine di marzo. Infine, perché la Sud Corea ha effettuato il tracciamento dei contatti in modo capillare, con un lockdown mirato agli infetti e ai loro contatti, e non indiscriminato e totale. La Sud Corea ha agito rapidamente sui due fronti (isolamento e tracciamento), il governo italiano (e gli altri citati, compresi Brasile e Stati Uniti) brancolava nel buio, temporeggiando, sostanzialmente chiudendo le porte della stalla dopo la fuga delle vacche. In definitiva, la verità è che per somma inettitudine è stato il governo Pd-5s ad aver fatto morire, abbandonati e soli, migliaia di italiani, onorevoli del Pd. I politici del centrodestra sono stati sufficientemente signori e cortesi da evitare di farglielo notare. Ma, come detto all’inizio, nessuna buona azione resta impunita, e ora gli tocca sentirsi accusati di colpe che non hanno, e proprio da chi ne porta il fardello.
Era segreto o solo uno studio? Qualcosa non torna sul piano anti-Covid. Dai verbali desecretati del Cts emergono alcune stranezze sul piano anti-Covid. Il piano esiste. Perché tenerlo riservato? Giuseppe De Lorenzo, Martedì 08/09/2020 su Il Giornale. C’è qualcosa che non quadra. E sebbene tutti assicurino che di segreti di Stato non ve ne sono, è ancora troppa la nebbia da diradare. Parliamo del fantomatico Piano di organizzazione della risposta dell’Italia in caso di epidemia. Un piano più volte citato nei verbali del Cts, commentato dai giornali, ma che Roberto Speranza e lo stesso Comitato ora derubricano a “studio”. Un mistero che sorge agli inizi di febbraio, che investe il ministero della Salute, l’Iss, lo Spallanzani, il Coparis. E che non ha ancora trovato conclusione.
Le 55 pagine con scenari choc nel piano segreto del governo. Partiamo dal 21 aprile, il giorno in cui la sua esistenza viene svelata al grande pubblico. Andrea Urbani, dg del ministero della Salute, rilascia un’intervista choc al Corriere: “Già dal 20 gennaio - dice - avevamo pronto un piano secretato e quello abbiamo seguito”. Il piano contiene tre scenari drammatici e non viene divulgato per evitare di propagare il panico tra i cittadini. Poco dopo però Repubblica ne pubblica alcuni stralci, rivelandone il contenuto oggi confermato dal Corriere che ne mostra l'intero testo. All’interno si analizzano le disponibilità di terapie intensive, le strategie per reclutare il personale, i modelli per isolare e trasportare i contagiati, le modalità di sanificazione degli ambienti. Cifre, tabelle, numeri, indicazioni, fasi operative: un vero e proprio “piano di battaglia”. E infatti attorno a questo documento si scatena la bagarre politica: perché è stato tenuto segreto? E perché se era pronto già a gennaio l’Italia si è trovata comunque sguarnita di fronte al nemico?
"Sapevano tutto il 12 febbraio". Il report segreto inguaia Conte. Una settimana dopo, il 28 aprile, Speranza viene convocato dal Copasir per rendere conto di quanto emerso. Il ministro chiede al Cts quale sia la classificazione del misterioso documento, ma il Comitato risponde “picche”. Il coordinatore Agostino Miozzo assicura che il "Piano" in realtà non è da considerarsi tale, perché in realtà sarebbe solo “uno studio" che ipotizza "possibili differenti scenari” della diffusione del virus. Niente di più. La stessa versione verrà confermata più avanti a chi, attraverso un accesso agli atti, proverà a chiedere il famoso atto “choc” citato da Urbani nell'intervista. Innanzitutto dal ministero della Salute assicurano che non risale a gennaio, come detto dal dg, ma a febbraio. E poi ai cronisti viene mostrata un'analisi realizzata da un certo Stefano Merler della Fondazione Bruno Kessler di Trento. Si intitola Scenari di diffusione di 2019-NCoV in Italia e impatto sul servizio sanitario, in caso il virus non possa essere contenuto localmente. All’interno sono indicate due ipotesi (realizzate prima di Codogno) che prevedono 1 o 2 milioni di contagi, casi gravi che oscillano tra 200 e 400 mila unità e un fabbisogno di letti in terapia intensiva che variano tra i 60mila e i 120mila. Per il ministero questo "studio" sarebbe il famoso "Piano" perduto. Niente di segreto. Solo un banale qui pro quo. Ma è qui che sorgono alcuni dubbi. Innanzitutto il “Piano” riportato da Rep ad aprile e oggi dal Corriere è diverso da quello di Merler. Non solo nei numeri, per come sono stati riportati dalla stampa (da una parte 600mila contagi, dall’altra 2 milioni). Ma anche nella sostanza. Nel secondo si parla solo di ipotesi, mentre il primo contiene anche azioni per contrastare la diffusione del virus. Insomma: quello di Merler è effettivamente uno “studio”, il “Piano” è invece sembra un’altra cosa. Esiste. Perché allora Speranza e Miozzo insistono a farlo passare per “lo studio di Merler”?
"Secretate il piano anti-Covid". E in piena crisi era incompleto. L’esistenza di due distinti documenti emerge anche da una più attenta lettura dei verbali desecretati. Il 12 febbraio il Cts dà mandato a un gruppo di esperti di “produrre, entro una settimana, una prima ipotesi di Piano operativo di preparazione e risposta ai diversi scenari di possibile sviluppo di un’epidemia da 2019-nCov”. Una cosa balza subito agli occhi: l'atto viene definito “piano” e non “studio”, come verrà poi derubricato. Ma è un'altra la vera stranezza: nel verbale viene spiegato che quello stesso giorno Merler è presente alla riunione del Cts proprio per presentare il suo elaborato. Domanda: come possono essere lo stesso documento, se lo “studio” di Merler era già pronto prima che il Cts chiedesse di redigere un “Piano”? Infatti quest'ultimo verrà approvato dal Cts solo il 2 marzo, 10 giorni dopo l'audizione di Merler. Altro dettaglio. Il “Piano” torna alle attenzioni del Cts il 24 febbraio, quando viene messo a verbale che “il documento deve essere ancora completato”. Mancano infatti i dettagli relativi “all’allestimento delle rianimazioni”. Argomento centrale, che verrà “sottoposto ad esperti di settore per un parere”, e che sottintende l’esistenza di un progetto di reazione all’epidemia. Non solo di uno scenario. Certo all’interno ci saranno state anche ipotesi (drammatiche) sulla diffusione del morbo. Ed è per questo che il Cts chiede “massima cautela” per evitare “che i numeri arrivino alla stampa”. Secretazione che viene domandata più volte: il 2, il 4 e il 9 marzo. Ed è proprio il 9 che si consuma l'ultima stranezza. Nel verbale il Cts scrive di essersi dotato “da tempo” di un “Piano sanitario in risposta ad un’eventuale emergenza pandemica da Covid-19” e di averlo seguito alla lettera per suggerire tutte le misure poi adottate dal governo. Eppure ufficialmente, come visto, l’approvazione definitiva era arrivata solo una settimana prima: cioè 10 giorni dopo Codogno e a "zone rosse" già effettuate. Qualcosa, insomma, non torna.
Salvini inchioda Conte: "Ha tenuto segreto lo studio sul Covid". Il leader della Lega pretende chiarezza sui silenzi del governo sui pericoli del Coronavirus: "Dettagli inquietanti sulla gestione dell'emergenza".Luca Sablone, Domenica 06/09/2020 su Il Giornale. Nei giorni scorsi ha provocato infinite polemiche lo studio confermato pubblicamente da un dirigente del Ministero della Salute il 21 aprile scorso e risalente alle prime settimane del 2020, che già prima dei casi di positività in Italia metteva in allerta sugli effetti del Coronavirus. E adesso Matteo Salvini pretende chiarezza: una richiesta forte nata dopo una convinzione ben precisa, ovvero che il governo sapesse già da tempo le conseguenze del Covid-19 ma nonostante ciò il premier Giuseppe Conte "si è preso l'enorme responsabilità di non condividere ufficialmente le informazioni nemmeno con i presidenti di Regione". E come se non bastasse pochi giorni dopo sono partite 18 tonnellate di camici e mascherine alla Cina.
"Sapevano tutto il 12 febbraio". Il report segreto inguaia Conte. "È tutto sotto controllo", assicurava il presidente del Consiglio. Evidentemente più di qualcosa non è andato per il verso giusto: carenze di guanti, camici, mascherine e respiratori che in fase di emergenza l'esecutivo centrale aveva il compito di reperire. Con il passare del tempo emergono ulteriori sconvolgenti dettagli sull'azione dei giallorossi: il leader della Lega dà ormai per appurato il fatto che il Comitato tecnico-scientifico avesse suggerito di chiudere con delle zone rosse anche i comuni della Bergamasca, tanto che da Roma inviarono l'esercito per blindare Nembro e Alzano Lombardo, "ma poi Palazzo Chigi decise altrimenti, peraltro ignorando un altro suggerimento degli esperti ovvero una chiusura meno rigida in alcune aree del Paese anziché il lockdown totale".
La mossa di Salvini. L'ex ministro dell'Interno ha sottolineato come il governo non possa più tacere e pertanto chiederà di riferire in Parlamento. La sua mossa verte principalmente su tre interrogativi: come mai non sono state condivise con gli altri interlocutori istituzionali tutte le informazioni sugli effetti del virus? Perché non sono stati reperiti subito mascherine, camici e respiratori, ma anzi ne sono stati spediti a tonnellate in Cina? Per quale motivo sono stati "ignorati i suggerimenti del Cts sulle zone rosse"? Strano che ora scelga la strada del silenzio proprio chi in questi mesi "ha preteso di occupare la scena mediatica dell'emergenza a reti e social unificati in modalità Grande Fratello".
"Se sono veri i verbali del Cts, Conte dovrebbe essere arrestato". Il centrodestra resta in attesa di un coinvolgimento da parte del governo, che aveva promesso un confronto sulle soluzioni ai tanti problemi del Paese: "Ora le priorità sono il lavoro, l'economia, la scuola, la difesa dei confini. Ma c'è anche una richiesta di verità e trasparenza che ha bisogno di risposte". Priorità vere e concrete che qualcuno dovrebbe ricordare ai giallorossi, terrorizzati invece dal risultato delle elezioni Regionali e determinati a trovare un accordo sulla legge elettorale e sulle poltrone. Salvini, mediante una lettera scritta al direttore del Corriere della Sera, ha chiesto massima trasparenza e verità sui rischi del Coronavirus e sulla gestione dell'emergenza: "Lo deve agli italiani, a chi ha sofferto, a chi non c'è più, alle loro famiglie".
(Askanews il 6 settembre 2020). Duro scontro e accesa discussione fra il Comitato Tecnico Scientifico e il Commissario straordinario Domenico Arcuri, nei giorni dell'emergenza nel maggio scorso, sulla questione dei pareri di validazione delle mascherine e di altri dispositivi di protezione individuale che secondo note inviate da Arcuri tardavano ad arrivare. Lo si evince dai verbali del Cts, desecretati oggi. In particolare in quello relativo al 3 maggio 2020 si legge che addirittura alcuni dei membri del CTS minacciarono le dimissioni. "Grande preoccupazione e profondo rammarico - riferisce il verbale - sono emersi da parte di tutti i componenti del Comitato, in ragione di alcune note pervenute dal Commissario straordinario per l'attuazione e il coordinamento delle misure di contenimento e contrasto all'emergenza epidemiologica da Covid-19 interpretabili come una delegittimazione del lavoro svolto dal gruppo in ragione dei presunti ritardi da lui imputati al Cts. Questi documenti possono essere letti come attribuenti responsabilità al Cts in toto per un'eventuale mancanza di mascherine sul territorio nazionale da domani. Poniamo all'attenzione del ministro Speranza la revisione del mandato, emancipando il Cts da competenze che devono tornare nell'alveo della gestione ordinaria degli organi deputati allo scopo". La discussione fu accesa: "numerosi membri hanno ipotizzato di rassegnare le dimissioni qualora non venga rivisto il mandato e non vengono ricondotte alle Istituzioni le competenze relative alla valutazione dei dispositivi medici, dei dispositivi di protezione individuale, dei biocidi ecc".
Corrado Zunino per “la Repubblica" il 7 settembre 2020. Quello che avete letto nei 95 verbali sono tutte le decisioni prese dal 7 febbraio al 20 luglio». Agostino Miozzo tra dieci giorni sarà in pensione. L' ultimo impegno della sua vita impegnata è stato quello di coordinare il Comitato tecnico scientifico che sta gestendo l' emergenza Covid.
Miozzo, proviamo a dire tutto. C' è un piano segreto approvato dal Comitato tecnico scientifico che ancora oggi non viene rivelato?
«Ha usato quell' aggettivo, segreto, Andrea Urbani, direttore generale del ministero della Salute. Ne è nato un cinema».
Quindi, che cosa avete secretato in questi cinque mesi e mezzo?
«Nulla, il Cts non ne aveva il potere. Abbiamo chiesto grande riservatezza quando in Via Vitorchiano sono arrivati, il 12 febbraio, i numeri della Fondazione Kessler. Un matematico intelligente come Stefano Merler aveva realizzato una proiezione sull' Italia dei dati cinesi, gli unici esistenti. Quel lavoro, nello scenario peggiore, parlava di 600-800 mila contagiati se l' Italia non si fosse fermata. Il rapporto avrebbe gettato un Paese nel panico e, con una saggezza che rivendico, il Comitato ha chiesto di fare il possibile per non farlo arrivare alla stampa».
Esisteva un Piano pandemico generale al 7 febbraio, prima riunione del Cts?
«No, e questa è stata la grande debolezza del ministero della Salute. Non esisteva una previsione di mascherine necessarie, posti letto da liberare. Soprattutto, non c' erano scorte. Il Paese partiva da zero e noi, da zero, dovevamo preparare in tutta fretta un Piano anti-Covid da utilizzare subito».
Oltre ai numeri da panico, cosa avete considerato riservato?
«Tutte le carte erano riservate, ma davamo conto del loro contenuto. Non stavamo tramando, ma provando a difendere un Paese da una malattia sconosciuta cui nessuno, neppure noi, era preparato. Il piano lo abbiamo costruito giorno per giorno, era nei comunicati del ministero della Salute, della Protezione civile. Blocco dei voli, ricerca di mascherine, definizione tra cento errori di che cosa è contagioso e cosa no, strategia dei tamponi, comprensione dei dati. E poi il provvedimento dell' aumento del 50% dei posti letto in Terapia intensiva e del 100% in Pneumologia. Lì c' è stata la svolta, abbiamo capito che la crisi poteva essere affrontata».
Cosa dobbiamo sapere ancora?
«È tutto pubblico, ora. Negli omissis ci sono solo nomi di aziende e un verbale che tocca il 41 bis. Ci siamo occupati anche di carceri».
Avete minacciato le dimissioni.
«Mi sono reso conto che stavamo andando a sfracellarci. Avevo vissuto con Bertolaso il disastro dell' Aquila, non volevo ripeterlo. "O abbiamo una protezione per quello che facciamo o ci fermiamo". Serviva una legge per non far rischiare il carcere a chi firmava quei verbali. È arrivata: si potrà agire contro di noi solo in caso di grave colpa o dolo».
Volevate fermarvi anche per le lettere imperative del commissario Arcuri.
«Arcuri è un uomo veloce, operativo, abituato a comandare. Non è un uomo semplice. Gli abbiamo detto: "Fermati e spiegaci cosa ti serve". Con noi non bisogna schioccare le dita, ma confrontarsi».
Perché per settimane avete insistito nell' indicare i tamponi solo per chi aveva sintomi?
«Mancavano i reagenti, una di quelle cose che un Piano pandemico avrebbe dovuto prevedere. Limitare i tamponi era una scelta obbligata».
Non c' erano neppure le mascherine.
«Niente. Una Ffp2, una chirurgica. Da piangere. A metà marzo ho inventato le mascherine di comunità. Volevo preservare i dispositivi professionali per medici e infermieri e ho iniziato a dire: mettiamoci una fascia, una sciarpa, un foulard».
Alzano e Nembro erano polveriere: voi l' avevate capito, il governo non le ha fatte zone rosse.
«Sì, ma capisco Conte. Chiudere quell' area significava fermare un polmone economico del Paese. Forse avremmo salvato qualche vita, ma è facile sentenziare col senno di poi».
Sulla scuola avete traballato: "È un problema, chiudete in Lombardia, nel resto del Paese non sappiamo".
«Mancavano letteratura ed esperienze. Sapevamo che fermarla significava dire addio all' anno».
Nel tempo avete preso uno spessore politico: le vostre scelte non erano più solo tecniche.
«Eravamo diventati il centro del Paese, dovevamo tener conto dell' impatto sociale. Dalle indicazioni di 26 esperti dipendeva il lavoro di milioni di persone. Trasporti, calcio, macelli, ristoranti, ombrelloni. Abbiamo fatto sforzi ciclopici per far entrare la conoscenza scientifica in questioni di cui non ci eravamo mai occupati in vita».
La difficoltà più grande.
«La comunicazione, quella da fuori. È stata la prima emergenza mondiale governata dai social. Bastava che un influencer dicesse "il virus viene dalla Luna" e noi dovevamo rincorrere, smentire, accelerare».
Alla fine?
«Il Paese era nudo e noi abbiamo dovuto fare le cose all' italiana. Con il fiatone. Ma abbiamo realizzato un buon lavoro e abbiamo spento il telefonino a decine e decine di lobby, amici degli amici. Non ci siamo fatti influenzare dagli interessi, abbiamo agito per gli italiani».
Online i verbali del Cts: "Il piano anti-Covid va tenuto segreto". Il 7 aprile l'appello di Conte: "Urgente allentare le misure". Già dal 7 febbraio la scuola preoccupava. Il 12 la prima verifica sulla disponibilità dei posti letto. Contraddizioni, scontri con il governo e minacce di dimissioni. Sul sito del Dipartimento della Protezione civile 95 documenti relativi alle riunioni avvenute a inizio emergenza. Michele Bocci, Fabio Tonacci, Alessandra Ziniti e Corrado Zunino il 4 settembre 2020 su La Repubblica. La scuola è stata fin dall'inizio fonte di preoccupazione per gli esperti del Comitato tecnico scientifico, come raccontano i 95 verbali ora desecretati dal governo. Nella prima seduta, il 7 febbraio scorso alla Protezione civile, coordinatore Agostino Miozzo, nove presenti tra cui Silvio Brusaferro, presidente dell'Istituto superiore di sanità, e Giuseppe Ippolito, direttore scientifico dell'ospedale Spallanzani, il Comitato individua già nelle prime righe la scuola come vettore di contagio e plaude alle prime restrizioni. "Le disposizioni fin qui adottate" - stop agli aerei dalla Cina e prime limitazioni alle gite scolastiche e ai viaggi di cultura - "rappresentano un argine adeguato per il nostro Paese", si legge nel verbale. Gli scenari futuri "saranno determinati dal livello di diffusione in Cina". Sul sito del Dipartimento della Protezione civile ora si possono leggere i 95 documenti sulle riunioni avvenute tra il 7 febbraio e il 20 luglio 2020. Lunedì scorso siamo arrivati al verbale numero 104, ma ognuno dei successivi nove sarà disponibile 45 giorni dopo la rispettiva seduta. A fine febbraio, il 28 precisamente, il Cts rileva che i dati dei contagiati sono "in incremento rapido", ma i numeri provenienti dalla periferia sono insufficienti per definire un preciso profilo dell'epidemia". Serve "l'invio di epidemiologici sui posti con casi confermati per effettuare analisi più accurate". Visto il report dell'Oms del 23 febbraio, scrivono i tecnici italiani: "Non esistono al momento presupposti per identificare nuove aree alle quali applicare limitazioni al traffico aereo". In verità, anche Corea e Giappone e Iran iniziano ad avere in quel periodo numeri di contagi sensibili. Il piano che doveva essere pronto il 19 febbraio, al 28 è ancora incompleto: "Manca la parte relativa alle Rianimazioni". Esploderà lì, sui posti letto di terapia intensiva, uno dei problemi più cogenti del periodo Covid. Il Cts in diversi incontri si pone il problema della diffusione del piano anti-Covid tirando queste conclusioni: "Massima cautela nella diffusione per evitare che i numeri arrivino alla stampa".
Verificare i posti letto disponibili. La riunione del 12 febbraio si focalizza sulla questione dei posti letto negli ospedali. "Emerge la necessità di verificare con precisione i dati relativi alla disponibilità locale di posti letto per Malattie infettive, Rianimazione e altri dati relativi ad attrezzature, staff e quanto necessario ad elaborare ipotesi di scenari di evoluzione dell'epidemia", si legge sul verbale. Nella riunione è stato presentato uno studio di Stefano Merler della Fondazione Bruno Kessler di Trento sugli scenari di diffusione del virus in Italia e l'impatto sul servizio sanitario.
Controlli elusi sui voli dalla Cina. Quarta seduta, 14 febbraio: partendo da un passeggero proveniente dalla Cina a cui prima Lufthansa e poi Alitalia non consentono di proseguire da Dusseldorf verso l'Italia, il Cts rivela - contraddicendo il verbale 1 - che Alitalia stessa parla di "limiti all'attuazione di queste procedure" già applicate per Sars ed Ebola. E' la questione del blocco dei voli dalla Cina, già contestata dall'accademico Walter Ricciardi e che il Cts aveva considerato nel primo verbale "un argine adeguato". Diversi passeggeri, spiegano i tecnici aeroportuali, "possono accedere ai voli in area Schengen presentando il solo documento d'identità e non il passaporto con i timbri del Paese di provenienza", nel caso la Cina, "eludendo il controllo delle date e della aree, appunto, di provenienza".
Casi sporadici in Lombardia. Nel verbale del 21 febbraio il Cts "prende atto della segnalazione proveniente dalla Regione Lombardia di casi sporadici in via di conferma". Proprio il 21 febbraio a Codogno era stato scoperto il paziente 1 e anche il caso di Vo Euganeo, con un primo morto registrato. Nel verbale della riunione a cui parteciparono anche il ministro della Salute, Roberto Speranza, e il viceministro Pierpaolo Sileri, si riteneva che le notizie provenienti da quella che poi sarebbe stata la regione più colpita dal virus rappresentassero "un cambiamento rilevante nel quadro epidemiologico nazionale". La richiesta degli esperti fu, dunque, di "adottare misure di contenimento e controllo aggiuntive". Il caso del comune lombardo fu identificato come "caso 0" e già da allora si prevedeva la "limitazione della mobilità delle persone". La chiusura delle scuole nell'area fu l'ultima indicazione degli esperti.
Asintomatici e sovrastima. "Le comunicazioni di positività non associate a sintomi determinano una sovrastima del fenomeno sul Paese, rendendo i dati non omogenei con gli altri diffusi dall'Oms", suggerirono gli esperti del comitato tecnico scientifico nel verbale numero 8 della riunione del 24 febbraio 2020. Inoltre il Comitato tecnico scientifico sottolineava che "in assenza di sintomi il test non è giustificato, in quanto non fornisce un'informazione indicativa ai fini clinici ai sensi delle definizioni di 'caso'". Si legge nel verbale: "Si rileva che la quantità dei dati che giungono dalla periferia è insufficiente per definire un preciso profilo dell'epidemia; il Cts raccomanda pertanto l'invio di epidemiologi nelle aree con casi confermati per effettuare analisi accurate".
Basta zone rosse e controlli in aeroporto. Il 28 febbraio il Cts si oppone alla chiusura di altre zone oltre agli undici comuni individuati in Lombardia: "Non sono necessarie altre misure restrittive". Si vedrà: esploderanno tutte le province lombarde e alcune del Veneto. Si oppone anche alla richiesta di Aeroporti di Roma di controllare la temperatura a Fiumicino con i termoscanner per i passeggeri in partenza con i voli extra-Schengen. E così non ritiene utile fermare le missioni dei funzionari nei Paesi esteri, come richiesto dal ministero degli Affari esteri: "Deve deciderlo l'Organizzazione mondiale della sanità". Non c'è, per ora, una risposta sui problemi della manipolazione delle banconote, questione avanzata dalla Banca d'Italia. Di fronte a Federcongressi che ha in programma un evento con 250 persone, il Cts rimanda alle indicazioni regionali.
"Vendere respiratori solo in Italia". Seduta 16, 3 marzo. Il Cts chiede alle aziende produttrici di respiratori di venderlo solo sul territorio nazionale. Del materiale presentato da Confindustria al professor Ricciardi, vanno bene solo sei ventilatori da trasporto. Le altre apparecchiature "non offrono tutte le garanzie per l'emergenza".
I medici al Cts: pericoli negli ambulatori. Sempre il 3 marzo: l'Ordine dei medici chirurghi spiega al Cts che non c'è filtro agli ambulatori per i pazienti, chi ha il Covid è a fianco di chi non ce l'ha. E' necessario passare dal medico di famiglia.
"Zone rosse per Alzano e Nembro". Il governo: no. Nella densa seduta 16 del 3 marzo il Cts propone ancora "di adottare per Alzano Lombardo e Nembro, venti contagi a testa, le stesse misure restrittive adottate per gli altri comuni delle zone rosse". Il governo non lo farà. È la questione al centro dell'inchiesta della Procura di Bergamo.
Chiudere le scuole? Segreto Nato. Seduta 18, 4 marzo. Seduta bis, se ne fanno due al giorno. Il Cts ha perplessità sulla proposta di Speranza di chiudere le scuole di ogni ordine e grado. "Le scelte di chiusura dovrebbero essere proporzionali al contagio" e "non esistono dati che ne indichino la inconfutabile utilità". Infine, la chiusura della scuola "è efficace solo se prolungata". Seduta 19, 5 marzo. Speranza apre la riunione dicendo che la fuga di notizie del giorno prima - decisioni sulla chiusura della scuola - ha creato sconcerto tra la popolazione e chiede al generale Francesco Bonfiglio del Punto Nato Ueo del Dipartimento di Protezione civile di garantire futura riservatezza alle informazioni.
Contrordine, bene il termoscanner in aeroporto. Seduta 22. Solo il 9 marzo il Cts si convince a fare il termoscanner ai passeggeri in partenza extra-Schengen a Malpensa e Fiumicino. Nella seduta 24, 11 marzo, il Cts lamenta che le deliberazioni prese vengono comunicate in ritardo alle amministrazioni. E ci deve essere un riscontro delle applicazioni di queste delibere scientifiche. E nella seduta 25, il 13 marzo, mente all'ordine del giorno la scarsità dei dispositivi di protezione.
Sul lavoro? Niente mascherine, non servono. Il 13 marzo per il Cts le mascherine non sono ancora necessarie sui posti di lavoro: "Non vi è evidenza per raccomandare indiscriminatamente ai lavoratori di indossare le mascherine. Anzi. Al contrario è stringentemente raccomandato solo per gli operatori sanitari e per chi ha sintomi respiratori".
Il 15 marzo il via libera alla zona rossa a Medicina. Il 15 marzo sull'istituzione della zona rossa nel Comune di Medicina il Cts risponde così alla richiesta di parere: "Esistono le condizioni per consentire alle competenti autorità locali l'adozione di ulteriori azioni di contenimento del rischio diffusione". Nella stessa seduta gli scienziati minacciano le dimissioni se non sarà emanata una norma di salvaguardia a tutela dell'operato dei membri del comitato.
Il divieto al riuso delle mascherine sanificate. Il 16 marzo: scarseggiano le mascherine Ffp2 e Ffp3 per gli operatori sanitari. Il capo Dipartimento della Protezione civile, Angelo Borrelli, e il commissario Domenico Arcuri chiedono "meccanismi di risanitizzazione nelle more di riconversione industriale nazionale", ma il Cts esprime perplessità sul riuso dei dispositivi per possibili conseguenze sugli operatori sanitari.
"Smart working per gli over 50". Il 4 aprile il modello di fase 2 proposto dal Cts prevede "riapertura graduali differenziate per tipologie di attività, gruppi di popolazione e su base regionale". Per il rientro graduale al lavoro si propone "su base volontaria tra i 20 e i 49 anni", smart working per gli over 50.
L'appello di Conte: "Urgente allentare le misure". Il 7 aprile il premier Conte convoca il Cts e chiede "di ponderare con urgenza un percorso per allentamento delle misure perchè misure restrittive prolungate non possono essere sopportate a lungo dalla popolazione". Il Comitato tecnico scientifico si oppone.
"Più incidenza delle istituzioni su contagi nelle Rsa". L'11 aprile il Cts si rende conto che serve un'azione più incisiva per tutelare le Residenze sanitarie assistenziali per anziani dove si è scoperto, grazie ad alcuni articoli di stampa (tra cui la denuncia di Repubblica sulla strage dimenticata al Pio Albergo Trivulzio), si stanno sviluppando focolai di infezione. "Una maggiore incidenza dell'azione delle istituzioni è assolutamente necessaria - si legge nel verbale del Cts redatto quel giorno - Sono utili le iniziative di monitoraggio suggerite ma anche iniziative concrete di verifica sul posto ed assistenza potrebbero essere valutate e se del caso promosse, prevedendo un ruolo attivo dei medici di base".
Arrivi dalla Cina, deroga per le forze armate. Le misure di quarantena per chi è stato in Cina da 14 giorni vengono derogate per il personale sanitario e le forze armate, "se hanno usato dispositivi di protezione individuale". Si scoprirà che i Giochi militari di Wuhan, a ottobre, sono stati veicolo di contagio. Sui sanitari e la quarantena le indicazioni sono spesso complicate da recepire: l'isolamento non è necessario per chi ha usato dispositivi e chi dice di non aver avuto contatto con pazienti infetti. Non sarà facile distinguere, e in Lombardia i più contagiati saranno proprio i sanitari. Problematica, e si era detto, anche la scelta su chi fare i tamponi. Non vanno fatti a chi non ha sintomi (scopriremo che gli asintomatici sono la maggior parte dei positivi). "La positività non associata a sintomi determina una sovrastima del fenomeno nel Paese rendendo i dati non omogenei con quelli dell'Oms". L'Organizzazione mondiale della sanità ha cambiato diverse volte la sua valutazione proprio sui tamponi.
Quarantena anche per gli animali di famiglia. Nel dubbio che anche gli animali da compagnia possano essere infetti e trasmettere il virus, il Cts il 15 aprile acquisisce il parere del direttore generale della Sanità animale del ministero della Salute, che invita ad adottare linee guida ad hoc. Pur non essendo dimostrato che cani e gatti possano fungere da diffusori dell'infezione, il Dg scrive che - nel caso di nucleo familiare posto in quarantena - "è assolutamente consigliabile che gli animali da compagnia restino presso la famiglia; la persona infetta deve evitare il contatto ravvicinato con l'animale, comportandosi verso di esso con le stesse precauzioni adottate per gli altri familiari".
"Riaprite parchi e centri sportivi per i bambini". Per evitare "conseguenze gravissime e non recuperabili" ai bambini chiusi a casa per il lockdown, il Cts il 15 aprile invita il governo a "garantire con urgenza a tutti gli scolari la possibilità di avvalersi della scuola a distanza", suggerendo di appoggiarsi alle aziende disponibili a effettuare donazioni di strumentazioni e di servizi per la formazione a distanza. Non solo: il Cts propone la "riapertura controllata dei parchi, che possono essere suddivisi in aree ad uso singolo o familiare per un tempo programmato. Propone inoltre la riapertura dei centri sportivi nel rispetto delle norme di distanziamento e contenimento". Ma il governo deciderà di riaprirli solo a maggio.
Spiagge, gli ombrelloni dovevano stare a 4,5 metri. Il verbale 68 dell'8 e 10 maggio affronta il tema insidioso della riapertura degli stabilimenti balneari. Il Comitato tecnico scientifico dà le indicazioni su tutti gli aspetti legati a ingresso, uscita e spostamenti e chiede che la distanza minima tra le fila di ombrelloni sia di 5 metri e quella tra gli ombrelloni della stessa fila 4,5. Con le attrezzature, cioè sdraio e lettini, devono comunque esserci "almeno 2 metri dall'ombrellone contiguo". Come noto, queste misure vengono ben presto derogate, e ridotte, dalle varie Regioni. Anche sulle spiagge libere si danno indicazioni in gran parte non rispettate, come quella di contingentare l'accesso e attivare app di prenotazione.
Ristoranti, si ipotizzavano 4 metri quadri a cliente. Nel verbale numero 68 si chiede ai ristoranti di garantire "il distanziamento tra i tavoli non inferiore a 2 metri". Inoltre "va definito un limite di capienza predeterminato non inferiore a 4 metri quadri per ciascun cliente, fatto salvo la possibilità di adozioni di misure organizzative come, ad esempio, le barriere divisorie". La regola dei 2 metri è rimasta, le Regioni hanno fatto saltare quella dei 4 metri. Di recente è stato tolto il divieto di buffet, che veniva stabilito sempre nel verbale 68.
Via all'indagine sierologica, adesioni poche. Il 15 maggio il Cts dà l'ok all'avvio dell'indagine sierologica che dovrebbe ricostruire la circolazione del virus in Italia. "Il campione obiettivo da osservare sull'intero territorio italiano è pari a centocinquantamila individui, residenti in circa duemila Comuni": una affermazione che si rivela solo una speranza. Alla fine poco più di 60 mila persone daranno la disponibilità a fare l'esame per scoprire se hanno gli anticorpi del virus.
Comitato contro Zangrillo. Il 19 maggio i tecnici decidono di rispondere dal direttore dell'anestesia dell'ospedale San Raffaele di Milano, Alberto Zangrillo. "Si apprende delle dichiarazioni da lui rilasciate il 17 maggio. Tali affermazioni, secondo le quali il Cts avrebbe commesso un errore nella valutazione relativa all'incremento dei posti letto di Rianimazione e dei ventilatori polmonari negli ospedali italiani e malconsigliato il presidente del Consiglio e il ministro alla Salute, risultano prive di ogni fondamento. In risposta a tali dichiarazioni, il Cts chiede al coordinatore di esporre una nota di risposta circostanziando le valutazioni del Cts e del ministero sull'argomento". È solo la prima puntata, a fine mese Zangrillo parla di virus che "clinicamente non circola più" e gli risponde Franco Locatelli, del Cts: "Sono sorpreso e sconcertato dalle dichiarazioni rese dal professor Zangrillo".
Speranza e il vaccino anti-influenzale obbligatorio. Il 21 maggio il Cts inizia a discutere di vaccini. Il ministro Roberto Speranza chiede ai tecnici di dare un parere sull'ipotesi di renderli obbligatori per tutti. Il Cts invita piuttosto a valutare l'estensione di quello contro l'influenza, suggerito e gratuito tradizionalmente sopra i 65 anni, anche sopra i 50 anni. Alla fine l'ipotesi non passa, il ministero decide di indicarlo sopra i 60. Riguardo all'obbligo, viene ipotizzato per i lungodegenti, gli ospiti di residenze per anziani e disabili. La linea non passerà. Altra categoria per la quale il Cts ipotizza l'obbligo è il personale sanitario. Solo alcune regioni, come il Lazio, lo hanno poi previsto.
Le perplessità sui pannelli divisori della Azzolina. L'8 giugno, in audizione con la ministra dell'Istruzione Lucia Azzolina, il Cts parla di pannelli divisori. La ministra aveva chiesto se possono essere utilizzati come misura residuale e quali caratteristiche devono avere. Il Comitato risponde di non averne mai previsto l'utilizzo. Anzi, esprime "elementi di perplessità sul quesito proposto, invitando ad una attenta valutazione costi-benefici. In ogni caso, il loro utilizzo potrebbe essere eventualmente considerato solo dopo l'esclusione di tutte le possibili misure organizzative e di prevenzione e protezione già proposte". Arriva una bocciatura anche per le visiere sugli studenti. "L'uso da parte dei minori farebbe configurare potenziali rischi per la sicurezza degli studenti connessi ad una non corretta manipolazione, manutenzione, conservazione e utilizzo dei dispositivi stessi".
Via libera al test sierologico per gli insegnanti. Ai primi di luglio arriva il via libera al test sierologico per gli insegnanti. Le positività sono stimate tra il 2 e il 20%, e la conferma del tampone potrebbe essere tra lo 0,1 e l'1% dei casi. Il Cts ragiona anche sugli studenti, per i quali potrebbe essere proposta un'indagine su un campione rappresentativo della popolazione scolastica fatto con i test rapidi. Ancora non si è deciso di partire.
Francesco Bechis per formiche.net il 4 settembre 2020. Era il 12 febbraio quando Stefano Merler, ricercatore della Fondazione Bruno Kessler, presentava al ministero della Salute un documento che anticipava una drammatica escalation del coronavirus in Italia: tra i 60mila e i 120mila contagi, 10mila letti mancanti nelle terapie intensive, almeno 35mila morti. Un mese prima che il Paese finisse in lockdown, il governo sapeva, ma non ha fatto. Piuttosto, ha svelato Repubblica, ha preferito tenere quel documento in un cassetto, riservato, per sei mesi. È una storia tristemente italiana, che non ammette sconti. Anche in piena emergenza, spiega a Formiche.net Giovanni Maria Flick, costituzionalista, già presidente della Corte Costituzionale e ministro della Giustizia, la trasparenza è un obbligo. Così funziona in una democrazia.
Presidente, che idea si è fatto di questa vicenda?
«Una cosa è certa. La normativa vigente non permette alcun ostacolo o repressione della trasparenza per documenti del genere. Semmai il contrario. Basta rileggere gli articoli sul diritto all’accesso previsto dalla legge 241 del 1990, dove è elencata una serie di esclusioni solo per documenti coperti da segreto di Stato o con divieto di divulgazione espressamente disposto, con riferimento all’attività della pubblica amministrazione. Le ipotesi di sottrazione all’accesso ai documenti amministrativi devono essere previste solo nei casi indicati dalla legge. I documenti sulla salute di singole persone, per i quali si pone un problema di privacy, sono sottoposti ad un’altra disciplina, in quanto dati personali sensibili. Evidentemente non è questo il caso del documento di cui si discute».
Il governo non ha diffuso gli scenari più funesti per non “diffondere il panico” fra i cittadini.
«La trasparenza non c’entra per nulla con il panico o con l’ordine pubblico. Nel 2016 una delibera dell’Anac, d’intesa con il Garante della privacy, ha specificato quali sono i criteri di sicurezza e ordine pubblico rilevanti. Tra questi ultimi vi sono la prevenzione di reati, la tutela dell’interesse generale e della sicurezza dei cittadini e dei loro beni secondo le indicazioni della Corte costituzionale (sentenza n. 21/2010) e delle legge in questa materia. Non vengono certo menzionati né “il panico”, né “la tranquillità”, né la salute; le limitazioni relative a quest’ultima, quando vi sono, sono esplicite, a partire dall’articolo 16 della Costituzione in tema di libertà di circolazione».
Quando la riservatezza è un obbligo?
«Un elenco dei casi si trova nel decreto legislativo 33 del 2013. Sicurezza pubblica e ordine pubblico, sicurezza nazionale, difesa e questioni militari, relazioni internazionali, regolare svolgimento di attività ispettive. Nulla di tutto questo si può applicare al documento in questione sul virus; la sua vicenda si risolve in un vulnus di un principio cardine del sistema democratico».
Quale?
«La trasparenza deve essere l’eccezione, non la regola. Lo stesso decreto la definisce garanzia del “principio democratico”. Quel concetto è ribadito nella proposta di riforma costituzionale sottoposta al referendum del 2016, che prevedeva la modifica dell’articolo 97 affiancando il principio della trasparenza a quelli di legalità, imparzialità e buon andamento della pubblica amministrazione. Io come molti ero contrario a quel referendum, ma quella istanza mi sembrava più che giusta».
Ecco, quel referendum fu sponsorizzato dal Pd di Matteo Renzi. Lo stesso partito che oggi è al governo con Conte.
«A dire il vero, all’epoca, sulla trasparenza tutti sembravano d’accordo, per una buona ragione. La pubblica amministrazione deve essere trasparente in tutto, tranne ciò che è esplicitamente sottoposto a un vincolo di non trasparenza. Non ci sono altre opzioni. Peraltro tutelare la trasparenza significa anche e soprattutto combattere la corruzione. È un principio che non ammette deroghe oltre a quelle esplicitamente previste dalla legge».
Torniamo al documento. Con quei numeri in mano il governo poteva fare di più?
«Non sono in grado di dire ex post se sia stato fatto troppo o troppo poco per la prevenzione. Su questo peraltro sono in corso indagini della magistratura, tanto sulle autorità locali quanto su quelle centrali: indagini che non possono assumere un rilievo generale di valutazione dei criteri e dei modi di attuazione della sanità pubblica, e devono limitarsi ad accertare specifiche responsabilità personali per fatti altrettanto specifici».
La sua impressione?
«Evidentemente ci troviamo di fronte a un fenomeno totalmente nuovo in campo scientifico e medico. Un fenomeno che quindi doveva essere studiato e sperimentato per dare al decisore pubblico le indicazioni su come regolarsi. La prima parola spettava ai tecnici».
E l’ultima?
«Alla politica, ovviamente. È la politica che deve assumersi le responsabilità delle decisioni a livello prima parlamentare e poi amministrativo ed esecutivo, entro i limiti di legge ed in applicazione di quest’ultima. Deve tener conto delle indicazioni dei tecnici, ma non può fare di loro i decisori di ultima istanza».
A volte i ruoli si sono scambiati.
«C’è sicuramente stata confusione. L’inesperienza e la novità dei problemi hanno aperto la via a tutte le soluzioni, ulteriormente complicate dal disaccordo tra i tecnici e dalle interferenze di carattere politico. Spesso l’incertezza ha avuto la meglio; penso all’istituzione delle zone rosse decisa e poi rinviata, o alle variazioni nella previsione dei limiti alla libertà di circolazione delle persone, o nell’adozione di comportamenti preventivi (ad esempio e soprattutto la mascherina per evitare contagio nei contatti). Ma in situazioni di emergenza tutto ciò finisce per essere comprensibile; l’essenziale è la responsabilità di adottare una linea precisa; di spiegarla con chiarezza nelle sue motivazioni e nei suoi contenuti ai cittadini; di usare della comunicazione con sobrietà ed equilibrio, evitando strumentalizzazioni o interferenze di carattere politico per sollevare allarmismi o al contrario per indurre ad un’apparente sicurezza».
Insomma, difficile usare un documento del genere per provare la responsabilità politica della mancata prevenzione.
«Qui il tema non è la responsabilità politica del governo, ma l’assenza di trasparenza. Che, peraltro, si evince dalla debole base legale dei provvedimenti presi. Basti pensare che dal decreto legge istitutivo del Codice della Protezione civile e dal successivo decreto legislativo del 2018 nasce l’intero apparato che ha tenuto in piedi – con gli sviluppi e gli ampliamenti dei decreti legge del 2020 (in tema di “Cura-Italia” e di “Liquidità”) – la sequenza dei Dpcm. Non so se una copertura del genere passerebbe indenne un eventuale giudizio della Corte costituzionale anche e prima di tutto per la sua genericità».
Quindi c’è il rischio di una bocciatura della Consulta?
«La garanzia di una previsione legislativa alla base di queste limitazioni è stata trascurata, per usare un eufemismo. Così abbiamo visto una sequenza di Dpcm o di ordinanze dei governatori regionali emessi attraverso provvedimenti amministrativi, senza una legge che ne decidesse i limiti, per di più in frequente condizione di contrasto tra governo centrale e Regioni e con modalità di comunicazione confuse (ad esempio i consigli dei ministri notturni o presso la sede della Protezione Civile). E il Parlamento è rimasto spesso ai margini. Anche sulla riforma dell’intelligence, inserita nel decreto Agosto, approvato con un voto di fiducia. La Costituzione parla chiaro. I decreti legge richiedono condizioni straordinarie di necessità ed urgenza per poter essere adottati dal governo ed una conversione entro sessanta giorni. Purtroppo legare al “Frecciarossa” della conversione dei decreti legge una serie di “vagoni” che non c’entrano per nulla per assicurarne una più rapida approvazione è diventata una abitudine italiana, come quella di approvare “salvo intese” il provvedimento, dimostrando con ciò la mancanza in realtà di un accordo. È vero, il Parlamento è stato messo ai margini. Ma prima ancora ai margini è finito il principio di legalità. Un decreto, un regolamento, una sanzione hanno forza soltanto se si fondano su una legge o un atto avente forza di legge».
Adesso un referendum quel Parlamento vuole dimezzarlo.
«Il referendum cui siamo chiamati è legato allo stesso discorso. È accompagnato da una polemica di chi sostiene che il Parlamento non funziona, che è inutile (fino a prevederne la scomparsa nel giro di qualche anno). Ma a me sembra che si voglia andare ben oltre la specifica scelta politico-istituzionale limitata al numero dei parlamentari, in direzione di una “democrazia diretta”: non si sa da chi diretta né dove diretta».
Cioè?
«Dietro questo dibattito si svolge la lotta per la successione fra potere esecutivo e giudiziario ad un potere legislativo sempre più delegittimato e messo in crisi da molteplici cause (comprese le interferenze del diritto comunitario europeo e convenzionale). In discussione vi è la gestione del principio di legalità: il governo, con il pretesto dell’efficienza, tende ad assumersi il compito di legiferare; la magistratura a sua volta cerca di raggiungere lo stesso risultato attraverso “l’interpretazione creativa” delle leggi. Il risultato del referendum influirà anche su questo aspetto oltre che su una ulteriore serie di profili politico-istituzionali».
Chiudiamo ancora sull’assenza di trasparenza. Il sistema giudiziario italiano spesso cade anche nell’estremo opposto: quello di una pericolosa commistione con il mondo dell’informazione, tanto che è difficile distinguere i contorni.
«Quello che è essenziale è che il passaggio dall’informazione alla informatica con l’evoluzione scientifica e tecnica e i risultati raggiunti in questo campo in quella che qualcuno definisce la “quarta rivoluzione” (si pensi al trojan come strumento di investigazione; al valore economico dell’informazione; al reperimento, conservazione, manipolazione e uso dei big data) mantenga all’uomo il governo dell’informazione per evitare che in un prossimo futuro sia l’informazione a governare l’uomo. In altre parole, il traguardo della trasparenza – per conservare la democrazia – deve mantenersi in stretto contatto con la disciplina delle nuove forme di gestione dell’informazione, per garantire i limiti di queste ultime e il rispetto della libertà».
Gli infettivologi tedeschi bocciano il governo: “Il lockdown? L’Italia ha sbagliato tutto”. Alessandra Benignetti il 29 agosto 2020 si Inside Over. Chiudere le discoteche? Non solo questa ma “tutte le decisioni del governo italiano sono state sbagliate”. Non ha dubbi Sucharit Bhakdi, specialista in microbiologia ed epidemiologia delle infezioni che per 22 anni ha diretto l’Istituto di Microbiologia dell’Università Johannes Gutenberg di Magonza. Assieme alla moglie, Karina Reiss, ricercatrice nel campo della biochimica, infezioni e biologia cellulare all’università di Kiel, ha dato alle stampe un libro che in poche settimane è diventato un best seller in Germania con oltre due milioni di copie vendute. Corona Fehlalarm? (“Falso allarme Corona?”), edito da Goldegg Verlag, è uno studio basato su numeri, dati e almeno duecento citazioni della letteratura scientifica, che punta a ridimensionare la portata della pandemia in corso in tutto il globo. “Basta guardare il tasso di mortalità, è da lì che ognuno di noi può evincere che il Sars Cov-2 è paragonabile ad un qualsiasi virus influenzale”, dicono ad Inside Over i due autori del volume. I numeri a sostegno di questa tesi sono elencati nelle pagine del tascabile, che tra qualche settimana sarà tradotto anche in lingua inglese. “Non c’era assolutamente bisogno delle misure drastiche che sono state prese in tutto il mondo – incalzano i due infettivologi – ed è per questo che abbiamo scritto il libro”. L’idea, ci spiegano, è nata dalla volontà di “mettere nero su bianco fatti e dati per renderli disponibili in modo duraturo”. Il boom di nuovi positivi in molti Paesi europei, come Francia e Regno Unito, non li preoccupa: “Non ci sono casi in aumento da nessuna parte”. “Il numero dei test è cresciuto – chiariscono Bhakdi e Reiss – e con questo anche il numero dei falsi positivi, che sono in media l’1-2 per cento”. “La maggior parte di chi è positivo – aggiungono – sta bene e non è contagioso”. In generale, secondo i ricercatori, non è comunque corretto parlare di nuovi “casi”. “Questo termine – dicono ad Inside Over – si riferisce alle persone malate”. La stragrande maggioranza di chi contrae il virus, invece precisano i due, è asintomatico. “Il range delle morti per il Covid è attorno allo zero ovunque”, vanno avanti. Così l’ipotesi di una seconda ondata non li spaventa. “A partire dai mesi di ottobre e novembre ci sarà la classica influenza stagionale assieme ai casi di coronavirus”, prevedono gli autori. “I Paesi che sceglieranno di ricorrere nuovamente al lockdown – mettono in guardia – ripeteranno un errore catastrofico e distruggeranno sé stessi”. Per Bhakdi e Reiss le misure restrittive adottate in Germania e nel resto d’Europa sono state “totalmente inappropriate oltre che insensate”. Le chiusure, oltre a rappresentare una limitazione senza precedenti alle libertà dei cittadini, scrivono gli autori del best seller che sta spopolando nei Land tedeschi, “hanno causato danni collaterali irreparabili”.
Per questo sono convinti che la mossa del governo italiano di chiudere i locali notturni e imporre l’uso dei dispositivi di protezione individuale anche all’aperto nei luoghi della movida “non abbia senso”. “Tutte le decisioni italiane sono state sbagliate”, è il duro giudizio dei due infettivologi tedeschi. A far discutere è anche il nodo delle mascherine a scuola. “Forzare i bambini a indossarle – dicono senza giri di parole – è un atto criminale e andrebbe perseguito”. “In primo luogo – motiva il professor Bhakdi – non ci sono evidenze che l’utilizzo dei Dpi influenzi in qualche modo l’andamento della curva epidemica”. “Inoltre – aggiunge – chi risulta positivo al tampone, o è un falso positivo, o è un contagiato senza sintomi e quindi non può diffondere il Covid”. Al contrario, secondo l’esperto, la mascherina “danneggia la salute mentale di milioni di bimbi ed è pericolosa per milioni di adulti che soffrono di malattie cardiache e polmonari, pressione alta o cancro”. Una posizione, questa, condivisa anche da chi, in Germania, da settimane manifesta per chiedere la fine delle misure anti-Covid. Una nuova marcia di quelli che sono stati ribattezzati come “negazionisti” è stata convocata per sabato a Berlino. I manifestanti saranno sorvegliati speciali delle forze dell’ordine, dopo che le autorità cittadine hanno chiesto di vietare gli assembramenti per evitare nuovi contagi. Una presa di posizione questa, che, commentano Bhakdi e Reiss, “getta ancora più imbarazzo sui politici tedeschi”. Gli autori di Corona Fehlalarm si uniscono al coro di chi chiede “che tutte le misure adottate contro il Covid siano immediatamente revocate”. “Non esiste – spiegano – una minaccia tale per cui il governo dovrebbe implementarle”. Nonostante il professore abbia pubblicato oltre 300 articoli scientifici nel campo della virologia e sia stato insignito nel corso della sua carriera di vari riconoscimenti, tra cui l’Ordine al Merito dello Stato della Renania-Palatinato, il giudizio della comunità scientifica tedesca sull’ultimo lavoro svolto assieme a sua moglie, ci assicura, è stato “sprezzante”. Centinaia di colleghi, tuttavia, sono rimasti “entusiasti”, ci confessa. I due autori sono scettici anche sulla corsa al vaccino: “Quelli basati sui geni sono molto pericolosi e in circostanze normali non avrebbero mai raggiunto il grado di sperimentazione clinica di oggi”.
Stefano Zurlo per “il Giornale” il 18 agosto 2020. È una classifica internazionale di matrice americana. Ma soprattutto è una pugnalata alle nostre vacillanti certezze: l'Italia di fatto non è attrezzata per arginare le pandemie. Il piano pandemico è vecchio e, come già evidenziato dal generale Pier Paolo Lunelli nel suo report, da almeno tre anni l'Organizzazione mondiale della sanità ci invitava ad aggiornarlo. Ma non si è fatto nulla, nemmeno, incredibile, quando la pandemia è scoppiata ed è stato dichiarato lo stato di emergenza. Ora arriva un'altra conferma dei drammatici ritardi del Paese. Il Global Health Security Index punta il dito contro il nostro Paese con parole durissime: «Il Centro operativo di gestione dell'emergenza in Italia», ovvero la Protezione civile, «non dispone di linee guida in caso di pandemia». E ancora: «La Protezione civile si focalizza sulla risposta ai disastri naturali mentre non rappresenta alcun fattore che ne motivi l'intervento contro l'insorgere di malattie infettive». Insomma, tutto il sistema messo in piedi dal Governo Conte per fronteggiare il Coronavirus è inadeguato. Non è all'altezza, o meglio non sempre si è rivelato tale, il Comitato tecnico scientifico voluto dall'esecutivo ai primi di febbraio, tanto che il viceministro della Sanità Pierpaolo Sileri aveva chiesto di rinnovarlo «con chi è in prima linea». Proposta caduta nel nulla. E appare in difficoltà la Protezione civile, pensata per terremoti e inondazioni ma incerta sul da farsi davanti a una pandemia. «Non esiste in Italia - si legge nel Global Index - un'istituzione simile alla Protezione civile che si occupi di questioni che riguardino emergenze concernenti la salute pubblica». E poi: «Non sussiste alcuna evidenza che il centro operativo di gestione delle emergenze faccia alcuna esercitazione per emergenze che riguardano la salute pubblica una volta l'anno». Un mezzo disastro, insomma. Anche se le sintesi rischiano di essere parziali e un po' sbilanciate. E però il ranking dell'Italia è impietoso: il Belpaese occupa la centoventinovesima posizione su 195 stati censiti. E alla voce «Operazioni di risposta ad un'emergenza» l'Italia ottiene un catastrofico 0,0 per cento. Nulla di nulla. Curva piatta. Del resto, dopo aver dichiarato lo stato di emergenza il 31 gennaio, il Governo sparì dalla circolazione per un mese senza prendere provvedimenti. Creò il Comitato tecnico scientifico, ma non andò oltre. Non si pensò di mandare una missione in Cina, per verificare quel che stava accadendo fra reticenze e omissioni; neppure il Cts e Palazzo Chigi si organizzarono per reperire mascherine e dispositivi di protezione. Infine, non ci fu alcun aggiornamento del piano pandemico. Per il generale Pier Paolo Lunelli, già comandante della Scuola per la difesa nucleare, batteriologica e chimica, lacune e superficialità hanno avuto un costo elevatissimo: con un piano pandemico aggiornato si sarebbero salvate diecimila persone. Diecimila morti in meno su trentacinquemila. Quasi un terzo: per questo l'analisi dell'alto ufficiale è stata consegnata ieri alla Procura di Bergamo che indaga sulla mancata istituzione della zona rossa a Nembro e Alzano Lombardo. Può essere che le cifre siano esagerate, ma il tema, al di là delle indagini della magistratura, merita di essere scandagliato. L'Italia, come altri Paesi europei, ha affrontato con improvvisazione la crisi sanitaria. Il 14 gennaio - secondo il quotidiano inglese The Guardian - il Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie organizza una riunione con i ministri della sanità per valutare la situazione del traffico aereo, ma l'Italia è assente al meeting. Non solo: fra il 28 e il 29 gennaio la Commissione europea invita i Paesi a potenziare le terapie intensive, ma l'appello cade nel vuoto. Certo, la pandemia è un nemico sconosciuto, ma il nostro Paese si presenta disarmato e impreparato al terribile appuntamento. Eppure, considerando la rapidità con cui si è realizzato l'ospedale in Fiera, poi rimasto largamente inutilizzato, si sarebbe potuto fare di più. E il rimpianto cresce. Come si ricava dal documento del generale Lunelli. E ora anche dal Global Health Security Index.
Tutto il Covid, minuto per minuto. I mesi che hanno messo in ginocchio il mondo intero, il rialzo dei contagi e la stretta sulle discoteche. Luca La Mantia il 17 agosto 2020 su Il Quotidiano del Sud. Dall’annuncio di Conte alla positività dei due turisti cinesi, al paziente zero in Lombardia, alle salme nei camion militari. In principio sono stati i social a raccogliere le paure degli italiani per l’epidemia di Covid19 proveniente dall’estremo oriente. Il 28 gennaio la malattia ancora si diffondeva a macchia d’olio nella popolosa città di Wuhan ma il rapido emergere di hashtag come #coronavirus, #virus e #viruschina dava il polso di una psicosi in espansione, sull’onda dei titoli allarmistici di giornali e tv. Un paio di settimane prima (il 12 gennaio), in effetti, l’Organizzazione mondiale della sanità aveva confermato di essere stata informata del patogeno a fine 2019 e che lo stesso era causa di una nuova infezione popolare. Il 31 gennaio l’incubo si affaccia in Italia quando il premier, Giuseppe Conte, annuncia che due turisti cinesi a Roma sono risultati positivi all’infezione. La coppia viene ricoverata all’ospedale Spallanzani in condizioni gravissime e, contemporaneamente, viene avviato il tracciamento dei contatti per verificare se abbiano trasmesso la malattia. I riscontri negativi sembrano ridimensionare il fenomeno, i toni si fanno più rilassati, e sono numerosi i politici che escludono un’epidemia di vaste dimensioni nel nostro Paese. All’apparente calma ritrovata fa da sfondo la crescente diffidenza nei confronti della comunità cinese che spesso sfocia in veri e propri episodi di intolleranza. Ma l’illusione di essere al sicuro finisce il 21 febbraio, quando un 38enne di Codogno (nel Lodigiano) è positivo al tampone: è il paziente 1. O almeno così si pensa allora, perché la velocità con cui sembra propagarsi il virus farà sorgere il dubbio che l’infezione sia già presente in Italia da tempo, celata fra le migliaia di polmoniti portate ogni anno dalla stagione fredda e per le quali si rende necessario l’accesso ai pronto soccorso. Ed è lì, nei presidi sanitari primari, che il patogeno – non riconosciuto per tempo – si diffonde rapidamente. Una settimana prima, il 14 febbraio, 50mila tifosi dell’Atalanta avevano assistito assiepati a San Siro alla gara d’andata degli ottavi di Champions League contro il Valencia. Un’occasione di festa che potrebbe essere stata la “partita zero”, la prima tessera del micidiale domino che si scatenerà su Bergamo nei mesi a seguire. Dopo la Lombardia anche il Veneto comincia ad aver paura, quando a Padova si registra la prima vittima italiana di Covid19, un 78enne di Vo’ Euganeo, altro focolaio dell’infezione. Il 23 febbraio sono 11 le zone rosse in Italia e la protezione civile comincia a comunicare quotidianamente in conferenza stampa i dati sull’andamento dell’epidemia. Ma una parte della politica continua a sostenere che il Paese non possa fermarsi. Attivo sul fronte il sindaco di Milano, Beppe Sala, che a fronte di una possibile crisi economica vede sgretolarsi il modello di efficienza e modernità meneghino. Viene lanciato l’hashtag #Milanononsiferma per invitare la popolazione a non farsi scoraggiare, a continuare a contribuire alla costruzione della rinascita milanese. All’ombra del Duomo arriva anche il segretario del Pd, Nicola Zingaretti, per partecipare a un aperitivo sui Navigli insieme ai militanti dem. Il leader vorrebbe rassicurare la comunità; dieci giorni dopo risulterà positivo al Sars-Cov-2. La situazione si aggrava, crescono contagi e vittime, il 4 marzo vengono chiuse le scuole su tutto il territorio nazionale, il 7 l’intera Lombardia diventa zona rossa, l’8 si disputa a porte chiuse quella che sarà l’ultima partita di campionato prima della sospensione: il derby d’Italia fra Juventus e Inter. Il governo capisce che non può più aspettare: il 9 marzo Conte si presenta in tv a tarda sera e annuncia la creazione di una “Italia zona protetta”, è l’inizio del lockdown. Chiuse numerose attività, vietati gli assembramenti, promosso lo smart working quasi ovunque, ci si può muovere dalla propria abitazione solo per motivi di assoluta necessità e con autocertificazione alla mano. Ormai è chiaro: Il Bel Paese è l’epicentro occidentale dell’epidemia. La Lombardia è la regione più colpita, i contagi sono migliaia, i morti centinaia. Il 18 marzo una scena da film apocalittico fa il giro dei social: i camion dell’esercito che trasportano le bare lungo le strade di Bergamo, verso il cimitero. È l’immagine simbolo della tragedia, insieme a quella del Papa che prega per il mondo afflitto dall’epidemia in una piazza San Pietro vuota sotto la pioggia. Il 17 marzo il governo interviene con il primo pacchetti di aiuti, volti a ridimensionare i danni all’economia e proteggere le persone più fragili. Il decreto di chiama “Cura Italia” e vale 25 miliardi. Fra le misure anche 600 euro assicurati a partite Iva e professionisti iscritti alla gestione separata. Anche il sito dell’Inps, però, si ammala e va in crash, fra le proteste dei cittadini. Gli italiani, però, sembrano accettare la sfida, si affacciano dalle finestre, intonano l’inno, inscenano flash mob dai balconi organizzati sui social network. Il 21 marzo si registra il picco di casi in un solo giorno, 6.557. Il numero massimo di vittime si avrà il 27 dello stesso mese, quando a perdere la vita saranno in 969. Nel frattempo si erano strette ancor di più le maglie del lockdown: dopo aver già chiuso i parchi e vietato lo sport se non nei pressi della propria abitazione, il 22 marzo l’esecutivo sospende tutte le attività non essenziali e obbliga i cittadini a restare nel proprio Comune di residenza. A metà aprile lo spirito di solidarietà nazionale con cui gli italiani avevano affrontato le prime settimane di lockdown comincia a perdere colpi. Sui social l’opinione pubblica si divide in due, da una parte i rigoristi – spaventati dalle notizie che vengono dal Nord – pronti a condannare qualunque comportamento anche solo percepito come pericoloso, segnalandolo agli utenti e alle autorità. Hanno paura delle poche persone a passeggio, di chi non indossa la mascherina, persino dei bambini che fanno il giro del palazzo mano nella mano con i genitori. Dall’altra gli scettici, che cominciano a farsi un’opinione personale dell’epidemia, danno credito a chi ridimensiona il fenomeno, vedendo profilarsi – dopo il virus – l’ombra della crisi economica. La chiusura totale non può protrarsi a lungo, questo è chiaro sin da subito al governo che, forte di un primo deciso calo dei contagi e dei ricoveri in terapia intensiva si mette al lavoro sulla Fase 2, quella della convivenza con la malattia. Nel frattempo l’Italia non è più il lazzaretto dell’Occidente, gli Stati Uniti ci superano per numero di infezioni, la Spagna ci tallona. C’è margine per ragionare sulle riaperture. Non prima di maggio però. E infatti il 26 aprile Conte annuncia per il giorno 4 del quinto mese dell’anno un primo allentamento del lockdown. Quattro milioni di italiani potranno tornare al lavoro, si potrà ricominciare a circolare liberamente entro i confini regionali (sempre con autocertificazione) e, soprattutto, sarà consentito fare visita ai congiunti. Parola sin troppo vaga che scatena polemiche e interpretazioni. Si tratta solo dei familiari ristretti o anche dei parenti alla lontana? E gli amici di vecchia data? E i fidanzati? Alla fine il governo pubblicherà della faq sul proprio sito per fare chiarezza. Mentre si attende di capire se la prima ondata di riaperture avrà effetti negativi sulla curva dei contagi il mondo imprenditoriale cerca una boccata d’ossigeno con il nuovo pacchetto di aiuti, varato il 7 aprile. Obiettivo del Decreto Liquidità è consentire alle aziende di avere accesso al credito grazie alla garanzia statale, che parte dal 70% e può arrivare al 100 solo per i mini prestiti fino a 25mila euro. Alla vigilia del 18 maggio (quando di fatto il lockdown sarà archiviato) è ormai chiaro che il Paese è spaccato in due. Al Nord (in particolare in Lombardia) il virus continua a infuriare, sia pur con numeri inferiori, al Centro e al Sud l’intensità è inferiore e tende verso l’azzeramento, almeno in alcune regioni. Cominciano così a uscire primi studi su possibili effetti dell’incipiente estate sull’andamento della pandemia, sul ruolo svolto dall’inquinamento atmosferico nella veicolazione del virus. E non manca chi, specie in rete, paventa la possibilità di mantenere la chiusura totale solo nei territori settentrionali più colpiti. Il lockdown, però, cessa per tutti. Riaprono bar e ristoranti e molte altre filiere produttive. Cade l’obbligo dell’autocertificazione per spostarsi all’interno della propria regione. Si possono tornare a celebrare in pubblico le funzioni religiose. Resta la distanza di un metro. Quanto alle mascherine alcune regioni ne impongono l’utilizzo anche all’aperto, se non si riesce a restare distanti. Lo stesso giorno Palazzo Chigi vara il Decreto Rilancio, valore 55 miliardi, lo stesso di due manovre finanziarie. Con le ripartenze l’umore generale sembra migliorare, i giorni dell’incubo sembrano alle spalle. Dalla Francia arrivano notizie che potrebbero cambiare la storia della pandemia. In Francia si scoprono casi di positività al virus risalenti al 27 dicembre, a Milano il Politecnico pubblica una ricerca dalla quale emerge che un donatore di sangue su due aveva sviluppato gli anticorpi al patogeno quando l’epidemia in Italia sembrava ancora alle sue fasi iniziali. Chi resta chiuso spinge per una rapida riapertura. Dal 25 maggio si può tornare in palestra e si comincia a lavorare per una piena ripartenza dei campionati di calcio, ovviamente a porte chiuse. Il 2 giugno, per la Festa della Repubblica, Mattarella sale le scale del Vittoriano con la mascherina sul volto e rende omaggio al Milite Ignoto. Il giorno dopo cadono i limiti agli spostamenti fra regioni spalancando le porte alla stagione estiva. Il 12 giugno il calcio riprende con la Coppa Italia, seguirà il 20 la Serie A. Il 21 luglio il Consiglio europeo trova l’accordo per il Recovery fund, all’Italia andranno 209 miliardi, fra prestiti e sussidi. L’Iss, intanto, settimanalmente aggiorna sull’andamento dei contagi nelle regioni. Dopo una fase di quiete ad agosto i dati hanno ricominciato a crescere. Almeno un migliaio i nuovi focolai, innescati da casi d’importazione, movida e un generale calo dell’attenzione. Matura così la nuova stretta del governo su discoteche e sale da ballo, chiuse su tutto il territorio nazionale da oggi al 7 settembre. Con la stessa ordinanza il ministro Speranza ha fissato l’obbligo delle mascherine anche all’aperto, nella fascia oraria 18-6 del mattino, quando non è possibile mantenere la distanza. Preoccupano infine i rientri dalle vacanze nei Paesi dove la curva dell’epidemia si è attestata su livelli allarmanti, come Spagna, Grecia, Malta e Croazia. E se un altro lockdown nazionale resta improbabile non possono essere escluse chiusure limitate ai territori più interessati. Se i dati non dovessero cambiare, ha avvertito l’assessore alla Sanità del Lazio, Alessio D’Amato, la riapertura delle scuole in programma a settembre potrebbe essere a rischio.
Stefano Zurlo per “il Giornale” il 14 agosto 2020. I calcoli sono sempre difficili, ma i numeri sono impressionanti: se l'Italia avesse aggiornato i piani contro le pandemie, si sarebbero salvate diecimila persone. Diecimila morti in meno su un totale di 35 mila. «I protocolli erano inadeguati» e l'Italia non ha dato seguito alla richiesta dell'Organizzazione mondiale della sanità, formulata nel 2017, di rivedere le strategie in questa materia sensibilissima. Poi e arrivato il Covid, inatteso e fulmineo, e il Paese si e trovato impreparato. È un atto d'accusa durissimo quello firmato dal generale dell'Esercito Pier Paolo Lunelli, oggi in pensione ma in passato comandante della Scuola per la difesa nucleare, batteriologica e chimica. Il documento, anticipato dal Guardian e presto sul tavolo dei magistrati, dice una verità molto semplice: il governo poteva e doveva fare di più. Non aveva la palla di vetro, davanti a un nemico di fatto sconosciuto, ma se avesse dato retta alle linee guida dell'Oms e del Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie, si sarebbe trovato a gestire la drammatica emergenza in un altro modo. Il report conferma, sia pure indirettamente e su un altro versante, le carenze e le criticità già evidenziate da alcuni esperti nei mesi scorsi. L'esecutivo dichiarò alla fine di gennaio lo stato di emergenza, poi rimase un mese inerte, senza prendere le necessarie contromisure per fermare l'epidemia che stava arrivando dalla Cina. Le mascherine, per toccare un tasto dolente, erano di fatto introvabili e in ogni caso venivano considerate uno strumento di cui si poteva benissimo fare a meno o da indossare solo in certe situazioni, in una casistica grottesca, confusa e incomprensibile. Non solo, pure i tamponi venivano centellinati e utilizzati solo per certificare la malattia conclamata e non per prevenirla e tagliare la strada al virus, prima che dilagasse come il nemico. Tutti elementi da considerare nel giorno in cui arriva la notizia, diffusa dall'Eco di Bergamo, che la procura della città non ha trovato contraddizioni nel racconto del premier Conte, interrogato il 12 giugno, sulla mancata istituzione della zona rossa ad Alzano Lombardo e Nembro, alle porte della città. Ci furono ritardi, disguidi, estenuanti dialoghi fra Milano e Roma, ma non se ne fece nulla e la situazione precipitò. Si possono attribuire precise e gravi responsabilità politiche a Palazzo Chigi e a Palazzo Lombardia, al governo e alla Regione. Si può riflettere sul tempo perso: Conte venne a sapere che il Cts voleva blindare quei comuni solo dopo due giorni, quando anche le ore e i minuti erano decisivi. Ma è arduo imbrigliare il tutto nel perimetro del codice penale. E suscita sconcerto l'idea di leggere la storia recente come un sterminato verbale di cronaca giudiziaria. Come aveva scritto il Giornale, può essere che anche l'indagine di Bergamo, assai più delicata rispetto all'accozzaglia di denunce ora vagliate dai pm di Roma, si risolva in niente e si concluda con una raffica di archiviazioni. Ma, per quanto possa sembrare paradossale, proprio l'eventuale flop del procedimento penale potrebbe confermare le mancanze e gli scricchiolii dell'azione del governo e dei governatori. Qualcuno, per esempio, potrebbe cavarsela per aver ubbidito a direttive e norme mal fatte, disegnate in modo astratto e con passo burocratico. Insomma, alla fine occorrerà leggere fra le righe dei provvedimenti che prima o poi i giudici prenderanno. Il governo - come emerge ora in modo netto dall'analisi del generale Lunelli - poteva fare di più. Molto di più. Ma il dibattimento dovrebbe svolgersi lontano dai tribunali.
Felice Manti e Edoardo Montolli per “il Giornale” il 10 agosto 2020. Non c'è dolore più grande di chi non ha una risposta, una verità, che possa consolarlo. La pagina Facebook dell'associazione Noi denunceremo presieduta da Luca Fusco è una Spoon river social che si aggiorna ogni minuto con le foto di chi quattro mesi fa nella Bergamasca è morto di Covid in ospedale, da solo, senza il conforto di nessuno. «Sono stanco. Stiamo combattendo da quattro mesi. M' ha chiamato persino il New York Times. Eppure a me non mi ha chiamato nessuno, non dico il premier Giuseppe Conte ma neanche l'ultimo politico bergamasco...».
Quando sono usciti i verbali e si è capito che sulla chiusura c'è stato un palleggio di responsabilità tra governo e Lombardia voi parenti come vi siete sentiti?
«Noi abbiamo sempre detto: vogliamo sapere solo la verità. Se la verità che emergerà è che l'evento era impossibile da pronosticare, che non si poteva fare nulla per evitarlo perché era come un attacco improvviso di cavallette, questa sarà la risposta e ce ne faremo una ragione. Ma credo che questa non possa essere la verità. Seppure... se questa sarà, ce ne faremo una ragione. Ma voglio una risposta... Però purtroppo...»
Però?
«Ho 60 anni, ho visto Mani pulite eccetera. In Italia quando vuoi farti ascoltare devi andare in Procura. Ho preteso che tutto quello che abbiamo depositato sia un esposto contro ignoti. Noi non sappiamo cosa è successo, non siamo esperti, non abbiamo le competenze per fare delle analisi. Siamo persone semplici, che leggono i giornali. Lasciamo che la magistratura faccia quello per cui istituzionalmente è stata istituita. Se emergerà che le responsabilità sono politiche, non penali, la prossima volta alle urne ci comporteremo di conseguenza. Ma che vada in galera qualcuno non mi interessa. Che senso ha che io pensi voglio vedere in tribunale Conte, Gallera o Fontana? Non siamo giustizialisti».
Voi volete la verità...
«Troppe volte si mette un coperchio su tante vicende, sappiamo come è andata in altri casi. Poi, se emergessero delle responsabilità e delle colpe, a me piacerebbe che queste persone vengano punite e che - sono un illuso, lo so - queste persone dicessero ho sbagliato, rimetto il mio mandato e mi dimetto».
Cosa pensa di questo balletto sui verbali...
«Li avevo già letti. Ritengo sia una non notizia. Fontana in tv ha detto la zona rossa potevamo farla anche noi. Ma anche Conte. Io da uomo della strada mi sono fatto l'idea che Regioni e governo abbiano ballato su una questione che necessitava un intervento immediato. Non si sono parlati. Se avessero chiuso Alzano, Nembro e non dimentichiamoci Orzinuovi e il fronte bresciano... forse l'Italia avrebbe evitato il lockdown».
C'è chi dice che Confindustria abbia fatto pressioni per scongiurare la chiusura del distretto industriale. E c'è il giallo sull'esercito, pronto a chiudere tutto e poi richiamato indietro...
«Chi ha dato quell'ordine? Non lo sappiamo. Quanto alle pressioni, io rispondo per competenze. Io sono un industriale e non ho motivo di non credere che qualcuno abbia detto ragazzi, se chiudete è un casino eccetera. Ma questa non è una pressione. È una richiesta. Ma sei tu politico che devi decidere...».
Forse la moral suasion di Confindustria, se c'è stata, si è spinta un po' troppo non crede?
«Se tu amministratore pensi che ci siano state pressioni che sfiorano il ricatto... denunciale, no? Vai in Procura e denuncia. Sono lì che aspettano. Se così non è, non puoi nasconderti dietro le pressioni».
Quindi neanche Confindustria...
«Sarò cinico. Gli industriali non hanno compiuto alcun reato. Hanno fatto una comunicazione, una richiesta. Hanno fatto il loro mestiere. La richiesta non è un reato».
Luca Ricolfi per il Messaggero il 9 agosto 2020. Il New York Times si è prodotto, giusto una settimana fa, in un (ennesimo) elogio dell'Italia e del suo governo per la saggezza del suo approccio al coronavirus, che ci avrebbe consentito di ottenere risultati straordinari, meritevoli di essere imitati da altri paesi. Ho trovato molto consolante l'articolo del New York Times, perché mostra che, almeno in fatto di faziosità della libera stampa, c'è chi sta peggio di noi. Il meraviglioso modello di gestione dell'epidemia elogiato dal New York Times è costato all'Italia 58 morti ogni 100 mila abitanti (trascurando il numero oscuro dei decessi non registrati), contro i 46 degli Stati Uniti. Fra i Paesi europei solo Belgio, Regno Unito e Spagna hanno avuto più morti per abitante dell'Italia. La Germania ne ha avuti meno di un quinto dell'Italia (11 per 100 mila abitanti, contro i nostri 58), e i suoi ospedali non hanno visto le scene apocalittiche che hanno visto i nostri. E anche Francia, Svizzera, Austria, Slovenia, per stare ai Paesi con cui confiniamo, hanno avuto meno morti per abitante di quelli che abbiamo avuto noi. Dove sta il primato del modello italiano? Qual è la lezione che dovremmo impartire ad altri Paesi? Perché, ogni sera, i media ci mostrano scene terrificanti su quel che succede in Brasile e negli Stati Uniti, come se noi (che abbiamo avuto più morti per abitante) fossimo una specie di isola felice, o addirittura un modello da imitare? Mah, forse perché quei due Paesi sono governati da personaggi inquietanti, e quindi vien da pensare non possono che stare peggio di noi, che siamo governati dal quieto Conte. Evidentemente, anche negli Stati Uniti, persino sul loro giornale più autorevole, succede quello che non di rado succede in Italia: le vicende degli altri Paesi vengono raccontate non per farle conoscere, ma per usarle a fini di politica interna. Ma l'articolo del New York Times non si ferma qui. Anche se già da tempo si sa che non è così, il New York Times scrive, sempre elogiativamente, che l'azione del governo italiano è stata guidata da comitati scientifici e tecnici. Strano, già due mesi fa, ai tempi dell'inchiesta della procura di Brescia sulle mancate chiusure di Nembro e Alzano, si era appreso che il Comitato tecnico-scientifico aveva consigliato la chiusura di quei due comuni, e che il governo aveva fatto di testa sua, ignorando quel consiglio. Ora, grazie alla desecretazione dei verbali del Comitato tecnico-scientifico, sappiamo che non solo non venne seguito il consiglio di chiudere Nembro e Alzano, ma che l'intera strategia del governo fu adottata in contrasto con il Comitato tecnico-scientifico. Più che agire in scienza e coscienza, il premier pare aver agito di testa propria, contro l'opinione della scienza, non certo guidato da essa. Avesse ascoltato il Comitato tecnico-scientifico, il lockdown dell'11 marzo avrebbe riguardato solo una porzione del Nord, e il Sud ne sarebbe stato risparmiato, con grande sollievo delle sue attività economiche. Credo nessuno possa dire, con certezza, che sarebbe stato meglio seguire l'opinione del Comitato tecnico-scientifico (anche se tendo a pensare di sì). La controprova manca, e mancherà sempre. Quel che però possiamo ricavare da questa vicenda è la conferma che, in materia di trasparenza e di informazione, la conduzione di questa crisi è stata disdicevole, e non casuale. Ora sappiamo perché i verbali del Comitato tecnico-scientifico, ripetutamente richiesti dai giornalisti nelle conferenze stampa, sono sempre rimasti secretati. Ora è ancora più chiaro di prima perché le richieste del mondo scientifico di accedere ai dati dell'epidemia (a partire da quel che succede nei singoli comuni) non sono mai state prese nella benché minima considerazione. Il muro di opacità eretto contro giornalisti e studiosi aveva una funzione precisa: nascondere che le scelte del governo erano in contrasto con le opinioni degli esperti, e lasciare al governo le mani completamente libere. Se i verbali del Comitato tecnico-scientifico fossero stati pubblici, se i dati analitici sull'epidemia fossero stati disponibili, molte scelte del governo sarebbero apparse irrazionali, o quanto meno assai discutibili. Il premier non avrebbe avuto carta bianca su tutto. E forse il Parlamento non gli avrebbe così facilmente conferito i pieni poteri. Ma lo sconcertante esito della desecretazione mi dà anche l'occasione di una riflessione autocritica. Ho spesso pensato, e anche scritto, che meglio avrebbe fatto il governo se si fosse circondato di scienziati indipendenti, anziché dalle alte cariche della sanità pubblica, troppo inclini a compiacere il potere politico e ad assecondarne le scelte. Un giudizio che, in me, era alimentato da due circostanze: l'esclusione dal comitato scientifico del nostro maggiore esperto, il prof. Andrea Crisanti, che a me pareva immotivata e sorprendente; e l'apparente armonia fra le opinioni del Comitato scientifico e le decisioni del governo, sistematicamente alimentata dalle dichiarazioni di concordia di tecnici e politici. Devo ammettere che mi sbagliavo. A quanto pare, il Comitato tecnico-scientifico aveva scelto di dissentire in silenzio, non so se per senso dello Stato o per timore della Politica. Oggi, riconoscendo che fortunatamente avevo torto, e che gli esperti scelti dal governo erano più indipendenti di quanto paressero a me, non posso non porre la domanda: ma può, un Paese democratico, conferire (e iterare) i pieni poteri a un premier che, per avere le mani libere, è costretto a nascondere i dati e secretare le opinioni degli esperti?
Stefano Zurlo per "Il Giornale" l'8 agosto 2020. L'ha visto. No, non l'ha visto. Sì. No. Forse. Conte contraddice Conte e il giallo sulla mancata istituzione della zona rossa ad Alzano e Nembro si complica. Qualcosa non quadra: il Presidente del consiglio lesse il verbale del Comitato tecnico scientifico che il 3 marzo chiedeva di blindare i due comuni dove il contagio era esploso? Bene, a quanto sembra, c'è un Conte 1 che ai pm di Bergamo dice di non aver mai avuto fra le mani quel verbale e un Conte 2 che in un'intervista al Fatto aveva sostanzialmente affermato il contrario. Mistero, sullo sfondo di una diatriba che da mesi provoca scintille fra Milano e Roma, fra Palazzo Lombardia e Palazzo Chigi. Ora, peró, si scopre qualche dettaglio ulteriore. Il 3 marzo si riunisce il Comitato tecnico scientifico, insomma la task force degli scienziati che aiuta il governo nella comprensione e gestione della terrificante epidemia che in Europa ha colpito per primo il nostro Paese. La situazione è drammatica: a Bergamo siamo a quota 372 casi di Covid. E il quadro è ancora più fosco a Nembro e Alzano, rispettivamente con 56 e 26 casi. Il Cts - come si viene a sapere scorrendo il verbale pubblicato dall'Eco di Bergamo - suggerisce la blindatura dei due comuni aggrediti dal Corona, anzi per essere più precisi «le opportune misure restrittive». Insomma, la zona rossa. Poi il testo della seduta viene inviato a Palazzo Chigi. La Lombardia, che ha partecipato in collegamento al meeting del Cts come tutte le altre regioni, non propone nulla, ma il boccino ce l'ha ormai il governo. L'esecutivo peró temporeggia e perde giorni preziosi, anzi determinanti, per contrastare l'avanzata rapidissima dell'infezione. Solo l'8 marzo, alle 3 del mattino, vengono chiuse 14 province, fra cui Bergamo; il giorno dopo, 9 marzo, scatta il lockdown in tutta Italia. Ma la domanda da farsi, a questo punto, è un'altra: Conte ha consultato quell'importantissimo documento partorito dal Cts? Siamo così al Conte 1 e al Conte 2: non i due esecutivi da lui guidati, ma le due versioni divergenti, malignamente messe in evidenza da Open di Enrico Mentana. Il 12 giugno Conte viene sentito dai magistrati di Bergamo che indagano sul mancato contrasto della pandemia e ai pm il capo del governo dice: «Quel verbale non mi è mai arrivato». Possibile? I magistrati, sorpresi come nota il Corriere della sera nel divulgare il testo dell'audizione, insistono, ma Giuseppi conferma: «Quel documento non l'ho mai visto». Qualcosa stride. In un'intervista al Fatto Quotidiano il 2 aprile, Conte aveva raccontato un'altra verità: «Mi permetta di ricostruire cronologicamente i passaggi. La sera del 3 marzo il Comitato tecnico scientifico propone per la prima volta la possibilità di una nuova zona rossa per i comuni di Alzano Lombardo e Nembro. Ormai vi erano chiari segnali di un contagio diffuso in vari altri comuni lombardi, anche a Bergamo, a Cremona, a Brescia». Insomma, forse non aveva studiato a memoria le indicazioni del Cts, ma il succo dell'allarme lanciato dagli esperti gli era già chiaro il 2 aprile. Dunque, più di due mesi prima di prendere in contropiede la Procura di Bergamo, spiegando candidamente di ignorare quelle carte. Particolare peraltro a dir poco sconcertante: è difficile credere che la task force abbia caldeggiato la creazione di una zona rossa alle porte di Bergamo, in un territorio flagellato dal virus, e il capo del governo non ne abbia saputo nulla. Ci sarebbe stata in questo caso un'inspiegabile falla nella catena di comando e il premier sarebbe stato tenuto all'oscuro di valutazioni della massima rilevanza e urgenza per il destino del Paese. Fra polemiche e rivelazioni, l'inchiesta di Bergamo va avanti. Mentre in serata Conte rilancia: «Per quanto riguarda il verbale del 3 marzo, ne sono venuto a conoscenza il 5». Ci sarà modo per chiarire quelle affermazioni che fanno a pugni e mettono in difficoltà il presidente del consiglio.
Francesco Bechis per formiche.net il 30 agosto 2020. La trasparenza salva la democrazia. A volte può anche salvare vite. Cesare Mirabelli, presidente emerito della Corte costituzionale, lancia un monito in direzione Palazzo Chigi: “Lo stato di emergenza non è un passepartout”. Un documento del 12 febbraio, ha svelato Repubblica, informava il ministero della Salute delle stime da vertigine della pandemia da Covid-19 in Italia: tra i 60mila e i 120mila contagi, 10mila posti letto mancanti nelle terapie intensive, almeno 35mila morti. È stato tenuto riservato fino ad oggi. Ora qualcuno dovrà spiegare perché.
Presidente, non si tratta di un documento qualsiasi.
«Mi sembra che da quella ricerca emergesse chiaramente il fabbisogno delle terapie intensive. Un’esigenza che è stata trascurata, e si poteva ricavare già dal divario fra Italia e altri Paesi europei, come la Germania».
È stato tenuto riservato. Andava reso pubblico?
«Penso di sì. La trasparenza della Pubblica amministrazione è ancorata a un principio della Costituzione, quello di imparzialità e buon andamento. Non solo la conoscenza, ma la conoscibilità delle informazioni e degli atti amministrativi di interesse generale, come questo, è uno degli elementi che concorrono a qualificare una democrazia. La non conoscenza degli atti era un principio cardine dello Stato autoritario».
Per portare alla luce il rapporto ci sono voluti mesi di tiro alla fune. Il governo non riteneva di renderlo pubblico durante l’emergenza.
«Lo Stato d’emergenza non è un passepartout. Non impone la non diffusione di notizie o documenti del genere. E deve essere rapportato a un’emergenza reale, limitata nel tempo».
A maggio il direttore della programmazione del ministero della Salute Andrea Urbani disse che il piano nazionale d’emergenza prevedeva tre scenari, e che il peggiore non poteva essere divulgato per non “scatenare il panico fra i cittadini”.
«Deve esserci una motivazione più forte per tenere riservati questi documenti. Se si prevede un’eruzione del Vesuvio, non se ne dà notizia anticipatamente per non diffondere il panico? Non si può considerare il popolo bue. Il panico, semmai, può derivare dall’assenza di trasparenza, da informazioni frammentate e inesatte, che riguardano la generalità».
Quelle cifre erano perfino superiori a quelle registrare in seguito. Non c’era il rischio di creare confusione?
«Tutt’altro. Le informazioni, anche quelle gravi, concorrono non solo a dare trasparenza all’azione della Pa ma anche a sollecitare l’adesione dell’opinione pubblica a comportamenti idonei allo stato d’emergenza, a renderla consapevole. Qui devo fare un appunto al Parlamento».
Ovvero?
«Mi pare che da questa vicenda l’istituzione esca indebolita. Non c’è stato alcun segreto di Stato, ma semmai un segreto d’ufficio, che certo non è opponibile al Parlamento. Le Camere hanno tutti i poteri necessari per conoscere cosa fa il governo e indirizzarne l’azione».
Mirabelli, lo stato d’emergenza prima o poi deve finire?
«Ripeto, è per definizione limitato nel tempo, e proporzionato. Ho dubbi, pur comprendendone le ragioni, su atti amministrativi come i Dpcm usati come strumento di limitazione delle libertà».
Fin dove si può comprimere un diritto?
«È una domanda che altrove si sono posti. In Germania il Tribunale costituzionale ha ritenuto eccessiva la limitazione degli accessi ai luoghi di culto islamici. In Francia il Consiglio costituzionale ha ben spiegato la distinzione fra limitazione proporzionale e soppressione dei diritti».
Alla base di tutto c’è un cortocircuito italiano. Tecnici o politica, chi decide?
«La politica deve decidere. I tecnici devono essere ascoltati, ma possono dare elementi di conoscenza difformi, come in effetti è successo. La gravità della crisi ha portato spesso a decisioni immediate, ci ha trovati impreparati. Non c’è nulla di scandaloso. Ma spetta alla politica assumersene le responsabilità».
Luca Cesaretti per "Il Giornale" l'8 agosto 2020. Una strana, gelida cortina di silenzio avvolge da ieri Palazzo Chigi. Il premier finisce nella bufera dopo la desecretazione (ritardata, e ottenuta da un consigliere regionale lombardo ex Pd ora vicino a Carlo Calenda, Niccolò Carretta) dei verbali del Comitato tecnico scientifico, che il 3 marzo aveva chiesto l'istituzione di una zona rossa ad Alzano e Nembro. Indicazione su cui il governo tergiversò, per poi optare cinque giorni dopo per il locKdown nazionale. Il centrodestra, in testa la Lega (che non vede l'ora di scaricare sull'esecutivo le scelte relative alla Lombardia, di cui Roma e il Pirellone si sono per mesi rimpallati la responsabilità) dà fiato alle trombe e cinge d'assedio il premier, chiedendone le dimissioni. Le associazioni delle vittime del bergamasco reclamano chiarezza e chiedono che siano resi pubblici tutti gli altri verbali di quei giorni. Da Palazzo Chigi nessuna reazione ufficiale, ma trapela una linea di difesa un po' traballante: «Si vuol forse accusare il governo di aver operato per mettere in sicurezza anche il Sud del paese?». Ma mentre sul premier piovono fulmini e saette, dalla maggioranza non si leva neppure un fiato in sua difesa. Solo a sera arriva una difesa d'ufficio, affidata alla sottosegretaria Simona Malpezzi: «Chiedendo l'arresto dei membri del governo, che ha gestito meglio di altri l'emergenza, Salvini ha toccato il fondo». Ma è l'unica voce che rompe il silenzio Pd. Tace Italia viva e pure Leu, e tacciono i Cinque Stelle, con la timida eccezione del viceministro della Salute Pierpaolo Sileri, considerato assai vicino al premier e piuttosto estraneo alle bande interne al partito della Casaleggio: «Nessuno disse che la zona di Alzano e Nembro andava chiusa e basta: la chiusura era un'opzione». Chi parla, a taccuini chiusi, spiega così il silenzio: «C'è il timore di esporsi - dice un esponente dei Dem - anche perché le decisioni sull'emergenza sono state tutte accentrate a Palazzo Chigi...». Più esplicito un dirigente di Italia viva: «Conte ha voluto i dpcm, il protagonismo personale, le conferenze stampa notturne su Facebook, i pieni poteri, l'emarginazione del Parlamento? E allora, oltre agli onori, se ne prenda pure gli oneri». Il sindaco Pd di Bergamo Giorgio Gori ricorda: «Che il Cts avesse raccomandato la zona rossa in Val Seriana lo sappiamo dal 3 marzo. Cosa accadde poi? Il governo esita per quattro giorni e poi opta per la zona arancione estesa a tutta la Lombardia. La Regione, invece, si chiama fuori: la zona rossa non tocca a noi. Ma non la chiede neanche il governo». In casa 5Stelle, poi, massima freddezza: «Nessuna presa di distanza, ma la nostra linea è quella del basso profilo. Anche perché è meglio aspettare e vedere cos' altro viene fuori». Già: il problema è che di verbali Cts di quei giorni ne mancano ancora diversi all'appello. E amici e nemici di Conte, nella maggioranza, attendono di vedere cos' altro uscirà.
Marco Conti per ''Il Messaggero'' l'8 agosto 2020. «I verbali svelano la confusione e i danni che ha fatto il governo Conte non solo in Val Seriana, ma anche nelle regioni del Mezzogiorno con le fughe dal Nord di quei giorni. Basta quindi con i pieni poteri che il presidente del Consiglio si attribuisce scavalcando il Parlamento». Antonio Tajani, numero due di Forza Italia, ci va giù duro e attacca il governo per aver imposto il lockdown «in ritardo» in alcune zone e del Paese e poi per aver deciso di chiudere tutto.
IL FUTURO. All' affondo dell' ex commissario europeo si unisce a modo suo Matteo Salvini: «Un atteggiamento criminale. Se è vera la storia dei verbali del Cts al governo dovrebbero essere arrestati». Il leader della Lega ci va giù duro e attacca la decisione del premier di imporre il lockdown in tutta Italia per l' emergenza coronavirus accusandolo di aver detto «bugie». Ma non è solo la mancata chiusura differenziata del Paese, come suggerita del Comitato tecnico scientifico (Cts) a far insorgere l' opposizione. L' attacco punta diritto ai pieni poteri che lo stato d' emergenza attribuisce al premier sino ad ottobre. «Nessuna delega in bianco può essere concessa per il futuro prossimo venturo», sostiene l' azzurro Giorgio Mulè, perché «il governo ha il dovere della verità per spiegare che cosa è avvenuto nel recente passato». «Serve che il presidente del Consiglio ci dica il come e perché ha chiuso l' Italia intera, attribuendosi poteri da satrapo, nonostante le diverse indicazioni degli esperti», incalza il deputato e responsabile Giustizia e Affari costituzionali di Forza Italia Francesco Paolo Sisto. In linea l' affondo di Maurizio Gasparri secondo il quale il governo Conte «ha agito in maniera irresponsabile e illegale creando gravi danni al Paese. Mi attendo - sostiene Gasparri - che la magistratura intervenga chiedendo di giudicare Conte e l' intero governo». La maggioranza fa però quadrato intorno al premier e alle scelte fatte dal governo nei giorni di massima emergenza «che hanno permesso al Paese di fare meglio di tanti altre democrazie». «Non c' è nessun segreto, nessuna cosa riservata, il presidente del Consiglio ha fatto tutto alla luce del sole, per alcuni fin troppo, ha sempre spiegato tutto e ha fatto bene», sostiene il ministro Francesco Boccia. «Salvini a marzo diceva che occorreva chiudere tutto» ricorda il sottosegretario grillino Manlio Di Stefano che sottolinea le numerose giravolte del leader leghista. «Parlare dopo è molto più facile che fare durante», sostiene il presidente dell' Emilia-Romagna Stefano Bonaccini che non ricorda le richieste dei suoi colleghi - anche di centrodestra - che in quelle settimane chiedevano misure ancora più drastiche. «Chiudere» l' Italia, ha invece rivendicato il viceministro della Salute Pierpaolo Sileri, fu una «scelta coraggiosa che ha fatto risparmiare 600 mila vite». Ma sul rapporto tra le decisioni prese e i consigli del Cts Conte si mostra convinto delle scelte fatte anche perché ha più volte sottolineato che «spetta alla politica e al governo assumere decisioni». Lo ribadisce a tarda sera, al termine di un lungo consiglio dei ministri: «Il governo si è assunto sempre la responsabilità politica delle proprie decisioni nel segno della discrezionalità politica e non delegando mai ad altri la responsabilità di queste decisioni». Poi aggiunge: «Man mano che vengono pubblicati i verbali del Cts ci sarà il giochino per dire su quale misura il governo è stato più o meno restrittivo. Le nostre sono state sempre valutazioni complesse». E così, mentre la sottosegretaria alla Salute Sandra Zampa plaude alla decisione di Capri di far adottare l' app Immuni ai turisti, a palazzo Chigi si ricostruiscono le decisione di quei giorni cominciando dal 3 marzo quando il Cts consigliò la chiusura della Val Seriana.
I RAPPORTI. «Ho chiarito tutti i passaggi nei minimi dettagli» spiegò il premier il 12 giugno subito dopo l' audizione con i magistrati nella quale sostenne che non dichiarare i due comuni zona rossa e decidere di chiudere l' intera Lombardia due giorni dopo fu una scelta politica. Anche se Conte sostenne di non aver mai visto il verbale del Cts del 3 marzo, non ha mai negato di essere a conoscenza del problema, tanto da chiedere un approfondimento il 4 marzo. Nelle tre ore con la pm Maria Cristina Rota, Conte spiegò anche i rapporti tra Roma e l' amministrazione regionale lombarda che in quei giorni resisteva ad ipotesi di chiusure parziali. «Quello dei pieni poteri ora vuole arrestare il governo», sostiene Simona Malpezzi, senatrice del Pd. Una difesa dell' azione dell' esecutivo che non affronta però il rapporto tra gli organismi tecnici e le decisioni politiche soprattutto quando a palazzo Chigi risiedono i pieni poteri derivanti dallo stato d' emergenza.
Roberta Amoruso e Valentina Errante per "Il Messaggero" l'8 agosto 2020. Il primo comitato è nato in pieno lockdown, si chiama Eolie 20-30, e ha già valutato l' ipotesi di chiedere un risarcimento dei danni allo Stato. Sono albergatori e ristoratori delle isole Eolie, meta turistica gettonatissima che ha accusato il colpo sin dalla primavera quando, per alberghi e ristoranti del Sud, di solito, ma non quest' anno, inizia la stagione calda. E non sono gli unici. L' attenzione delle associazioni di categoria, è in queste ore tutta concentrata sui provvedimenti in rampa di lancio, tra il decreto agosto e la conversione del decreto semplificazioni, ma i nodi restano, perché gli imprenditori del meridione, costretti alla serrata forzata di oltre tre mesi, sanno già che i provvedimenti varati dal governo «Rischiano di essere un' altra occasione persa», come spiegano gli artigiani e i titolari di piccole imprese. Dai ristoranti ai bar, dagli alberghi fino ai commercianti al dettaglio si contano già troppe chiusure definitive. Un bilancio che pesa ancora di più dopo la desecretazione dei verbali del Comitato tecnico scientifico, che conferma quello che già era evidente a tutti, ossia che il basso numero di contagi al Sud rendeva tutt' altro che necessario un lockdown totale.
IL PUNTO DI PARTENZA. Il Comitato è nato quasi spontaneamente, quando la dichiarazione dello stato di emergenza per decreto ha fatto presagire ad albergatori e ristoratori delle isole più visitate d' Italia che le cose sarebbero cambiate per sempre. Il nome Eolie 20-30 non è casuale. Punta, spiega Fabrizio Famularo, uno dei portavoce, a una programmazione decennale. «Non si può vivere di promesse», commenta. Quando sembrava che non si potesse partire avevano chiesto al governo un fondo emergenziale per le imprese e il passaporto sanitario per gli accessi alle isole minori. Adesso la stagione, in qualche modo, è stata avviata, ma le presenze sono ridotte e la valutazione di una class action contro lo Stato rimane sul tavolo, perché i fondi non ci sono. Le porte sono aperte a tutti gli imprenditori che vogliano aderire all' iniziativa: «Abbiamo perso troppi soldi, ci devono risarcire». La pausa estiva è obbligata, «A settembre ne riparleremo - spiega Famularo - Adesso, qui alle Eolie, ristoratori e albergatori come me, sono tutti impegnati nel recuperare il tempo perduto e far fronte a una crisi assassina. Ma - aggiunge - ho letto ieri che, secondo gli esperti, in alcune regioni come la Sicilia, il lockdown si poteva evitare. Quello che è successo è inspiegabile. Soprattutto a fronte delle conseguenze disastrose. Appena avremo il tempo di discuterne affronteremo la questione da questa nuova prospettiva». In particolare le associazioni degli albergatori aspettano di sedersi al tavolo con il governo per accedere ai fondi promessi al turismo. L' allarme arriva soprattutto dalle piccole imprese. «Una larga parte dei fondi europei andrà ai grandi gruppi e alle multinazionali, mentre alle piccole attività rimarranno solo le briciole» spiega la Comitas, il coordinamento micro-piccole-medie imprese per la tutela e l' assistenza, «è indispensabile introdurre criteri equi e trasparenti nella ripartizione degli aiuti europei». In caso contrario un terzo delle piccole imprese italiane andrà verso il fallimento o alla chiusura entro il 2021, avverte la Comitas. «Ecco perché non c' è più tempo da perdere».
IL QUADRO. Come già calcolato dal Messaggero, si potevano risparmiare 100 miliardi di Pil, bruciato nel centro-Sud, con un lockdown differenziato. Mentre i posti di lavoro perduti li conteremo solo quando si chiuderà il rubinetto della cig, tra autunno e fine anno, a quanto pare. Dunque, la principale preoccupazione è per lo tsunami che deve ancora venire, per quei provvedimenti che possono salvare almeno le imprese che soffrono, ma che non hanno ancora chiuso la saracinesca per sempre. Così, anche nelle ore in cui si guarda ai decreti che possono salvare il futuro, la rabbia spinge a pensare al risarcimento danni da chiedere allo Stato. Un indennizzo è stato chiesto sin dall' inizio da chi ha chiuso per decreto. Ma di fronte alle risorse ridotte distribuite a fondo perduto, ora le imprese sono pronte a chiedere un indennizzo doppio. In molte regioni il virus ha fatto soltanto una comparsa. E sono proprio questi i territori che pagheranno il prezzo più alto. Il blocco improvviso, inatteso, ha colto impreparate le molte imprese meridionali che non avevano ancora recuperato dall' ultima crisi. I NUMERI Il Mezzogiorno aveva ancora 15 punti percentuali di Pil da recuperare rispetto al 2007 (il Centro-Nord circa 7). E farà ancora più fatica a ripartire rispetto al resto del Paese. D' altra parte, anche le risorse del Recovery Fund rischiano di arrivare fuori tempo massimo per alcune aziende. Quattro micro imprese su 10, che in termini assoluti equivalgono a poco meno di 1,7 milioni di attività, rischiano la chiusura a causa della crisi economica provocata da un' emergenza sanitaria che al Sud non c' era.
Le imprese del Sud ora vogliono i danni: "È stato un golpe". Il governatore siciliano Musumeci: "Scelta politica, la chiusura è costata miliardi". Lodovica Bulian, Domenica 09/08/2020 su Il Giornale. La Sicilia che si lecca le ferite. E non solo. L'intero Sud che scopre che forse si poteva attutire il colpo. Il lockdown che lo ha messo in ginocchio, compromettendo la stagione con danni ancora da quantificare, ma comunque «nell'ordine di miliardi di euro», grida il governatore dell'isola Nello Musumeci, non era stato richiesto. Gli scienziati non avevano suggerito un blocco per tutto il Paese, ma solo per alcune aree del nord: «Quella di chiudere tutto fu una scelta politica», ribadiscono dal comitato tecnico scientifico dopo la desecretazione dei verbali delle riunioni di quei giorni drammatici. E allora restano le domande, i perché, come di quella fuga di notizie e di persone dal nord al sud che aveva preceduto il dcpm che il 9 marzo avrebbe fatto dell'Italia una intera zona rossa, ma soprattutto restano i «come» e i «se» si potesse fare diversamente per evitare a tutto il Paese di correre verso il baratro di un Pil ora in caduta del 12 per cento. È durissimo Musumeci: «Sono stati sleali con i siciliani e con tutte quelle Regioni meridionali che avrebbero potuto attenuare i disastri economici seguiti al lockdown, sono sconcertato, come se il Governo non avesse voluto avere fiducia nelle Regioni meridionali, non vorrei che questo sia avvenuto anche perché la Sicilia è governata dal centrodestra. Un'economia in difficoltà, con alti tassi di povertà avrebbe potuto continuare a produrre e invece ci hanno bloccato completamente a dispetto di ogni dato scientifico». I calcoli «li faremo a fine anno, ma per ora, solo nel comparto turistico, viene stimato un calo del 30-35 per cento, ci stiamo riprendendo un po' in queste ultime settimane, ma il danno è ormai fatto». E se anche il viceministro della Salute difende la bontà di quella scelta che ha salvato 600mila vite, per quel danno, le associazioni di categoria starebbero valutando di chiedere un risarcimento. Un'ipotesi di azione legale che per ora non viene formalizzata ma che è sul tavolo. Patrizia Di Dio, presidente Confcommercio Palermo, accusa il governo: «È stato un golpe e non ne capiamo le ragioni. Chiederemo con forza che i danni per un territorio come il nostro vengano risarciti, che emerga la responsabilità per avere fatto sprofondare la Sicilia in una drammatica e insanabile emergenza economica e sociale». Il rapporto Svimez calcola nel lockdown di una perdita di valore aggiunto su base mensile di 48 miliardi di euro, di cui 10 solo nel mezzogiorno. E se la perdita complessiva di fatturato per ogni mese di blocco ha toccato i 25 miliardi, ben 7 sono riferibili al Meridione. Potrebbero muoversi albergatori, ristoratori e gli imprenditori del settore turistico, come spiega la Fipe, l'associazione degli esercenti: «Per ora non abbiamo deciso di intraprendere azioni legali ha detto il segretario vicario Aldo Cursano ma sicuramente c'è un gruppo di ristoratori che ci sta pensando». Il comitato spontaneo Eolie 2030, nato durante il lockdown sulla tempesta di una crisi senza precedenti per il comparto delle isole, aveva già annunciato di stare «verificando se esistono le condizioni per avviare un'azione risarcitoria nei confronti dello Stato e di tutti gli enti che hanno favorito il danno procurato. La class action è aperta a tutti coloro che ritengono di avere subito un danno», aveva scritto. L'opposizione soffia sul fuoco della protesta. Secondo il segretario della Lega in Sicilia, Stefano Candiani, «Musumeci ha ragione, Conte ha sacrificato il sud e la Sicilia sull'altare del consenso personale. La scelta di imporre il lockdown anche a tutte le regioni del sud quando invece il comitato tecnico scientifico istituito appositamente non ravvisava la necessità, è stata dettata da esigenze politiche di convenienza per la ricerca del consenso a cui brama Conte. Oggi, sappiamo che il prezzo della chiusura per una regione come la Sicilia è a dir poco drammatico. Musumeci fa bene ad alzare la voce, presto si leverà quella di tutti i siciliani».
Errori e ritardi nella settimana di marzo che cambiò l’Italia. Il giallo delle carte a Conte. Marco Imarisio, Simona Ravizza e Fiorenza Sarzanini l'8 agosto 2020 su Il Corriere della Sera. È la settimana che ha cambiato l’Italia, forse per sempre. Sette giorni che infine hanno portato il Paese al lockdown per contenere i contagi da Coronavirus, segnati da un confronto continuo tra gli scienziati e i politici. Ma anche da errori e sottovalutazioni che hanno contribuito a far crescere il numero dei malati e quello delle vittime, soprattutto nella provincia di Bergamo. Sono quasi tutti noti i verbali del comitato tecnico scientifico appena desegretati dal governo. Ma la loro sequenza, combinata con le prese di posizione di questi giorni, quelle sì inedite, fa risaltare quello che fu un netto contrasto tra le istituzioni in un momento di massima emergenza, quando invece ci sarebbe stato bisogno di unità a ogni livello. Per comprendere che cosa è davvero accaduto bisogna tornare al 23 febbraio quando l’epidemia, che si scoprirà presente già da settimane in alcuni paesi della val Seriana, viene certificata con i primi due casi di positività rilevati all’ospedale Pesenti Fenaroli di Alzano lombardo. Due pazienti in fin di vita. Ricoverati da giorni in Medicina generale, a contatto diretto con altri pazienti, infermieri, familiari e medici.
Il bollettino dei malati. Alla fine della settimana seguente, a Nembro, paese vicinissimo a quell’ospedale, ci sono 24 casi di Coronavirus e 12 ad Alzano. Numeri che possono sembrare irrisori. In realtà i dieci Comuni intorno a Codogno, dove il 20 febbraio venne scoperto il cosiddetto «Paziente Uno», vengono dichiarati zona rossa tre giorni dopo con 69 casi, ossia con lo 0,15% della popolazione ammalata (51 mila abitanti). Su poco più di 11 mila e 13 mila abitanti, quei 36 casi in totale di Nembro e Alzano bastano per fare correre veloce il virus. In proporzione ai residenti, è come se a Milano città ci fossero all’improvviso 2.028 contagi in meno di una settimana, un numero che la città raggiungerà invece solo il 22 marzo, nel momento peggiore della crisi. I primi giorni di marzo va anche peggio. Gli ospedali della Bergamasca vengono presi d’assalto, i Pronto soccorso si riempiono all’inverosimile. La situazione è fuori controllo.
Covid, la settimana di marzo che cambiò l’Italia, 20 febbario, il primo caso certificato: «Non vidi il verbale». Il 3 marzo nella sede della Protezione civile di via Vitorchiano a Roma si riunisce il Comitato tecnico scientifico, per stilare un verbale diventato elemento chiave per l’inchiesta aperta poi dai magistrati di Bergamo. I contatti con i vertici di Regione Lombardia, in particolare con il governatore Attilio Fontana e con l’assessore alla Sanità Giulio Gallera, sono costanti. Videoconferenze, telefonate, riunioni. «La Zona Rossa a Nembro e Alzano noi la volevamo», rivendica oggi Gallera. Ma una richiesta formale da parte della Regione non è mai arrivata. A dare conto della gravità della situazione è il verbale del Cts, anticipato ad aprile dalCorrieree ancora oggi oggetto di discussione. «Nel tardo pomeriggio sono giunti all’Istituto Superiore di Sanità i dati relativi ai Comuni di Alzano Lombardo e Nembro. Al proposito è stato sentito per via telefonica l’assessore Gallera e il direttore generale Cajazzo che confermano i dati relativi all’aumento. I due Comuni si trovano in stretta prossimità di Bergamo e hanno una popolazione rispettivamente di 13.639 e 11.522 abitanti. Ciascuno dei due paesi ha fatto registrare attualmente oltre 20 casi, con molte probabilità ascrivibili a un’unica catena di trasmissione. Il Comitato propone di adottare le opportune misure restrittive già adottate nei Comuni della zona rossa al fine di limitare la diffusione dell’infezione nelle aree contigue. Questo criterio oggettivo potrà, in futuro, essere applicato in contesti analoghi». Il verbale viene subito trasmesso a Palazzo Chigi. Ma il presidente del consiglio Giuseppe Conte giura di non averlo visto. Lo dichiara alla procuratrice di Bergamo Maria Cristina Rota che il 12 giugno arriva a Roma per interrogarlo come testimone nell’inchiesta avviata proprio per accertare se l’epidemia che ha sconvolto la Bergamasca sia stata colposa: «Non mi è arrivato». Risulta che lo abbiano ricevuto gli uffici della presidenza. Ma Palazzo Chigi comunque, a prescindere da quel documento, decide di prendere tempo.
«L’audio inedito». Risale al 4 marzo, invece,la riunione avvenuta a Milano tra Fontana, Gallera e il ministro della Salute Roberto Speranza. In un audio rimasto inedito fino al 31 luglio, rivelato nel libro «Come nasce un’epidemia, la strage di Bergamo. Il focolaio più micidiale d’Europa», e oggi acquisito dai magistrati, viene discussa l’ipotesi di istituire una zona rossa a Nembro e Alzano. Speranza garantisce agli interlocutori di farsi portavoce dell’istanza, che però non è categorica né imperativa, a Roma. In ogni caso, due giorni dopo arrivano le camionette dell’esercito destinate a blindare la Val Seriana. Il 6 marzo, ad Alzano e Nembro si arriva a 108 casi che, come diffusione tra la popolazione, valgono 6.760 casi a Milano, raggiunti nel capoluogo solo intorno al 20 aprile. A questo punto se mettiamo a confronto la velocità di propagazione del Covid-19 tra Codogno, Casalpusterlengo e Castiglione d’Adda, i tre principali comuni della zona rossa lodigiana, con la Bergamasca, scopriamo che in quelle tre città l’indice di diffusione del virus è ben sotto il 2, mentre intorno alla Val Seriana è ormai a 2,3.
Il nuovo verbale. Speranza torna a Roma e il 7 marzo c’è una nuova riunione, presente anche il premier Conte, nella sede della Protezione Civile. Si valuta la chiusura dell’intera Lombardia, e non solo. Il Comitato tecnico raccomanda di «definire due livelli di misure di contenimento: uno nei territori in cui è maggiore la diffusione del virus, l’altro, sull’intero territorio nazionale»; «Le zone cui applicare le misure di contenimento della diffusione del virus più rigorose rispetto a quelle da applicarsi all’intero territorio nazionale, sono le seguenti: Regione Lombardia, e province di Parma, Piacenza, Rimini, Reggio Emilia e Modena; Pesaro e Urbino; Venezia, Padova e Treviso, Alessandria e Asti», si legge ancora nel verbale del 7 marzo. Ma l’8 marzo i contagi continuano a salire ovunque, così come il timore di una catastrofe sanitaria. Il 9 marzo, il premier decide per il lockdown generale.
Estratto da “Come nasce un’epidemia” (Rizzoli) di Marco Imarisio, Simona Ravizza e Fiorenza Sarzanini, pubblicato da corriere.it il 7 agosto 2020. In questo brano viene ricostruita la vicenda del verbale del Comitato tecnico scientifico del 3 marzo scorso, quando l’organismo consigliò l’istituzione di una zona rossa nei comuni di Alzano e Nembro. Nel verbale appare chiaro come la Regione Lombardia non chiese l’istituzione di una zona rossa. E, secondo quanto detto dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte ai magistrati, quel verbale non arrivò mai sulla sua scrivania. Il 3 marzo la situazione precipita. Gli ospedali della Bergamasca vengono presi d’assalto, i Pronto soccorso si riempiono all’inverosimile. Vengono aperte le sale destinate alle grandi emergenze, come i terremoti e le alluvioni, ma non bastano. Nella provincia di Bergamo si registrano 372 contagiati, 56 a Nembro e 26 ad Alzano Lombardo. Il Comitato tecnico scientifico si riunisce nella sede della Protezione civile di via Vitorchiano a Roma. In quella enorme sala, collegata attraverso i monitor alle sedi di tutte le Regioni, si prendono le decisioni che possono cambiare l’andamento del contagio. Che ormai è in corso, ma forse si può ancora circoscrivere. E però non c’è, o meglio non ci sarebbe, un minuto da perdere. L’analisi degli esperti valuta numerosi fattori. Si deve esaminare la velocità di propagazione del virus, ma soprattutto la sua aggressività. Si deve stabilire la tenuta del sistema sanitario, contando i posti occupati in terapia intensiva. E, in base all’incrocio di questi numeri, occorre verificare quanti siano i malati gravi e quanti i morti. A leggere il verbale che racconta l’accaduto di quel giorno, si comprende il livello di preoccupazione degli scienziati. E si ha la conferma che dalla Regione Lombardia non è mai arrivata alcuna richiesta di istituire una zona rossa ad Alzano Lombardo e Nembro. Il linguaggio utilizzato nel documento è burocratico, come sempre. Ma in qualche modo lascia trasparire quale sia il problema che si pone in queste ore così drammatiche. L’ordinanza, firmata il 5 febbraio dal commissario straordinario per l’emergenza Covid-19 Angelo Borrelli per creare il Comitato tecnico scientifico, ne individua le prerogative ma anche i limiti. E chiarisce che ha «il compito di garantire il necessario supporto tecnico alle attività da porre in essere per realizzare gli obiettivi previsti». In particolare il comitato è finalizzato «ad attuare le misure necessarie a fronteggiare la situazione di emergenza in atto al fine di salvaguardare l’incolumità della popolazione». «Supporto». È questa la parola chiave. Significa che gli scienziati studiano la situazione, suggeriscono il rimedio, indicano la strada da seguire. Sono consulenti, il loro parere è importante. Ma non è vincolante per il governo, nonostante quello che spesso lascia intendere Gallera. Alla fine, è il presidente del Consiglio a dover decidere, dopo aver consultato i ministri competenti. Durante le riunioni, ma anche nel corso degli incontri pubblici, le conferenze stampa, gli interventi su giornali e televisioni, le interviste radiofoniche, i componenti del Comitato tecnico scientifico ripetono tutti la stessa frase: «Noi proponiamo, ma la parola finale spetta al decisore politico». Sarà così anche per Alzano Lombardo e Nembro. Il verbale, che dà conto di quanto accade il 3 marzo durante la riunione del Comitato tecnico scientifico, elenca ogni passaggio e si sofferma sui dettagli dei contatti tra le varie istituzioni. «Nel tardo pomeriggio sono giunti all’Istituto Superiore di Sanità i dati relativi ai Comuni di Alzano Lombardo e Nembro. Al proposito è stato sentito per via telefonica l’assessore Gallera e il direttore generale Cajazzo che confermano i dati relativi all’aumento. I due Comuni si trovano in stretta prossimità di Bergamo e hanno una popolazione rispettivamente di 13.639 e 11.522 abitanti. Ciascuno dei due paesi ha fatto registrare attualmente oltre 20 casi, con molte probabilità ascrivibili a un’unica catena di trasmissione. Ne risulta pertanto che l’R0 è sicuramente superiore a 1, il che costituisce un indicatore di alto rischio di ulteriore diffusione del contagio. In merito il Comitato propone di adottare le opportune misure restrittive già adottate nei Comuni della zona rossa al fine di limitare la diffusione dell’infezione nelle aree contigue. Questo criterio oggettivo potrà, in futuro, essere applicato in contesti analoghi». Appare chiaro quali siano i timori che spingono gli scienziati a chiedere di intervenire con urgenza: l’impennata del numero dei malati e la vicinanza dei due paesi con la città di Bergamo. Tutti coloro che sono riuniti nella sala della Protezione civile sanno quanto alto sia il pericolo che una mossa sbagliata si trasformi in una catastrofe per la popolazione. E dunque si sceglie di procedere, sollecitando una linea di intervento drastica e rapida. Il verbale viene subito trasmesso a Palazzo Chigi. Ma qui succede qualcosa di imponderabile, un vero e proprio mistero. «Quel documento non mi è mai arrivato», dichiarerà infatti Giuseppe Conte ai magistrati di Bergamo che il 12 giugno arriveranno a Roma per interrogarlo come testimone nell’inchiesta avviata proprio per accertare se l’epidemia che ha sconvolto la Bergamasca sia stata colposa, se le sottovalutazioni, le omissioni, i ritardi possano aver favorito il contagio e fatto salire il numero delle vittime. Ai magistrati, forse un po’ sorpresi, che gli chiedono conferma di quel che ha appena detto, il presidente del Consiglio risponde: «Quel documento, io non l’ho mai visto».
Fiorenza Sarzanini per "corriere.it" il 9 agosto 2020. «I nostri pareri si basano sempre sull’andamento della curva epidemiologica. Tra il 7 e il 9 marzo ha avuto un’impennata e il governo ha deciso di chiudere l’Italia. Non c’è stato alcun contrasto». Fabio Ciciliano è l’uomo dei verbali, il dirigente della Protezione civile componente del Comitato tecnico-scientifico che stila il parere degli scienziati e lo trasmette al governo.
Domani dovrete emettere il verbale numero 100.
«Esatto, e questo rende bene l’idea di quale sia stato e sia ancora il nostro compito. Dobbiamo essere sempre rapidi e veloci. Ma soprattutto in linea con quanto abbiamo detto in precedenza e coerenti con gli indici epidemiologici. Abbiano scritto migliaia di pagine, sempre con l’unico obiettivo di indicare la strada sulla base del numero dei contagi e delle tenuta del sistema sanitario».
A volte non siete stati ascoltati. Può negare le divergenze?
«Noi siamo tecnici, il decisore politico ha il quadro completo e prende la strada che ritiene più opportuna».
Perché il 7 marzo ritenevate giusto chiudere soltanto alcune regioni del Nord?
«Perché erano le più colpite, ma poi c’è stata la fuga verso Sud ed evidentemente il governo ha ritenuto che sarebbe stato troppo rischioso. Io vorrei ricordare che in quel periodo siamo arrivati a circa mille vittime al giorno».
Non avete mai pensato di aver sbagliato?
«Sicuramente in quei momenti nel comitato c’è stato un senso di frustrazione. Eravamo consapevoli di dover fornire le raccomandazioni, ma i risultati potevano essere valutati soltanto dopo due settimane. Con il rischio di prendere la direzione sbagliata e misure non efficaci, ma così non è stato».
Ci sono indicazioni che forse era meglio non dare?
«Ogni volta che riceviamo una richiesta noi affidiamo all’esperto che siede in comitato il compito di analizzare l’argomento, poi armonizziamo il parere con i giudizi degli altri esperti. Sappiamo che da questo dipende la salute dei cittadini e sinceramente, visto anche quanto sta accadendo negli altri Stati, ritengo che la linea sia stata quella giusta».
Perché avete deciso di secretare i verbali?
«In realtà non c’è alcun atto di secretazione. Si è ritenuto di non diffonderli proprio per tutelare i cittadini che potevano lasciarsi influenzare da valutazioni cliniche che poi dovevano trasformarsi in decisioni. E, in ogni caso, non possono essere presi senza inserirli nel contesto del periodo e dunque leggendo i precedenti e i successivi per capire come ci siamo mossi».
Temevate che in caso di contrasto le persone avrebbero seguito gli scienziati anziché rispettare i decreti del governo?
«Oppure il contrario. Ci sono molte nostre indicazioni che le autorità locali non hanno seguito: sulla Milano-Sanremo avevamo dato parere negativo e invece è stata autorizzata, i numeri che abbiamo indicato per le manifestazioni all’aperto e al chiuso sono state modificate. Il caso più eclatante è quello dei trasporti pubblici: noi pensiamo che viaggiare con tutti i posti occupati sia molto rischioso ma alcune Regioni hanno deciso di non seguire questo suggerimento».
All’inizio dell’emergenza avete chiesto di tenere aperte le scuole. Avete sbagliato?
«La scuola è una delle questioni più spinose. In ogni caso abbiamo dovuto cambiare idea quando ci siamo resi conto che i modelli registravano un incremento di 0,3-0,4 dell’indice Rt, analogamente a quello degli altri Paesi, come ci ricorda anche l’Oms. I problemi causati dall’epidemia si sono sovrapposti a quelli di un settore dove per decine di anni si è investito poco e male. Ora facciamo i conti con carenze strutturali che riguardano gli edifici, il numero di docenti, le aule, i materiali, gli edifici storici dove è difficile anche spostare un tramezzo».
E adesso?
«Dobbiamo far ricominciare le lezioni in presenza. E agevolare il ritorno alla normalità di tutti i settori. Riorganizzare la vita delle persone cercando di spalmare gli ingressi su orari più lunghi. Ma sappiamo che non possiamo impedire alla gente di muoversi».
Siete stati voi a chiedere di limitare gli spostamenti.
«Non è vero che il virus non circola. Si vede da noi e soprattutto all’estero. Siamo passati da essere il primo Paese per numero di casi a diventare l’ultimo. Ora bisogna fare in modo di non risalire la classifica. Impedire una seconda ondata».
Fiorenza Sarzanini per il “Corriere della Sera” il 10 agosto 2020. C'è un verbale ancora segreto stilato dal Comitato tecnico scientifico il 10 marzo scorso che approva la scelta del governo di decretare la chiusura totale dell'Italia per la pandemia da coronavirus. Contiene la relazione dell'Istituto superiore di sanità che dà conto dell'esplosione del numero dei contagi. Adesso dovrà essere palazzo Chigi a decidere se eliminare il vincolo di riservatezza e trasmetterlo al Copasir. È stata infatti avviata una verifica per accertare che cosa accadde in quella settimana che cambiò l'Italia. Prima la scelta di creare «zone rosse» a Codogno, in 11 Comuni del lodigiano e a Vo' Euganeo, escludendo invece Alzano Lombardo e Nembro. Poi quella di mandare in lockdown l'intero Paese. Il 3 marzo gli scienziati inviano a palazzo Chigi una relazione con l'indicazione di chiudere i due Comuni della Val Seriana, ma governo e Regione Lombardia continuano a prendere tempo come accade ormai da una settimana. Il 7 marzo il Cts indica la strada da seguire per tentare di fermare il propagarsi del virus. Chiede «due livelli di misure di contenimento»: uno per «i territori in cui si è osservata ad oggi maggiore diffusione del virus» dunque l'intera Lombardia e le province del nord più colpite, l'altro per «l'intero territorio nazionale». L'8 marzo, alle 3 del mattino, il presidente Conte parla in tv e annuncia di aver disposto la chiusura della Lombardia e di altre 14 province (Modena, Parma, Piacenza, Reggio Emilia e Rimini in Emilia Romagna, Pesaro e Urbino nelle Marche, Alessandria, Asti, Novara, Verbano Cusio Ossola e Vercelli in Piemonte, Padova, Treviso e Venezia in Veneto) perché vanno applicate «misure rigorose». In realtà la notizia è già filtrata ore prima provocando una vera e propria fuga verso il sud a bordo di treni e auto di chi teme di rimanere «prigioniero». Appena 24 ore dopo palazzo Chigi cambia però strategia e decide di dichiarare la «chiusura» di tutta l'Italia. Conte lo annuncia alle 22 dell'8 marzo, fa sapere che il provvedimento entrerà in vigore il giorno dopo. Che cosa è accaduto in quel lasso di tempo? Perché si è deciso di non seguire il parere degli scienziati? Secondo i dati già noti, quel giorno si registrano 133 vittime, il numero più alto dall'inizio dell'emergenza, 1.326 malati e 83 ricoveri in più nelle terapie intensive in 24 ore. Tanto che nella conferenza stampa quotidiana alla protezione civile il presidente dell'Istituto superiore di sanità Silvio Brusaferro dichiara: «Non c'è una parte dell'Italia completamente immune, ci sono parti d'Italia dove il virus al momento circola meno e dunque dipende dai nostri comportamenti quanto circolerà». Proprio in quelle ore anche il leader della Lega Matteo Salvini su Facebook parla di «gravità della situazione che impone scelte chiare e uniformi per mettere in sicurezza il Paese» e chiede «misure più restrittive estese a tutto il territorio nazionale». Brusaferro invia una relazione al Comitato tecnico scientifico. È la base per il nuovo parere che gli scienziati consegnano al governo il 10 marzo fornendo il via libera alla linea già decisa. Il verbale, ancora riservato, potrebbe essere consegnato al Parlamento nei prossimi giorni. Nel documento il comitato dà conto di aver ricevuto «dall'Istituto superiore di sanità i dati epidemiologici aggiornati». Sottolinea la necessità di «rallentare la diffusione per diminuire l'impatto assistenziale sul Servizio sanitario nazionale oppure diluirlo nel tempo». E infine: «In riferimento alla decisione presa di estendere la chiusura a tutto il territorio nazionale, le misure adottate sono coerenti con il quadro epidemiologico configuratosi. Inoltre potrebbero venirsi a creare situazioni locali in cui possano essere necessarie ulteriori misure di contenimento». L'11 marzo si può uscire di casa soltanto per andare a lavorare, a fare la spesa e in farmacia. Il Paese è in lockdown.
Spunta il verbale segreto: così gli esperti hanno detto "sì" al lockdown. Il Comitato tecnico-scientifico aveva approvato la chiusura dell'Italia intera: "Misure coerenti con il quadro epidemiologico configuratosi". Luca Sablone, Lunedì 10/08/2020 su Il Giornale. Prima la decisione di creare delle zone rosse a Codogno, in 11 Comuni del lodigiano e a Vo' Euganeo; poi quella di mettere tutto il Paese in lockdown: continuano a esserci dubbi e misteri su quella settimana di marzo che ha cambiato l'Italia e gli italiani, costretti a restare in casa fino al 4 maggio per arginare la diffusione del Coronavirus. Nei giorni scorsi è arrivata la svolta sui verbali: alla fine è stato tolto il segreto sugli atti del Comitato tecnico-scientifico sul periodo dell'emergenza. Il premier Giuseppe Conte aveva ricevuto durissime accuse poiché avrebbe tentato di nascondere agli italiani tutta la verità sui Dpcm utilizzati nei mesi di marzo e aprile.
Covid, si alza il velo sui segreti: "Tutti i verbali del governo". Ma ci sarebbe un verbale ancora segreto stilato dal Cts, risalente al 10 marzo scorso, mediante cui si approva la scelta del governo di decretare la chiusura totale a causa di una spaventosa impennata dei contagi da Covid-19: ora Palazzo Chigi dovrà decidere se eliminare il vincolo di riservatezza e trasmetterlo al Copasir; nei prossimi giorni potrebbe arrivare in Parlamento. La svolta è arrivata lunedì 9 marzo verso le ore 22: il presidente del Consiglio - alla luce delle 133 vittime, 1326 positivi e 83 ricoveri in più nelle terapie intensive in sole 24 ore - ha annunciato la scelta di dichiarare la "chiusura" dell'Italia intera.
Quell'ok del Cts. Silvio Brusaferro, presidente dell'Istituto superiore di sanità, ha poi inviato una relazione al Comitato tecnico-scientifico, ovvero la base per il nuovo parere che gli esperti hanno consegnato all'esecutivo giallorosso il 10 marzo fornendo il proprio parare positivo alla linea già intrapresa. Nel documento si legge che il Comitato ha dato conto di aver ricevuto dall'Iss i dati epidemiologici aggiornati, sottolineando pertanto la necessità di "rallentare la diffusione per diminuire l’impatto assistenziale sul Servizio sanitario nazionale oppure diluirlo nel tempo". Come riportato dal Corriere della Sera, in riferimento alla decisione di Conte di estendere il lockdown a tutto il territorio nazionale viene sostenuto che "le misure adottate sono coerenti con il quadro epidemiologico configuratosi. Inoltre potrebbero venirsi a creare situazioni locali in cui possano essere necessarie ulteriori misure di contenimento".
I "buchi" di Conte sui verbali. Ora il premier trema davvero. Lo stesso Brusaferro in quei giorni aveva invitato alla prudenza e al rispetto delle norme anti-Coronavirus, ribadendo che nessuna parte d'Italia fosse immune: "Ci sono parti d'Italia dove al momento il virus circola meno, ma dipende dai nostri comportamenti quanto circolerà". Ecco perché aveva sottolineato l'importanza delle misure di distanziamento sociale, soprattutto in seguito al famoso esodo dal Nord Italia: "Non è che se uno si sposta il tema cambia...".
(ANSA il 7 agosto 2020) - Il Comitato tecnico scientifico, nella riunione del 3 marzo nella sede della Protezione civile propose di "adottare le opportune misure restrittive già adottate nei Comuni della zona rossa anche in questi due comuni", ovvero Alzano Lombardo e Nembro e questo "al fine di limitare la diffusione dell'infezione nelle aree contigue". Lo si legge nel verbale della riunione reso pubblico dal consigliere regionale della Lombardia Niccolò Carretta che lo scorso 6 aprile ha fatto una richiesta al Pirellone di accesso agli atti riguardo la zona rossa bergamasca. Il motivo della proposta, si legge nel verbale pubblicato oggi dall'Eco di Bergamo è "limitare la diffusione dell'infezione nelle aree contigue". Nello stralcio di verbale fornito al consigliere di Azione, il Cts sottolinea che Nembro e Alzano si trovano "in stretta prossimità di Bergamo" con una popolazione di 13.639 e 11.522 abitanti. "Ciascuno dei due paesi ha fatto registrare attualmente oltre 20 casi, con molta probabilità ascrivibili ad un'unica catena di trasmissione. Ne risulta pertanto che l'R0 è sicuramente superiore a 1, il che costituisce un'indicatore di alto rischio di ulteriore diffusione del contagio". Nella risposta a Carretta, la Regione sottolinea che appunto il 3 marzo dall'assessorato al Welfare furono inviati al direttore dell'Iss Silvio Brusaferro i dati sui positivi della provincia di Bergamo "che rappresentava una situazione di cluster nella zona della Val Seriana e del capoluogo": ovvero 58 contagiati a Nembro, 33 a Bergamo, 26 ad Alzano, 22 a Zogno e 16 ad Albino. "Continua la battaglia di Azione per ottenere sempre più dettagli sugli eventi accaduti durante l'emergenza sanitaria in provincia di Bergamo. Capire cosa sia successo - ha sottolineato il consigliere regionale bergamasco - e perché sia o state prese certe decisioni piuttosto che altre è fondamentale ed è un diritto di tutti i cittadini".
Fabio Amendolara per “la Verità” il 7 agosto 2020. La pubblicazione selettiva dei verbali del Comitato tecnico scientifico, che supporta il governo giallorosso nel contrasto al coronavirus, non svela tutti i segreti sull'istituzione della zona rossa. Sono solo cinque i verbali (uno dei quali era stato secretato) concessi dopo un contenzioso amministrativo ingaggiato dalla Fondazione Einaudi e durato quattro mesi. La richiesta di accesso agli atti è del 14 aprile 2020. Segue un sollecito di riscontro, al quale il governo ha risposto con un «niet» il 4 maggio. I giuristi della Fondazione hanno impugnato quel diniego davanti ai giudici del Tar. Ma non è bastata neppure una sentenza con richiesta di adempimento a far mollare a Giuseppe Conte i verbali secretati. L'avvocatura dello Stato ha fatto ricorso. Il governo, però, anticipando il prevedibile esito dell'udienza fissata a settembre al Consiglio di Stato e dopo che anche il Copasir ha chiesto di rendere pubblici i verbali, ha deciso di permettere l'accesso agli atti che sono alla base dei Dpcm di Giuseppi. Ma solo parzialmente. Perché mancano ancora i resoconti più delicati, quelli che contengono le indicazioni sulla mancata chiusura delle zone rosse lombarde di Alzano e Nembro (questione che è anche oggetto di inchieste della magistratura). D'altra parte, il governo si è fatto schermo dietro questo principio: la Fondazione ha chiesto gli atti ad aprile, quindi ha diritto di ottenere i verbali redatti fino a quel momento. «Sono solo quelli che erano stati adottati al tempo in cui li abbiamo chiesti», spiega Rocco Todero, uno dei legali della Fondazione, che aggiunge: «Gli altri sono successivi alla richiesta». E l'ultimo, infatti, è del 9 aprile. Le oltre 200 pagine sono piene delle raccomandazioni tecniche per gestire l'emergenza. Alle quali sono seguiti i Dpcm di Giuseppi che le accoglievano in pieno. Tutte. Il 28 febbraio, per esempio, i tecnici suggeriscono già di rivedere le misure per tre regioni «Emilia Romagna, Lombardia e Veneto», interessate da «una situazione epidemiologica complessa». Due giorni dopo il governo prepara un Dpcm che riprende la raccomandazione e vieta proprio in quelle regioni gli eventi e le manifestazioni sportive, sospende l'attività scolastica. Ma riapre musei e luoghi di culto, a condizione che «assicurino modalità di fruizione contingentata o comunque tali da evitare assembramenti di persone», proprio come indicato dagli esperti. Fin dai primi giorni, ovvero quando a Codogno viene individuato il paziente 1, il governo ha preso come oro colato le indicazioni del Comitato. Sin dal primo marzo, quando è scattato lo stop ad abbracci e strette di mano. Anche quella era una raccomandazione del Comitato. Il 30 marzo arriva anche la proposta di un protocollo su come gestire la giornata dei bambini con consigli su igiene personale, pranzi e cene, attività scolastiche e giochi all'aperto. Ma anche merende (compreso sparecchiare, mettere in ordine e lavaggio denti) e lettura delle favole. Tv ridotta, con una selezione accurata dei programmi da vedere. Giuseppi e compagnia hanno fatto di testa propria in una sola, clamorosa occasione: la decisione sul lockdown totale. Nel documento del 7 marzo, che fa bella mostra di un timbro che ricorda che si tratta di un atto «riservato», i tecnici suggeriscono misure più rigorose per la Lombardia, per Parma, Piacenza (il cui sindaco, inascoltato, le chiedeva già da tempo), Reggio Emilia, Rimini, Modena, Pesaro e Urbino, Venezia, Padova, Treviso, Alessandria e Asti, ma non per tutto il Paese. Dopo un primo Dpcm in cui il governo accoglie i suggerimenti dal comitato, Giuseppi ne emana un altro, quello del 9 marzo ed entrato in vigore il 10, che dispone il lockdown per tutti gli italiani fino al 3 aprile. Spiegare agli imprenditori e alle partite Iva finiti a gambe all'aria per quella scelta del governo che le altre aree della nazione non erano state incluse nel lockdown non deve essere affatto una cosa semplice. Ma sarà altrettanto difficile spiegarlo a chi ha pianto i propri cari perché alcune zone rosse non sono state istituite. Probabilmente è per questo motivo che Conte non tirava fuori i verbali. La Lega è insorta: «Presenteremo immediatamente un'interrogazione perché consideriamo grave che non si faccia chiarezza su uno degli aspetti più delicati della gestione dell'emergenza, ovvero la mancata zona rossa in bassa Val Seriana. Si verifichi anche se qualche esponente politico ha fatto pressioni sul governo perché non fosse istituita la zona rossa». Nel verbale del 7 marzo, infatti, i tecnici proposero di rivedere la distinzione tra le «zone rosse» (gli 11 Comuni del Lodigiano) e le «zone gialle» (Emilia Romagna, Lombardia, Veneto e le provincie di Pesaro-Urbino e Savona), ipotizzando di applicare «due livelli di misure di contenimento. L'uno nei territori in cui si è osservata maggiore diffusione del virus, l'altro sull'intero territorio nazionale». Mancava la Val Seriana. Inoltre nelle 200 pagine non si fa praticamente mai riferimento ai tamponi. In quello del 9 aprile c'è solo un riferimento a uno studio di sieroprevalenza. Un progetto d'indagine sulla popolazione che, si dà atto, è stato presentato alle Regioni in videoconferenza. Un lungo capitolo, però, è dedicato agli strumenti per la ventilazione polmonare e ai medicinali in via di sperimentazione nei vari ospedali italiani. A sorpresa, invece, dai documenti viene fuori un'interpretazione del sistema lombardo ben diversa dalla vulgata odierna. Nel verbale del 7 marzo, il Cts propone «di adottare l'elaborato della Regione Lombardia» contenente le indicazioni «per gravida-partoriente, puerpera-neonato e allattamento», addirittura, «come documento di riferimento». Insomma, gli scienziati che affiancavano l'esecutivo parevano tutt' altro che snobbare il modello lombardo. Un altro dettaglio che cozza con la narrazione giallorossa sulla pandemia.
Verbali desecretati, l'accusa di Massimiliano Romeo a Conte: "Non è un caso che abbia scelto questo momento". Libero Quotidiano l'8 agosto 2020. I verbali parzialmente pubblicati del Comitato tecnico scientifico sul coronavirus fanno ancora discutere. Il motivo non risiede solo nel fatto che Giuseppe Conte abbia tentato in tutti i modi di tenerli nascosti, ma anche nel fatto che il premier non ascoltò il consiglio del Cts e impose il lockdown a tutto il Paese. Per questo la Lega ci va giù pesante. "Dibattito in Aula il prima possibile. Conflitto di attribuzioni di fronte alla Corte costituzionale. E, anche e soprattutto, dimissioni del premier Giuseppe Conte", tuona Massimiliano Romeo, il capogruppo del Carroccio al Senato in un'intervista al Corriere. Quello che non torna a Romeo sono le tante pagine mancanti: "Mi lasci dire che a me non pare un caso che abbiano desecretato i verbali appena prima della pausa estiva del Parlamento. Forse speravano che qualcuno, passate le vacanze, se ne dimenticasse. E invece, su questo la Lega andrà fino in fondo". Per Romeo il presidente del Consiglio ha mentito due volte: la prima "ha affermato che le sue decisioni si sono sempre basate soltanto sul parere dei tecnici". La seconda "quando il 12 giugno, ai magistrati che lo ascoltarono, disse di non aver mai visto il verbale". Non solo, perché il leghista racconta un altro fatto: "Quando siamo andati da Conte, lui obiettò che già per controllare i primi 11 Comuni chiusi avevano dovuto essere impiegate quasi mille persone tra forze dell’ordine e altri addetti. È chiaro che la Lombardia, per dimensioni del contagio e densità della popolazione, mai avrebbe potuto fare da sola". E proprio qui potrebbe risiedere il "no" del premier alle zone rosse richieste.
Desecretati atti Cts sul Covid19: i “tecnici” erano contrari al lockdown totale. Il Corriere del Giorno il 7 Agosto 2020. Il Comitato Tecnico Scientifico sull’emergenza Codid19 avrebbe voluto dividere l’Italia in due il 7 marzo. Conte decise per la chiusura totale dopo la fuga di notizie e dalla Lombardia. Nelle carte però mancano le riunioni su Alzano e Nembro. Nel documento riservato inviato al ministro della Salute Roberto Speranza e pubblicato solo oggi sul sito della Fondazione Einaudi emerge che il 7 marzo, cioè quarantotto ore prima del “lockdown” totale, quando il Comitato tecnico scientifico si riuniva per verbalizzare le indicazioni da fornire al governo sull’emergenza Coronavirus proponendo di “adottare due livelli di misure di contenimento: uno nei territori in cui si è osservata maggiore diffusione del virus, l’altro sul territorio nazionale”. Ma il 9 marzo cioè 48ore dopo il presidente del Consiglio Conte decise con un suo provvedimento il lockdown totale, ovvero misure uguali per tutto il territorio nazionale. Una decisione che generò non poche accese polemiche politiche e scontri tra i governatori. C’era chi come Attilio Fontana, il presidente della Regione Lombardia, pretendeva che l’Italia intera si uniformasse affinché la sua regione non restasse indietro, mentre gli amministratori del Sud, dove vi erano meno contagi, chiedevano misure restrittive più morbide per alleggerire la crisi economica. Peraltro una fuga di notizie provocò la corsa notturna soprattutto degli studenti fuori sede a prendere d’assalto i treni notturni che portavano dal Nord al Sud. Cinque verbali del comitato tecnico scientifico adesso sono consultabili online, compreso uno sui cui era stato posto il segreto. Nei testi sono presenti raccomandazioni e consigli per gestire l’emergenza coronavirus. Sono oltre 200 pagine che pubblichiamo, almeno per quanto riguarda i testi desecretati, contenenti le misure messe poi in campo dal Governo per limitare la diffusione dell’epidemia e iniziano fin dai primi giorni, quando cioè a Codogno viene individuato il “paziente 1”, Mattia. Tutti vengono richiamati negli stessi decreti emenati dall’esecutivo. Il primo documento è del 28 febbraio, poi uno del 1 marzo, e poi, ancora del 7 marzo del 30 e infine un verbale del 9 aprile. I pareri degli esperti vanno dalla necessità di istituire zone rosse, ma non c’è il testo relativo alla mancata zona rossa in Val Seriana, al divieto di abbracci, fino al suggerimento di chiudere le scuole e di sospendere gli eventi pubblici e quelli sportivi. Dei territori in cui vi era maggiore rischio di contagio facevano parte le cosiddette “zone rosse” e “zone gialle” che il Comitato propone di unificare. Nello specifico quindi si raccomandavano misure più rigorose in Lombardia e nelle province di Parma, Piacenza, Reggio Emilia, Rimini e Modena, Pesaro Urbino, Venezia, Padova, Treviso, Alessandria e Asti”. Misure rigorose che prevedevano la chiusura totale di ogni tipo di attività, la chiusura dei luoghi di culto e lo stop agli spostamenti di ogni tipo. Per quanto riguarda i provvedimenti da adottare per contenere la diffusione del virus su tutto il resto del territorio nazionale il Comitato tecnico scientifico aveva dato altre indicazioni: “Apertura al pubblico dei musei ed altri istituti e luoghi della cultura a condizione che assicurino modalità di fruizione contingentata tali da evitare assembramenti di persone; svolgimento delle attività di ristorazione e bar con obbligo di far rispettare la distanza di sicurezza interpersonale di almeno un metro; sospensione delle attività di pub, scuole di ballo, sale giochi, sale scommesse, sale bingo e discoteche; divieto assoluto di mobilità dalla propria abitazione o dimora per i soggetti sottoposti alla misura della quarantena; limitazioni della mobilità ai casi strettamente necessari; sospesi i servizi educati per l’infanzia e attività didattiche nelle scuole di ogni ordine e grado; sospensione delle attività svolte dai tribunali; apertura luoghi di culto condizionata all’adozione di misure volte a evitare assembramenti; raccomandato presso tutti gli esercizi commerciali l’accesso con modalità contingentate e misure volte a evitare assembramenti”. I documenti sono stati pubblicati dalla Fondazione Einaudi che aveva chiesto l’accesso ai verbali ad aprile. Accesso inizialmente negato che ha scatenato una battaglia legale finita davanti ai giudici del Consiglio di Stato. Nel testo del 28 febbraio, una settimana dopo l’individuazione del primo caso, il comitato suggerisce già di rivedere le misure per tre regioni “Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto”, dove c’è, si legge, “una situazione epidemiologica complessa”. Due giorni dopo l’esecutivo adotta un Dpcm che riprende quella raccomandazione e quindi blocca in quelle regioni eventi e manifestazioni sportive, a meno che “non si svolgano a porte chiuse”, vieta la trasferta dei tifosi, sospende l’attività scolastica, ma, per esempio, riapre musei e luoghi di culto, come suggerito dagli stessi esperti, a condizione che “assicurino modalità di fruizione contingentata o comunque tali da evitare assembramenti di persone e sospende”. Mancavano ancora 10 giorni alla chiusura adottata per la Lombardia e altre 14 province, e 11 al lockdown del 10 marzo. Proprio sul momento del “lockdown” fa luce un altro dei documenti desecretati, quello del 7 marzo su cui è riportata la scritta “riservato”. In quella data, infatti, il comitato tecnico scientifico suggerisce misure più rigorose proprio per la Lombardia e le province (11 non 14) di Parma, Piacenza, Reggio Emilia, Rimini e Modena, Pesaro Urbino, Venezia, Padova, Treviso, Alessandria e Asti, ma non per tutta Italia. A distanza di 48 ore, però dopo un primo Dpcm in cui il Governo segue la differenziazione suggerita dal Gomitato, l’esecutivo ne emana un altro, quello del 9 marzo entrato in vigore il 10 che dà inizio al lockdown su scala nazionale fino al 3 aprile. Un’accelerazione, spiegava il premier Conte nella conferenza stampa per il secondo Dpcm, che serve “a contenere l’avanzata del virus”. In un solo giorno, infatti, sono 1797 i nuovi positivi, contro i 1326 del giorno precedente. E, inoltre, nelle stesse ore, dopo l’annuncio della chiusura della Lombardia, centinaia di persone prendono d’assalto i treni per “fuggire” verso sud. Molti si recano nella stazione milanese di a Porta Garibaldi per cercare di prendere l’Intercity notturno diretto a Salerno mentre in stazione Centrale sempre a Milano la Polizia Ferroviaria è costretta ad intervenire per mantenere la calma.
Il braccio di ferro tra Fondazione e Governo. La questione giuridica era delicatissima perché la Fondazione Luigi Einaudi , che ha come “fine”quello di promuove la conoscenza e la diffusione del pensiero politico liberale, ritiene che le misure del governo abbiano compresso diritti e libertà di rango costituzionale e che quindi quei verbali con i pareri degli scienziati debbano essere noti. La Fondazione aveva presentato la richiesta fatta alla Protezione civile, ma con due comunicazioni, del 4 e del 13 maggio, la risposta era stata negativa. Pertanto il 26 maggio è stato presentato il ricorso al Tribunale amministrativo che ha accolto le ragioni della Fondazione. Contro il verdetto del Tar del 22 luglio) il Governo ha presentato ricorso (28 luglio) opponendo di fatto il segreto perché si tratta di atti amministrativi e perché devono essere tutelati “la sicurezza pubblica” e “l’ordine pubblico”. Il confronto fino a ieri pendeva davanti ai giudici del Consiglio di Stato che il 10 settembre avrebbe deciso se i verbali dovevano essere pubblici oppure no.
La sospensiva del Consiglio di Stato e la citazione del Freedom of information act. La sospensiva tecnica firmata dal presidente della III sezione del Consiglio di Stato, Franco Frattini, lasciava intuire in quale direzione sarebbe andata la successiva decisione. Secondo il giudice amministrativo i decreti e di conseguenza i verbali “sono caratterizzati da assoluta eccezionalità, e auspicabilmente, e unicità”. Ma per il magistrato evidenzia che “non si comprende, proprio per la assoluta eccezionalità di tali atti perché debbano essere inclusi nel novero di quelli sottratti alla generale regola di trasparenza e conoscibilità da parte dei cittadini, giacché la recente normativa – ribattezzata Freedom of information act sul modello americano – prevede come regola l’accesso civico” e come eccezione la non accessibilità. Quei provvedimenti “hanno costituito il presupposto per l’adozione di misure volte a comprimere fortemente diritti individuali dei cittadini, costituzionalmente tutelati ma non contengono elementi o dati che la stessa appellante abbia motivatamente indicato come segreti”, “le valutazioni tecnico-scientifiche si riferiscono a periodi temporali pressocché del tutto superati” e ”la stessa Amministrazione, riservandosi una volontaria ostensione fa comprendere di non ritenere in esse insiti elementi di speciale segretezza da opporre agli stessi cittadini”. Quindi era concessa la sospensiva affinchè fosse un collegio a decidere nel merito. Ma a questo punto l’udienza non sarà più necessaria. “La trasparenza è un principio imprescindibile delle liberal-democrazie, che impone la pubblicazione di tutti gli atti riguardanti la compressione, più o meno incisiva, di diritti e libertà di rango costituzionale – si legge in una nota – In tal senso, la Fondazione Luigi Einaudi auspica che il Governo compia l’ulteriore passo sulla strada della trasparenza e pubblichi autonomamente tutti gli altri verbali del comitato tecnico scientifico, utilizzati a supporto dei vari Ddpcm adottati dal Presidente del Consiglio dei ministri Giuseppe Conte, nel corso della pandemia da Covid 19″. Nei documenti resi pubblici grazie alla Fondazione Einaudi, non vi è traccia invece, del verbale del 3 marzo quando il Comitato tecnico scientifico si riunì per stabilire le misure di contrasto al Coronavirus ad Alzano e Nembro, in provincia di Bergamo, una vicenda che nelle scorse settimane ha innescato un rimpallo di accuse in particolare tra Regione Lombardia e Palazzo Chigi. La fondazione Luigi Einaudi ha ottenuto dalla Protezione civile cinque verbali, per circa 300 pagine, relative alle riunioni n.12 del 28.2.2020; n.14 dell′1.3.2020; n.21 del 7.3.2020; n.39 del 30.3.2020 e n.49 del 9.4.2020. “Quelli citati nei decreti del presidente del Consiglio”, spiega l’avvocato Rocco Todero della Fondazione Einaudi, che aggiunge: “Ora ci aspettiamo che il governo dia tutti i verbali, anche quelli di Alzano e Nembro, se non lo farà siamo pronti a sottoscrivere un nuovo accesso agli atti”. Palazzo Chigi ha consegnato i verbali alla fondazione Luigi Einaudi dopo che ieri anche il Copasir (il Comitato Parlamentare sui servizi segreti) ha chiesto di renderli pubblici. “Per noi è importante sottolineare l’approccio non partigiano alla questione. Si trattava di una battaglia di trasparenza e non giudichiamo nel merito le scelte. C’è stata – dice l’avvocato Todero che ha seguito tutto l’iter legale – la più grande limitazione delle libertà individuali durante un lungo periodo ed è giusto che i cittadini sappiano quali erano le ragioni scientifiche, oggettive ed epidemiologiche alla base”.
Coronavirus, ecco i verbali del Comitato tecnico scientifico. Il Dubbio il 6 agosto 2020. I cinque verbali online sul sito della Fondazione Einaudi: il 7 marzo il Cts proponeva misure stringenti per le zone rosse, ma il 9 l’intera Italia finì in lockdown. Via il segreto, almeno in parte. Così come annunciato ieri, i verbali del Comitato Tecnico Scientifico che ha prestato supporto al Governo durante l’emergenza coronavirus sono stati desecretati e pubblicati alle 12 di oggi sul sito della Fondazione Einaudi, che aveva vinto il ricorso al Tar del Lazio contro la decisione dell’Esecutivo di mantenere il segreto. Una decisione che era stata poi congelata dal Consiglio di Stato, almeno fino al 10 settembre, per via dell’opposizione della Presidenza del Consiglio alla discovery. La novità principale emerge dal verbale del 7 marzo, quando gli scienziati individuarono nella Lombardia e nelle province di Parma, Piacenza, Rimini, Reggio Emilia e Modena, Pesaro Urbino, Venezia, Padova e Treviso, Alessandria e Asti le zone per le quali prevedere misure più stringenti per fermare il virus. Due giorni dopo, però, il governo optò per una politica ancora più prudente: il lockdown per l’intera Italia. Ma mancano i verbali più scottanti, quelli sui ritardi dell’istituzione della zona rossa ad Alzano e Nembro, questione sulla quale è in corso un’indagine della procura di Bergamo. I documenti sono stati trasmessi ieri sera alle 21.15 tramite Pec dal Capo della Protezione Civile Angelo Borrelli agli avvocati Enzo Palumbo, Andrea Pruiti Ciarello e Rocco Mauro Todero. Si tratta delle copie dei verbali n.12 del 28.2.2020; n.14 dell’1.3.2020; n.21 del 7.3.2020; n.39 del 30.3.2020 e n.49 del 9.4.2020.
Verbale del 28 febbraio
Verbale dell’1 marzo
Verbale del 7 marzo
Verbale del 30 marzo
Verbale del 9 aprile
Mancano ancora gli ultimi verbali, quelli che hanno portato alla proroga dello stato di emergenza fino al 15 ottobre.
Il 28 febbraio, gli esperti del Comitato consigliavano evidenziavano per «le regioni Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto» una situazione epidemiologica «complessa attesa la circolazione del virus, tale da richiedere la prosecuzione di tutte le misure di contenimento già adottate, opportunamente riviste». Il verbale è stato redatto una settimana dopo l’individuazione del paziente uno a Codogno: il Cts aveva così suggerito al governo una serie di misure più restrittive per le tre regioni più a rischio. Dieci giorni dopo, il governo adottò la misura del lockdown per la Lombardia e altre 14 province in Emilia-Romagna, Veneto e Piemonte.
Nel verbale del primo marzo, il Cts raccomandava, per tutta la durata dell’emergenza, di evitare, «nei rapporti interpersonali, strette di mano e abbracci». Inoltre era stata evidenziata la necessità di incrementare del 50% i posti in terapia intensiva, del 100% quelli di pneumologia e malattie infettive, da dotare di supporti ventilatori.
Il 7 marzo veniva invece suggerita la sospensione degli eventi sportivi, la chiusura delle palestre e delle scuole. In questa prima fase, il governo decide di mantenere i cancelli chiusi fino al 15 marzo, ad eccezione della Lombardia e delle 14 province “rosse”, dove la sospensione è prevista fino al 3 aprile. Ma dura poco: il giorno dopo il governo decide di estendere le misure a tutto il territorio nazionale. In questo verbale il cts propone «di rivedere la distinzione tra cosiddette “zone rosse” e “zone gialle”», da istituire in «Emila Romagna, Lombardia e Veneto, nonché le province di Pesaro Urbino e Savona». Vengono dunque suggerite due diversi livelli di misure, con Lombardia e le province di Parma, Piacenza, Rimini, Reggio Emilia, Modena, Pesaro Urbino, Venezia, Padova, Treviso, Alessandria e Asti sorvegliate speciali.
Il 30 marzo, invece, il Comitato Tecnico Scientifico proponeva un decalogo per i bambini durante il lockdown. Si parte dall’organizzazione della giornata fino ad arrivare all’insegnamento di hobby o attività motorie. Tra i consigli quello di «evitare di tenere sempre accesa la televisione e/o la radio», scegliendo ogni giorno, cosa vedere (importante evitare che si tratti sempre di coronavirus). Raccomandata l’attività all’aperto evitando assembramenti, ma anche la possibilità di un momento insieme in cui «ogni componente del nucleo familiare racconta qualcosa a turno». La giornata tipo suggerita per i bambini prevedeva «sveglia, bagno, colazione (compreso sparecchiare, mettere in ordine e lavaggio denti), igiene personale, attività domestiche, attività “scolastiche”, contatto telefonico e/o video con amici e parenti (nonni, zii, cugini), pranzo (compreso sparecchiare e mettere in ordine, attività libera (televisione, computer, ecc), attività “scolastiche”, merenda (compreso sparecchiare, mettere in ordine e lavaggio denti), uscita di casa (dal cortile, alla spesa), attività ludico/ricreativa (hobby), cena (compreso sparecchiare, mettere in ordine e lavaggio denti), igiene personale, a letto (lettura e/o favola)».
Nel verbale del 9 aprile, il Cts proponeva la chiusura delle scuole fino al prossimo anno. In quella seduta il Comitato discute l’avvio della Fase 2, con un allentamento graduale delle restrizioni adottate per contenere la diffusione di Covid-19 nel Paese e le prime riaperture. Sulla base delle decisioni degli esperti verranno poi messi a punto i decreti del presidente del Consiglio. Ebbene, il Cts «dopo aver accuratamente valutato gli scenari epidemiologici derivanti da una riapertura delle attività di didattica frontale nelle scuole e dopo aver ponderato l’impatto che ne potrebbe derivare in termini d’incremento della diffusione epidemica, unanimemente ritiene, pur consapevole dell’assoluta importanza di garantire il diritto all’istruzione, che nella situazione attuale prevalgano gli argomenti per suggerire il mantenimento della sospensione delle attività didattica frontale fino all’inizio del prossimo anno scolastico. Si ritiene di raccomandare l’estensione di questa misura – si legge nel verbale – anche alle attività didattica frontale per i corsi universitari e pare universitari fino al 31 maggio», «riservandosi di riformulare ulteriori raccomandazioni oltre quella data in virtù della evoluzione della situazione epidemica italiana».
CORONAVIRUS. INCONGRUENZE NEI VERBALI DESECRETATI. COSA NON TORNA NEL LOCKDOWN.
Francesco Cancellato il 6 agosto 2020. Mancano i verbali delle riunioni tra il 22 e il 27 di gennaio, quando non si sa bene perché l'ordine di testare tutte le polmoniti virali anomale si trasformò nell'ordine di testare solo quelle di chi proveniva dalla Cina. Mancano i verbali del periodo tra l'1 e il 7 marzo, i giorni in cui si decise di non fare la zona rossa ad Alzano e Nembro, condannando Bergamo a essere l'epicentro globale della pandemia nei mesi a venire. Mancano i verbali dell'8 e del 9 marzo, quelli in cui si decise il lockdown di tutta l'Italia, ma curiosamente c'è quello del 7, in cui il CTS suggeriva chiusure parziali e differenziate. Se la trasparenza sono 5 verbali scelti “a caso” su tre mesi di riunioni del #ComitatoTecnicoScientifico forse era meglio l'opacità sovietica alla trasparenza.
Antonio Amorosi per affaritaliani.it il 6 agosto 2020. Il 9 marzo arriva in Italia il decreto che porta il lockdown su tutto il territorio nazionale. Il Paese si ferma tranne i servizi essenziali. Per settimane chiunque parli dal governo ripete che le decisioni sono prese sulla base delle valutazioni del Comitato Tecnico scientifico. Oggi dopo le richieste degli avvocati della Fondazione Einaudi i verbali del Comitato, per oltre 200 pagine, vengono desecretati ed emergono fatti singolari.
Intanto sembrano mancare dei verbali, ne sono stati pubblicati solo 5, sia per la numerazione (ci sono i verbali n°12, 14, 21, 39 e 49 e non si sa dove siano gli altri) sia per il contenuto, sono assenti le valutazioni relative sulla zona rossa mancata in Val Seriana. Nel verbale del 7 marzo il Comitato Tecnico scientifico aveva chiesto di distinguere le regioni con più contagi dal resto del Paese. Il governo invece 2 giorni dopo dichiarò il lockdown per tutta Italia.
Il Cts propone di “adottare due livelli di misure di contenimento: uno nei territori in cui si è osservata maggiore diffusione del virus, l'altro sul territorio nazionale. Nello specifico: misure più rigorose in Lombardia e nelle province di Parma, Piacenza, Reggio Emilia, Rimini e Modena, Pesaro Urbino, Venezia, Padova, Treviso, Alessandria e Asti". Ma 2 giorni dopo il presidente del Consiglio Giuseppe Conte con il Dpcm del 9 marzo dà il via al lockdown generalizzato per tutto il Paese. Perché abbia preso questa decisione non è spiegato nei verbali del Cts, tanto meno nessuno ha reso note le reali motivazioni. Certo, è nella facoltà del governo prendere provvedimenti di stampo diverso dalle proposte del comitato ma la compagine dovrebbe almeno spiegare perché, data la gravità degli eventi.
Il secondo elemento significativo è nel primo verbale desecretato e datato 28 febbraio 2020, dove il Cts parla delle misure igieniche da adottare. Al punto g del capitolo in questione si affronta la questione “mascherine”. Il Comitato sostiene si debba “usare la mascherina solo se si sospetta di essere malato o si assiste persone malate”. Abbiamo saputo poi che queste disposizioni non erano corrette e che le mascherine, sia mediche che non, dovevano essere usate come precauzione dalla popolazione. Lo ha messo nero su bianco proprio il ministero della Salute ma il 16 aprile, quando la pandemia stava riducendo i suoi effetti più drammatici. Ecco il passaggio più significativo della disposizione pubblicata sul sito del ministero.
“*L'uso di mascherine facciali in pubblico può servire come mezzo di controllo per ridurre la diffusione dell'infezione nella comunità minimizzando l'escrezione di goccioline respiratorie da individui infetti che non hanno ancora sviluppato sintomi o che rimangono asintomatici. Non è noto quanto l'uso delle mascherine facciali nella comunità possa contribuire a una riduzione della trasmissione oltre alle altre contromisure.
*L'uso di mascherine facciali nella comunità può essere preso in considerazione specialmente quando si visitano spazi affollati e chiusi, come negozi di alimentari, centri commerciali o quando si utilizzano i mezzi pubblici, ecc.
*Si può prendere in considerazione l'uso di mascherine facciali non mediche realizzate con vari tessuti, specialmente se - a causa di problemi di fornitura - le mascherine mediche devono essere utilizzate prioritariamente come dispositivi di protezione individuale da parte degli operatori sanitari. A supporto dell'uso di mascherine non mediche come mezzo di controllo della fonte di infezione esistono evidenze scientifiche indirette e limitate.
*L'uso di mascherine facciali nella comunità deve essere considerato solo come una misura complementare e non in sostituzione delle misure preventive consolidate, come, ad esempio, il distanziamento fisico, l’igiene respiratoria (tra cui tossire o starnutire in un fazzoletto monouso o nella piega del gomito per evitare di trasmettere agli altri le goccioline con le secrezioni respiratorie), l’igiene meticolosa delle mani e l’evitare di toccarsi con le mani il viso, il naso, gli occhi e la bocca”.
M.Ev. per “il Messaggero” il 7 agosto 2020. Le chiusure delle aree attaccate con violenza dal coronavirus sono arrivate con dieci giorni di ritardo. Il Comitato tecnico scientifico aveva invocato limitazioni più stringenti, per le regioni settentrionali, già il 28 febbraio. Ritorniamo a quel giorno, è un venerdì. Da più di una settimana l'Italia ha capito che il nemico non è più così lontano. Il Nord è stato travolto dall'onda del Covid a partire dal 20 febbraio, quando nel pronto soccorso di Codogno, in provincia di Lodi, viene trovato, quasi per caso, il paziente uno, in gravi condizioni a causa di una forte e misteriosa polmonite. Contemporaneamente ci sono i due contagiati di Vo' Euganeo, in Veneto, e a macchia d'olio il Sars-CoV-2 si estende a nord verso Bergamo, a ovest in Piemonte, a sud nella provincia di Piacenza. A fine febbraio si viaggia a circa 800 nuovi casi al giorno. La quiete quel venerdì è già finita, è già tempesta.
IL DOCUMENTO. Il 28 febbraio il Comitato tecnico scientifico scrive, in uno dei documenti ufficiali desecretati grazie all'iniziativa della Fondazione Einaudi: «Le Regioni Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto presentano una situazione epidemiologica complessa attesa la circolazione del virus, tale da richiedere la prosecuzione di tutte le misure di contenimento già adottate, opportunamente riviste come segue». Il documento elenca una serie di provvedimenti aggiuntivi da prendere subito: «Chiusura di tutte le attività commerciali» in mancanza di interventi organizzativi che consentano il mantenimento della distanza di un metro; «sospensione di tutte le manifestazioni organizzate, di carattere non ordinario e di eventi in luogo pubblico e privato, anche di carattere culturale, ludico, sportivo e religioso, anche se svolte in luoghi chiusi ma aperti al pubblico (grandi eventi, cinema, teatri, discoteche e cerimonie religiose)». Ancora: stop a scuola e università. Di fatto, per le tre regioni del Nord maggiormente colpite nella fase iniziale dal contagio, il Cts chiede una serie di misure immediate, molto simili a quelle del lockdown; alla riunione del 28 febbraio partecipano il coordinatore Miozzo, il presidente dell'Iss Brusaferro, Maraglino, Locatelli, Dionisio, Coccoluto, Ricciardi, D'Amario, Ippolito. Gli interventi per fermare il contagio, soprattutto nelle aree più in crisi del Lodigiano, del Bergamasco, del Piacentino e di parte del Veneto, arriveranno però un po' alla volta. Il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, lascia trascorrere una decina di giorni e l'8 marzo firma il Dpcm che prevede delle limitazioni agli spostamenti in Lombardia, nelle province di Modena, Parma, Piacenza, Reggio Emilia, Rimini, Pesaro-Urbino, Alessandria, Asti, Novara, Verbano-Cusio-Ossola, Vercelli, Padova, Treviso e Venezia. Passerà alla storia come la notte della grande fuga, dell'immagine dei tanti fuori sede che fuggono dalla Lombardia per raggiungere il Sud prima della pubblicazione del decreto. Dall'8 marzo (il lockdown ci sarà solo l'11) proibiti eventi e competizioni sportive, chiusi cinema, teatri, discoteche e sale bingo. Stop a musei e università, a negozi se non viene garantito il metro di distanza; bar e ristoranti possono lavorare dalle 6 alle 18. Se alla richiesta del Cts fosse stata data una risposta tempestiva, alcuni focolai, portatori di morte e sofferenza, sarebbero stati evitati. Alzano e Nembro, nel Bergamasco, in quei giorni stanno già diventando due dei comuni più colpiti d'Italia. Altro esempio: a fine febbraio il presidente delle Marche, Luca Ceriscioli, preoccupato per i primi casi a Pesaro, chiude le scuole, il governo reagisce irritato e minaccia di impugnare l'ordinanza. Il limbo di incertezza tra il 28 febbraio e l'8 marzo è un buco nero doloroso, pur tenendo conto del fatto che l'Italia fu il primo Paese occidentale ad affrontare il nemico sconosciuto, il Covid-19.
C’è un giudice a Frosinone e speriamo non solo lì. Iuri Maria Prado su Il Riformista il 5 Agosto 2020. Un piccolo giudice di Frosinone ha scritto in una sua sentenza che agli italiani è stato impedito di muoversi dalla propria abitazione, di lavorare, di studiare, di fare impresa, di osservare il proprio culto e insomma di godere dei minimi diritti costituzionali, senza che esistessero le condizioni per impedirglielo: e, soprattutto, che tutto questo è stato fatto per mezzo di un’azione amministrativa che non avrebbe potuto incidere su quei diritti nemmeno se allo stato di emergenza si fosse giunti in modo legittimo. La sentenza del Giudice di Pace di Frosinone si ferma al caso singolo della sanzione elevata ai danni di un cittadino che non è rimasto inerte e l’ha impugnata, ma le ragioni che sorreggono la decisione hanno una portata ben più vasta e descrivono un regime di illegalità che ha implicato la vita di un’intera comunità nazionale. Non sapremmo intrattenerci (lo faranno i giuristi del ramo) sulla fondatezza e sull’attrezzatura motivazionale della sentenza laziale, ma è abbastanza chiaro che se quel giudice avesse deciso in modo congruo vorrebbe dire che nel giro di qualche settimana e in forza di un potere arbitrario si è registrato in Italia il più grave fatto di regressione civile e democratica da che esiste la Repubblica. Non si vede infatti come altrimenti giudicare il caso di un governo che si abbandona reiteratamente all’abuso del proprio potere comprimendo i diritti elementari dei cittadini e sottoponendo questi a un regime repressivo e sanzionatorio non solo di gravità inaudita, ma oltretutto impiantato sulla base di uno stato emergenziale dichiarato indebitamente. Per carità, esiste anche l’ipotesi che si tratti, al contrario, di vaneggiamenti, o almeno di argomentazioni in realtà friabili, e che dunque quel giudice abbia preso un abbaglio: ce lo diranno, appunto, gli esperti. Ma almeno qualche sospetto sul fatto che qualcosa non filasse per il verso giusto in una linea esecutiva che acciaccava le libertà costituzionali con strumenti impropri e mandava in sostanziale desuetudine l’equilibrio democratico-rappresentativo, ecco, qualche sospetto di tal natura eversiva c’era eccome: e se non si affermava, se non aveva la forza di diffondersi e di imporsi come la voce della ragione, e anzi passava per noiosa doglianza incapace di capire che il governo lavorava per il nostro bene, ciò era soltanto perché confliggeva con la temperie di riposante conformismo che garantiva l’imperio di quella prepotenza. Un clima tanto mite da far gemmare il capolavoro civile secondo cui in Italia andava tutto bene perché il governo non aveva abolito il diritto di pensare. Vediamo se solo a Frosinone c’è un giudice.
Roberta Amoruso e Diodato Pirone per “il Messaggero” il 7 agosto 2020. La domanda è semplice. Quanto è costato al Centro-Sud il fermo generale dell'Italia deciso dal governo intorno al 10 marzo quando l'infezione da Covid-19 praticamente riguardava solo alcune aree del Nord? È evidente che nessun economista potrebbe dare una risposta precisa al centesimo. Ma a grandi linee la cifra ipotizzabile è netta: 100 miliardi di euro. La si ricava dalla riduzione del Pil che per quest' anno è stimata intorno al 10% e dunque equivarrà ad aver gettato nel fuoco la bellezza di 175 miliardi. Poiché le tre regioni del Nord coinvolte a marzo nell'epidemia, ovvero Lombardia, Veneto ed Emilia, grosso modo assicurano 715 miliardi di Pil, se ne ricava che il calo del 10% dei 1.051 miliardi di ricchezza prodotta dalle altre regioni equivale a 105 miliardi. Euro più euro meno è nell'ordine di questa grandezza il tributo inflitto alle aree italiane poco coinvolte nell'epidemia dalla decisione di fermarle esattamente come fu fatto per la prima zona rossa lombardo-veneta di Codogno e Vo. «Il ragionamento di fondo è corretto - sottolinea Luciano Sbraga, responsabile del Centro Studi della Fipe-Confcommercio - Tenendo presente che il lockdown ha inevitabilmente avuto effetti diversi da settore a settore. Se ad esempio in assoluto il comparto economico più colpito è stato quello del trasporto aereo, non si può negare che il lockdown ha inferto colpi sociali durissimi al tessuto economico profondo dell'Italia che è garantito dalla ristorazione».
ITALIA - LE DIFFERENZE NORD SUD. Secondo la Fipe, infatti, quest' anno il giro d'affari dei ben 330 mila fra bar e ristoranti aperti in Italia scenderà almeno del 26% passando dagli 85 miliardi del 2019 a circa 63 miliardi. Il settore dà lavoro a circa 1,2 milioni di italiani fra figure professionali indipendenti e dipendenti e dunque se non si risolleverà in fretta i posti di lavoro a rischio si conteranno a centinaia di migliaia. Il calo generalizzato del settore si sta verificando su tutto il territorio nazionale. Traduzione: la ristorazione del Centro-Sud che nel 2019 ha avuto un giro d'affari di oltre 48 miliardi pagherà un prezzo salatissimo di circa 12 miliardi di riduzione del fatturato anche se dal Po in giù l'epidemia è stata contenuta e talvolta, come in Lucania, in Molise, in Calabria, in Sicilia e Sardegna, è risultata quasi impercettibile. Si pone dunque un tema di risarcimento di danni che almeno in parte, forse, potevano essere evitati. Anche gli alberghi stanno valutando come muoversi per recuperare un danno non dovuto, almeno non in tutto il Paese. Il settore stima una perdita di fatturato di oltre il 70% nel 2020. E una parte del giro d'affari sfumato è dovuto alle imprese che non riapriranno. Moltissime anche al Centro-Sud.
LA RIPRESA PIÙ DIFFICILE. Ancora più pesante il bilancio del rapporto Svimez che stima una perdita di valore aggiunto su base mensile di quasi 48 miliardi di euro (il 3,1% del Pil italiano), oltre 37 dei quali «persi» nel Centro-Nord e 10 nel Mezzogiorno. Si tratta di 788 euro pro capite al mese nella media italiana: oltre 1000 euro al Nord contro i quasi 500 del Mezzogiorno. La perdita complessiva di fatturato è di oltre 25,2 miliardi in Italia, per ogni mese di blocco. Del fatturato andato in fumo, solo la metà è al Nord (12,6 miliardi) e il resto è a carico del Centro (5,2 miliardi) e del Mezzogiorno (7,7 miliardi). Non solo. Il blocco improvviso, inatteso, e a questo punto nemmeno necessario, ha colto impreparate le molte imprese meridionali che non avevano ancora completato il percorso di rientro dallo stato di difficoltà causato dall'ultima crisi. Il Mezzogiorno non aveva ancora recuperato i livelli pre-crisi, ancora inferiori di 15 punti percentuali rispetto al 2007 (il Centro-Nord di circa 7). Sulla base dei dati di bilancio disponibili ad aprile per un campione di imprese con fatturato superiore agli 800.000 euro, le evidenze su grado di indebitamento, redditività operativa e costo dell'indebitamento portano a stimare una probabilità di uscita dal mercato delle imprese meridionali 4 volte superiore rispetto a quelle del Centro-Nord. Il risvolto più pesante, è che proprio nel Centro-Sud che poteva evitare il lockdown più pesante sarà più difficile ripartire. Il resto del Paese avrebbe subito il calo della domanda del Nord, ma poteva essere cruciale per l'intero Paese mantenere viva l'anima commerciale e l'industria del Centro-Sud, lì dove il virus si sentiva molto meno, fanno notare diversi economisti. Ora l'intero Paese deve ripartire. E la parte più debole, ma anche meno colpita, farà più fatica del resto.
Antonio Socci, il coronavirus come esperimento politico? Le parole di Attali, nel 2009. Antonio Socci su Libero Quotidiano il 03 agosto 2020. La pandemia è un'immensa sciagura, per tutti i popoli. Ma c'è stato (e c'è) un uso politico della paura da parte di certe élite di governo? E con quali scopi? Ha ragione chi ritiene che sia in corso un gigantesco e inquietante esperimento politico? A parlarne sono alcuni pensatori "non allineati" che subito il sistema mediatico delegittima bollandoli come "complottisti". Ma a notare che qualcosa di strano sta accadendo è anche - per esempio - il pensatore simbolo dell'europeismo mainstream, Bernard Henri Lévy, che ha appena pubblicato un libro: Il virus che rende folli. Lévy nota, giustamente, che l'epidemia di Covid non è stata affatto una novità apocalittica nei nostri anni. Rammenta l'influenza di Hong Kong, «dopo il maggio '68», che fece un milione di morti «per emorragia polmonare o soffocamento» o, dieci anni prima, l'influenza asiatica, arrivata sempre dalla Cina, che fece due milioni di morti. Ma allora non si verificò il panico planetario di oggi. Lévy si dice «raggelato», ma non dalla pandemia: dal «modo molto strano in cui abbiamo reagito questa volta», dall'«epidemia di paura che ha attanagliato il mondo». Infatti «abbiamo visto le città di tutto il mondo diventare città fantasma. Abbiamo visto tutti, da un capo all'altro del pianeta popoli interi tremare e farsi trascinare nelle proprie abitazioni, a volte a colpi di manganello, come animali selvatici nelle loro tane».
«IL GRANDE INTERNAMENTO». Lévy si chiede se è la «vittoria dei saggi del mondo che vedono in questo grande confinamento il “grande internamento” teorizzato da Michel Foucault nei testi in cui descriveva i sistemi di potere del futuro - la prova generale di un nuovo tipo di fermo e di arresto domiciliare dei corpi». Oppure se è "il contrario" ovvero «il segno, rassicurante, che il mondo è cambiato, che finalmente sacralizza la vita e che tra questa e l'economia, sceglie la vita». La seconda ipotesi mi sembra radicalmente confutata da molti fatti e dati che mostrano come la vita umana nel mondo abbia totalmente perso la sua sacralità. Resterebbe la prima, ma purtroppo Lévy non la analizza. Certo, nota che «è stata la prima volta che abbiamo visto tutte le menti critiche della galassia di ultrasinistra applaudire a uno stato di emergenza». Ma si ferma alla protesta contro la paura. Cita però di sfuggita il filosofo italiano Giorgio Agamben che - essendo di sinistra - ha scatenato malumori e polemiche proprio a sinistra perché, riflettendo sulle «conseguenze etiche e politiche» della tempesta Covid ha colto «la trasformazione dei paradigmi politici che i provvedimenti di eccezione andavano disegnando». Nel suo libro A che punto siamo? valuta la vicenda Covid «in una prospettiva storica più ampia» e conclude che qualcosa di importante si stava (e si sta) sperimentando. Scrive: «Se i poteri che governano il mondo hanno deciso di cogliere il pretesto di una pandemia per trasformare da cima a fondo i paradigmi del loro governo degli uomini e delle cose, ciò significa che quei modelli erano ai loro occhi in progressivo, inesorabile declino e non erano ormai più adeguati alle nuove esigenze () i poteri dominanti hanno deciso di abbandonare senza rimpianti i paradigmi delle democrazie borghesi, coi loro diritti, i loro parlamenti e le loro costituzioni, per sostituirle con nuovi dispositivi di cui possiamo appena intravedere il disegno, probabilmente non ancora del tutto chiaro».
SCOPI POLITICI. Davvero si può usare politicamente «il pretesto di una pandemia» o Agamben esagera? In effetti c'è chi, già qualche anno fa, ha invitato a "usare" proprio una eventuale pandemia per scopi politici (ovviamente, a suo avviso) lodevoli. Nel 2009 - quando si paventava la diffusione dell'influenza suina - il famoso economista e tecnocrate francese Jacques Attali, da acuto analista, in un articolo su L'Express, scrisse: «La Storia ci insegna che l'umanità non si evolve in modo significativo se non quando ha davvero paura: essa allora mette in campo anzitutto dei meccanismi di difesa; a volte intollerabili (i capri espiatori e i totalitarismi); a volte inutili (la distrazione); a volte efficaci (strategie terapeutiche, respingendo se necessario tutti i precedenti principi morali). Poi, una volta terminata la crisi, trasforma questi meccanismi per renderli compatibili con la libertà individuale e includerli in una politica sanitaria democratica. Questa iniziale pandemia» scriveva Attali «potrebbe innescare una di queste paure strutturali». In particolare Attali, prevedendo la necessità di governare «meccanismi di prevenzione e controllo» per «un'equa distribuzione di farmaci e vaccini», scriveva: «Verremo quindi, molto più velocemente di quanto avrebbe prodotto la sola ragione economica, a gettare le basi di un vero governo mondiale» e «nel frattempo potremmo almeno sperare nella messa in opera di una vera politica europea in materia». Attali nel 2006 aveva pubblicato Breve storia del futuro e già lì vagheggiava un «governo mondiale» che segnava la fine dell'egemonia americana e vedeva «l'Unione europea avanguardia dell'iperdemocrazia». Ma quella sua utopia aveva i tratti di una cupa distopia.
Antonio Socci contro Giuseppe Conte, lockdown e verbali nascosti: "Regime inquietante e grottesco, cosa nasconde?" Libero Quotidiano il 02 agosto 2020. La Sinistra politica e mediatica si contraddice di continuo. Attaccarono il premier ungherese Orban perché il 30 marzo dichiarò lo stato d'emergenza nel suo Paese (lo fece seguendo le norme di legge), ma il governo giallorosso ha egualmente dichiarato lo stato d'emergenza (anche se «la nostra Costituzione non contempla un diritto speciale per lo stato di emergenza», come ha ricordato la presidente Cartabia) e ha fatto una gestione della crisi molto criticata dagli stessi costituzionalisti. Poi, a differenza dell'Ungheria dove in giugno, finita la fase critica, il Parlamento ha revocato i superpoteri del premier, il governo Conte ha addirittura deciso di protrarre lo stato d'emergenza da adesso fino ad ottobre, senza che esista più l'emergenza. Caso unico in Europa. Egualmente, si è attaccato il presidente americano Trump che - per l'emergenza Covid - ha ipotizzato (solo ipotizzato, non deciso) un rinvio delle elezioni presidenziali di novembre, eppure l'italico governo giallorosso - per l'emergenza Covid - ha già tranquillamente rinviato le elezioni regionali e il referendum dalla primavera all'autunno. Un'altra plateale contraddizione è di questi giorni. La Sinistra ha sempre fatto battaglie ideologiche contro "il segreto di Stato" e il M5S ha sempre predicato la trasparenza come bene pubblico essenziale. Tuttavia gli atti del Comitato tecnico-scientifico della Protezione civile, da cui è emersa la decisione governativa del lockdown, sono segreti e quando la Fondazione Einaudi di Roma ha chiesto al Tar del Lazio che fosse tolto il segreto e ha ottenuto una sentenza favorevole, il governo si è opposto chiedendo al Consiglio di Stato la sospensione di tale sentenza. La sospensione è stata accordata dal giudice monocratico, fino al 10 settembre, per poter assumere una decisione collegiale, ma nello stesso decreto il Consiglio di Stato ha notato che quei verbali del comitato tecnico-scientifico, che «hanno costituito il presupposto per l'adozione di misure volte a comprimere fortemente diritti individuali dei cittadini, costituzionalmente tutelati () non contengono elementi o dati che la stessa appellante abbia motivatamente indicato come segreti». Perciò lo stesso Consiglio di Stato afferma che «non si comprende, proprio per la assoluta eccezionalità di tali atti» perché debbano essere inclusi «nel novero di quelli sottratti alla generale regola di trasparenza e conoscibilità da parte dei cittadini, giacché la recente normativa, ribattezzata freedom of information act sul modello americano, prevede come regola l'accesso civico». Le decisioni prese dal governo - a partire da quella del lockdown totale - hanno riguardato la vita di tutti gli italiani, hanno sospeso alcuni loro fondamentali diritti e hanno avuto anche conseguenze economiche enormi per milioni di persone, anzi per tutti. Perciò gli italiani hanno il sacrosanto diritto di conoscere i dati e le analisi sulla cui base sono state prese quelle decisioni.
LEGITTIMAZIONE. Perché l'esecutivo Conte si oppone? Già questo governo è nato male, senza essere stato scelto dagli elettori (perché Pd e M5S alle elezioni politiche del 2018 erano duramente contrapposti), è nato senza alcun programma, solo per impedire il voto del "popolo sovrano" (perché Pd e M5S ritenevano che avrebbe vinto il centrodestra) ed è un governo di minoranza nel Paese (come hanno dimostrato le elezioni europee dell'anno scorso e le varie consultazioni regionali). Dunque è già carente di una piena legittimazione democratica. Se poi, dopo aver gestito lo stato d'emergenza sospendendo molti diritti ed emarginando di fatto il Parlamento, si oppone addirittura alla richiesta dei cittadini di conoscere gli atti che hanno portato al lockdown, con il conseguente blocco della nostra economia, è difficile sentirsi in una democrazia sana e autentica. Questo atteggiamento governativo si replica anche su altri documenti fondamentali del periodo emergenziale. Infatti Riccardo Luna ieri ha rivelato su Repubblica che analogo segreto grava, inspiegabilmente, sul piano pandemico nazionale. Il direttore generale della Programmazione sanitaria del ministero della Salute, Andrea Urbani, dichiarò ad aprile che «già dal 20 gennaio avevamo un piano». Però non è mai stato reso pubblico ed è stato addirittura secretato. I piani pandemici sono strumenti di azione varati dall'Organizzazione mondiale della sanità, sono sempre in evoluzione e «sono tutti pubblici i piani pandemici europei, è importante che lo siano» osserva Luna «perché siano efficaci tutti devono sapere come comportarsi». Quello italiano era fermo al 2010, poi «il 20 gennaio 2020, e quindi undici giorni prima che il governo dichiarasse lo stato d'emergenza un piano è stato fatto. Quale?». Luna ieri ha ripercorso tutte le richieste formali che ha avanzato alle varie amministrazioni per conoscere - a norma di legge - questo documento. Ma si è trovato davanti un muro. Un altro segreto impenetrabile. Perché? È importante conoscere tale documento perché - come osserva Luna - «quel piano serve anche a capire se nei 55 giorni che passano dalla sua approvazione alla decisione del lockdown sono state messe in campo tutte le azioni necessarie a mitigare i danni». Eppure il piano è inaccessibile. Perché? Il primo diritto dei cittadini è il diritto alla verità. Senza trasparenza negli atti pubblici e senza verità, una democrazia scivola fatalmente verso la cosiddetta "democratura", un regime che ha l'apparenza della democrazia, ma con una sostanza autoritaria.
PROGETTI DI LEGGE. Se a tutta questa secretazione, alla sospensione di diritti fondamentali dei cittadini durante il lockdown e allo "stato d'emergenza" prolungato senza emergenza, aggiungiamo alcuni preoccupanti segnali arrivati negli ultimi tempi dalla coalizione di governo c'è di che preoccuparsi. Mi riferisco a progetti di legge che limitano fortemente la libertà di opinione e di parola (come la legge Zan) e mi riferisco poi, specialmente, alla decisione di mandare sotto processo il leader dell'opposizione di centrodestra, Salvini, per un atto di governo, cioè per la gestione della Open Arms, che fu una scelta politica che coinvolgeva tutto il precedente esecutivo gialloverde e che fu presa in base agli indirizzi programmatici di quel governo. La Sinistra, che quando governa il centrodestra è sempre indaffarata a lanciare allarmi democratici senza motivo, oggi digerisce tutto e anzi applaude questa preoccupante deriva. Se fosse stato un governo di centrodestra a comportarsi come si sta comportando l'attuale esecutivo giallorosso, avrebbero scatenato il finimondo e avrebbero suonato le sirene dell'allarme democratico in tutto il globo.
Coronavirus, Franco Bechis: "I verbali segretati possono far cadere Giuseppe Conte". Libero Quotidiano il 02 agosto 2020. Per Franco Bechis si tratta di un segreto che "può far cadere il governo di Giuseppe Conte". Il direttore de Il Tempo ne parla in un video, la questione riguarda i cinque verbali del Comitato tecnico scientifico che il Tar del Lazio ha ordinato di rendere pubblici, verbali che darebbero informazioni in più circa le mosse del governo per contenere l'epidemia da coronavirus, lockdown compreso. Ma il premier, come è noto, ha fatto ricorso al Consiglio di Stato contro la decisione: insomma, vuole che tutto resti segreto per "motivi di ordine pubblico". Un caso e una spiegazione che per Bechis è "inquietante". Spiega il direttore: "Detto così significa che la verità su quel che è accaduto farebbe insorgere gli italiani per l'indignazione mettendo a rischio la vita stessa del governo - premette -. Non c'è che una soluzione in un paese democratico per togliere ogni sospetto: tutti gli atti di comitati e task force fin dal mese del gennaio scorso debbono essere resi pubblici, e non segretati a doppia mandata come la verità sulla strage di Ustica che per altro Conte stesso tiene ancora segreta. Altrimenti ci troviamo nella stessa condizione di quelle dittature sudamericane in cui il Caudillo di turno decideva cosa e quando al popolo era concesso sapere...", conclude Franco Bechis.
Giuseppe Conte, la contiguità con molti giudici del Consiglio di Stato: lockdown, chi blocca la diffusione dei documenti. Azzurra Barbuto su Libero Quotidiano il 03 agosto 2020. Davanti alla determinazione del premier nel volere mantenere segreti gli atti del comitato tecnico-scientifico che stanno alla base dei decreti prodotti dall'esecutivo in questi mesi, i quali hanno compresso le libertà costituzionalmente garantite, occorre porsi una legittima domanda. Innanzitutto, ricordiamo che l'attuale primo ministro ha fatto parte del Consiglio di Presidenza della Giustizia Amministrativa (CPGA), nella precedente consiliatura, prima di essere nominato a capo del governo gialloverde prima e giallorosso dopo. Inoltre, è bene sottolineare che il CPGA, composto in maggioranza da magistrati e da una minima parte di cittadini eletti dal Parlamento (tra i quali rientrava appunto il foggiano), ha sede proprio presso il Consiglio di Stato, essendo presieduto dal suo stesso presidente. Il quesito ineludibile è: esiste una incompatibilità del presidente del Consiglio dei ministri Giuseppe Conte nella sua richiesta all'Avvocatura di Stato di impugnare davanti al Consiglio di Stato la sentenza del Tar Lazio numero 8615/2020, con la quale i giudici hanno stabilito che i documenti in materia di Covid-19 del comitato scientifico debbano essere resi pubblici? Sebbene non sia ravvisabile una incompatibilità in senso stretto, desta serie perplessità il fatto che l'Avvocatura di Stato, compulsata da Conte, abbia richiesto la sospensione della suddetta sentenza, avvalendosi addirittura della procedura di urgenza, la quale impedisce la instaurazione di un contraddittorio con la Fondazione Einaudi, vittoriosa in primo grado, che chiedeva appunto la pubblicazione degli atti ostinatamente secretati. Il Consiglio di Stato, con decreto cautelare monocratico del 31 luglio 2020, ha sospeso l'effetto della sentenza del Tar Lazio che consentiva l'accesso ai verbali del comitato tecnico-scientifico relativi all'emergenza sanitaria, accesso che - ripetiamo - era stato reclamato dalla Fondazione Einaudi e ritenuto più che legittimo dai giudici del Tar. Non vi è dubbio che sussista una strettissima contiguità tra Giuseppe Conte e numerosi magistrati del Consiglio di Stato, in quanto egli ha fatto parte, come abbiamo poc'anzi rivangato, del Consiglio di Presidenza della Giustizia Amministrativa, che non soltanto ha sede proprio all'interno del Consiglio di Stato (elemento che potrebbe essere irrilevante), ma che è altresì composto in larga parte da Consiglieri di Stato. Ed è il Consiglio di Stato ad avere - con sorprendente velocità - sospeso la sentenza favorevole del Tar Lazio la quale stabiliva che entro il 12 agosto gli atti del comitato tecnico-scientifico avrebbero dovuto essere diffusi. Tale contiguità tra il premier e i magistrati del Consiglio di Stato si traduce in un evidente sviamento dalla funzione pubblica (articolo 97 della Costituzione) concernente il perseguimento degli interessi generali, specie in una materia così delicata come la richiesta di pubblicazione degli atti relativi alla emergenza Covid-19, i quali, a giudizio del Tar Lazio, è inammissibile che permangano segreti dato che le decisioni che sono state formulate sulla base di codesti documenti hanno inciso profondamente sulle vite dei cittadini italiani. Sarebbe stato opportuno semmai che il sedicente avvocato del popolo evitasse di occuparsi della faccenda, astenendosi per motivi di opportunità o, quantomeno, che chiedesse all'Avvocatura di Stato di non avvalersi della procedura di urgenza davanti al Consiglio di Stato, la quale non garantisce il contraddittorio. Contraddittorio a cui Conte, del resto, è apparso essere allergico in questi ultimi mesi, in cui ha decretato ogni dì infischiandosene pure delle Camere.
Ecco perché Conte vuole tenere segreti i verbali sul Coronavirus. Smascherate le intenzioni del governo e del premier: "Non vogliono fare sapere agli italiani quali sono le reali motivazioni alla base dei Dpcm". Luca Sablone, Venerdì 31/07/2020 su Il Giornale. Nelle scorse ore il Consiglio dei ministri ha dato il via libera alla proroga dello stato di emergenza per il Coronavirus fino a giovedì 15 ottobre 2020. Una scelta che ha scaturito infinite e dure polemiche specialmente da parte dell'opposizione, che ha accusato Giuseppe Conte di aver messo in atto una strategia con un fine ben preciso: consolidare il potere dell'esecutivo, in difficoltà su vari fronti, così che possa muoversi al di fuori delle norme. "Quella di cui vi state occupando non è la salute degli italiani ma del vostro governo. Lo stato di emergenza vi serve per consolidare il potere, per agire senza regole e controlli", è stato l'attacco di Giorgia Meloni. Le assurdità dei giallorossi sono sotto gli occhi di tutti: quotidianamente sottolineano giustamente l'importanza delle misure di sicurezza per limitare la diffusione del contagio, ma nel frattempo consentono lo sbarco anche di immigrati positivi. Una situazione tanto assurda quanto grave che potrebbe portare gli italiani nuovamente in una condizione di lockdown. Ma non è finita qui: il premier vorrebbe mantenere segreti i verbali sulle attività del Comitato tecnico-scientifico prodotti in questi mesi di emergenza Covid-19. L'ipotesi di una segretezza imposta da "ragione di ordine pubblico" fa immaginare quanto possa essere poco pulita la coscienza di chi ha preso determinate decisioni.
Dalle terapie sbagliate ai documenti segreti: il governo sotto accusa. In molti hanno provato a immaginare le possibili motivazioni. "Devono proteggere gli interessi delle case farmaceutiche?", si domandano diversi utenti sui social. "Parliamo di assassinii di Stato anche dolosi, con dolo eventuale, e lo dimostreremo", è la promessa del medico legale e ricercatore Pasquale Mario Bacco. La battaglia ruota soprattutto intorno alle autopsie sui pazienti deceduti, affetti da Covid-19. Ha fatto discutere quella circolare del Ministero della Salute, pubblicata a maggio, che sconsigliava di fare esami post mortem ai deceduti per Coronavirus: "Per l'intero periodo della fase emergenziale non si dovrebbe procedere all'esecuzione di autopsie o riscontri diagnostici nei casi conclamati di Covid-19".
I segreti di Conte. L'intento del presidente del Consiglio sarebbe quello di tenere occultati i documenti del Cts alla base dei Dpcm emanati durante il lockdown di marzo e aprile. Come riportato da La Repubblica, il governo ha fatto ricorso al Consiglio di Stato contro la decisione del Tar di rendere pubblici i verbali secretati del Comitato tecnico-scientifico della Protezione civile. Già ad aprile Rocco Mauro Todero, Andrea Pruiti Ciarello e Enzo Palumbo - tre avvocati della fondazione Luigi Einaudi di Roma - avevano fatto ricorso al Tribunale amministrativo regionale del Lazio contro il rifiuto di far conoscere i documenti del Cts. Il presupposto al ricorso è che sarebbe del tutto lecito conoscere le valutazioni alla base delle misure di restrizione visto che i Dpcm hanno inevitabilmente limitato diritti e libertà di rango costituzionale alla cittadinanza italiana.
La Meloni parla e Conte ride: scoppia la polemica alla Camera. La richiesta di pubblicizzazione degli atti serviva a rendere chiari ed evidenti i fondamenti delle azioni intraprese da Conte: i ricorrenti hanno concesso al governo la possibilità di rendere "trasparente l'azione esecutiva e valutabile a posteriori l'operato in quella delicata fase emergenziale". L'appello avverso la sentenza del Tar Lazio dimostrerebbe quella che sarebbe la volontà dell'avvocato: "Non fare sapere agli italiani quali sono le reali motivazioni alla base degli innumerevoli decreti del presidente del Consiglio". Effettivamente i criteri contenuti nei verbali, nonostante siano citati in tutti i Dpcm a giustificazione di quegli atti, non sarebbero mai stati pubblicati da Palazzo Chigi.
"Gli italiani devono giudicare". Per quale motivo si vorrebbe negare il diritto degli italiani a sapere in maniera trasparente che cosa è realmente successo? Eppure sarebbe un vero e proprio dovere del premier Conte consentire ai cittadini di farsi giudicare politicamente. "I Dpcm non sono atti sottoposti ad un dogma di fede. Gli italiani hanno diritto di conoscere per potere giudicare chi sta al governo. Se non ci si vuole fare giudicare politicamente non si ha rispetto del popolo", è stato il commento dell'avvocato Andrea Pruiti Ciarello. Il consigliere di amministrazione della fondazione Einaudi di Roma sostiene come sia "grave aver fatto l'appello perché dimostra che il governo non è disponibile ad essere trasparente su atti così importanti", che nelle scorse settimane hanno compresso i diritti e le libertà costituzionali per i cittadini come mai nella storia della Repubblica italiana. Dello stesso avviso il presidente della fondazione Giuseppe Benedetto, che ha fatto un appello affinché la presidenza del Consiglio "ripensi la sua posizione" mediante un gesto "di apprezzabile e intelligente apertura agli italiani". Fino all'ultimo hanno sperato in un gesto "di grande eleganza e di sostanza democratica" da parte della presidenza del Consiglio dei ministri, che di fronte a una sentenza del giudice amministrativo "avrebbe potuto adempiere senza proporre appello e insistere in una linea che appare di retroguardia". Pertanto gli avvocati Todero, Pruiti Ciarello e Palumbo hanno garantito che renderanno pubblici i documenti appena il governo li consegnerà: "Solo chi ha paura del giudizio dei cittadini si può opporre a che questi siamo informati e consapevoli".
Cade il segreto sui segreti del Covid: il Tar ordina la diffusione dei verbali. Sconfessato il governo: gi atti del Cts devono essere pubblici. Mariateresa Conti, Giovedì 23/07/2020 su Il Giornale. Cade il segreto sui verbali, segreti, del Comitato tecnico scientifico che si è occupato dell'emergenza Covid 19. Lo stabilisce una sentenza del Tar del Lazio pronunciata lo scorso 13 luglio e pubblicata ieri. I giudici amministrativi della Prima sezione quater - presidente Mariangela Caminiti, consiglieri Lucia Gizzi e Ines Simona Immacolata Pisano, consigliere estensore - hanno accolto il ricorso di tre avvocati, Rocco Mauro Todero, Vincenzo Palumbo e Andrea Pruiti Ciarello, consigliere di amministrazione della Fondazione Einaudi, che avevano chiesto l'accesso civico ai verbali del Comitato tecnico scientifico anti-Covid: gli atti, in pratica, sulla base dei quali il governo ha deciso le limitazioni da imporre agli italiani per contenere il contagio e ridurre l'emergenza. Per il Tar, il diniego di accesso civico agli atti è stato un errore, perché i verbali richiesti del Cts erano prodromici all'emanazione dei Dpcm e non erano qualificabili come «atti amministrativi generali», come invece sostenuto nella memoria difensiva da Presidenza del Consiglio dei ministri-Dipartimento della Protezione civile. Di qui l'ordine di far vedere e fare copia degli atti, entro 30 giorni. Si chiude così una polemica che nel maggio scorso era stata sollevata anche a livello politico. In particolare, a contestare la «secretazione» degli atti del Comitato tecnico scientifico era stato il sottosegretario alla Salute Pierpaolo Sileri (M5s), che aveva espressamente accusato il Cts di avere tenuto top secret i dati a sua disposizione. Lo stesso premier Giuseppe Conte era intervenuto a smorzare la questione, affermando che gli atti non erano secretati. Ora sono i giudici a sbloccare la situazione. Fatti salvi ulteriori ricorsi a gradi superiori di giudizio, la sentenza impone che i verbali richiesti dai ricorrenti siano consegnati entro 30 giorni. E dunque diventino pubblici. A meno che l'amministrazione, che finora ha motivato il no all'accesso solo con ragioni formali, non opponga «ragioni sostanziali attinenti ad esigenze oggettive di segretezza o comunque di riservatezza degli stessi al fine di tutelare differenti e prevalenti interessi pubblici e privati». Nella sentenza il Tar spiega che «la ratio dell'intera disciplina normativa dell'accesso impone di ritenere che se l'ordinamento giuridico riconosce, ormai, la più ampia trasparenza alla conoscibilità anche di tutti gli atti presupposti all'adozione di provvedimenti individuali o atti caratterizzati da un ben minore impatto sociale, a maggior ragione deve essere consentito l'accesso ad atti, come i verbali in esame, che indicando i presupposti fattuali per l'adozione dei descritti Dpcm si connotano per un particolare impatto sociale, sui territori e sulla collettività». Di qui l'accoglimento del ricorso, imponendo alla presidenza del Consiglio-Dipartimento della Protezione civile «di consentire alla parte ricorrente di prendere visione ed estrarre copia della documentazione richiesta».
Maria Teresa Conti per ''il Giornale'' il 23 luglio 2020. Cade il segreto sui verbali, segreti, del Comitato tecnico scientifico che si è occupato dell'emergenza Covid 19. Lo stabilisce una sentenza del Tar del Lazio pronunciata lo scorso 13 luglio e pubblicata ieri. I giudici amministrativi della Prima sezione quater - presidente Mariangela Caminiti, consiglieri Lucia Gizzi e Ines Simona Immacolata Pisano, consigliere estensore - hanno accolto il ricorso di tre avvocati, Rocco Mauro Todero, Vincenzo Palumbo e Andrea Pruiti Ciarello, consigliere di amministrazione della Fondazione Einaudi, che avevano chiesto l'accesso civico ai verbali del Comitato tecnico scientifico anti-Covid: gli atti, in pratica, sulla base dei quali il governo ha deciso le limitazioni da imporre agli italiani per contenere il contagio e ridurre l'emergenza. Per il Tar, il diniego di accesso civico agli atti è stato un errore, perché i verbali richiesti del Cts erano prodromici all'emanazione dei Dpcm e non erano qualificabili come «atti amministrativi generali», come invece sostenuto nella memoria difensiva da Presidenza del Consiglio dei ministri-Dipartimento della Protezione civile. Di qui l'ordine di far vedere e fare copia degli atti, entro 30 giorni. Si chiude così una polemica che nel maggio scorso era stata sollevata anche a livello politico. In particolare, a contestare la «secretazione» degli atti del Comitato tecnico scientifico era stato il sottosegretario alla Salute Pierpaolo Sileri (M5s), che aveva espressamente accusato il Cts di avere tenuto top secret i dati a sua disposizione. Lo stesso premier Giuseppe Conte era intervenuto a smorzare la questione, affermando che gli atti non erano secretati. Ora sono i giudici a sbloccare la situazione. Fatti salvi ulteriori ricorsi a gradi superiori di giudizio, la sentenza impone che i verbali richiesti dai ricorrenti siano consegnati entro 30 giorni. E dunque diventino pubblici. A meno che l'amministrazione, che finora ha motivato il no all'accesso solo con ragioni formali, non opponga «ragioni sostanziali attinenti ad esigenze oggettive di segretezza o comunque di riservatezza degli stessi al fine di tutelare differenti e prevalenti interessi pubblici e privati». Nella sentenza il Tar spiega che «la ratio dell'intera disciplina normativa dell'accesso impone di ritenere che se l'ordinamento giuridico riconosce, ormai, la più ampia trasparenza alla conoscibilità anche di tutti gli atti presupposti all'adozione di provvedimenti individuali o atti caratterizzati da un ben minore impatto sociale, a maggior ragione deve essere consentito l'accesso ad atti, come i verbali in esame, che indicando i presupposti fattuali per l'adozione dei descritti Dpcm si connotano per un particolare impatto sociale, sui territori e sulla collettività». Di qui l'accoglimento del ricorso, imponendo alla presidenza del Consiglio-Dipartimento della Protezione civile «di consentire alla parte ricorrente di prendere visione ed estrarre copia della documentazione richiesta».
Da ansa.it il 23 luglio 2020. "Abbiamo preso decisioni in anticipo di 20 giorni rispetto ad altre regioni. Quando noi chiudevamo altrove si facevano iniziative pubbliche, si diceva “Milano non si ferma”, “Bergamo non si ferma”, “Brescia non si ferma”, poi si sono fermati a contare migliaia di morti, migliaia non centinaia". Lo ha detto il presidente della Regione Campania, Vincenzo De Luca, parlando dell'emergenza Covid19 nel corso della sua visita di oggi all'ospedale di Sapri (Salerno). De Luca ha duramente attaccato la gestione dell'emergenza covid19 nelle regioni del Nord Italia. "Solo nella provincia di Bergamo - ha detto - ci sono stati 2.000 morti fra gli anziani delle residenze assistenziali. In tutta la Campania i morti nelle Rsa sono stati 14. E' stato difficile mettere in quarantena il Vallo di Diano. A Milano discutono ancora se la zona rossa doveva farla Governo o Regione. Noi intanto abbiamo chiuso e salvato la vita di centinaia di persone. Abbiamo dato una prova importante, ovviamente parte essenziale del risultato è rappresentato dalla tenuta del nostro personale, qui abbiamo ospedali di assoluta eccellenza, non c'è bisogno di andare a Milano, Bologna, Verona, Pavia".
Gianluca Veneziani per ''Libero Quotidiano'' il 12 luglio 2020. L' autoelogio e il masochismo. I due atteggiamenti sembrano contraddittori, ma in realtà sono due facce della stessa medaglia. Finché l' emergenza era in corso, il premier Conte non faceva che autoincensarsi, ricordare quanto noi abbiamo saputo affrontare il virus meglio di altri, anche se non era vero. Ora che invece la fase drammatica è superata, dal governo arrivano continui inviti a tenere alta la guardia, a non sottovalutare i pochi nuovi contagi e addirittura si pensa a una proroga dello stato di emergenza fino a fine anno. Il pericolo non c' è più, ma conviene far credere che ci sia, con un bombardamento insieme mediatico e politico. A riconoscerlo non è soltanto la maggior parte dei cittadini di buon senso, ma anche alcuni esperti intellettualmente onesti come l' infettivologo Matteo Bassetti che, parlando ieri con l' Agi, ha invitato a smetterla con gli allarmismi infondati. «Stiamo dando al mondo l' idea di essere ancora in pieno dramma, che tutti i sacrifici non sono serviti a niente», avverte. «Mentre è vero il contrario: il Covid è stata un' emergenza ospedaliera, che oggi, lo dicono i numeri, è finita». L' analisi di Bassetti si fonda sui numeri: quelli dei contagi e quelli dei ricoverati in terapia intensiva. Quanto ai primi, ci sono sì 200 contagi al giorno, ma nessuno dice «quanti di questi sono asintomatici, quanti sono più seri, quanti i ricoverati», evidentemente perché si preferisce dare un numero generico che crei panico. Quanto ai secondi, la situazione attuale parla chiaro, se confrontata a quella di pochi mesi fa: «Avevamo oltre 4.000 ricoverati in terapia intensiva, oggi sono 60 in tutta Italia», fa notare Bassetti. In pratica, c' è un ricoverato in terapia intensiva per ogni milione di abitanti. Una percentuale pressoché irrilevante.
Il partito del virus. Ciò, beninteso, non significa che il virus non circoli più o si sia depotenziato. Significa da un lato che, se pure circola, riesce a essere meglio circoscritto e fermato attraverso adeguate misure di contenimento e di isolamento degli infetti: quindi, se anche sorgono nuovi focolai, come sta accadendo, essi non diventano micce detonanti di nuove esplosioni dell' epidemia. Dall' altro lato, significa che il virus ormai «è clinicamente inesistente», come aveva già detto qualche tempo fa il primario del San Raffaele, Alberto Zangrillo, suscitando un vespaio di polemiche. Ossia: anche se si viene contagiati, difficilmente ci si ammala gravemente e questo per una ragione spiegata da un altro luminare, il prof. Luciano Gattinoni, esperto in anestesia. E cioè, «abbiamo iniziato a gestire meglio l' infezione», magari evitando la sovrabbondanza di farmaci. Oppure ricorrendo solo alle cure adeguate. Questo scenario dovrebbe indurci, se non all' entusiasmo, quanto meno all' ottimismo e a un racconto meno allarmistico. E invece, continua Bassetti, «viene comunicato il contrario, un atteggiamento veramente alla Tafazzi» tanto che «le istituzioni, nazionali e locali, i mass media, e anche purtroppo noi esperti» continuano «tutte le sere a dare un bollettino di guerra. Io ho visto cosa fanno in Francia, in Spagna, in Germania Solo noi diamo tutta questa enfasi, e diamo l' impressione all' estero di essere ancora in mezzo al disastro». A chi giova questo approccio? Di sicuro non ai cittadini, che rischiano di farsi travolgere dal panico o addirittura da «un effetto "al lupo al lupo" per quando, speriamo di no, si potrà ripresentare un' emergenza vera», dice l' infettivologo. Giova al governo? Per certi versi sì. Viene naturale pensare che sarebbe interesse dell' esecutivo comunicare che il virus è stato vinto, sconfitto, abbattuto, che l' emergenza è finita, e questo anche grazie allo sforzo straordinario di chi ci governa. E invece no, perché il vero interesse di Conte è rendere permanente lo stato di emergenza, sul quale si regge il consenso nei suoi confronti, riservarsi di sospendere i diritti democratici come piena garanzia della tenuta del suo potere e, più in generale, fondare la durata del suo esecutivo sulla paura. Accusavano Salvini di basare la sua leadership sulla paura dell' altro, dell' immigrato, del musulmano, del comunista. E invece è Conte che ci tiene in sua balia con questa minaccia: il suo governo ha elevato la Paura a categoria politica. È il partito del Virus grazie al quale il premier sopravvive.
Coronavirus, anziani colpiti: dipende da vaccino anti influenza? Le 5 cause. Fedora Quattrocchi su Blitz quotidiano. Pubblicato il 11 Maggio 2020. Coronavirus, domande e effetti collaterali. Arriva il COVID-19 come un ciclone, in particolare dove vi era il coktail del pocker d’assi: 5 carte tutte come una “tempesta perfetta”:
i) una conca pianeggiante padana con polveri sottili PM 2.5 e PM 10, veicolo di particelle di qualsiasi tipo, compresi i virus, come il COVID-19, particolarmente rilevanti rispetto ad altri luoghi magari della Basilicata o dell’Umbria;
ii) persone anziane in una zona di “buona” Sanità ortodossa del nord Italia, ovvero magari vaccinati ad ottobre-novembre 2019 per l’influenza normale. Quindi presuntivamente indeboliti per 12 settimane dalla “lotta al virus influenzale moderato”. Che è l’essenza della vaccinazione delle influenze stagionali: ed in quelle 12 settimane arrivando il COVID-19 li ha trovati già indeboliti, e quindi sono morti;
iii) ritardo nelle informazioni sul coronavirus e quindi il via vai tra ospedali e centri per anziani, anche senza dispositivi di sicurezza infermieristica, per non intimorirli;
iv) una concentrazione notevole di industrie che si son rivolte magari alla politica locale per non chiudere subito la loro produzione padana – e qui ho una testimonianza/intervista che ho svolto ad un poliziotto di Nambro, ma nessuno me la ha voluta pubblicare, quanto era VERA;
v) …. le colonnine 5G già piazzate, tutte ancora da definire per quel che riguarda la tossicità “elettromagnetica” associata.
Installate quindi PRIMA di studi sufficienti per capire se le colonnine 5G abbassano le difese immunitarie dell’individuo umano ed a nulla valgono gli esperimenti su ratti, topi e criceti o campioni minimi umani pregressi.
Davvero Beppe Grillo sapeva del coronavirus? Pregasi smentire. E’ arrivato il coronavirus intorno a febbraio 2020 ? Ma davvero Beppe Grillo girava con mascherina già a metà dicembre 2019 ? Occorre smentire. E’ così, a questo punto non si sa in quale giorno, arrivò in Italia questo frammento di RNA, questa simil-onda elettromagnetica, questa simil-particella ondulatoria senza vita, quello che volete che sia, ma lei non vive se non in corpi DEBOLI, da infiammare o già infiammati. Quello che volete che sia, ma una cosa è sicura: il COVID-19 è una particella CHE FINALMENTE CI HA APERTO GLI OCCHI. Perché ci ha aperto gli occhi? Per i seguenti motivi fondamentali. Il coronavirus infatti:
1) Ci ha fatto riflettere sulla esistenza o meno di laboratori internazionali – costosissimi e pagati con i soldi dei cittadini, USA, cinesi o italiani che siano, che possono, ripeto possono, costruire virus artificiali letali mutanti, quindi non vaccinabili a quel punto. Qualora fosse vero sarebbe inevitabile una mega-multa alla Cina o addirittura una guerra tra USA e Cina. Se non fosse vero che il virus è artificiale, in ogni caso ora sappiamo che può essere vero.
2) Ci ha fatto riflettere sul fatto che la Cina, ovvero comunque il regime che ha preso il peggio del Comunismo ed il peggio del Capitalismo, non democratico all’oggi, ha portato alla prima fase di sviluppo del virus in omertà governativa su quanto accadeva – si pensi al famoso medico oftalmologo cinese coraggioso e poi morto di COVOD-19 presuntivamente. E quindi abbiamo tutti l’obbligo di chiudere da ora tutti i porti comunicanti con la Cina, per quel che riguarda tutto ciò che ha portato dalla delocalizzazione delle nostre produzioni. Ed impedire l’entrata continua di silos e container cinesi, fino a che le regole democratiche e giuslavoriste non siano un minimo rispettate anche in Cina. Questa lotta impari sul piano giuslavorista, ambientale, della verità scientifica e dei diritti umani ci sta portando a TUTTI nel baratro. I primi a ribellarsi dovrebbero essere i cinesi stessi. Chi ha testato il 5 G cinese? E lo stesso discorso vale per il 5G cinese, i cellulari cinesi e quanto altro. Tutto fermo fino a democrazia restaurata, compresi gli accordi sulla lotta ai cambiamenti climatici. Fine dei giochi.
3) Ci ha fatto riflettere sul fatto che boicottare una parte della scienza “scomoda”, tagliarle i fondi, chiuderle le pagine facebook o youtube, evitare gli editoriali sui grandi giornali, NON paga. Non va bene far parlare di più, nei grandi media, chi propone vaccini provenienti da filantropi miliardari in ENORME CONFLITTO DI INTERESSE. Servono invece cure vaccinali pubbliche gratuite, prodotte in grandi capannoni pubblici che diano lavoro a migliaia di italiani, laureati in medicina, biologia, biotecnologia, farmacologia, etc… Senza dover ricevere telefonate da oltreoceano verso dei nostri politicanti o veri politici che siano a secondo chi di turno.
4) Ci ha fatto riflettere sul fatto che sebbene il COVID-19 è un problema risolvibilissimo più con la pazienza che con il potere, la volontà di lucro e la voglia di visibilità tipicamente maschile, dei 1400 incarichi “COVID-19” in Italia, solo il 20% è stato assegnato a donne per questi incarichi e men che meno con ruoli apicali.
5) Ci ha fatto riflettere sul fatto che la suddetta plasmaforesi, sarà pur limitata per i casi che riesce a salvare se i donatori son pochi, ma non è una sperimentazione come detto in TV da un luminare di quelli accettati nella lista di Sistema, in quanto è invero una tecnica medicale in uso da molte decine di anni.
Coronavirus, il libro del Corriere che risponde alle domande dei cittadini. Pubblicato venerdì, 06 marzo 2020 su Corriere.it da Simona Ravizza. «Cinquanta domande sul coronavirus, gli esperti rispondono» nasce prima di tutto da un dibattito al Corriere della Sera: in un’epoca di informazione 24 ore su 24, in cui il Covid-19 ci viene raccontato in tempo reale con notizie di cronaca, decisioni delle autorità politiche e pareri degli scienziati, un volume può aggiungere qualcosa di utile per i lettori o rischia di nascere già vecchio? Siamo arrivati a una conclusione: proprio nell’era del bombardamento mediatico può essere d’aiuto avere punti fermi. In un manuale di pronta consultazione. Non c’è la pretesa di fornire risposte inedite, ma c’è l’ambizione di farcele dare da autorevoli esperti per tracciare un quadro completo del fenomeno. Le sezioni del volume sono sette, ognuna per uno dei principali temi.
1. I mezzi pubblici sono pericolosi? Michele A. Riva, esperto di prevenzione e storico della Medicina all’Università Milano-Bicocca, parlandoci di prevenzione, spiega come le nostre azioni di tutti i giorni siano importanti per proteggere noi stessi ed evitare di contagiare gli altri: «In una grande città metropolitana, il tasso di trasmissione del virus è fino a sei volte maggiore tra coloro che utilizzano i mezzi pubblici. Meglio viaggiare al di fuori degli orari di punta».
2. Perché tra tutti quelli che contraggono il virus alcuni restano asintomatici e altri possono addirittura morire? Sergio Harari, direttore della Pneumologia e della Medicina interna dell’ospedale San Giuseppe di Milano, risponde a tutte le domande che abbiamo in testa sui sintomi del coronavirus: «Anziani, immunodepressi, portatori di malattie croniche cardio-vascolari o come il diabete hanno un rischio aumentato di sviluppare la malattia in forma severa. Ma si registrano casi di malattia anche grave in persone prima perfettamente sane, sportive, giovani. Le ragioni non sono ancora tutte note».
3. Chi guarisce può trasmettere il virus? L’infettivologo Raffaele Bruno dal suo reparto al Policlinico San Matteo di Pavia, dove è ricoverato tra gli altri il «paziente 1», si sofferma sulle cure: «Si ipotizza che siano necessari due test negativi per considerare eradicata l’infezione virale, ma vista la complessità e il costo delle indagini virologiche, il doppio controllo del tampone va valutato attentamente. Sembra pertanto preferibile considerare il soggetto ancora potenzialmente infettante e prolungare l’isolamento per un totale di 14 giorni dal test positivo».
4. I bambini possono uscire e giocare all’aperto? Gian Vincenzo Zuccotti, direttore del Dipartimento pediatrico dell’Ospedale dei Bambini V. Buzzi, si concentra sui bambini: «I bambini possono continuare a giocare all’aperto. È importante insegnare però che questo virus si trasmette con le goccioline di saliva, per cui ci si deve lavare frequentemente le mani».
5. Il blocco dei voli dalla Cina di fine gennaio è stata una misura utile? Giuseppe Remuzzi, direttore dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri di Milano e membro del Consiglio superiore di Sanità, ragiona su tutte le misure che stanno limitando le nostre attività quotidiane: «La chiusura dei voli dalla Cina di fine gennaio può aver ritardato di qualche giorno il diffondersi dell’epidemia, ma chi doveva tornare dalla Cina è tornato comunque attraverso altri scali senza essere stato sottoposto a ulteriori controlli. Sarebbe stato preferibile che si fosse creato un sistema di contenimento per chi arrivava da lì, come fatto in Francia, Germania, Inghilterra».
6. Come evolve il virus con il cambio delle temperature? Oltre a illustrarci la specificità del virus Covid-19, Alberto Mantovani, direttore scientifico dell’Irccs Humanitas, risponde a una curiosità: «Per il virus della comune influenza la situazione migliora con il cambio di stagione, sia perché le persone non si ritrovano più in ambienti chiusi, sia perché la popolazione che è stata esposta al virus ha prodotto una risposta immunitaria. Credo tuttavia che nessuno possa prevedere con certezza che cosa accadrà con questo nuovo coronavirus».
7. Perché il coronavirus è nato proprio in Cina dove, nel 2002, si era diffusa la Sars? Un po’ di storia per concludere, affidata ancora a Michele A. Riva: «La provenienza geograficamente comune dei due virus è probabilmente legata al fatto che in alcune zone della Cina è più comune la promiscuità tra animali e uomini. Animali selvatici spesso vengono venduti in mercati sovraffollati, dove è più facile che si verifichi il salto di specie da animale a uomo». la convinzione? Solo la conoscenza può essere un antidoto alla paura.
Dagonews il 16 aprile 2020 (dall’articolo di Ben Lowsen per thediplomat.com). Xi Jinping ha deliberatamente avvelenato il mondo? È il titolo di un articolo molto interessante di Ben Lowsen sul magazine online specializzato in cose asiatiche “The Diplomat” in cui l’autore accusa il regime comunista di aver nascosto volontariamente l’epidemia di Coronavirus per i propri interessi. In che senso? Semplice, il calcolo del presidente cinese è stato questo: se il Coronavirus avesse colpito solo Wuhan e la Cina, i nemici storici del regime avrebbero potuto avvantaggiarsi. Tanto vale non dire niente e aspettare che colpisca anche gli altri stati, e poi far partire la propaganda e sostenere che la repubblica popolare ha contenuto l’epidemia meglio degli altri. Terribile, vero? “Spesso attribuiamo un livello base di umanità anche ai leader più crudeli – scrive Lowsen – ma le azioni di Xi Jinping ci hanno costretto a ripensare questa ipotesi. Nonostante l’emergere del Sars-CoV-2 probabilmente non sia dovuto alle azioni della Cina, l’enfasi che il suo sistema autoritario ha messo nel nascondere le cattive notizie a riguardo ha dato probabilmente al virus un notevole vantaggio iniziale. Ma soprattutto, l’ossessione della Cina per la propaganda fa emergere seri interrogativi sulla sua mancanza di limiti morali”. Il Partito Comunista Cinese, in breve, a un certo punto, probabilmente a fine 2019, venne a conoscenza dell’epidemia. E cosa pensò bene di fare? Nasconderla, sperando che sparisse. “Le denunce del ‘South China Morning Post’ (giornale di Hong Kong, ndDago) e del Caixin hanno mostrato che le informazioni all’inizio della crisi sono uscite soltanto per il coraggio di alcuni singoli di fronte alla repressione del governo”. I cittadini di Wuhan hanno iniziato a impaurirsi a fine dicembre, costringendo di fatto Pechino a dire qualcosa. Le autorità grazie alla propaganda verso l’estero hanno perpetrato l’immagine di un paese resiliente che stava contenendo una malattia non trasmissibile. Ovviamente ora sappiamo che era tutto falso, probabilmente “si trattava addirittura di un progetto che serviva più ad alleviare disordini che a proteggere le persone”. “Il sindaco di Wuhan ha persino suggerito che il governo centrale gli ha impedito di rivelare dettagli sull'epidemia fino al 20 gennaio. Considerando i primi annunci pubblici emessi da Wuhan il 1 ° gennaio, possiamo supporre che Xi avesse già avuto un'idea del pericolo ben prima. Senza considerare che c’è una dimensione più oscura. Se pechino avesse cooperato di più, la malattia avrebbe colpito molto meno altri paesi, compresi quelli che la Cina vede come una minaccia alla sua esistenza (gli Stati Uniti)”. La questione posta dall’articolo di “the Diplomat” è terribile e “contraria alla decenza umana”: “Perché la Cina avrebbe dovuto subire gli effetti di una pandemia rischiando di vedere i propri nemici rafforzarsi su quella costosa esperienza”? in pratica Xi Jinping ha avuto davanti un’occasione perfetta: con un costo umano in patria “accettabile”, ha potuto applicare “il più grande programma di pulizia etnica al mondo”. Ha potuto ridurre ancora di più le libertà civili nel suo paese grazie a app di tracciamento e stato di polizia (ovviamente non vedeva l’ora). Il tutto con l’assenso dell’Oms, il cui presidente è notoriamente filo-cinese, e di una parte dell’opinione pubblica occidentale comprata a suon di via della seta e finti aiuti (le mascherine eccetera). “In breve, i buoni uffici della Cina sono stati riservati quasi interamente a pubblicizzare la sua immagine a spese del mondo, definendola ‘con la più grande gentilezza e buone azioni’. “Niente di tutto ciò può provare se o quando Xi abbia preso la deliberata decisione di nascondere informazioni per mettere in pericolo gli altri paesi a suo vantaggio. Tuttavia, come ammiratore della Cina, è con grande tristezza che devo ammettere che un tale stato - e il suo leader sempre più paranoico - potrebbe non aver fornito la sua piena cooperazione per arginare la peggior pandemia del secolo, il tutto per perseguire i propri interessi. Ciò potrebbe configurare una guerra biologica. Ma anche se non lo fosse, Xi dovrebbe essere portato a rendere conto degli altri suoi crimini contro l'umanità.
Jacopo Iacoboni per La Stampa.it il 16 aprile 2020. I servizi italiani sapevano del rischio di pandemia, e hanno taciuto? Come mai il Dis, il dipartimento per le informazioni e la sicurezza della Repubblica, non ha informato adeguatamente i parlamentari del rischio Coronavirus, negli highlights spediti a tutti i deputati e i senatori il 29 febbraio? Sono alcune delle domande più gravi contenute in un’interrogazione parlamentare appena depositata alla Camera il 14 aprile, subito dopo Pasqua, e di cui La Stampa è venuta a conoscenza. Il documento è firmato dal membro del Movimento 5 stelle in Commissione difesa alla Camera dei deputati, Alessandra Ermellino, e contiene una mole corposa di allegati, che secondo le deputata del Movimento l’hanno costretta a porre questa domanda: i servizi sapevano, e non sono stati tempestivi nel dare l’allarme sul Coronavirus, fosse anche solo per un errore di valutazione? L’interrogazione è rivolta al Giuseppe Conte e al ministro della Salute, e appare come una notevole spina nel fianco, in una fase delicata di nomine imminenti del presidente del Consiglio, che potrebbero riguardare anche uomini della nostra intelligence. Il testo chiede alcune cose. Uno, di sapere «come il presidente del Consiglio valuti la trasmissione ai parlamentari di una relazione [gli highlight della “Relazione” del Dis, inviati ai membri del Parlamento accompagnata da una lettera a firma del direttore del Dis Gennaro Vecchione il 29 febbraio 2020] priva di qualsivoglia riferimento al rischio pandemico, in quanto, a parere dell’interrogante, la stessa potrebbe costituire un valido supporto se contenesse delle valutazioni predittive. Al contrario il documento risulta all’interrogante tanto inutile quanto apparentemente provocatorio, e ci si chiede se ciò non sia dovuto a condotta negligente, imperita o colpevole». In sostanza, si chiede a Conte di fornire spiegazioni sull’operato di Vecchione. Due, Conte viene invitato a rispondere «se corrisponde al vero che l’intelligence americana aveva informato quella italiana». Tre, l’interrogazione domanda spiegazioni su un dettaglio che non tutti conoscono: «Le ragioni del mancato rilievo della notevole presenza di persone provenienti da Wuhan alla Fiera di Rimini proprio nei giorni della chiusura della medesima regione da parte del governo cinese». La Fiera di tenne a Rimini da 16 al 20 gennaio, con centinaia di buyer provenienti da Wuhan. Tra gli allegati del documento figurano due report importanti sul rischio-pandemia, prodotti entrambi nel settembre 2019 e – secondo la deputata – noti alla comunità dell’intelligence italiana. Il primo prodotto dal Global Preparedness Monitoring Board, il secondo dalla Johns Hopkins University. C’era poi stato, già il 9 gennaio, un documento del dottor Francesco Paolo Maraglino (direttore dell’Ufficio 5 – Prevenzione delle malattie trasmissibili e profilassi internazionale del Ministero della Salute), in cui erano chiaramente delineati i gravi pericoli dell’epidemia cinese. Nei giorni successivi – il 13, il 17, il 20 e il 23 gennaio – lo stesso dirigente pubblico aveva emesso altri aggiornamenti sul rischio epidemico, e sul fatto che fosse ormai fuori dai confini cinesi (Giappone e Corea del Sud). Dal 16 al 20 gennaio si tiene la Fiera di Rimini. «A quanto risulta all’interrogante – è scritto nell’interrogazione – nel padiglione B3 vi sono anche stand di Codogno e delle province di Bergamo e Brescia». Il 23 gennaio il governo cinese blocca ogni accesso a Wuhan. Il 27 gennaio il WHO diffonde le linee guida per la gestione dei voli civili e innalza ulteriormente il livello di allarme a causa dei timori di pandemia. Nella Relazione del Dis, e nella lettera di Vecchione ai parlamentari, si legge nell’interrogazione, «non vi è alcuna menzione alla grave pandemia in atto». Nonostante, sostiene Ermellino, un possibile allarme che sarebbe arrivato anche dall’intelligence. Il membro della Commissione difesa del M5S, pochi giorni fa, il 2 aprile, aveva già pubblicato sul suo sito una mail che aveva inoltrato a Vecchione: «Gentile Direttore, essendomi avvicinata per dovere istituzionale, in quanto membro della Commissione Difesa, ai temi di competenza dei sistemi informativi, ho inteso che ricevere un’informazione un’ora prima rispetto a riceverla un’ora dopo, o non riceverla affatto, sia dirimente in merito al mantenimento della carica che occupa il responsabile della formulazione e inoltro di suddetta informazione. Nel documento che ho ricevuto, e con me tutti i membri del Parlamento, non v’è infatti menzione di quanto sta accadendo e che, si presume, stia determinando la fine del mondo come da noi conosciuto». Dal Dis le era stato risposto che i servizi riferiscono al Copasir e al presidente del Consiglio. Il quale adesso ha questa altra risposta da fornire, stavolta da un membro della Commissione Difesa del Parlamento italiano.
EMERGENZE CORONAVIRUS, IL GRANDE BUGIARDO E I GRANDI BUGIARDI. Dalla Cina di Xi Jinping, a Trump a Putin: il coronavirus lo hanno sottovalutato un po’ tutti. Alberto Negri il 4 aprile 2020 su quotidianodelsud. Il Covid-19 è un grande bugiardo, di lui non ci ha detto ancora quel che ci serve sapere. Ma anche gli altri nel raccontare frottole non scherzano, dalla Cina di Xi Jinping, a Trump a Putin. Per questo dobbiamo essere assai prudenti con il virus: un’epidemia ne può nascondere un’altra. Vediamo cosa può accadere. Il coronavirus lo hanno sottovalutato un po’ tutti e nessuno può ancora dire di averlo sconfitto. Le autorità di Wuhan, epicentro dell’epidemia in Cina, hanno chiesto ieri ai residenti di restare a casa ed evitare spostamenti non indispensabili. Il timore è un rimbalzo dei contagi dopo la scoperta di nuovi casi nella provincia di Hubei. E questo a pochi giorni dall’8 aprile, la data stabilita per un graduale e agognato ritorno alla normalità. Il pericolo è rappresentato dai pazienti asintomatici, dai casi di persone guarite e dimesse poi risultate di nuovo positive al coronavirus e da nuovi contagi “importati” dall’estero. I cinesi non sono stati molto trasparenti, per dirla con un eufemismo. È possibile, per esempio, che il numero dei contagi e delle vittime sia stato sottostimato, come sostiene un rapporto della Cia che ha fatto molto rumore e al quale Pechino ha replicato indignata che gli americani sono “senza vergogna”. Pechino finora ha dichiarato circa 82 mila casi positivi e 3.300 decessi da quando il virus si è diffuso nella provincia dell’Hubei a fine 2019. Numeri di gran lunga inferiori a quelli di Italia, Spagna e Stati Uniti. Il presidente Trump ha messo in dubbio l’accuratezza dei dati ufficiali, pur affrettandosi a dire che i rapporti con il presidente Xi Jinping sono buoni e che gli aiuti cinesi sono benvenuti. Ma anche Trump quante fesserie ha detto? Ha sminuito per settimane la gravità della situazione dicendo agli americani «che è tutto sotto controllo» quando non lo era per niente e sostenendo poi che «i contagi stavano scendendo quasi a zero» mentre in realtà stavano aumentando in maniera impressionante. Ha persino proposto di usare farmaci dalla dubbia se non nulla efficacia: adesso pare che finalmente stia ascoltando i consigli di Anthony Fauci, il capo dell’Istituto nazionale per le epidemie. Ma anche Putin non scherza: in Russia, dopo la chiusura, si sono registrati improvvisamente migliaia di contagi ma non si capisce se a Mosca si fa più la lotta al Covid-19 oppure quella all’informazione sul virus. Ma il più grande bugiardo di tutti è proprio il coronavirus. Lo conosciamo poco. Tenendo conto che dobbiamo trovare ancora il vaccino, che non sappiamo nulla della “stagionalità” del virus, ovvero se calerà d’estate e crescerà d’inverno _ come accade di solito _ e che non conosciamo, per ora, neppure la durata dell’immunità, cioè per quanto tempo resta protetto chi è guarito dal contagio. Insomma si devono trovare gli anticorpi che danno l’immunità e come impedire i contagi e la sua diffusione. L’unica certezza è che probabilmente sarà una malattia lenta e lunga. È interessante quanto scrive Ed Yong, l’editor scientifico di “The Atlantic” che in Italia ha anche pubblicato un libro su come i microbi cambiano la nostra vita. Yong anticipa quello che sta accadendo in queste ore in Cina: finché il virus resterà in circolazione c’è la possibilità che si possa riaccendere la scintilla dell’epidemia anche in Paesi che sembrava l’avessero debellata o messa sotto controllo. Insomma la recidiva o ricaduta dell’epidemia è un pericolo concreto. La partita, dice Yong, potrebbe finire in tre modi.
1) Tutti i Paesi riescono quasi in contemporanea a debellare il virus come avvenne con la Sars nel 2003. Scenario assai ipotetico: le probabilità che tutto il mondo riesca a controllare la pandemia simultaneamente è minima.
2) Nel secondo scenario il virus, come altre influenze, passa come una furia e si lascia alle spalle abbastanza sopravvissuti immuni. È la cosiddetta “immunità di gregge” ma il Covid-19 è molto più letale di una semplice influenza e potrebbe fare milioni di morti seppellendo i sistemi sanitari mondiali sotto le macerie.
3) Il terzo scenario di Yong è quello di tenere a freno l’epidemia con misure di chiusura della vita sociale fino a quando non si trova un vaccino che con ogni probabilità potrebbe arrivare non prima di 12-18 mesi.
In ogni caso, anche trovato il vaccino, la faccenda si fa lunga. Bisogna fabbricarlo, spedirlo, somministralo. E per un annetto almeno dovremo comunque convivere con il virus. In poche parole dovremo abituarci a una riapertura molto graduale dei luoghi pubblici ed essere preparati per diverso tempo a mantenere il distanziamento sociale. Di certo sappiamo solo una cosa: le nostre preoccupazioni, le nostre conversazioni, la nostra stessa forma mentale e politica saranno condizionate nel prossimo futuro dal virus. Ma se pensiamo di averlo sconfitto ci sbagliamo: dietro a un’epidemia se ne nasconde sempre un’altra. Questo sì forse lo abbiamo intuito.
Dagospia il 31 marzo 2020. Da “la Zanzara - Radio 24”. “Io complottista? Ah, sicuro. Ascoltatemi molto bene. Non credo che sia una situazione normale. Noi siamo in un assetto di guerra, non è mai successo. Perché la Gismondo dell’ospedale Sacco dice che non si può escludere un innesto dell’Hiv sul virus? Cioè, sai che cosa fanno? Su un virus, che è un virus naturale, loro lo potenziano, indebolendo l’ospite. Se tu ci infili dentro una proteina che ti attacca e ti indebolisce il sistema immunitario...”. Ci faccia capire, secondo lei è stata creata un’arma biologica?: “Sì. Perché in Italia sono venuti i russi che sono specializzati nelle armi biologiche? C’è stata una manipolazione da parte dell’uomo, una cosa così non è possibile”. Ma chi avrebbe manipolato il virus?: “Ah, io mi meraviglio di voi. Se uno solo sospetta che possa essere stato un virus manipolato, diventa uno stronzo, un terrorista, un complottista...Ma ci vogliamo interrogare per quale motivo siamo tutti in un assetto di guerra? E’ vero o no che a Wuhan c’è un enorme laboratorio di virologia, ed il medico che lo dirigeva è morto nel 2018? Questo virus è un’arma biologica di sterminio di massa. Questo è quello che penso. Uscito da un laboratorio. E sai cosa penso pure? Che tutti i pazienti che devono portare in Germania, li stanno studiando. Perché sono venuti i medici cinesi? Perché ci vogliono dare una mano? No, perché vogliono vedere sul campo questo bel virus che hanno creato”. Ma davvero secondo te hanno portato i pazienti in Germania per vedere che reazioni ha avuto il virus?: “Perché no? Questo virus è della famiglia dei coronavirus e va bene. Impegna le vie aeree superiori. Giusto? Questo virus, che non ci credo proprio dei pipistrelli, crea una polmonite atipica che non puoi curare. Allora perché stanno mettendo in mezzo il virus dell’Hiv ed i farmaci anti Hiv? Perché lo hanno modificato. Io medico? Medico o non medico, perché voi non vi fate una domanda? Se fossi un giornalista, una domanda me la farei. Ma perché, non ci sono gli esperimenti sui virus? Perché, non sono mai stati fatti? Queste sono armi biologiche”. L’hanno fatto per guadagnarci?: “Ah certo, è un’arma. Certamente questo si. Dico solo che questo virus così anomalo che ci costringe a casa in uno stato di guerra, non mi convince, no”. Il governo Conte ha agito bene?: “Io non sono certo a favore del governo Conte, però ci siamo trovati nel momento più grave che possa esserci nella storia. Questo è come se non peggio di un conflitto mondiale. Quindi secondo me il governo sta facendo quello che può. Non mi sento di criticare assolutamente. L’unica cosa che mi sento di criticare, è che vorrei mandare a cagare l’Europa, questo si. L’Unione Europea andasse a cagare. Questo si. E’ possibile che manchino le mascherine? Ma prendiamo la palla al balzo e usciamocene in questo momento. Ma che ce frega. Lasciamo la Germania con l’Unione Europea...tanto adesso che vantaggio hai? Ci stanno aiutando con cosa? Non ci sono aiuti. Addirittura si rubano le mascherine alla dogana. Ma fatemi il favore. L’Unione Europea è morta con il coronavirus. Defunta in questo momento. Cogliamo la palla al balzo per cambiare le regole e fare come cacchio ci pare. Poi quand’è finita l’emergenza, ci si vede, miei cari”. Poi torna sul virus: Andiamo a vedere perché sono morti i medici che non possono parlare. Vediamo quello che è successo a Wuhan nel laboratorio militare e perché vengono i medici cinesi a studiare. La Cina sa. La Cina dovrebbe dire quello che sa. Dobbiamo metterli in croce per sapere quello che è successo”.
Maria Giovanna Maglie contro il governo: "Menzogna di Stato sui tamponi, chi pagherà?" Libero Quotidiano l'1 aprile 2020. Balle, menzogne, bugie. Di Stato. In giorni di coronavirus. Che il governo più di una volta non ce l'abbia raccontata giusta è un sospetto che coltivano in molti: curve, contagi, mascherine, medici "eroi" però mandati allo sbaraglio. Tanti i punti che, una volta finita l'emergenza, dovranno essere chiariti. E a puntare il dito contro le autorità ci pensano sia Antonio Socci sia Maria Giovanna Maglie, in una sorta di attacco incrociato su Twitter. Ad aprire il fuoco è Socci, il quale cinguetta: "Siccome non erano capaci di procurare le mascherine, ci dicevano che non servivano alla gente comune. Di questa splendida informazione sanitaria firmata dal governo chi risponde?", si interrogava rilanciando un depliant in cui il ministero della Salute informava sulle circostanze in cui era necessario indossare la mascherina. Un tweet, quello di Socci, ripreso e rilanciato da Maria Giovanna Maglie. Che punta il dito contro il secondo presunto fronte della menzogna, quello relativo ai tamponi. "E siccome non hanno tamponi ci dicono che i test agli asintomatici non servono. Quante bugie di Stato! Qualcuno pagherà?", si interroga. Domanda tutt'altro che peregrina, se si pensa per esempio a quanto fatto da Luca Zaia in Veneto, con tamponi a tappeto ed asintomatici compresi.
Coronavirus, lo sfogo duro della Gismondo "Il test Event a cosa è servito?" La virologa chiede perché non siano state seguite le indicazioni riportate nei documenti stilati dopo le esercitazioni per le emergenze come quella del 2019 che simulava una pandemia da coronavirus. Gabriele Laganà, Venerdì 27/03/2020 su Il Giornale. La direttrice del laboratorio di microbiologia dell’ospedale "Sacco" di Milano, Maria Rita Gismondo, sembra non avere più dubbi. Dopo le prime affermazioni sul coronavirus, che considerava essere una infezione poco più forte di una influenza, ora pare aver cambiato posizione. Già nei giorni scorsi, a seguito della lettera di diffida legale inviatale dal Patto trasversale per la scienza per le due dichiarazioni in merito alla malattia, la virologa aveva provato a difendersi affermando che anche altri colleghi avevano sostenuto una tesi simile. "Se chiedono a me di fare un passo indietro sulle mie dichiarazioni, devono farlo anche per quelle del virologo Pregliasco, di Ilaria Capua e del direttore dell'Oms. Non devo dimostrare nulla perché quello che ho detto è pubblicato ovunque. La Capua, ad esempio, ha detto che questo virus diventerà come un raffreddore". La stessa Gismondo aveva anche affermato di aver espresso un proprio parere, spiegando che Covid-19 è un virus ancora sconosciuto che potrebbe rivelarsi positivo o negativo. Ora, in una lettera al Fatto Quotidiano, invita tutti a far tesoro di quanto sta accadendo in questo drammatico periodo. Questa terribile esperienza, per la virologa, deve servire per prepararsi a quanto potrebbe accadere in un prossimo futuro."Passata la pandemia Covid-19 comincerà il countdown verso la prossima pandemia. Se tutto andrà bene avremo otto, dieci anni di tregua: impieghiamoli al meglio. Non è stato così dall’ultima pandemia (la suina del 2009)", ha scritto la Gismondo. La virologa ha anche spiegato che, proprio per prepararsi a scenari di emergenza sanitaria, in passato ci sono state diversi "addestramenti": "Event 201 è l’ultima di quattro esercitazioni relative a uno scenario di pandemia. La prima, Dark Winter, si era svolta nel giugno 2001 (dopo l’allerta antrace); Atlantic Storm nel 2005 (dopo la Sars); e Clede X nel maggio 2018. Event 201 si è tenuta il 18 ottobre 2019 a New York (sic!) con una pandemia da coronavirus simulata". Tralasciando la casualità tra l’ultima esercitazione e la pandemia appena iniziata, la Gismondo si dice stupita che nei documenti redatti dopo il lavoro siano state sempre comprese alcune raccomandazioni da tener presenti per prepararsi ad una emergenza sanitaria. Fra queste vi è l’invito rivolto a tutte le nazioni di mantenere un adeguato stock pile, o scorta essenziale, che include i Ppi, le protezioni individuali come guanti, mascherine e camici monouso e i farmaci tra cui antidoti, antibiotici e vaccini. Inoltre, nello stesso documento si invitano i Paesi ad avere un piano di riconversione sanitaria che permette un rapido utilizzo dei posti letto in base all’emergenza. "Se queste esercitazioni non fossero rimaste documenti sulle scrivanie dei burocrati del mondo, non saremmo qui a elemosinare materiale necessario tra uno Stato e l’altro. Non avremmo decine di tavoli tecnici che si inventano (adesso) come organizzare l’emergenza sanitaria", ha scritto la virologa che, infine, ha aggiunto come l'emergenza sanitaria legata al coronavirus "che stiamo vivendo, fra le possibili pandemie ipotizzate, non è certo la più grave. Impareremo la lezione? Dobbiamo!".
La virologa Gismondo: "Ecco cosa accade in rianimazione". La responsabile del laboratorio del Sacco: "Questa è un'infezione che fa ammalare il 10% degli infettati". Ma precisa: "Non voglio sminuirne la gravità". Francesca Bernasconi, Giovedì 19/03/2020 su Il Giornale. "Non c'è solo il Covid-19". È questo il titolo che introduce i pensieri della virologa, responsabile del laboratorio dell'ospedale Sacco di Milano, Maria Rita Gismondo, che riflette sulla pandemia da coronavirus, con un articolo apparso sulle colonne del Fatto Quotidiano. Lo scorso 20 febbraio, l'Italia è piombata nell'incubo coronavirus: quella sera, il pazente 1, è risultato positivo al Covid-19. E, da quel momento, scrive Gismondo "è come se, approfittando del sonno di Ulisse, avessimo aperto l' otre regalatagli da Eolo. Giorno dopo giorno è scomparso tutto: la fame nel mondo, i bambini siriani, attentati, infarti, ictus, femminicidi". Tutto, secondo la virologa sarebbe stato trasformato nella malattia causata dal Covd-19. "Se hai il mal di testa, pensi al tampone. Se incontri qualcuno, pensi che ti stia contagiando", scrive. Poi, la Gismondo riferisce di un incontro con un rianimatore, "di quelli che si sporcano le mani giorno e notte infilando tubi in pazienti rantolanti", che le avrebbe confermato la numerosa presenza di pazienti in arrivo nelle sale di rianimazione: "E ne muoiono", ha detto alla virologa, specificando che si tratta soprattutto di persone anziane, con altre patologie più gravi. Gli altri, invece, solitamente guariscono. "Il vero problema di queste polmoniti rispetto a quelle causate da altre complicanze- avrebbe sottolineato il rianimatore- è che i pazienti restano in rianimazione per settimane". Ma allora, riflette la virologa del Sacco, "la vera crisi è quella del sistema sanitario". E riferisce: "Prese le dovute cautele per contenere il contagio, questa è un'infezione che fa ammalare il 10% degli infettati e provoca la morte soprattutto come fattore “opportunista”, non come causa primaria". Una conclusione cui l'esperta è arrivata tramite l'osservazione di numeri e condizioni: "Nessun tentativo di sminuirne la gravità", quindi.
Coronavirus, quanto può durare l'allarme contagio. Il parere di Filippo Facci. Filippo Facci su Libero Quotidiano il 07 marzo 2020. Dobbiamo rassegnarci alle poche verità disponibili. C' è troppa informazione e poi tutti hanno un cugino, un medico o un farmacista che ha confidato delle verità indicibili: lasciate perdere. Questa cosa del coronavirus durerà ancora diversi mesi e bisogna mettersi in testa che il contrario è impossibile: non ci saranno colpi di scena positivi, ma solo scenari che in buona parte sono prevedibili rispetto ad altri che non sono prevedibili da nessuno. Le poche cose prevedibili sono le seguenti. In generale: questa è la prima epidemia del mondo globalizzato laddove la velocità della comunicazione è superiore persino a quella dei virus, e questo ha conseguenze, perché la paura si è rivelato il più potente aggregante della nostra epoca. Parliamo di un virus molto contagioso, persistente, ma con un tasso di mortalità basso. Su questo e altro, gli unici dati seri sono quelli dell' Istituto superiore della sanità legato al ministero, che comunica i casi confermati da un doppio esame; molte Regioni non hanno atteso la convalida del ministero e hanno fatto casino, oppure, nel caso della Lombardia, il protocollo sanitario regionale e quello del governo sono diversi tra loro. In secondo luogo: il virus non si può fermare. Non si può farlo perché è appunto molto contagioso (essendo nuovo: ma non «nuovo» in un modo suo specifico, nuovo come lo è qualsiasi altro virus nuovo, che non c' era) e questo in un mondo che è collegato come non lo era mai stato. Neppure in Cina sono ancora riusciti davvero a «contenere» il virus: e lì ci sono condizioni per poterlo fare che da noi sono impensabili. Contenere non significa bloccare, ma governarne la crescita e, un giorno, una decrescita che i mesi caldi - da noi - potrebbero favorire. A ogni modo, con certezza, la fase più pericolosa non terminerà prima di fine giugno. È assolutamente possibile che metà e oltre della popolazione mondiale si prenda prima o poi il coronavirus, o meglio, ripetiamolo: prenda "un" coronavirus, che nonostante i distinguo resta un tipo di influenza. "Questo" coronavirus si chiama Covid 19 e resterà in circolazione per anni (come altri coronavirus già noti) ma per la maggior parte di noi, alla fine, equivarrà a una febbre o a un raffreddore, anche perché frattanto svilupperemo degli anticorpi (o arriverà un vaccino) e magari ci beccheremo questo coronavirus senza nemmeno sapere di averlo avuto. Di vaccini ora è inutile occuparsi: ce ne sono più di dieci allo studio, ma la sperimentazione è lunga e comincerà da primavera. Quello che si sta cercando di fare è appunto "contenere" il virus, nel senso di rallentare un' ascesa che ci sarà lo stesso. Rallentarla significa spalmarla nel tempo, in modo che un picco improvviso non fermi l' economia di un Paese e di un Pianeta, altrimenti nulla funzionerebbe più. Pensate alla questione dei posti in ospedale per quanti avessero bisogno di una terapia intensiva, visto che questo virus colpisce soprattutto le vie respiratorie. Quando leggete di «rallentamento» significa solo che a Wuhan, per esempio, è stato contenuto, e cioè rallentato, l' aumento rapidissimo che c' era, ma che ci sarà comunque. Si tratta di riportare le epidemie locali sotto controllo. Si parla perciò di «contenimento» (mitigazione, distanziamento) al fine di ridurre velocità di trasmissione e le relative emergenze pratiche.
L' incubazione del virus varia da 1 a 14 giorni, con una mediana di 5-6 giorni, ma può raggiungere anche i 24 giorni. Questo risulta. Il tempo che passa tra l' inizio della malattia e il ricovero in ospedale (quindi il tempo necessario perché la malattia diventi grave) varia dai 9 ai 12,5 giorni: è in questo periodo di tempo che si interviene clinicamente. Che poi sono terapie simili a quelle che si fanno per le polmoniti virali: supporto e integrazione di ossigeno I tassi di mortalità sono bassi, ma non ancora stabiliti con precisione: ed è normale, perché un calcolo esatto si potrebbe avere solo a epidemia finita. Si va dall' uno al 3 per cento, anche se non mancano studi più pessimisti. Ma, nella sostanza, non è in discussione la progressione: un bambino da 0 a 10 anni ha zero probabilità di morire, dai 10 ai 30 anni si sale allo 0,2 e dintorni, i tassi peggiori (dall' 8 al 14) riguardano le persone dai 60 ai 90 anni, gli anziani, come in tutte le influenze del mondo. Come detto, il vero problema è nella necessità di ricoveri in terapia intensiva o in rianimazione: devono esserci posti a sufficienza. Tra le varie complicazioni c' è lo stabilire quante persone sono morte per cause diverse dal coronavirus, oppure con il coronavirus a dare solo un colpo di grazia a organismi ammalati d' altro: in Italia l' accertamento di morte è di competenza del medico legale e non dell' Istituto superiore di sanità, che eventualmente può dare un parere, ma non una conferma ufficiale. La faccenda è importante: nell' influenza «normale», per dire, le morti sono solo 300 dirette su 8.000 indirette. Ne consegue che la vera emergenza è evitare che una nazione si ammali tutta e contemporaneamente: non potrebbe curarsi e andrebbe in rovina economica. L' epidemia non si può fermare, ma si può tentare di «diluirla» nel tempo. Non è detto che la diluizione faccia calare le vittime, ma lo renderebbe un minimo più probabile (perché ci sarà tempo per sviluppare vaccini e anticorpi, come detto) e manterrà in vita l' economia pur tramortita, rallentata, ferita. È bastata una decina di giorni per mandare tutti nel panico economico e per preventivare danni a lungo termine. La comunicazione in questo senso è importantissima. Il «Milano riparte» è stato un atto irresponsabile, per esempio. Il governo le cazzate più grosse le ha già combinate soprattutto in termini di comunicazione, contribuendo alla diffusione del panico o dell' incertezza. In Italia abbiamo dato un nome a migliaia di casi di sindrome influenzale chiamandoli Covid19, in Germania e Francia invece hanno continuato a chiamarla influenza anche perché spesso le misure intraprese sono identiche. Le conseguenze della «sovradiagnosi» italiana (o sottodiagnosi estera) sono che da noi l' economia ha preso a traballare, e agli occhi dell' Europa siamo diventati degli untori. Conclusione: non c' è da contare i giorni prima che questa cosa finisca, altrimenti non ci passerà più. Aeroporti, stazioni e centri di aggregazione non torneranno riconoscibili da un giorno all' altro. Parecchi dovranno riprogrammare le vacanze. Forse qualcuno perderà il lavoro. Qualche locale chiuderà. Ci saranno dei licenziati. Forse qualcuno studierà da casa, perché le scuole sono i più grandi moltiplicatori di virus che esistano a danno dei genitori, spesso dei nonni, i più vulnerabili a qualsiasi virus del mondo. Ma la decisione di chiudere/riaprire le scuole è in mano ai politici (neppure i loro consulenti concordano) e quindi non c' è sicurezza neanche su questo. Per logica dovrebbero rimanere chiuse per parecchio ancora, ma la logica non è la specialità della casa.
D'Anna ritira le dimissioni da presidente dei biologi. Saviano: "Lui è la prova che certa scienza è dominata dalla politica". L'ex senatore ieri ha lasciato l'incarico all'ordine. Oggi ci ripensa. Lo scrittore attacca: "Offriva pacchetti di voti in stile feudale". Nelle ultime settimane si era fatto notare per dichiarazioni controverse sul coronavirus. La Repubblica il 15 marzo 2020. Contrordine. Vincenzo D'Anna - presidente dell'Ordine dei biologi, nonché ex senatore di Forza Italia e di Ala - si è dimesso, ieri, dopo una serie di dichiarazioni controverse sul coronavirus. Oggi però ci ha ripensato. Dice di averlo fatto dopo "petizioni plurime di colleghi biologi". D'Anna però è noto anche per mosse discusse nella carriera politica. Ed è soprattutto a questo che fa riferimento Roberto Saviano in un post su Fb in cui attacca: "Che una tal figura sia stata Presidente dell'ordine dei biologi genera disgusto. Dimostra lo stato in cui versa certa scienza nel nostro Paese, dominata più dal gioco politico che dal talento e dalle competenze". E ricorda: "D'Anna ha una lunga carriera politica da democristiano, entra poi in Forza Italia come fedelissimo di Nicola Cosentino". Ma ci sono altre "uscite" su cui Saviano sceglie di tornare: "Di lui rimarranno orride boutade, come quando disse: 'La donna porta con sé l'idea del corpo, l'idea della preda'. Offriva pubblicamente - in perfetto stile feudale - pacchetti di voti come se vendesse foglie di tabacco: 'Posso offrire almeno centomila voti al PD'". Un post, quello di Saviano, scritto prima della clamorosa retromarcia. Nell'iniziale lettera di dimissioni - indirizzata al consiglio direttivo dell'ordine dei biologi - D'Anna parlava di "divergenze sulla linea politica dell'ente". Ma a inizio marzo aveva pubblicato sulla sua pagina Fb un testo che fece molto scalpore. Aveva scritto, tra l'altro: "Ecco arrivare il colpo di teatro. Nella civilissima ed efficientissima Lodi, proprio lì, nel cuore della terra del condottiero padano, si materializza, a sorpresa, il primo caso italiano d’infezione da Covid-19! Un secondo caso compare poi in Veneto ed un altro ancora a Torino. Insomma: tutti nel profondo Nord, altro che untori africani!! Una sorta di “paradosso virale” che sembra quasi accanirsi con le regioni identitarie della Lega". Aveva accreditato l'ipotesi di un virus domestico "esistente nelle terre ultraconcimate con fanghi industriali del Nord". E l'aveva declassato a poco più che un'influenza. Abbastanza per dimettersi? Evidentemente no, dal punto di vista di D'Anna.
· Sintomi. Ecco come capire se si è infetti.
Coronavirus, tutti i giochi di prestigio con cui beffa il sistema immunitario. Elena Dusi su La Repubblica il 5 novembre 2020. Non c'è solo la tempesta citochinica, che fa attivare in modo sproporzionato le nostre difese e causa molti dei danni ai polmoni. Sars-Cov2 riesce a sabotare le armi e la centrale energetica dei monociti, ha scoperto un gruppo dell'università di Modena guidato da Andrea Cossarizza. Che per la salute del sistema immunitario raccomanda: "Peso forma e poco stress". E’ una guerra di astuzia, quella fra il coronavirus e il nostro sistema immunitario. Una battaglia fatta di inganni e depistaggi, in cui spesso l’organismo soccombe a causa del fuoco amico. Accade quando il sistema immunitario alza talmente la temperatura del combattimento da ingolfare il campo di battaglia – i polmoni – con i frantumi della sua artiglieria. Il meccanismo – la cosiddetta tempesta delle citochine – viene descritto oggi da un lungo articolo sul New Yorker (“How the coronavirus hacks the immune system”: come il coronavirus prende il controllo del sistema immunitario) che ripercorre il lungo braccio di ferro fra i parassiti e i loro ospiti nato con il sorgere della vita e destinato a proseguire ben oltre questa pandemia. Nessuno può negare, però, che Sars-Cov2 sia unico nel suo genere. Il suo non è un attacco diretto all’ospite. Le sue strategie sono multiple, si intrecciano lungo sentieri che confondono sia il sistema immunitario chiamato a rispondervi che i ricercatori chiamati a dipanarli. Il coronavirus inizia a sbaragliare le nostre difese partendo dalle prime linee, quei monociti che, spiega l’immunologo Andrea Cossarizza, “sono le cellule che scendono immediatamente in campo quando nel corpo arriva un nuovo patogeno”. Professore all’università di Modena e Reggio Emilia, Cossarizza ha pubblicato uno studio sulla rivista Embo Molecular Medicine con Lara Gibellini e Sara De Biasi. Descrive le strategie che il coronavirus usa non solo per prendere il controllo del nostro sistema immunitario, ma anche per seminare la confusione nelle sue file e disorientarne la strategia. “I monociti – spiega Cossarizza – nascono nel midollo, quando sono maturi passano nel sangue periferico, poi si trasformano in macrofagi, e dentro ai tessuti combattono i patogeni sia fagocitandoli, sia presentando i loro antigeni ai linfociti”. Questo è quel che avviene in situazioni standard. Ma l’attacco del coronavirus di normale ha assai poco. “Ai monociti, con il Covid, accade di tutto. Alcuni vengono rilasciati dal midollo nel sangue quando sono ancora immaturi, quindi incapaci di affrontare il virus. In altri abbiamo osservato la presenza di mitocondri difettosi, con parecchie alterazioni. Sono gli organelli che producono energia. Se non funzionano, i monociti restano subito spompati, diventano inattivi”. C’è poi un altro aspetto, legato al deficit dei mitocondri. Ed è l’impossibilità per i monociti di fabbricare i proiettili da lanciare contro i nemici. “Per uccidere i patogeni – spiega infatti Cossarizza – i monociti usano dei radicali liberi prodotti proprio dai mitocondri”. Immaturi, senza fiato e disarmati: i globuli bianchi, nei casi severi di Covid, hanno davvero poche chance di sconfiggere il coronavirus.
L'invecchiamento. Il legame fra depauperamento dei mitocondri e tempesta citochinica resta tutto da chiarire. Ma c’è un indizio che intriga la squadra dei ricercatori di Modena. “Sappiamo che esiste una teoria mitocondriale dell’invecchiamento” spiega Cossarizza. E’ l’ipotesi che lega la perdita di efficienza dei mitocondri al danno che colpisce i tessuti con il passare degli anni. “In un qualche modo ancora tutto da scoprire, potrebbe avere a che fare con il fatto che il Covid è più grave negli anziani”. Forse i mitocondri deboli della terza età rendono più difficoltosa la lotta contro il coronavirus per i monociti.
I contagi. Ma se così è, e se il virus circola attorno a noi minacciando di toccarci, c’è qualcosa che possiamo fare per mantenere in forma non solo i mitocondri, ma il sistema immunitario in generale? Non moltissimo: la genetica e lo stato di salute generale giocano un ruolo preponderante. Ma su alcuni dettagli possiamo lavorare. Cossarizza, che con il suo maestro Claudio Franceschi, esperto di invecchiamento dell’università di Bologna, ha messo a punto il concetto di inflammaging, ricorda il ruolo deleterio dell’infiammazione dei tessuti, una condizione che accelera l’invecchiamento. “Il tessuto adiposo è ricco di molecole che promuovono l’infiammazione. E non è probabilmente un caso che l’obesità sia uno dei fattori di rischio del Covid”. Un altro ruolo importante è quello della vitamina D. “Di cui in Italia c’è una deficienza diffusa. Si tratta di una sostanza preziosa per molti processi che avvengono dentro le cellule”. Infine, attrice centrale della nostra salute resta pur sempre la psiche, che in tempo di pandemia è messa a dura prova. “Stress e paura indeboliscono il sistema immunitario. Lo vediamo quando gli studenti universitari si presentano all’esame con un herpes alle labbra. L’abbiamo anche misurato alcuni anni fa studiando i bambini con disturbi dello spettro autistico. Volevamo capire se sono ripercussioni sull’efficienza del sistema immunitario. Come gruppo di controllo scegliemmo fratelli e sorelle. A sorpresa, trovammo che i ragazzi con questi problemi non presentavano particolari squilibri immunitari. Ad avere i parametri più alterati erano invece i loro familiari”.
Irma D'Aria per "repubblica.it" il 10 ottobre 2020. Febbre, tosse secca, vomito, diarrea. Prima del Sars-Cov-2, non avremmo avuto nessun dubbio nel fare un’ipotesi di diagnosi prima ancora di andare dal medico perché sono i classici sintomi dell’influenza che, secondo le stime, colpirà dai 4 agli 8 milioni di italiani che si ammaleranno anche a causa di uno dei 262 virus cugini dell’influenza che danno appunto sintomi simili, ma tendenzialmente più lievi. Ma ora con il Coronavirus che continua a farla da padrone, il dubbio è legittimo e distinguere se i sintomi siano quelli di una banale (ma pur sempre rischiosa) influenza oppure Covid non è affatto facile.
I sintomi dell’influenza. Nonostante i due virus siano diversi, i sintomi che caratterizzano l’influenza stagionale e il Covid-19 sono molto simili. “Per parlare di influenza stagionale che si distingue a sua volta dai sintomi para-influenzali - spiega il virologo Fabrizio Pregliasco, direttore sanitario Irccs Istituto Ortopedico Galeazzi - è necessario l’insorgere di tre sintomi tipici in concomitanza: insorgenza brusca della febbre oltre il 38°, presenza di almeno un sintomo sistemico come dolori muscolari o articolari e presenza di almeno un sintomo respiratorio come tosse, naso che cola, congestione e secrezione nasale, mal di gola”.
E quelli di Covid. Per quanto riguarda il Covid-19, la sintomatologia è molto simile: “C’è febbre sopra i 37.5°, tosse, mal di gola, raffreddore, difficoltà respiratorie - spiega Pregliasco - tuttavia il Covid-19 può portare anche a perdita improvvisa dell’olfatto (anosmia) o anche solo diminuzione (iposmia), perdita del gusto (ageusia) o anche alterazione (disgeusia), sintomi tipici e non legati all’influenza stagionale”.
Che fare con i bambini. Con le temperature in leggero calo, la frequentazione della scuola e degli ambienti legati alle attività sportive, è facile che un bambino o un adolescente abbia un raffreddore o un po’ di tosse. E’ il caso di allarmarsi? “Con la ripresa della scuola - spiega Rocco Russo, pediatra responsabile del tavolo tecnico sulle vaccinazioni della Società italiana di pediatria - i bambini passano più tempo in ambienti chiusi e quindi anche chi è allergico può facilmente presentare sintomi generici come starnuti o tosse. Se non c’è febbre non è il caso di allarmarsi, ma se invece sale anche la temperatura bisogna subito rivolgersi al pediatra”.
I primi virus para-influenzali. Già in questi giorni c'è in giro un primo virus para-influenzale con febbre alta solo per un giorno e diarrea: i genitori come possono capire di cosa si tratta visto che la diarrea nei bambini è elencato come sintomo Covid? “La dissenteria - avverte Russo - rientra sia nei sintomi del Covid che in quelli di alcune forme virali caratterizzati proprio da disturbi gastrointestinali, come il Rotavirus. Ecco perché, anche in caso di virus para-influenzali e sintomi che poi scompaiono anche il giorno dopo la loro comparsa, purtroppo non c’è modo di distinguere. Bisogna rassegnarsi perché sia il virus dell’influenza che il Coronavirus interessano le alte vie aeree e hanno una sintomatologia sovrapponibile”.
La diagnosi. Nel tentativo di cercare delle differenze, i Center for Disease Control e l’Oms concordano sul fatto che i tempi di incubazione tra i due virus sono diversi. Se, infatti, il tempo medio di comparsa dei sintomi con un virus influenzale va da uno a 4 giorni, per Sars-Cov-2 la media è di cinque giorni ma la finestra può allargarsi da 2 a 14 giorni. Ma non ci si può basare solo su questo e in caso di febbre non c’è verso: “Per distinguere in modo netto tra influenza e Coronavirus - conclude Pregliasco - serve il tampone”.
Tampone rischioso per i bambini? Anche per i bambini l’unica via è quella del tampone: “Poiché distinguere è molto difficile non solo per il genitore ma per lo stesso pediatra - prosegue Russo - l’unico strumento che ci permette di differenziare è il tampone. Il genitore ha l’obbligo di intercettare i sintomi e parlarne al pediatra, che metterà in atto i percorsi raccomandati dal Ministero della Salute per poter procedere”. In questi giorni online c'è chi ipotizza che il tampone possa essere rischioso per i bambini, per una eventuale rottura e conseguente inalazione o addirittura il rischio di lesioni alla mucosa nasale, orale e faringea. E’ davvero così? E da che età si può fare il tampone ai bambini? “Non c’è nessuna evidenza scientifica o casi riportati in letteratura che indichino un rischio concreto per i bambini - chiarisce il pediatra della Sip - il tampone è uno strumento di prevenzione importante che può essere fatto a qualsiasi età, anche nei neonati, e che quando viene effettuato secondo le procedure non crea nessun problema a parte un po’ di fastidio come avviene anche per gli adulti. Va fatto, perché serve a proteggere il bambino, sopportando il fastidio come si sopporta il piccolo dolore della puntura”.
Il vaccino per una diagnosi differenziale. Il "mantra" sulla necessità quest’anno di vaccinarsi tutti contro l’influenza si basa anche sul fatto che - oltre a proteggerci dal virus influenzale - può aiutare proprio ad evitare la confusione dei sintomi: “È importante quest’anno più che mai - dichiara Claudio Cricelli, presidente della Società Italiana di Medicina Generale e delle Cure Primarie - evitare di azzerare i sintomi dell’influenza e rischiare di ‘nascondere’ il vero quadro della situazione. Per questo è importante che le persone facciano il vaccino contro l’influenza”. Fortemente raccomandato anche ai bambini e non solo per favorire la diagnosi differenziale: “Soprattutto nei bambini a rischio con patologie croniche - dichiara il pediatra Russo - serve sia ad evitare la diffusione del virus influenzale sia a proteggerlo in caso di co-infezione dal rischio di un decorso più grave”.
Marta Musso per "repubblica.it" il 20 settembre 2020. È una conseguenza del coronavirus e più precisamente del lockdown. O meglio ancora dello stress causato dall'isolamento sociale. (…) molti di noi hanno riportato problematiche come l'usura dei denti e indolenzimento dei muscoli delle guance. Due sintomi riconducibili al bruxismo, disturbo in cui involontariamente si digrignano e sfregano i denti, stringendo con forza le mascelle. Tra le cause di questo disturbo ci sono sicuramente quelle di origine psicologica, come lo stress e l'ansia. Emozioni onnipresenti in molti di noi durante tutto il periodo del lockdown. (…)
Prevenire e curare il bruxismo. Molto spesso chi soffre di bruxismo non ne è consapevole, fino al momento della diagnosi. Ci sono, tuttavia, alcuni segnali da monitorare, che potrebbero rappresentare un campanello dall'allarme della comparsa della condizione, tra cui ma di testa, dolore all'orecchio, acufeni, disturbi del sonno e sensazione di affaticamento muscolare a livello delle guance. (…)
Da punto di vista terapeutico, sicuramente il bite può dare un contributo importante, così come le visite di controllo programmate, fondamentali per valutare l'andamento della condizione. “In specifici casi si ricorre all'utilizzo di farmaci analgesici, antiinfiammatori e miorilassanti”, aggiunge l'esperto. “Tutte le attività che portano a un miglioramento dello stato di tensione emotiva possono portare giovamento, come svolgere attività fisica, per esempio con il running, jogging, yoga, pilates, stretching generale o specifico per il distretto cervico-facciale, o anche sottoporsi a trattamenti osteopatici”, conclude Bobba.
Ilaria Floris per adnkronos.com il 14 settembre 2020. Individuare il Covid “semplicemente” sentendo la voce del paziente al telefono, attraverso il raffronto e l’analisi scientifica di ben 6370 parametri che permettono di scoprire sia l’esistenza della malattia che il suo livello di gravità. Sembra un’ipotesi avveniristica, ma è quanto assicura di poter fare il professor Giovanni Saggio, ricercatore e docente del Policlinico Tor Vergata di Roma che, ospite questo pomeriggio di ‘Italia Sì’, il contenitore di Rai1 condotto da Marco Liorni, ha parlato dei suoi studi sul test della voce per rilevare l’eventuale presenza, in un paziente, del Covid-19. Contattato dall’Adnkronos, il professor Saggio ha spiegato in cosa consiste il metodo, sul quale è al lavoro con il suo team ‘Voice Wise’ e che è già stato sperimentato con successo per altre malattie. "Abbiamo sottoposto 150 pazienti al test -dice il professore- e possiamo dire di avere una percentuale di accuratezza superiore al 90%". Ma come funziona esattamente? "E' l’estensione di un concetto che già conoscevamo -spiega- Ha presente quando il medico appoggia lo stetoscopio sulla schiena del paziente e gli fa dire 33? Il medico capisce subito che c’è qualcosa che non va. Oppure gli fa fare dei colpi di tosse e la giudica grassa, canina, secca, e dà una valutazione qualitativa di quello che sente. Ecco, noi diamo invece una valutazione quantitativa. Io associo dei numeri a quello che registro e, confrontando i parametri, riesco a capire se è presente la patologia e a quale stadio si trova". Semplificando, "registrando i campioni di voce dei malati di Covid e di quelli sani, abbiamo rilevato quali parametri differenziassero i due tipi e abbiamo lavorato sulle differenze". Che tutto ciò si possa fare solo con l’analisi della voce sembrerebbe fantascienza, eppure il professore assicura che non è così: "La voce è il risultato di tre fattori importanti: fisiologia della persona, la psicologia della persona e la patologia della stessa -spiega meglio- Queste tre caratteristiche danno caratteristiche diverse alla voce del paziente". In trasmissione, il professore ha spiegato a Marco Liorni di aver scoperto la presenza del Coronavirus in soggetti la cui positività non era stata rilevata neppure dal tampone. "E’ successo in due casi, la cui positività è stata poi confermata dal test sierologico", ha detto Saggio. Coadiuvato dal professor Marco Benazzo, primario del Policlinico San Matteo di Pavia, che ha partecipato alla sperimentazione effettuata a Tor Vergata: "Siamo rimasti molto meravigliati dell’accuratezza di questo test diagnostico", ha detto Benazzo. Uno studio che ancora non è presidio medico, ma che potrebbe aprire delle prospettive importanti anche se, come hanno sottolineato gli studiosi, "riguarda solo le persone con sintomi, che hanno un’alterazione della voce". L’ingegnere ha sottolineato che i risultati della sperimentazione del test della voce per l’individuazione del virus SARS-Cov-2 verranno pubblicati a breve su una rivista specializzata e riconosciuta a livello internazionale. "Sono particolarmente contento di essere tornato a Italia Si con risultati tangibili sulla ricerca che abbiamo portato avanti sul Coronavirus". E’ salito sul podio di Italia Si, su Rai1, nella prima puntata della nuova edizione l’ingegnere Giovanni Saggio, ricercatore e docente dell’Università di Roma. Ospitato da Marco Liorni, l’ingegnere sul podio di Italia Si ha parlato della sperimentazione del test della voce per rilevare l’eventuale presenza, in un paziente, del Covid-19. Trattasi di un test già sperimentato con successo per altre malattie, particolarmente importante nel caso del virus SARS-Cov-2, perchè in grado di rilevarne, appunto, la presenza in pazienti con sintomi molto simili a quelli della normale influenza stagionale e di altre infezioni respiratorie. “I medici assegnano ai pazienti un codice sul quale noi lavoriamo. Non conosciamo nome e cognome dei pazienti. Lavoriamo solo sulla voce: parole e frasi, ma anche tosse e respiro […] Abbiamo sottoposto 150 pazienti al test grazie al quale abbiamo scoperto la presenza del Coronavirus in soggetti la cui positività non era stata rilevata neppure dal tampone […] E’ successo in due casi, la cui positività è stata poi confermata dal test sierologico”. Intervenuto in collegamento, il Professor Marco Benazzo, primario del Policlinico San Matteo di Pavia, che ha partecipato alla sperimentazione effettuata a Tor Vergata, ha dichiarato: “Siamo rimasti molto meravigliati dell’accuratezza di questo test diagnostico”. Successivamente ha preso la parola il Professor Cauda, il quale ha sottolineato: “Il test apre delle prospettive importanti ma riguarda solo le persone con sintomi, che hanno un’alterazione della voce”. L’ingegnere Saggio ha quindi sottoposto Georgia Luzi, ospite di Marco Liorni presente in studio, ad una simulazione in diretta. “L’esito è negativo” ha annunciato pochi minuti più tardi, spiegando come interpretare il grafico elaborato al pc dal sistema sulla voce di Georgia Luzi. “C’è una base scientifica che afferma che questo sistema funziona” ha confermato successivamente. L’ingegnere ha sottolineato che i risultati della sperimentazione del test della voce per l’individuazione del virus SARS-Cov-2 verranno pubblicati a breve su una rivista specializzata e riconosciuta a livello internazionale. “Sono particolarmente contento di essere tornato a Italia Si con risultati tangibili sulla ricerca che abbiamo portato avanti sul Coronavirus” ha dichiarato inoltre, ringraziando Marco Liorni per l’ospitata.
Manila Alfano per "il Giornale" il 25 agosto 2020. Si scrutano segni sinistri e allarmi. Con una sola certezza: quando arriverà l'autunno sarà tutto peggio. Il covid non solo non avrà smesso di fare paura, ma ad aggiungere angoscia, arriveranno i sintomi dell'influenza. Uno starnuto, un colpo di tosse, la febbre. Tracce in comune, malattie diverse.
Già ma come fare a riconoscerle a livello domestico? Cosa deve mettere in allarme una mamma alle prese con un bambino febbricitante? La perdita dell'olfatto che può accompagnare il coronavirus è unica e diversa da quella vissuta da qualcuno con un «brutto» raffreddore. Lo dimostra una ricerca effettuata su 30 volontari da Carl Philpott dell'Università dell'East Anglia in Gran Bretagna. Le persone prese in esame erano così divise: 10 con Covid-19, 10 con un «brutto» raffreddore e 10 sane senza sintomi di raffreddore o influenza.
PERDITA DELL'OLFATTO. La perdita dell'olfatto era molto più profonda nelle persone con Covid-19, cioè erano meno in grado di identificare gli odori. Ma ci sono altri segnali che potrebbero mettere in allarme o al contrario sollevare. NASO LIBERO Di solito la perdita dell'olfatto è una perdita improvvisa e grave e non si accompagna a naso chiuso o naso che cola: la maggior parte delle persone colpite da coronavirus può ancora respirare liberamente. «Sembra che ci siano davvero caratteristiche specifiche che distinguono il coronavirus dagli altri virus respiratori. Questo è molto importante perché significa che i test dell'olfatto e del gusto potrebbero essere utilizzati per separare pazienti con Covid-19 e persone con un raffreddore o influenza normali».
PERDITA DEL GUSTO. Un altro segno caratteristico del Covid sembra essere, insieme alla perdita dell'olfatto, quella del gusto: anche in questo caso le differenze tra la «normale» perdita di gusto dovuta a congestione nasale e il sintomo del coronavirus paiono essere abbastanza marcate: in particolare, i pazienti affetti da coronavirus con perdita del gusto non sono davvero in grado di distinguere tra amaro o dolce. Gli esperti sospettano che questo sia dovuto al fatto che il virus pandemico colpisce le cellule nervose direttamente coinvolte con l'olfatto e la sensazione del gusto. «Chi sospetta un contagio potrebbe anche - continuano gli scienziati - fare da solo test dell'olfatto e del gusto a casa usando prodotti come caffè, aglio, arance o limoni e zucchero». I sensi dell'olfatto e del gusto ritornano normali entro poche settimane nella maggior parte delle persone che si riprendono dal coronavirus. INCUBAZIONE L'influenza ha meno giorni di incubazione e un intervallo seriale più breve, e quindi si trasmette più velocemente. Se l'intervallo del COVID-19 è di 5-6 giorni, quello dell'influenza è di 3.
TOSSE SECCA. A differenza delle influenze, la tosse, in caso di Coronavirus è secca e stizzosa e insistente. E sono in molti tra esperti e virologi a spingere per la vaccinazione anti-influenza, strumento chiave, spiegano, per contribuire nei prossimi mesi alla tenuta del Servizio sanitario nazionale alle prese con la pandemia di Covid. «La vaccinazione antinfluenzale, come pure quella anti-pneumococcica, dice l'infettivologo Matteo Bassetti, direttore della Clinica di Malattie infettive del San Martino di Genova, tra i sostenitori del vaccino, dovrebbe essere allargata anche a tutti i bambini e ragazzi che frequentano le scuole e l'università. Altrimenti «il rischio è che il prossimo autunno - avverte l'esperto - al primo colpo di tosse, alle prime 4 lineette di febbre, il sistema salta per aria». Eppure «il vaccino antinfluenzale lo fanno meno del 50% di quelli ai quali viene offerto gratuitamente e meno di un italiano su 5. Dobbiamo lavorare su questo», esorta lo specialista.
Covid-19, chi si ammala potrebbe perdere i capelli. Claudia Carucci su La Repubblica il 6 novembre 2020. Il fenomeno è temporaneo e reversibile. I consigli dell'esperta. Subdolo nemico della vita, della salute, della socialità, della prosperità, della serenità, della progettualità. E, a quanto pare, anche della nostra chioma. Il coronavirus, che da mesi devasta a più riprese e in mille ambiti le esistenze di tutti, quando non attacca in versione mortale l’apparato respiratorio delle persone, ma riesce comunque a raggiungerle, sceglie di colpirle in qualche altro modo. Toglie loro gusto e olfatto, fiacca i muscoli, sollecita emicranie e, in molti casi, incentiva la perdita dei capelli. “Più del 30% delle persone che contraggono l’infezione da Covid-19 riporta una copiosa caduta di capelli. Sul piano psicologico. questo aggrava le conseguenze del Coronavirus” spiega la professoressa Bianca Maria Piraccini, direttrice della Scuola di Specializzazione di Dermatologia e Venereologia dell’Università degli studi di Bologna. Insieme ad altri esperti, prende parte al 94esimo Congresso SIDeMaST (Società Italiana di Dermatologia medica, chirurgica, estetica e delle Malattie Sessualmente Trasmesse) articolato in versione digitale su tre giornate, dal 3 al 6 novembre. Otto sale virtuali e più di 330 relazioni e sessioni "on demand", consultabili anche a fine lavori. Numerose le patologie trattate durante la convention: da quelle croniche e tumorali a quelle lievi e temporanee, da qualche tempo e in qualche caso dovute alle conseguenze della pandemia da Coronavirus. Con la professoressa Piraccini vediamo dunque in che misura il virus può aggredire i nostri capelli e come affrontare la situazione nel caso in cui si verifichi il fenomeno della caduta in conseguenza al contagio.
In quale momento dall’inizio dell’emergenza è stato evidenziato questo effetto collaterale del virus?
"Dal mese di aprile in poi, tanti scienziati esperti di capelli di tutto il mondo hanno iniziato e visitare pazienti che riportavano la comparsa di una importante caduta di capelli, insorta dopo 1-3 mesi dall’infezione da COVID-19. Da allora la Dermatologia dell’Università di Bologna è capofila mondiale della raccolta dei casi di caduta di capelli post-COVID per studiarne prevalenza, cause, cure e evoluzione".
Chi sono i soggetti che possono incorrere in questa problematica? Uomini, donne, giovani, anziani?
"E’ difficile stimare una prevalenza esatta, perché i pazienti che cercano cure per la caduta dei capelli post-virale sono quelli più giovani e sani fra coloro che hanno contratto l’infezione. Gli anziani con diverse comorbidità non hanno probabilmente una simile percezione e gestione del problema dei capelli. Quindi visitiamo solitamente adulti (40-60 anni), di entrambi i sessi".
Di che tipo di "caduta" stiamo parlando? Ciocche, tutti i capelli, assottigliamento dei medesimi?
"La caduta di capelli post-COVID è un telogen effluvium acuto di notevole entità. E’ una caduta eccessiva di capelli che si nota al lavaggio, con la spazzolatura, e anche semplicemente passando la mano fra i capelli durante il giorno. Possono cadere fino a 200-300 capelli al giorno, con la radice telogen, quindi a fine ciclo di crescita. Quando la caduta è importante si associa anche una riduzione della chioma, con massa dei capelli ridotta e minore copertura della testa".
Il danno è reversibile?
"Si. La caduta dei capelli post-COVID si ferma lentamente nel tempo, con ricrescita completa dei capelli. Bisogna pero considerare 2 fattori: 1) i capelli crescono a una velocità di circa 1 cm al mese, per cui ci vogliono mesi per recuperare del tutto la massa globale della chioma. 2) nelle persone affette da diradamento dei capelli dovuto a alopecia androgenetica, o calvizie, che costituiscono circa il 50% della popolazione adulta di entrambi i sessi, la caduta dei capelli post-virale induce spesso aggravamento del diradamento dei capelli".
Accade a tutti coloro che sono stati contagiati?
"No. Di nuovo, è difficile una stima realistica di prevalenza perchè non stiamo seguendo a tappeto tutto i pazienti contagiati per monitorare nel tempo chi sviluppa la caduta dei capelli e chi no. Noi visitiamo solo i pazienti che notano il problema e cercano rimedio. Si stima comunque che la comparsa della caduta dei capelli dopo l’infezione interessi il 30-40% delle persone".
Quali rimedi nell’immediato?
"L’applicazione di corticosteroidi sul cuoio capelluto per un breve periodo (4-6 settimane) può essere utile come prima misura, per bloccare il rilascio di citochine infiammatorie che sono importanti mediatori chimici responsabili della caduta dei capelli. Sono utili anche integratori alimentari specifici per i capelli e lozioni cosmetiche che promuovono la ricrescita. Se il paziente soffre di calvizie, sarà il momento di iniziare o potenziare la cura farmacologica per questo problema".
Ma perché accade questo fenomeno?
"Esistono 2 forme di caduta di capelli post-COVID: la caduta “immediata” dei capelli, che si osserva durante la fase acuta dell’infezione, quando il paziente è positivo al virus e sintomatico. E’ la forma più rara, e attualmente si ritiene possa essere dovuta a una tossicità diretta del virus sui follicoli piliferi o sui vasi capillari del cuoio capelluto. La forma più frequente è una caduta di capelli “tardiva”, che compare dopo 2-3 mesi dall’infezione, quando il paziente sta bene e non associa la caduta acuta dei capelli al pregresso episodio infettivo. Le cause di questo telogen effluvium acuto sono diverse: la sofferenza sistemica dell’organismo durante l’infezione (febbre alta, ipossia), i farmaci assunti (eparina, antivirali), la perdita di peso e tante altre comorbidità legate al periodo infettivo".
Il sintomo può aiutare la scienza a comprendere meglio la natura e il comportamento del virus?
"Certamente. Come tutti i segni precoci e tardivi dell’infezione da COVID-19, anche la caduta dei capelli è un importante oggetto di studio per valutare la tossicità del virus e la reazione dei follicoli piliferi all’infezione e ai farmaci utilizzati per trattarla".
Melania Rizzoli per “Libero quotidiano” l'11 novembre 2020. La metà dei pazienti affetti dal Covid19 perde i capelli in grande quantità durante e dopo l' infezione virale. La perdita copiosa, fatta addirittura di intere ciocche, sul piano psicologico aggrava le conseguenze fisiche e morali già compromesse dal Coronavirus, ed anche se apparentemente si tratta solo di un aspetto estetico trascurato dai sanitari in confronto alla gravità della malattia, la scienza si sta focalizzando su questo effetto collaterale per capirne l' origine. Da mesi infatti sono moltissimi coloro che, una volta superata la positività del virus, continuano a lamentare un indebolimento e diradamento dei capelli, il quale, sommato al "telogen effluvium acuto", ovvero alla fisiologica perdita di 100-200 capelli al giorno, è in grado spesso di modificare l' aspetto esteriore di uomini e donne convalescenti dalla patologia del secolo. Nei primi mesi concitati di lotta all' epidemia, questo fenomeno veniva dai medici attribuito sommariamente alla tipica caduta di capelli che si verifica di norma dopo aver vissuto eventi traumatici, ma le segnalazioni arrivate da tutto il mondo hanno imposto di creare una task-force sanitaria impegnata a studiare questo ulteriore aspetto patologico della malattia in gran parte ancora misteriosa nei suoi effetti immediati e a distanza. Nel 90 per cento dei casi esaminati infatti, la caduta capillare si manifesta dopo due/tre mesi dalla negativizzazione del Tampone naso-faringeo e del Test sierologico, quando il paziente sta bene e non associa questo disturbo al pregresso episodio infettivo, mentre nel 10 per cento dei casi la perdita capillare è immediata, ovvero avviene durante la fase acuta della infezione virale, quando cioè il soggetto è positivo al virus e sintomatico. La causa di tale complicanza è stata attribuita in varie misure alla tossicità diretta del Covid sui follicoli piliferi e sui vasi capillari del cuoio capelluto, alla ipo-ossigenazione del sangue durante la malattia, all' allettamento, ai farmaci assunti (eparina, antivirali), alla perdita di peso, alla sofferenza sistemica dell' organismo durante la malattia (febbre alta, ipossia generalizzata), alle comorbilità durante il periodo infettivo ed al forte stress al quale in quei mesi è sottoposto l' organismo. Si tratta di una perdita di notevole entità, di 200-300 capelli al giorno, una caduta eccessiva che comprende l' intero fusto pilifero compreso il suo bulbo e la radice telogen, ed il paziente nota questo effetto la mattina al risveglio (capelli sul cuscino), al lavaggio, con la spazzolatura o anche semplicemente passando la mano tra la chioma durante il giorno, la quale si riduce in breve tempo di massa e di volume, con minore copertura della testa, diradata al punto da far intravedere chiaramente il cuoio capelluto. Fortunatamente il danno è reversibile, ed anche se la perdita di capelli post-Covid si ferma lentamente, a cui segue ricrescita completa, in genere ci vogliono diversi mesi per recuperare del tutto la massa globale della chioma, calcolando che i capelli ricrescono alla velocità di circa 1cm al mese. Se poi una persona è affetta geneticamente dal diradamento dei capelli, come avviene per esempio nei casi di alopecia androgenetica o in quelli di calvizie, la caduta post-virale induce spesso aggravamento del rinfoltimento della chioma che non tornerà più ai livelli precedenti alla patologia. Inoltre, la prevalenza accertata del solo 50 per cento della popolazione infetta affetta da perdita capillare, è probabilmente dovuta al fatto che a denunciare la caduta siano solo i pazienti più giovani e sani fra coloro che hanno contratto l' infezione, poiché gli anziani con diverse comorbilità non hanno probabilmente la percezione del problema, o non considerano importante questo fenomeno secondario, soprattutto se riescono a guarire ed salvarsi la vita. Certamente, tra tutti i sintomi precoci e tardivi della infezione da Covid19, anche la caduta dei capelli è un importante oggetto di studio scientifico per valutare la durata della tossicità di questo virus ancora per molti aspetti sconosciuto, tossicità che evidentemente agisce e persiste anche a tre mesi di distanza dalla risoluzione della acuzie virale, ma soprattutto lo studio approfondito della reazione dei follicoli piliferi all' impatto virale sarà utile per individuare i farmaci più adatti per trattarla, contrastarla e possibilmente risolverla.
"Quelle lesioni anche per i negativi" Così Covid "mangia" la pelle. "Il danno endoteliale indotto dal virus potrebbe essere il meccanismo chiave che causa queste lesioni", ha spiegato la dottoressa Colmenero. Federico Garau, Lunedì 06/07/2020 su Il Giornale. Esistevano ancora delle controversie nel mondo della medicina sull'ipotetico collegamento tra le cosiddette "Covid toes" (cioè "dita dei piedi da Covid") ed il Coronavirus stesso: ora questi dubbi si sarebbero dissolti grazie ai risultati di uno studio pubblicato nei giorni scorsi sul "British journal of dermatology" (leggi e scarica il documento). Le "Covid toes", che si manifestano in modo simile ai geloni con delle piaghe rosse o lesioni più frequenti nelle dita dei piedi che delle mani, si sono riscontrate spesso durante il periodo di maggior diffusione della pandemia di Coronavirus, in particolar modo tra bambini e giovani adulti. Fino a poco fa, tuttavia, era stato molto difficile creare un'associazione sicura tra il virus Sars Cov-2 e queste specifiche lesioni anche perchè, nella maggioranza dei casi, le persone che presentavano questa particolare patologia risultavano negative sia ai tamponi faringei che ai test sierologici necessari per rilevare la presenza del Coronavirus nel loro organismo. Lo scopo dei ricercatori, dunque, guidati dall'autrice principale dello studio, ovvero la dottoressa Isabel Colmenero dell'Ospedale Infantil Universitario Niño Jesús in Spagna, era quello di ricercare il virus anche nei tessuti. La ricerca è partita dall'analisi di biopsie cutanee condotte su sette pazienti pediatrici che avevano presentato questo genere di lesioni: l'immunoistochimica per la Sars Cov-2 è stata eseguita in tutti i casi, mentre la microscopia elettronica in uno solo. L'istopatologia ha rivelato dei gradi variabili di vasculite linfocitaria, che vanno dal gonfiore endoteliale fino alla necrosi fibrinoide e alla trombosi. Sono stati inoltre rilevati porpora, infiammazione linfocitaria perivascolare superficiale e profonda, edema e danno all'interfaccia vacuolare. L'immunoistochimica per Sars Cov-2 è risultata positiva nelle cellule endoteliali e nelle cellule epiteliali delle ghiandole sudoripare eccrine; inoltre, particelle appartenenti a Coronavirus sono state rilevate nel citoplasma delle cellule endoteliali grazie all'uso del microscopio elettronico. Nonostante che le caratteristiche cliniche ed istopatologiche siano risultate affini a quelle rilevate in altre tipologie di geloni, quindi, la presenza di particelle di Sars Cov-2 nell'endotelio e l'evidenza istologica del danno vascolare hanno spinto i ricercatori a stabilire un collegamento tra il virus e questa specifica patologia. "Il danno endoteliale indotto dal virus potrebbe essere il meccanismo chiave che causa queste lesioni", ha spiegato la dottoressa Colmenero, come riportato da AdnKronos. "Inoltre, il danno vascolare potrebbe anche spiegare alcune caratteristiche cliniche osservate in pazienti con Covid-19 grave".
Melania Rizzoli per “Libero quotidiano” il 12 maggio 2020. Tempi duri per gli allergici. Non potrebbe esserci momento peggiore per starnutire di continuo in pubblico in queste settimane nelle quali sussiste ancora l' epidemia da Coronavirus, per cui ogni starnuto è guardato con sospetto, percepito come un pericolo dal quale ci si allontana immediatamente, creando panico tra le persone vicine. Quest' anno infatti la primavera è esplosa con tale forza che nell' aria abbondano i "soffioni" di graminacee, cipressi, betulle e noccioli, ed i soggetti allergici, tra il 15 e il 20% degli italiani, iniziano a star male, a starnutire, a lacrimare abbondantemente e soprattutto a tossire. Molti dei primi sintomi del Covid19 sono simili se non sovrapponibili a quelli delle malattie allergiche, il che può creare fondati timori in coloro che li accusano, poiché è difficile distinguere i differenti segnali d' allarme ed ancora più difficile farsi un' autodiagnosi corretta, e la confusione aumenta poiché tutti hanno imparato che gli infetti del Corona variano molto le loro manifestazioni patologiche secondo la gravità e lo stadio della patologia virale.
Le antenne. Come capire allora se una persona è affetta da allergia primaverile oppure è portatrice dell'infezione virale? La principale differenza tra le due patologie è sicuramente la febbre, un sintomo esclusivamente infettivo e quasi costante nelle persone affette dalla virosi, febbre che invece è sempre assente nelle forme allergiche da pollini, un segnale, questo della temperatura corporea, molto importante per la diagnosi differenziale, anche se è bene ricordare che esistono portatori del virus del tutto asintomatici. Inoltre, mentre la congiuntivite e la tosse sono sintomi in comune tra le due malattie, nelle reazioni allergiche il raffreddore è notoriamente "acquoso", con secrezioni fluide e trasparenti (naso che cola), e le riniti allergiche sono facilmente distinguibili da quelle virali perché provocano starnuti solo "a salve", ovvero a raffiche, un sintomo più raro nei pazienti Covid. La congiuntivite, ovvero l' infiammazione delle cornee, compare spesso in ambedue le patologie, ma nelle forme allergiche la lacrimazione è profusa e bilaterale, ed il rossore degli occhi è spesso associato al gonfiore delle palpebre con formazione di crosticine fin sulle ciglia, specialmente al risveglio, insieme a prurito, irritazione e bruciore, con la sensazione di "sabbia negli occhi", una delle manifestazioni caratteristiche che non compaiono quasi mai durante il decorso della malattia virale. Il problema è che il 50% degli allergici sono anche asmatici, e l' asma bronchiale produce tra le sue multiple manifestazioni anche una tosse stizzosa e non produttiva che può indurre in errore e far pensare a quella secca dell' esordio sintomatologico della polmonite del Corona, soprattutto in quei pazienti allergici che non seguono le terapie specifiche con antistaminici e cortisonici nasali prescritte dagli allergologi, o le sospendono quando pensano di stare bene e non hanno evidenza di disturbi di sorta. Purtroppo solo una piccola percentuale di pazienti allergici segue correttamente queste direttive, e quindi in questo periodo di esposizione doppia, al Covid19 e agli allergeni stagionali, la confusione impera come la paura di essere contagiati e si avverte nella comunità scientifica la necessità di differenziare le due patologie e diagnosticarle in tempi brevi. I soggetti allergici ai pollini che avvertono tosse e raffreddore dovrebbero iniziare la terapia con antistaminici e cortisonici inalatori fin dall' inizio della sintomatologia al fine di ridurre i fastidi, che regrediscono in 4 o 5 giorni, mentre nelle forme infettive restano, per cui se nonostante la terapia i sintomi persistono si può pensare di essere in presenza di una forma lieve di Covid19 in fase iniziale ed è necessario essere valutati clinicamente.
Sistema immunitario. L'allergia é una condizione legata ad una risposta eccessiva del sistema immunitario al contatto con una sostanza esterna considerata dannosa (allergene) che nel caso delle riniti allergiche si identificano nelle pollinosi rilasciate dalle piante nel periodo riproduttivo primaverile, e quando i pollini entrano in contatto con le mucose degli occhi, naso e gola, nei soggetti predisposti avviene il rilascio di istamina con la comparsa dei caratteristici fastidi. Fortunatamente le persone allergiche sanno di esserlo e riconoscono fin dall' inizio i tipici sintomi premonitori, ma esistono anche allergici che lo diventano, poiché l' allergia ai pollini può anche manifestarsi per la prima volta in età adulta, per cui in queste settimane per chiunque accusi improvvisamente tosse, congiuntivite e raffreddore che fanno sospettare un' allergia respiratoria, è sempre consigliabile consultare un medico che potrà effettuare la diagnosi corretta. Il suggerimento più utile comunque resta quello di indossare sempre la mascherina, poiché questo semplice dispositivo oltre a proteggere dal contagio virale può ridurre anche l' inalazione dei pollini, che sono di dimensioni ben più grandi del virus, e quindi diminuire le fastidiose conseguenze, i dubbi diagnostici e le relative paure.
Adriana Bazzi per il “Corriere della Sera” il 3 maggio 2020. Il nuovo coronavirus, il Sars-CoV-2, è fra noi, lo sappiamo e ci dobbiamo convivere. Come possiamo capire se ci ha colpito? Quali sono i sintomi di contagio? Ci sono i tre classici sintomi di base: febbre, tosse secca e difficoltà di respiro. Che ci devono allarmare. Ma ce ne sono altri, come ci informano i Cdc di Atlanta, gli americani Centers for Disease Control and Prevention , che tengono sotto controllo la salute mondiale, con un occhio alle centinaia di studi che oggi vengono pubblicati in letteratura. Sarebbero almeno sei «nuovi» sintomi da prendere in considerazione. Eccoli: brividi, tremore persistente insieme ai brividi, dolori muscolari, mal di testa, mal di gola e perdita del gusto e dell' olfatto. I Cdc raccomandano di prendere in considerazione questi segnali nel tracciare le infezioni da Covid-19. Ma l' Organizzazione mondiale della Sanità non è proprio in linea con queste regole e ribadisce il fatto che i sintomi principali sono febbre, tosse secca e mancanza di respiro. Ma adesso ci arriva un altro suggerimento, proposto dai dermatologi. Il British Journal of Dermatology ci informa che anche la pelle è colpita dal coronavirus. Con cinque nuove manifestazioni cutanee da prendere in considerazione. La prima, più nota, interessa mani e piedi e si presenta sotto forma di «geloni», quelli che normalmente si manifestano dopo un' eccessiva esposizione al freddo. Si può ipotizzare che alla base di questi disturbi ci siano i danni provocati dal coronavirus sui vasi sanguigni, anche piccoli, che interferiscono con la circolazione del sangue. Poi c' è la comparsa di piccole vescicole sulla pelle, di lesioni pruriginose, di eruzioni maculo-papulari e di «necrosi», cioè di morte di cellule della pelle provocate dal fatto che il danno ai vasi sanguigni ha compromesso l' arrivo del sangue in queste zone.
Ma cosa si sta conoscendo in più di questo nuovo coronavirus? Sia sul piano clinico che su quello di laboratorio?
«Il coronavirus è un virus camaleontico - commenta il clinico Matteo Bassetti, direttore della Clinica di Malattie infettive all' Ospedale San Martino di Genova -. Colpisce molti organi. Il polmone innanzitutto, ma anche il rene, il cuore e le articolazioni. E la pelle, anche se queste manifestazioni non sono fra le più frequenti. Anche il virus dell' influenza fa gli stessi danni: al cervello (encefaliti), al cuore (miocarditi), al fegato (epatiti) e al rene». Adesso si sta descrivendo, nei bambini colpiti da Covid-19, una sindrome simile alla sindrome di Kawasaki: è una «super infiammazione» che colpisce i vasi sanguigni proprio dopo un' infezione. E che cosa si sta scoprendo su questo virus in laboratorio? I dati si accumulano giorno dopo giorno. «Abbiamo capito che questo virus non colpisce solo i polmoni - precisa Carlo Federico Perno, professore di Microbiologia all' Università di Milano e direttore della Medicina di laboratorio all'Ospedale Niguarda -. Provoca danni alla coagulazione del sangue e ai vasi sanguigni. Stiamo vedendo che questi virus stanno mutando e li stiamo studiando. In altre parole: i virus che sono presenti nel naso e nella gola non sono gli stessi che provocano la polmonite. Quindi le caratteristiche biologiche del virus hanno a che fare con l' evoluzione dell' infezione. Su questo stiamo focalizzando le nostre ricerche».
Da "ilmessaggero.it" l'8 maggio 2020. Il Coronavirus non smette di rivelare nuove preoccupanti manifestazioni: è stata evidenziata un'altra anomalia della sindrome causata dal Covid-19, è l'ipossia silenziosa, una condizione pericolosissima in cui i pazienti hanno tutti i segni clinici dell'ipossia (con lesioni polmonari gravissime, scarso ossigeno nel sangue e uno o più organi compromessi) ma nessun sintomo evidente della mancanza di aria. Questi pazienti, in genere giovani, arrivano in ospedale spesso molto tardi proprio perché non consapevoli del problema, se non dopo tanti giorni di malattia. È quanto ha raccontato Richard Levitan del Littleton Regional Healthcare nel New Hampshire alla CNN. Normalmente la sindrome covid, quando si aggrava, si associa a polmonite e gravi difficoltà respiratorie: il paziente in queste condizioni appare letargico, comatoso. Ma i clinici si sono accorti che per alcuni pazienti l'ipossia arriva silente: si tratta di soggetti - per lo più giovani - che iniziano a manifestare qualche difficoltà respiratoria solo quando ormai i loro polmoni sono già molto compromessi e quando l'ossigeno nel sangue è già bassissimo, con grave compromissione di altri organi. Eppure questi pazienti giungono in ospedale vigili, in grado di sostenere conversazioni, di usare lo smartphone, lamentando solo dolore quando respirano profondamente. In genere, spiega Levitan, hanno già la malattia da parecchi giorni ma la avvertivano solo con febbre e sintomi intestinali. L'ipossia silente è dunque molto pericolosa perché il paziente arriva a chiedere aiuto solo quando è già molto tardi. È per questo, conclude Levitan, che i pazienti che sono in quarantena a casa dovrebbero essere muniti di pulsossimetri e istruiti sul corretto uso dello strumento per rilevare eventuali carenze di ossigeno anche asintomatiche.
DAGONOTA il 4 giugno 2020. Fermi tutti! Il coronavirus non colpisce solo i polmoni, ma attacca anche le vene e la tiroide. Lo svela una ricerca dell’università di Zurigo, citata dal Daily Mail, secondo cui il Covid-19 lede i tessuti dei vasi sanguigni, che hanno recettori che consentono al virus di penetrare. Lo studio spiegherebbe alcuni sintomi come coaguli e i “Covid toes”, cioè l’arrossamento alle dita dei piedi notato in alcuni pazienti contagiati. Il coronavirus è una malattia dei vasi sanguigni, secondo uno studio: l'infezione del rivestimento di vene e arterie può spiegare sintomi bizzarri come coaguli e "dita dei piedi". Ricercatori svizzeri hanno riscontrato segni di infiammazione causata da virus e danni cellulari nei pazienti con coronavirus intestino, intestino, reni e cuori. SARS-CoV-2, il virus che causa COVID-19, è principalmente un virus respiratorio, ma i medici hanno visto molti sintomi non respiratori. I vasi sanguigni e le cellule polmonari hanno entrambi recettori che consentono al coronavirus di penetrare in essi. Il nuovo studio suggerisce che il coronavirus è una malattia del sistema respiratorio e dei vasi sanguigni del rivestimento.
Studi dimostrano l'incidenza del gruppo sanguigno nella positività al Covid-19. Articolo di “El Mundo” – dalla rassegna stampa estera di “Epr comunicazione” il 9 giugno 2020. Una ricerca della società di test genetici 23andMe ha scoperto, riporta El Mundo, che le differenze in un gene, il cosiddetto gene ABO, che influenza il gruppo sanguigno possono influenzare la suscettibilità al coronavirus. Gli scienziati di questo gigante dei test genetici hanno analizzato i fattori genetici in 750.000 test (e non sono ancora finiti) per cercare di determinare perché alcune persone che ricevono il nuovo coronavirus non presentano sintomi, mentre altre si ammalano gravemente. I risultati preliminari di uno studio lanciato lo scorso aprile che ha cercato di utilizzare i milioni di profili nel suo database del DNA per far luce sul ruolo della genetica nella malattia suggeriscono che le persone con sangue di tipo 0 sono meglio protette contro il coronavirus. Secondo i dati pubblicati da 23andMe, le persone con sangue di tipo 0 hanno dal 9% al 18% di probabilità in meno di risultare positive al test Covid-19 rispetto alle persone con altri gruppi sanguigni. Questi risultati sono validi se corretti in base all'età, al sesso, all'indice di massa corporea e all'etnia. Anche se lo studio ha trovato che il gruppo sanguigno 0 era solo protettivo tra i gruppi sanguigni rh positivi, le differenze nel fattore rh (gruppo sanguigno + o -) non erano significative nei dati di 23andMe. Inoltre, nei casi non si è trattato di un fattore di suscettibilità o di gravità. Inoltre, tra le persone esposte al virus, l'assistenza sanitaria e altri lavoratori in prima linea, 23andMe ha trovato che il gruppo sanguigno 0 è altrettanto protettivo. Almeno due studi pubblicati di recente, uno da ricercatori in Cina e il più recente da ricercatori in Italia e Spagna, hanno analizzato il ruolo del gene ABO in Covid-19. Lo studio cinese ha esaminato la suscettibilità, mentre lo studio italiano e spagnolo ha trovato un'associazione con il gruppo sanguigno e la gravità della malattia. Lo studio ha analizzato i geni di più di 1.600 pazienti in Italia e Spagna che hanno avuto un'insufficienza respiratoria e ha scoperto che avere sangue di tipo A è associato a un aumento del 50% della probabilità che un paziente abbia bisogno di un ventilatore. Lo studio in Cina ha dato risultati simili per quanto riguarda la suscettibilità di una persona a Covid-19. "Ci sono stati anche alcuni rapporti di collegamenti tra Covid-19, coagulazione del sangue e malattie cardiovascolari", ha detto Adam Auton, ricercatore principale dello studio 23andMe. Nonostante i risultati interessanti, Auton ha avvertito che c'è ancora molta strada da fare, "anche con queste dimensioni del campione, potrebbe non essere sufficiente per trovare associazioni genetiche".
Ecco come aiutare le persone colpite da Covid-19. Natalie Rahhal il 3 giugno 2020 su dailymail.co.uk. Il virus che causa COVID-19 è chiamato per il suo attacco al sistema respiratorio. Ma poiché i medici continuano a riferire alti tassi di coaguli di sangue, ictus, gonfiore del cervello e problemi cardiaci nei loro pazienti con coronavirus , i ricercatori hanno sempre più sospettato che l'infezione sia più di una malattia respiratoria, ma hanno cercato una spiegazione. Uno studio, pubblicato ad aprile, potrebbe aver trovato la chiave dello scheletro per i sintomi bizzarri e disparati che colpiscono i malati di coronavirus: un rivestimento dei vasi sanguigni, chiamato endotelio. I ricercatori svizzeri hanno scoperto che il virus attacca le cellule che rivestono i vasi sanguigni, il che può spiegare la coagulazione persistente e il fallimento di organi che normalmente non sono coinvolti in malattie respiratorie come COVID-19. Ricercatori svizzeri hanno trovato prove evidenti che il coronavirus stava infettando e moltiplicando il rivestimento dei vasi sanguigni dei reni dei pazienti (A, B), nonché segni di infiammazione e morte cellulare innescati dal virus nel cuore e nell'intestino tenue (C e D) e polmoni (D). Suggerisce che il coronavirus è una malattia dei vasi sanguigni, nonché un'infezione polmonare. Molti pazienti affetti da coronavirus non muoiono per insufficienza polmonare, ma per coaguli di sangue. Negli Stati Uniti, alcuni medici riferiscono che circa il 40% dei loro pazienti con coronavirus stava sviluppando coaguli di sangue. La coagulazione è diventata una preoccupazione così comune e significativa che i medici hanno iniziato a mettere le persone ammesse per il coronavirus sui fluidificanti del sangue come una cosa ovvia. Ma anche sui farmaci che distruggono il coagulo, la complicazione spesso persiste. Questo è stato un fenomeno sconcertante per medici e ricercatori, e uno non visto in altri coronavirus, come quelli che causano il raffreddore comune, o il virus SARS che ha causato epidemie nel 2002 e nel 2003, o persino nei pazienti con influenza grave, come quelli che soffrono di H1N1. I ricercatori dell'Ospedale Universitario di Zurigo hanno visto uno schema in tre pazienti che ha suscitato i loro sospetti su come i vasi sanguigni possano essere il filo conduttore tra coronavirus e danni a organi come il cuore e i reni. Un paziente era un uomo di 71 anni che in precedenza aveva subito un trapianto di rene. Morì otto giorni dopo essere stato ricoverato in ospedale per COVID-19. Dopo la sua morte, i medici hanno trovato cellule infiammatorie e segni che le cellule sane stavano morendo nel suo rene, nel cuore e nell'intestino trapiantati, così come negli zoccoli nei vasi sanguigni dei suoi polmoni. La seconda persona che hanno studiato era una donna di 58 anni obesa, diabetica e con pressione alta; I suoi polmoni, seguiti da altri organi iniziarono a fallire. Al suo sedicesimo giorno in ospedale, era chiaro che una parte del suo intestino stava morendo. Alla fine è morta di infarto. In un'autopsia, hanno trovato gli stessi segni di infiammazione nel rivestimento dei vasi sanguigni nei polmoni, nel cuore, nei reni, nell'intestino tenue e nel fegato. E nel terzo paziente, un uomo di 69 anni con ipertensione che doveva essere posto su un ventilatore quando il coronavirus debilitava i suoi polmoni, scoprirono ancora una volta che l'infiammazione dei vasi sanguigni stava causando la morte delle cellule del suo intestino tenue. I ricercatori hanno concluso che il virus stava infettando direttamente questo rivestimento, chiamato endotelio, dei vasi sanguigni. Il coronavirus entra nelle cellule polmonari attraverso un recettore - come un bacino cellulare - noto come ACE2. Questi recettori sono molto comuni nei polmoni e il virus ha un accesso abbastanza diretto a questi recettori perché viene trasmesso principalmente attraverso particelle inalate. Ma i recettori ACE2 si trovano anche lungo l'endotelio. Ciò rende i vasi sanguigni in tutto il corpo suscettibili alle infezioni, il che può spiegare gli effetti di tutto il corpo osservati nei pazienti con coronavirus che soffrono di qualsiasi cosa, dalle dita dei piedi Covid alla condizione di infiammazione multisistemica, la sindrome di Kawasaki, osservata nei bambini infetti da coronavirus.
Quella "tempesta di coaguli" che investe i malati di Covid. Le trombosi arteriose o venose nei pazienti Covid più gravi possono essere causate da una bassa quantità di albumina presente nel sangue dei pazienti più gravi: lo rivela una ricerca condotta su 73 pazienti ricoverati al Policlinico Umberto I di Roma. Alessandro Ferro, Martedì 09/06/2020 su Il Giornale. Il Covid-19, nei casi più gravi, può causare una "tempesta di coaguli" (trombosi) nel sangue dei coloro i quali si ammalano gravemente, dando origine ad altre complicazioni che vanno dalle eruzioni cutanee all'ostruzione di cateteri fino alla morte improvvisa.
L'albumina è determinante. Quando accadono queste situazioni, però, è stata riscontrata una bassa quantità di albumina nel sangue dei pazienti positivi al virus che è direttamente correlata alle complicazioni trombotiche. È questo il risultato di un lavoro coordinato dal Prof. Francesco Violi, direttore della I Clinica Medica del Policlinico "Umberto I" di Roma e del suo team di ricercatori che sarà pubblicato quest'oggi sulla prestigiosa rivista scientifica americana Circulation Research. Come si legge sull'agenzia Agi, questa relazione è stata confermata quando l'albumina nel sangue è inferiore al livello 35g/L, aumentando di conseguenza il rischio di trombosi arteriosa e venosa.
I risultati della ricerca. Lo studio è stato condotto su 73 pazienti ricoverati presso i reparti di Malattie infettive e di Terapia intensiva del Policlinico Umberto I ed è stato dimostrato che i pazienti Covid-19 più gravi o quelli che andavano incontro a complicanze trombotiche, avevano valori di albumina più bassi, appunto, di 35g/L.
Cos'è l'albumina. L'albumina è un'importante proteina del sangue che svolge una potente attività antinfiammatoria riuscendo a contrastare gli effetti dello stress ossidativo nel nostro organismo. Infatti, quando c'è una riduzione dei livelli di albumina plasmatica, le cellule producono elevate quantità di radicali di ossigeno portando ad una attivazione incontrollata delle cellule fino alla loro morte. "Il nostro lavoro - spiega il Prof. Francesco Violi - oltre a dare un'interpretazione, fin'ora non chiarita, del rischio trombotico dei pazienti Covid-19, apre la strada ad un'identificazione precoce dei soggetti ad alto rischio ed a nuove prospettive terapeutiche per ridurne le trombosi". I trombi sono delle formazioni di grasso che ostruiscono arterie e vene e, come detto prima, nei casi più gravi le conseguenze possono essere anche letali. "Andare a vedere nei malati il livello di albumina fa emergere i soggetti più a rischio – sottolinea il professor Violi al Corriere - Bisogna valutare ora l’efficacia dell’aumento del livello di albumina in questi soggetti come arma terapeutica in più per prevenire e arginare i danni causati dal virus. Questa è una nuova chiave di lettura contro il Covid-19".
Un'altra scoperta italiana. Accanto alla notizia fresca di quest'oggi sull'albumina, è di pochi giorni fa la notizia di un'altra scoperta, tutta italiana, fatta da ricercatori dell’Università di Milano-Bicocca. Come riportato dall'Agi, I ricercatori si sono concentrati su un marcatore chiamato "sFlt1", prodotto quasi esclusivamente dalle cellule endoteliali che rivestono la superficie interna dei vasi e che hanno il compito di evitare l’innesco della coagulazione. I valori di "sFlt1" ed, in particolare, il rapporto tra "sFlt1" e "PlGF" (un fattore di crescita per le cellule endoteliali), si innalzano fino a 5 volte durante il ricovero dei pazienti. "Questo innalzamento avviene molto presto, nei giorni immediatamente successivi al ricovero" afferma Andrea Carrer, dirigente medico di Ematologia al San Gerardo. “Questa situazione non si verifica in altre condizioni patologiche, per esempio non avviene in pazienti affetti da polmonite Covid-19 negativi ed ha come unico precedente una malattia della gravidanza nota come "preeclampsia" in cui l’elevato rapporto sFlt1/PlGF determina trombosi sia a livello della placenta che in altri organi”, osserva Valentina Giardini, dirigente medico ostetrico della Fondazione Mamma e Bambino, sempre situata all’interno del San Gerardo. In questi casi, potrebbe essere molto importante l'uso precoce di farmaci anticoagulanti come l’eparina ed altri farmaci quali aspirina o sartanici, in grado di bloccare l’aumento di sFlt1.
Coronavirus, i pericoli dell’ipossia silente per i più giovani. Annalibera Di Martino il 9 maggio 2020 su Notizie.it. I pazienti affetti da coronavirus possono avere anche l'ipossia. A rischiare sono soprattutto i giovani: se ne accorgono troppo tardi.
Uno degli effetti collaterali del coronavirus è l’ipossia. Quest’ultima può manifestarsi anche senza sintomi (ovvero essere silente) ed è letale. I pazienti particolarmente esposti sono i giovani che si presentano all’ospedale ignari e già con situazioni di salute gravemente compromesse. Uno dei risvolti del coronavirus è l’ipossia. Si tratta di una pericolosa condizione fisica in cui i pazienti presentano tutti i sintomi della patologia senza però rendersene conto. Questo rappresenterebbe un effetto collaterale del Covid-19.
L’ipossia: cos’è, sintomi. L’ipossia silenziosa (o silente) è una condizione patologica determinata da carenza di ossigeno all’interno del corpo che può essere localizzata o sistemica (ovvero generalizzata a tutto il corpo). La caratteristica della patologia è che la persona affetta non si rende conto subito delle condizioni del suo stato. I primi tessuti che risentono della mancanza di ossigeno sono:
Cervello e tessuti nervosi
Apparato visivo
Apparato uditivo
L’ipossia si può manifestare. tra le altre patologie, nei pazienti con infarto, ictus, aterosclerosi, trauma cranico, obesità, seps, shock settico, morbo di Cooley, ischemia celebrale, ipertensione polmonare ed ipertermia maligna. I segni visibili dell’ipossia sono pallore della cute, iperventilazione, dispnea e mucose, oltre a generare nella persona uno stato di confusione e spaesamento. Conseguenza dell’ipossia sono le apnee notturne, embolia polmonare, la polmonite.
Chi viene colpito. I pazienti che presentano le complicanze dell’ipossia correlate al coronavirus sono di solito giovani, che arrivano in ritardo ai soccorsi, proprio perché ignari della patologia. Come ha spiegato Richard Levitan del Littleton Regional Healthcare nel New Hampshire, i soggetti affetti da ipossia si accorgono tardi del loro stato di salute, già ormai precario, quando i polmoni e gli altri organi interni sono compromessi e l’ossigeno nel sangue è basso. Nonostante la precarietà della situazione, i pazienti arrivano in ospedale coscienti, lamentando solo qualche dolore ed hanno la malattia con febbre e problemi intestinali. Il consiglio degli esperti per i malati in quarantena positivi è di essere muniti di plusossimetri capaci di rilevare carenze di ossigeno nel sangue.
Ecco la verità sul coronavirus: "Pelle esposta nel 45% dei casi". Il Prof. Torello Lotti, in un'intervista esclusiva al nostro giornale, ci svela quali sono i sintomi Covid sulla pelle e la sua esperienza tra Cina e Vietnam alla fine dello scorso anno, quando il virus silente probabilmente già circolava...Alessandro Ferro, Venerdì 08/05/2020 su Il Giornale. Nel suo campo è un luminare, un'eccellenza della dermatologia italiana conosciuta in tutto il mondo. Il Prof. Torello Lotti, Presidente della World Health Academy Dermatolgy, oltre ad essere Professore Ordinario di Dermatologia e Venereologia Università degli studi “G. Marconi” di Roma, in un'intervista esclusiva per Ilgiornale.it, non ci ha raccontato soltanto di come la pelle sia super esposta al Covid-19, ma alcuni importanti retroscena sulla diffusione della pandemia.
Covid-19, che danni fa alla pelle?
"Il Covid-19 provoca danni alla pelle in una percentuale molto alta: inizialmente era stato descritto nel 3,8% di casi dagli studiosi cinesi, poi si è visto che si può arrivare fino al 38-45% dei casi in cui la pelle viene colpita. I segni sono fondamentalmente tre: il più comune, è una lesione che avviene sulle dita di mani e piedi che è simile ai geloni, la pelle diventa rossa o violacea in piccole aree e può arrivare ad ulcerarsi. La seconda lesione più comune è la cosiddetta "Livedo racemosa": si distingue dal colore rosso, soprattutto sulle cosce, ed è dovuta all'esagerazione del volume dei vasi sanguigni della pelle. La terza è chiamata 'Orticaria da Covid-19': una percentuale alta di queste orticarie è visibili nei soggetti agli inizi dell'infezione Covid".
Cosa c'è dietro a queste malattie della pelle?
"Tre lavori scientifici hanno dimostrato che alla base c'è un disturbo della coagulazione del sangue che produce delle trombosi esattamente come accade nel cuore e nei polmoni. Molte di quelle che venivano chiamate polmoniti da Covid o polmoniti interstiziali, erano invece vere e proprie embolie polmonari, coaguli di sangue che ostruivano la circolazione dei polmoni, nulla a che vedere con le polmoniti virali che accadevano in passato. Lo stesso fenomeno riguarda i vasi della pelle, che provoca le tre tipologie di lesioni appena trattate, a seconda di come vengono metabolizzate".
Chi colpisce di più? Ci sono rischi maggiori per i bambini?
"Abbiamo visto che è stato colpito maggiormente il sesso maschile, il rapporto è tre a uno: i maschi presentano quei tre segni della pelle che sul sesso femminile si presentano molto più raramente. I bambini sono colpiti come gli adulti e non corrono rischi maggiori, anzi: se c'è una fascia d'eta protetta dal Covid sono i bambini al di sotto della pubertà. Inoltre, la pelle non viene colpita in base a malattie pregresse: si è sempre detto che Covid causa la morte in persone che hanno già altre malattie in corso ma questo non vale per le manifestazioni sulla pelle che viene colpita a prescindere dalla presenza o assenza di altre malattie concomitanti".
Consiglia dei prodotti da usare per proteggere la pelle?
"I prodotti sono di uso comune, il più noto è l'amuchina che è una sostanza detergente. Bisogna però ricordare che questa serve per evitare l'auto-contagio o i contagi con gli altri. La malattia della pelle non avviene a causa del contagio della pelle nei confronti diretti del virus, ma deriva dall'interno: dopo che un soggetto ha immagazzinato il virus, che è entrato nel sangue, a quel punto può manifestarsi con malattie cutanee".
Perché il virus "decide" di attaccare un organo piuttosto che un altro, da cosa dipende? È frutto del caso?
"Non è assolutamente una casualità: ognuno di noi ha un'impronta digitale diversa dagli altri, da tutti gli 8 miliardi di umani presenti sulla Terra. Ciò significa che tutti noi abbiamo un Dna con caratteristiche biologiche intrinseche e delle condizioni biologiche acquisite (grasso-magro, colesterolo alto e chi basso, ecc.) che rendono questo virus particolarmente deleterio per alcuni organi piuttosto di altri. La differenza la fa l'insieme di queste caratteristiche".
Sul Corriere della Sera, di recente, veniva riportava l'ipotesi che il virus abbia iniziato a circolare in Cina già a settembre. Lei che idea si è fatto?
"Faccio parte di gruppi di studio che seguono queste circostanze in maniera diretta e dirigo una rivista internazionale per cui ho avuto molte informazioni molto prima degli altri. Sono informazioni riservate e non ho il diritto di propagarle, ma sicuramente i dati che indicano che il virus, o un agente che poi è stato identificato come Covid-19, era molto precedente al dicembre 2019, molti mesi prima. Mentre mi trovavo in Vietnam per un giro di conferenze ai primi di novembre, appresi da tre colleghi cinesi che in Cina stavano rivoluzionando tutti gli ospedali. Questo vuol dire che già ad ottobre c'era un forte cambiamento dell'organizzazione sanitaria cinese in vista di qualcosa che sarebbe accaduto. Che poi fosse o non fosse Covid non lo so, ma ad ottobre i segnali erano già evidenti in cambiamenti sostanziali nel modo di affrontare certe malattie che si prevedeva sarebbero arrivate".
L'estate scorsa, lei andò a Wuhan, cosa accadde?
"Io in Cina vado mediamente una volta al mese per rapporti noti che ho con la società cinese di dermatologia, insegno all'Università Cinese di Shenyang, all'ospedale First Affiliated Hospital of China Medical University, il numero uno in Cina, è considerato il più importante. Nel giugno dell'anno scorso ci furono delle riunioni nelle quali ero presente e dove si prospettò anche la possibilità di malattie epidemiche ed infettive, virali, batteriche e di come difendere le popolazioni. Adesso ho ricevuto un invito per andare a Hangzhou il prossimo 12 giugno per un summit sulla situazione della dermatologia cinese".
Perché si fece quest'intervento? I cinesi già sapevano o no?
"Non posso dire che fossero informati sull'arrivo del Covid, sarebbe una grande bugia, ma è vero che dopo la Sars ogni tanto si torna a riflettere, di tanto in tanto ci riuniamo per parlare di argomenti come le possibilità di pandemie o grandi epidemie. Non dimentichiamo che la Cina ha sofferto la Sars che ci ha sfiorati ma per loro è stata un'esperienza terrificante e non dimentichiamo che il Covid-19 è chiamato ufficialmente Sars-Cov-2. Ogni tanto rimettono a fuoco queste cose chiamando esperti per capire cosa conviene fare a distanza di anni".
Sulla storia del laboratorio cosa ci dice?
"Poco credibile...non è impossibile ma è più credibile che sia avvenuto attraverso una catena di animali i cui grandi imputati sono il pipistrello e il pandolino, poi il passaggio all'uomo. Sembra anche che l'Aids abbia avuto un passaggio di specie simile. Se dovessi dare un punteggio alle probabilità, 9 a 1 a favore del passaggio naturale da animale ad uomo".
Sapremo mai la verità?
"La storia la scrive chi vince: quello che succederà fra anni, quando si leggerà sui libri di storia cosa è stata questa pandemia, probabilmente non rifletterà la verità con la V maiuscola. Sarà chi ha vinto, economicamente o politicamente, che scriverà la versione storica ufficiale. Qualcuno molto più bravo di me diceva che la storia serve a giustificare quello che è accaduto, non a riportarlo in maniera fedele".
Eruzioni, orticarie, lesioni: come si manifesta il Covid sulla pelle. Antonio Lamorte su Il Riformista il 30 Aprile 2020. Non è solo attraverso la tosse e la febbre che si manifesta il coronavirus. È quello che sostiene anche una nuova ricerca condotta in Spagna che afferma che il coronavirus provoca anche delle alterazioni cutanee. Lo ha reso noto uno studio dell’equipe guidata Cristina Galván Casas dell’Academia Española de Dermatología y Venerología (AEDV). La ricerca, pubblicata sulla rivista British Journal of Dermatology, ha trovato una relazione tra il tipo di complicazioni dermatologiche e la gravità dell’infezione. Sono cinque, in totale, le alterazioni cutanee concomitanti legate al virus che lo studio condotto per due settimane su 375 positivi o sospetti positivi al Covid-19 ha rintracciato. Nello studio sono state anche fotografate tutte le manifestazioni. “Abbiamo visto un gradiente di malattia, dal meno grave nei casi in cui si trattava di pseudo-geloni ai più gravi nei pazienti con lesioni livedo reticularis, che presentavano più casi di polmonite, ricoveri ospedalieri e necessità di cure intensive”, ha dichiarato Ignacio García-Doval, direttore dell’unità di ricerca AEDV. Gli accademici Alba Català Gonzalo, del Servicio de Dermatología y Venereología dell’Ospedale Plató di Barcellona, Gregorio Carretero Hernández, del Servicio de Dermatología dell’Ospedale Universitario Gran Canaria Doctor Negrín di Las Palmas de Gran Canaria e Cristina Galván Casas, del Servicio de Dermatología dell’Ospedale Universitario de Móstoles en Madrid, sono stati i ricercatori principali di questo studio al quale hanno partecipato circa 100 dermatologi di diversi ospedali e cliniche del Paese. Eruzioni cutanee simili a geloni nelle aree acrali (piedi e mani): rilevate nel 19% dei casi, nei pazienti più giovani e nelle ultime fasi del processo covid-19. Solitamente associate a una prognosi meno grave. Eruzioni vescicolari: osservate nel 9% dei casi e associate a una gravità di livello intermedio. Più frequenti nei pazienti di mezza età. Lesioni orticarie: registrate nel 19% dei casi, sparse per tutto il corpo ma solitamente concentrate nel tronco. Di solito producono un intenso prurito. Sono stati osservate in pazienti più gravi e frequentemente sono comparse contemporaneamente ad altri sintomi del covid-19. Eruzioni maculo-papulari: sono le più frequenti, osservate nel 47% dei casi. Le sue condizioni sono spesso simili a quelle di altre infezioni virali. È stato osservato in pazienti più gravi. Lesioni livedo-reticularis o necrosi causate da ostruzioni vascolari: riscontrate nel 6% dei casi. Sono dei segni sulla pelle che somigliano a una rete. Si sono manifestati su pazienti più anziani e più gravi (la mortalità del 10% è stata registrata in questo gruppo).
Il primario di Cremona: "Covid lascia infezioni persistenti". Il primario dell'ospedale di Cremona, il Dott. Angelo Pan, racconta la terribile esperienza quotidiana con il virus che definisce "schifezza mai vista". La complessità è che "non attacca solo i polmoni, lascia forme di infezione persistenti. Ogni giorno viene fuori una nuova sorpresa". E mette in guardia dalla Fase 2. Alessandro Ferro, Giovedì 30/04/2020 su Il Giornale. Il virus non lo nomina mai, lo definisce semplicemente "schifezza". A parlare è il primario dell'ospedale di Cremona, il Dott. Angelo Pan, uno degli ospedali lombardi più bersagliati dai casi Covid-19.
"Non è finita qui". “Purtroppo non credo sia finita qui, l’infezione lascia strascichi con cui dovremo continuare a fare i conti”, dice il dottore, che ne ha visti tantissimi soffire ed alcuni anche non farcela, in giorni “terribili, come stare all’inferno, con i malati che continuavano ad arrivare, i letti che non bastavano mai e neanche il tempo di bere un bicchiere d’acqua”.
"Schifezza mai vista". Stanco, provato, "una schifezza così non l’avevo mai vista” come lui stesso dice ad apertura di intervista all'Huffingtonpost, sottolinea quanto sia subdolo questo virus perché, in alcuni casi, non sparisce nemmeno dopo due mesi e perché esistono una serie infinita di asintomatici che "sono il vero rischio ora che si andrà a riaprire dopo il lockdown”, precisa il medico, che sottolinea come all'inizio si sia pensato ad un virus che attaccasse quasi esclusivamente i polmoni "perché un gran numero dei ricoverati in ospedale non respirava ma ci saranno altre “sorprese”, ogni giorno ne viene fuori una nuova", racconta.
"Altro che influenza..." Il rischio concreto è che il Covid possa lasciare strascichi o innescare altri problemi all'organismo. “Non siamo di fronte all’influenza neanche per sbaglio, abbiamo la sensazione che questa schifezza inneschi nuove problematiche - afferma Pan - forme di infezioni persistenti, ad esempio. Di fronte a queste evidenze, dobbiamo stabilire che tipo di studi ed esami effettuare, usare criteri diagnostici precisi. Anche perché non abbiamo idea di quale terapia utilizzare”.
L'infiammazione nei bambini. Proprio in questi giorni, in Italia ed in altri Paesi del mondo stanno venendo fuori alcuni sintomi nei bambini che potrebbero essere direttamente collegati al Covid-19, come la "sindrome di Kawasaki", una superinfiammazione che colpisce i più piccoli. "Prossimamente faremo un’analisi per capire quanti polmoniti Covid e quanti polmoniti nei bambini ci sono “sfuggite” prima che il maledetto virus esplodesse con tutta la sua forza”.
"Genio del male". Per tutte queste ragioni, medici e scienziati non hanno più timore nel definire il virus come un "mostro", che il Dott. Pan definisce "genio del male, capace di avere facce diverse e causare problemi differenti. La sua capacità di truccarsi e adeguarsi all’ambiente lo rendono il virus peggiore col quale abbiamo avuto a che fare negli ultimi decenni. Per rendersi conto di quanto è terribile, basta vedere il disastro che ha causato”.
Fase 2, rischio asintomatici. Dal 4 maggio non ci sarà un "liberi tutti" ma molte attività riprenderanno il loro corso e si potranno incontrare familiari, parenti ed amici. Il rischio maggiore di contagio, per il dottore, è rappresentato dagli "asintomatici che eliminano il virus dalle secrezioni" e che sono "un rischio per tutti. Nella fase 2 sicuramente ci sarà una discreta quota di persone che può infettarne altre e un’altra che si infetterà”. L'unica via per uscirne salvi è "indossare la mascherina, mantenere la distanza sociale e lavarsi frequentemente le mani. Non è matematico contrarre l’infezione".
Il caso Lombardia. A posteriori, il virologo crede che sarebbe stato meglio applicare il lockdown qualche giorno prima sarebbe stato meglio e che va appurato quanto accaduto nelle Rsa, anche in virtù di una possibile seconda ondata. “Ci saranno altri fuochi, sì. Ma in Lombardia, dove questa schifezza ha lasciato segni così pesanti, siamo pronti a gestire eventuali nuove situazioni. Non vorrei che altrove si sottovalutasse il problema, che resta drammatico", conclude il medico.
La forza "feroce" del Covid: "Rompe i muri dei polmoni". Abbiamo intervistato il dott. Franco Carnesalli, pneumologo all'Istituto Auxologico di Milano, che ci ha rivelato come il virus attacchi i polmoni, a volte in forma leggera, molte altre con broncopolmoniti. Spesso si scopre soltanto con una radiografia o Tac. E c'è un farmaco che potrebbe prevenirlo...Alessandro Ferro, Martedì 19/05/2020 su Il Giornale. Il Covid "visita" anche chi lo combatte in prima linea: in un'intervista esclusiva al Giornale.it abbiamo sentito il dott. Franco Carnesalli, Clinical Manager e Consulente Pneumologo presso l’Istituto Auxologico di Milano. Anche lui è stato colpito dal virus, fortunatamente in forma non grave. Ci ha raccontato in che modo colpisce i polmoni, dalle forme più leggere a quelle più gravi e spesso in maniera subdola, di come radiografie e Tac possono "scoprirlo" e qual è l'unico farmaco che potrebbe, addirittura, prevenirlo.
Quali sono i danni che il virus fa all’apparato polmonare?
"Parlando di polmoni, particolarmente sensibile è la mucosa dei bronchi, dove spesso Covid si attacca provocando una reazione infiammatoria comune anche ad altri virus respiratori ma in questo caso molto più cospicua. L'entità della reazione infiammatoria può dar luogo a forme leggere di bronchite o broncopolminiti senza particolari complicanze respiratorie, oppure può portare a broncopolmoniti interstiziali, che colpiscono i "muri" dell'albero respiratorio".
A tal proposito, il virus Sars-Cov-2 provoca spesso queste polmoniti interstiziali. Cosa sono?
"Immaginiamo di avere un albergo: l'ingresso è la trachea, i corridoi principali sono costituiti dai bronchi, i corridoi secondari sono i bronchi di primo e secondo livello. In fondo, abbiamo tanti piccoli corridoi che finiscono in mini 'appartamenti' con delle 'stanzette': la broncopolmonite, normalmente, colpisce queste stanzette, nel caso di quella interstiziale vengono colpite soprattutto le pareti, come se la tappezzeria si spogliasse ed il virus si infiltrasse fino a rompere questa parete. L'infiammazione, se molto forte, può portare anche ad un interessamento del circolo polmonare e dei piccoli vasi con le embolie polmonari, responsabili anche di alcuni decessi soprattutto in un fase iniziale in cui non si conosceva bene questo aspetto".
Quindi, Covid provoca anche le embolie polmonari?
"Le citochine sono delle proteine pro-infiammatorie che, quando sono prodotte in grossa quantità, oltre ad arrossamento e gonfiore sulla pelle, possono portare all'alterazione della coagulazione intravascolare. Si sono formano aggregati piastrinici che formano gli emboli, i quali si incastrano nei vasi periferici".
Quali sono i sintomi?
"Dipendono dal livello di aggressione e gravità del virus: alcuni sono simil influenzali come febbre, mal di testa, dolori articolari o tosse secca e si risolvono in pochi giorni. Man mano che si va verso un aspetto un po' più grave può comparire la broncopolmonite, con febbre elevata, mancanza di respiro, cefalea e dolori diffusi e tosse ma senza catarro. Ci sono dei pazienti che, in questi mesi, hanno avuto piccole influenze o raffreddori: a posteriori, si può immaginare che abbiano avuto il Covid. Se è vero che provoca broncopolmoniti, ha dato tutta una serie di manifestazioni simil influenzali, con le quali è stata confusa, che hanno colpito anche le alte vie respiratorie, come può essere il naso rispetto ai bronchi, che fanno parte delle basse vie respiratorie".
C’è una categoria di persone che colpisce maggiormente?
"Direi di no, il virus può colpire tutti: i bambini lo portano ma non lo diffondono, dai giovani in su tutti possono essere colpiti. Quello che conta è come lo si prende, sono morti anche 30enni, quindi non è soltanto un fattore d'età. Alcune fasce più a rischio possono essere costituite da portatori di handicap, epilettici, chi ha avuto la poliomelite. Sono un po' più fragili e potrebbero avere dei danni importanti così come per chi è anziano, non si intende soltanto chi è avanti con gli anni ma anche il 60enne fumatore da tanti anni. Ma anche chi mangia male, chi ha un lavoro pesante perché hanno un fisico indebolito da altri fattori".
Sappiamo essere l’organo preferito dal virus, qual è la percentuale di casi riscontrati?
"Ho preso Covid anche io, l'ho sperimentato sulla mia pelle, per fortuna in una forma non grave. Per quello che ho potuto constatare anche con i miei colleghi, nel 90% dei casi i sintomi erano essenzialmente respiratori, da quelli più leggeri simil influenzali, via vai fino ai bronchiali per arrivare a broncopolmoniti e polmoniti".
C’è una terapia specifica per curare i polmoni?
"In tanti pazienti con le forme più leggere come febbre, cefalee, dolori articolari e tosse si curano con tachipirina e paracetamolo. Sono tanti, però, anche i pazienti che hanno la broncopolmonite: prima di tutto, è fondamentale individuarla magari con una radiografia o una tac. Nei casi più gravi, si può usare l'idrossiclorochina, un importante antifiammatorio reumatico che sembra aver anche effetti antivirali. Bisogna stare attenti, però, perché potrebbe avere implicazioni sul cuore e va monitorato con una certa attenzione. Nelle forme di broncopolmoniti più gravi, ai limiti del ricovero, ci sono terapie antibiotiche un po' più impegnative".
Ultimamente si parla dei casi Covid-like: pazienti negativi al tampone ma una tac rivela polmoniti intrerstiziali, cosa può dirci in merito?
"Uno studio pubblicato dai medici dell'Istituto Galeazzi di Milano mostra come, su 160 pazienti arrivati al pronto soccorso con sintomi come tosse e febbre, su 100 di loro c'era la presenza di broncopolmonite. Ciò significa che in molti casi non è stata diagnosticata, molti non lo sanno. In tanti soggetti studiati a posteriori, ormai guariti, con la Tac è stata evidenziata una broncopolmonite, nascosta dai quei sintomi leggeri. Anche se non c'è certezza che fossi Covid, si trattava sicuramente di broncopolminiti non diagnosticate. È sempre utile fare una Tac per vedere se è avvenuta o meno una completa guarigione".
Il danno polmonare che si vede con la Tac, è reversibile o permanente?
"È anche legato alle condizioni di partenza di un paziente, se è sano o deteriorato. E poi, dall'entità dell'infezione: se è leggera, normalmente sparisce; nei casi di rianimazione o di intubazione, quindi gravi broncopolmoniti, è difficile che sparisca tutto. Quei famosi danni alle pareti rimangono, radiologicamente si vedono esiti più o meno marcati. Molti pazienti devono fare una riabilitazione respiratoria per riparare l'apparato respiratorio che è stato danneggiato. E vanno seguiti nel tempo".
C’è un modo per prevenire le polmoniti?
"All'inizio non si sapeva nulla. Adesso si è detto che, nelle primissime fasi o addirittura come prevenzione, l'idrossiclorochina potrebbe essere utile, tenendo sempre ben presente gli effetti cardiologici. Non si può dare a tutta la popolazione ma bisogna identificare pazienti un po' a rischio dove si sospetta l'infezione, ed evitare i sintomi e l'infiammazione descritta prima. In ogni caso, il primo rimedio resta il distanziamento, non avere contatti con il virus. Prima cosa, non essere infettati. E poi, mica il farmaco si può prendere liberamente in farmacia, è il medico che lo decide o meno. Non è la tachipirina..."
Ecco la radiografia al torace che svela la bomba Covid negli asintomatici. Una ricerca condotta tra Codogno e le zone limitrofe ha messo in luce come quasi il 60% dei pazienti asintomaci o con sintomi leggeri avesse il virus già dentro ai polmoni: la scoperta grazie alle immagini di radiografie al torace. "Polmonite interstiziale bilaterale" la diagnosi, che conferma il Covid-19. Alessandro Ferro, Giovedì 30/04/2020 su Il Giornale. Nessun sintomo o pochi, blandi. Ma ecco che la radiografia al torace mostra la realtà: il Covid c'è, si è attaccato ai polmoni ed è visibile dalle lastre.
Quasi il 60% scoperto con le lastre. È quanto scoperto durante un'indagine di un team di ricercatori dell'Irccs Galeazzi e dell'università Statale di Milano su alcuni pazienti di Codogno e delle zone limitrofe: in una sola settimana, sono state scoperte infezioni in ben 100 persone su 170 (circa il 60%), visibili alla luce bianca del negativoscopio, la superficie usata per "leggere" le lastre. Come si legge su AdnKronos, il lavoro dell'Istituto ortopedico è pubblicato sulla rivista Radiology ed è stato condotto in collaborazione con gli atenei di Pavia e Palermo e con il centro Medical Radiologico di Codogno e la Radiologia della Casa di Cura San Camillo di Cremona. I ricercatori hanno documentato in maniera dettagliata il problema ai polmoni in persone all'apparenza non intensamente colpite da Covid-19 in quanto asintomatiche o poco sintomatiche.
Richieste anomale di radiografia. Dopo la quarantena obbligatoria di 14 giorni imposta a Codogno ed ai comuni limitrofi, un centro radiologico codognese ha ricevuto "un'alta e anomala richiesta di radiografie al torace da parte della popolazione", dicono gli esperti. Alcuni di loro si sono presentati nei centri in modo spontaneo, altri su richiesta medica, tutti quanti per un controllo e provenienti da zone rosse in cui il virus circolava in modo diffuso.
"I pazienti non manifestavano sintomi". "Il lavoro dei ricercatori del Galeazzi e dei colleghi delle università e delle radiologie - spiega Luca Maria Sconfienza, responsabile dell'Unità di Radiologia diagnostica e interventistica al Galeazzi e professore all'università Statale di Milano, tra gli autori dello studio - si è focalizzato sull'analisi retrospettiva delle radiografie al torace eseguite post-quarantena. I pazienti che richiedevano la Rx non riferivano particolari malesseri oppure solo sintomi piuttosto vaghi, come febbricola (sotto 37,5°C) e avvisaglie parainfluenzali, ma nessuno manifestava chiari sintomi da Covid".
"Polmonite interstiziale bilaterale". Incredibile ma vero, in una sola settimana è stato rilevato come 100 radiografie al torace su 170 presentavano immagini riconducibili ad una polmonite interstiziale bilaterale, strettamente correlata al Covid-19. Il coinvolgimento era bilaterale in tutti i casi: simmetrico nel 54% dei pazienti, mentre le anomalie dei raggi X al torace erano maggiori su un lato del torace nel 46% dei casi. "Questi risultati supportano i dati che stanno emergendo in merito alla trasmissione della patologia in soggetti asintomatici o poco sintomatici, che quindi possono risultare positivi al virus e pertanto contagiosi anche in assenza di sintomi e anche dopo due settimane di quarantena", conclude la ricercatrice.
Coronavirus, la morte di un paziente si decide nei primi 15 giorni. Riccardo Castrichini il 27 aprile 2020 su Notizie.it. La morte di un paziente positivo al coronavirus si può intuire nei primi 10 -15 giorni della malattia. Uno studio di elaborato da alcuni scienziati italiani e che coinvolge anche l’Istituto Superiore di Sanità, ha evidenziato che nei pazienti positivi al coronavirus si potrebbe definire nei primi 10 -15 giorni se la malattia condurrà, o meno, alla morte. L’esito dell’infezione può dipendere dall’esposizione virale, dalla debolezza immunitaria o da uno sforzo fisico intenso nei giorni dell’incubazione. Lo studio, a cura di Paolo Maria Matricardi (Charité Universitätsmedizin Berlino), Roberto Walter Dal Negro (National Centre of Pharmacoeconomics and Pharmacoepidemiology Verona) e Roberto Nisini (Reparto Immunologia, Istituto Superiore di Sanità), è proposto per la pubblicazione alla rivista Pediatric Allergy and Immunology, dove è attualmente in fase di revisione. Lo studio è pubblicato come pre-print sul sito dell’Iss. Grazie a questo studio, basato sulle evidenze scientifiche pubblicate fino ad oggi, è possibile creare un modello che spieghi in modo coerente e unificante l’enorme diversità delle manifestazioni cliniche della Covid-19, che variano dalle forme asintomatiche alla morte. Il modello proposto considera la resistenza al coronavirus come dipendente da due variabili: la dose cumulativa di esposizione virale e l’efficacia della risposta immunitaria innata locale. Il virus può condurre alla morte se: l’immunità innata è debole (questa condizione si realizza in molti anziani e nei soggetti privi di anticorpi per difetti genetici); l’esposizione cumulativa al virus è enorme (per esempio tra medici e operatori sanitari che hanno curato molti pazienti gravi senza le opportune protezioni). Oppure si compie un esercizio fisico intenso o prolungato, con elevatissimi flussi e volumi respiratori, proprio nei giorni di incubazione immediatamente precedenti l’esordio della malattia, facilitando così la penetrazione diretta del virus nelle vie aeree inferiori e negli alveoli, riducendo fortemente l’impatto sulle mucose delle vie aeree, coperte da anticorpi neutralizzanti. Quando poi il Covid-19 supera il blocco della immunità innata e si diffonde dalle vie aeree superiori agli alveoli già nelle prime fasi dell’infezione, “allora può replicarsi senza resistenza locale, causando polmonite e rilasciando elevate quantità di antigeni”, spiegano i ricercatori. La successiva risposta immunitaria adattativa è ritardata, intensa con anticorpi IgA, IgM e IgG ad alta affinità, ma non necessariamente diretta verso gli antigeni neutralizzanti e, incontrando grandi quantità di virus nel frattempo già replicato in moltissime copie, provoca grave infiammazione e innesca cascate di mediatori (complemento, coagulazione e tempesta di citochine) che portano a complicazioni che spesso richiedono terapia intensiva e, in alcuni pazienti, causano il decesso. Il modello “potrà contribuire a meglio orientare provvedimenti mirati alla gestione della seconda fase della pandemia nel nostro Paese e a stimolare la ricerca traslazionale e clinica”. “Il modello – ha sottolineato l’Iss – è di per sé un importante passo avanti nella lotta al virus, perché mette insieme tutte le tessere di un enorme puzzle e offre ai medici, ai ricercatori, ma anche agli amministratori il primo “navigatore” per meglio orientarsi nella prevenzione, diagnosi, sorveglianza e provvedimenti di salute pubblica”.
Silvia Turin per corriere.it il 25 aprile 2020. È allarme negli Usa per giovani o persone di mezza età morti per ictus positivi al coronavirus, gente che non si era nemmeno accorta di essere malata. Lo racconta il Washington Post in un articolo che parte dalla situazione al Mount Sinai Beth Israel Hospital di Manhattan che lamenta una carenza di medici per curare tutti i pazienti con ictus, tutti tra i 30 e i 40 anni e tutti infettati dal coronavirus.
Pazienti molto giovani. J Mocco, direttore del Mount Sinai’s Cerebrovascular Center, ha dichiarato che il numero di pazienti arrivati con coaguli di sangue nel cervello è raddoppiato durante le tre settimane dell’ondata di Covid-19. Più della metà erano positivi, giovani e per lo più senza fattori di rischio. In una lettera che sarà pubblicata sul New England Journal of Medicine la prossima settimana, il team del Mount Sinai espone in dettaglio cinque casi studio di giovani pazienti che hanno avuto un ictus di 33, 37, 39, 44 e 49 anni. Le analisi suggeriscono che questi pazienti hanno sviluppato il tipo più mortale di ictus “da occlusione dei grandi vasi”, che colpisce persone di età media di 74 anni. Sembrerebbe essere collegato al problema di coaguli di sangue che il virus provoca in tutto il corpo. Un coagulo iniziato nei polpacci potrebbe migrare verso i polmoni, causando un blocco chiamato embolia polmonare, coaguli vicino al cuore possono causare un attacco di cuore (altra causa di morte nel Covid-19), un coagulo sopra al cuore probabilmente andrebbe al cervello.
Sintomi neurologici nel 36% dei pazienti. «Anche uno stato confusionale o le convulsioni possono corrispondere ad altrettante manifestazioni dell’infezione da nuovo coronavirus, che può esordire anche così. In tante città del nord sono state attivate delle unità “Neuro-Covid-19”», scrive il Policlinico Gemelli (QUI il testo completo) in un articolo che si occupa di questo tema grazie al professor Paolo Calabresi, Ordinario di Neurologia, l’Università Cattolica del Sacro Cuore e Direttore della UOC di Neurologia della Fondazione Policlinico Universitario A. Gemelli IRCCS. Nel pezzo si legge la conferma dell’interessamento del cervello da parte del virus: «Uno studio cinese sostiene che sintomi neurologici (eventi cerebro-vascolari, alterazioni dello stato di coscienza e alterazioni muscolari) sono presenti nel 36% dei pazienti con infezione da coronavirus. I sintomi neurologici nei pazienti Covid-positivi possono manifestarsi come ictus nel 6% dei casi (il virus influenza profondamente i meccanismi della coagulazione), come alterazioni dello stato di coscienza (confusione, stato soporoso, ecc) nel 15% e come danno muscolare nel 19%. Altri pazienti presentano uno strano e persistente formicolio alle mani e ai piedi (acroparestesia) e sintomi da encefalite».
Ictus, convulsioni, delirio. La maggior parte dei quadri di COVID-19 con interessamento neurologico sembrano attribuibili alla tempesta citochinica, cioè al meccanismo base di azione descritto per il Covid-19 che, nei casi gravi, scatena una reazione esagerata e fuori controllo del sistema immunitario che provoca i danni peggiori: dalla sindrome da distress respiratorio acuto, alle miocarditi. Ictus, convulsioni, delirio sono tra i sintomi registrati in diversi casi clinici nel mondo e anche in Italia. Proprio su questo fronte all’ospedale Civile di Brescia è stato aperto un centro Neuro-Covid attivo dallo scorso 23 marzo e che ospita degenti che hanno avuto sintomi da disturbi mentali, crisi epilettiche o forti mal di testa e sono risultati positivi al virus. Gli scienziati che hanno studiato la Sars avevano visto che il virus poteva infiltrarsi nel cervello di alcuni pazienti. Un articolo pubblicato sul Journal of Medical Virology sosteneva che non è da escludere la possibilità che il nuovo coronavirus possa essere in grado di infettare alcune cellule nervose.
Chiamare subito i soccorsi. Quindi reazione abnorme del sistema immunitario e il problema di coaguli di sangue. Per questo si sta sperimentando l’eparina che ha un potere antinfiammatorio e capacità anticoagulante. Esiste infatti l’evidenza che l’infezione possa, fin nelle sue fasi iniziali, ridurre la disponibilità di eparina endogena, poiché il virus si lega in prima istanza a questa sostanza (che interviene nella regolazione del processo di coagulazione del sangue), inattivandola e favorendo così fenomeni trombo-embolici. I medici sono spesso in grado di riaprire i vasi sanguigni bloccati attraverso varie tecniche ma deve essere fatto rapidamente, idealmente entro sei ore, ma non più di 24 ore. Il messaggio che viene dai medici è chi ha sintomi compatibili con un ictus (come debolezza o intorpidimento di faccia, braccia o gambe, soprattutto di un lato del corpo; vertigini, difficoltà a camminare, perdita di equilibrio e coordinazione; confusione, difficoltà nel parlare e nel capire; problemi alla vista a uno o entrambi gli occhi; fortissimo mal di testa senza una causa apparente) non deve aspettare e chiamare l’ambulanza con urgenza.
Sintomi devastanti su anziani. Ecco come riconoscere il virus. Uno studio condotto da numerosi istituti di ricerca ha dimostrato come, in molti anziani, i primi sintomi del virus non sono quelli tipici ma ben altri: apatia, confusione e vertigini potrebbero essere la spia del Covid. Necessario interpretarli in tempo per salvare loro e chi sta accanto. Alessandro Ferro, Giovedì 23/04/2020 su Il Giornale. Se il Covid si manifesta inizialmente con febbre, tosse e difficoltà respiratorie, per gli anziani potrebbe essere diverso: non i "classici sintomi" ma alcuni altri come apatia, disturbi intestinali o vertigini che comprometterebbero l'efficacia di trattamenti tempestivi ed appropriati.
Altri sintomi negli anziani. È quanto si apprende da uno studio condotto da numerosi istituti di ricerca e riportato dall'Agi: analizzando le fasce più a rischio, si è scoperto come in molti soggetti anziani positivi i primi sintomi non erano quelli "classici", diventati ormai la spia del virus, ma altri. "Gli anziani potrebbero non comportarsi come al solito, dormire più del solito o mostrare inappetenza. Possono sembrare apatici o confusi, perdere l'orientamento a causa di vertigini, smettere di parlare o semplicemente collassare", avverte Camille Vaughan, primario del reparto di Geriatria presso la Emory University in un'intervista alla Cnn.
Ecco i perché. Da cosa dipenderebbe, quindi, la differenza con la popolazione più giovane? "In età avanzata il corpo reagisce diversamente alle infezioni e alle malattie, la risposta immunitaria può essere ridotta e la capacità di regolare la temperatura corporea può essere alterata. Le malattie croniche possono interferire con i sintomi dell'infezione", afferma Joseph Ouslander, docente di Medicina geriatrica presso lo Schmidt College of Medicine della Florida Atlantic University.
"Fondamentale riconoscere i segnali". Se non colti in tempo utile, questi segnali potrebbero spianare la strada al Covid e mettere in serio rischio le fasce più deboli. "Senza i sintomi che abbiamo imparato ad associare al Coronavirus, gli anziani potrebbero essere soccorsi troppo tardi ed aggravarsi prima di ricevere le cure adatte oppure uscire senza le misure protettive, rischiando di diffondere ulteriormente l'infezione", ha proseguito l'esperto, che ha spiegato i motivi che differiscono i sintomi in alcuni anziani da tutti gli altri. "Alcune persone possono avere i riflessi della tosse alterati per complicazioni legate all'età o a precedenti episodi neurologici, come l'ictus - afferma Ouslander - i soggetti con deficit cognitivo potrebbero invece non essere in grado di comunicare i propri sintomi. Per questo è necessario riconoscere i segnali di pericolo".
Il precedente. Dagli Stati Uniti arriva il caso di un anziano signore che aveva manifestato tutti i sintomi tranne quelli abituali. "Abbiamo documentato il caso di un paziente di 80 anni, con precedenti patologie cardiache, diabete e un moderato deficit cognitivo, che ha manifestato incontinenza e difficoltà motorie, diventando profondamente letargico. Non aveva febbre o tosse, ma starnutiva in continuazione. I paramedici hanno rassicurato il coniuge per due volte, poi abbiamo eseguito il test sul paziente, risultato positivo al Covid-19", afferma Quratulain Syed, geriatra presso un ospedale di Atlanta.
"Eseguire i test". Per evitare un'ulteriore strage delle fasce a rischio, bisognerebbe monitorare attentamente la popolazione ed anticipare il virus anche quando si manifesta in maniera diversa. In una sola parola, test. "Molti anziani potrebbero sperimentare apatia o depressione. Bisogna indagare sulle possibilità di esposizione della popolazione anziana e valutare le necessità assistenziali, le condizioni di salute e monitorare i sintomi di malessere e, anche se non legati alla normalità del Coronavirus, in assenza di miglioramento potrebbe essere consigliabile eseguire comunque il test", concludono gli esperti.
Da "ilmessaggero.it" il 14 aprile 2020. Il coronavirus potrebbe penetrare nel sistema nervoso aggravare malattie preesistenti come Alzheimer, epilessia, Parkinson. Secondo l'ipotesi di un gruppo di neuropsichiatri e fisiologi guidati dal professor Luca Steardo, dell'università Giustino Fortunato di Benevento e dell'università Sapienza di Roma, il Covid-19 potrebbe penetrare nel sistema nervoso centrale (S.N.C.) creando una severa neuroinfiammazione in grado di causare o aggravare il decorso di malattie, come Alzheimer, epilessia, Parkinson disturbi come psicosi, disturbi da stress post-traumatico, autismo e depressioni maggiori. Secondo lo studio gli aspetti neurologici e psichiatrici dell'attacco virale dovrebbero essere presi in considerazione nella progettazione delle strategie terapeutiche riabilitative rivolte a chi si è ammalato di Covid-19. L'ipotesi è descritta in un editoriale pubblicato dalla rivista Acta Physiologica.
Il primario ora lancia l'allarme "Qui scattano reazioni iperimmuni". Il primario del Papa Giovanni XXIII di Bergamo lancia l'allarme: "Arrivano 30enni e 35enni che sviluppano la malattia in forma grave". Possibile una reazione immunitaria spropositata. Francesca Bernasconi, giovedì 16/04/2020 su Il Giornale. Da metà marzo, nella Terapia intensiva dell'ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo, i medici hanno iniziato a ricevere pazienti molto giovani, positivi al Sars-CoV-2, che hanno sviluppato la malattia in una forma grave. A renderlo noto, parlando al Corriere della Sera, è il primario del dipartimento di Emergenza, urgenza e area critica, Luca Lorini. "Effettivamente c’è una popolazione di pazienti estremamente giovane- ha spiegato- parlo di trentenni e trentacinquenni, che sviluppa la malattia in una forma molto grave. Abbiamo iniziato a riceverli più o meno dalla metà di marzo". Il motivo di questo cambio di rotta, rispetto all'età media dei pazienti è ancora senza una spiegazione e Lorini mette in guardia da chi sostiene il contrario: "Se qualcuno afferma di sapere il perché, oggi, dice una bugia. Per ora possiamo solo fare ipotesi". La prima possibilità, spiega il primario "è che grazie alla loro giovane età questi pazienti abbiano resistito più a lungo e che poi siano arrivati in ospedale ormai molto compromessi". La seconda, invece, ritenuta la più probabile, "è che in alcuni giovani il virus scateni una reazione iperimmune, una reazione spropositata che è peggio del virus, un po’ come avviene in chi rigetta il trapianto". Questa seconda ipotesi è sostenuta da alcuni dati: "Per esempio il fatto che, rispetto agli anziani, i giovani visti finora non hanno altri organi intaccati. Solo il polmone è malato e peggiora in maniera spropositata". Un'altra possibilità, tra quelle messe sul tavolo, "è che ci siano varianti del virus, qualche ceppo diverso". Ma Lorini ribadisce: "Sono solo ipotesi, ma ci arriveremo e questo ci aiuterà a dire quale è la terapia migliore". Adesso, l'età media dei pazienti ricoverati in Terapia intensiva al Papa Giovanni XXIII di Bergamo si è abbassata. Secondo quanto riporta il Corriere della Sera, è di 58 anni e di 62 quella a livello regionale. E tra le vittime, se ne contano 37 di età inferiore ai 50 anni. La più giovane era una ragazza di 31 anni, originaria del Senegal. L'ambulanza l'aveva portata al pronto soccorso la notte del 21 marzo scorso. Poco dopo era deceduta, risultando positiva al coronavirus. Era incinta e già madre di un bimbo di un anno e mezzo. "Da una settimana aveva febbre e tosse- ha raccontato il fratello- ma niente di così grave. L’ultima volta che ci siamo parlati, il venerdì sera, l’avevo sentita bene. Poi, nella notte, è peggiorata all’improvviso, aveva dolori e ha perso i sensi. I medici dell’ambulanza hanno cercato di rianimarla e l’hanno portata in ospedale, ma dopo un paio d’ore ci hanno chiamato per comunicarci che non ce l’aveva fatta".
Ecco quali sono gli organi su cui esplode la forza del virus. A lanciare l'allarme 80 medici britannici: il Coronavirus potrebbe colpire anche numerosi altri organi come cuore, reni, cervello, fegato e pancreas. Inoltre, in un numero limitato di persone, si potrebbero registrare danni permanenti anche dopo la completa guarigione. Alessandro Ferro, Giovedì 09/04/2020 su Il Giornale. Che Covid-19 colpisca essenzialmente i polmoni lo sappiamo tutti ma questo perfido virus può intaccare in maniera rilevante anche altri organi del corpo umano come cuore, vasi sanguigni, intestino, reni e cervello. L’allarme è stato lanciato da una nota di 80 medici britannici riuniti in teleconferenza e pubblicata in prima pagina sul Financial Times. "Le carenze di cui siamo preoccupati vanno ben oltre la mancanza di ventilatori o disposizioni di protezione - si legge - a Londra si stanno esaurendo le attrezzature vitali per le terapie intensive comprese le macchine per la dialisi".
Un attacco "multiorgano". Come si legge sul Corriere, su 690 pazienti del Regno Unito ricoverati in terapia intensiva, il 25% ha avuto bisogno di un supporto cardiovascolare avanzato, il 18,5% ha richiesto dialisi, il 4,5% supporto neurologico. In particolare, l’insufficienza renale acuta sembra essere fra le complicanze più frequenti così come già riportato dai medici cinesi nelle loro prime relazioni in cui si parlavano di "attacco multiorgano" e l'Oms aveva appena "battezzato" il nuovo virus con il nome di Sars-CoV2. Ma non è tutto: sebbene in maniera meno frequente, sta emergendo che possono soffrire anche numerosi altri organi.
Lo stomaco. "Non necessariamente il Coronavirus colpisce solo il polmone - ha dichiarato al New York Times Compton-Phillips, responsabile clinico del sistema sanitario di Providence che ha seguito il primo caso di contagio negli Stati Uniti - l’infezione può diffondersi attraverso le mucose, dal naso fino al retto". Secondo gli esperti, quindi, il virus potrebbe anche essere in grado di infettare le cellule del sistema gastrointestinale e potrebbe essere il motivo per cui alcuni pazienti presentano sintomi come diarrea o indigestione.
Il fegato. Uno studio pubblicato il 14 marzo nella rivista Liver International dimostra che alcuni danni al fegato sono stati segnalati da ricercatori dell’Università delle Scienze di Wuhan, la città da cui si è diffusa la pandemia nel mondo: questi studiosi sostengono però che, oltre al virus, i danni potrebbero essere stati causati dai farmaci utilizzati per curarlo. Il fegato è comunque un organo a rischio perché, una volta che il virus entra nel flusso sanguigno, può arrivare a qualsiasi parte del corpo arrivandolo ad infettare direttamente.
I reni. Il Coronavirus non risparmia neppure i reni: come per i pazienti di Sars e Mers (il 6%) anche Covid può fare lo stesso. Una ricerca cinese ha dimostrato come i pazienti contagiati dal virus sviluppino facilmente una insufficienza renale acuta (27%) soprattutto se anziani o affetti da altre patologie come ipertensione atriale e insufficienza cardiaca.
Il cuore. Purtroppo, anche il cuore è sotto tiro: oltre ad una mancanza di ossigeno che può provocare un arresto cardiaco, non è rara una reazione immuno-infiammatoria con una sofferenza miocardica. Oltre all’infarto del miocardio, sono stati osservati anche dolori al torace per la pericardite, l’infiammazione del rivestimento del cuore e la miocadite, infiammazione del muscolo cardiaco. Sulle pagine del Giornale abbiamo trattato il caso italiano di una donna di Brescia.
Rischio di morte 4 volte più alto. Uno studio cinese pubblicato sulla rivista specializzata Jama Cardiology ha scoperto che il 20% dei pazienti ricoverati per Covid-19 ha sofferto di danni cardiaci: molti di loro non avevano alcuna patologia cardiologica pregressa ma gli elettrocardiogrammi di questi pazienti erano anomali ed il loro rischio di morte era di quattro volte maggiore rispetto a chi non aveva accusato complicanze cardiache.
Il pancreas. Un altro organo vitale che viene danneggiato dal virus è il pancreas, che produce l’insulina. Non viene attaccato direttamente, ma lo è indirettamente nei pazienti diabetici. Durante un’infezione, aumenta la necessità di insulina ed il pancreas di un diabetico non ne produce più. "Per questo, in caso di pazienti diabetici con il Covid-19, è necessario verificare più frequentemente la glicemia ed aumentare, se possibile, le dosi di insulina anche se mangiano poco", ha dichiarato Marc de Kerdanet, pediatra e diabetologo, presidente dell’associazione che aiuta i giovani diabetici.
Il cervello. Il Coronavirus potrebbe dare problemi neurologici, anche prima della comparsa dei sintomi respiratori: ictus, convulsioni e delirio tra i sintomi più frequenti registrati in diversi casi clinici in Italia e nel mondo come accaduto ad una donna 50enne di Detroit in stato confusionale che lamentava un forte mal di testa ed, a stento, riusciva a riferire il suo nome. La risonanza magnetica al cervello ha permesso di scoprire una rara malattia, l’encefalopatia acuta necrotizzante, grave complicanza che può comparire anche con influenza ed altre infezioni virali. La donna è poi risultata positiva al tampone per il Covid-19.
Un centro Neuro-Covid a Brescia. L'ospedale Civile di Brescia, lo scorso 23 marzo ha aperto un centro Neuro-Covid per tutti coloro che hanno avuto sintomi da disturbi mentali, crisi epilettiche o forti mal di testa e sono risultati positivi al virus. Ancora, però, non è ancora stato possibile documentare con certezza se il virus possa davvero influenzare il cervello.
Dopo la guarigione. Indipendentemente da dove colpirà il Covid, alcuni sopravvissuti potrebbero non riuscirsi a riprendersi del tutto e i danni potranno essere permanenti, soprattutto per quanto riguarda i polmoni. Alcuni ricercatori di Hong Kong, con un piccolo studio su 12 pazienti, hanno scoperto che due-tre di loro, dopo aver lasciato l’ospedale, non avevano ripreso la completa funzionalità polmonare. Per loro, la prospettiva di una lunga riabilitazione con terapie di supporto.
Ecco i nuovi sintomi da Covid Così il virus attacca l'intestino. Oltre a febbre, tosse e perdita di olfatto, anche i disturbi gastrointestinali sono una spia del coronavirus. La ricerca italiana: spesso sono gli unici sintomi di Covid-19. Giorgia Baroncini, Mercoledì 08/04/2020 su Il Giornale. Febbre, tosse e perdita di olfatto: sono questi i sintomi più noti del coronavirus, i campanelli d'allarme che ci fanno pensare ad un contagio. Ora però gli scienziati hanno individuato altri segnali della malattia, come i problemi gastrointestinali. Lo studio tutto italiano - condotto da ricercatori dell'Università Sapienza e Tor vergata di Roma e pubblicato sul Cureus journal of medical science - ritiene questi sintomi una importante spia del coronavirus, dal momento che spesso compaiono ancor prima dei classici problemi respiratori. Ma ci sono anche casi in cui quelli gastrointestinali sono stati addirittura gli unici sintomi di Covid-19. "Prima della manifestazione dei sintomi respiratori, una parte significativa dei pazienti con Covid-19 può presentare diarrea, nausea, vomito e fastidio addominale - ha spiegato Massimiliano Cipriano del Dipartimento di Chirurgia laparoscopica del Policlinico Umberto I di Roma, come riporta Adnkronos -. Pertanto i medici dovrebbero valutare sempre la presenza di questi sintomi nelle persone che sono state a contatto con un paziente positivo o potenzialmente a rischio di aver contratto il virus cinese e non fermarsi alla presenza o all'assenza dei sintomi respiratori" anche perché, ha continuato, "in alcuni casi potrebbe essere il solo sintomo della malattia". I ricercatori hanno così invitato tutti a non sottovalutare la comparsa dei sintomi diversi da febbre o tosse. "È necessario, dunque, monitorare i pazienti con disturbi gastrointestinali iniziali in modo da diagnosticare per tempo il contagio e intervenire in anticipo iniziando prima le cure e la quarantena per controllare la diffusione del virus", ha aggiunto Cipriano. I dati analizzati dalla ricerca italiana hanno portato alla luce anche un altro importante aspetto: l'Rna virale, hanno specificato gli scienziati, è presente nelle feci di individui infetti e può persistere anche dopo la scomparsa dei sintomi respiratori e quando i tamponi oro-faringei risultano negativi. "Questi risultati - hanno sottolineato dal team di ricerca - evidenziano la possibilità di un contagio oro-fecale anche quando il virus è scomparso dal tratto respiratorio". E questo dato potrebbe aprire un altro scenario. "Se l'ipotesi fosse confermata, la ricerca del virus nelle feci potrebbe rivelarsi ancora più efficace nel segnalare la definitiva scomparsa del virus dall'organismo limitando così la possibilità di ulteriori fonti di contagio per la comunità", hanno concluso. Pochi giorni fa, uno studio cinese aveva scoperto che la metà dei pazienti trattati con sintomi lievi di coronavirus presenta ancora il virus nell'organismo fino a otto giorni dalla scomparsa dei sintomi, quando l'esito del tampone era ormai diventato negativo. Questo ultimo studio potrebbe fornire una svolta: la ricerca del virus nelle feci potrebbe infatti indicare la definitiva scomparsa del virus.
Il coronavirus non provoca solo tosse e crisi respiratorie. Ecco i sintomi più rari, dalla diarrea al vomito. Don Reisinger su it.businessinsider.com l'1/4/2020. I sintomi minori di COVID-19 includono perdita di olfatto e gusto, dolori di stomaco, dolori muscolari e nausea. Il virus COVID-19 potrebbe farsi strada attraverso il corpo in maniera diversa a seconda della forza del sistema immunitario di ogni persona; fatto che potrebbe spiegare la gran varietà e diversità intensità di sintomi. Sintomi non associati al COVID-19 includono dolore a un arto specifico, lesioni cutanee o pustole. Le infezioni da coronavirus provocano una varietà di sintomi comuni, tra cui tosse secca, febbre e, in particolare tra i casi moderati e gravi, respiro affannoso. Ma i dottori che hanno curato pazienti affetti da COVID-19 hanno osservato un gran numero di altri sintomi che non sono stati generalmente associati con altre infezioni da coronavirus. “Sintomi aggiuntivi provati dalle persone colpite comprendono la perdita dell’olfatto e del gusto, dolori di stomaco e muscolari, e nausea”, ha detto il dott. Edo Paz, vice presidente del ramo medico presso la compagnia di telemedicina K Health. Problemi gastrointestinali, tra cui nausea, diarrea e anche vomito, sono piuttosto prevalenti nei pazienti affetti da COVID-19. Il dottor David Hirschwerk, specialista di malattie infettive presso Northwell Health, il maggiore fornitore di servizi sanitari di New York, ha detto che dalla sua esperienza, ” il 10% dei pazienti ha sintomi gastrointestinali”. Quello che però i medici non capiscono è come mai sembra esserci una così ampia gamma di sintomi — ed esiti — del COVID-19. “La comunità medica non sa ancora perché il coronavirus colpisce le persone in maniera diversa, alcune più intensamente di altre”, ha detto Paz. Ma il dott. Rishi Desai, ufficiale medico capo presso Osmosis, ritiene che i sintomi e gli esiti siano collegabili direttamente al modo in cui il coronavirus avanza all’interno dell’organismo di ogni persona contagiata. “Ogni persona ha un sistema immunitario unico, di conseguenza alcune persone reagiranno al COVID-19 in maniera molto aggressiva, diversamente da altre”, ha detto Desai. “Di solito, i sintomi corrispondono al punto del corpo in cui il virus è situato”.
Come COVID-19 avanza attraverso il corpo umano. Desai ha detto che il virus colpisce prima il naso e il fondo della gola, provocando sintomi simili a quelli del raffreddore comune, tra cui congestione, naso che cola e gola irritata. È in questa fase che i pazienti perderanno anche i sensi dell’olfatto e del gusto. Quindi, ha detto Desai, il virus si sposta verso i polmoni, provocando eventualmente respiro affannoso, tosse e dolori al petto. Potrebbe poi muoversi nel sistema circolatorio, da dove potrebbe provocare febbre, sudore notturno, malessere e stanchezza. “Ciò significa che alcune persone potrebbero sviluppare solo sintomi localizzati in una regione, mentre atri potrebbero sviluppare un insieme di sintomi in tutte le regioni”, ha detto Desai. È altrettanto preoccupante che molti sintomi del COVID-19 siano associabili ad altri disturbi, rendendo più complicata la diagnosi della malattia.
Sintomi non associati al COVID-19. Secondo Desai, ci sono alcuni sintomi fino ad ora non correlati al COVID-19. “Il COVID-19 non provoca i sintomi focali che interessano gli arti (ad es. dolore alla gamba sinistra), non provocano lesioni cutanee focali o eruzioni cutanee (ad es. pustole), e non provocano sintomi cronici, cioè quelli che durano per mesi e mesi”, ha detto Desai. Sfortunatamente, nessuno riesce a prevedere il modo in cui il coronavirus li colpirà. E ciò rende ancora più importante la prevenzione. Ma gli esperti non hanno una soluzione miracolosa per assicurare la protezione. In questa fase, le persone devono osservare semplicemente una buona igiene e il distanziamento sociale. “Lavatevi spesso le mani con acqua e sapone”, ha detto Paz. “E, per quanto possibile, non toccatevi la faccia!”.
Maria Elena Perrero per "gazzetta.it" l'1 aprile 2020. L’epidemia di coronavirus coincide ormai con il periodo delle allergie respiratorie stagionali. C’è un modo per distinguere le due sintomatologie? “I sintomi comuni sono diversi – spiega a Gazzetta Active il dottor Pasqualino Berardinelli, pneumologo Punti Raf First Clinic – “Prurito al naso, starnutazione, abbassamento della voce, tosse, asma o comunque difficoltà respiratoria, congiuntivite, prurito agli occhi. Tutti questi sintomi si possono avere anche da un processo infiammatorio collaterale come il coronavirus“.
Ci sono però alcune differenze.
“Solitamente l’allergia non è accompagnata da febbre, anche se in rari casi si può presentare una febbricola. Ma la febbre da infezione virale è in genere diversa: più alta e soprattutto è accompagnata dai brividi. E mai in un’allergia si ha il brivido, che è il risultato della moltiplicazione cellulare dei virus nel nostro sangue. Se abbiamo i brividi è perché i microbi o i virus sono passati nel sangue e il nostro organismo si sta difendendo producendo sostanze che cercano di eliminare il nemico entrato nel sangue”.
Ci sono altre differenze da considerare?
“L’infezione da coronavirus richiede alcuni giorni per stabilizzarsi e creare malattia. In quei giorni se uno è abbastanza sano reagisce come di fronte ad altri virus. L’allergia respiratoria stagionale si manifesta invece in modo immediato, legato all’esposizione alla sostanza allergizzante”.
C’è poi la prova definitiva.
“Se, assumendo un antistaminico, passa tutto, allora si tratta inequivocabilmente di allergia”, prosegue lo pneumologo, che ricorda anche un aspetto importante per tutti soprattutto in questo periodo. “Ad influire sulla capacità dell’organismo di reagire alla malattia respiratoria è anche il patrimonio genetico, di capacità difensive. Influiscono non solo le patologie pregresse, ma anche lo stato di salute più generale. Se una persona è particolarmente allenata anche a livello cardiovascolare risponde meglio ad un’infezione respiratoria acuta. Gli obesi, per esempio, rispondono meno bene. Anche il fumo abbassa le difese, così come l’alcol. Da questa esperienza di malattia collettiva dovremmo tutti trarre l’indicazione che una migliore gestione del proprio patrimonio di salute aiuterebbe molto a superare certi passaggi drammatici”, sottolinea Berardinelli.
Antonio G. Rebuzzi, Professore di Cardiologia Università Cattolica Roma per “il Messaggero” l'1 aprile 2020. La pandemia da Covid-19 ha effetti anche sul cuore? La risposta è, purtroppo, positiva. La gran parte degli articoli pubblicati in questo periodo sulle più importanti riviste scientifiche sono concordi nell'affermare che i pazienti cardiopatici sono a maggior rischio rispetto alla popolazione non cardiopatica nel momento in cui entrano in contatto con il virus. Negli ultimi giorni è stato pubblicato sulla rivista Circulation (una sorta di edizione straordinaria) un interessante articolo su Covid-19O e malattie cardiovascolari, curato da Nir Uriel della Divisione di Cardiologia della Columbia University di New York, in cui si fa la storia della pandemia e dei suoi effetti dannosi sul sistema cardiovascolare. Il virus entra nell'organismo legandosi alla proteina ACE2. Questa è presente nel polmone ma anche in molti altri organi (epitelio intestinale, rene, endotelio vascolare) ed in gran quantità anche nel tessuto cardiaco. La malattia cardiovascolare, che era stata identificata solo come patologia coesistente all'infezione appare essere un fattore molto importante della prognosi nell'attuale pandemia. Una recente analisi su oltre 1000 pazienti cinesi, effettuata da Jae-Waan Guan pubblicata sul New England Journal of Medicine riporta che il 24% dei Covid positivi aveva problemi di cuore. E la percentuale sale al 58% tra quelli intubati o deceduti. Tra i problemi cardiaci il più frequente era l'ipertensione (15% del totale, 36% dei più gravi) seguito dal diabete (7,4% del totale, 27% dei più gravi). Dati della National Health Commission cinese del 5 marzo dimostrano che il 35% dei Covid positivi era iperteso ed il 17% aveva malattia coronarica. È chiaro quindi che le problematiche cardiovascolari sono comuni nei pazienti con Covid-19, e che questo rende i pazienti ad alto rischio. I motivi ipotizzati sono vari (età, sistema immunitario non efficace, elevati livelli di ACE2) ma per nessuno di questi abbiamo chiara evidenza scientifica. Altro problema è che questo virus, come altri, può a sua volta causare un danno cardiaco. In uno studio di Dai Wang effettuato sulla popolazione di Wuhan e pubblicato sul Journal of American Medical Association il 7% dei positivi aveva segni di importante danno cardiaco (percentuale che saliva al 22% nei pazienti ricoverati in terapia intensiva). Le ipotesi formulate per la spiegazione del rialzo enzimatico anche in questo caso sono varie, anche se la più probabili è una infiammazione del muscolo cardiaco (miocardite acuta) provocata dal virus. In conclusione il danno miocardico è evidente in un'alta percentuale dei casi di infezione e si presenta o come un evento acuto con conseguente scompenso grave o come danno progressivo che si sviluppa col proseguire dell'infezione pregiudicandone la prognosi.
Antonio G.Rebuzzi, Professore di Cardiologia Università Cattolica- Policlinico Gemelli Romaper, su "Il Messaggero" il 5 agosto 2020. Quanto ha influito il Covid sul cuore? Abbiamo scritto più volte dei danni del virus sul muscolo cardiaco. Nei pazienti infetti si sono registrate varie patologie, dalla miocardite (infiammazione delle cellule muscolari con, a volte, morte delle cellule stesse) alla pericardite (infiammazione del foglietto che avvolge il cuore) con successivo versamento pericardico. Si è parlato delle aritmie, più o meno pericolose, che spesso si associano all'infezione da Covid.
L'INFARTO. Infine, molto si è discusso dell'importanza di alcuni farmaci antipertensivi nel facilitare l'ingresso del virus. Tutto ciò riguarda l'effetto diretto dell'infezione sul cuore. In un recente articolo del Journal of American Medical Association, Ahmad Jabri e coll. del Department of Cardiovascular Medicine della Cleveland Clinica (Ohio) hanno analizzato un particolare aspetto delle conseguenze dello stress psicologico, sociale ed economico provocato dal Covid-19: la cosiddetta cardiomiopatia da stress o Sindrome di Takotsubo. Questa patologia, spesso indotta dallo stress, è caratterizzata da una sintomatologia molto simile all'infarto con dolore, sensazione di morte imminente, alterazioni della contrattilità cardiaca e dell'elettrocardiogramma tipiche dell'infarto. Con due differenze: 1) le arterie coronarie sono completamente normali e il danno sembra essere legato ad uno spasmo delle microscopiche arteriole che partono dalle coronarie per irrorare le singole cellule cardiache 2) il danno è spesso (anche se non sempre) reversibile.
I GRUPPI. Gli autori hanno analizzato 2000 pazienti ricoverati dal 2018 ad oggi nelle unità coronariche degli ospedali afferenti alla Cleveland Clinic e li hanno divisi in due categorie: i ricoverati nel periodo pre-Covid e i pazienti ammessi nel periodo Covid (marzo-aprile 2020). Non vi erano differenze significative tra i due gruppi, sia per quanto riguarda l'età dei pazienti, sia per le patologie associate (tranne una maggiore presenza di ipertesi nel gruppo del periodo-Covid). A fronte di questo si è registrata una media dell'1,5% di pazienti con cardiomiopatia da stress nel periodo pre-Covid e di circa l'8% nel periodo-Covid. Oltre a ciò si è registrato un allungamento di quasi il doppio del ricovero nel periodo Covid, non in relazione al danno cardiaco. Le ipotesi: 1) il Covid-19 agisce direttamente sui piccoli vasi, oltre che sulle cellule muscolari cardiache, causandone uno spasmo generalizzato 2) l'origine va ricercata nella paura di contrarre l'infezione e nello stress causato dal cambiamento di vita (isolamento sociale, bombardamento mediatico, distacco dai propri cari, mascherine, paura per il futuro nostro e dei nostri cari ecc). Questa ritengo essere la tesi più probabile. Come già nel XVII secolo chiariva il medico inglese William Harvey ogni affezione della mente che si manifesti con speranza o con paura è causa di una agitazione la cui influenza si estende al cuore.
Cristina Marrone per "corriere.it" il 19 settembre 2020. Un piccolo studio pubblicato suJama Cardiology ha rilevato che 4 atleti universitari su 26 (il 15%) sottoposti ad una risonanza magnetica cardiaca dopo essere stati esposti al Sars-CoV-2, avevano sviluppato dei segni suggestivi per una miocardite. Questo nonostante nessuno degli atleti fosse stato ricoverato in ospedale, infatti 12 avevano avuto sintomi lievi, mentre i restanti avevano avuto un decorso asintomatico.
La miocardite. La miocardite è un’infiammazione del muscolo cardiaco in genere associata a esposizioni virali o a malattie autoimmuni che in casi molto rari può portare alla morte improvvisa, specialmente nei giovani. Nel corso dei mesi di epidemia da coronavirus si è però visto che Covid-19, la malattia scatenata da Sars-CoV-2 non colpisce solo i polmoni , ma tra l’8 e il 28% dei casi anche il cuore sulla base degli esami del sangue eseguiti durante la fase acuta della malattia. Sono poi stati riscontrati numerosi casi di miocardite in tutto il mondo di cui uno dei primi descritti proprio agli Spedali Civili di Brescia a fine marzo e pubblicato su Jama Cardiology. «Potenzialmente un coronavirus può innescare una miocardite, così come lo può fare un virus al pari dell’influenza» aveva commentato Enrico Ammirati, cardiologo del Niguarda, esperto di miocarditi presentando quel primo caso trattato ancora mesi fa.
Danni da miocardite anche senza sintomi. Ora però le ricerche si stanno concentrando sulle conseguenze a lungo termine quando la fase infiammatoria acuta da Covid-19 è risolta. Studi recenti hanno infatti sollevato preoccupazioni rispetto alla possibilità che questa patologia possa lasciare conseguenze sul cuore dopo la guarigione anche in pazienti asintomatici o lievemente sintomatici oppure in pazienti che durante la malattia non avevano riportato sintomi cardiaci. Infatti, sempre un lavoro basato sulla risonanza magnetica cardiaca ha mostrato che su 100 pazienti che erano stati esposti al coronavirus, sia trattati a casa che in ospedale, la presenza di infiammazione cardiaca residua raggiungeva il 60%. Lo studio condotto a Francoforte in Germania e ancora una volta pubblicato su Jama Cardiology suggerisce come l’interessamento cardiaco possa essere più alto anche rispetto a quanto inizialmente sospettato. «Va però sottolineato che queste alterazioni cardiache osservate alla risonanza, non necessariamente porteranno ad una patologia cardiacaspecifica e probabilmente nella maggior parte dei casi lasceranno delle cicatrici senza che si riduca la funzionalità cardiaca. In ogni caso maggiori ricerche specifiche sono necessarie» ha aggiunto il dottor Ammirati.
Lo studio sugli atleti esposti al coronavirus. Lo studio sui giovani atleti con una media di 19 anni è stato condotto da ricercatori dell’Ohio State University di Columbus negli Stati Uniti. Gli atleti arruolati, uomini e donne, praticavano football americano, calcio, basket, lacrosse, atletica leggera. Nessuno di loro ha avuto bisogno del ricovero per Covid-19 o ha ricevuto una terapia antivirale specifica. I 12 sintomatici avevano riportato sintomi lievi durante l’infezione (mal di gola, mancanza di respiro, mialgie, febbre), mentre gli altri 14 erano asintomatici. Per studiare gli effetti del coronavirus sul cuore gli atleti hanno effettuato diversi test e una risonanza magnetica cardiaca. «Abbiamo deciso che oltre alle solite raccomandazioni, un esame clinico e la ricerca dei sintomi, avremmo anche fatto una risonanza magnetica cardiaca per ottenere maggiori informazioni e vedere cosa fa il virus ai cuori degli atleti», spiega il cardiologo Saurabh Rajpal coautore dello studio, secondo quanto riporta Nbc news online. Quello che ha colpito gli esperti è che due dei 4 atleti nei quali la risonanza ha rilevato la miocardite non presentavano alcun sintomo, gli altri due sintomi lievi (mancanza di respiro). Le risonanze magnetiche dell’atleta erano l’unica prova di danno cardiaco. Nessuno degli atleti ha avuto anomalie negli altri test, incluso l’elettrocardiogramma o un esame del sangue per i livelli di troponina, una proteina che indica la presenza di sofferenza cardiaca. La ricerca mostra come la miocardite può verificarsi anche in casi meno gravi di Covid-19 o addirittura asintomatici e il rischio di miocardite di un atleta potrebbe non essere correlato alla gravità dei sintomi respiratori . «Rimane da chiarire per quanto tempo dopo l’esposizione al coronavirus nelle persone che sviluppano la miocardite l’infiammazione rimane attiva, infatti questo potrebbe portare a dover sospendere l’attività sportiva per un periodo di alcuni mesi per evitare sollecitazioni al cuore infiammato. I dati su questo punto sono però mancanti al momento», conclude il dottor Ammirati.
Paura per la sindrome Takotsubo: che cosa accade con il Covid. I risultati dello studio condotto dai ricercatori della Cleveland Clinic (Ohio) sono stati pubblicati sul Journal of American Medical Association. Maria Girardi, Mercoledì 05/08/2020 su Il Giornale. Secondo recenti stime, nei Paesi Occidentali, interesserebbe il 2-3% di tutti i soggetti che manifestano i sintomi di un infarto. Nel 90% dei casi si tratta di donne di età compresa tra i 58 e i 75 anni. Nota anche con il nome di sindrome del cuore infranto, la sindrome di Takotsubo è una sofferenza, generalmente temporanea, del cuore che richiama la sintomatologia dell'infarto e che è scatenata da una situazione emotiva o stressante molto intensa. A descrivere il disturbo, nei primi anni '90 del Novecento, alcuni ricercatori originari del Giappone. “Takotsubo”, infatti, è una parola giapponese che fa riferimento a una specie di cestello usato dai pescatori per catturare i polpi. Come quest'ultimo, infatti, appare il ventricolo sinistro del paziente durante le indagini ecocardiografiche. La patologia è un esempio di cardiomiopatia non ischemica. La causa precisa della sindrome di Takotsubo non è ancora nota, tuttavia, come già accennato, essa sembrerebbe essere l'esito di un evento particolarmente stressante o di una forte emozione. Situazioni del genere provocano un ingente rilascio di adrenalina e noradrenalina. Questa cascata ormonale, in individui predisposti, altera la funzione di pompa del sangue del ventricolo sinistro del cuore. È stato osservato che i principali triggers della cardiomiopatia da stress includono: morte di una persona cara, separazione o divorzio, diagnosi di una malattia grave, violenza domestica, perdita del lavoro. Ancora problemi finanziari, discorsi in pubblico, feste a sorpresa, stress fisici (attacchi d'asma, interventi di chirurgia maggiore, fratture ossee). Da non sottovalutare l'assunzione di alcuni farmaci (epinefrina, levotiroxina, duloxetina, venlafaxina) il cui effetto è quello di elevare i livelli di adrenalina e/o noradrenalina. I sintomi della sindrome di Takotsubo, che possono comparire entro pochi minuti dall'evento stressante o dopo alcune ore, sono sovrapponibili a quelli di un infarto: dolore al petto acuto e improvviso, senso di svenimento, mancanza di respiro. A differenza dell'infarto, però, le arterie coronarie non presentano al loro interno ateromi che impediscono il flusso di sangue. In genere il disturbo è temporaneo e non causa ripercussioni a lungo termine. In alcune circostanze può, tuttavia, accadere che si trasformi in una condizione cardiaca grave e che dia luogo a complicazioni tra cui: ipotensione, edema polmonare, aritmie e addirittura arresto cardiaco. La comparsa improvvisa di segni clinici quali dolore al petto e dispnea deve indurre a chiedere un'assistenza medica immediata. Alcuni ricercatori della Cleveland Clinic (Ohio) hanno voluto analizzare l'eventuale correlazione tra la sindrome di Takotsubo e il Coronavirus. I dati dello studio, quest'ultimo pubblicato sul Journal of American Medical Association, fanno riflettere. Gli scienziati hanno analizzato duemila pazienti ricoverati dal 2018 ad oggi nelle unità coronariche degli ospedali afferenti alla Cleveland Clinic e li hanno divisi in due categorie: i soggetti ricoverati nel periodo pre-Covid e quelli ammessi nel periodo Covid (marzo-aprile 2020). Tranne una maggiore presenza di ipertesi nel gruppo del periodo pre-Covid, non vi erano differenze significative, sia per quanto riguarda le patologie associate, sia per l'età. Si è dunque registrata una media dell'1,5% di pazienti con sindrome da cuore infranto nel periodo pre-Covid e di circa l'8% nel periodo Covid. Due le ipotesi. La prima è che il Coronavirus agisce direttamente sui piccoli vasi, oltre che sulle cellule muscolari cardiache, provocandone uno spasmo generalizzato. La seconda, la più probabile, suggerisce invece che l'origine della sindrome va ricercata nella paura di contrarre l'infezione e nella tensione causata dal cambiamento di vita (timore per il futuro, ansia per la salute dei propri cari, isolamento sociale, uso delle mascherine).
"Quegli infarti mai visti prima": l'allarme dei medici sul virus. I cardiologi lombardi che hanno lottato nell'emergenza lanciano l'allarme: "Vediamo persone con recuperi molto lenti". Federico Garau, Venerdì 17/07/2020 su Il Giornale. Un quadro allarmante quello ricostruito da un gruppo di cardiologi lombardi in prima linea durante l'emergenza Coronavirus. Intervistati da AdnKronos, i medici hanno spiegato come il virus sia stato in grado di provocare effetti a dir poco devastanti sul cuore dei pazienti contagiati, causando infarti e seri danni a livello cardiovascolare. Intervenuto durante la riunione a Palazzo Lombardia fra l'assessore al Welfare Giulio Gallera ed i rappresentanti dei 13 centri individuati come hub in cardiologia, il professor Claudio Cuccia, direttore del dipartimento cardiovascolare della poliambulanza di Brescia, ha ricordato quei giorni terribili: "Abbiamo visto infarti completamente diversi da quelli che eravamo abituati a vedere", ha raccontato all'AdnKronos. "Facevamo la coronarografia e vedevamo poltiglia di trombo. Abbiamo detto: attenzione, perché c'è una risposta trombotica esageratamente alta nei pazienti con Sars-CoV-2. E ora non sappiamo ancora quali segni ha lasciato Covid per il futuro". Riferisce lo stesso anche il dottor Carlo Mario Lombardi, operativo presso il reparto di cardiologia degli Spedali Civili di Brescia. Secondo Lombardi, gli effetti del Coronavirus sarebbero presenti ancora oggi, con pazienti che accedono al pronto soccorso dopo sospetti episodi di dolore toracico, concentrati nei mesi di marzo, aprile e maggio. Persone che "non avendo potuto usufruire di cure immediate, oggi arrivano con una disfunzione cardiaca molto importante e tardiva". Le informazioni e i dati raccolti nei centri hub hanno in effetti confermato che dal 21 febbraio al 7 maggio 2020 ben 953 persone sono finite in ospedale a causa di una sindrome coronarica acuta. Di questi soggetti, il 50% ha raggiunto l'ospedale tramite ambulanza del 118. "I pazienti con diagnosi Covid erano il 17%, ma il risultato impressionante è che la fase ospedaliera ha un dato di mortalità e shock cardiogeno totalmente sbilanciato per questi malati positivi al virus", ha spiegato all'AdnKronos il dottor Luigi Oltrona Visconti, del Policlinico San Matteo di Pavia. "Si parla di 32% di mortalità: sono dati da infarto degli anni '40-'50, normalmente oggi la percentuale oscilla dal 3 al 6%". Nel periodo di emergenza "i casi 'Stemi', che sono quelli che hanno un aspetto di maggior urgenza, sono stati il 58%", ha precisato il medico, spiegando che nonostante la crisi "il sistema ha tenuto". Le persone affette da Coronavirus presentavano problemi evidenti, ha proseguito il professore: "Si vede subito come è più impegnato sul fronte cardiologico e anche sistemico. È un paziente più grave, con un'espressione di urgenza maggiore rispetto a quello che succede normalmente. E ha una sintomatologia più confondente, sottovaluta il sintomo infarto, ritarda la venuta in ospedale anche per paura". In molti, proprio per paura, hanno raggiunto troppo tardi l'ospedale. Come ha spiegato anche il dottor Matteo Montorfano, primario dell'unità di Cardiologia interventistica ed emodinamica dell'ospedale San Raffaele di Milano, l'arrivo tardivo in pronto soccorso ha portato i medici a doversi confrontare con situazioni molto critiche, come difetti interventricolari o casi di trombosi ventricolare sinistra. "Stimiamo che i pazienti che si sono presentati tardivamente siano stati intorno al 30-40% degli eventi acuti, rispetto all'epoca pre-Covid quando questo era un fenomeno ormai inesistente", ha aggiunto il dottor Montorfano. Ora che la crisi è ormai alle spalle, i medici pensano al futuro. Il timore, infatti, è che il Coronavirus abbia provocato nelle persone colpite dei danni che potranno ripresentarsi, magari a livello non solo vascolare e cardiaco, ma anche renale e cerebrale."I malati Covid, non solo quelli cardiopatici, sono pazienti oggi più vulnerabili", ha dichiarato il dottor Cuccia."Dobbiamo scoprire quali esiti ci sono stati e cosa potranno dare in futuro". "Abbiamo capito che questo virus ha una fortissima affinità per il cuore non solo perché può generare patologie cardiache come miocarditi acute in soggetti sani, ma anche perché è particolarmente aggressivo nei cardiopatici, tanto che abbiamo visto tassi di mortalità molto elevati soprattutto a marzo-aprile. Dovremo adesso gestire il follow up dei 'sopravvissuti' ", ha asserito anche il dottor Lombardi. "Al momento vediamo persone con recuperi molto lenti, in alcuni la funzione cardiaca si è ridotta a seguito dell'infezione".
Attacco cardiaco o Covid-19? Il virus potrebbe colpire il cuore. Alcuni pazienti positivi al Covid-19 manifestano sintomi cardiaci. Il cardiologo del Niguarda: "Potenzialmente, un coronavirus può innescare una miocardite, al pari di un’influenza". Francesca Bernasconi, Martedì 31/03/2020 su Il Giornale. Il Sars-CoV-2 potrebbe causare danni anche al cuore. È questa l'ipotesi contenuta in alcuni studi, che indagano il rapporto tra il Covid-19 e l'insorgere di problemi cardiaci. I cardiologi, infatti, stanno segnalando pazienti positivi al nuovo coronavirus, che presentano sintomi cardiaci (non solo respiratori) e che non sempre hanno patologie cardiovascolari pregresse.
Il caso italiano. Una ricerca pubblicata su Jama Cardiology riferisce del caso di una donna di 53 anni, in buona salute e senza patologie cardiovascolari pregresse, che è stata ricoverata all'Asst Spedali civili di Brescia, a causa di un "grave affaticamento". La paziente accusava tosse, un po' di febbre e un dolore al torace. I risultati delle radiografie ai polmoni non hanno evidenziato particolari problemi e l'elettrocardiogramma non mostrava segni che suggerissero un infarto. La donna non presentava i segni di una polmonite da coronavirus, ma nemmeno quelli di un infarto, ma nel sangue sono stati trovati alti i livelli della troponina, una proteina che indica un danno al muscolo cardiaco. La coronografia, però, ha escluso anche un possibile problema alle coronarie. Dalla risonanza magnetica è emerso che la paziente soffriva di miocardite acuta, un'infiammazione del muscolo cardiaco, solitamente dettata da infezioni virali. Nel frattempo, il tampone per il Covid-19, cui era stata sottoposta, ha dato esito positivo. I danni cardiaci, quindi, potrebbero essere derivati proprio dal coronavirus. "Questo caso- concludono i ricercatori- evidenzia il coinvolgimento cardiaco come una complicanza associata a Covid-19, anche senza sintomi e segni di polmonite interstiziale". Enrico Ammirati, cardiologo del Niguarda, che ha partecipato allo studio, ha spiegato al Corriere della Sera: "La manifestazione clinica in questa paziente è stata diversa dal solito: non la tipica polmonite interstiziale ma una miocardite complicata da insufficienza cardiaca". E racconta di casi di miocarditi innescate da altri tipi di coronavirus e di un ragazzo di 38 anni, trattato di recente, "anche lui con elettrocardiogramma anomalo". Al ragazzo "è stata diagnosticata una miocardite associata al Covid-19, con una positività rilevata solo al terzo tampone. Potenzialmente un coronavirus può innescare una miocardite, al pari di un’influenza".
Lo studio cinese. Il caso di Brescia non è l'unico ad essere stato pubblicato. I primi studi sono stati pubblicati in questi giorni, mentre altre sono in fase di revisione. Ne è un esempio uno studio condotto a Wuhan su oltre 200 pazienti. Nel 10% dei casi viene riportato un danno cardiaco, legato al Covid-19. I virus, attaccando l'organismo, producono una risposta immunitaria forte, che può contribuire al danno polmonare ma, nei casi più gravi, il danno coinvolge diversi organi: reni, cuore e anche il sistema di coagulazione. Per questo, alcuni pazienti potrebbero sviluppare sintomi cardiaci, dopo infezioni ai polmoni: se i polmoni non funzionano adeguatamente, l'ossigeno non arriva correttamente a tutti gli organi, con possibile insorgenza di miocarditi. Nei casi rari, come quello della donna di Brescia, si registrano solamente problemi cardiaci, senza alcun danno respiratorio. Un recente studio condotto a Wuhan, in Cina, ha indagato i potenziali rapporti tra problemi cardiaci e coronavirus. Secondo la ricerca, molti pazienti ricoverati per Covid-19 hanno sofferto anche di danni al cuore, in alcuni casi senza avere patologie cardiache pregresse. Per loro, secondo i ricercatori, il rischio di morte era di 4 volte superiore rispetto ai pazienti senza complicanze cardiache.
Le cause. "La miocardite può probabilmente essere causata dal virus stesso o dalla risposta immunitaria e infiammatoria del corpo al virus- ha sottolineato un cardiologo della Harvard Medical School, secondo quanto riporta il Corriere- e i pazienti infetti che soffrono di miocardite non hanno necessariamente una carica virale più alta rispetto a chi non sviluppa questa problematica". Secondo il cardiologo è anche possibile, nonostante sottolinei che si tratta di un'ipotesi, "che la miocardite derivi da un sistema immunitario fuori controllo quando si cerca di combattere il coronavirus con citochine, che possono infiammare e danneggiare sia cuore sia polmoni". Si tratta di proteine che, legandosi alla membrana, comunicano alle cellule "un'istruzione specifica", attivando il sistema immunitario. La risposta, però, potrebbe essere esagerata, causando danni cardiaci. "In genere questo virus causa una malattia sistemica dove l’organo principalmente colpito è il polmone, ma non è il solo", spiega uno degli autori dello studio italiano. E aggiunge: "Nei casi più gravi c’è un interessamento multi organo per cui andare a indagare fin da subito se c’è un innalzamento di questo marcatore, la troponina, può essere utile per capire se c’è interessamento cardiaco e non solo polmonare e intervenire di conseguenza". Non ci sono ancora spiegazioni certe sulle motivazioni che portano al danno cardiaco e non polmonare, ma potrebbero essere determinati da caratteristiche personali e non virali.
Coronavirus, “ho scoperto di essere malato perché ho perso gusto e olfatto”. Le Iene il 29 marzo 2020. Ismaele La Vardera intervista un ragazzo positivo al COVID-19, che ha un solo strano sintomo: ha perso gusto e olfatto. “Tra due giorni scoprirò se sono guarito. So di persone che se fumano una sigaretta sentono odore di pomodoro, è una cosa assurda”. “Non avevo né febbre né tosse, solo un sintomo: avevo perso il gusto e l’olfatto”. Ismaele La Vardera ha intervistato un ragazzo umbro, che da 14 giorni è in isolamento nella sua cameretta perché positivo al coronavirus. Un avvenuto contagio che ha scoperto a partire da un sintomo molto strano: “Avevo perso completamente il gusto e l’olfatto”. Bisogna chiarire subito una cosa: sintomi simili sono comuni a tutta una serie di altri problemi di salute, dalle allergie comuni in questa stagione fino a disturbi più seri come il Parkinson e l’Alzheimer. Sintomi che però, anche se la questione è ancora poco nota e dibattuta, si possono manifestare in pazienti che hanno contratto il coronavirus. Alcuni studi recenti stanno approfondendo questa particolare sintomatologia e, pur non essendo ancora arrivati a una conclusione univoca sulle origini e le cause della perdita di olfatto e gusto, raccomandano a chi li avverte di rimanere a casa e isolarsi. Lo stesso viceministro della Salute Pierpaolo Sileri ha detto di averli avvertiti quando era affetto da COVID-19. “Sono stato in settimana bianca dal 2 al 7 di marzo – racconta il ragazzo - . All’improvviso mi sono accorto che non riuscivo a sentire più gli odori. Una sensazione incredibile, non avevo né olfatto né gusto. Potevo mettere in bocca qualunque cosa, un’arancia, un pezzo di aglio, era tutto uguale!”. Il giovane, dopo alcune ricerche, scopre che il disturbo potrebbe essere un sintomo del coronavirus e dopo alcune chiamate ai numeri verdi viene sottoposto al tampone, che darà esito positivo. “Io però non avevo nulla, né febbre né tosse, solo il disturbo a gusto e olfatto”, ci spiega. “Sono stato fortunato a scoprire che era un sintomo del coronavirus, ci sono tanti altri ragazzi che non sanno di questo problema, perché i media ne parlano poco e forse nei primi giorni del contagio, nonostante il sintomo, hanno girato tranquilli per le strade”, ci dice. Il suo ritorno alla normalità sembra ancora lontano: ”Devo aspettare due giorni e poi mi rifaranno il tampone per vedere se sono guarito. E pensare che i primi giorni, il 10, ho fatto la mia festa di compleanno con tanti familiari. Avrei dovuto passargli il coronavirus, ma fortunatamente i miei sono entrambi negativi”. Quello strano sintomo, che gli ha consentito di scoprire di essere positivo, persiste anche solo se in parte: ”Sono passati 18 giorni dai primi sintomi, e l’olfatto l’ho ripreso al 70%. Ci sono alcuni amici però che sono preoccupati, perché nonostante siano passati 20 giorni, 1 mese, non hanno ancora recuperato olfatto e gusto. Ho sentito addirittura di persone che se fumano una sigaretta, sentono l’odore di un pomodoro...una cosa incredibile. Spero davvero che se ne parli”.
Perdita di gusto e olfatto prima spia dell'infezione. Studio dell'università Statale: l'alterazione dei sensi è sintomo premonitore e non solo effetto del virus. Marta Bravi, Martedì 31/03/2020 su Il Giornale. Che l'alterazione di gusto e olfatto siano correlati all'infezione da Covid ormai è noto. Ora sembra che possano rappresentare campanelli d'allarme dell'infezione in arrivo. A sostenerlo uno studio condotto dal gruppo di Massimo Galli, direttore del dipartimento di Malattie infettive dell'Ospedale Sacco e docente di Scienze Biomediche e Cliniche all'Università degli Studi di Milano accettato dalla rivista Clinical Infectious Diseases che riporta la prima descrizione dei disturbi di gusto e olfatto come manifestazioni cliniche frequenti in pazienti con infezione da «severe acute respiratory syndrome coronavirus 2 (SARS-CoV-2)». Più frequente tra i giovani e le donne, il sintomo può costituire un prezioso indicatore in pazienti con sintomi leggeri per ulteriori approfondimenti diagnostici. Il team coordinato da Galli e dai colleghi del Dipartimento di Scienze Biomediche e Cliniche (Dr. Andrea Giacomelli, Prof. Spinello Antinori e Prof. Stefano Rusconi) presso il Dipartimento di Malattie Infettive dell'Ospedale Sacco ha definitivamente chiarito che disturbi di olfatto e gusto sono assai frequenti nelle COVID, venendo ad interessare circa un paziente su tre, spesso riportati già in fase precoce di malattia, colpendo particolarmente i giovani e il genere femminile. I ricercatori suggeriscono come in un contesto pandemico e in soggetti con sintomatologia lieve- moderata, che non necessitino di ospedalizzazione, la presenza di tali sintomi possa essere un prezioso indicatore di pazienti cosiddetti « paucisintomatici» cioè asintomaticici o con sintomi lievi, meritevoli di ulteriori approfondimenti diagnostici. Come è nata la ricerca? «Abbiamo ricevuto centinaia di segnalazioni di pazienti che manifestavano alterazioni dell'olfatto e del gusto - racconta Galli - e da numerosi colleghi che ci hanno segnalato un inusuale incremento di queste particolari condizioni. Abbiamo deciso di misurare il problema e di segnalarlo, a partire dall'osservazione dei pazienti ricoverati da noi, circa 300. Abbiamo osservato, appunto, è che iposmia, anosmia e disgeusia nei pazienti affetti da una manifestazione acuta della malattia emergono in fase precoce, per chi è asintomatico invece arrivano dopo il consueto picco di febbre». Il messaggio che possiamo lanciare a chi si accorge di aver in parte o completamente perso i due sensi è che «non sono in pericolo, probabilmente sono stati infettati e quindi si devono comportare di conseguenza - spiega il direttore - e che Altrettanto probabilmente quello sarà l'unico sintomo importante della loro malattia. Non solo, i sensi sono destinati a essere recuperati, anche se non siamo ancora in grado di dire con che tempistiche». Dallo studio pubblicato da Claire Hopkins del King's College London, presidente della British Rhinological Society, e Nirmal Kumar, presidente di ENT UK, gruppo di associazioni di otorinolaringoiatri anglosassoni, l'American Academy of Otorinolaringology Head and Neck Surgery ha pubblicato una dichiarazione in cui propone di aggiungere questi sintomi fra le manifestazioni di cui tenere conto quando si esegue lo screening del nuovo coronaviurs. Ma ciò significa che il Covid è in grado di infettare il sistema nervoso come sostiene lo studio pubblicato da ricercatori cinesi sul Journal of Clinical Virology e quello pubblicato sul Chemical Neuroscience? «No, di questo aspetto non c'è evidenza, quello che possiamo osservare però è che il virus può danneggiare le terminazioni nervose presenti in questi organi. Le terminazioni nervose - spiega galli - arrivano all'etmoide per raggiungere la larofaringe: un'infiammazione a quel livello può provocare danni alle terminazioni nervose».
Da "corriere.it" il 27 marzo 2020. «Il paziente era sulla cinquantina e inizialmente aveva febbre e tosse. Tuttavia, è rapidamente peggiorato, tanto da essere ricoverato in terapia intensiva e ventilato dopo poco tempo» racconta Keith Mortman, medico all'ospedale universitario George Washington della capitale Usa. Nel video si possono vedere le parti sane dei polmoni (aree blu) e quelle attaccate dal virus (aree gialle). Le immagini mostrano che il virus attacca l'intero polmone e non solo singole aree, spiega Mortman in un podcast. Il modello 3D è stato realizzato utilizzando la tomografia computerizzata dei polmoni.
Coronavirus, Gattinoni: "Se si attacca ai polmoni diventa letale". Luciano Gattinoni è specialista di rianimazione di fama mondiale: "Il coronavirus è incurabile senza terapia intensiva". Alberto Giorgi, Venerdì 27/03/2020 su Il Giornale. "Il coronavirus? È un microrganismo che nella maggioranza dei casi non fa danni, ma in alcuni si attacca ai polmoni e diventa letale". Luciano Gattitoni, specialista di terapia intensiva di fama mondiale, inquadra così l’incubo Covid-19, sottolineandone un aspetto non di poco conto: "L’infezione, che porta a una grave carenza di ossigeno, si presenta in modi diversi…". Il luminare della rianimazione, forse il più importante specialista al mondo nel suo campo, è stato intervistato da La Stampa e al quotidiano spiega quelle che sono le sue intuizioni sul coronavirus: "Mentre la polmonite colpisce gli alveoli, questa polmonite virale interstiziale tende a interferire sulla parte vascolare. Così i vasi sanguigni del polmone perdono potenza e causano l'ipossiemia, ovvero la carenza di ossigeno nel sangue". L’attuale presidente della società mondiale di terapia intensiva, quindi, alza avverte: "Se viene l'ipossiemia il cervello compensa aumentando la respirazione, per questo i malati arrivano in ospedale apparentemente in forma. In realtà, si ha già una saturazione bassa dell'ossigeno nel sangue. Per aumentare il respiro si fa più pressione, il polmone si infiamma e il plasma filtra nell' interstizio. Un meccanismo che si interrompe solo con un'intubazione di dieci-quindici giorni". Ecco, l’intubazione, (quasi sempre) necessaria per garantire la sopravvivenza. Così come trovare un letto e tutti i macchinari e dispositivi medici della terapia intensiva: "Bisogna trovarlo perché casco e pronazione, lo dico io che l'ho ideata, sono palliativi. Intubando si permette al paziente di mantenersi dormiente finché le difese immunitarie vincono il coronavirus. Al momento è l'unica cura. E infatti, non a caso, muoiono di più quelli fuori dalla terapia intensiva che dentro". Quindi Gattinoni sostiene che ormai negli ospedali non vi è più troppo tempo e si decide come in guerra e che è vero che si fa una scelta anche in base all’età dei pazienti: "Chi dice il contrario mente, ma è naturale con poco tempo e molto afflusso. Si valuta la probabilità che un paziente anziano possa sopravvivere a due settimane di intubazione. Ho sempre insegnato a provare per tutti un trattamento intensivo per 24 ore, ma ora non si riesce…". Le ultime battute della chiacchierata con La Stampa sono dedicate alle cure farmacologiche – "al momento non ce ne sono di realmente efficaci" – e l'alto numero dei morti: "Gli oltre 8mila decessi italiani sono dovuti al coronavirus".
"Malati in crisi d'ossigeno: dopo pochi passi ansimano come se corressero". Un infermiere dell'ospedale Sacco di Milano racconta l'emergenza sanitaria: "Ora arrivano anche giovani sotto i 30 anni con polmoniti". Rosa Scognamiglio, Giovedì 26/03/2020 su Il Giornale. "Entrano in pronto soccorso con l'ossigeno a 90, basso da far spavento. Hanno fatto quattro passi ma ansimano come se avessero corso". Inizia così il racconto choc di un infermiere dell'ospedale Sacco di Milano, polo sanitario di riferimento nazionale per le malattie infettive adibito, ad oggi, a struttura Covid-19. Le sale operatorie sono ferme e tutti gli altri reparti sono in stand by mentre aumentano gli accessi dei pazienti infetti: "Se il coronavirus entrasse profondo su Milano, sarebbe come un Boeing-747 che si schianta davanti al pronto soccorso". È trascorso più di un mese ormai da quando anche la città meneghina è stata risucchiata nel vortice dei contagi. "Servirà ancora una settimana - spiega l'infermiere al Corriere della Sera -per sapere che quel crash non ci sarà". L'età media degli ammalati è notevolmente cambiata rispetto agli esordi dell'epidemia; ora si registrano giovani con età inferiore ai 30 anni nella curva delle polmoniti critiche. "Qualche settimana fa molti arrivavano con sintomi lievi, o medi, comunque senza "impegno respiratorio". Oggi sono un po' meno, ma l' età media s' è abbassata, intorno ai 55/60 anni, anche ragazzi di 30 anni. E quasi tutti hanno bisogno immediato di ossigeno. Febbre che non scende sotto i 38. Lastre bruttissime. In pronto soccorso vedi ovunque persone con cannule, mascherine, caschi". Difficile se non impossibile capire l'avanzamento della malattia per chi è confinato in regime di isolamento domiciliare, motivo per cui il pronto soccorso è intasato di persone in evidente sofferenza respiratoria. "Tutto il sistema sanitario sta dicendo ai malati di restare a casa isolati il più possibile. A volte va bene, ma le persone non si rendono conto di quanto avanza la malattia. - continua il racconto l'infermiere -Entrano in pronto soccorso con l' ossigeno nel sangue a 90, basso da far spavento. Quaranta atti respiratori al minuto, oltre il doppio del normale: hanno fatto quattro passi e ansimano come se avessero corso. Compensano fino alla fine con i polmoni quasi compromessi. Su 20/25 pazienti che entrano in un turno di 7 ore, almeno 3 o 4, ancor prima di fare il tampone, hanno già bisogno del casco, massimo livello di ossigeno prima dell' intubazione".
L'allarme del capo dei 118: "Dobbiamo intervenire prima che sia troppo tardi". Il presidente del Sis 118, Mario Balzanelli: "In pochissimo tempo si arriva all'insufficienza acuta grave. Bisogna curare i pazienti a casa". Francesca Bernasconi, Giovedì 26/03/2020 su Il Giornale. "Dobbiamo intervenire prima che sia troppo tardi". Ne è convinto Mario Balzanelli, presidente della Società italiana sistema 118, che spiega la rapida evoluzione del Covid-19, nei pazienti positivi all'infezione. "Da quando una persona comincia a respirare male fino all'insufficienza acuta grave l' evoluzione è rapidissima. E va da trenta minuti a tre ore", spiega in un'intervista per Quotidiano Nazionale. Il segnale, avvisano gli esperti, è il senso di affanno. E, per evitare che la situazione precipiti bisognerebbe "anticipare la rivelazione dell'insufficienza respiratoria acuta con il saturimetro". Si tratta di uno strumento che permette di misurare il grado di saturazione di ossigeno e, secondo Balzanelli, dovrebbe essere presente nelle case "di tutti i pazienti sospetti Covid o positivi che stanno in isolamento". E, nell'ottica di anticipare il peggio, il presidente del Sis 118, si chiede: "Perché non iniziamo le terapie agli oligosintomatici, quelli con pochi sintomi, positivi al tampone? Oggi queste persone vengono lasciate a casa a svernare. Quando la situazione precipita, non resta che intubare chi sta male. Ecco il punto chiave". Secondo i medici, il peggioramento arriva in modo rapido e, per questo, Balzanelli sostiene: "Dobbiamo fare i tamponi ai casi sospetti e quindi trattare con gli antivirali tutti quelli che si dimostrano positivi al Covid-19 e che stanno a casa". Inoltre, oltre a sottoporre i sintomatici al tampone, bisognerebbe mettere i positivi in quarantena in apposite strutture: "Non possono tornare a casa, dove infettano i familiari". Le Asl dovrebbero trovare dei posti adeguati: "Convertano gli ospedali chiusi. Destinino allo scopo i palazzetti dello sport. Possono fare tende da campo. Ma il Covid non doveva e non deve entrare negli ospedali. Perché se entra, ha un indice di contagiosità nosocomiale altissimo, del 41%. Quindi, portarlo dentro è un errore catastrofico". Ma, assicura Balzanelli, la situazione si può ancora sistemare, perché "non abbiamo una situazione che si possa dire avviata rapidamente verso la sua risoluzione". La Sis 118 è un'organizzazione che raccoglie adesioni soprattutto dal Sud ed è basata su un sistema diverso rispetto a quello lombardo, che si fonda sui volontari: "Noi invece crediamo in un 118 gestito da medici e infermieri che vanno sul campo, trattano sul posto le persone e le portano in ospedale il meno possibile". Ma con l'emergenza coronavirus sono emerse problematiche legate agli interventi del 118: "Mancano i dispositivi di protezione individuale, le uniche mascherine in grado di farci stare tranquilli davvero sono del tipo FFP3. Ma non ci sono per tutti, mi arrivano segnalazioni da tante regioni. Vuol dire che i i nostri mezzi potrebbero fermarsi. Le persone si rifiutano di andare a morire, perché lo Stato non le protegge". E avverte: "Quando questa storia sarà finita, si faranno i conti del perché ci sono stati tutti questi contagi tra i sanitari".
Francesco Rigatelli per “la Stampa” il 27 marzo 2020. Luciano Gattinoni, 75 anni, medico rianimatore di fama internazionale, ex direttore scientifico del Policlinico di Milano e presidente della Società mondiale di Terapia intensiva, è professore ospite all' Università di Gottinga in Germania. Da lì esamina i dati che i suoi ex allievi, primari dei principali ospedali lombardi, gli inviano per un parere sul coronavirus. E, anche se non lo ammetterà mai, molti pazienti vengono curati grazie alle sue intuizioni.
Che idea si è fatto del coronavirus?
«È un microrganismo che nella maggioranza dei casi non fa danni, ma in alcuni si attacca ai polmoni e diventa letale. In Germania ho visto dei pazienti e molti me li hanno sottoposti dall' Italia. La malattia si presenta in modi diversi e porta a una grave carenza di ossigeno».
È vero che ne ha intuito la causa?
«Mentre la polmonite colpisce gli alveoli, questa polmonite virale interstiziale tende a interferire sulla parte vascolare. Così i vasi sanguigni del polmone perdono potenza e causano l' ipossiemia, cioè la carenza di ossigeno nel sangue».
Come si cura?
«Se viene l' ipossiemia il cervello compensa aumentando la respirazione, per questo i malati arrivano in ospedale apparentemente in forma. In realtà, si ha già una saturazione bassa dell' ossigeno nel sangue. Per aumentare il respiro si fa più pressione, il polmone si infiamma e il plasma filtra nell' interstizio. Un meccanismo che si interrompe solo con un' intubazione di 10-15 giorni».
E se non c' è posto in terapia intensiva?
«Bisogna trovarlo perché casco e pronazione, lo dico io che l' ho ideata, sono palliativi. Intubando si permette al paziente di mantenersi dormiente finché le difese immunitarie vincono il virus. Al momento è l' unica cura. Non a caso muoiono di più quelli fuori dalla terapia intensiva che dentro».
Dunque l' intubazione è sempre necessaria?
«Per stabilirlo andrebbe misurata la negatività della pressione con un catetere esofageo, ma ora negli ospedali non c' è tempo e si decide come in guerra: chi ha fame d' aria e fa rientrare le costole per respirare va intubato».
È vero che si sceglie in base all' età?
«Chi dice il contrario mente, ma è naturale con poco tempo e molto afflusso. Si valuta la probabilità che un paziente anziano possa sopravvivere a due settimane di intubazione. Ho sempre insegnato a provare per tutti un trattamento intensivo per 24 ore, ma ora non si riesce».
E le cure farmacologiche?
«Al momento non ce ne sono di efficaci».
In quali casi si muore con o per il coronavirus?
«La domanda da fare è: quante vittime ci sarebbero senza l' epidemia? Gli oltre 8mila morti italiani sono dovuti al coronavirus».
Come mai così tanti?
«Pur avendo fra le prime sanità al mondo, si è intasato il sistema e non si è potuto curarli al meglio per mancanza di posti e di personale. I veri numeri da sapere sono i pazienti ricoverati, i morti in ospedale e quelli in terapia intensiva».
È vero che i giovani se la cavano?
«Un fisico anziano reagisce peggio alla malattia e alle cure. Il mistero è perché da un solo virus ci siano casi con sintomi diversi».
Cosa ne pensa degli ospedali da campo?
«In guerra si fa il possibile, ma resto scettico perché per la terapia intensiva oltre al respiratore serve un' équipe che si formi in anni di lavoro».
Una sanità con meno tagli avrebbe retto meglio?
«È vero che si è tagliato troppo, ma un' emergenza del genere coglie chiunque impreparato. L' unico rimpianto è di non aver pensato alle scorte di materiale e a un piano preciso».
Da ilmessaggero.it il 24 marzo 2020. Il coronavirus infetterebbe direttamente il sistema nervoso centrale. L'ipotesi è contenuta in due articoli scientifici, il primo, pubblicato da ricercatori cinesi sul Journal of Clinical Virology ha analizzato i dati ottenuti nel tempo su coronavirus diversi da Sars-CoV-2; il secondo, pubblicato quasi contemporaneamente sul Chemical Neuroscience, propone meccanismi d'azione in grado di spiegare questa potenziale facoltà del virus di infettare il sistema nervoso centrale. La perdita dell'olfatto si è rivelata essere uno tra i diversi sintomi di Covid-19. Ignorato all'inizio della malattia, ormai è stato accertato in diversi paesi colpiti dal coronavirus e potrebbe essere spiegato con la capacità del virus di infettare il sistema nervoso centrale dei malati, in particolare nella zona del cervello deputata alle funzioni olfattive. ll team guidato da Yan-Chao Li dell'Università di Jilin, in Cina, ha analizzato campioni prelevati nei primi anni 2000 su vittime di Sars-CoV-1, coronavirus cugino di quello attuale. Questi campioni, spiegano gli autori, «hanno mostrato la presenza di particelle del virus nel cervello, trovate quasi esclusivamente nei neuroni». Altri studi, condotti su topi transgenici, modificati per essere sensibili ai coronavirus che colpiscono l'uomo, hanno mostrato che il Sars-CoV-1 o il Mers-CoV (virus responsabile di un'epidemia che colpito il Medio Oriente nel 2012) «possono penetrare nel cervello, probabilmente attraverso i nervi olfattivi, e propagarsi rapidamente ad alcune zone specifiche del cervello, in particolare talamo e corteccia cerebrale». «L'articolo del team cinese è molto interessante perché si basa su osservazioni cliniche, interpretate usando una sintesi di ciò che sappiamo sui coronavirus», ha spiegato la biologa Christine Prat, del consorzio europeo Virus Archive Global. «Tuttavia, resta ancora molto da capire sull'impatto che alcuni virus possono avere sul sistema nervoso centrale, che è un'area molto particolare: il sistema immunitario infatti non può lavorare lì come nel resto dell'organismo perché deve combattere contro l'infezione evitando di distruggere le cellule neuronali, che non si rinnovano da sole o lo fanno molto poco».
Da adnkronos.com il 24 marzo 2020. "Ad oggi quello che sappiamo è che il coronavirus attacca le vie respiratorie. Ma è sicuro che risparmi altri 'bersagli', come ad esempio il sistema nervoso centrale?". A chiederselo è Luca Steardo, neurologo e neurofarmacologo, cattedratico dell’Università Sapienza di Roma. "Se infatti il Covid-19 si comportasse come i virus 'cugini', ad esempio Sars-CoV1 - osserva l’esperto - darebbe origine anche ad una colonizzazione del sistema nervoso centrale con uno scenario ben più complesso, caratterizzato sia da una invasione dei centri cardio-respiratori, presenti nel troncoencefalo, sia da processi neuroinfiammatori responsabili di gravi conseguenze quali decadimento cognitivo, deficit di memoria e cali di attenzione". "Oggi siamo costretti a confrontarci con un nemico nuovo e per troppi aspetti ancora ignoto - afferma Steardo - Tentiamo quindi di far ricorso a studi pregressi su agenti virali collegati ad esso da un certo grado di parentela. Se da una parte è certo che le cellule bersaglio primarie per Covid-19 sono quelle epiteliali del tratto respiratorio, dall’altra è difficile ritenere che la penetrazione del virus nell’organismo si mantenga tanto limitata. Dati clinici e preclinici da studi con altri coronarovirus suggeriscono di una loro maggiore invasività tissutale e di un loro evidente neurotropismo. E' dimostrato - insiste l'esperto - che i CoV, soprattutto quelli appartenenti al sottotipo beta, famiglia del virus che causa Covid-19, invadono frequentemente il sistema nervoso centrale: seppure al momento mancano dirette evidenze, l’alta identità tra i CoV e il virus di Covid-19 lascia presumere che anche quest’ultimo ceppo possa colonizzare il sistema nervoso centrale". "La presenza di Sars-CoV1 nel cervello - ricorda l'esperto - si accompagna ad una marcata reazione gliale e a una diffusa morte neuronale, rappresentando lo scenario neuropatologico della neuroinfiammazione - prosegue l’esperto - Le molecole responsabili dell’infiammazione sistemica provocano la rottura della barriera emato-encefalica attivando un conseguente processo neuroinfiammatorio particolarmente grave. In questi casi, in condizioni di prolungata ipossia, l’esperienza clinica suggerisce che pazienti che abbiano superato una sindrome da distress respiratorio possano presentare poi la comparsa o l’aggravarsi di una sindrome da decadimento cognitivo con insorgenza di delirium, deficit mnestici e attentivi, e danni associati alle funzioni cognitive. E' d’obbligo quindi - continua - una riflessione sui processi neuroinfiammatori e sulla necessità di intervenire, anche preventivamente, su di essi". "Da un punto di vista terapeutico la palmitoiletanolamide ultra micronizzata (Pea), molecola lipidica endogena, ha provata efficacia nel restituire alle cellule gliali la loro funzione omeostatica contrastando i fenomeni lesivi a carico del sistema nervoso centrale", conclude Steardo.
Covid-19 e i danni il cervello: così viene colpito indirettamente. Se è vero che il virus non colpisce il cervello in maniera diretta, le conseguenze 'indirette' più frequenti vanno dalla cefalea fino all'anosmia. Il Prof. Alessandro Olivi, neurochirurgo di fama internazionale, ha risposto ad alcune nostre domande. Alessandro Ferro, Domenica 31/05/2020 su Il Giornale. Per capire se anche il cervello è colpito dal Covid-19 ci siamo rivolti al Prof. Alessandro Olivi, eccellenza italiana nel campo della neurochirurgia: ben 27 anni alla Johns Hopkins University di Baltimora come vicedirettore della Neurochirurgia e Direttore della divisione di Neurochirurgia oncologica, da soli, fanno capire la sua caratura mondiale.
Giunzione tra mucose nasali e strutture inferiori del lobo frontale. Adesso Direttore dell'Unità Operativa Complessa di Neurochirurgia del Policlinico Gemelli di Roma, ci ha spiegato come il virus "attacchi" il nostro organo. "Impariamo continuamente da questa infezione che ci affligge da 6 mesi. Al Gemelli, per fortuna, non abbiamo riscontrato complicazioni neurologiche serie", ha detto il professore.
In che modo il Covid colpisce il cervello, quale è il meccanismo?
"Il virus Covid-19 non sembra che colpisca direttamente il cervello. Non vi sono ancora dati che riportano l'isolamento del Coronavirus nel tessuto cerebrale o nel liquido cefalo-rachidiano (cosiddetto "Liquor"). Vi sono, invece, riportate, manifestazioni neurologiche associate all'infezione virale quali cefalea, vertigini e capogiri, confusione, insonnia, crisi epilettiche, delirio, che tuttavia non sono il segno di un coinvolgimento diretto del tessuto cerebrale da parte del virus, ma di sintomi indiretti della malattia sistemica.
Quali sono i coinvolgimenti cerebrali "indiretti"?
"Sono stati segnalati casi rari di una condizione descritta quale 'Encefalite Necrotizzante', il cui meccanismo di insorgenza più accredidato è quello di una vigorosa reazione autoimmune durante la cosiddetta 'tempesta immunitaria' che caratterizza i casi più gravi di infezione Covid-19 (alla base peraltro delle compromissioni polmonari più drammatiche). Inoltre, sono stati segnalati anche rari casi di ischemie cerebrali (strokes) per le quali si ipotizza un meccanismo di ipercoagulabilità generale (anche questo osservato nei casi più severi di patologia polmonare) nei vasi sanguigni che a volte può coinvolgere anche quelli che perfondono il cervello. Le conseguenze sono, ovviamente, quelle di danni cerebrali anche permanenti. Anche in questi casi, come detto molto rari, il meccanismo è indiretto e mediato da una patologia vascolare".
Quali sono i sintomi?
"Sintomi neurologici associati alle infezioni Covid-19 sono cefalea, vertigini e capogiri, confusione, insonnia, crisi epilettiche, delirio e anosmia. Quest'ultimo sintomo (diminuzione o assenza dell'olfatto) è l'unico per il quale si ipotizza un diretto coinvolgimento, da parte del Covid-19, delle mucose nasali e delle terminazioni nervose che viaggiano dalle mucose stesse verso i bulbi olfattori. Gli altri sintomi sono manifestazioni neurologiche indirette dell'infezione sistemica. Anche le ischemie cerebrali, segnalate in alcuni casi di pazienti affetti da infezioni Covid-19, sono, verosimilmente, la conseguenza di una patologia vascolare (ipercoagulabilità e relative trombosi) osservata nei casi più gravi delle infezioni virali ma non di un diretto coinvolgimento del tessuto cerebrale da parte del virus stesso".
Quali sono i danni che il virus può provocare?
"Nei rari casi di ischemie cerebrali da trombosi o negli ancora più rari casi di encefaliti necrotizzanti, i danni cerebrali possono essere significativi e permanenti (paralisisi, deficit cognitivi e neurosensoriali). Le manifestazioni neurologiche indirette, invece, sono nella maggior parte dei casi temporanee e reversibili.
Quali sono le conseguenze?
"Sulle conseguenze neurocognitive tardive (depressione, irritabilità rallentamenti cognitivi) in pazienti che hanno superato le forme clinicamente più serie dell'infezione virale, ancora non vi sono dati definitivi ma vi è un'attenzione particolare da parte del personale sanitario coinvolto nel monitoraggio longitudinale attento di questi pazienti".
Qual è la percentuale di persone colpite al cervello?
"Ancora una volta, non sembra che ci sia un coinvolgimento diretto del virus a livello cerebrale. I sintomi neurologici 'aspecifici' ed indiretti (soprattutto cefalea e anosmia) sono abbastanza frequenti ma anche temporanei e reversibili".
C’è una categoria di persone che colpisce maggiormente (donne, uomini o bambini)?
"Le manifestazioni neurologiche seguono ovviamente, in frequenza, quelle della incidenza della infezione virale clinicamente più significativa con maggiore prevalenza nelle persone anziane e con co-morbidità".
C’è una terapia specifica per curarlo?
"Come per il virus, non c'è una terapia specifica che sia stata identificata. Per le forme di trombosi cerebrale (con ischemia) il trattamento è quello della terapia anticoagulante, quando praticabile, o dell'intervento endovascolare come per tutte le ischemie. Non vi è trattamento specifico per i rari casi riportati di encefaliti necrotizzanti".
Ci sono esami strumentali (Tac o altro) che mostrano la presenza del virus nel cervello?
"Gli studi ad immagini possono evidenziare i rari coinvolgimenti strutturali 'indiretti' del virus (ischemie, encefaliti). Esami quali la rachicentesi (punture lombari con analisi del liquido cefalorachidiano) possono identificare la presenza del virus nel Sistema Nervoso Centrale, ma finora non vi sono segnalazioni di positività a riguardo".
Coronavirus, studio Humanitas conferma: provoca danni al cervello. Un team di neuroradiologi ha studiano il caso di una giovane collega colpita dal Sars-CoV-2. Il Giorno 1 giugno 2020 - Non solo nei polmoni: Sars-CoV-2 riesce ad arrivare fino al cervello, alterando in particolare una regione cerebrale coinvolta nell'olfatto. La conferma arriva da neuroradiologi italiani dell'Irccs Humanitas di Rozzano , che descrivono sulla pagine di 'Jama Neurology' il caso di una loro giovane collega colpita da Covid-19, che fra i sintomi aveva la perdita dell'olfatto (anosmia), il cui cervello alla Risonanza magnetica mostrava delle alterazioni. Gli odori vengono catturati dalle cellule olfattive (epitelio olfattivo) situate nelle cavità nasali, e il segnale chimico veicolato dalla molecola odorosa viene trasformato in impulsi nervosi. I neuroni dell'epitelio olfattivo inviano i loro assoni (conduttori di impulsi) nei due bulbi olfattivi. Le fibre nervose di queste strutture nervose trasmettono quindi informazioni al cervello, specialmente nella corteccia prefrontale. Questo spiega perché qualsiasi danno al bulbo olfattivo può portare alla perdita di odorato. La paziente descritta dal team italiano, una neuroradiologa 25enne che lavorava in un'unità Covid dell'Humanitas, un giorno ha cominicato ad avere una tosse moderata, seguita da anosmia e perdita parziale di gusto (ageusia). Non aveva febbre né crisi epilettiche e gli esami radiologici del torace non mostravano segni di polmonite. Lo stesso giorno viene eseguita una Risonanza magnetica cerebrale che evidenzia un'immagine anomala di una regione superficiale del cervello, il gyrus rectus destro. Questa regione della corteccia prefrontale, situata nella parte inferiore degli emisferi cerebrali, è coinvolta nell'olfatto. E i neuroradiologi notano anche la presenza di un ipersegnale nei bulbi olfattivi. Viene quindi eseguito il tampone naso - faringeo che risulta positivo - "Sulla base dei risultati della Risonanza magnetica, tra cui lievi anomalie nel bulbo olfattivo, si può pensare che Sars-CoV-2 possa arrivare al cervello attraverso il percorso olfattivo e causare così disfunzioni olfattive sensoriali", commenta Letterio Salvatore Politi, responsabile dell'Unità operativa di Radiologia diagnostica di Humanitas, autore dello studio. "Sembra quindi che il virus abbia un neurotropismo, in altre parole la capacità di penetrare, attraverso il bulbo olfattivo, nel sistema nervoso centrale e causare una compromissione diretta". La conferma definitiva di questa azione diretta del coronavirus a livello cerebrale richiederebbe i risultati dell'analisi del liquido cerebrospinale (che occupa le cavità del cervello), che non era il caso di eseguire in questa paziente che aveva sviluppato una forma lieve della malattia. D'altra parte - conclude lo studio - l'esame del cervello dei pazienti affetti da Covid-19 deceduti documenterebbe questa compromissione, mostrando la presenza nella microscopia elettronica delle particelle virali nel tessuto cerebrale.
Coronavirus, che cosa succede all’organismo quando ci ammaliamo (gravemente). Pubblicato martedì, 24 marzo 2020 su Corriere.it da Cristina Marrone. Per buona parte dei pazienti il Covid-19 inizia e finisce nei polmoni, perché, come l’influenza, i coronavirus sono malattie respiratorie. Si diffondono tipicamente mediante la tosse e gli starnuti delle persone infette, attraverso le micro gocce che possono trasmettere il virus ai soggetti che si trovano a stretto contatto. Anche i coronavirus si manifestano con sintomi simili a quelli tipici dell’influenza, per questo le due malattie possono essere confuse: i pazienti possono presentare dapprima febbre e tosse, che progrediscono poi diventando polmonite interstiziale.
In che modo questo coronavirus causa l’infezione?
Il virus si diffonde attraverso le goccioline diffuse nell’aria da tosse o starnuti di persone infette che, chi è vicino, può assorbire attraverso naso, bocca o occhi. Le particelle virali in queste goccioline viaggiano rapidamente verso la parte posteriore del naso e verso le mucose all’interno della gola, attaccandosi a un particolare recettore nelle cellule. Il nuovo coronavirus ha tante punte che ricordano quelle delle corone. Le punte sono formate da «peplomeri» strutture proteiche che insieme ad altri meccanismi servono al virus per attaccarsi alle cellule dell’organismo da infettare. Una volta che si sono legati alle cellule ospiti, i virus rilasciano il loro codice genetico modificando il comportamento della cellula.
In che modo questo processo causa problemi respiratori?
Le copie del virus si moltiplicano, esplodono e infettano le cellule vicine. I primi sintomi spesso partono dalla gola con mal di gola e tosse secca. Poi il virus striscia progressivamente lungo i bronchi. Quando il virus raggiunge i polmoni, le loro mucose si infiammano. Ciò può danneggiare gli alveoli o le sacche polmonari che devono lavorare di più per svolgere la loro funzione di fornire ossigeno al sangue che circola in tutto il nostro corpo e rimuovere l’anidride carbonica dal sangue. Il gonfiore e il flusso alterato di ossigeno possono far riempire quelle aree dei polmoni con liquido, pus e cellule morte causando polmonite. Proprio a causa di questa degenerazione alcuni pazienti accusano gravi problemi respiratori, tanto che devono essere ricoverati in terapia intensiva e ventilati. Nei casi peggiori, quando si verifica la sindrome da distress respiratorio acuto, i polmoni si riempiono a tal punto di fluido che nessun supporto respiratorio può aiutare il paziente, che non riesce più a respirare e muore.
Quale traiettoria prende il virus nei polmoni?
Il dottor Shu-Yuan Xiao, professore di patologia presso la School of Medicine dell’Università di Chicago e direttore del Center for Pathology and Molecular Diagnostics presso l’Università di Wuhan, intervistato dal New York Times, ha esaminato i rapporti sul decorso patologico dei pazienti con coronavirus in Cina. Ha spiegato, ma si tratta ancora di ipotesi, che l’infiammazione causata dal virus sembra partire lentamente nelle aree periferiche su entrambi i lati del polmone per poi propagarsi (mettendoci anche del tempo) verso il tratto respiratorio superiore, la trachea e altre vie aeree centrali, dove in un primissimo momento non si manifestano sintomi. Questo decorso potrebbe spiegare perché a Wuhan, dove è iniziato l’epidemia, molti dei primi casi non sono stati identificati immediatamente. I test svolti all’inizio in molti ospedali cinesi non hanno sempre rilevato un’infezione nella parte periferica dei polmoni quindi, alcune persone che manifestavano sintomi, sarebbero state rimandate a casa senza trattamento, e avrebbero poi cercato cure in altri ospedali o restando a casa, infettando così il resto della famiglia. «Questo è uno dei motivi per cui c’è stata una diffusione così ampia» ipotizza lo scienziato.
Cosa succede ai polmoni?
Il Professore associato della University of Maryland School of Medicine Matthew B. Frieman, che studia i coronavirus altamente patogeni, intervistato dal National Geographic, ha spiegato che nei primi giorni dell’infezione il nuovo coronavirus invade rapidamente le cellule dei polmoni umani che sono di due tipi: quelle del primo tipo producono muco, le altre sono dotate di strutture simili a capelli, e sono pertanto chiamate ciliate. Il muco quando viene espulso, aiuta a proteggere i tessuti polmonari dai patogeni e assicura che gli organi preposti alla respirazione non si secchino. Le cellule ciliate hanno il compito di «scuotere» il muco, eliminando corpi estranei come pollini o virus. Frieman spiega che la SARS infettava e uccideva le cellule ciliate, che infine si staccavano, riempiendo le vie aeree del paziente con residui e fluidi, e ipotizza che lo stesso stia succedendo nel caso del nuovo coronavirus. E questo sarebbe il motivo per cui molti pazienti sviluppano la polmonite da entrambi i polmoni.
Qual è il ruolo del sistema immunitario?
Nella seconda fase della malattia entra in gioco il sistema immunitario. Allarmato dalla presenza di un’invasione virale, il nostro organismo si impegna a combattere la malattia inondando i polmoni con cellule immunitarie che hanno il compito di eliminare il danno e riparare il tessuto polmonare. Quando lavora correttamente, questo processo infiammatorio è rigorosamente controllato e confinato solo alle aree infettate. Ma a volte il sistema immunitario va in tilt e queste cellule uccidono tutto quello che incontrano, incluso il tessuto sano. La risposta abnorme del nostro sistema immunitario può provocare più danni che benefici, e su questo concordano i medici e, nel caso del coronavirus, sempre più residui intasano i polmoni e la polmonite peggiora sempre di più. Nella fase finale il danno ai polmoni è così serio che può sopraggiungere la morte per insufficienza respiratoria e, in alcuni casi, i danni ai polmoni sarebbero permanenti. L’infiammazione rende più permeabili anche le membrane tra le sacche d’aria e i vasi sanguigni, il che determina l’ingresso di fluido nei polmoni, compromettendo la loro capacità di ossigenare il sangue. Nei casi gravi, praticamente l’organismo riempie i polmoni di liquidi e non si riesce a respirare. Le persone muoiono così.
Che cosa sono i fori a «nido d’ape» nei polmoni?
Uno studio recente condotto da un team guidato da ricercatori della Icahn School of Medicine Mount Sinai ha rilevato che oltre la metà di 121 pazienti esaminati in Cina avevano radiografie toraciche normali all’inizio della loro malattia. Quando la malattia progredisce, le scansioni TC mostrano opacità, una sorta di velo nebuloso in alcune zone del polmone tipiche di infezioni respiratorie virali. Quelle aree opache possono ispessirsi quando la malattia peggiora, creando quello che i radiologi chiamano formazione di fori «a nido d’ape». Questi fori sono probabilmente creati dalla risposta iperattiva del sistema immunitario, che crea cicatrici che proteggono e irrigidiscono i polmoni.
Che cosa non sanno ancora gli scienziati dei pazienti con coronavirus?
Non si conoscono ancora molte cose. Sebbene la malattia assomigli alla SARS per molti aspetti e abbia elementi in comune con influenza e polmonite, il decorso della malattia non è ancora del tutto chiaro. Alcuni pazienti possono rimanere stabili per oltre una settimana e quindi sviluppare improvvisamente la polmonite. Altri pazienti sembrano riprendersi, ma poi sviluppano nuovamente i sintomi. Alcuni pazienti in Cina si sono ripresi ma si sono ammalati di nuovo. Ricadute in alcuni casi, il virus era ancora in circolo e non era stato rilevato dal tampone. Ma in altri casi i pazienti avevano un tessuto polmonare danneggiato e vulnerabile, che è stato attaccato in un secondo momento da batteri . Alcuni di questi pazienti hanno finito per morire per un’infezione batterica, non per il virus, anche se questa è una circostanza rara. Altri casi sono misteri . Il dottor Xiao ha raccontato di aver conosciuto personalmente un uomo e la moglie che erano rimasti contagiati, ma sembrava stessero migliorando. L’uomo ha cominciato però a peggiorare ed è stato ricoverato in ospedale. Si trovava in terapia intensiva, stava ricevendo ossigeno e ma aveva scritto a sua moglie che stava migliorando, aveva buon appetito e così via. Nel tardo pomeriggio la donna ha però smesso di ricevere messaggi. Non sapeva cosa stesse succedendo. E alle 10 di sera, ha ricevuto un avviso dall’ospedale che le comunicava che il marito era morto.
Che cosa fare se ho la febbre? Quando si è davvero guariti? Le regole per curarsi a casa. Pubblicato lunedì, 23 marzo 2020 su Corriere.it da Cristina Marrone. In questi giorni di grande allarme per il diffondersi sempre più massiccio del coronavirus molte persone si ritrovano a casa con la febbre, senza ben sapere che fare. Abbiamo chiesto a Ovidio Brignoli, vice presidente della Fimmg, Federazione Italiana Medici di Famiglia come ci si deve comportare.
Che cosa se mi trovo a casa e ho la febbre?
«Chi in questi giorni ha la febbre oltre i 37,5 deve contattare telefonicamente il proprio medico di base senza recarsi in studio. Il medico farà una serie di domande presenti in una scheda di Triage, come quelle del pronto soccorso per valutare segni e sintomi. È importante contattare il proprio medico perché è lui che conosce il paziente, la storia personale, i fattori di rischio come ipertensione o diabete in qualche modo correlabili a un peggioramento della situazione da coronavirus».
Quali sono i sintomi che devono allarmare?
«I tre principali sintomi che devono destare preoccupazione sono oltre alla febbre, tosse secca e difficoltà respiratorie. La febbre può anche salire molto e di solito è preoccupante quando non si abbassa con gli antipiretici. È proprio il rialzo della temperatura il sintomo più frequente (87,9% di prevalenza). La tosse è descritta come secca, stizzosa e insistente, non con catarro (presente nel 67,7% dei casi). Il respiro corto, la difficoltà a respirare e parlare è presente nel 18,6% dei casi. Altri sintomi via via sempre meno comuni sono affaticamento, produzione di espettorato, mal di gola, mal di testa, dolori muscolari e articolari, brividi, nausea e vomito, congestione nasale, diarrea, congiuntivite».
Cosa succede se il medico valuta che i miei sintomi sono compatibili con Covid 19?
«In Lombardia chi in questo momento ha la febbre quasi certamente ha contratto Covid-19. Quindi il paziente deve immediatamente mettersi in isolamento domiciliare per almeno 14 giorni cercando, per quanto possibile, di evitare contatti con il resto della famiglia. È importante che il paziente non esca mai di casa. Anche se non viene eseguito il tampone, che oggi almeno in Lombardia viene fatto solo a chi manifesta sintomi gravi, bisogna mantenere l’isolamento».
Quali sono i farmaci raccomandati?
«Il trattamento va concordato con il proprio medico ad ogni modo si avvale in genere di antipiretici, essenzialmente il paracetamolo, 1 grammo per non oltre 3 volte al giorno, che oltre ad abbassare la febbre è anche un antidolorifico. È molto importante bere a sufficienza per idratare le mucose. Per i disturbi intestinali si può ricorrere ai classici farmaci antidiarrea. Se la situazione evolve favorevolmente la febbre di solito passa in 5-7 giorni. Qualche volta c’è un ritorno febbrile dopo 1-2 giorni. La debolezza può essere lunga da smaltire».
Chi controlla il decorso della mia malattia?
«È il medico di famiglia ad occuparsi, sempre telefonicamente, di come sta evolvendo la malattia. Il paziente ha il compito di tenere monitorato in modo quotidiano tre parametri: la frequenza del respiro (gli atti respiratori in un minuto, fino a 20 è normale); la frequenza arteriosa (serve il misuratore acquistabile in farmacia); la saturazione di ossigeno, valutabile con il saturimetro, strumento che permette di misurare la quantità di ossigeno nel sangue e di individuare un’eventuale dispnea prima che si avvertano i sintomi. È uno strumento a basso costo molto importante per valutare il decorso del coronavirus ma al momento sono esauriti e non se ne trovano più. Noi in studio ne abbiamo alcuni che facciamo girare ai pazienti che ne hanno bisogno dopo averli accuratamente disinfettati. In alternativa sono utilizzabili anche i cardiofrequenzimetri che molte persone possiedono, anche quelli misurano la saturazione dell’ossigeno».
Che cosa succede se la mia situazione si aggrava?
«Se i parametri che vanno monitorati in modo quotidiano dovessero destare grave preoccupazione sarà il medico stesso ad avviare la procedura per un ricovero ospedaliero, chiamando il 112. Anche il paziente può farlo, ma in questo caso i tempi sono più lunghi. A questo punto una équipe visiterà a domicilio il paziente e rivaluterà l’intera situazione clinica decidendo o meno il ricovero».
Come gestire la convivenza in famiglia?
«Chi è malato deve indossare una mascherina chirurgica e guanti e soggiornare in una camera personale. Anche chi si occupa del paziente a domicilio deve indossare dispositivi di protezione. Il paziente deve consumare i pasti da solo e, se possibile, utilizzare un bagno personale. Le superfici del bagno e della stanza usati dal paziente vanno disinfettati con disinfettanti domestici , prodotti a base di cloro o con alcol al 70%. Vestiti, lenzuola e asciugamani vanno lavati in lavatrice a 60-90°».
I pazienti con diagnosi clinica da Covid-19 vengono segnalati?
«È molto improbabile che chi in questo momento ha febbre, dolore respiratorio, senso di stanchezza, inappetenza, tosse abbia contratto una malattia diversa dal coronavirus. Se venisse fatto il tampone sarebbe positivo e sarebbe solo una conferma diagnostica. Quindi noi medici segnaliamo i numerosi casi al sistema di sorveglianza MAINF che monitora l’incidenza delle malattie infettive».
Come faccio a capire se sono guarito se non ho fatto il tampone?
«Dopo 14 giorni senza sintomi si ha la certezza quasi assoluta di essere guariti dalla malattia anche senza aver fatto il tampone. Per questi pazienti vale la guarigione clinica che consiste appunto nella scomparsa di febbre, tosse, malessere generale, difficoltà nel respiro».
C’è qualcuno che certifica il ritorno in comunità?
«No, non è prevista alcuna certificazione da parte del medico curante perché si tratta comunque di una presunzione di guarigione. E’ affidato al buon senso dei pazienti restare altri 14 giorni in isolamento domiciliare dopo la fine dei sintomi. Il certificato medico viene fatto solo in presenza del doppio tampone negativo, quando cioè viene attestata la guarigione non solo clinica, ma anche virologica. Ma questo può valere naturalmente solo per chi era risultato positivo al tampone».
Che cosa devo fare se ho avuto un contatto stretto con una persona positiva a Covid-19?
«È raccomandato l’autoisolamento a titolo precauzionale per proteggere se stessi e gli altri. Se dopo 14 giorni non insorgono sintomi è possibile rientrare in comunità, mantenendo sempre naturalmente le regole oggi in vigore, dal lavaggio delle mani al distanziamento sociale».
Che cosa consiglia alla popolazione?
«Chiunque tenti di esorcizzare l’idea di avere il coronavirus minimizzando i sintomi commette un grosso errore. Va chiamato il medico».
Come è andata la giornata ieri?
«Nel mio studio a Capriolo, in provincia di Brescia, siamo in quattro. In mattinata abbiamo avuto una novantina di chiamate sui cellulari personali e 200 al telefono dello studio. Tutte per il coronavirus».
Elena Dusi per “la Repubblica” il 21 marzo 2020.
Quali sono le cure contro il coronavirus? Non esistono farmaci o altre cure specifiche. Le medicine date ai pazienti gravi o a rischio sono usate ancora a titolo sperimentale. La lotta contro il virus è affidata al nostro sistema immunitario, che si trova in difficoltà perché ha di fronte un microbo completamente nuovo. La sua risposta, per questo, è spesso lenta e disorganizzata.
Quando si attivano le difese? Occorrono 4-5 giorni dal contagio solo perché si formino gli anticorpi. Poi inizia la fase di infiammazione vera e propria, con la febbre che sale e la battaglia che si scatena nel corpo. Il suo andamento dipende dall' efficienza del sistema immunitario, che è in parte legata all' età. Non ci sono però dati certi sul perché alcune persone reagiscano meglio di altre. Dall' inizio dei sintomi c' è una fase che dura altri 4-5 giorni in cui il virus passa dalle vie aeree superiori, dalle quali era entrato, fino all' interno dei polmoni. L' uso dei farmaci antivirali per ora è riservato a fasi più avanzate della malattia (sempre in via sperimentale), ma si sta provando a estenderlo alle fasi più precoci. Gli antivirali testati contro il coronavirus sono farmaci usati da anni contro l' Hiv, sperimentati contro Ebola o tradizionali antimalarici come la clorochina.
Perché l' infiammazione può diventare eccessiva? L' infiammazione è il segno che il sistema immunitario sta lottando contro il virus. È un processo utile, ma per ragioni poco chiare in questa malattia può attivarsi in modo eccessivo. Nel polmone, la battaglia troppo intensa tra germi e sistema immunitario crea un essudato che si riversa negli alveoli e gli impedisce di entrare in contatto con l' ossigeno, che così non riesce a passare nei vasi sanguigni, dando la sensazione di soffocare. Per arginare la violenza della battaglia e ridurre l' essudato, si provano vari farmaci della categoria degli antinfiammatori (il più sperimentato, ma non l' unico, è quello usato contro l' artrite reumatoide). Resta il dubbio che arginare l' infiammazione proprio mentre il sistema immunitario sta combattendo contro il virus possa essere controproducente. I trial clinici in partenza in Italia ci daranno una risposta.
Perché alcuni malati in terapia intensiva sono a pancia in giù? Si è osservato che questo migliora la distribuzione dell' aria in tutto il polmone, anche nelle parti più colpite dall' infezione. A spiegare il meccanismo è Maurizio Cecconi, che dirige la rianimazione dell' Humanitas di Rozzano. «La parte destra del cuore manda nei polmoni il sangue, che riceve ossigeno e rilascia anidride carbonica. Una volta nel cuore sinistro, il sangue viene mandato nel resto dell' organismo, dove avviene lo scambio opposto». Con la sindrome respiratoria causata dal coronavirus, il meccanismo si inceppa. I polmoni si riempiono d' aria, ma l' ossigeno non arriva al sangue, che quindi non può distribuirlo nell' organismo. Il cambio di posizione da supini a proni può aiutare a migliorare la situazione. «Si fa per cicli di qualche giorno, se i malati rispondono al trattamento, per circa 16 ore al giorno. In questo modo possiamo fare riposare il polmone usando pressioni più basse nei nostri ventilatori». La pronazione è usata da anni anche in altre sindromi respiratorie. Va praticata con molta cautela e richiede 3-4 infermieri ben protetti dal contagio.
Come avviene la guarigione? Somministrare ossigeno con mascherine, caschi, intubazione e ventilazione meccanica non cura l' infezione. Queste sono tecniche che aiutano il corpo a ricevere ossigeno e dunque a sopravvivere durante la battaglia fra sistema immunitario e coronavirus. In assenza di farmaci davvero efficaci, a vincere la guerra può essere solo l' organismo del paziente. Il braccio di ferro può durare due o tre settimane. Quando l' infiammazione si attenua e il polmone ricomincia lentamente a riprendere le sue funzioni, vengono ridotte la pressione dell' aria insufflata dai ventilatori meccanici e la percentuale di ossigeno somministrato. Per riprendere a essere autonomo, il polmone e i suoi muscoli avranno ancora bisogno di alcuni giorni di riabilitazione, se la malattia era stata severa.
I sintomi del coronavirus: ecco quali sono, dai più ai meno comuni. I sintomi del coronavirus sono molto simili a quelli di una comune influenza. Ecco quali sono, dai più diffusi ai meno comuni. Fabio Franchini, Sabato 21/03/2020 Il Giornale. Una delle caratteristiche forse più subdole del coronavirus, che sta mettendo in ginocchio lItalia, obbligata sostanzialmente alla serrata, è la sua somiglianza, nei sintomi, a un'influenza comune. Il che rende ancora più difficile constatare – senza l'esame del tampone, che ora come ora viene fatto solo sui soggetti con gravi sintomatologie – se una persona è contagiata o meno. Premettiamo una cosa assai importante: i segnali dell'infezione possono variare da persona a persona e, allo stesso modo, manifestarsi con più o meno vigore. Fatta la doverosa premessa, ecco quali sono i sintomi del Covid-19, dai più diffusi ai meno usuali. In cima alla lista dei segnali che devono far alzare il livello di guardia c'è il trittico rappresentato da febbre, tosse (secca) e difficoltà respiratorie. Sono infatti questi tre i principali campanelli d'allarme, che possono indurre una persona a precipitare nel panico e/o a farla rendere conto che è un potenziale infetto. Parentesi: è bene ricordare a tutti – perché repetita iuvant – che qualora aveste i sintomi di un'influenza, non dovete assolutamente uscire di casa, né prendere la macchina per raggiungere il pronto soccorso, né – tantomeno – andare dal proprio medico di base. L'iter è il seguente: contattare il proprio dottore, la guardia medico, oppure il numero unico di pubblica utilità 1500, o i numeri che ogni Regione ha predisposto: ecco qui l'elenco completo e dettagliato regione per regione.
I sintomi principali. Bene, torniamo ai sintomi, che in media esplodono una settimana scarsa dopo aver contratto il coronavirus (che ha incubazione massima di quindici giorni). Partendo dalla temperatura corporea, il mercurio dei termometri è un'affidabile cartina di tornasole: la febbre può essere anche molto altra (39°C), ma non sono così rari in cui i contagiati avevano poche linee. In ogni caso, il consiglio è sempre lo stesso: antipiretici o no, non uscite di casa e rimanere tra le mura domestiche isolati dai vostri cari. Dunque il capitolo tosse, specialmente se insistente e secca (non grassa); quindi, il respiro corto e/o affannato che arreca difficoltò anche al parlare.
I sintomi secondari. Febbre, tosse e apnea soprattutto, ma non solo. Altri sintomi da non sottovalutare sono la sensazione di debolezza e affaticamento, la presenza di cataro, mal di gola e mal di testa. Poi, ancora: mialgia, brividi, vomito, nausea, naso chiuso e anche diarrea. Ma, specialmente per questi ultimi, i casi sono ridotti al lumicino. Non per questo, però, bisogna abbassare la guardia. Prudenza e responsabilità, infatti, devono essere le stelle polari in questa emergenza.
Coronavirus, sintomi e decorso: che cosa succede quando ci si ammala di Covid-19. Pubblicato venerdì, 20 marzo 2020 su Corriere.it da Luigi Ripamonti. Qual è il decorso dell’infezione da Sars-Cov-2? Lo tracciamo, per sommi capi, con l’aiuto di Sergio Harari primario di pneumologia e medicina all’ospedale San Giuseppe Multimedica di Milano e professore di Clinica Medica all’università di Milano. Per cominciare va detto che in circa l’80% dei casi l’infezione non dà sintomi oppure si manifesta con disturbi variabili ma non tali da richiedere il ricovero. Nel restante 20% ci sono difficoltà respiratorie che richiedono assistenza in ospedale e nel 2 per cento circa del totale l’esito è fatale, evenienza che si verifica soprattutto in persone anziane o portatrici di altre patologie. Le cifre vanno considerare approssimative, perché variano nei diversi Paesi e possono mutare all’aumentare dei dati raccolti (qui la mappa del contagio nel mondo). Quando non è asintomatica la malattia di solito si manifesta come una «brutta influenza». In genere c’è febbre alta o molto alta, con brividi (segno che la temperatura sta salendo), accompagnata o meno da mal di gola, bruciore nella parte alta delle vie aree (tracheite), dolori diffusi, mal di testa, stanchezza profonda, non di rado congestione nasale e congiuntivite. Di recente è stata riscontrata in molti infetti la perdita del gusto e dell’olfatto, anche come unico sintomo. Possono intervenire anche disturbi gastrointestinali perché il virus non si ferma necessariamente nell’apparato respiratorio. Se la situazione evolve favorevolmente la febbre di solito passa in 5-7 giorni. Qualche volta c’è un ritorno febbrile dopo 1-2 giorni. La debolezza può essere lunga da smaltire. Il trattamento si avvale di antipiretici, essenzialmente il paracetamolo, che oltre ad abbassare la febbre è anche antidolorifico. È molto importante bere a sufficienza, per idratare le mucose e perché serve anche ad abbassare la febbre. Per i disturbi intestinali si può ricorrere ai classici farmaci cui si ricorre per la diarrea. Anche se non viene fatto il tampone è necessario limitare al minimo i contatti con le altre persone, compresi i familiari. In caso di convivenza bisogna indossare mascherina e guanti e disinfettare bene le superfici. Se si può, meglio tenere i bagni separati perché la localizzazione intestinale del virus rende plausibile la trasmissione per via fecale. Non si sa ancora con certezza dopo quanto tempo il malato si «negativizza». In teoria bisognerebbe fare un tampone, ma al momento non è sempre possibile, e ancora non si sa se, e per quanto, si sviluppi immunità. L’allarme deve scattare quando comincia a mancare il fiato, che può diventare corto e/o frequente, oppure, quando, avendo un saturimetro in casa, ci si accorge che la saturazione dell’ossigeno nel sangue scende di 4-5 punti rispetto allo standard della persona, tenendo presente che il confronto deve essere fatto a parità di temperatura, perché quando la febbre sale la saturazione si abbassa. In questi casi in ospedale si fa a una lastra al torace per verificare se c’è interessamento polmonare, nel qual caso si procede al ricovero perché ci può essere un peggioramento drammatico e rapido, talvolta anche nel giro di poche ore, che rende necessaria l’assistenza respiratoria, con strumenti come il cPap (lo stesso usato da chi soffre di apnee notturne), gli ormai famosi caschi oppure, quando non c’è altra scelta, con l’intubazione. Questi interventi sono indispensabili perché Sars-Cov-2 ha la capacità di insediarsi negli alveoli polmonari, dove provoca un’importante infiammazione e rende difficile la funzione essenziale di questi piccoli «acini» e cioè la cessione di anidride carbonica prodotta dal corpo (nell’aria espirata) e l’assunzione di ossigeno dall’esterno (dall’aria inspirata). Ciò, oltre a essere necessario per la sopravvivenza, ha ruoli meno ovvi, ma altrettanto fondamentali per l’equilibrio dell’organismo, come il mantenimento dell’equilibrio acido-base. Per quanto attiene alle terapie farmacologiche gli antivirali attualmente usati sono il Remdesivir, di cui è appena iniziata una sperimentazione e la combinazione Lopinavir/Topinavir, che però, secondo uno studio pubblicato sul New England Journal of Medicine non sembra fornire vantaggi significativi. Vengono poi adoperati farmaci antimalarici o antireumatici, come l’ormai famoso Tocilizumab, per ridurre la cosiddetta «tempesta citochinica», che è un altro non è che un’enorme condizione infiammatoria. Dopo la dimissione è necessario ricontrollare il paziente dopo 14 giorni con due tamponi ravvicinati in successione e solo a quel punto si può dire che la persona non è più infettiva. Nel frattempo dovrebbe seguire le regole di separazione o almeno di protezione con i familiari.
Coronavirus, tra i sintomi frequenti la perdita totale di gusto e olfatto. Pubblicato martedì, 17 marzo 2020 su Corriere.it da Laura Cuppini e Sandro Orlando. La perdita del senso dell’olfatto e del gusto potrebbe essere uno dei sintomi che si manifestano con l’infezione da coronavirus Sars-CoV-2. Il dottor Hendrik Streeck, virologo di Bonn che sta coordinando le indagini a tappeto nell’area di Heinsberg, la cittadina del Land Nordreno-Vestfalia dove per ora è concentrata l’epidemia in Germania, in un’intervista alla Frankfurter Allgemeine, dice di aver riscontrato questa caratteristica tra i pazienti risultati positivi ai test. «Di quasi tutte le persone infette che abbiamo intervistato (e si tratta di un centinaio, ndr), almeno i due terzi hanno riferito di aver perso il senso dell’olfatto e del gusto per più giorni — racconta —. Questa assenza è così forte che una madre non è stata in grado di percepire l’odore del pannolino sporco del suo bambino. Altri non sentivano più l’odore del loro shampoo e il cibo iniziava a non sapere più di nulla. Non possiamo ancora dire esattamente quando compaiono questi sintomi, ma insorgono subito dopo l’infezione». Tra gli altri sintomi individuati, oltre alla tosse secca e alla febbre, il dottor Streeck spiega di aver riscontrato una significativa incidenza della diarrea, che era comune al 30% delle persone infette. E questo suggerisce che «il tratto gastrointestinale possa essere attaccato — dice —, anche se non lo sappiamo con certezza. Quello che sappiamo è che il virus penetra nella sua cellula ospite attraverso il recettore ACE-2: molte cellule tissutali hanno questo recettore e quindi potrebbero essere attaccate». «Nei nostri pazienti vediamo frequentemente i sintomi dell’anosmia (alterazione dell’olfatto, ndr) e della disgeusia (alterazione del gusto, ndr) — conferma Massimo Galli, ordinario di Malattie infettive all’Università degli Studi di Milano e primario del reparto di Malattie infettive III dell’Ospedale Sacco —, anche nei casi lievi e moderati. Non sono ancora disponibili dati di osservazione scientifica su questo aspetto, sto parlando di osservazioni personali e del mio team. La perdita di gusto e olfatto possono comparire anche in altre infezioni delle vie respiratorie , ma nella Covid-19 sembrerebbe più frequente e grave. Al momento non sappiamo dire se il disturbo sia transitorio, ovvero se con la guarigione la sensibilità viene totalmente recuperata. Possiamo solo sperare che la cosa sia transitoria. Posso dire con certezza — conclude Galli — che è un sintomo che compare verso la fine dell’infezione, quindi quando il paziente è sulla via della guarigione. Sicuramente non si tratta di un sintomo iniziale».
Quali sono i sintomi più comuni e quando bisogna mettersi in allarme. Pubblicato giovedì, 12 marzo 2020 su Corriere.it da Silvia Turin. I sintomi della malattia da coronavirus (COVID-19) assomigliano molto a quelli dell’influenza e a volte a quelli delle altre sindromi da raffreddamento tipiche della stagione fredda. Possiamo indicare i più comuni al coronavirus, sottolineando però che la prevalenza di uno o dell’altro dipende anche dalle singole persone. Ci sono tre principali campanelli d’allarme che possono scattare: febbre, tosse secca e difficoltà respiratorie. L’entità e la gravità di questi tre segnali è quella che i numeri messi a disposizione dell’emergenza sanitaria cercano di valutare. La febbre può salire molto, di solito mette in allarme quando non passa con gli antipiretici e cresce sopra i 37,5. In presenza di febbre, secondo le attuali normative bisogna rimanere in casa isolati. Nel più vasto studio realizzato in Cina su 55.924 casi confermati in laboratorio (studio cui ci riferiremo d’ora in avanti per le percentuali) la febbre era al primo posto con l’87,9% di prevalenza.
La tosse è descritta come secca, stizzosa e insistente, non con catarro ed era presente nel 67,7% dei casi.
Il respiro corto, la difficoltà a respirare, a parlare (tipo apnea) è proprio del 18,6% dei casi, ma nei numeri d’emergenza viene valutato come importante (insieme a febbre che non scende e tosse insistente) per destare allarme.
Altri sintomi in ordine di prevalenza sono: affaticamento (38,1%), produzione di espettorato (33,4%), mal di gola (13,9%), mal di testa (13,6%), mialgia o artralgia (14,8%), brividi (11,4%), nausea o vomito (5,0%), congestione nasale (4,8%), diarrea (3,7%), tosse con sangue (0,9%) e congestione congiuntivale (0,8%).
Le persone con COVID-19 generalmente sviluppano segni e sintomi in media 5-6 giorni dopo l’infezione (il periodo massimo di incubazione è entro i 14 giorni).
Come si vede i sintomi del Covid-19 assomigliano molto a quelli dell’influenza e delle forme parainfluenzali, per questo si creano molti falsi allarmi. Nei casi più seri si manifestano polmoniti che possono portare a gravi insufficienze respiratorie e insufficienza renale. «L’unico elemento (ma non è sempre così) che può far distinguere il coronavirus dall’influenza è l’insorgere di difficoltà respiratorie — spiega Massimo Andreoni, professore di Malattie infettive all’Università Tor Vergata di Roma e direttore scientifico della Società italiana di Malattie infettive tropicali —. Se manca l’aria vale la pena allertare il medico curante o i numeri appositi, soprattutto qualora si sospetti di essere entrati in contatto con persone risultate positive al virus».
E l’influenza? In genere ha un inizio brusco con febbre oltre i 38°, almeno un sintomo sistemico (spossatezza, dolori muscolari) e almeno un sintomo respiratorio (naso chiuso, naso che cola, tosse). Chi riscontra sintomi simil-influenzali o problemi respiratori non deve andare al Pronto soccorso e neppure recarsi nello studio del medico di base bensì chiamare il numero 1500 o il numero che ogni Regione ha predisposto (QUI L’ELENCO) per l’emergenza, oppure il suo medico di base. A tutti i medici di medicina generale e agli operatori è stata distribuita una scheda di triage telefonico con domande da porre ai pazienti che si sospetta potrebbero essere contagiati da coronavirus per fare una prima diagnosi. Ricordiamo che attualmente i tamponi vengono fatti solo a persone con sintomatologia grave.
"Ora sono malato, ho il virus...". Ecco come capire se si è infetti. Febbre e difficoltà respiratorie sono i sintomi iniziali più comuni, ma bisogna prestare attenzione anche alla tosse. Francesca Bernasconi, Martedì 10/03/2020, su Il Giornale. Febbre e difficoltà respiratorie. Sono questi i due sintomi più comuni, che compaiono in caso di contagio da coronavirus. L'altro sintomo iniziale è, invece, la tosse. In caso insorgano questi segnali, soprattutto se tutti insieme, è bene contattare il proprio medico di base o i numeri di emergenza.
I sintomi da Covid-19. I pazienti morti e risultati positivi al Covid-19 hanno sviluppato come primi sintomi febbre e dispnea, rispettivamente nell'86% e nell'82%. A renderlo noto è uno studio dell'Istituto superiore di sanità (Iss), che ha analizzato i casi di 155 pazienti italiani deceduti al 6 marzo di quest'anno. Altri sintomi insorti inizialmente, rivelatisi poi un'avvisaglia del contagio, sono la tosse, presente nel 50% dei pazienti, la diarrea e l'emottisi (la fuoriuscita di sangue dalle vie respiratorie), riscontrate entrambe nel 5% dei casi. Febbre, tosse e dispnea si possono presentare singolarmente o contemporaneamente. "Questi dati- ha spiegato Silvio Brusaferro, presidente dell'Iss- suggeriscono che per chi presenta solo febbre è sufficiente allertare il proprio medico rimanendo a casa, mentre in presenza di entrambi i sintomi è meglio contattare il 112 o 118". In ogni caso, "bisogna assolutamente evitare" di recarsi al pronto soccorso o dal medico, uscendo di casa: si rischia, in questo modo, di esporre il resto della popolazione a un eventuale contagio. I sintomi da Covid-19 sono molto simili a quelli dell'influenza e, per questo, capire di essere stati contagiati o meno, non è immediato.
Come distinguere il virus dall'influenza. "Il range di sintomatologia dei sintomi influenzali comprende sintomi respiratori come naso che cola o mal di gola, sintomi sistemici come dolori e, infine, febbre", ha spiegato a La Stampa Fabrizio Pregliasco, virologo dell’Università degli Studi di Milano. Il Covid-19 può presentare una fase iniziale del tutto analoga, dopo la quale può comparire "una sindrome respiratoria molto forte, "legata alla polmonite interstiziale bilaterale". I sintomi, spiega Pregliasco, "sono la fame d’aria (dispnea), l’affanno e l’aumento della frequenza cardiaca". Inoltre, la durata del virus è maggiore di quella di una semplice influenza, che si protrae per circa 5-7 giorni. Se si pensa di essere stati contagiati dal coronavirus è necessario chiamare il numero verde 1500, attivo 24 ore su 24, o contattare il 112 o il 118. Sono a disposizione anche i numeri verdi regionali, dedicati solamente al coronavirus.
Prevenzione. Data la difficoltà nel riconoscere i sintomi da Covid-19, è bene seguire le raccomandazioni per contenere il contagio, ricorrendo alla prevenzione. Le norme di prevenzione comprendono quelle igieniche, come lavarsi spesso le mani con sapone o gel a base alcolica e coprirsi naso e bocca con un fazzoletto o con l'interno del gomito quando si tossisce o si starnutisce. È consigliato anche di evitare contatti ravvicinati, mantenendo almeno un metro di distanza, evitare luoghi affollati ed evitare di toccarsi il volto con le mani. Ieri, il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, ha esteso anche le limitazioni negli spostamenti a tutta l'Italia: "State a casa", è l'appello rivolto a tutti i cittadini. L'Istituto superiore di sanità ha diffuso un vademecum, che può aiutare i cittadini in caso di dubbi su come riconoscere il contagio da Covid-19 e affrontare l'emergenza legata all'epidemia.
Melania Rizzoli per “Libero quotidiano” il 10 marzo 2020. Febbre e affanno. Sono questi i due sintomi principali di esordio dell'infezione da Coronavirus, sono stati riscontrati presenti sempre insieme nell' 86% dei soggetti esaminati e diagnosticati infetti, mentre l' altro sintomo iniziale, la tosse, è invece stata registrata nella metà dei pazienti, ovvero nel 50% di coloro che poi sono risultati affetti dal Covid19 Questi sono i dati ufficiali. Quindi tutti coloro che si trovino improvvisamente con l' aumento della temperatura superiore almeno ai 37.5 gradi e di segnali come tosse e dispnea, alla luce delle ultime statistiche epidemiologiche, anche se non significa necessariamente avere contratto l'infezione da Coronavirus, devono ragionevolmente sospettarne la presenza, devono rimanere a casa, non andare in pronto soccorso, ma chiamare il proprio medico di famiglia o il 112, canali attraverso i quali il personale sanitario valuterà telefonicamente la situazione, verificando, con altre domande specifiche, il sospetto della virosi in atto, e regolarsi di conseguenza. In tutti i 267 pazienti deceduti fino a domenica scorsa in Lombardia, e risultati positivi al Covid19 i sintomi di esordio sono stati sempre febbre e difficoltà a respirare, mentre meno comuni sono stati i sintomi gastrointestinali (diarrea) e l'emottisi, ovvero tracce di sangue nell'espettorato espulso con un colpo di tosse, e tali dati sono stati resi pubblici dall' Istituto Superiore di Sanità ed aggiornati alla data del 5marzo 2020, con la raccomandazione, per chi presenta solo febbre , di allertare comunque il proprio medico rimanendo a casa, mentre in presenza di due o più sintomi specifici, di contattare i numeri di emergenza 112 e 118. La malattia provocata dal nuovo Coronavirus ha il nome di "Covid19", (dove 'Co' sta per Corona, 'Vi' per Virus, ‘D’ Disease e '19' indica l'anno in cui si è manifestata) e questo agente patogeno appartiene alla stessa famiglia virale della SARS ( Sindrome Respiratoria Acuta Grave), ma non essendo la stessa malattia , i suoi sintomi possono essere differenti, e trarre in inganno i pazienti inconsapevoli di averla contratta. Per tale motivo è importante che le persone che improvvisamente accusino i sintomi più comuni sopra elencati, quali febbre, stanchezza, tosse secca e non produttiva (senza catarro), o presentino anche indolenzimento e dolori muscolari, congestione nasale, naso che cola, congiuntivite, mal di gola o diarrea, tutti segnali generalmente lievi, che però acquistano intensità nel giro di 48ore, devono contattare il proprio medico, poiché l'infezione può rapidamente evolvere in polmonite, causando la temibile sindrome respiratoria acuta grave, con insufficienza renale ed altre complicazioni organiche potenzialmente letali. Ma quanto è pericoloso questo virus , e perché alcune persone si infettano ma non sviluppano alcun sintomo? È bene sottolineare che circa l' 80% dei soggetti infettati guarisce dalla malattia virale senza bisogno di cure speciali, perché vengono colpiti dalla virosi mentre si trovano in buona salute, sia fisica che metabolica, e non sviluppano nemmeno la polmonite, superando la malattia con un quadro simil-influenzale, mentre coloro che si ammalano gravemente, con polmonite spesso bilaterale con insufficienza respiratoria, hanno sempre patologie sottostanti, ovvero soffrono cronicamente di diabete, cardiopatie, ipertensione, epatopatie, neoplasie o immunodeficienze, anzi, sono proprio queste le persone che hanno le maggiori possibilità di veder sviluppare la malattia nella sua forma più grave. Per tali motivi con il DPCM del 4 marzo si raccomanda a tutte le persone over 65 che risultano affette da una o più patologie croniche di evitare di uscire dalla propria abitazione o dimora fuori dai casi di stretta necessità, e di evitare anche luoghi affollati nei quali non sia possibile mantenere la distanza di sicurezza interpersonale di almeno un metro. Anche se, per dovere di cronaca, bisogna dire che nelle ultime due settimane in Lombardia sono stati ricoverati in terapia intensiva anche pazienti più giovani, con un'età tra i 40 e i 60anni, senza comorbilità associata, cioè senza altre malattie manifeste, ma con polmonite in atto ed insufficienza respiratoria, con un quadro clinico che sta allarmando non poco i nostri operatori sanitari. Ricordo inoltre che il periodo di incubazione , ovvero il tempo che intercorre tra il contagio e lo sviluppo dei sintomi, che si stima di circa 14 giorni, è il periodo più pericoloso sia per diffondere che per contrarre il contagio, poiché essendo la malattia in queste due settimane assolutamente asintomatica, la persona infetta, e da subito contagiosa, si sente bene, non accusa nessun disturbo, per cui continua ad uscire e relazionarsi con più persone, diffondendo, seppur inconsapevole, il Covid19 ad almeno 18 soggetti, i quali manifesteranno i sintomi dopo due settimane da quello sfortunato incontro. Tengo a precisare però, che l'infezione da Coronavirus non è una questione di fortuna o sfortuna, perché si tratta di un virus respiratorio che viaggia esclusivamente con le persone, che si trasmette con un contatto stretto e ravvicinato con un soggetto già malato, all'apparenza sano al momento del contagio, le cui vie primarie di trasmissione sono le goccioline di saliva emesse nel parlare, tossire o starnutire, oppure con i contatti diretti personali, per esempio toccando una mano contaminata, ed auto-immettendo in tal modo il virus nella propria bocca, naso od occhi che tutti tocchiamo almeno tre volte ogni minuto. In rari casi il contagio è avvenuto per via oro-fecale, durante rapporti sessuali non protetti, con la pratica del sesso orale, con partner in fase di incubazione o già sintomatici, poiché è stata dimostrata scientificamente anche questa particolare modalità di trasmissione, essendo stato identificato il virus anche nelle feci, oltre che in tutte le altre secrezioni umane. Comunque, secondo i dati attualmente disponibili, sono le perone sintomatiche la causa più frequente di diffusione del virus, perché albergano il picco più alto di infezione, e l' OMS ha diffuso un comunicato nel quale considera non frequente (ma naturalmente possibile e probabile) l' infezione del nuovo Coronavirus prima che si sviluppino i sintomi. Inoltre, anche se la trasmissione virale è accertato che avviene da persona a persona, il virus è in grado di sopravvivere alcune ore al di fuori di una cellula vivente, per cui è buona norma il lavaggio frequente ed accurato delle mani dopo aver toccato superfici ed oggetti potenzialmente sporchi e contaminati, che andrebbero disinfettati con prodotti contenenti alcol (etanolo) al 75% o a base di cloro all' 1% (candeggina). Normalmente tale malattia respiratoria virale non si trasmette con gli alimenti, che comunque devono essere manipolati rispettando le buone pratiche igieniche, e possibilmente, nell'incertezza scientifica che ancora aleggia nei confronti di questa nuova virosi, sarebbe meglio evitare il contatto tra alimentari crudi e cotti. Al momento non è possibile prevedere per quanto tempo durerà questa epidemia e come evolverà, poiché avendo a che fare con un nuovo virus persistono molte incertezze, e non è noto nemmeno se la trasmissione virale calerà con l'arrivo della stagione calda, come osservato regolarmente per l'influenza stagionale. Attualmente i più esposti ai fattori di rischio del Covid19 sono naturalmente i nostri medici e tutto il personale sanitario che da settimane vive e convive a contatto con gli ammalati infetti, (con il virus che circola nei reparti dedicati, nei pronto soccorso e si attacca alle loro maschere a alle loro tute protettive) applicando sistematicamente tutte le misure finalizzate al controllo e al contenimento delle infezioni, provando cure sperimentali e tentando assistenze respiratorie estrema nelle terapie intensive, in uno sforzo straordinario di prevenzione e di difesa nei confronti di loro stessi e della popolazione intera. Per cui non collaborare e non rispettare le regole imposte contro la diffusione del Coronavirus è un'azione criminale, non solo nei confronti dei nostri eroici operatori sanitari, senza i quali finiremmo abbandonati a noi stessi, ma nei confronti di tutti coloro che ancora risultano esenti da questa epidemia, nel tentativo e nello sforzo comune di non mettere i medici nella condizione di essere costretti a ricoverarli con la polmonite in atto in un letto di rianimazione, sempre meno disponibili, e di doversi dunque trovare di fronte alla drammatica decisione di scegliere chi intubare e chi invece affidare al proprio destino.
Coronavirus, per quanto tempo un soggetto positivo, ma asintomatico resta contagioso? Pubblicato giovedì, 12 marzo 2020 su Corriere.it da Cristina Marrone. Di questi tempi in molti se lo stanno chiedendo. Soprattutto chi, positivo ma asintomatico al coronavirus (secondo le statistiche dell’Iss quasi il 10%) sta terminando il suo periodo di incubazione. Per quanto tempo una persona positiva all’infezione, che non abbia sviluppato sintomi, e quindi asintomatica, può essere vettore di contagio? «Un caso positivo di Coronavirus - spiega il professor Fabrizio Pregliasco, virologo dell’Università degli Studi di Milano, direttore sanitario dell’Istituto Ortopedico Galeazzi di Milano - è un soggetto a cui, a seguito di un tampone faringeo, viene riscontrata la presenza di virus vivo nelle vie respiratorie e che è quindi in una condizione di contagiosità che può andare avanti anche quando c’è la guarigione dei sintomi. Tutti i soggetti positivi, anche se poco sintomatici, o addirittura senza sintomi vanno considerati a rischio. Le persone che hanno avuto un contatto stretto e ravvicinato con un caso positivo per un tempo superiore a 15 minuti, quindi, devono essere molto attente alla propria salute e isolarsi anch’esse per 14 giorni (tempo massimo di incubazione, che va dai 2 agli 11 giorni con un tempo medio di 5,2 giorni)». «Essere positivi al tampone non vuol dire essere malati: esistono alcune persone che, nonostante risultino positive al test, potrebbero non sviluppare mai i sintomi - chiarisce l’esperto -. È difficile che un soggetto asintomatico, rispetto a uno che manifesta raffreddore e tosse, contagi in modo significativo un’altra persona. Anzi è possibile, ma con minore efficacia e minore probabilità». Caso positivo, quando i sintomi regrediscono Essere guariti da un infezione da coronavirus non vuol dire in automatico non essere più contagiosi: «Nei casi di recessione delle manifestazioni sintomatologiche - avverte il virologo -, è sempre meglio che i soggetti restino comunque in quarantena (14 giorni) ed eseguano un ulteriore test che confermi la negatività e la non contagiosità». Le linee guida dell’Istituto Superiore di Sanità indicano che un soggetto positivo a Sars-Cov2, asintomatico o guarito dai sintomi, vada testato con tampone non prima di 7 giorni; se risulta ancora positivo va testato di nuovo dopo altri 7 giorni.Una volta raggiunta la negatività il tampone va ripetuto a distanza di 24 ore e solo a qual punto il paziente può essere davvero dichiarato guarito. «La verità è che solo ed esclusivamente il tampone ci può dire se un soggetto si è negativizzato e quindi non più contagioso perché nel suo organismo non circola più il virus, e questo vale per tutti: malati e asintomatici» precisa Pregliasco. «Il problema - aggiunge il virologo - è che molte persone venute a contatto con soggetti positivi sono sì messe in quarantena, ma non viene più effettuato il tampone se non presentano sintomi. Dopo i 14 giorni di isolamento domiciliare (che è il periodo di incubazione del virus entro il quale in genere si manifestano i sintomi) non si sa né se queste persone abbiano contratto il virus restando asintomatiche né se sono ancora contagiose anche se, va detto, è largamente riconosciuto che sono i pazienti con sintomi a essere di gran lunga più contagiosi con una carica virale maggiore. Del resto gli asintomatici sono meno “pericolosi” perché va da sé, non tossiscono e non starnutiscono». Resta importante però che chi è stato trovato positivo, seppur asintomatico, mantenga il suo periodo di quarantena. Si è già largamente parlato di quel manager di 33 anni di Monaco che potrebbe essere il primo europeo ad aver contratto l’infezione in Europa. Nel suo periodo di incubazione, senza saperlo, ha contagiato altri colleghi. Poi ha manifestato i classici sintomi, tosse e febbre, ma si è ripreso in tre giorni. Quando i medici hanno intuito che potesse essere stato malato di Covid-19 gli hanno fatto il tampone ed il virus è stato trovato in quantità rilevanti nel suo espettorato, anche quando in realtà si sentiva bene. Motivo per cui i pazienti vanno ben controllati non solo quando sono asintomatici ma soprattutto dopo le dimissioni (oggi le linee guida indicano isolamento domiciliare per 14 giorni dopo le dimissioni dall’ospedale e alla fine del periodo viene eseguito un nuovo tampone). La quarantena per chi ha avuto contatti con persone positive è assolutamente prioritario e lo dimostrano vari studi. Una ricerca appena pubblicata dal British Medical Journal ha rilevato che il 73% dei contagi avvengono quando il soggetto senza sintomi si trova nel periodo di incubazione, in particolare negli ultimi tre dei famosi 14 giorni. Un’altra ricerca molto interessante pubblicata due giorni fa sugli Annals of Internal Medicine ha stimato il periodo di incubazione in 5,1 giorni e il 97,5% di coloro che svilupperanno sintomi lo farà entro 11,5 dall’infezione (da 8,2 a 16,6 giorni). Queste stime implicano che, secondo ipotesi conservative, 101 casi su 10 mila svilupperanno sintomi dopo 14 giorni di monitoraggio attivo. Entrambe le ricerche rendono l’idea di quanto sia davvero importante la quarantena, e soprattutto, quanto sia decisivo per evitare nuovi contagi, portarla fino in fondo.
Coronavirus, ecco cosa fare (e cosa no) se si è positivi in quarantena in casa. Nel caso in cui risultaste positivi al Covid-19, ecco il vademecum che spiega come comportarsi in quarantena nella propria abitazione. Fabio Franchini, Lunedì 23/03/2020 su Il Giornale. Attualmente, sono quasi sessantamila gli italiani che hanno contratto il coronavirus. Si tratta di una pandemia e di un'emergenza sanitaria nazionale che sta obbligando a un tour de force il sistema sanitario nazionale e che ha portato il governo ad adottare misure di prevenzione e contenimento assai stringenti. Qualora aveste sintomi simili a un'influenza – febbre, tosse, difficoltà respiratorie (ma non solo) – la prima cosa da fare è non allarmarsi, perché non per forza di cose avete il Covid-19. Bisogna, onde evitare di spargere il patogeno, contagiando altre persone, mantenere la calma e seguire pedissequamente e indicazioni date dalle autorità. Quindi, in seguito all'esame del tampone, in caso di positività – a seconda delle gravità o meno dell'infezione in corso (ricovero in ospedale oppure la quarantena a casa), ecco le raccomandazioni per tenere un comportamento responsabile per se stessi, i propri cari e l’intera comunità. Coronavirus, ecco come curarlo a casa. A fornire un vademecum chiaro su come bisogna comportarsi se si è positivi e in isolamento a casa ci ha pensato l'Istituto Superiore di Sanità.
Si tratta di semplici istruzioni da rispettare. Eccole tutte, raggruppate in 7 semplici regole:
1) Il soggetto positivo al coronavirus deve rimanere in isolamento al proprio domicilio, mantenendosi a debita distanza dai propri familiari, possibilmente rimanendo in una stanza – senza ricevere visite (oppure riducendole al lumicino per necessità) che deve essere ben areata. I suoi familiari, se in buona salute, devono soggiornare egli altri locali della casa, mantenendo dall'infetto almeno un metro di distanza e ovviamente, in caso di coniugi, dormire in letti separati.
2) Il contagiato deve munirsi di mascherina (ecco quale utilizzare e come) e fare enorme attenzione alla propria igiene personale, possibilmente servendosi di un bagno "riservato", se l'appartamento ne possiede più di uno. Dispositivo di protezione a parte, il positivo deve munirsi di gel igienizzanti e lavarsi spesso e volentieri le mani con la procedura consigliata.
3) È consigliato "isolare" la stanza del soggetto positivo, cercando di coprire con un sacchetto (anche più di uno) la maniglia della porta della stanza e munire la stessa di contenitori sigillati per gettarvi mascherine e fazzoletti utilizzati.
4) Inoltre, l'Iss raccomanda – in caso di isolamento domiciliare – di sospendere la raccolta differenziata, per evitare l'accumulo di rifiuto e il proliferare del coronavirus.
5) La biancheria utilizzata dal positivo al Covid-19 deve essere stipata in appositi contenitori, lavandoli a parte. Idem per i vestiti, le lenzuola e guanti. La temperatura del lavaggio in lavatrice deve essere almeno di 60 gradi centigradi.
6) Dunque, pulire e disinfettare quotidianamente le superfici come comodini, reti e altri mobili della camera da letto del malato, sanitari del bagno compreso con disinfettanti a base di cloro (come la candeggina) o alcol, il tutto indossando protezioni, guanti e mascherina.
7) Il positivo, ovviamente, non può uscire di casa a meno che ne abbia bisogno per peggioramento delle condizioni di salute: in questo caso bisogna contattare il numero unico di pubblica utilità 1500, il 118 o il 112, informando il personale medico-sanitario in arrivo della positività del soggetto che necessita le cure.
Coronavirus: le 20 raccomandazioni per chi è positivo ed è in isolamento a casa. Cosa fare quando si è contratto il virus e si è in quarantena nella propria abitazione. Le raccomandazioni dell'Istituto Superiore di Sanità. La Repubblica il 10 marzo 2020. Sono tanti, fortunatamente, i malati di coronavirus non costretti al ricovero, che trascorrono il decorso della malattia a casa. Sono persone contagiate ma che non sono in situazione così grave da dover essere ricoverate in ospedale. Per loro, e per chi li assiste, l'Istituto Superiore di Sanità ha redatto una serie di raccomandazioni, per l'esattezza 20:
1. La persona con sospetta o accertata infezione Covid-19 deve stare lontana dagli altri familiari, se possibile, in una stanza singola ben ventilata e non deve ricevere visite.
2. Chi l'assiste deve essere in buona salute e non avere malattie che lo mettano a rischio se contagiato.
3. I membri della famiglia devono soggiornare in altre stanze o, se non è possibile, mantenere una distanza di almeno 1 metro dalla persona malata e dormire in un letto diverso.
4. Chi assiste il malato deve indossare una mascherina chirurgica accuratamente posizionata sul viso quando si trova nella stessa stanza. Se la maschera è bagnata o sporca per secrezioni è necessario sostituirla immediatamente e lavarsi le mani dopo averla rimossa.
5. Le mani vanno accuratamente lavate con acqua e sapone o con una soluzione idroalcolica dopo ogni contatto con il malato o con il suo ambiente circostante, prima e dopo aver preparato il cibo, prima di mangiare, dopo aver usato il bagno e ogni volta che le mani appaiono sporche.
6. Le mani vanno asciugate utilizzando asciugamani di carta usa e getta. Se ciò non è possibile, utilizzare asciugamani riservati e sostituirli quando sono bagnati.
7. Chi assiste il malato deve coprire la bocca e il naso quando tossisce o starnutisce utilizzando fazzoletti possibilmente monouso o il gomito piegato, quindi deve lavarsi le mani.
8. Se non si utilizzano fazzoletti monouso, lavare i fazzoletti in tessuto utilizzando sapone o normale detergente con acqua.
9. Evitare il contatto diretto con i fluidi corporei, in particolare le secrezioni orali o respiratorie, feci e urine utilizzando guanti monouso.
10. Utilizzare contenitori con apertura a pedale dotati di doppio sacchetto, posizionati all'interno della stanza del malato, per gettare guanti, fazzoletti, maschere e altri rifiuti.
11. Nel caso di isolamento domiciliare va sospesa la raccolta differenziata per evitare l'accumulo di materiali potenzialmente pericolosi che vanno invece eliminati nel bidone dell'indifferenziata.
12. Mettere la biancheria contaminata in un sacchetto dedicato alla biancheria sporca indossando i guanti. Non agitare la biancheria sporca ed evitare il contatto diretto con pelle e indumenti.
13. Evitare di condividere con il malato spazzolini da denti, sigarette, utensili da cucina, asciugamani, biancheria da letto.
14. Pulire e disinfettare quotidianamente le superfici come comodini, reti e altri mobili della camera da letto del malato, servizi igienici e superfici dei bagni con un normale disinfettante domestico, o con prodotti a base di cloro (candeggina) alla concentrazione di 0,5% di cloro attivo oppure con alcol 70%, indossando i guanti e indumenti protettivi (es.un grembiule di plastica).
15. Utilizzare la mascherina quando si cambiano le lenzuola del letto del malato.
16. Lavare vestiti, lenzuola, asciugamani, ecc. del malato in lavatrice a 60-90 C usando un normale detersivo oppure a mano con un normale detersivo e acqua, e asciugarli accuratamente.
17. Se un membro della famiglia mostra i primi sintomi di un'infezione respiratoria acuta (febbre, tosse, mal di gola e difficoltà respiratorie), contattare il medico curante, la guardia medica o i numeri regionali.
18.Evitare il trasporto pubblico per raggiungere la struttura sanitaria designata; chiamare un'ambulanza o trasportare il malato in un'auto privata e, se possibile, aprire i finestrini del veicolo.
19. La persona malata dovrebbe indossare una mascherina chirurgica per recarsi nella struttura sanitaria e mantenere la distanza di almeno 1 metro dalle altre persone.
20. Qualsiasi superficie contaminata da secrezioni respiratorie o fluidi corporei durante il trasporto deve essere pulita e disinfettata usando un normale disinfettante domestico con prodotti a base di cloro (candeggina) alla concentrazione di 0,5% di cloro attivo oppure con alcol 70%.
· Fattori di rischio.
Articolo di “El Pais”, dalla rassegna stampa estera di “Epr comunicazione” il 6 novembre 2020. Uno studio condotto su 400.000 donne, riporta El Pais, conclude che le gestanti hanno più probabilità di entrare in terapia intensiva, hanno bisogno di ventilazione meccanica e muoiono più facilmente di quelle che non aspettano un bambino. Le donne incinte sono un gruppo a rischio per la covid-19. Non perché siano più contagiati della popolazione generale, ma perché sono più a rischio di complicazioni se contraggono la malattia. La probabilità che il Covid-19 diventi grave è bassa perché sono donne giovani, ma, in caso di infezione da coronavirus, le donne incinte hanno più probabilità delle donne non incinte di entrare in terapia intensiva, di richiedere una ventilazione meccanica o addirittura di morire. Questa è la conclusione di uno studio del Centro statunitense per il controllo delle malattie (CDC) dopo aver analizzato il più grande campione di pazienti fino ad oggi: 400.000 donne sintomatiche con covid-19, 23.400 delle quali incinte. "Devono essere consapevoli di essere un gruppo a rischio", avverte Clara Menéndez, direttrice dell'Iniziativa per la salute materna, infantile e riproduttiva del centro di ricerca ISGlobal. Secondo lo studio del CDC, che ha evidenziato la presenza di donne sintomatiche di età compresa tra i 15 e i 44 anni negli Stati Uniti con infezione confermata in laboratorio tra il 30 gennaio e il 3 ottobre 2020, le gestanti avevano una probabilità significativamente maggiore rispetto alle non gravide di richiedere cure intensive (10,5 casi per 1.000 rispetto a 3,9). Anche il rischio di richiedere la ventilazione meccanica e l'ossigenazione extracorporea a membrana (ECMO) era doppio. Per la prima volta, questa ricerca ha anche riscontrato che la probabilità di morire era più alta: "34 decessi (1,5 per 1.000 casi) sono stati riportati tra 23.434 donne incinte sintomatiche e 447 (1,2 per 1.000 casi) tra 386.028 donne non incinte, che riflettono un aumento del 70% del rischio di morte associato alla gravidanza", afferma lo studio. Con l'aumentare dell'età, aumentava anche il rischio: le donne incinte di età compresa tra i 35 e i 44 anni con covid-19 avevano quasi quattro volte più probabilità di richiedere una ventilazione invasiva e due volte più probabilità di morire rispetto alle donne non incinte della stessa età, indica la ricerca del CDC. La spiegazione di questo aumento del rischio, dicono gli esperti, può risiedere nei cambiamenti fisiologici che le donne sperimentano durante la gravidanza. "Ci sono diverse ipotesi. Il sistema immunitario di una donna incinta subisce dei cambiamenti per non respingere il feto come corpo estraneo. Si adatta. Non è che la donna sia immunosoppressa, ma ci possono essere cambiamenti immunologici che influenzano una maggiore risposta infiammatoria al covid-19", dice il ricercatore di ISGlobal, un centro di ricerca promosso dalla Fondazione La Caixa. E continua: "Con la gravidanza, l'utero occupa più spazio e i polmoni riducono la loro capacità di espandersi. Lo sforzo è maggiore e la capacità polmonare è minore. Inoltre, la gittata cardiaca è maggiore perché il cuore lavora per due, soprattutto nell'ultimo trimestre di gravidanza, e c'è meno ossigeno per tutti gli organi vitali". "Covid-19 provoca anche tromboembolismo e le donne incinte sono già ad alto rischio di trombosi, per questo dobbiamo dargli l'eparina", conclude Anna Suy, responsabile della Sezione di Ostetricia dell'Ospedale Vall d'Hebron di Barcellona. Gli esperti dicono che il comportamento del covid-19 nelle donne in gravidanza "sembra abbastanza logico" considerando questi cambiamenti, e non è molto diverso da quello di altri virus respiratori. "Stiamo imparando ogni giorno, ma sappiamo che non è molto diverso da altre infezioni respiratorie virali, come l'influenza, che colpisce maggiormente le donne incinte e ha un rischio maggiore di complicazioni, o la SARS 2003, che ha anche dato più rischio di gravità o MERS, che ha visto più mortalità", dice Menendez. Sottolinea, tuttavia, che l'incidenza di malattie gravi con l'influenza è molto più alta. "Poiché si tratta di un gruppo ragionevolmente giovane, le complicazioni si verificano raramente. Ma, anche così, il rischio che il covid-19 diventi più grave è maggiore, soprattutto nel terzo trimestre", concorda Menéndez. Il CDC ha contato 34.968 donne incinte con covid-19 da gennaio: di queste, 7.424 hanno dovuto essere ricoverate in ospedale. Il corpo scientifico ha contato almeno 274 donne incinte in terapia intensiva, 84 con ventilazione meccanica e 50 decessi. In Spagna, Suy dice che la Società spagnola di Ginecologia e Ostetricia tiene un registro in cui ci sono già 700 gravidanze segnalate, "ma ce ne devono essere molte di più", dice. Con le informazioni raccolte, i ricercatori consultati concordano sulla necessità di sensibilizzare questo gruppo in modo da non abbassare la guardia ed esortare le donne incinte ad essere uno dei primi gruppi a rischio a ricevere il futuro vaccino covid-19. "Non dobbiamo allarmarci, ma dobbiamo dire loro di comportarsi bene, di non correre rischi. Sono un gruppo a rischio, ma non per il bambino, ma per loro", dice. L'ostetrica spiega che i feti possono infettarsi - "Il virus passa alla placenta ed è stato trovato nel sangue del cordone ombelicale", nota - ma le infezioni "sono di solito molto lievi".
Alessandro Gonzato per "Libero Quotidiano" il 27 agosto 2020. Uno studio di 29 pagine realizzato da due giovani ricercatori italiani ha messo in correlazione il tasso di mortalità legato al Covid con le condizioni socio-economiche delle vittime. Lo studio ha evidenziato un aumento dei decessi nelle aree periferiche, più povere e dove risiedono famiglie numerose. I ricercatori sono Francesco Armillei, laureato con lode all'Università di Bologna, studente magistrale in Economia e Scienze Sociali alla Bocconi, coordinatore di Tortuga - primo think-tank di studenti di economia d'Italia - e Francesco Filippucci, dottorando alla Paris School of Economics, ricercatore del progetto localopportunitieslab.it, socio fondatore di Tortuga. Hanno preso in esame le morti dello scorso marzo (rispetto a quelle dello stesso periodo 2017-2019), quando il contagio era in ascesa e ancora non conoscevamo bene le contromisure più efficaci, soprattutto per colpa dell'Organizzazione mondiale della Sanità (prima gli asintomatici non erano in grado di trasmettere il virus, poi sì, quindi il balletto sull'uso delle mascherine) ma anche per la scarsa preparazione e l'inerzia del governo italiano. Per il premier Conte, l'Italia era «prontissima» e le conseguenze le abbiamo vissute sulla nostra pelle. Vediamo nel dettaglio i fattori che stando allo studio nostrano hanno inciso sulla mortalità. I dati analizzati sono stati presi dalle ultime statistiche pubblicate dall'Istat. Il tasso di mortalità legato al Covid è maggiore all'interno di famiglie numerose e tra gli operai, soprattutto del settore tessile.
LA DENSITÀ ABITATIVA. Un altro indicatore evidenzia che c'è stato un numero più alto di decessi tra chi viveva in abitazioni dal valore più basso. Il Covid ha mietuto meno vittime nei Comuni con reddito medio e istruzione più elevati e un sistema di mobilità più efficiente. Si sono registrati meno decessi tra i lavoratori nel settore dei servizi e del commercio. Contrariamente a quanto è emerso finora nella stragrande maggioranza dei dibattiti televisivi sulla pandemia, nelle zone con maggior densità abitativa non c'è stata per forza una crescita della letalità. Un altro aspetto dello studio è legato alla stratificazione geografica. Analizzando le regioni più colpite all'inizio della pandemia (Lombardia, Piemonte, Liguria, parte dell'Emilia Romagna e la parte più a Nord delle Marche - sempre in base all'aumento di decessi rispetto al 2017-2019) si nota che in Comuni vicini l'andamento della mortalità è molto simile: primo dello scoppio della pandemia (in questo caso gli esempi più lampanti sono Bergamo, Cremona e Lodi) la mortalità non aveva quasi nulla a che vedere con quella delle città circostanti.
MODELLO PER IL FUTURO. Da osservare poi che all'interno delle stesse regioni il dato è molto eterogeneo, con picchi di decessi legati alle condizioni socio-economiche. I ricercatori, incrociando gli stessi elementi, hanno anche realizzato un sistema predittivo: questo mostra che in caso di seconda ondata le aree periferiche potrebbero avere una mortalità maggiore dallo 0,1 allo 0,3%, indipendentemente dalla vicinanza con altri comuni. Tale schema potrebbe aiutare a individuare specifiche aree a rischio predisponendone per tempo la chiusura, qualora fosse l'unica soluzione possibile. Anche i dati che arrivano dall'America ci dicono che il virus è letale sopratutto tra la popolazione meno abbiente. È stato il Washington Post uno dei primi quotidiani a metterlo in evidenza. A incidere in larga parte è la possibilità di accedere al servizio sanitario. La popolazione più colpita è quella afroamericana. A New York, nei quartieri poveri, la mortalità è doppia. I dati peggiori provengono dal Bronx. Seguono Queen, Brooklyn, State Island e infine Manhattan. Il virus ha raggiunto picchi elevatissimi di moralità anche nelle periferie di Buenos Aires (in Argentina), a Rio de Janeiro (Brasile) e soprattutto nelle baraccopoli di Bogotà, capitale della Colombia. riproduzione riservata.
Broncopneumopatia cronica ostruttiva e Coronavirus, quali i rischi? Sono diversi gli studi che mettono in luce una correlazione tra questi due condizioni. Maria Girardi, Sabato 20/06/2020 su Il Giornale. Ne soffrirebbe il 4,8% della popolazione mondiale, ovvero circa 329 milioni di individui. A differenza del passato, uomini e donne (in particolare fumatori e con un'età superiore ai 40 anni) sono colpiti in egual misura. La broncopneumopatia cronica ostruttiva o BPCO è una grave malattia respiratoria esito di una combinazione di condizioni accomunate dal restringimento patologico delle vie aeree e dell'albero bronchiale (bronchi, bronchioli) e da una serie di conseguenti difficoltà del respiro. Il termine 'broncopneumopatia' sta ad indicare che il disturbo provoca il deterioramento dei bronchi e dei polmoni. L'aggettivo 'cronica', invece, si riferisce al suo decorso lento, progressivo e irreversibile. Infine l'attributo 'ostruttiva' fa riferimento, appunto, all'ostruzione delle vie aeree da esso generato. La causa principale della broncopneumopatia cronica ostruttiva è il tabagismo. Nel fumo di sigaretta sono infatti contenute sostanze dannose che, a lungo andare, scatenano un'infiammazione a livello polmonare. Restringendosi, dunque, questi organi impediscono una corretta e completa espirazione. Esistono, poi, diversi fattori di rischio in grado di favorire la comparsa della malattia. Innanzitutto l'esposizione prolungata, per motivi di lavoro, a polveri e sostanze chimiche (cadmio, isocianati, silice, polvere di carbone e residui della lavorazione del grano). Sotto la lente di ingrandimento, altresì, la presenza di una patologia genetica nota come deficit di alfa-1-antitripsina. Da non sottovalutare, infine, il fumo passivo di sigaretta e l'esposizione all'inquinamento ambientale. Quasi sempre l'esordio della broncopneumopatia cronica ostruttiva è subdolo. I sintomi, poco chiari, diventano significativi solo quando il disturbo ha ormai raggiunto uno stadio avanzato, difficilmente trattabile con le terapie. Devono destare sospetto segni clinici quali tosse frequente con o senza catarro e/o limitazioni dei flussi respiratori in assenza di altre condizioni polmonari. Con il passare del tempo la sintomatologia si fa più complessa: tosse cronica con grave espettorazione, dispnea durante sforzi fisici importanti, moderati o addirittura a riposo, spossatezza, perdita di peso. Ancora gonfiore alle caviglie, tendenza a sviluppare infezioni respiratorie acute e lentezza nel guarire anche da un semplice raffreddore. Broncopneumopatia cronica ostruttiva e Coronavirus, quali sono i rischi? Come riporta Pharmastar.it, una ricerca condotta in Cina sulle comorbilità di 1590 pazienti affetti da Covid-19 ha dimostrato che i casi severi presentavano maggiori probabilità di avere la BPCO rispetto a quelli meno gravi (62,5% vs 15,6%). Inoltre un numero significativo di soggetti malati di BPCO è andato incontro a ricovero in terapia intensiva, a ventilazione o a decesso rispetto agli individui esclusivamente positivi al Coronavirus (50% vs 7,6%). In Italia, in base ai dati dell'Istituto Superiore di Sanità sulle patologie preesistenti, in 3335 soggetti sul totale di 32.448 deceduti, la broncopneumopatia cronica ostruttiva era presente nel 16,6% del campione. Secondo Francesco Blasi, ordinario di Malattie dell'Apparato Respiratorio all'Università degli Studi di Milano, esiste una correlazione tra le due condizioni. Un altro studio cinese ha sottolineato come il fumo attivo e la BPCO alterino la regolazione dell'espressione del recettore ACE-2, “canale di ingresso” del Coronavirus nelle basse vie aeree. Ciò può in parte spiegare l'aumentato rischio di infezioni gravi da Covid-19 in queste popolazioni. Al fine della prevenzione è importante, dunque, smettere di fumare, aumentare la sorveglianza in questi sottogruppi e diagnosticare tempestivamente questa patologia potenzialmente dannosa.
Da ilcorrieredellosport.it il 5 giugno 2020. Gli uomini calvi potrebbero avere un rischio maggiore di morire di coronavirus. Il motivo? Secondo quanto rivelato da alcuni studi scientifici, gli ormoni maschili aiutano le cellule ad attaccare il virus. L'ormone Androgeno, che provoca la caduta dei capelli negli uomini, è stato collegato ad alcuni dei casi peggiori di Covid-19 negli ospedali spagnoli. La scoperta potrebbe essere chiamata "il segnale di Gabrin" (Gabrin Sign), dal momento che il primo medico americano a morire per la malattia negli Stati Uniti è stato il dottor Frank Gabrin, un uomo calvo. Il professor Carlos Wambier, autore principale dello studio chiave dietro la scoperta della Brown University, ha dichiarato a The Telegraph : "Pensiamo davvero che la calvizie sia un perfetto predittore di gravità". Un rapporto pubblicato questa settimana da Public Health England ha sottolineato come gli uomini in età lavorativa avessero il doppio delle probabilità delle donne di morire per il virus: "Pensiamo che gli androgeni o gli ormoni maschili siano sicuramente la porta d'ingresso del virus per entrare nelle nostre cellule", ha aggiunto il prof. Wambier. Quest'ultimo ha condotto due studi in Spagna, trovando in entrambi un numero sproporzionato di uomini con calvizie maschile che sono stati ricoverati in ospedale con la malattia in uno stato grave. In uno studio - pubblicato sul Journal of American Academy of Dermatology - su 122 pazienti, il 79% degli uomini che si sono dimostrati positivi in ??tre ospedali di Madrid erano calvi. Nell'altro, su 41 pazienti analizzati in Spagna, è stato riscontrato che il 71% fosse calvo. Va notato però che si trattava di studi su scala relativamente piccola, di conseguenza non abbastanza numerosi per poter avere delle vere e proprie evidenze scientifiche.
L'intensa attività sportiva può essere "alleata" del Covid. Studio dell'Iss: decisivi i primi 15 giorni dal contagio. La malattia si aggrava con età, esposizione e sforzi. Francesca Angeli, Sabato 25/04/2020 su Il Giornale. Non sono soltanto l'età e le patologie pregresse a condizionare l'andamento del Covid 19. La malattia può peggiorare, aggravandosi fino ad un esito letale anche per fattori inaspettati come ad esempio un intensa attività fisica. Una spiegazione che oltretutto calza perfettamente con il profilo del paziente uno, Mattia, giovane e sportivo e finito in rianimazione per settimane. Si tratta di un primo modello scientifico che offre una spiegazione rispetto ai comportamenti così diversi del coronavirus che varia dalle forme asintomatiche a quelle letali. Segnalato dall'Istituto Superiore di Sanità è stato messo a punto da tre ricercatori italiani Paolo Maria Matricardi, Università di Berlino; Roberto Walter Dal Negro, Centro di Farmacoepidemiologia di Verona; Roberto Nisini, Immunologo dell'Iss. Lo studio è ancora in fase di revisione ma il modello ipotizza che l'esito dell'infezione da Sars Cov2 si decida nelle prime 2 settimane dal contagio. Fattori decisivi per l'eventuale aggravamento sia l'esposizione virale sia l'efficacia della risposta immunitaria innata locale. La malattia si aggrava prima di tutto se l'immunità innata è debole, quindi nei pazienti anziani o immunodepressi ma anche se l'esposizione cumulativa al virus è enorme come per i medici e gli operatori sanitari. C'è però anche un terzo profilo che può condurre ad un aggravamento. Se il virus è presente nel nostro organismo e si compie «un esercizio fisico intenso e prolungato, con elevatissimi flussi e volumi respiratori, proprio nei giorni di incubazione immediatamente precedenti l'esordio della malattia», spiegano gli studiosi, si facilita la penetrazione diretta del virus nelle vie aeree inferiori e negli alveoli, riducendo fortemente l'impatto sulle mucose delle vie aeree, coperte da anticorpi neutralizzanti. Superate le prime difese se arriva agli alveoli già nelle prime fasi dell'infezione allora può replicarsi senza resistenza locale, causando polmonite e rilasciando elevate quantità di antigeni. A quel punto la risposta immunitaria arriva in ritardo ed indebolita mentre il virus si è potenziato, replicandosi in moltissime copie e provocando così una gravissima infiammazione con il risultato di scatenare gravi complicazioni che spesso richiedono terapia intensiva e, in alcuni pazienti, causano il decesso. C'è dunque ancora molto da scoprire su questo coronavirus e in attesa di un vaccino si studiano tra i farmaci già a disposizione quelli più efficaci per contrastarlo. Un giudizio molto negativo su clorochina eidrossiclorochina arriva dall'Ema, l'ente regolatorio europeo che sottolinea come questi farmaci antimalarici possano causare problemi del ritmo cardiaco. Si evidenzia che gli effetti collaterali, in particolare con dosi più elevate, possono essere pesanti e si invita a prestare particolare attenzione quando si associa il trattamento con altri medicinali come l'azitromicina che possono causare effetti collaterali simili sul cuore. Possibili pesanti ricadute anche sul fegato e i reni. Devono comunque sempre essere somministrati esclusivamente sotto stretto controllo medico. E sul banco degli imputati è finto anche l'antivirale Remdesivir utilizzato in via sperimentale contro il Covid 19: uno studio cinese preliminare ne mette in dubbio l'efficacia. L'Organizzazione Mondiale della Sanità lo ha prima pubblicato e poi ritirato parlando di un «errore».
Antonio G. Rebuzzi, Professore di Cardiologia Università Cattolica-Policlinico Gemelli Roma, per “Il Messaggero” l'8 ottobre 2020.
Diabete, più gravi gli effetti del Covid: per proteggersi va tenuta in equilibrio la glicemia. Quanto incide il diabete sul futuro dei pazienti affetti da Covid-19? Il diabete è una malattia subdola i cui effetti deleteri, che colpiscono numerosi organi sono dovuti al danno provocato dal diabete sulle arterie di piccolo calibro che portano il sangue a tutto il corpo. In Italia i diabetici sono oltre tre milioni ed più di 1 milione ignora di essere diabetico.
Diabete, la prognosi. Una serie di studi effettuati in vari paesi, compresa l'Italia, hanno dimostrato che i pazienti con diabete sia di tipo 1 (insulino-dipendente) che di tipo 2 (alimentare o non insulino-dipendente) hanno una maggiore facilità, rispetto agli altri, di andare incontro ad infezione da Covid. E, una volta infetti, di avere una prognosi peggiore rispetto ai non diabetici. Sulla rivista Lancet è stata pubblicata una ricerca firmata dal gruppo di Jonathan Valabhji, National Clinical Director for diabetes and obesity al National Health Service England, sul rapporto tra sopravvivenza intraospedaliera nei pazienti affetti da Covid e diabete. Su oltre 61 milioni di inglesi, il 5,2% risultava affetto da diabete. Nonostante questo, diabetico era il 33% dei casi più gravi di Covid. Tra i pazienti diabetici il 31% aveva una malattia coronarica, il 20% cerebro-vascolare e il 17% scompenso in. La percentuale di mortalità media per Covid di tutta la popolazione da marzo a maggio 2020 è stata di 39 morti per 100.000 abitanti. La prognosi era peggiore negli uomini rispetto alle donne ed inoltre tendeva a peggiorare con l'avanzare dell'età.
I risultati dello studio. Mentre tra i non diabetici l'esito infausto riguardava 27 persone ogni 100.000, nei diabetici era riguardava 200 soggetti ogni 100.000. Quasi 10 volte superiore rispetto ai non diabetici. Interessante notare che la prognosi era direttamente proporzionale al livello della glicemia precedente all'infezione: meglio era controllato il diabete prima, minori erano i danni provocati dal Covid. Diverso era il discorso legato all'Indice di massa corporea che permette di valutare se un paziente è obeso oppure normo o sotto peso: in questo caso i diabetici sotto peso andavano peggio sia di quelli normo che sovrappeso. Il diabetico troppo magro risponde peggio alla patologia infettiva. Che i diabetici fossero una categoria di pazienti a rischio per qualsiasi patologia infettiva era cosa nota, e questo studio lo conferma.
Melania Rizzoli per ''Libero Quotidiano'' il 12 aprile 2020. Gli oltre 4milioni di diabetici italiani non hanno un rischio più elevato di contrarre il Coronavirus, ma hanno maggiori possibilità di sviluppare serie complicanze qualora si dovessero infettare. Uno studio pubblicato sul Journal of Endocrinological Investigation da un gruppo di ricercatori dell' Università di Padova ha dimostrato come i pazienti diabetici, che già presentano normalmente un aggravamento clinico durante il decorso di qualsiasi malattia acuta intercorrente, nel caso di infezione virale da Covid 19 hanno un rischio di prognosi peggiore della patologia, rispetto a quella degli altri soggetti infetti non diabetici. I risultati della ricerca infatti, evidenziano chiaramente che chi soffre di iperglicemie con carenza di produzione nel pancreas di insulina, soprattutto se la malattia non è ben compensata e sotto controllo , nel caso in cui contraggano l' infezione virale in corso nel nostro Paese, debbano necessariamente essere vigilati con maggiore attenzione e monitorati h24, per gestire l' elevata possibilità di gravi complicanze alle quali questa popolazione risulta esposta. Anche uno studio cinese, condotto nella Huazhong University of Scienze di Wuhan, pubblicato sulla rivista scientifica Diabetes/Metabolism Research and Reviews, ha registrato valori più elevati di alcuni indici coagulativi e di marcatori infiammatori nei diabetici con polmonite virale in atto, sottolineando come le eccessive risposte di ipercoagulabilità e di flogosi interstiziale a livello degli alveoli polmonari, legati ad una cattiva regolazione del metabolismo del glucosio, aggravassero di fatto il decorso della polmonite da Coronavirus, favorendo lo sviluppo di complicanze multiorgano, coinvolgenti il cuore, il fegato, i reni, l' apparato vascolare e neurologico. Questo è il primo studio che valuta le caratteristiche biochimiche dei pazienti con diabete di tipo 1 o di tipo 2 positivi al Covid 19, dal quale emerge chiaramente che tutti i diabetici presentano una infiammazione più pronunciata degli altri, una polmonite virale più grave, con sviluppo di maggiore versamento pleurico, i quali quindi dovrebbero essere oggetto di terapie più mirate volte a contenere lo stato flogistico a livello sistemico, poiché porre la giusta attenzione a questa problematica significa migliorarne la prognosi. Diabete e Covid 19 infatti, rappresentano due pandemie importanti a livello globale, le quali, se pur con caratteristiche diverse, essendo una acuta e l' altra cronica, una trasmissibile e l' altra non contagiosa, tuttavia appaiono interconnesse più di quanto si pensasse in precedenza, poiché l' enzima attraverso cui il virus entra nelle cellule delle vie respiratorie è lo stesso espresso nelle cellule del pancreas e del fegato, e il paziente portatore di entrambe le malattie presenta indici coagulativi, marcatori infiammatori e proteina C reattiva con più alti livelli nel sangue rispetto ai soggetti positivi al Coronavirus ma senza diabete. Le complicanze causate dal diabete di lungo corso inoltre, quali arteriopatie, neuropatie, nefropatie e retinopatie, che hanno di norma un decorso cronico, oltre alla predisposizione a contrarre patologie batteriche e virali più difficili da controllare, durante la infezione Covid 19 si riacerbano e si riacutizzano, aggravando la già precaria situazione clinica, esponendo il soggetto diabetico ad un elevato rischio di complicanze dei suoi organi vitali. Sebbene lo studio succitato sottolinei che, tra quanti avevano contatto l' infezione virale, la percentuale di diabetici non fosse superiore rispetto alla prevalenza del diabete nella popolazione generale, tutte le persone con valori alterati della glicemia hanno sviluppato durante l' epidemia serie complicanze durante il decorso di tale patologia, confermando la regola generale scientificamente provata di comprovata fragilità di tali soggetti. Su 20 soggetti ricoverati in terapia intensiva infatti, 15 sono risultati diabetici ed obesi, poiché anche l' obesità, nota anticamera del diabete, è una patologia che predispone ad una penetrazione e ad una aggressività più alta del virus, che trova terreno fertile in questi fragili pazienti dal punto di vista immunologico. Inoltre quasi tutti gli obesi presentano insufficienze respiratorie più o meno marcate, ed essendo il Corona un virus che attacca prevalentemente i polmoni, le conseguenze sono facilmente prevedibili. Quindi, tutti coloro che sono affetti da obesità e diabete, sia esso insulino-dipendente o indipendente, devono cercare di evitare in qualunque modo il contagio da Coronavirus, devono tenere la loro glicemia sotto controllo e su valori accettabili durante le 24 ore, ed essere prudenti più del resto della popolazione, seguendo scrupolosamente le misure di prevenzione più volte ribadite dal ministero della Salute e dall' Istituto Superiore di Sanità, soprattutto quelle igieniche, oltre a mantenere il distanziamento sociale dalle altre persone. Anche perché se un paziente diabetico avanti con l' età è afflitto anche da altre patologie, quali asma, cardiopatie, insufficienza renale e neuropatie, la sovrapposizione dell' infezione virale in corso può aggravare le condizioni generali, complicare le malattie di base e condurre persino al decesso. Tra gli oltre 105 medici deceduti in Italia durante questa epidemia, una decina di loro erano diabetologi, specialisti chiamati ripetutamente nelle terapie intensive al letto di pazienti diabetici con valori di glicemia alle stelle, che necessitava di essere regolata, e che hanno prestato la loro professionalità esponendosi al rischio infettivo e all' aggressività del virus che poi li ha colpiti e portati a morte, pur non essendo diabetici. È plausibile che il rischio maggiore sia per i pazienti diabetici sopra i 65 anni con presenza di comorbilità quali ipertensione e malattie cardiovascolari, mentre è altrettanto plausibile che le forme severe di Covid 19 sono estremamente rare nei soggetti giovani e pediatrici affetti da iperglicemie, pur ribadendo che anche loro devono seguire seriamente le raccomandazioni di prevenzione del contagio. Qualunque paziente diabetico che sospetti di essere stato contagiato dall' infezione Covid 19 in Lombardia deve chiamare il numero verde unico regionale 800.89.45.45, oppure il numero 1.500 nazionale, ed in alternativa il proprio diabetologo per eventuali modifiche della terapia insulinica in atto. Il report dell' Istituto Superiore di Sanità del 20 marzo sui pazienti deceduti in Italia, conferma la probabilità di maggiore mortalità in presenza di diabete, registrando che circa il 43,9% dei soggetti deceduti per i quali sono disponibili dati sulle patologie croniche preesistenti all' infezione era affetto da diabete mellito, mentre il 48,6% presentava 3 o più patologie croniche. Inoltre le ricerche sul tema hanno evidenziato che alcuni farmaci ad uso comune tra i diabetici cronici, quale gli Ace inibitori, molecole con effetti anti ipertensivi, che agiscono sulla funzionalità cardiaca ed ostacolano l' insorgenza della insufficienza renale, possano facilitare l' infezione ed aggravare l' evoluzione del Covid 19. In sintesi, le conoscenze attuali sulla prevalenza del Coronavirus e sul decorso della malattia virale nelle persone diabetiche sono in evoluzione con analisi più dettagliate, ma intanto, nel dubbio, tutti gli oltre 4 milioni di diabetici italiani è bene che sappiano che la loro fragilità metabolica va difesa ad ogni costo dall' infezione, per evitare di incorrere in conseguenze che potrebbero potenzialmente mettere a serio rischio la propria vita.
DAGONEWS il 9 aprile 2020. Essere in sovrappeso è un importante fattore di rischio per le persone infette dal nuovo coronavirus. è quanto sostiene il professor Jean-François Delfraissy, presidente del consiglio scientifico francese, commentando che il 25% dei francesi è seriamente a rischio a causa dell'età, delle malattie preesistenti o dell'obesità. Ha aggiunto che gli americani sono particolarmente a rischio a causa dell'aumento dei livelli di obesità negli Stati Uniti, con attualmente il 42,4 per cento della popolazione adulta gravemente in sovrappeso. «Questo virus è terribile. Può colpire i giovani, in particolare i giovani obesi. Coloro che sono in sovrappeso devono stare attenti - ha detto Delfraissy - Ecco perché siamo preoccupati per i nostri amici in America, dove il problema dell'obesità è ben noto e dove probabilmente avranno più problemi a causa di questa patologia». Gli esperti ritengono che l'obesità potrebbe mettere gli Stati Uniti a rischio di una pandemia simile a quella osservata nel 1918 con l'influenza spagnola. Secondo il CDC, il 42,4 per cento della popolazione adulta degli Stati Uniti è obesa così come il 18,5 per cento dei bambini americani. Uno studio sulla pandemia di influenza H1N1 del 2009 ha scoperto che le persone obese avevano il doppio delle probabilità di essere ricoverate in ospedale rispetto agli altri. Ciò significa che le persone obese con diagnosi di COVID-19 potrebbero mettere a dura prova la tenuta degli ospedali. Inoltre, un recente studio della School of Public Health dell'Università del Michigan mette in evidenza che gli adulti obesi che sono positivi non solo corrono un rischio maggiore di gravi complicanze, ma rimangono contagiosi più a lungo. Ciò significa che l'obesità è legata a un aumento del rischio di trasmissione. Sebbene non sia chiaro il motivo per cui gli adulti obesi sono più contagiosi, gli scienziati ritengono che l'obesità possa cambiare la risposta immunitaria del corpo e causare infiammazione cronica.
Anais Ginori per repubblica.it il 23 aprile 2020. La nicotina protegge dal coronavirus? E' ancora solo una prima ipotesi scaturita dall'osservazione clinica nell'ospedale parigino di La Pitié-Salpetrière dove, secondo uno studio, solo il 4,4% dei 343 pazienti Covid-19 ricoverati (età media 65 anni) è un fumatore. La ricerca, appena pubblicata sul sito Qeios, ha esaminato anche il profilo di 139 pazienti che hanno consultato un medico con sintomi non gravi (età media 44 anni). E il risultato è stato simile: solo 5,3% di fumatori. A prima vista, è un dato che stravolge le convinzioni della maggior parte dei virologi secondo cui il tabacco è tra i fattori di rischio aumentato di fronte a una malattia come il Covid-19 che provoca gravi insufficienze respiratorie. "Il nostro studio trasversale suggerisce che i fumatori hanno una probabilità molto più bassa di sviluppare un'infezione sintomatica o grave rispetto alla popolazione generale", scrivono gli autori dello studio francese, tra cui l’epidemiologa Florence Tubach. "L'effetto è significativo: il rischio è diviso per cinque per i pazienti ambulatoriali e per quattro per i pazienti ricoverati. Raramente lo vediamo in medicina" aggiunge Tubach. "L'ipotesi è che fissandosi sul recettore cellulare utilizzato anche dal coronavirus, la nicotina gli impedisca o lo trattenga dal fissarsi, bloccando così la sua penetrazione nelle cellule e il suo propagarsi in tutto l'organismo" osserva Jean-Pierre Changeux, neurobiologo membro dell'Istituto Pasteur. I ricercatori ipotizzano che il "recettore nicotinico dell'acetilcolina" abbia un ruolo centrale nel propagarsi del coronavirus e sia all'origine della varietà di sintomi del Covid-19, tra cui la perdita dell'olfatto e disturbi neurologici. "Sulla base di questi risultati, per quanto robusti possano essere, non dobbiamo concludere che ci sia un effetto protettore del fumo di tabacco, che contiene molti agenti tossici" avverte anche Tubach. “Solo la nicotina o altri modulatori del recettore della nicotina potrebbero avere un effetto protettivo, e mantengo il condizionale perché il nostro lavoro rimane di osservazione". Per verificare l'ipotesi, l'ospedale parigino ha lanciato una sperimentazione basata sull'applicazione di cerotti alla nicotina con dosaggi diversi e con diversi scopi: preventivo per capire se possono funzionare per proteggere il personale medico-sanitario, e terapeutico su pazienti ricoverati per cercare di diminuire la sintomatologia o su quelli in rianimazione. Già a fine marzo, uno studio cinese pubblicato sul New England Journal of Medecine aveva evidenziato la bassa percentuale di fumatori tra i malati Covid rispetto alla media nazionale di chi fuma. La pubblicazione dello studio francese, con una sperimentazione lanciata in uno dei più importanti ospedale della capitale, ha suscitato immediato clamore. “Non andate a comprare cerotti di nicotina” ha detto il ministro della Salute, Olivier Véran. Il rischio è creare false speranze tra i molti fumatori, crearne di nuovi. Il direttore generale della Sanità, Jerome Salmon, ha ricordato che il tabagismo provoca 75mila vittime ogni anno in Francia, ed è un fattore aggravante per patologie cardiovascolari, respiratorie e tumori. Identica prudenza viene dall’Italia. "E' pericoloso anche solo ventilare che una pessima abitudine, come il vizio del fumo, possa aiutare a fronteggiare quella che oggi è la principale emergenza epidemica" ha commentato Giovanni Maga, direttore dell'Istituto di genetica molecolare del Consiglio Nazionale delle Ricerche di Pavia.
Filippo Facci per “Libero quotidiano” il 24 aprile 2020. La nicotina protegge dal coronavirus ed è utile anche nella cura di patologie come i morbi di Alzheimer o di Parkinson: quest' ultima cosa è nota negli ambienti medici almeno dal 2012, mentre la prima è una novità dell' altro giorno, e ora fa scalpore soprattutto dopo gli ammonimenti dell' Organizzazione mondiale della sanità: «Il fumo danneggia i polmoni e altre parti del corpo, e ti rende più vulnerabile all' infezione da Covid-19. È il momento giusto per smettere di fumare». L' Oms, organismo sempre più politico e meno scientifico, ora ci sbatte dentro dietrologie del tipo che «l' industria del tabacco sta creando polemiche e confusione», ma casca male come le capita sempre più spesso. Lo studio infatti non è certo della Philip Morris o di qualche improbabile università ansiosa di finire sui giornali: l' osservazione clinica scaturisce nell' ospedale parigino di La Pitié-Salpetrière (uno dei più importanti della capitale) dove solo il 4,4 per cento dei 343 pazienti ricoverati per coronavirus (età media 65 anni) risulta fumatore. La ricerca, appena pubblicata, ha poi esaminato anche il profilo di 139 pazienti che hanno consultato un medico con sintomi non gravi (età media 44 anni) con esiti similari: solo il 5,3 risultava fumatore. «Lo studio suggerisce che i fumatori abbiano una probabilità molto più bassa di sviluppare un' infezione sintomatica o grave rispetto alla popolazione generale», scrivono gli autori, tra i quali l' epidemiologa Florence Tubach. In pratica i pazienti ambulatoriali rischierebbero cinque volte meno e i ricoverati quattro: un incidenza che «raramente vediamo in medicina» dice la Tubach. Poi la spiegazione si fa più complicata: «L' ipotesi è che, fissandosi sul recettore cellulare utilizzato anche dal coronavirus, la nicotina gli impedisca o lo trattenga dal fissarsi, bloccandone la penetrazione nelle cellule e il propagarsi nell' organismo» aggiunge Jean-Pierre Changeux, neurobiologo membro dell' Istituto Pasteur. I ricercatori ipotizzano che questo «recettore nicotinico» sia anche all' origine della varietà di sintomi del Covid-19, tra cui la perdita dell' olfatto. I risultati insomma sono robusti, ma i ricercatori naturalmente si guardano bene dal consigliare l' uso del tabacco, che pure contiene additivi e agenti tossici (quando li contiene). Quindi, per cominciare, l' ospedale parigino ha avviato una sperimentazione basata sull' applicazione di cerotti alla nicotina con vari dosaggi e diversi scopi: preventivo (per capire se possono proteggere il personale medico-sanitario) e terapeutico (su pazienti ricoverati o in rianimazione, per cercare di diminuire la sintomatologia). E pensare che il sindaco di Milano voleva chiudere le tabaccherie. A fine marzo c' era stato anche uno studio cinese pubblicato sul New England Journal of Medicine che pure, tra i malati Covid, registrava una più bassa percentuale tra i fumatori. E ora eccoti anche la pubblicazione dello studio francese, che ovviamente ha suscitato clamore. Il ministro transalpino della Salute ha paventato che la gente possa correre a comprarsi cerotti di nicotina o addirittura cominciare a fumare, snocciolando poi i soliti improbabili dati sulle morti per fumo (basati su calcoli statistici) che di questo passo, però, anche in Francia, rischiano di non essere molto più alti di quelli per coronavirus. Detto in generale, ogni tanto spuntano degli esiti scientifici anche serissimi che vengono giudicati «pericolosi» quando non si possono confutare, o quando non sono in linea con le politiche dell' Oms: è stato anche il caso, nel 2012, di quando l' Istituto italiano per le ricerche (Cnr) dimostrò che la nicotina aiuta nettamente la memoria e potrebbe essere utile per curare patologie come l' Alzheimer e il Parkinson. L' Istituto di bioimmagini e fisiologia molecolare del Cnr dimostrò che la sostanza poteva aiutare a migliorare la cosiddetta memoria di lavoro o «working memory», ossia la memoria a breve termine che permette di agire in maniera controllata in base agli stimoli e alle informazioni provenienti dall' ambiente. La scoperta fu presentata nel corso del Congresso mondiale della Society for Neuroscience, ma si temette che potesse rappresentare un alibi per fumare tranquillamente. Anche qui, dunque, fu detto che ci si doveva limitare a cerotti o compresse: ma rimane una sorta di segreto terapeutico ignorato dai più. Patologie a parte, non è un segreto - anzi, tutto sommato lo è - che la nicotina abbia effetti stimolanti, migliori la concentrazione, aumenti il metabolismo, moderi la fame e riduca lo stress. Dosi ripetute però fanno aumentare la concentrazione dei suoi recettori a livello cerebrale, e generano dipendenza. Una tra le tante e che possiamo scegliere - questo è l' importante - se tenerci o non tenerci.
D’altra parte…
DAGONEWS il 9 aprile 2020. Fumare marijuana regolarmente potrebbe aumentare il rischio di una persona di contrarre il COVID-19 e di sperimentare conseguenze più gravi. La maggior parte dei pazienti ospedalizzati con coronavirus ha una malattia polmonare preesistente. Sebbene non vi siano dati sull'uso di marijuana nei pazienti COVID-19, i fumatori di marijuana - in particolare quelli che combinano cannabis e tabacco - dovrebbero ripensare le loro abitudini. «In Cina e in Italia vediamo persone che hanno sviluppato COVID-19 e avevano patologie polmonari sottostanti, hanno complicazioni e muoiono - ha il dottor Barry J. Make, un pneumologo del National Jewish Health - Quindi questo è il momento perfetto per smettere di fumare». «Fumare marijuana potrebbe peggiorare i sintomi di una persona COVID-19 rispetto a un non fumatore» ha detto a Insider il dottor Panagis Galiatsatos, pneumologo e portavoce nazionale dell'American Lung Association. Galiatsatos ha affermato che le persone che fumano regolarmente marijuana hanno maggiori probabilità di manifestare gravi sintomi poiché il fumo di marijuana può causare la morte delle cellule dei polmoni che “rimuovono” i germi e facilitano la risposta del sistema immunitario, aumentando la possibilità di sviluppare problemi di salute cronici come le infezioni respiratorie. «Una buona parte del mondo sarà infettata dal coronavirus, ma il livello di gravità dei sintomi dipenderà da così tante variabili, come la genetica e le malattie preesistenti – ha detto Galiatsatos – Non ci sono dati sull’effetto della marijuana o della sigaretta elettronica, ma solo sull’effetto delle sigarette su pazienti covid-19. In questo momento la marijuana dovrebbe essere inserita nella stessa categoria del tabacco. Sappiamo che le sigarette e la marijuana causano entrambe tossicità cellulare e cambiamenti nel metabolismo cellulare e nel comportamento cellulare, quindi sarebbe una spiegazione biologicamente plausibile dire che se hai un'infezione da COVID-19 e sei un fumatore, è probabile che tu abbia problemi più gravi, come fame d’aria e polmonite». «Le malattie polmonari non si manifestano in anni e si sviluppano lentamente – ha detto Make - Molte malattie polmonari rimangono silenti fino a quando non sono in fase molto avanzata».
"Uno su 3 non ha gli anticorpi": uno studio frena le speranze. Alcuni ricercatori cinesi, dopo aver studiato la reazione dell'organismo su 175 pazienti guariti, si sono accorti che un terzo di loro aveva sviluppato pochi anticorpi mentre in altri non c'era alcuna traccia dell'immunizzazione al virus. Lo studio è uno dei primi sui guariti, anche se non ancora "peer reviewed". Alessandro Ferro, Giovedì 09/04/2020 su Il Giornale. Lo studio non è ancora "peer reviewed", quindi non confermato dagli scienziati, ma le notizie che arrivano dalla Cina non sono affatto confortanti: gli anticorpi sviluppati a seguito dell'infezione da Covid-19 sarebbero blandi se non del tutto assenti.
I dubbi dei ricercatori. Secondo quanto affermato dai ricercatori, il cui articolo è pubblicato sul South China Morning Post, a destare preoccupazione sono i livelli di anticorpi mostrati da alcuni dei guariti: in circa un terzo di loro, la resistenza al Coronavirus risulterebbe piuttosto blanda mentre in altri, addirittura, non vi sarebbe alcuna traccia di immunizzazione al virus. Come si legge su Greenstyle, il gruppo di ricerca cinese ha condotto questi esami su 175 pazienti dimessi dallo Shanghai Public Health Clinical Centre perché ritenuti non più affetti da Covid-19 e sui quali è scattato il campanello d'allarme: non si ancora "Se questi pazienti siano ad alto rischio di ricaduta e re-infezione, dovrebbe essere oggetto di ulteriori studi", fanno sapere gli studiosi.
Anticorpi più deboli per i giovani. Se è pur vero che si tratta di una prima indagine preliminare che non è stata sopposta a revisione da parte di altri esperti, i ricercatori cinesi sono maggiormente preoccupati per i giovani che sarebbero la categoria che sviluppa meno gli anticorpi: contrariamente a quanto succede nell'andamento mondiale della malattia, quindi, in questo caso la fascia più debole è compresa tra i 15 ed i 39 anni mentre gli anticorpi si dimosterebbero più resisenti nella fascia d'età compresa tra 60 ed 85 anni. Questo processo impedirebbe, così, lo sviluppo di una “immunità di gregge“ che fermerebbe l’epidemia.
Urgono verifiche. Niente allarmismi ma attenzione, quella ìi. Come detto, la ricerca non è ancora "peer-reviewed", letteralmente "revisione alla pari" ad indicare che la comunità scientifica non ha ancora "messo mano" ma è anche una delle poche ad aver analizzato le condizioni dei pazienti guariti dal momento che molti paesi occidentali si trovano nel pieno dell'emergenza e le risorse sanitarie sono unicamente investite per curare i malati. Come si legge su Dagospia, la ricerca si è concentrata sui pazienti con sintomi medio-lievi: quelli in terapia intensiva hanno spesso ricevuto il plasma di altri pazienti guariti e quindi con difese anticorpali grazie a questo trattamento. Sicuramente, a destare maggiore scalpore, sono stati i più anziani con una quantità di anticorpi tripla rispetto ai più giovani mentre dieci pazienti su 175 non ne avevano proprio od in quantità così modeste da non risultare nemmeno negli esami di laboratorio.
Doppio problema. Se la ricerca verrà confermata, si prefigurano due problemi all'orizzonte: da una parte la mancata immunità di gregge, dall'altro notizie non buone per i produttori di vaccini: se una dose ''vera'' di virus non è bastata a sviluppare gli anticorpi, una sua versione indebolita da iniettare potrebbe non proteggere a sufficienza. Il professor Wang Chen, consigliere scientifico del governo centrale, ha dichiarato ai media che era troppo presto per cantare vittoria contro il Covid in Cina, dove la situazione, per il momento, è sotto controllo. Il suo auspicio è che il virus possa "trasformarsi" o sparire per sempre. "Chissà se questo diventerà qualcosa di simile a un'influenza stagionale, o una malattia cronica come l'epatite B, o semplicemente svanirà come Sars?"
Sergio Harari per il “Corriere della Sera” il 21 aprile 2020. Perché la Lombardia ha registrato così tanti morti e una ondata epidemica così violenta? E perché in queste ultime due settimane i malati che vengono ricoverati sembrano soffrire di forme meno severe di Covid-19 e meno pazienti devono ricorrere alle terapie intensive? Si tratta di due domande difficilissime per la scienza, soprattutto perché le variabili da considerare sono moltissime. Solo una volta che saranno disponibili i dati precisi sulla mortalità per tutte le cause (vedi i recenti riscontri Istat che documentano un aumento di mortalità del 20% in tutta Italia nel marzo 2020 rispetto allo stesso periodo negli anni 2015-19, con punte di 300-400% in alcune aree come Bergamo e Brescia, e più 49% a Milano) si potrà dire se la Lombardia ha avuto più morti di altre regioni italiane e europee. Nella analisi delle possibili cause contano moltissimi fattori: la densità di popolazione, gli scambi internazionali, le attività industriali e molte altre valutazioni, ma una oggi è fortemente sotto accusa, l' inquinamento atmosferico. Può aver avuto un ruolo nel favorire la pandemia? Uno studio recente sviluppato da ricercatori dell' università di Harvard, diffuso in via preliminare e senza che sia ancora stato sottoposto a tutti i seri processi di valutazione delle pubblicazioni scientifiche, sostiene che esiste un legame fortissimo fra Pm2,5 e Covid-19, addirittura che per ogni aumento di 1 mcg/m3 si registrerebbe un incremento della mortalità del 15%, cosa che se fosse vera sarebbe davvero terribile e sorprendente. Ma la metodologia utilizzata dagli autori presenta importanti lacune sul piano metodologico e epidemiologico e prima che questa ipotesi venga confermata deve essere passata al vaglio molto accuratamente. Che il particolato renda il sistema respiratorio più suscettibile alle infezioni e alle loro complicanze è un dato scientificamente noto, ma che questo sia vero per il Sars-CoV-2 non è provato così come non è accertata la eventuale dimensione del fenomeno. Sempre da verificare è se la riduzione importante di certi inquinanti (ad esempio delle concentrazioni di NO2 che si sono abbassate del 40% a Milano) influisca anche sulla minor gravità dei malati che stiamo registrando in queste ultime settimane. Un recentissimo studio italiano ha poi segnalato una correlazione tra concentrazioni di Pm10 e casi di Covid-19, ma anche qui i problemi metodologici della ricerca sono importanti e sono stati fortemente criticati da molti esperti nazionali e internazionali. Infine, a complicare le cose, va nella direzione opposta il rilievo di pochi casi di Covid-19 nella popolazione pediatrica mentre proprio questa è forse quella più suscettibile agli effetti dell' inquinamento. Siamo quindi molto lontani dall' avere risposte certe, se le future valutazioni scientifiche provassero una relazione solida tra inquinamento e Covid-19 allora forse avremmo un tassello delle tante risposte mancanti, ma al momento si tratta soltanto di nulla di più che un sospetto da approfondire con seri studi scientifici.
Dagospia il il 22 aprile 2020. Da “The Guardian” – pubblicato dalla rassegna stampa estera di “Epr comunicazione”. Alti livelli di inquinamento atmosferico possono essere "uno dei più importanti co-fattori" di mortalità da Covid-19, secondo la ricerca condotta dalla Martin Luther University Halle-Wittenberg in Germania, riporta oggi The Guardian. L'analisi mostra che dei decessi da coronavirus in 66 regioni amministrative in Italia, Spagna, Francia e Germania, il 78% si è verificato in sole cinque regioni, e queste sono le più inquinate. La ricerca ha esaminato i livelli di biossido di azoto, un inquinante prodotto per lo più da veicoli diesel, e le condizioni meteorologiche che possono impedire all'aria sporca di disperdersi lontano da una città. Molti studi hanno collegato l'esposizione all'NO2 a danni alla salute, e in particolare alle malattie polmonari, che potrebbero rendere più probabile la morte di persone che contraggono Covid-19. "I risultati indicano che l'esposizione a lungo termine a questo inquinante può essere uno dei più importanti contributori alla mortalità causata dal virus Covid-19 in queste regioni e forse in tutto il mondo", ha detto Yaron Ogen, della Martin Luther University Halle. L'analisi è in grado di mostrare solo una forte correlazione, non un nesso causale. "È ora necessario esaminare se la presenza di una condizione infiammatoria iniziale è correlata alla risposta del sistema immunitario al coronavirus", ha detto Ogen. Uno studio separato pubblicato il 7 aprile ha esaminato l'inquinamento da particelle sottili negli Stati Uniti e ha scoperto che anche piccoli aumenti dei livelli negli anni prima della pandemia erano associati a tassi di mortalità molto più elevati di Covid-19. Un altro recente studio ha osservato che gli alti tassi di mortalità osservati nel nord Italia sono correlati ai più alti livelli di inquinamento dell'aria. La nuova ricerca, pubblicata sulla rivista Science of the Total Environment, ha confrontato i livelli di NO2 di gennaio e febbraio in 66 regioni amministrative con i decessi di Covid-19 registrati fino al 19 marzo. Ogen ha anche valutato le condizioni atmosferiche per vedere dove l'inquinamento era “intrappolato”. Ha rilevato che il 78% dei 4.443 decessi si è verificato in quattro regioni del nord Italia e una intorno a Madrid in Spagna. Queste cinque regioni avevano la peggiore combinazione di livelli di NO2 e condizioni di flusso d'aria che impedivano la dispersione dell'inquinamento atmosferico. Ogen sottolinea che la Pianura Padana in Italia e Madrid sono circondate da montagne, il che aiuta a trattenere l'inquinamento, così come la provincia di Hubei in Cina, dove è iniziata la pandemia. "Tuttavia, la mia ricerca è solo una prima indicazione che potrebbe esserci una correlazione tra il livello di inquinamento dell'aria, il movimento dell'aria e la gravità del corso delle epidemie di corona", ha detto. Il professor Jonathan Grigg, della Queen Mary University di Londra, ha detto che lo studio ha mostrato un'associazione tra i decessi di Covid-19 e i livelli di NO2. "Questa associazione potrebbe riflettere un nesso causale tra l'esposizione all'inquinamento atmosferico e l'aumento della vulnerabilità all'infezione mortale da Covid, ma altri fattori non possono essere esclusi in questa fase. Ad esempio, lo studio non si adegua alle differenze nella distribuzione per età nelle diverse aree".
Coronavirus, nuovo studio: “E' più letale dove l'aria è più inquinata”. le Iene News il 21 maggio 2020. Con Giulia Innocenzi vi abbiamo portato a conoscere lo studio della Sima, che ha dimostrato come il particolato atmosferico sia in grado di trasportare il virus. Adesso una nuova ricerca aggiunge un ulteriore tassello: non solo l’inquinamento favorirebbe la diffusione del COVID-19, ma lo renderebbe ancora più letale. “Il coronavirus uccide di più dove l’aria è inquinata”. Uno studio - quasi interamente italiano - ha analizzato i dati di comuni e province italiane, tenendo conto di contagi e decessi, per cercare di capire se il virus fosse più letale laddove la qualità dell’aria è più bassa. E i dati che sono stati raccolti parlano chiaro: nelle zone più inquinate la mortalità è il doppio di quelle dove l’aria è più pulita. “Le nostre stime indicano che la differenza tra province più esposte a polveri sottili (in Lombardia) e meno esposte (in Sardegna) è di circa 1.200 casi e 600 morti in un mese, un dato che implicherebbe il raddoppio della mortalità”, ha detto il responsabile dello studio, professor Becchetti, a La Stampa. Lo studio, oltre che dal professor Leonardo Becchetti dell’Università di Roma Tor Vergata, è stato condotto da Gianluigi Conzo di Tor Vergata, da Pierluigi Conzo dell’università di Torino e da Francesco Salustri, del Centro di ricerca sull’economia della salute dell’Università di Oxford. Un tema, quello del legame tra coronavirus e inquinamento, che noi di Iene.it stiamo seguendo da tempo: nell’intervista di Giulia Innocenzi (734796) ad Alessandro Miani, presidente di Sima, abbiamo scoperto che le polveri sottili trasportano il coronavirus. E se durante l’intervista si trattava ancora di una ipotesi di studio, i risultati che vi abbiamo raccontato qui hanno confermato quella teoria. E sebbene non sia ancora noto se il virus trasportato dal particolato atmosferico sia contagioso o meno, questa scoperta potrebbe avere un risvolto molto importante: “Potrebbe diventare un modo per capire quanto il coronavirus si sta diffondendo in una determinata zona”, ci spiega Miani. “Se il virus si trova nell’aria, questo può essere usato come indicatore precoce per capire se si sta diffondendo di nuovo in una determinata zona e agire per evitare una nuova epidemia”. Eh già, perché se è vero che il COVID-19 ha un tempo di incubazione medio di circa una settimana, e al massimo di due, la presenza nell’aria del virus potrebbe invece essere registrata subito. Teoricamente uno strumento utilissimo per monitorare la situazione nella fase 2. Il nuovo studio di cui vi abbiamo parlato aggiunge quindi un altro, inquietante, tassello. E se per gli autori al momento si può parlare solo di “rilevanza statistica” e non di ferrea correlazione di causa effetto, qualche certezza sembra emergere. “Il nostro studio trova un’associazione statistica molto significativa tra inquinamento, contagi e gravità degli esiti del COVID-19” ha aggiunto Becchetti. Un altro segnale, se ce ne fosse stato bisogno, della pericolosità dell’inquinamento nella vita di tutti i giorni.
Lo studio: "Sars-CoV-2 è più letale dove l'aria è inquinata". I ricercatori dell’Università di Harvard hanno evidenziato come l'aumento, anche piccolo, nei livelli medi di polveri sottili, fa aumentare la mortalità del 15%. Lo studio è in attesa di revisione. Francesca Bernasconi, Venerdì 10/04/2020 su Il Giornale. Il Sars-Cov-2 è più letale nelle zone in cui l'aria è più inquinata. Lo sottolinea uno studio dell'Università di Harvard, che ha analizzato il livello di polveri sottili presenti nell'aria di crica 3mila contee degli Stati Uniti, dove vive il 98% della popolazione, mettendolo in relazione con il tasso di mortalità da Covid-19. I dati sull'inquinamento sono stati messi a confronto con i decessi di nuovo coronavirus registrati fino allo scorso 4 aprile. "Abbiamo scoperto che sul lungo periodo basta una differenza di un microgrammo nella media di pm 2,5, il particolato ultrasottile, per aumentare il tasso di mortalità del nuovo coronavirus del 15%", ha spiegato al Corriere della Sera l'autrice italiana dello studio, Francesca Dominici. Le pm 2,5 sono le polveri sottili, cioè quelle minuscole particelle inquinanti, prodotte anche dagli scarichi di auto e fabbriche e dai riscaldamenti. Queste piccole particelle riescono a penetrare negli alveoli dei polmoni e da lì nel sangue, che le fa circolare nel corpo. Dopo aver raccolto i dati relativi a inquinamento e mortalità, i ricercatori hanno eliminato tutti quelli che potevano alterare il risultato. Così, hanno scoperto che "un aumento di solo 1μ g/m 3 nel Pm 2,5 è associato ad un aumento del 15% del tasso di mortalità Covid-19". Questo significa che "un piccolo aumento dell'esposizione a lungo termine a pm 2,5 porta a un grande aumento del tasso di mortalità Covid-19, con l'entità di un aumento di 20 volte rispetto a pm 2,5 e mortalità". "Se una persona vive per decenni in un luogo dove ci sono livelli alti di particolato- ha spiegato Dominici- ha una maggiore probabilità di sviluppare sintomi gravi. È un risultato che non ha sorpreso chi studia gli effetti delle polveri sottili sulla salute. Sappiamo già che l’esposizione di lungo periodo al microparticolato causa infiammazioni ai polmoni e problemi cardiocircolatori. E sappiamo che le persone con problemi al sistema respiratorio e cardiocircolatorio contagiate da Covid-19 hanno un tasso di letalità più alto". Questo studio potrebbe spiegare, in parte, anche la situazione italia, che ha visto maggiori vittime in Pianura padana, "una delle zone più inquinate d'Europa". I risultati, viene specificato nello studio, "sono statisticamente significativi e robusti per le analisi secondarie e di sensibilità". I dati sono stati resi pubblici, per permettere a tutti di "analizzare i nostri dati e applicare la nostra analisi ai loro dati e ad altre regioni del mondo: è essenziale paragonare i risultati e avere la migliore informazione possibile per organizzare la risposta sanitaria all’epidemia". La ricerca è ancora in attesa di revisione, necessaria per la pubblicazione. Lo studio, conclude il team di scienziati, sottolinea "l'importanza di continuare a far rispettare le vigenti normative sull'inquinamento atmosferico per proteggere la salute umana sia durante che dopo la crisi Covid-19". Inoltre, aggiunge Dominici, "ci dice che le zone più inquinate vedranno un numero maggiore di malati gravi, una volta che si diffonde il contagio. Ma anche che bisogna preparare le strutture mediche perché le persone infette svilupperanno sintomi più pesanti rispetto a quelle che hanno sempre respirato aria pulita".
· Cosa risulta dalle Autopsie.
Melania Rizzoli per “Libero quotidiano” il 10 novembre 2020. Le autopsie sono un infallibile metodo per confermare in un paziente deceduto la causa di morte, oppure per diagnosticarla, quando non si è riusciti per vari motivi ad individuarla, capirla od accertarla. Ed i molti misteri del Covid iniziano ad essere rivelati proprio grazie agli esami autoptici eseguiti su centinaia di pazienti morti a causa della malattia, i quali hanno evidenziato quadri clinici mai osservati prima in nessuna patologia al mondo, che spiegano come il Virus riesca in pochi giorni a spegnere vite che fino a poco tempo prima conducevano bene o male la propria esistenza, ed a chiarire quali sono i meccanismi responsabili delle difficoltà che hanno moltissimi soggetti considerati "guariti" a tornare ad una normalità "respiratoria" e che permangono in affanno perché di fatto restano affetti da quella che viene chiamata "Sindrome del Covid lungo". Uno studio del King' s College London, eseguiti in parallelo con l'Università di Trieste e pubblicato su "Lancet eBio Medicine" ha portato alla luce lo spaventoso danno respiratorio di fronte al quale si sono trovati i medici Anatomopatologi mentre esaminavano sconcertati quel che era rimasto dei polmoni dei cadaveri in esame, i quali si mostravano ridotti e rimpiccioliti, non più morbidi e spugnosi, ma irrigiditi da lesioni molto estese e profonde, con una vera e propria sostituzione del tessuto respiratorio polmonare con tessuto cicatriziale e fibroso che li deformava, un danno patologico gravissimo devastante e con caratteristiche mia viste prima. infezioni virali Nel 90% delle salme esaminate inoltre, è stata riscontrata una vasta presenza di trombi nelle grandi e piccole arterie e vene polmonari, causati dalla anomala attivazione del sistema della coagulazione del sangue favorita dall'infezione virale, ovvero piccole e medie tromboembolie polmonari che, tappando i vasi sanguigni ed interrompendone il flusso, compromettevano ulteriormente la possibilità dello scambio di ossigeno negli alveoli, come avevano rivelato gli indicatori dei saturimetri digitali in vita. Un ulteriore reperto, anche questo inedito e sorprendente, è stata la presenza nel tessuto polmonare di una serie di cellule anormali, molto grandi e con molti nuclei, mai osservate prima in nessun tessuto vivente, che derivavano dall'azione della proteina Spike del Covid (quella che conferisce al virus la caratteristica forma a corona) di stimolare le cellule infettate ad inglobare e fondersi con quelle sane vicine in un'unica mostruosa cellula gigante plurinucleata, come una sorta di metastasi infettiva ed invasiva senza scampo, cosa che spiega il perché del ritrovamento di tali cellule anormali nell'escreato dei pazienti affetti dalla "Sindrome del Covid lungo" anche dopo 30-40 giorni dal ricovero in ospedale. Inoltre i pazienti deceduti per l'infezione virale mostravano quasi tutti una miocardite, una infiammazione ed ingrossamento del cuore con microtrombosi dei suoi vasi, le quali giustificavano e chiarivano l'alta incidenza delle aritmie maligne osservate durante la degenza agonica dei soggetti nelle terapie intensive. Ma in pratica cosa vuol dire clinicamente tutto questo? I reperti descritti sono la dimostrazione istologica che il virus, in chi ha sviluppato la polmonite, persiste attivo per tempi molto lunghi dopo la fase iniziale dell'infezione, e la persistenza di queste cellule fuse, che in medicina si chiamano "sincizi", ovvero cellule infettate dal virus che inghiottono le cellule sane vicine per trasmettere loro l'infezione, indicano che il Covid-19 non è soltanto una malattia causata dalla morte delle cellule colpite dal Virus, come per le altre polmoniti, ma anche dalla lunga vita che hanno queste cellule anormali infettate nei polmoni, che riescono a distruggerne il tessuto, in pratica a corroderlo e mangiarlo vivo, determinando poi, quando in loco termina l'ossigeno, quegli esiti di cicatrici e fibrosi suddescritti nei polmoni e le manifestazioni aritmiche del cuore che compaiono anche a distanza durante la convalescenza. I dati riportati dallo studio scientifico si riferiscono a circa 600 autopsie effettuate dagli specialisti anatomopatologi, che hanno operato a rischio della propria incolumità, essendo stato dimostrato che anche dopo alcune ore dal decesso l'esame del tampone naso-faringeo eseguito sulle salme risultava ancora positivo, un segnale sinistro di prolungata vitalità post-mortem del Covid19, cosa che ha costretto le istituzioni sanitarie di ogni Paese ad ordinare la cremazione della maggioranza delle vittime entro 48h dalla morte. A seguito di questa ricerca la sfida al King' s College di Londra è comunque già partita, per individuare una nuova classe di farmaci in grado di impedire la formazione dei sincizi indotti dalle proteine Spike, per stimolare quindi l'eliminazione fisica del virus e bloccare la complicanza delle sue trombosi, prima che si sviluppi la sua ormai nota azione letale.
Giulia Di Leo per la Stampa il 30 ottobre 2020. «Oggi c'è il Covid, domani non si sa. Dobbiamo capire che queste misure torneranno utili anche in futuro per proteggere i pazienti più fragili». La neurologa Caterina Pistarini, capodipartimento di riabilitazione neuromotoria dell'istituto Maugeri di Genova, è appena stata nominata segretario generale della Federazione mondiale di Neuroriabilitazione che raggruppa oltre cinquemila specialisti internazionali ed è presieduta dall'americano David Good.
Dottoressa, che influenza ha avuto il Covid nei pazienti neurologici?
«È stato sicuramente un fattore aggravante. Il Covid ha determinato un cambiamento organizzativo, necessario per far fronte a una patologia sconosciuta, ma ha anche portato ad assumere un atteggiamento di maggiore prudenza nei confronti della nostra attività. La relazione tra virus e patologie neurologiche sarà, poi, da indagare sul lungo periodo».
Potrebbero esserci delle conseguenze?
«È una cosa su cui si sta riflettendo e che necessiterà studi approfonditi. Per ora pensiamo che i pazienti affetti da Covid possano andare incontro a problematiche neurologiche. Sembra ci siano azioni indirette e dirette sul sistema centrale periferico. Quando l'apparato circolatorio viene colpito, le trombosi possono arrivare a generare un'ischemia».
Questo nel caso dei pazienti Covid più gravi. In generale invece?
«Anche in chi ha avuto una forma del virus più lieve potrebbero esserci conseguenze importanti che un giorno, non sappiamo ancora dire quando, dovremo affrontare con cure specifiche. Per esempio, potremmo trovarci di fronte a polineuropatie o miopatie che causano la perdita del controllo motorio e il conseguente allettamento. O ancora anosmie o iposmie, relative alla perdita e alla diminuzione delle capacità olfattive. In generale possiamo dire che molti sintomi legati al Covid, come perdita di gusto e olfatto, mal di testa prolungato e spossatezza muscolare, siano conseguenze neurologiche».
Quanto ha inciso, invece, l'ansia nei pazienti che avevano già disturbi neurologici?
«Molto, se pensiamo che ha influito anche in chi non aveva particolari patologie. Purtroppo l'informazione mediatica è stata troppo veloce e probabilmente la paura è stata amplificate anche dalla comunicazione serale delle conferenze stampa. Non sono un esperto di comunicazione né uno psicologo, ma posso dire con certezza che l'informazione scientifica ci insegna a essere più cauti e a comunicare le notizie in maniera più ragionata».
Qual è, quindi, secondo lei il giusto equilibrio?
«Sicuramente bisogna abituare il pubblico, ora che siamo di nuovo immersi nel problema, ad assorbire le notizie in maniera graduale, per poter sviluppare una maggiore consapevolezza dei comportamenti rischiosi ed evitabili. In questo fa giocoforza il sistema, che deve essere organizzativo come quello degli ospedali e deve trovare supporto nella medicina territoriale. I pazienti più a rischio, come gli anziani, devono poter ricevere i servizi medici stando in sicurezza nelle proprie abitazioni, che non vuol dire ghettizzarli, e l'informazione deve arrivare anche e soprattutto dai medici di famiglia. Potenziare la medicina territoriale oggi significa evitare di intasare gli ospedali domani».
Viviamo una vita sempre più lunga con l'idea di essere invincibili, ma questo non significa per forza invecchiare in salute. Come lo si affronta?
«Con cura e attenzione. Le persone affette dal Parkinson, per esempio, in questo periodo hanno vissuto una grande difficoltà. I pazienti devono sentirsi al sicuro, anche con la telemedicina e i consulti a distanza che dobbiamo intensificare. Le raccomandazioni principali sono quelle di seguire la terapia prescritta e le ore di attività previste. I pazienti devono essere in grado di riprendere in mano la propria quotidianità famigliare e sociale».
Covid-19, perché è pericoloso per la coagulazione e per il cuore. Il virus, oltre a un'azione diretta sulle cellule della parete più interna dei vasi sanguigni, induce una risposta infiammatoria scatenata dall'infezione, con aumento del rischio di trombosi ed embolie. Federico Mereta il 3 aprile 2020 su ilsole24ore.com. Capita. Capita che a volte una reazione approntata a fin di bene possa non andare a buon fine, o addirittura diventare controproducente. È una sorta di manifesto dell'eterogenesi dei fini, espressione coniata dal filosofo tedesco Wilhelm Wundt, la risposta dell'apparato cardiovascolare e in particolare del sistema che regola la coagulazione del sangue all'infezione da virus Sars-Cov-2. La reazione del corpo, infatti, è potenzialmente ispirata dal bisogno di circoscrivere ed eliminare il nemico, ma purtroppo diventa controproducente. Il virus, oltre a un'azione diretta sulle cellule endoteliali presenti sulla parete più interna dei vasi sanguigni, induce una risposta infiammatoria scatenata dall'infezione creando uno sconquasso nei meccanismi di controllo della coagulazione, con aumento del rischio di trombosi ed embolie, sia a carico delle arterie che delle vene. «Se è vero che i dati provenienti da tutto il mondo, a partire dalla Cina per giungere fino alle osservazioni dell'Istituto superiore di sanità sui decessi in Italia, indicano come la presenza di comorbilità cardiovascolari (ipertensione o cardiopatia ischemica in testa) rappresentano fattori di rischio specifici in termini di mortalità per i pazienti ricoverati per Covid-19, è altrettanto innegabile che l'infezione induce direttamente una serie di alterazioni nella coagulazione del sangue – spiega Claudio Cuccia, direttore del dipartimento Cardiovascolare della Fondazione Poliambulanza di Brescia -. Nel nostro ospedale, che vista l'elevatissima richiesta è particolarmente impegnato nel trattamento dei pazienti che hanno sviluppato l'infezione, stiamo appunto vedendo come proprio le problematiche cardiovascolari, anche in soggetti più “giovani”, sia spesso alla base di complicazioni al decorso del quadro, anche indipendentemente dalla situazione respiratoria. Non per nulla i dati dell'Istituto superiore di sanità sui decessi in Italia dicono proprio che nell'11,6% dei pazienti deceduti si è osservato un danno miocardico acuto, a riprova dell'interessamento cardiovascolare l'infezione». Il virus Sars-Cov-2-, insomma, crea con meccanismi ancora da identificare un disequilibrio nelle vie della coagulazione, sia con una probabile azione diretta sconosciuta del virus sia attraverso l'infiammazione. «Il nostro processo di coagulazione del sangue si svolge fondamentalmente attraverso due diverse vie: la prima, quella della fibrinolisi spontanea, porta al dissolvimento di possibili coaguli, l'altro termina invece con la formazione di fibrina, che è la costituente di base di un trombo – precisa Cuccia -. L'infiammazione indotta dal virus e probabilmente un'azione non ancora compresa, ma legata alla presenza del Sars-Cov-2 , portano a uno squilibrio nella regolazione di questi sistemi, che nel soggetto normale operano in equilibrio. A questa alterazione si aggiunge anche l'azione diretta del virus sull'endotelio delle arterie e il risultato finale del processo è un eccesso di coagulazione che si ripercuote in un incremento del rischio di formazione di trombosi arteriose e di tromboembolie venose. Sul piano clinico questo si può tradurre nel maggior rischio di comparsa di infarti del miocardio, anche in soggetti più giovani, e di embolie polmonari». Come se non bastasse, questa tempesta coagulativa può portare anche a quadri di coagulazione intravascolare disseminata (Cid), con coinvolgimento e successivo danno a carico di organi diversi, come i reni. Pur se si stanno raccogliendo evidenze in questo senso, va sottolineata la ricerca condotta dall'equipe di Ning Tang del Laboratorio del Tongji Hospital di Wuhan, su 183 pazienti con Sars-Cov2-19 in Cina, pubblicato su Journal of Thrombosis and Haemostasis. Nell'11,5% dei soggetti che sono deceduti in questa popolazione si è osservato un aumento di un particolare parametro, il D-Dimero, rispetto a chi invece è sopravvissuto. «Questo è un prodotto di degradazione della fibrina: quanto più è elevato, tanto più il sangue tende a coagulare all'interno dei vasi – conclude Cuccia -. Per questo, come accade per altre patologie, nella valutazione del paziente con Covid-19 (e non solo) e individuarne il rischio sotto questo aspetto, occorre prendere in considerazione uno score clinico definito Sofa che si basa sostanzialmente su quattro elementi: il valore del D-dimero, lo stato mentale alterato, la frequenza respiratoria (il cut off è fissato a partire dai 22 atti respiratori al minuto) e il livello della pressione arteriosa sistolica, cioè la massima, inferiore a 100 millimetri di mercurio». Le alterazioni della coagulazione, ovviamente, non sono gli unici fattori che entrano in gioco nel danno che il virus provoca sull'apparato cardiovascolare. E in modo ben peggiore rispetto alle classiche infezioni virali di stagione. «Covid-19 non ha le stesse conseguenze dell'influenza stagionale sul cuore – conferma Ciro Indolfi, presidente della società Italiana di Cardiologia (Sic) -. Infatti un danno miocardico documentato con un aumento dei marcatori di miocardionecrosi (Cpkmb o troponina) è stato riportato nel 20-30% dei pazienti ospedalizzati e in circa il 20% dei pazienti ricoverati in rianimazione. Covid-19 può interessare il cuore con due diverse presentazioni: la prima con una predominate interessamento respiratorio con aumento dei marcatori di miocardionecrosi (cioè di morte delle cellule del miocardio, simili a quello che si osserva dopo un infarto) associato a un aumento degli indici di infiammazione sistemica. La seconda è invece un predominante interessamento cardiaco con anomalie all'elettrocardiogramma, dolore toracico tipico e/o ipotensione causata da una miocardite, cardiomiopatia da stress o un vero e proprio infarto miocardico». C'è poi un parametro che va comunque considerato: è l'aumento di un particolare esame, la troponina, che indica una sofferenza delle cellule del miocardio. Questo dato si associa a una prognosi peggiore in pazienti con Covid 19. «I potenziali meccanismi dell'interessamento cardiaco sono legati alla tempesta infiammatoria e al rilascio di citochine, all'aumento della richiesta o al ridotto apporto di sangue al miocardio, a una diretta invasione miocardica del virus mediata dai recettori Ace2, o da un danno vascolare e appunto alla presenza di trombi legati all'ipercoagulabilità osservata nei pazienti Covid-19 – conclude Indolfi -. Il rischio cardiovascolare è più alto dopo alcuni giorni dall'inizio dei sintomi di Covid-19. Un aumento delle citochine infiammatore tipiche del Covid-19 promuovono apoptosi (morte cellulare) e ipertrofia del muscolo cardiaco, disfunzione ventricolare sinistra legata a un interessamento dei canali del calcio e possono provocare scompenso cardiaco».
COVID 19 – COSA RISULTA DALLE PRIME AUTOPSIE. Rita Pennarola su La Voce delle Voci il 4 Aprile 2020. Le autopsie su vittime del Coronavirus potrebbero essere della massima importanza per comprendere a fondo l’insidiosa infezione e prevenirne in futuro le conseguenze mortali. Pubblichiamo i primi risultati provvisori realizzati dal Servizio di Anatomia Patologica di Brescia, resi pubblici sul suo profilo social da un grande nome della medicina partenopea, il dottor Antonio Marfella dei Medici per l’Ambiente, che ringraziamo anche a nome dei nostri lettori per questo prezioso contributo. Qui di seguito il messaggio inviato nella chat di medici da colleghi di Brescia. Il nostro servizio di Anatomia Patologica ha iniziato ad eseguire autopsie sui pazienti COVID19-positivi, dopo qualche remora iniziale, poiché la loro società scientifica internazionale ha classificato COVID-19 tra i patogeni appartenenti all’hazard group 3 (al pari di antrace, prioni, alcuni micobatteri… per intenderci, Ebola appartiene all’HG 4, che è il livello massimo di pericolosità). Ad oggi hanno totalizzato circa 50 autopsie, nella quasi totalità dei casi mirate ai polmoni. Stanno aspettando uno scafandro speciale per poter eseguire, in sicurezza, anche l’esame autoptico sul cervello. La nostra è la più ampia casistica mondiale, poiché i cinesi hanno pubblicato solo i risultati di 3 autopsie “minimally invasive” (+ un altro isolato case report) e poiché l’unico altro ospedale italiano che esegue autopsie è il Sacco (con riferiti circa 20 casi). Già macroscopicamente i polmoni appaiono “spotty”, con aree iperemico/emorragiche alternate ad aree rosee. Istologicamente, alcune aree sono gravemente enfisematose, con vasi sanguigni enormemente dilatati (fino a 20 volte la norma) spesso repleti di microtrombi. In molti casi è evidente un danno alveolare diffuso (DAD), con desquamazione dei pneumociti, formazione di membrane ialine e di un essudato fibrotico (come nell’ARDS). Appare come una sindrome ad alta portata, con epatomegalia e vasi portali dilatati con trombosi diffuse a tutti i livelli. Anche il cuore appare ingrandito, presenta sempre un idropericardio ed una marcata ipertrofia ventricolare sx (ma sono quasi sempre pazienti ipertesi in anamnesi). In un caso hanno osservato un trombo quasi completamente ostruente la vena cava superiore e l’atrio dx. Hanno notato spesso la risalita del diaframma, indice del fatto che ad un certo punto i polmoni non si espandono più, associata ad epatomegalia. Sessa, nell’attesa di avere dati su campioni da SNC, ha chiesto di poter eseguire biopsie della mucosa olfattoria; COVID-19 dà classicamente anosmia ed ageusia: potrebbe arrivare al tronco encefalico per via trans-sinaptica partendo dalle terminazioni nervose periferiche del nervo olfattorio o di quello linguale (oltrechè dall’innervazione dei polmoni). In questo scenario, parte dell’insufficienza respiratoria potrebbe essere causata dal danno diretto del virus sui nuclei del tronco dell’encefalo (nucleo ambiguo, del tratto solitario…). Dal punto di vista delle cellule del sistema immunitario, nell’interstizio intervengono molti macrofagi ma pochissimi linfociti. Rambaldi sottolinea che nel sangue dei pazienti con infezione da COVID-19 c’è un numero elevatissimo di cellule endoteliali (espressione del danno endoteliale causato direttamente dal virus) e che queste cellule scatenano uno storm citochinico che recluta soprattutto i macrofagi. È anche per questo motivo che il cortisone ad alte dosi potrebbe funzionare. È stato usato su 6 pazienti un farmaco anti-complemento (narsoplimab, lo studio è chiuso) che ha ridotto drasticamente il numero di cellule endoteliali plasmatiche circolanti (ma non sono stati specificati i clinical end-points). In conclusione: gli anatomo-patologi ci dicono di chiedere liberamente le autopsie che riteniamo opportune (soprattutto le morti improvvise, o i decessi nei pazienti relativamente giovani ed altrimenti sani), corredandole di quante più informazioni possibili (comorbidità, data di esordio dei sintomi, terapie effettuate, sistema di supporto di O2, passaggio in TI). Questo per capire quanto di “pregresso” ci sia nei polmoni disastrati che hanno esaminato e per spiegarsi alcuni reperti anomali (ad esempio un caso di amiloidosi oppure un abnorme ispessimento del miocardio che secondo il prof. Senni non può essere riconducibile ad una miocardite acuta…).
Melania Rizzoli per “Libero quotidiano” il 15 aprile 2020. Le autopsie eseguite su molti pazienti deceduti in seguito alla infezione da Coronavirus hanno dimostrato che il 23% di essi sono morti non tanto per la grave insufficienza respiratoria provocata dalla polmonite virale, quanto per massicci eventi tromboembolici, ovvero per embolie e trombi dei vasi polmonari, dovuti al danno da parte del virus sulla rete capillare degli alveoli polmonari. Dati preclinici hanno infatti evidenziato che il Sars-Covid2 si lega all' eparina endogena presente nel sangue, quella prodotta normalmente nell' organismo per intenderci, inattivandola e rendendola inefficace, con le gravi conseguenze che questo comporta. L' eparina infatti è un potente anticoagulante naturale che mantiene costante la fluidità del sangue, impedisce l' aggregazione delle piastrine e quindi la formazione di trombi all' interno del lume vascolare, trombosi che invece si formano facilmente quando questo importante enzima viene a mancare o reso inoffensivo.
POLMONI DISTRUTTI. Per questo motivo da alcune settimane è stato necessario aggiungere alle varie terapie contro il Covid19 anche l' eparina, già prevista nelle linee guida dell' Oms per i pazienti infetti, come prevenzione degli eventi tromboembolici, e da ieri autorizzata anche dall' Aifa (Agenzia Italiana del Farmaco) non tanto come farmaco preventivo, ma curativo degli eventi trombotici in atto. Le immagini radiologiche delle Tac dei pazienti in preda alle polmoniti virali hanno spesso restituito ai radiologi delle fotografie sconvolgenti, mai viste prima in nessun altra patologia, con interi settori polmonari distrutti, addirittura scomparsi in favore di margini sottili di tessuto residuo non respirante, tenuto in vita dalla ventilazione assistita e forzata che, non essendo terapeutica, nulla ha potuto fare in presenza delle tromboembolie dominanti e devastanti che hanno portato a morte un infettato dopo l' altro. Infatti ventilare un polmone dove il sangue non arriva, perché i suoi vasi portanti sono ostruiti, non serve praticamente a niente, dato che in questi casi il problema non sono le vie respiratorie ad essere occluse, ma quelle cardiovascolari deputate allo scambio vitale di ossigeno con il sangue. Spesso sono state registrate nelle persone ricoverate ed agonizzanti nelle Terapie Intensive anche Coagulazioni Intravascolari Disseminate (Cid) dei vasi polmonari, ovvero trombosi multiple e diffuse, cioè migliaia di microtrombi che ostruivano vene, arterie e capillari in tutto l' organismo, un evento che quando si verifica diventa inarrestabile, il cui danno endoteliale ha un effetto catastrofico, poiché impedendo i trombi il passaggio di ossigeno a livello tessutale di ogni organo, dal fegato al cervello, tale evento, da sempre riconosciuto di prognosi infausta, porta rapidamente a morte il paziente. Uno studio inglese pubblicato sul Journal of Thrombosis and Haemostasis condotto dall' ematologo Jecko Thachil del Manchester Royal Infirmary, ha segnalato che l' eparina, oltre ad avere sicuri effetti anticoagulanti nei pazienti Covid19, potrebbe anche aggiungere effetti antinfiammatori e persino antivirali, riducendo la mortalità di almeno il 20%.
GLI STUDI. Lo stesso studio suggerisce di usare l' eparina in tutti i pazienti affetti dal Corona, perché essi ne gioverebbero non solo dal punto di vista coagulativo , ma anche per ridurre la flogosi alveolare influendo sulla disfunzione microcircolatoria, riducendo di conseguenza il danno vascolare del polmone aggredito dal Coronavirus. Per quanto riguarda l' azione antivirale dell' eparina , questo enzima si è rivelato efficace quale inibitore dell' attaccamento virale alle cellule polmonari, competendo al livello delle glicoproteine della cellula ospite, limitandone l' infezione e prevenendo in tal modo la morte cellulare. L'Aifa ha autorizzato l' avvio dello studio multicentrico, chiamato «InhixaCovid19», con l' anticoagulante eparina a basso peso molecolare, eparina sodica, nome commerciale Inihixa, somministrato endovena o sottocute a diversi dosaggi nei pazienti con quadro clinico moderato o severo, per tentare di migliorare il decorso della malattia, ed il farmaco sarà fornito gratuitamente dall' azienda Techdow Pharma, filiale italiana , lo studio sarà coordinato da Pierluigi Viale (Ordinario di Malattie Infettive dell' università di Bologna) e coinvolgerà 14centri italiani. Oggi l' eparina sodica è uno degli anticoagulanti più utilizzati per la prevenzione e la terapie delle tromboembolie venose ed arteriose dei pazienti sottoposti a qualunque intervento chirurgico, od allettati per lungo tempo da malattie invalidanti, un vecchio farmaco ormai regolarmente usato da decenni, e che ha salvato milioni di vite umane al mondo.
PIÙ BENEFICI CHE RISCHI. Alla luce delle evidenze scientifiche raccolte finora, e dei risultati incoraggianti che provengono dagli studi svolti in Cina, oltre alle prove precliniche ed autoptiche accertate in Italia, tentare anche questa strada terapeutica non può che essere favorevole, poiché la enoxaparina presenta un rapporto rischio/beneficio superiore agli eventuali effetti avversi quali quelli emorragici, poiché questo anticoagulante si è dimostrato in grado di ingannare il virus, che si attacca alla molecola del farmaco anziché aggredire le cellule sane, oltre che ad interferire con la tempesta infiammatoria che caratterizza la fase cruciale della polmonite virale, quella più pericolosa per il paziente infettato dal Coronavirus. Naturalmente l' eparina verrà associata a tutte le altre terapie sperimentali tuttora in corso ed in uso su questi particolari malati, e verrà somministrata in alte dosi scoagulanti, 100 unità per chilo, in base al peso corporeo del paziente, due volte al giorno, confidando nel suo effetto antinfiammatorio, rendendo in tal modo il circolo sanguigno polmonare meno trombotico e più pervio anche all' ossigeno e a tutti gli altri farmaci. In attesa del vaccino specifico, che non arriverà prima di fine anno, ogni tentativo terapeutico è lecito quindi per interrompere la tragica catena di decessi, quella infinita lista di morte che in Regione Lombardia e nel nostro Paese insiste quotidianamente e drammaticamente dal oltre 50 giorni.
Coronavirus, ecco i danni collaterali e permanenti: polmoni, circolazione, tiroide. Ettore Mautone Martedì 1 Settembre 2020 su Il Mattino. Il Coronavirus crea danni a lungo termine? Quali le conseguenze dell’infezione dopo la guarigione? L’iperinfiammazione, che spesso accompagna le forme più severe dell’infezione, dà luogo a quella che in clinica si chiama “restitutio ad integrum” - ossia la riparazione completa dei tessuti danneggiati - o ci sono esiti permanenti di cui tenere conto anche per l’impatto sulle politiche di programmazione sanitaria? La questione è aperta: la fotografia, scattata a distanza di pochi mesi dalla conclusione della prima e più intensa fase epidemica, fornisce solo un orientamento generale. Come la scienza ci insegna in medicina del resto 2 più 2 non fa mai quattro. La Società italiana di Pneumologia è stata la prima a esprimersi dicendo che dopo essere guariti ci possono essere dei danni, in particolare la fibrosi polmonare, una sorta di cicatrice in cui il tessuto alveolare polmonare è sostituito da una massa inerte non più capace di effettuare scambi di ossigeno con i vasi capillari. «Ma serve del tempo per comprenderne l’entità, la persistenza e le possibilità di recupero attraverso la riabilitazione», afferma Roberto Cauda, docente di Malattie infettive all’Università Cattolica del Sacro Cuore.
I CASI CLINICI. Casi clinici che smentiscono un danno permanente non mancano: Luigi D’Angelo, ordinario di Otorino dell’Ateneo Vanvitelli, finito in rianimazione al Policlinico Federico II con una grave polmonite interstiziale, ha perfettamente recuperato la funzione polmonare: «Sono tornato alla situazione iniziale - spiega - ho una saturazione del 99%, forse conta il fatto che non sono mai stato fumatore e sono stato esperto subacqueo». Ripresa completa anche per Ludovico Docimo, ordinario di Chirurgia presso lo stesso Ateneo: «La fase critica in ospedale - ricorda - è durata 4 giorni, non so quale sia stato il farmaco ma ho avuto un veloce recupero. Dopo 15 giorni sono tornato in piena attività senza alcuna conseguenza. I miei polmoni sono tornati indenni». Testimonianze simili arrivano anche da altri clinici campani ammalatisi, anche in forma grave, durante il lockdown. Come Antonio Giordano, medico e manager dell’azienda ospedaliera universitaria Vanvitelli, Antonio Corcione, dirigente apicale di Anestesia e rianimazione dell’azienda dei Colli e molti altri camici bianchi.
AMBULATORIO. A Napoli, al Cotugno è stato attivato un ambulatorio unico in Campania che, in day hospital, segue chiunque abbia sviluppato l’infezione. La struttura è affidata al coordinamento di Giuseppe Fiorentino, pneumologo, responsabile dell’unità di terapia sub intensiva del padiglione G del Cotugno (dedicato a Sars Cov-2) tra i primi clinici in Italia ad aver intuito che la ventilazione non invasiva consentiva di avere prognosi migliori riservando la Rianimazione (intubati) a pochi selezionati casi. «Abbiamo un day hospital post Covid - spiega - per valutare i danni residui polmonari e respiratori e anche generali. In molti casi persiste l’astenia, il quadro tromboembolico, la fibrosi polmonare. Stiamo collaborando anche col gruppo di Annamaria Colao, ordinario della Federico II - per studiare le alterazioni a carico dell’apparto endocrino». «Personalmente - spiega quest’ultima - sto studiando le conseguenze tiroidee dell’infezione, in particolare l’aumento di tiroiditi, i riflessi metabolici, i danni a carico di fegato e pancreas mentre il collega Rosario Pivonello sta lavorando sulle conseguenze su testicolo, prostata e fertilità maschile. Stiamo anche valutando gli effetti della terapia cortisonica sulla funzione surrenalica. Il protocollo è stato approvato a metà agosto quindi siamo agli inizi». Aspetti posti sotto la lente anche dall’Oms: «La stragrande maggioranza delle persone infette - evidenzia il portavoce Oms Tarik Jašarevic - guarisce senza problemi. Gli individui che hanno avuto una forma grave possono essere colpiti più a lungo termine. Attraverso la nostra rete globale stiamo seguendo questi pazienti nel tempo». «Al momento non lo sappiamo se il Covid 19 possa lasciare segni a lungo termine - dice Giuseppe Ippolito, direttore scientifico dello Spallanzani di Roma - è troppo presto per dirlo. Chi ha avuto forme gravi necessita sempre di tempi lunghi». Intanto molti reparti di malattie infettive italiani hanno un programma di valutazione a lungo termine. «Ci sono prove scientifiche - conclude Massimo Ciccozzi, dell’Università Campus Bio-Medico di Roma - che evidenziano che il coronavirus può portare a danni permanenti e non, a diversi organi, tra cui nel 30% dei soggetti con malattia grave, a livello polmonare. Questo virus non provoca una sola malattia ma colpisce anche cervello, vasi sanguigni, reni, intestino e cuore».
Esiti polmonari da Covid-19. Pubblicato il 16.10.20 di Giacomo Sebastiano Canova Nurse24.it. Mentre proseguono ricerche e sperimentazioni per il trattamento del Covid-19, stanno emergendo alcuni dati importanti inerenti gli esiti di chi è riuscito a guarire da questa patologia polmonare. In merito, i dati che emergono non sono confortanti in quanto l'infezione da Covid-19 sarebbe in grado di lasciare strascichi a lungo termine sulla funzionalità respiratoria, talvolta compromettendola in modo irreversibile, soprattutto nei pazienti usciti dalla terapia intensiva.
Covid-19 lascia danni cronici sulla funzionalità polmonare. Un importante momento di confronto circa gli esiti polmonari dei pazienti che sono guariti dal Covid-19 è stato il recente congresso della Società Italiana di Pneumologia, durante il quale sono stati messi a confronto i primi dati di follow-up raccolti nel nostro paese e dai medici cinesi con gli esiti di pazienti colpiti da SARS nel 2003. I dati che emergono da questo confronto mostrano come l'infezione polmonare da Covid-19 possa lasciare strascichi cronici sulla funzionalità respiratoria: in media, si stima che a un adulto possano servire da 6 a 12 mesi per il recupero funzionale, che però in alcuni casi potrebbe non essere completo. I principali riscontri che emergono nelle fasi successive alla guarigione dopo una polmonite da Covid-19 sono caratterizzati frequentemente da alterazioni permanenti della funzione respiratoria ma soprattutto da segni diffusi di fibrosi polmonare: in questo caso, il tessuto respiratorio colpito dall'infezione perde le proprie caratteristiche e la propria struttura normale, diventando rigido e poco funzionale e comportando in questo modo sintomi cronici con la necessità, in alcuni pazienti, di ricorrere all’ossigenoterapia domiciliare. Per questo motivo la fibrosi polmonare potrebbe diventare la condizione con la quale si dovranno confrontare la maggior parte dei sopravvissuti alla polmonite da Covid-19; ne consegue che uno dei punti cardine è rappresentato dal rendere necessaria la sperimentazione di nuovi approcci terapeutici come i trattamenti con cellule staminali mesenchimali. Tuttavia, i dati ad oggi a disposizione sulle conseguenze a lungo termine della polmonite da Covid-19 non sono sufficienti in quanto è trascorso ancora troppo poco tempo dall'inizio dell'epidemia e dalla guarigione dei primi pazienti. In ogni caso, le prime osservazioni rispecchiano da vicino i risultati di studi di follow-up realizzati in Cina a seguito della polmonite da SARS del 2003, confermando il sospetto che anche Covid-19 possa comportare danni polmonari che non scompaiono alla risoluzione della polmonite. Quello che si è osservato dopo la dimissione in numerosi pazienti Covid-19 che sono stati ricoverati o intubati è rappresentato da difficoltà respiratorie che potrebbero protrarsi per molti mesi dopo la risoluzione dell'infezione e i dati raccolti in passato sui pazienti con SARS mostrano che i sopravvissuti a questa infezione presentavano ancora a sei mesi di distanza dalla guarigione anomalie polmonari ben riconoscibili alle radiografie toraciche, oltre ad alterazioni restrittive della funzionalità respiratoria come una minor capacità respiratoria, un minor volume polmonare, una scarsa forza dei muscoli respiratori e soprattutto una minor resistenza allo sforzo, con una diminuzione netta della distanza percorsa in sei minuti di cammino.
Fibrosi polmonare come conseguenza dell’infezione da Covid-19. Il dato più allarmante, però, è rappresentato dal fatto che il 30% dei pazienti guariti mostrava diffusi segni di fibrosi polmonare, ovvero cicatrizzazioni polmonari comportanti una condizione di compromissione respiratoria irreversibile. In questi casi, possono sorgere problemi respiratori anche dopo una semplice passeggiata a passo lento. Inoltre, i dati emersi dagli studi dimostrano come queste problematiche non sono condizionate dall’età dei pazienti, in quanto questi casi si sono verificati anche in pazienti giovani, con un'incidenza variabile dal 30 fino al 75% dei casi. In merito, i primi dati che emergono dai medici cinesi sul Covid-19 e i primi dati italiani osservazionali mostrano come a molti pazienti sopravvissuti viene diagnosticata proprio una fibrosi polmonare. Al fine di fronteggiare queste severe problematiche gli esperti sono concordi nel richiamare l'attenzione alla necessità di istituire specifici ambulatori dedicati al follow-up dei pazienti che sono stati ricoverati, specialmente i più gravi e gli anziani più fragili, che potrebbero necessitare di un trattamento attivo farmacologico e di percorsi riabilitativi dedicati. Gli strascichi che inevitabilmente sarà necessario affrontare in questi pazienti saranno appunto quelli di reliquati polmonari, con la conseguenza di dover supportare e curare una nuova categoria di pazienti con cicatrici fibrotiche da Covid-19 con conseguente insufficienza respiratoria cronica, condizione che rappresenterà un nuovo problema sanitario.
"Covid e danni ai polmoni: non sono permanenti". Michela Bezzi, primario Pneumologia Endoscopica al Civile il 22.9.2020 su Brescia Oggi. «Il 30% dei malati Covid potrebbe sviluppare danni permanenti al polmoni» aveva ipotizzato la Società italiana di Pneumologia nei mesi scorsi, avvisando però che per avere certezze sarebbe servito del tempo. E le risposte, le prime, stanno arrivando. Ma ribaltano il nefasto pronostico: la maggior parte dei pazienti dimessi ha i polmoni «puliti», per usare il gergo medico. La conferma arriva dalla dottoressa Michela Bezzi, responsabile della Pneumologia Endoscopica degli Spedali Civili di Brescia e coordinatrice di delle unità Covid A e B (quest'ultima chiusa a maggio) nei mesi dell'emergenza. Rientrata a Brescia nel 2018 dal Careggi di Firenze, dove era approdata nel 2015 come responsabile della pneumologia interventistica, Bezzi si è ritrovata ad affrontare un'emergenza mai vista prima e ha partecipato alla conversione dell'ospedale organizzando lo staff medico e infermieristico per affrontare al meglio la pandemia. Ha vissuto in trincea. I prossimi mesi? «Siamo in uno stato di vigile attesa», spiega Bezzi che venerdì sera racconterà la sua esperienza nella chiesa di San Giorgio a Brescia per la rassegna Sapiens.
Dottoressa, a maggio vi aspettavate per il 30% dei pazienti Covid problemi respiratori cronici e segni diffusi di fibrosi polmonare. Le evidenze, però, oggi paiono diverse...
«Negli ambulatori post-Covid richiamiamo tutti i pazienti anche con la telemedicina e molti, pur di non rimettere piede in ospedale, ci mandano la spirometria e la radiografia al torace. La maggior parte di loro è guarita. Anche quelli che hanno fatto più fatica nel tornare a muoversi come prima senza affanno, hanno la tac pulita. Le dico di più: con il comitato etico ero pronta a presentare uno studio che facesse prelievi di tessuto polmonare in vivo per studiare gli esiti del Covid e capire cosa succede ai polmoni dopo tre o sei mesi per curare le conseguenze dell'infezione virale: non siamo partiti. Sembra che il danno permanente al polmone sia meno grave di quanto si pensasse. Ci aspettavamo danni permanenti, pazienti che non sarebbero tornati più a respirare normalmente ma col bisogno di ossigeno, tac che non si risolvevano... Nulla di tutto questo è successo. Molto più grave, invece, è l’aspetto psicologico».
Come lo spiega?
«Perché ci basavamo sui dati della Sars e della Mers, su quanto avevano lasciato quel tipo di infezioni. Ma erano molto diverse: innanzitutto molto più gravi anche se si sono diffuse molto meno perché uccidevano i loro ospiti. Sars-Cov-2 evidentemente è riuscito a diffondersi così tanto anche perché la gravità era inferiore, quindi gli ospiti sopravvivono e contagiano gli altri».
Intanto i contagi sono tornati ad aumentare. Qual è la situazione al Civile che, lo ricordiamo, è ospedale hub Covid in regione?
«I pazienti con vera polmonite da Covid e desaturazione, che magari devono fare antiretrovirali, cortisone, ventilazione con mascherina, sono forse una decina e si susseguono pian piano tra tutte le degenze attive in ospedale, suddivise tra Infettivi, Pneumologia e Rianimazione.
Parla di quella tipologia di pazienti di cui gli ospedali erano pieni tra marzo e aprile?
«Quelli di cui ne abbiamo avuti 1.200 per un mese contemporaneamente sui tre presidi dell'Asst Spedali Civili in condizioni molto gravi. Oggi li ventiliamo per quattro o cinque giorni prima di passare alla settimana di convalescenza e poi mandarli casa».
Come mai la degenza si è ridotta così tanto?
«Sono pazienti meno gravi. È come se il virus avesse mietuto le sue vittime tra febbraio e aprile andando a colpire le persone più fragili. Non dimentichiamo che ne sono arrivati davvero tanti perché oltre ai nostri 1.200 c’erano ricoverati in tutti gli altri ospedali. I pazienti che vedo in questo periodo arrivano dall'estero: rientri da Ibiza, Croazia, badanti che sono andate nel loro paese e tornano in Italia dai loro assistiti essendo positive. Ma hanno forme più lievi».
Cosa accadrà nei prossimi mesi?
«Riesploderà l'influenza, poi arriverà il freddo con raffreddori e tosse e il virus ricomincerà a circolare non solo tra i giovani ma anche nei nostri anziani. Per me la situazione sarà diversa perché siamo decisamente più preparati. Stiamo lavorando tantissimo con i medici di medicina generale anche a livello volontaristico, ci sono aggregazioni di mmg con cui ci confrontiamo nelle varie aree geografiche di città e provincia. La cosa più importante è continuare ad offrire ai pazienti non Covid l’alto livello di cura di cui siamo capaci in ospedale ed essere pronti e organizzati per gestire in modo capillare sul territorio i sintomi simil influenzali o da Covid che si svilupperanno, curandoli a casa. Paola Buizza
· Gli Asintomatici/Paucisintomatici.
Asintomatici positivi, l'odissea di Gabriele: 10 tamponi e ancora in quarantena dopo due mesi. Le Iene News il 12 ottobre 2020. Dopo quasi due mesi di quarantena e 10 tamponi dall’esito altalenante, Gabriele Novaresio è ancora in isolamento perché, risultato positivo il 18 agosto, non ha mai avuto due tamponi negativi consecutivi. Ma adesso le regole per quarantena e isolamento sono cambiate. “Ogni volta che il tampone veniva indeterminato pensavo fosse uno scherzo. Ormai sono in quarantena da due mesi”. E' stata firmata nella sera di lunedì 12 ottobre la circolare del ministero della Salute che ha accolto quanto consigliato nei giorni scorsi dal Comitato tecnico scientifico in merito alle regole sull’isolamento fiduciario e la quarantena per contenere i contagi da Covid-19. E per chi ha passato più di un mese in isolamento dopo essere risultato positivo al coronavirus, questo può significare molto. È il caso di Gabriele Novaresio, 22enne di Torino, risultato positivo al tampone il 18 agosto e ancora in isolamento perché, ci racconta, non ha mai avuto due tamponi negativi consecutivi, condizione finora necessaria per uscire dalla quarantena dopo essere risultati positivi e cambiata con la nuova circolare del ministero della Salute. L’odissea di Gabriele passa attraverso 10 tamponi dall’andamento altalenante. “Ho fatto il tampone tornato dalle vacanze a Malta”, ci racconta Gabriele. “Non avevo sintomi ma l’ho fatto perché ero entrato in contatto con due positivi. Io sono sempre stato asintomatico”. Il 18 agosto gabriele risulta positivo, e così anche il secondo tampone, del 25 agosto. Mentre il terzo tampone, del 1 settembre, ci spiega la madre di Gabriele che li ha segnati tutti, è risultato negativo. Il 4 settembre il tampone è indeterminato, seguito da un negativo e un altro indeterminato. Il 20 settembre Gabriele risulta ancora una volta positivo. Quando quello successivo, del 27 settembre, viene fuori negativo, Gabriele è speranzoso. Ma i due tamponi successivi risultano indeterminati. “Quando vedevo che non mi venivano mai due tamponi negativi di fila pensavo fosse uno scherzo”, ci dice Gabriele al telefono. “Sono ancora in isolamento, il prossimo tampone ce l’avrei mercoledì 14 ottobre”. La circolare del ministero della Salute ridefinisce i tempi di isolamento e quarantena. In caso di positività asintomatica, come quello di Gabriele, la quarantena durerà 10 giorni e basterà un tampone molecolare negativo per tornare alla vita normale. In caso di positività sintomatica la quarantena durerà sempre 10 giorni e, nel caso che gli ultimi 3 giorni siano senza sintomi, basterà un tampone negativo. Nel caso di un positivo asintomatico che non si negativizza dopo 21 giorni, l’isolamento si interrompe al 21esimo giorno, perché dagli studi effettuati finora non sono emersi casi in cui il coronavirus riesca ancora a replicarsi dopo un periodo di tempo così lungo. Per quanto riguarda le persone che hanno avuto contatti stretti con positivi, devono rimanere in isolamento fiduciario 10 giorni e devono effettuare un tampone per il test molecolare o per il test rapido antigenico. Quando ha letto le nuove regole Gabriele non poteva crederci: “Stavo per mettermi a piangere dalla gioia”, ci ha detto. Come ha passato questi due mesi in casa? “Il primo mese per fortuna avevo gli esami universitari quindi non mi sono annoiato troppo. Il secondo mese è stato più difficile. Ho la fortuna di avere un giardino quindi ogni tanto tiro a canestro, ma sono due mesi che non ho contatti con nessuno. Non vedo l’ora di tornare alla vita normale!”.
Giuseppe Remuzzi per “la Lettura - Corriere della Sera” il 23 agosto 2020. A proposito di Covid-19 si è parlato tanto e si continua a parlare di asintomatici — e anche con una certa apprensione — perché sembravano essere quelli che diffondono la malattia fra l’altro senza saperlo. E se invece fossero proprio loro ad aiutarci a venire a capo della pandemia di Sars-CoV-2? Cominciano a chiederselo in tanti e paradossalmente l’idea viene da una... prigione; o meglio da quello che sta succedendo in alcune prigioni degli Stati Uniti. Secondo il «Washington Post» in Arkansas, North Carolina, Ohio e Virginia le persone infette fra i detenuti sono più di tremila: ebbene, il 96 per cento di loro non ha sintomi. È uno dei misteri di questo virus che cominciamo a conoscere un po’, ma non del tutto ancora. Perché per esempio ci sono persone che vivono o lavorano a contatto di chi è malato, si infettano, ma non hanno sintomi e non si ammalano? Se riuscissimo a capire cos’è che li protegge potremmo certamente avere un’arma in più nei confronti di questo virus. Monica Gandhi, esperta di malattie infettive dell’Università di San Francisco in California, s’è subito chiesta come mai ci fosse un numero così alto di infezioni asintomatiche. Questa la sua conclusione: «Non è detto che sia sempre un problema, tutt’altro; potrebbe essere un bene per l’individuo e per la società».
Davvero? Forse sì. Per poterlo dimostrare la dottoressa ha raccolto tutte le informazioni possibili sugli asintomatici partendo dai dati del Centro per il Controllo e la Prevenzione delle Malattie di Atlanta. Loro avevano già visto che il 40 per cento dei contagiati non ha sintomi, forse per via delle mascherine. Ma ci potrebbero essere altre ragioni: la conformazione dei recettori che il virus usa per entrare nelle cellule, per esempio, oppure un assetto genetico particolarmente favorevole. O forse gli esperti potrebbero avere sbagliato: «Sars-CoV-2 — ripetevano — è un virus del tutto nuovo e il nostro sistema immune è stato colto di sorpresa; non abbiamo armi per difenderci». Ma questo potrebbe non essere vero; sempre più lavori — tutti recentissimi — avanzano l’ipotesi che una parte rilevante della popolazione sia già stata esposta in passato a qualcosa che assomigliava a Sars- CoV-2 prima ancora che il virus fosse stato scoperto. Se fosse così vorrebbe dire che fra noi ci sono persone che, senza essersi ammalate né vaccinate, sono già immuni per conto loro, almeno un po’. Va detto che il nostro sistema immune è una formidabile macchina per i ricordi, sa riconoscere tutto quello che ha visto in passato; non solo, ma a ogni nuovo incontro la sua memoria si rafforza e si espande. E tutto questo grazie a certe cellule che gli immunologi chiamano memory T cells (sarebbe: linfociti della memoria) che viaggiano instancabilmente nel nostro torrente circolatorio per difenderci dagli invasori e nel caso specifico potrebbero ricordare di avere visto in passato qualcosa di molto simile a Sars-CoV-2. Per esempio i coronavirus del raffreddore, che condividono con il virus di Covid-19 certe proteine non proprio identiche ma molto simili, come dimostra un bellissimo lavoro appena pubblicato su «Science». Ma non si può nemmeno escludere che siano le proteine associate alle vaccinazioni infantili che inducono la formazione di cellule T della memoria che poi riconoscono Sars-CoV-2 come qualcosa di familiare. Francis Collins, il direttore di National Institutes of Health, ne è convinto, tanto da avere pubblicato un post in questi giorni per sostenere il ruolo dei linfociti T della memoria nel proteggere dall’ammalarsi tanti che sono stati contagiati dal virus. Del resto come si spiegherebbe altrimenti il fatto che in Svezia — che non ha fatto lockdown — il numero di ammalati diminuisce? Dev’essere per forza legato a una immunità pre-esistente . Ed è così in altre aree del mondo anche molto povere, dove la quarantena semplicemente non la si poteva fare. I test sierologici che misurano gli anticorpi contro Sars-CoV-2 ci dicono che quelli che hanno incontrato il virus sono molti di più di quelli che pensavamo, ma forse sono ancora di più quelli che sarebbero già stati immuni grazie alle cellule della memoria. Si apre insomma un campo del tutto inesplorato, ma forse più rilevante di quello su cui ci siamo concentrati finora. «Aspettiamo conferme», dice l’immunologo americano Anthony Fauci, «ma è possibile che sia così e sarebbe davvero una buona notizia». Fauci — che non ha mai risparmiato critiche alla gestione della crisi sanitaria da parte dell’amministrazione di Donald Trump — pensa più al ruolo della carica virale per spiegare perché qualcuno si ammala gravemente mentre altri, pur frequentando gli stessi ambienti, hanno poco o nulla. Bisogna anche considerare che gli anticorpi se ne vanno presto, mentre l’immunità cellulare rimane più a lungo anche se è più difficile da studiare. Lo hanno fatto ricercatori di San Diego in California su vecchi campioni di sangue da donatori e hanno scoperto che nel 40-60 per cento di quei campioni si potevano trovare cellule T capaci di riconoscere Sars-CoV-2. Il virus allora non c’era ancora, per cui bisogna per forza pensare a una sorta di immunità pre-esistente. La conferma viene da studi molto simili fatti in Olanda, Germania e Singapore con risultati assolutamente sovrapponibili. C’è un altro aspetto su Covid-19 che merita grande attenzione: quello dei bambini. Loro hanno più virus nel naso e in gola degli adulti, ma raramente si ammalano e non si è ancora capito se possono contagiare.
Come si spiega? Potrebbero avere cellule della memoria anche delle vaccinazioni recenti. Per questa ragione Andrew Badley e i suoi colleghi della Mayo Clinic hanno affrontato il problema sistematicamente per scoprire che, se nei cinque anni precedenti sei stato vaccinato, hai qualche forma di immunità anche contro Sars-CoV-2 e questo vale per almeno sette vaccini ma specialmente per quelli contro lo pneumococco (che riduce il rischio di ammalarsi di Covid-19 del 28 per cento) e contro la polio (che lo riduce del 43 per cento). Cambia il paradigma insomma: d’ora in poi invece di guardare agli asintomatici come persone che diffondono la malattia, li si potrebbe guardare con gratitudine. Chissà che un giorno non siano proprio loro a liberarci da Covid-19 attraverso una immunità di popolazione fatta anche da tutti quelli che hanno gli anticorpi ma forse ancora di più da chi ha cellule della memoria specifiche, che da sole limiterebbero moltissimo la diffusione del virus anche in aree dove i positivi non superano il 10-20 per cento della popolazione.
Silvia Turin per il “Corriere della Sera” il 3 luglio 2020. Una nuova ricerca del Karolinska Institutet e del Karolinska University Hospital di Stoccolma (Svezia) mostra che molte persone malate di Covid-19 in modo lieve o asintomatico — e che dunque non si sono, in moltissimi casi, mai rese conto di aver contratto la malattia — hanno sviluppato la cosiddetta «immunità mediata da cellule T» al nuovo coronavirus, anche se non risultano positivi agli anticorpi nei test sierologici. Secondo i ricercatori, in altre parole, ciò significa che probabilmente più soggetti nella popolazione hanno sviluppato immunità al SARS-CoV-2 rispetto a quanto suggerito dai test anticorpali. Questa ricerca potrebbe anche spiegare come mai alcune persone che si sono ammalate di coronavirus non risultano positive ai test sierologici, focalizzando l’attenzione su un’altra parte della risposta del sistema immunitario alla malattia.
Lo studio svedese. L’articolo, ancora non pubblicato su una rivista scientifica, è stato reso disponibile online. I linfociti T sono un tipo di globuli bianchi specializzati nel riconoscimento delle cellule infette da virus e sono una parte essenziale del sistema immunitario, i risultati indicano che circa il doppio delle persone ha sviluppato l’immunità delle cellule T rispetto a quelle in cui siamo in grado di rilevare gli anticorpi. Lo studio ha incluso pazienti ricoverati presso l’ospedale universitario Karolinska e i loro familiari asintomatici esposti. Sono stati inclusi anche donatori di sangue sani che hanno donato il sangue nel 2019-2020 (il gruppo di controllo). I ricercatori hanno osservato che non erano solo le persone con Covid-19 verificato a mostrare l’immunità delle cellule T, ma anche molti dei loro familiari asintomatici esposti. Inoltre, circa il 30% dei donatori di sangue attivi nel maggio 2020 aveva cellule T specifiche per Covid-19, una cifra molto più elevata rispetto a quella rilevata con i test sugli anticorpi. «I nostri risultati indicano che nella popolazione l’immunità è probabilmente significativamente più elevata di quanto suggerito dai test anticorpali», afferma il professor Hans-Gustaf Ljunggren del Center for Infectious Medicine al Karolinska Institutet. Abbiamo chiesto una valutazione dello studio svedese al Professor Alberto Mantovani, Direttore scientifico dell’Istituto clinico Humanitas e Professore Emerito di Humanitas University.
«È uno studio molto importante a mio giudizio. Ci ricorda che gli anticorpi sono solo una manifestazione della risposta immunitaria, ma il cuore della risposta adattativa, quella che viene dopo la “prima linea” di difesa, sono le cellule T. Questo studio suggerisce che, se si misura la risposta mediata dalle cellule T, si trova che soggetti che, sulla base degli anticorpi non hanno avuto una risposta, in realtà la risposta l’hanno avuta. Quindi mette in evidenza come in alcuni casi (come quelli descritti dallo studio) un paziente ha avuto il virus, laddove il test sierologico magari non lo ha rilevato. Gli anticorpi sono solo una spia di una risposta immunitaria e questo studio suggerisce che possano non essere la spia migliore».
Quali sono le prospettive di queste ricerche?
«Humanitas ha fatto il più grande studio di sierologia nella popolazione medico-sanitaria (io parlo solo di dati resi pubblici e condivisi con la comunità scientifica) e anche in quel caso abbiamo avuto la sensazione di vedere solo un pezzo della risposta immunitaria, tanto è vero che adesso la Professoressa Maria Rescigno sta studiando da noi la risposta T: è anche un progetto in corso ora approvato dal ministero della Salute che io coordino e che coinvolge l’Istituto nazionale di Genetica Molecolare al Policlinico e l’ospedale Papa Giovanni XXIII. E non siamo i soli al mondo a percorrere questa strada. Sappiamo molto poco di come questo virus aggira le difese immunitarie e di quali sono le risposte immunitarie del corpo nei suoi confronti. Non siamo nemmeno sicuri che gli anticorpi siano protettivi, nonostante quello che viene detto, e nemmeno che la terapia con il plasma funzioni. Per fare solo un esempio, quando ci domandiamo se un paziente abbia avuto la tubercolosi, noi non andiamo a cercare gli anticorpi, ma misuriamo la risposta delle cellule T con un test che si chiama Quantiferon».
Che cosa sono le cellule T?
«Il sistema immunitario usa diverse armi per affrontare i suoi nemici e gli anticorpi non sono che una delle armi del sistema immunitario. È una regola generale: c’è una “prima linea” di difesa che gestisce l’attacco dei virus ed è questa che determina in buona parte l’esito di quelle persone che vanno incontro all’infezione e non si ammalano. Probabilmente funziona così anche nel caso del Covid-19. Superata la prima linea di difesa, ci sono dei “direttori d’orchestra” dell’ immunità, le cellule T, che dicono ad altre popolazioni cellulari, le cellule B, di fare da anticorpi oltre che dirigere l’insieme dell’ esercito immunologico».
Quali sono le differenze tra cellule T e gli anticorpi?
«In generale l’eliminazione di un virus al primo incontro viene fatta non dagli anticorpi, ma proprio dalle cellule T. Le cellule T riconoscono pezzi diversi del virus rispetto agli anticorpi e sono fondamentali per la memoria dell’infezione. Ci sono tantissimi tipi di cellule T, di solito di solito alcune di loro, killer di professione, risolvono il problema uccidendo la cellula infettata. A questo punto il virus smette di espandersi».
Le cellule T sono neutralizzanti? E quando dura la protezione che conferiscono?
«Alcune di queste cellule uccidono e fermano il virus, ed è ragionevole pensare siano fondamentali per la difesa contro il coronavirus. Per quanto riguarda gli anticorpi possiamo misurare se in vitro neutralizzano il virus, ma non siano affatto sicuri che siano gli anticorpi a mediare la resistenza al Covid-19. Probabilmente è la prima linea di difesa quella più importante nelle fasi iniziali, poi intervengono le cellule T e infine gli anticorpi. In generale, non sappiamo quanto dura la memoria immunologica dell’infezione e quindi per quanto tempo saremo protetti».
Si potrebbero mettere a punto dei test per la comunità basati sulle cellule T come si è fatto per i sierologici?
«Sono test più complicati e sofisticati che richiedono una tecnologia complessa, ma si può fare. Il precedente di uso routinario è questo test per la tubercolosi che utilizza in parte anche tecnologia italiana. Se si dimostrasse che questa tecnologia dà uno sguardo più accurato sulla memoria immunitaria e sulla protezione del sistema immunitario, si possono mettere a punto sistemi industriali per sviluppare test ad hoc».
Laura Cuppini per il “Corriere della Sera” il 15 giugno 2020. Positivi a Sars-CoV-2 ma senza sintomi: quanti sono? E in che misura possono contagiare altre persone? Il dibattito sui soggetti apparentemente sani ha preso quota dopo le parole di Maria Van Kerkhove, capo del team tecnico anti-Covid-19 dell'Organizzazione mondiale della sanità («è molto raro che una persona asintomatica possa trasmettere il coronavirus»). «Premesso che non abbiamo studi conclusivi sul ruolo degli asintomatici nella diffusione dei contagi, è fondamentale distinguere quattro categorie - precisa Matteo Bassetti, direttore del reparto di Malattie infettive al Policlinico San Martino di Genova e componente della task force Covid della Regione Liguria -: le persone positive che non hanno assolutamente nulla (asintomatici puri, probabilmente poco contagiosi perché hanno una bassa carica virale); i soggetti in fase di incubazione, che svilupperanno i disturbi nel giro di pochi giorni; i sintomatici lievi, senza febbre, tosse, difficoltà respiratoria, ma magari con una leggera congiuntivite; coloro che hanno avuto la malattia e risultano positivi, ma sono clinicamente guariti. Tra queste tipologie, quelle più a rischio di contagio sono la seconda e la terza: i pre-sintomatici e i sintomatici lievi. Ma il referto del tampone sarebbe uguale in tutti e quattro i soggetti: positivo». La quantità di carica virale presente nei campioni biologici non viene misurata negli esami fatti alla popolazione, ma solo in qualche centro di ricerca che studia come si muove l'epidemia. «È importante distinguere, tra i positivi, i soggetti con carica virale alta (che vanno isolati) e quelli con poche copie del virus, che probabilmente non trasmettono l'infezione - prosegue Bassetti -. Con il ritorno della stagione fredda, e nell'eventualità di un nuovo picco di contagi - che comunque non sarà paragonabile a quello di marzo-aprile -, è fondamentale concentrarsi sul ruolo degli asintomatici. Ognuno di noi però può fare molto per proteggersi: distanza interpersonale, lavaggio delle mani e mascherina nei luoghi chiusi. Inoltre tutti dovremmo ricevere il vaccino antinfluenzale, per evitare l'inevitabile confusione diagnostica con Covid».
Michela Nicolussi Moro per “il Corriere della Sera” il 25 giugno 2020.
Professor Andrea Crisanti, come mai manca la sua firma sul documento?
«A parte il fatto che non me l'hanno chiesta, giudico inopportuna l'iniziativa. Invia alle persone un messaggio incoerente e incoraggia comportamenti non in linea con la strategia prudenziale adottata dal governo anche nella fase 2 dell'emergenza».
Dire che la carica virale del Covid si è abbassata rischia di promuovere il «liberi tutti»?
«È vero, la carica virale è diminuita. In ospedale si vedono sempre meno casi, in più soggetti che per loro comportamenti o situazioni a rischio si sarebbero infettati durante il picco, oggi o non contraggono la malattia o ne sono colpiti in forma lieve, ma bisogna stare attenti a come si esprimono questi concetti. Ci vuole umiltà, non conosciamo ancora bene il virus».
Non è ancora tempo di festeggiare, insomma.
«Non dobbiamo dimenticare che tutto è iniziato con i 4mila casi denunciati dalla Cina. Hanno fatto scattare l'allarme e le misure che conosciamo in tutto il mondo. Sottolineo: 4mila. Solo martedì nel mondo si sono diagnosticati 150mila infetti: il pericolo è ancora reale. Ed è questo che la gente deve sapere».
Teme reinfezioni?
«Possiamo reimportare il coronavirus, come è successo in Corea, a Singapore, nella stessa Cina e in Germania. Il Covid-19 ha una capacità di diffusione spaventosa, ecco di cosa dobbiamo parlare».
Nel documento si legge: «La comunità scientifica internazionale si sta interrogando sulla reale capacità di soggetti paucisintomatici e asintomatici di trasmettere l'infezione». È d'accordo?
«Quando mi vengono a dire che gli asintomatici non trasmettono l'infezione mi cadono le braccia. Ma allora, visto che i sintomatici sono sempre meno, qualcuno mi può spiegare da dove originano tutti questi nuovi contagi? Cadono dal cielo? E in ogni caso non si possono paragonare gli asintomatici riscontrati durante il picco a quelli di oggi, che potrebbero essere tali o per una bassa carica virale o perché nel frattempo hanno sviluppato gli anticorpi».
Lei ha un'evidenza scientifica che provi la capacità degli asintomatici di diffondere il coronavirus?
«Lo studio che sto conducendo a Vo' Euganeo, primo focolaio del Veneto, rivela che l'80% dei 3.300 abitanti ha sviluppato gli anticorpi al Covid-19. Ma 63 di loro sono risultati negativi a tutte e tre le tornate di tamponi effettuate, quindi si sono infettati prima del 21 febbraio, giorno in cui sono stati diagnosticati i due casi iniziali. E allora, se il virus circolava già da fine gennaio ma nessuno ne accusava i sintomi, chi ce lo ha portato?».
Tra loro potrebbe esserci il paziente zero?
«Eh sì, infatti ne stiamo ricostruendo i movimenti, proprio per capire come il Covid-19 sia entrato in paese».
Lei dice che il virus è veicolato dai giovani. Perché?
«L'infezione si diffonde soprattutto nella fascia 20-55 anni, la più attiva socialmente e professionalmente e spesso asintomatica. Gli asintomatici hanno una carica virale uguale ai sintomatici, ma reagiscono diversamente».
Questo nel documento non c'è. Cosa ne pensa?
«Ognuno fa ciò che si sente. Sul contenuto non entro, è come dire che il cielo è azzurro, è l'uso che se ne fa a creare problemi. Ripeto, è inopportuno».
"Asintomatici contagiosi. L'Oms dei burocrati dice troppe stupidaggini". Lo scienziato: "Questi signori sbagliano come al solito. I risultati dei test fatti a Vo' lo dimostrano". Enza Cusmai, Mercoledì 10/06/2020 su Il Giornale. «L'Oms dovrebbe fare una cura dimagrante pazzesca». È furioso l'immunologo Andrea Crisanti, scienziato di fama internazionale, ordinario di microbiologia all'Università di Padova, nonché esperto capace di azzerare il Covid in Veneto.
Cosa ne pensa?
«Dico che nell'Organizzazione mondiale della Sanità ci sono troppi burocrati e pochi esperti con competenze: serve più presenza qualificata sul territorio e meno gente a Ginevra».
È contrariato per l'ultima retromarcia sugli asintomatici? Prima l'Oms ci ha detto che raramente possono trasmettere il Covid-19. Ma poi ha corretto il tiro dicendo che si riferiva a piccoli studi.
«È l'ennesima svista, fatta forse per nascondere tutte le stupidaggini che hanno detto prima. Comunque dire che gli asintomatici sono poco infettivi è un'affermazione che va contro ogni osservazione scientifica. Purtroppo sono i giovani a trasmettere la malattia, perché spesso manifestano l'infezione in maniera asintomatica, mettendo più a rischio la salute degli altri».
Anche i bambini possono essere asintomatici?
«I bambini, secondo la nostra esperienza, non si ammalano e non si infettano neanche in presenza di adulti vicini che sono infetti. A Vo', ad esempio, su 257 bambini da 1 a 10 anni non c'era nessun infetto nonostante circa una ventina vivesse in abitazioni con persone infette».
Sulla base dell'esperienza diretta fatta in Veneto, gli asintomatici contagiano come gli altri positivi con sintomi?
«Esattamente. La loro carica virale è paragonabile a chi ha sintomi. Per esempio, nel comune di Vo', ci sono 63 persone positive che si erano infettate e poi guarite già prima del 21 febbraio».
E questo cosa significa?
«Che erano tutte asintomatiche, senza neppure un malessere ma sono quelle che hanno portato la malattia nel paese».
Dunque l'Oms colleziona uno scivolone dietro l'altro.
«Questa è l'ultima stupidaggine in ordine cronologico».
Si riferisce al dietro- front sulle mascherine?
«Ci hanno detto in piena pandemia che non servivano. E dio solo sa quanti morti ci sono stati in più per aver dichiarato al mondo che dovevano essere indossati solo da malati e ospedalieri. E così la gente disseminava goccioline ovunque. Asintomatici compresi».
Su qualcosa ci hanno preso?
«Sui guanti, ma hanno cambiato idea anche su questo. Comunque sono accessori difficili da usare e se vengono maneggiati male diventano un veicolo di contagio».
Confusionaria, questa istituzione che mangia miliardi.
«Purtroppo l'Oms ha detto tutto e il contrario di tutto sul Covid. Prima aveva assicurato che il virus si trasmetteva solo da animale a uomo. Poi anche dall'uomo all'uomo ma che non c'era da preoccuparsi».
C'è stata poca trasparenza anche sui rapporti con la Cina?
«I rappresentanti dell'Oms sono andati a fare l'ispezione il 23 gennaio a Wuhan e hanno lodato i cinesi che invece hanno nascosto tutto quello che stava succedendo alla comunità scientifica. Facendo perdere del tempo preziosissimo per salvare vite umane. Mi piacerebbe sapere se questi esperti hanno analizzato e ispezionato qualcosa che riguardasse problemi di sanità pubblica di interesse mondiale».
C'è qualcosa di peggio dei dati nascosti cinesi?
«La faccenda della clorochina è scandalosa. Hanno sospeso i test basandosi su uno studio pubblicato con dati falsi. Nessuno controlla nulla. La cosa drammatica è che l'Oms non ha personale in grado di analizzare con competenza la letteratura scientifica».
È un'istituzione da abolire?
«Per essere efficace e autorevole, merita una profondo ripensamento sul suo modo di operare ma serve trasparenza anche sui chi la finanzia. Questa pandemia è stata gestita male, ma anche durante l'influenza suina, l'Oms ha fortemente raccomandato l'uso di milioni di vaccini poi buttati nella spazzatura».
Valeria Pini per repubblica.it il 9 giugno 2020. "E' molto raro che una persona asintomatica possa trasmettere il coronavirus". Sono parole che suscitano stupore quelle della dottoressa Maria Van Kerkhove, capo del team tecnico anti-Covid-19 dell'Oms durante il briefing di ieri dell'Agenzia dell'Onu, perché da mesi si parla dei contagi partiti da persone che non presentavano i segnali della malattia. L'esperta dell'Oms ha spiegato che analizzando i dati di diversi Paesi che stanno seguendo "casi asintomatici" è emerso che questi non "hanno trasmesso il virus".
Le fasi. Secondo Carlo Federico Perno, direttore Medicina Laboratorio Ospedale Niguarda, le parole di Van Kerkhove vanno interpretate con attenzione. "I dati della letteratura ci dicono che una persona può infettare le altre - spiega Perno - se la carica virale è tale da poter contagiarle. Lo si è nella fase pre sintomatica, ma questo però non accade nel giorno 0, nella fase iniziale. C'è poi la fase asintomatica post guarigione, quando il tampone è positivo. Secondo un recente studio coreano anche in questa fase non si è contagiosi. Ci sono inoltre le persone asintomatiche che non si ammalano. Su questi pazienti si sa poco perché non ci sono dati, ma anche loro sono poco contagiosi. Quindi c'è una parte delle persone che non hanno i sintomi della malattia che non sono contagiose".
Lo studio. Resta il fatto che il contagio può passare anche attraverso gli asintomatici e che le parole della rappresentante dell'Oms si prestano a un'interpretazione erronea. Perché nel Mondo e in Italia il virus si è propagato anche attraverso persone che non presentavano né febbre, né tosse. "Lo dimostrano tanti studi svolti finora. L'ultima è una ricerca cinese appena pubblicata su The Lancet. Ha esaminato una serie di casi nella popolazione, concludendo che la diffusione del coronavirus era avvenuta nel 20% di casi da persone asintomatiche", spiega Antonio Cassone, ex direttore del Dipartimento delle Malattie Infettive dell'Istituto superiore di sanità.
La ricerca a Vo e gli asintomatici. Una tesi che Cassone difende ricordando lo studio fatto a Vo, un primo piano quasi unico al mondo, visto che nel comune padovano tutti o quasi i 3mila abitanti sono stati sottoposti a due tamponi: uno nel momento in cui il focolaio è scoppiato, l’altro al termine di una quarantena di 14 giorni. Nella ricerca, realizzata da Andrea Crisanti, microbiologo dell’università di Padova, il 43,2% dei positivi era asintomatico, ma contagioso esattamente come i sintomatici.
"Serve prudenza". Numeri e percentuali che ci ricordano quanto sia necessario continuare a fare attenzione. "La persona infetta pre sintomatica espelle già il virus ma non mostra sintomi ed è contagiosa", aggiunge Cassone. "E' ovvio che i sintomatici - chiarisce Massimo Andreoni, responsabile Malattie Infettive del Policlinico di Tor Vergata - sono più contagiosi. Più la persona presenta sintomi, più è alta la carica infettante, ha più virus nel rinofaringe. Ma non si può dire che gli asintomatici non siano contagiosi. Lo sono, anche se in misura minore degli adulti, anche i bambini che sono spesso asintomatici". Ma c'è anche un'altra variabile che aumenta la diffusione del contagio. "E' la suscettibilità del soggetto esposto. Se è un paziente fragile, con un sistema immunitario debole, se è anziano o è un malato cronico, sarà più facile che si infetti. E' per questo motivo che se una persona positiva entra in palestra infetta solo poche persone mentre in ospedale molte", aggiunge Andreoni. Va fatta attenzione sul contagio da persone che non presentano sintomi anche Roberto Cauda, docente di Malattie infettive all’Università Cattolica e direttore dell’Unità di malattie infettive del Policlinico Gemelli di Roma. "Finora tutti gli studi epidemiologici hanno messo in rilievo il ruolo degli asintomatici nel diffondere il virus. La ricerca va in questa direzione. L'Oms parla di nuove prove, vedremo se saranno prodotte nuove ricerche che faranno luce su questo punto".
Quei centomila in isolamento senza controllo perché mancano tamponi. Pazienti positivi, ma senza sintomi gravi. Dopo settimane di clausura, non riescono a sapere se sono ancora contagiosi. Un rischio che mette in pericolo la ripartenza. E a Milano l'hotel per la quarantena resta vuoto. Fabrizio Gatti il 23 aprile 2020 su L'Espresso. L’isolamento domiciliare di quasi centomila italiani positivi al covid-19 si può davvero definire “isolamento”? Centomila persone con l’aggiunta di due, tre familiari per nucleo, e magari la badante per i più anziani, dovrebbero gestire la loro casa con i criteri di sicurezza di un laboratorio Bsl-4: percorsi puliti differenziati e percorsi sporchi per le persone e gli oggetti, sanificazione costante di ambienti e indumenti. E mai un errore. Questo prevedono le norme per la convivenza con virus pericolosi come il Sars-Cov-2 in tempi normali. E non basta essere laureati e specializzati in virologia o microbiologia per maneggiarli, bisogna anche essere addestrati. Ma quante delle persone malate e non ricoverate, o asintomatiche, o dimesse dagli ospedali ma ancora contagiose, sanno cosa significa biosicurezza di livello 4 e possono trasformare il loro piccolo appartamento in un set del film Contagion? La domanda, soprattutto al Nord, è un bel dilemma: perché in attesa del vaccino, senza una risposta scientifica basata su tamponi e test sierologici per liberare dall’isolamento chi è già immune, l’ottimistica corsa verso la riapertura potrebbe trasformarsi tra due, tre o quattro settimane in un nuovo scontro frontale con l’epidemia. Lo suggeriscono i dati sui nuovi contagi diffusi dalla Protezione civile. Se sommiamo l’ultima settimana dal 15 al 21 aprile nelle regioni più colpite, la cautela è necessaria: 2.340 nuove diagnosi in Emilia Romagna, 4.265 in Piemonte, 1.972 in Veneto e addirittura 6.605 in Lombardia.
Paucisintomatico. Redazione MyPersonalTrainer il 18.07.2019. L'aggettivo paucisintomatico viene utilizzato per indicare la scarsità di sintomi con cui si manifesta una determinata malattia o condizione anomala. Non a caso pauci, in latino, significa pochi; possiamo pertanto usare indistintamente come sinonimi i termini paucisaccaridi/oligosaccaridi ed oligosintomatico/paucisintomatico. Si dice che una malattia decorre in maniera paucisintomatica quando non produce sintomi di rilievo, al punto da passare del tutto inosservata o da essere tutt'al più attribuita ad un lieve malessere passeggero o al peso degli anni. La paucisintomaticità è tipica dello stadio iniziale di molte malattie e come tale rappresenta un grosso limite alla cura ed al trattamento delle stesse; sappiamo infatti che la diagnosi precoce è importantissima per rallentare od ostacolare la progressione di moltissime patologie, inclusi i tumori. Nonostante il processo morboso si manifesti in maniera paucisintomatica, infatti, molto spesso è possibile diagnosticarlo precocemente, anche se è evidente che un individuo che si sente tutto sommato bene ed in salute difficilmente si rivolgerà al medico per indagare problemi di salute di poco conto. Su queste considerazioni si basano i cosiddetti screening, procedure cliniche che non hanno lo scopo di diagnosticare, ma semplicemente di identificare un sottogruppo a rischio per una determinata patologia. Per la diagnosi definitiva, gli individui risultati "positivi" ad un test di screening devono sottoporsi ad un ulteriore accertamento, che - qualora risultasse positivo - permette l'adozione di un trattamento precoce, massimizzando le chance terapeutiche.
Coronavirus, i dati dello studio cinese: asintomatici 4 positivi su 5. Jacopo Bongini il 7 aprile 2020 su Notizie.it. Secondo uno studio cinese pubblicato sul British Medical Journal il reale numero dei positivi asintomatici sarebbe molto più alto del previsto. Fin dall’inizio della pandemia di coronavirus nel mondo uno dei dati maggiormente sotto la lente dei ricercatori è stato quello del numero dei positivi asintomatici: cioè coloro che hanno contratto il Covid-19 pur non presentando nessun sintomo e che pertanto potrebbero più facilmente diffonderlo tra la popolazione. Finora le cifre ufficiali parlavano di un numero di asintomatici oscillante tra il 20% e il 60% dei contagiati, ma uno studio cinese recentemente pubblicato dal British Medical Journal potrebbe costringere a rivedere drasticamente questi dati. Dallo scorso 1° aprile infatti, le autorità di Pechino hanno iniziato per la prima volta a conteggiare nelle statistiche ufficiali anche i contagiati da coronavirus che non presentavano alcun sintomo specifico. Elaborando i dati raccolti dalle autorità cinesi è emerso come su 166 persone positive al Covid-19 ben 130 fossero completamente asintomatiche. Stando a questi numeri significherebbe che circa 4 positivi su 5 non sviluppano i sintomi della malattia, rimanendo dunque visivamente indistinguibili da coloro che invece non hanno contratto il virus. Una così alta percentuale di asintomatici potrebbe comportare un rischio per la salute pubblica nel momento in cui la fase di lockdown nei vari paesi del mondo sarà terminata, aumentando le probabilità di una nuova ondata di contagi.
Il dato sulla mortalità. Proprio in virtù del loro apparire sostanzialmente sani, gli asintomatici sono più difficili da tracciare nei loro spostamenti rispetto ai pazienti Covid con sintomi e pertanto cercare di porre fine alla pandemia in queste condizioni potrebbe diventare più difficile del previsto. Tuttavia, rapportando un dato di asintomatici positivi così elevato al numero dei decessi per Covid-19 si potrebbe dimostrare come in realtà la mortalità da coronavirus sia più bassa di quanto in precedenza ipotizzato.
Coronavirus e fase 2: il rebus e le paure per gli asintomatici. Le Iene News il 22 aprile 2020. Matteo Viviani intervista alcuni pazienti, che hanno manifestato pochi sintomi o addirittura nessuno sintomo del Covid-19: “Non ci fanno il tampone, neanche dopo essere stati a stretto contatto con pazienti positivi e deceduti”. Siamo davvero pronti dal 4 maggio a riaprire tutto e a far ripartire l’Italia? “Vogliamo trovare o no i famosi asintomatici o poco sintomatici?”. L’appello è di Francesca, una delle tante persone che, nell’emergenza Covid-19, ritengono di essere state pericolosamente trascurate dal sistema sanitario italiano. Matteo Viviani intervista alcuni pazienti cosiddetti “pauci-sintomatici” a pochi giorni dal 4 maggio, data a partire dalla quale probabilmente inizierà la “fase 2”, ovvero la graduale riapertura di alcune attività. Ma siamo davvero pronti a riaprire e a ripartire? Possiamo dire di avere fatto tutto il possibile per evitare una nuova ondata di contagi di ritorno? “Ero a casa, che lavoravo in smart working e ho avvertito un mal di testa molto molto forte", racconta una di loro. "Ho misurato la febbre e avevo 37.5”. Tutto inizia così, a partire da classici sintomi influenzali, più o meno forti. Poi, per molti di loro, accade una cosa assai strana: scompaiono di colpo gusto e olfatto, un sintomo che anche il noto virologo Roberto Burioni ha indicato tra quelli legati al Covid-19. Tutte le persone intervistate, dopo questi primi sintomi, si rivolgono al proprio medico di base, ma nella maggior parte dei casi vengono consigliati i classici rimedi per le sindromi influenzali. “Non c’è una fotografia caratterizzante, questo è l’elemento spiazzante del virus. Questo virus ci ha un po' fregato”, conferma il virologo Fabrizio Pregliasco, direttore sanitario dell’Istituto Galeazzi. I pauci-sintomatici intervistati da Matteo Viviani, ovviamente, provano a chiedere subito il tampone, ma nessuno di loro riesce nell’impresa di ottenerlo: "Ho chiamato e mi hanno detto che molto probabilmente avevo contratto il virus, ma che il tampone non me l’avrebbero fatto, perché ero relativamente giovane e stavo bene”, racconta alla iena uno di questi pazienti. “Nel dubbio si isoli”, consigliano a un’altra di loro, insomma si deve comportare come se fosse positiva. “Io in casa ho due bambini piccoli", spiega la donna, "mi hanno consigliato di isolarmi anche da loro”. “Io sono separata da mio marito e dalle mie bambine dall’8 marzo”, racconta un’altra delle persone intervistate. Una vita da inferno insomma, che potrebbe essere più lieve se solo venissero effettuati i tamponi, scoprendo magari la negatività del paziente. Ascoltiamo una chiamata fatta al numero verde del Ministero della Salute, in cui la persona spiega la presenza di sintomi sospetti. "Intanto rimanga a casa finché non spariscono questi sintomi, ma nella sua situazione è un po' difficile un eventuale tampone", conferma l’operatrice. "Sarà il suo medico che poi deciderà insieme all’Asl territoriale”. Quando però sentiamo proprio un medico di base, questi dà una versione completamente diversa delle procedure: “Se solo avessi avuto un minimo di potere... Oggi ho visitato un ragazzo di 31 anni che lavora in una casa di riposo, ha febbricola, perdita dell’olfatto e del gusto, è ovvio che ha preso il Covid. Lo manderei subito a fare il tampone ma non ho assolutamente potere per farlo. Il capo dei tamponi è l’Asl”. “Credo che all’inizio la questione degli asintomatici sia stata un po' sottovalutata", aggiunge Fabrizio Pregliasco, "e addirittura pare che il 70% dei positivi abbia questa caratteristica”. I dati sono un altro grosso problema. Per l’Iss gli asintomatici o pauci-sintomatici sarebbero tra il 18 e il 30% del totale mentre per altri studi, come quello fatto in Inghilterra, gli asintomatici sarebbero addirittura 4 casi su 5. Matteo Viviani intervista Simona: sua mamma pochi giorni fa è morta di coronavirus. “Ha iniziato ad avere 38 e qualcosa, poi ho avuto forti dolori anche io. Io vivevo insieme a mia madre, il suo tampone è risutato positivo”. Simona è quello che si definisce un contatto-stretto e quindi da protocollo dovrebbe avere accesso al tampone. “Mi è stato detto che nel giro di un paio di giorni l’Asl ci avrebbe chiamato: ci hanno contattato 18 giorni dopo, spiegandoci che il tampone poteva essere fatto solo alle persone ricoverate in ospedale. O che era anche nel potere del medico di base ma quest’ultimo, quando l’ho sentito, mi ha detto in modo categorico che loro non avevano tale potere”. La domanda resta: siamo davvero pronti alla “fase 2”?
Nicola Porro, "dubbio inquietante" sul coronavirus: "Da venerdì sono senza sintomi ma positivo al tampone. Allora..." Libero Quotidiano il 22 marzo 2020. "Sono senza sintomi da giovedì, ma il tampone è positivo". Nicola Porro, contagiato dal coronavirus, condivide con i suoi followers su Twitter un "dubbio inquietante". "Da domenica a giovedì ho avuto febbre alta, curata con la tachipirina - spiega il conduttore di Quarta Repubblica -. Da venerdì al giovedì successivo sono stato senza febbre e tosse, senza sintomi. Sono stato molto male per 5 giorni e relativamente bene per altri 5. Ho fatto il tampone di controllo, risultato ancora positivo". Cosa significa questo? "Mentre siamo agli arresti domiciliari - conclude Porro - possiamo chiederci quante persone senza tampone hanno avuto un po' di febbre e tosse poi sono usciti a fare la spesa o in ufficio? Come si fa a evitare la pandemia se non facciamo i tamponi a tutti o al maggior numero di persone possibili? Io sto bene da una settimana ma sono ancora contagioso!". Quante persone ci sono, in giro, con addosso il coronavirus?
Coronavirus, si sospetta che alcuni pazienti possano essere asintomatici. Pubblicato sabato, 25 gennaio 2020 su Corriere.it da Laura Cuppini. Un nuovo inquietante elemento si aggiunge all’allerta per il coronavirus «2019-n-CoV» che si sta diffondendo in Cina. Secondo uno studio pubblicato su Lancet, alcuni pazienti potrebbero essere asintomatici (cioè non mostrare alcun sintomo), ma essere comunque infetti e in grado di contagiare altri soggetti. Gli studiosi hanno preso in esame una famiglia cinese di sei persone che ha fatto un viaggio a Wuhan tra fine dicembre e inizio gennaio, per poi rientrare a Shenzhen (provincia di Guangdong): cinque (tra i 36 e i 66 anni) sono risultati infetti - con febbre, sintomi respiratori, diarrea - e hanno contagiato un altro membro della famiglia che non era stato a Wuhan. Nessuno ha frequentato mercati o avuto contatti con animali. Un bambino di 10 anni dello stesso gruppo familiare, pur non presentando sintomi, è risultato positivo al coronavirus. Anche durante l’epidemia di Sars erano stati documentati alcuni pazienti asintomatici, ma si trattava di casi molto rari. Gli autori dello studio pubblicato su Lancet concludono che casi di infezione asintomatica da coronavirus appaiono possibili e che dunque è cruciale isolare i pazienti e mettere in quarantena tutti colori che hanno avuto contatti con i malati, oltre a insegnare alle persone a impegnarsi al massimo nell’igiene personale e nell’attenzione a ciò che mangiano. «Sembra possibile l’esistenza di pazienti asintomatici, che stanno bene, non hanno febbre, ma possono diffondere il coronavirus. Il che significa che la misurazione della temperatura agli aeroporti potrebbe non essere sufficiente per bloccare la diffusione della malattia - spiega il virologo Roberto Burioni sul sito MedicalFacts -. La lotta contro quest’infezione sarà più difficile del previsto».
"I contagiati possono essere dieci volte il numero ufficiale". Il professor Mondelli, infettivologo di Università e San Matteo: "Suppongo che i casi reali arrivino a mezzo milione". Alberto Giannoni, Lunedì 23/03/2020 su Il Giornale. I contagiati veri? Potrebbero essere dieci volte superiori al numero ufficiale. È la fondata ipotesi di Mario Mondelli, professore di Malattie infettive all'Università di Pavia, convinto che stiamo osservando solo «la punta dell'iceberg» del Coronavirus. Se considerassimo la parte «sommersa», l'ordine di grandezza dei casi cambierebbe. «Almeno mezzo milione - dice l'infettivologo - è una mia verosimile supposizione naturalmente, a mio avviso possiamo parlare di circa 10 volte i numeri che risultano in Italia». Questo spiegherebbe molto. La letalità per esempio si riallineerebbe al tasso considerato normale. «Il ceppo italiano - spiega il professore - non si differenzia dagli altri se non per pochi dettagli, differenze puntiformi». In Italia e in Lombardia, insomma, non si muore più che altrove. I ricoverati gravi e i decessi sono molti perché moltissimi sono i contagiati, spesso senza sintomi o con sintomi leggeri. «Mandiamo e teniamo a casa in quarantena molte persone che hanno sintomi compatibili con il Covid. Facciamo tamponi solo a pazienti che stanno male». Mondelli dirige Malattie infettive II e Immunologia al San Matteo, uno dei centri avanzati della lotta all'epidemia. «È una vera emergenza - racconta - tutti i medici sono impegnati nei turni, anche chirurghi, oculisti, stiamo inventando anche un nuovo modo di lavorare e stiamo facendo scuola». E da studioso, oltre che da medico, Mondelli sottoscrive le misure prese in Lombardia, anche di recente. «Sì, interamente, anzi i cinesi hanno detto che siamo troppo permissivi. Là hanno adottato misure più drastiche, anche sui pazienti dimessi, che non sono tornati a domicilio ma in strutture ad hoc dove hanno atteso la negativizzazione. È uno sforzo enorme, fattibile in Cina, più difficilmente in Italia». Resta la domanda che tutti si fanno: perché in Lombardia colpisce di più? «La base degli infetti è molto ampia, il virus si è trasmesso attraverso persone asintomatiche che hanno contagiato altre. Su Bergamo, c'è stata una tardiva reazione nell'adozione di certo provvedimenti. La zona è molto popolata, e la mancanza di restrizioni ha fatto sì che il contagio si sia amplificato. In Veneto il focolaio era più piccolo, più sotto controllo, le persone si sono spostate poco. A Brescia e Bergamo c'è alta densità di popolazione, molte persone che si spostano e queste condizioni agevolano la diffusione. La fascia meridionale della Lombardia è stata più preservata, probabilmente dalla sua vocazione agricola, anche Pavia, separata da Milano da questa zona dedita all'agricoltura». Al momento, non ci sono evidenze sull'incidenza del Pm10. «Non aiuta il contagio - spiega il professore - ma aumenta la probabilità di broncopneumopatia cronica. Come il fumo che è un fattore di rischio riconosciuto di mortalità per Covid19». La contagiosità è oggetto di continue ricerche. Il San Matteo ha pubblicato uno studio sulla sopravvivenza del virus sulle varie superfici. Un altro è targato Usa. Quello americano fa vedere il virus in laboratorio, su diverse superfici, rame acciaio, cartone, e valuta in quanto tempo perde la sua infettività. Quello pavese, è «real life». «Prende in esame una situazione è di vita reale, studia la presenza del virus nei reparti, chiusi e puliti. Non abbiamo trovato virus sugli oggetti o sulle pareti. Solo su alcuni caschi. Conferma che in ospedale si può trasmettere prevalentemente per aerosol. Questa alta contagiosità si spiega quindi con tosse e starnuti che generano goccioline che restano sospese. Però il virus non resta a lungo fluttuante nell'aria, è meno contagioso del morbillo. Si ritiene che una persona affetta da Coronavirus ne contagi 4, una col morbillo 18». Gli studi sulle terapie corrono. «Le sperimentazioni sono state centralizzato dall'Aifa, comunque è probabile che il Tocilizumab venga presto distribuito negli ospedali. L'efficacia è stata più volte confermata. Il dubbio è sul momento della somministrazione. Se aumentasse la disponibilità potremmo farlo anche prima. Sconfessata l'efficacia degli antiretrovirali, si è smesso di usarli, ed è stata rivalutata la clorochina». La speranza di un vaccino c'è, ma non dietro l'angolo. «Le prime sperimentazioni sono partite la settimana scorsa, ma per maggio giugno potrebbero esserci i primi risultati. Si tratta di vaccini genetici. A Pavia siamo pionieri della terapia che usa il plasma dei donatori guariti. Abbiamo il plasma, siamo in attesa di partire con la sperimentazione. Prima del vaccino potrebbe arrivare l'immunizzazione passiva col plasma dei convalescenti».
Coronavirus, Roberto Burioni: "I contagi possono essere cinque volte più di quelli ufficiali". Libero Quotidiano il 23 marzo 2020. “Da medico non mi stupirei se nel nostro Paese i contagiati fossero cinque volte più di quelli ufficiali”. Roberto Burioni dice esattamente ciò che pensa a Che tempo che fa, dove ormai è diventato un ospite fisso da Fabio Fazio. D’altronde il noto virologo marchigiano ha più volte dimostrato di essere uno di quelli che sull’emergenza coronavirus è sempre stato onesto e le sue opinioni spesso trovano riscontro nella realtà. “Non dobbiamo guardare con particolare attenzione al numero dei contagi, perché è molto sottostimato”, dice Burioni che quindi alimenta la tesi secondo cui in Italia ci sarebbero oltre 200mila persone infette. “È difficile fare una stima precisa. Io da medico seguo una ventina di persone che hanno certamente il coronavirus - svela - ma a nessuno è stato fatto il tampone. In questo momento non è necessario fare il tampone a tutti, dobbiamo comportarci come se ognuno di noi fosse infetto”.
Simona Ravizza per corriere.it il 21 marzo 2020. «Nei conti del coronavirus non ci sono più né gli asintomatici, né di fatto chi è a casa con febbre, tosse e raffreddore ma non transita da un ospedale. Vuol dire che i potenziali contagiati potrebbero essere molti di più, anche il doppio rispetto alle statistiche. Occorre, quindi, aggiornare le strategie per gestire i pazienti a domicilio oltre che in ospedale». Vittorio Demicheli, epidemiologo dell’Ats di Milano (che comprende anche la provincia di Lodi) e dell’Unità di crisi del governatore Attilio Fontana, parla con franchezza.
Perché il numero di positivi accertati non corrisponde più alla realtà?
«Non sappiamo quanti pazienti si sono contagiati senza sviluppare sintomi o manifestando una normale influenza. Nel tempo l’aumento dei contagiati ha portato a spostare il test con tampone al momento del ricovero».
Ma non sarebbe meglio fare il tampone a tutti?
«Con una diffusione così a tappeto dell’epidemia noi al momento non lo consideriamo significativo. Per più d’un motivo. Innanzitutto l’esito del test è momentaneo: una persona può avere già contratto il virus, ma essere ancora negativa, oppure non averlo, ma mantenere senza saperlo contatti con soggetti positivi. Ogni quanti giorni dovremmo fare il tampone?».
Gli altri motivi?
«Chi ha la febbre ed è a casa ormai è molto probabile che abbia il Covid-19. Farlo andare in ospedale sarebbe ingestibile. E un’équipe può svolgere al domicilio non più di 20-25 tamponi al giorno e parliamo di migliaia di casi. Il tutto per un risultato che non influenza né la terapia né il modo di ridurre il contagio».
La soluzione allora qual è?
«Chi ha i sintomi deve adottare le precauzioni dei positivi accertati: isolarsi in casa e proteggere chi vive con lui. È importante che abbia il medico di famiglia che lo segue».
Finora non è stato così?
«Si, il medico di famiglia resta il punto di riferimento. Oggi, però, vorremmo che potesse restare in contatto con i pazienti a domicilio in modo sistematico e seguirne il decorso, attivando con le unità speciali di continuità assistenziale che stiamo costituendo una visita al domicilio quando serve».
Cosa vuol dire?
«Pensiamo che si possa ridurre molto l’attività di studio e mantenere un contatto continuo telefonico sia con i pazienti Covid-19, sia con chi ha sintomi influenzali, sia con i pazienti più fragili che devono essere incentivati a restare a casa e seguiti anche nei loro bisogni sociali».
Sorveglianza attiva?
«Esatto. All’Ats di Milano oggi abbiamo attivato un portale con un elenco di quasi 140 mila nominativi di persone da seguire da vicino. Ciascun medico di famiglia dovrà farsi carico dei propri pazienti. Monitorandoli al telefono giorno per giorno».
Ma gli asintomatici intanto senza tampone continuano a potersi muovere indisturbati.
«Non deve essere così ed è il grande equivoco. Tutti dovrebbero restare a casa».
Almeno i medici e gli infermieri non sarebbe meglio sottoporli al tampone?
«In questo momento è meglio che dispongano di dispositivi di sicurezza in abbondanza».
Coronavirus Milano, allerta casi sommersi: «Sono una marea, nessuno sa quanti». Pubblicato lunedì, 16 marzo 2020 su Corriere.it da Sara Bettoni e Gianni Santucci. Quanti saranno? Risposta del primo medico di base: «Una marea. Stanno male nelle loro case. Con le loro famiglie, che stanno infettando. Il numero vero non lo sapremo mai». Dunque, esiste un gran numero di pazienti Covid-19 «sconosciuti»? Risponde un secondo medico: «Se i pazienti non arrivano a una crisi respiratoria grave, non entrano ospedale. E così non saranno mai registrati. Ma hanno il coronavirus, questo è certo». È l’opinione di due medici di base, con studio in zona San Siro e Lambrate. Non esprimono certezze epidemiologiche, non hanno in mano i risultati dei tamponi. Ma entrambi sostengono: «Sono certezze che vengono dall’esperienza. Là fuori, in città, esiste un numero enorme di malati di coronavirus che se la “sfangheranno” da soli. Noi li sentiamo al telefono, sono tanti». Eccola, l’onda del Covid-19 che sta attraversando Milano. Con una proporzione che va ben oltre le statistiche ufficiali. E non perché si parli di pazienti «asintomatici». Ma perché il servizio sanitario è già saturo e dunque, secondo le linee guida diffuse ai medici di famiglia, con una decisione dettata dalla necessità, si sta scegliendo di tenere il più possibile i malati a casa. Sono i malati «sommersi». Per cercare di capire cosa stia accadendo, il Corriere ha sentito le voci di 8 medici di base. I «sommersi» esistono perché il servizio sanitario, già stremato, non potrebbe occuparsene. Spiega una dottoressa: «Le indicazioni dell’Ats sono chiare. Se avete pazienti con sintomi da Covid-19, trattateli come tali, considerateli “positivi”, monitorateli, stiano isolati come da legge. Ma segnalateli solo se hanno avuto con certezza contatti con un contagiato. Ma molte persone non lo sanno neppure se hanno avuto un contatto “a rischio”, e dunque stanno passando giorni e giorni in casa con la febbre a 39, con il terrore di peggiorare. Questo sento nella loro voce, quando li chiamo ogni mattina, il terrore». Riflette Roberto Scarano, medico di base e chirurgo: «Può essere anche una scelta corretta, ma noi dovremmo avere la possibilità di andare a visitare questi pazienti per capire davvero quali siano le loro condizioni, e invece non abbiamo sistemi di protezione. Dunque non riusciamo a farlo». Risultato: i malati entrano in ospedale soltanto quando sono in condizioni gravi, «in alcuni casi vicini al punto di non ritorno — riflette un altro medico di zona Ripamonti —. A quel punto il sistema si attiva col massimo sforzo, ma ormai può essere troppo tardi». Un’altra dottoressa sta cercando un’alternativa per non arrivare al «punto di non ritorno»: «Ai miei sospetti, ma di fatto sicuri casi Covid-19, se hanno un “saturimetro” in casa chiedo di fare le scale o camminare sei minuti e poi verificare la saturazione dell’ossigeno nel sangue. Se scende, vuol dire che il livello di rischio si sta alzando troppo». La stessa dottoressa, con studio in centro, ha avuto anche la controprova che molti malati «sommersi» siano casi di coronavirus che il sistema non intercetterà mai: «Ho una dozzina di pazienti con sintomi identici, febbre alta e tosse. Cinque di loro prima del decreto di chiusura sono andati in Engadina e lì sono rimasti. Hanno chiesto di fare il tampone, in Svizzera pagando è possibile. Per tutti e cinque, l’esito è stato quel che per me era già scontato: “positivi”». Irven Mussi, altro medico di base, studio in via Palmanova, riflette: «I casi che emergono sono la punta dell’iceberg. Il tampone ora si fa praticamente solo a chi va in ospedale perché già grave. Ma noi medici di base sentiamo tanti pazienti con sintomi più sfumati, che potrebbero essere malati di Covid-19. I numeri dei malati quindi non sono reali. Senza contare i portatori sani. Già a gennaio avevamo notato uno strano aumento di polmoniti interstiziali, anche a Milano. Noi medici stiamo ancora aspettando una nuova fornitura mascherine e guanti. Mi ha appena chiamato un collega, che ha la polmonite e dovrà stare a casa». Le persone conteggiate in «isolamento domiciliare» sono solo quelle con un tampone «positivo», ma non in condizioni gravi. L’Ats si sta organizzando con un numero dedicato per contattarle periodicamente e monitorarne le condizioni, ma serve personale. Sulla massa (e la problematicità) dei malati «sommersi», conclude il professor Massimo Galli, responsabile Malattie infettive del «Sacco»: «Difficile dire quanti sono i positivi al virus non conteggiati. Se si tiene come riferimento il numero di morti in Lombardia e lo si confronta con quello di altri posti dove sono stati fatti tamponi a tappeto, ci immaginiamo che ci siano tante persone con infezione che non abbiamo registrato e che stanno contribuendo a diffondere il virus. Magari sono già stati malati e guariti. Il punto sarebbe poter ricostruire i contatti degli infetti almeno nelle zone ancora non sconvolte dall’epidemia, per cercare di circoscrivere il contagio. Penso alle altre Regioni, ma anche a Milano, per poter vincere la battaglia in città. Aprire più laboratori e fare più tamponi? Per Milano è un problema che va preso in considerazione».
Quella folla silenziosa di asintomatici: "Una formidabile fonte di contagio". Studio Usa: per ogni caso certo, 5-10 non individuati. Doppia richiesta di Emilia Romagna e Toscana: test a tappeto pure qui. Enza Cusmai, Mercoledì 18/03/2020 su Il Giornale. Basta un esempio nostrano per capire come viaggia sotto traccia il contagio del coronavirus. Siamo a Milano, zona centro. Una signora ha tutti e due i genitori anziani malati. Dopo un ricovero e la loro situazione che è grave ma non gravissima, i due pazienti sono stati rispediti a casa. Uno dei due genitori è morto ieri. L'altro, che è in gravi condizioni, regge ancora assistito da due badanti e due infermieri. In questa situazione una badante ha una leggera febbre, la figlia pure e il genero anche. Sono stati tutti infettati? Nessuno lo sa, perché a queste persone è stato negato il tampone. Solo il coniuge ne ha diritto o chi presenta segni evidenti di malessere. Ma con ogni probabilità i due poveri anziani hanno già infettato almeno tre persone che possono circolare liberamente. Sono degli asintomatici che, come ha definito l'immunologo dell'Università di Firenze, Sergio Romagnani, «diventano una formidabile fonte di contagio». A dar man forte a questa tesi spunta un nuovo studio pubblicato su Science da Jeffrey Shaman, epidemiologo della Columbia University e autore dello studio realizzato con i colleghi dell'Imperial College di Londra. Gli scienziati dicono che per ogni caso noto di Covid-19 ce ne sarebbero altri 5-10 non individuati. LO STUDIO USA La ricerca è partita dal caso Cina dove, a fine gennaio, ben l'86% dei casi non sarebbe stato diagnosticato. Ma queste infezioni non documentate (che avevano sintomi lievi, limitati o assenti), sebbene meno contagiose, sono state la fonte di trasmissione per il successivo 79% dei casi certi. Quindi, in sostanza, per ogni caso confermato, ci sono probabilmente altre 5-10 persone con infezioni non rilevate. I ricercatori si sono concentrati sulla diffusione naturale del virus in Cina prima che il governo istituisse il divieto di viaggi e una politica di test aggressiva. Durante quel periodo, da dicembre dello scorso anno a fine gennaio, circa 6 casi su 7 non sono stati rilevati. Una situazione che sarebbe analoga a quella attuale negli Stati Uniti e in altri Paesi occidentali, dove i test non sono ancora ampiamente disponibili, hanno detto i ricercatori. «Se avremo 3.500 casi confermati negli Stati Uniti, potreste in realtà considerarne 35.000», ha dichiarato Shaman.
PIÙ TAMPONI Per gli studiosi, l'unico strumento da utilizzare, soprattutto agli inizi di un'epidemia, è l'uso dei tamponi «per ricostruire e spezzare sistematicamente le catene di contagio» ha detto Shaman «perché il tracciamento consente di isolare i contagiati non sintomatici e impedire che infettino altre persone, e di fornire loro cure tempestive (e sicure per il personale sanitario) nel caso manifestino i sintomi». Il caso Wuhan insegna. Dopo che nella città al centro del primo focolaio, sono iniziati i test a tappeto, il quadro è cambiato drasticamente. Col tempo, infatti, i tamponi hanno permesso di identificare circa il 60% dei soggetti positivi, rispetto al precedente 14%.
SORVEGLIANZA MASSIVA In Italia, il Veneto è l'unica regione che ha deciso di fare diagnosi a tutte le persone che hanno avuto molti contatti umani con potenziali infetti come il personale ospedaliero, le forze di polizia e i lavoratori più esposti. E l'immunologo Sergio Romagnani, dell'Università di Firenze chiede un cambio di prospettiva. Che, ieri, è stato raccolto dal presidente dell'Emilia Romagna, Stefano Bonaccini: «Cominceremo da chi lavora nella sanità e proseguiremo sugli altri cittadini, per primi i lavoratori, secondo un piano modulato sulle varie province che ho chiesto al commissario ad Acta all'emergenza, Sergio Venturi». Stessa richiesta dalla Toscana.
SCOVARE GLI UNTORI Romagnani sostiene quindi che sia «cruciale scovare le persone asintomatiche ma comunque già infettate». A rischio sono in particolare medici e infermieri che, essendo esposti al virus, sviluppano un'infezione asintomatica continuando a veicolarla tra loro e ai loro pazienti.
Mauro Evangelisti per “il Messaggero” il 18 marzo 2020. Covid-19, si cambia: ora nelle regioni si effettueranno molti più tamponi per cercare i positivi, a partire dai medici e dagli infermieri che lavorano negli ospedali. La Toscana ha addirittura acquistato mezzo milione di test sierologici per allargare i controlli a tutti. E Vincenzo De Luca, governatore della Campania, ieri alle 23.30 ha scritto su Twitter: «Un milione di test rapidi. Abbiamo deciso di acquistarli e utilizzarli per avviare una campagna di screening di massa». Passa il modello Veneto con il caso di scuola di Vo' Euganeo; o se preferite il modello della Corea del Sud. «Test, test, test: non puoi combattere un incendio con gli occhi bendati» ha detto Tedros Adhanom Ghebreyesus, numero uno dell'Organizzazione mondiale della Sanità. E ieri lo ha rilanciato anche Walter Ricciardi, consigliere del ministro della Salute e rappresentante italiano nell'Oms, che però ha precisato: «Non significa tamponi a tutti ma seguire le linee guida dell'Oms che sottolinea la necessità di fare test ai pazienti sintomatici con fattori di rischio». Ma dalle Regioni, per tutta la giornata di ieri, si sono succedute le prese di posizione dei governatori che promettono: faremo molti più tamponi. In sintesi: la linea iniziale sta cambiando, dai territori parte una spinta a svolgere molte più verifiche per trovare i positivi, ora che è chiaro che gli asintomatici non rilevati sono almeno una delle cause dell'inarrestabile diffusione dell'epidemia. In qualche modo sta passando la strategia del governatore del Veneto, Luca Zaia, sia pure con sfumature differenti: si va dal presidente delle Marche (una delle regioni più in sofferenza), Luca Ceriscioli, che promette test anche per gli asintomatici, a quello dell'Emilia-Romagna, Stefano Bonaccini, che annuncia: «Faremo molti più tamponi, a partire dagli operatori sanitari». Dalla Puglia, il professor Pierluigi Lopalco, consulente del governatore Emiliano, dice: «La richiesta di estendere i test con tampone ai medici asintomatici che abbiano avuto contatti con pazienti Covid è condivisibile, più test si fanno meglio è, ma è necessario adottare un strategia: fare i tamponi a caso non ha molto senso». In serata, interviene anche il comitato tecnico scientifico del governo sul coronavirus, dopo l'incontro con il rappresentante dell'Oms, Ranieri Guerra: «L'esortazione del direttore generale Tedros Adhanom Ghebreyesus è di aumentare il più possibile l'identificazione e la diagnosi su casi sospetti e contatti sintomatici di casi confermati. Non viene suggerita, al momento, la raccomandazione ad effettuare screening di massa». Da sindacati e ordini dei medici è però partita forte la richiesta di sottoporre ai test chi lavora in prima linea, spesso con scarsa protezione, negli ospedali. Su questo precisa il comitato scientifico: «Raccomandiamo l'esecuzione dei tamponi tra gli operatori sanitari per contenere quanto più possibile la diffusione del virus». Resta da comprendere come mai non sia stato fatto fino ad oggi. Bonaccini dall'Emilia-Romagna spiega che nella sua regione si andrà oltre allo screening negli ospedali: «Abbiamo deciso di fare molti più test, per scoprire eventuali positivi anche fra chi non ha sintomi. Partiremo da chi lavora nella sanità regionale e proseguiremo sugli altri cittadini, penso ai lavoratori». Ceriscioli (Marche): «Il dato emergente è di asintomatici che diffondono contagio, l'aumento dei tamponi diventa una strategia importante». Alessio D'Amato, assessore regionale del Lazio: «Noi abbiamo moltiplicato il numero di laboratori. Rispetteremo però le indicazioni del Ministero». Altro esempio: il Piemonte estende i test a tutti gli operatori sanitari, anche se asintomatici. E poi c'è la Campania che ha acquistato un milione di antibody determination kit. De Luca parla di sceening di massa, ma precisa che saranno usati su «pazienti sintomatici» e «consentono di avere un risultato non certo ma altamente probabile». Anche la Toscana usa apertamente l'espressione «screening di massa». Il governatore Enrico Rossi: «Acquisteremo 500mila test sierologici, ovvero del sangue. Pensiamo che lo screening di massa darà risultati importanti. Effettueremo analisi sui 60 mila dipendenti della sanità toscana e poi su quella privata; gli altri 400mila test saranno per i territori e i tamponi con prelievo del sangue saranno svolti da unità speciali».
Coronavirus: "Il 50-75% dei casi a Vo' sono asintomatici. Una formidabile fonte di contagio". Lettera dell'immunologo Romagnani alla Regione Toscana basandosi su una ricerca effettuata sugli ammalati del paesino veneto. "Ora bisogna cercare di scovare queste persone, perché nessuno le teme o le isola". La Repubblica il 16 marzo 2020. "La grande maggioranza delle persone infettate da Covid-19, tra il 50 e il 75%, è completamente asintomatica ma rappresenta una formidabile fonte di contagio". Lo scrive ai vertici della Regione Toscana, in previsione di un forte aumento di casi anche nella Regione, il professore ordinario di Immunologia clinica dell'Università di Firenze Sergio Romagnani sulla base dello studio sugli abitanti di Vo' Euganeo dove i 3000 abitanti del paese sono stati sottoposti a tampone. L'immunologo spiega che i dati forniti dallo studio effettuato su tutti gli abitanti di Vo' Euganeo mettono in evidenza due informazioni importantissime: "la percentuale delle persone infette, anche se asintomatiche, nella popolazione è altissima e rappresenta la maggioranza dei casi soprattutto, ma non solo, tra i giovani; e l'isolamento degli asintomatici è essenziale per riuscire a controllare la diffusione del virus e la gravità della malattia". Per Romagnani, quello adesso è cruciale nella battaglia contro il virus è "cercare di scovare le persone asintomatiche ma comunque già infettate perché nessuno le teme o le isola. Questo è particolarmente vero per categorie come i medici e gli infermieri che sviluppano frequentemente un'infezione asintomatica continuando a veicolare l'infezione tra loro e ai loro pazienti". E ancora: "Si sta decidendo di non fare più il tampone ai medici e agli infermieri a meno che non sviluppino sintomi. Ma alla luce dei risultati dello studio di Vo', questa decisione può essere estremamente pericolosa; gli ospedali rischiano di diventare zone ad alta prevalenza di infettati in cui nessun infetto è isolato". A Vo' - sottolinea Romagnani - con l'isolamento dei soggetti infettati il numero totale dei malati è scesa da 88 a 7 (almeno 10 volte meno) nel giro di 7-10 giorni. L'isolamento dei contagiati (sintomatici o non sintomatici) non solo risultava capace di proteggere dal contagio altre persone, ma appariva in grado di proteggere anche dalla evoluzione grave della malattia nei soggetti contagiati perché il tasso di guarigione nei pazienti infettati, se isolati, era nel 60% dei casi pari a soli 8 giorni.
Francesco Bernasconi per ilgiornale.it il 21 marzo 2020. Le persone con il gruppo sanguigno A potrebbero essere leggermente più vulnerabili al coronavirus. È quanto emerge da uno studio, effettuato dai ricercatori cinesi della Southern University of Science and Technology di Shenzhen. L'indagine, pubblicata sul sito MedRxiv, è stata portata avanti su migliaia di pazienti, ricoverati in due ospedali di Wuhan, epicentro della pandemia e in un ospedale a Shenzhen, in Cina. La ricerca ha preso in considerazione 2.173 pazienti, risultati positivi al Covid-19: i medici hanno analizzato il loro sangue, mettendolo a confronto con quello di 3.694 abitanti sani di Wuhan e di 23.386 a Shenzhen. Analizzando i risultati, i ricercatori hanno concluso che "il gruppo sanguigno A presenta un rischio significativamente più elevato di Covid-19" rispetto agli altri gruppi sanguigni. Al contrario, i soggetti del gruppo 0 sembrano avere "un rischio significativamente più basso per la malattia infettiva". Infatti, dai dati emerge che, tra i pazienti degli ospedali di Wuhan, il 37,75% dei contagiati ha gruppo sanguigno A, mentre solo il 9,10% ha il gruppo 0. Dei 206 deceduti al Wuhan jinyintan hospital a causa del virus, il 41,26% aveva il sangue di tipo A, mentre solo il 25% circa delle vittime apparteneva al gruppo 0. La differenza potrebbe essere spiegata con la presenza di alcuni anticorpi in un particolare gruppo sanguigno, ma per confermare i dati della ricerca sono necessari altri studi. Infatti, l'indagine è ancora di tipo preliminare e, per essere certi dell'influenza del gruppo sanguigno nel contagio da Covid-19, serviranno ulteriori approfondimenti. Lo studio potrebbe aitare anche gli operatori sanitari, perché quelli appartenenti al gruppo A "potrebbero aver bisogno di una protezione personale particolarmente rafforzata per ridurre il rischio di infezione". Nonostante questi dati, però, il dottor Gao Yingdai, ricercatore nella città di Tianjin, ha dichiarato: "Se sei di tipo A, non è necessario farsi prendere dal panico. Ciò non significa che sarai infettato al 100 percento. E se sei di tipo 0, non significa nemmeno che sei assolutamente al sicuro. Devi sempre lavarti le mani e seguire le linee guida emesse dalle autorità".
· L’Incubazione.
Coronavirus, "già contagiosi 2-3 giorni prima dei sintomi". Margherita Lopes su adnkronos.com il 15/04/2020. A favorire la diffusione di Sars-CoV-2 potrebbe aver contribuito il fatto che i pazienti possono iniziare a trasmettere il coronavirus 2-3 giorni prima della comparsa dei sintomi. Insomma, si è già contagiosi quando ancora non si sta male, e magari ci si muove liberamente e senza troppe precauzioni. Lo suggerisce uno studio di modellizzazione pubblicato su 'Nature Medicine' dal team di Eric Lau dell'Università di Hong Kong, Centro collaboratore dell'Organizzazione mondiale della sanità per l'epidemiologia e il controllo delle malattie infettive. Diversi fattori possono influenzare l'efficacia delle misure di controllo mirate a prevenire la diffusione di Sars-CoV-2. Tra questi, il tempo trascorso tra i casi successivi in una catena di trasmissione (intervallo seriale) e il periodo che intercorre tra l'esposizione a un'infezione e la comparsa di sintomi (periodo di incubazione). Se l'intervallo seriale è più breve del periodo di incubazione, ciò indica che la trasmissione potrebbe essere avvenuta prima della manifestazione di sintomi evidenti. Di conseguenza, le misure che scattano nel momento in cui compaiono i sintomi possono avere un effetto ridotto nel riuscire a controllare la diffusione del virus. Eric Lau e i suoi colleghi hanno studiato i modelli temporali della diffusione virale in 94 pazienti con Covid-19 ricoverati al Guangzhou Eighth People's Hospital in Cina. I tamponi della gola sono stati raccolti da quando i sintomi sono comparsi per la prima volta in questi pazienti fino a 32 giorni dopo. In totale, sono stati analizzati 414 tamponi, così i ricercatori hanno scoperto che i pazienti presentavano la più alta carica virale all'inizio dei sintomi. Separatamente, gli studiosi hanno modellato i profili di infettività di Covid-19 da un diverso campione di 77 'coppie di trasmissione' a partire da dati pubblici. Ciascuna coppia comprendeva due pazienti con Covid-19 e un chiaro legame epidemiologico, con uno dei due che aveva elevate probabilità di aver infettato l'altro. Da questo modello gli studiosi hanno dedotto che la contagiosità è iniziata in media circa 2 giorni e mezzo prima della comparsa dei sintomi e ha raggiunto il picco 0,7 giorni prima della loro manifestazione. Secondo le stime dei ricercatori, ben il 44% dei casi secondari è stato infettato durante la fase pre-sintomatica. Infine la contagiosità si è ridotta rapidamente entro 7 giorni. Pur evidenziando alcuni limiti della ricerca, perché gli stessi autori ammettono che potrebbe esserci un ritardo nel riconoscimento dei primi sintomi, lo studio mette in luce un periodo 'finestra' in cui un paziente è già contagioso pur senza sapere di essere malato.
Coronavirus, quarantena (contumacia): cos'è e cosa si rischia. Il Governo ha previsto la misura, con sorveglianza attiva, specificandone le ipotesi di applicabilità, al fine di contenere la diffusione dell’epidemia da Covid-19. Laura Biarella, Professionista – Avvocato. Pubblicato su Altalex il 26/02/2020. L’Ordinanza del Ministero della Salute del 21 febbraio 2020 e il D.L. 23 febbraio 2020, n. 6 al fine di contenere la diffusione dell’epidemia da Coronavirus (Covid-19) hanno previsto, specificando le ipotesi di applicabilità, la misura della quarantena con sorveglianza attiva.
Cos'è la quarantena. Viene definita come “Periodo di isolamento (originariamente di 40 giorni) al quale vengono sottoposti persone, animali e cose ritenuti portatori di agenti infettivi. La sua durata differisce fra le varie malattie, in rapporto al relativo periodo d’incubazione” (enciclopedia Treccani). Altrimenti detta “contumacia” (vocabolario Treccani), intorno al 1350 è originata dall'isolamento di 40 giorni di navi e persone prima di entrare nella laguna della Repubblica di Venezia, misura messa in atto a scopo preventivo contro la peste nera.
Quantificazione della quarantena per il Covid-19. Il periodo è stato fissato in due settimane (14 giorni), così parametrandolo al periodo di incubazione. Sul portale web dell’OMS si apprende infatti che tale è l'intervallo di tempo tra l'infezione e l'insorgenza dei sintomi clinici della malattia. Le stime attuali suggeriscono che il periodo di incubazione, del virus in questione, varia tra 1 e 12,5 giorni, con una media stimata di 5-6 giorni. Tali stime saranno adeguate man mano che saranno disponibili maggiori dati. Dalla stessa fonte si apprende che, in base alle informazioni disponibili su ulteriori malattie causate da coronavirus (inclusi MERS e SARS), è stato stimato che il periodo di incubazione di 2019-nCoV potrebbe durare fino a 14 giorni. L'OMS raccomanda che il follow-up dei contatti dei casi confermati sia di 14 giorni.
L’Ordinanza del Ministero della Salute del 21 febbraio 2020. Recante “Ulteriori misure profilattiche contro la diffusione della malattia infettiva COVID-19”, ha validità 90 giorni decorrenti dal 21 febbraio, e all’articolo 1 prevede due obblighi:
le Autorità sanitarie territorialmente competenti devono applicare la misura della quarantena con sorveglianza attiva, per giorni quattordici, agli individui che abbiano avuto contatti stretti con casi confermati di malattia infettiva diffusiva COVID-19; gli individui che, negli ultimi quattordici giorni (rispetto al 21 febbraio), hanno fatto ingresso in Italia dopo aver soggiornato nelle aree della Cina interessate dall'epidemia, come identificate dall'OMS, devono comunicare tale circostanza al Dipartimento di prevenzione dell'azienda sanitaria territorialmente competente.
La permanenza domiciliare fiduciaria. Acquisita la comunicazione di aver soggiornato in Cina, l'Autorità sanitaria territorialmente competente deve provvedere all'adozione della misura della permanenza domiciliare fiduciaria con sorveglianza attiva ovvero, in presenza di condizioni ostative, di misure alternative di efficacia equivalente.
Il d.l. 23 febbraio 2020, n. 06. Stante il propagarsi dell’epidemia da coronavirus, il Governo, domenica 23 febbraio 2020, ha emanato un decreto legge, così prevedendo “Misure urgenti in materia di contenimento e gestione dell'emergenza epidemiologica da COVID-19”, che contempla diversi divieti per le persone comunque presenti nelle zone rosse, o comuni focolaio (identificati 10 in Lombardia e 1 in Veneto), tra cui il divieto di allontanamento dal comune o dall'area interessata. Tali soggetti non sono stati messi in quarantena, non essendo stato vietato di uscire da casa, e neppure di raggiungere gli ulteriori comuni ricompresi nella zona rossa, tuttavia è stato consigliato di limitare il più possibile i luoghi pubblici e di rimanere in ambienti domestici, mettendo in atto i consigli di igiene dettati sia dal Ministero della Salute che dall'Organizzazione Mondiale della Sanità.
La quarantena per chi ha avuto contatti stretti coi casi confermati. Il decreto legge 23 febbraio, n. 6 (articolo 1, lettera h) ha limitato l’applicazione della misura della quarantena con sorveglianza attiva, confermando quanto già prescritto dall’Ordinanza del Ministero della Salute di due giorno prima, agli individui che hanno avuto contatti stretti con casi confermati di malattia infettiva diffusiva.
Le sanzioni. L’art. 3 del d.l. n. 6 del 23 febbraio 2020, al comma IV statuisce che “Salvo che il fatto non costituisca più grave reato, il mancato rispetto delle misure di contenimento di cui al presente decreto è punito ai sensi dell'articolo 650 del codice penale”. La sanzione, per l’inosservanza di un provvedimento dato dall'Autorità per ragione di giustizia o di sicurezza pubblica, o d'ordinepubblico o d'igiene, è:
l'arresto fino a tre mesi,
l'ammenda fino a 206,00 euro.
Nonostante l’Ordinanza del 21 febbraio non richiami esplicitamente l’art. 650 c.p., questo deve ritenersi comunque operante, stante la natura di “provvedimento dato dall'Autorità per ragione di giustizia o di sicurezza pubblica, o d'ordinepubblico o d'igiene”.
Art. 650 c.p. Inosservanza dei provvedimenti dell'autorità. "Chiunque non osserva un provvedimento legalmente dato dall'autorità per ragione di giustizia o di sicurezza pubblica o d'ordine pubblico o d'igiene, è punito, se il fatto non costituisce un più grave reato, con l'arresto fino a tre mesi o con l'ammenda fino a euro 206".
Bergamo, il timore dei medici: "Siamo ancora contagiosi dopo tre settimane". Gli operatori lanciano l'allarme: "Pensate al cittadino che sta a casa e una volta passate febbre e tosse va a incontrare amici e parenti pur essendo ancora potenzialmente effettivo". Luca Sablone, Domenica 22/03/2020 su Il Giornale. "Ho ripetuto il test il 20, dopo oltre 7 giorni dalla fine dei sintomi, ed era ancora positivo. Questo fa pensare che si rimane contagiosi a lungo anche dopo la guarigione clinica completa". Questo lo scenario che si è verificato per un'operatrice del reparto di Medicina interna dell'ospedale Papa Giovanni XXII di Bergamo dopo essere risultata positiva al Coronavirus il 9 marzo. E la situazione riguarderebbe anche altri medici: "Sono molti i colleghi nella mia condizione". Eppure loro sono super controllati: "Pensi al cittadino che sta a casa e una volta passate febbre e tosse va a incontrare amici e parenti pur essendo ancora potenzialmente effettivo". La dottoressa ha spiegato a Il Fatto Quotidiano di aver lavorato fino al primo marzo, avendo contatti con pazienti poi risultati infettati; quella notte avrebbe iniziato a manifestare i primi sintomi tra febbre alta, tosse e dispnea che nei giorni successivi sono peggiorati. Non è stato necessario ricorrere al ricovero, ma ha deciso comunque di restare a casa: "Poi il 9 marzo ho fatto il primo tampone, che è risultato positivo". Le linee guida dell'Istituto superiore di sanità stabiliscono che un soggetto positivo al virus Sars-Cov2 faccia un nuovo test non prima di 7 giorni dalla fine dei sintomi: se questo risulta negativo "si fa un'altra analisi dopo 24 ore e se anche questa è negativa si può tornare al lavoro". Nella giornata di venerdì, a distanza di 7 giorni in cui è stata asintomatica (ovvero quando si può parlare di guarigione clinica) è risultata ancora positiva: "E quindi ancora contagiosa. La stessa cosa è accaduta al mio compagno, anche lui medico. Questa cosa è capitata a molti colleghi, anche in altri reparti".
La questione tamponi. Claudio Farina ha confermato: "Sì, si sono verificati dei casi di positività che eccede i 14 giorni, in questo momento non so quantificarglieli. Non sono molti, non è la norma, ma ci sono". Il direttore del Dipartimento di microbiologia del Papa Giovanni XXIII ha dunque ribadito che "se una persona è tornata asintomatica il rischio che diffonda il virus è basso. Anche se non vuol dire che non ci sia". Proprio sulla questione degli asintomatici gli esperti si sono divisi, dopo l'annuncio di Luca Zaia di voler andare alla ricerca di pazienti positivi al Coronavirus ma inconsapevoli di esserlo, ponendo una particolare attenzione nei confronti di medici, infermieri e sanitari. Nel frattempo si innalza il coro per chiedere un nuovo metodo di rilevazione dei contagi: il viceministro della Salute Pierpaolo Sileri sostiene che "sarebbe utile un’estensione a coloro che hanno sintomi che non siano necessariamente febbre e difficoltà respiratorie".
Coronavirus, periodo di incubazione più lungo: «Allungare la quarantena». Pubblicato venerdì, 20 marzo 2020 su Corriere.it da Cristina Marrone. Quanto è davvero lungo il periodo di incubazione di Sars Cov-2? La quarantena di 14 giorni basta? Sull’ argomento sono stati svolti molti studi e finora la comunità scientifica concorda che le persone sviluppano sintomi in media 5 giorni dopo l’esposizione al virus e anche durante questo periodo, quando non ci sono segni della malattia, le persone possono essere contagiose (secondo una ricerca pubblicata sul British Medical Journal il 73% dei contagi avviene quando il soggetto senza sintomi si trova ancora nel periodo di incubazione, in particolare negli ultimi tre dei famosi 14 giorni) . In una ricerca pubblicata su Annals of Internal Medicine su casi cinesi si era visto che il periodo mediano di incubazione era stato stimato in 5,1 giorni e il 97,5% di coloro che avevano sviluppato sintomi lo avevano fatto entro 11,5 giorni dall’infezione. Altre ricerche sono arrivate a risultati simili e per questo il periodo di quarantena dei soggetti a rischio o positivi è stata stabilita su 14 giorni. Ora però un nuovo studio dell’Università di Shanghai MedrXiv, che raccoglie gli studi non ancora validati dalla comunità scientifica, mette in parte in discussione il periodo di incubazione che sembrerebbe più lungo di quasi due giorni rispetto ai 5 finora stimati sulla base dei malati ricoverati in ospedale. Per questo i ricercatori suggeriscono che sarebbe opportuno estendere di altri 4-7 giorni la quarantena di 14 giorni, facendola durare dai 18 ai 21 giorni. Secondo il gruppo di Xue Jiang, perché le misure di controllo siano più efficaci, è fondamentale arrivare ad un periodo ottimale di quarantena e isolamento per circa il 95% dei casi che sviluppino sintomi. I ricercatori si sono chiesti se l’attuale periodo di 14 giorni sia quello ottimale. Per rispondere alla loro domanda, hanno analizzato i dati su 2015 casi confermati, tra cui 99 bambini, raccolti tra 28 province cinesi, alcuni dei quali ricoverati in ospedale, e altri no. Hanno così potuto vedere che il periodo di incubazione è oscillato da 0 a 33 giorni. Quello più frequente, per maschi e femmine, è stato di 7 giorni, più breve dei 9 giorni dei bambini. Per l’11,6% dei casi il periodo è stato più lungo. In generale, secondo i ricercatori, l’intera popolazione di malati adulti, sia ricoverati che non, ha avuto un periodo di incubazione mediano di 7 giorni, che è 1,8 giorni più lungo dei casi ricoverati in ospedale segnalati in precedenza. Lo studio conclude che se si allungasse il periodo di isolamento per gli adulti di 4-7 giorni, arrivando quindi in totale a 18-21 giorni, si avrebbe una prevenzione e un controllo del virus più efficace. «Con l’attuale periodo di 14 giorni, secondo i ricercatori, si riuscirebbe a catturare solo l’88% degli infetti», rileva l’epidemiologa Stefania Salmaso intervistata dall’Ansa. «Indubbiamente - continua Salmaso - questi dati sono un tassello in più sulla conoscenza del virus e di come si comporta, che ci può essere utile ai fini delle misure restrittive». Alcune eccezioni sul periodo di incubazione di 14 giorni erano già state registrate. Un caso con un periodo di incubazione di 27 giorni era stato segnalato dal governo locale della provincia di Hubei il 22 febbraio. Un quotidiano locale ha riferito di un uomo di 70 anni che ha sviluppato i sintomi solo il 19 febbraio, dopo un unico incontro con la sorella il 25 gennaio. La conferma del contagio della sorella era arrivata poco dopo questa data. Inoltre, era stato osservato un caso con un periodo di incubazione di 19 giorni in uno studio JAMA pubblicato il 21 febbraio e in uno studio del 9 febbraio è stato osservato per la prima volta un periodo anomalo di un periodo di incubazione di 24 giorni. Il nuovo studio non parla di singoli casi ma ha preso in esame moltissimi casi e ha analizzato i dati di oltre duemila riuscendo a intercettare un periodo mediano di incubazione.
· La Trasmissione del Virus.
E se in inverno il virus si diffonde di più perché viaggia in aerosol sull’umidità e sull'inquinamento come le polveri sottili?
Perché in inverno ci si ammala di più (anche di Covid). Come proteggersi. Silvia Turin su Il Corriere della Sera il 27/10/2020. Il SARS-CoV-2 non sembra essere influenzato particolarmente dalla stagionalità come altri virus respiratori (lo dice anche un recente studio su Nature), infatti ci si può ammalare anche in estate (è successo in varie parti del mondo), ma siamo noi a essere più deboli in inverno: durante la stagione fredda, infatti, siamo più esposti nei confronti dei virus a trasmissione aerea, come il SARS-CoV-2. Ecco perché.
Il freddo paralizza le cellule «cigliate». Ammalarsi in inverno di un virus che attacca le vie respiratorie è più facile. E lo è anche per il coronavirus. L’ambiente invernale promuove la diffusione di una varietà di infezioni da virus respiratori. I due principali fattori che contribuiscono sono i cambiamenti nei parametri ambientali (in particolare la temperatura e l’umidità) e nel comportamento umano (la frequentazione maggiore di spazi chiusi). Umidità assoluta e umidità relativa influenzano l’importante meccanismo di difesa del nostro apparato respiratorio chiamato clearance mucociliare: le cellule “cigliate” che si trovano nella trachea e che sono deputate a spostare verso l’esterno il muco, che ingloba polveri e minuscoli corpi estranei, compresi virus e batteri, penetrati nelle vie aeree. Il freddo paralizza il movimento di queste “ciglia” e di conseguenza il muco ristagna con tutta la sua carica virale o batterica. L’effetto negativo del freddo sulla clearance mucociliare è amplificato dallo sbalzo termico che si verifica nel passaggio dall’ambiente interno molto caldo e quello esterno particolarmente gelido (ma anche viceversa).
Lo studio da Yale. Non è solo il freddo a bloccare il movimento che ci protegge: l’umidità ha un notevole impatto perché quando scende troppo (o sale troppo) blocca l’azione delle le cellule “cigliate”, come ricordato in una revisione di studi pubblicata a settembre su Annual Review of Virology. Nello studio, condotto a Yale, si riassumono i fattori che spingono la stagionalità dei virus infettivi, focalizzandosi sull’umidità assoluta (AH) e relativa (RH). I valori dell’umidità assoluta esprimono la quantità di vapore acqueo presente nell’aria, di solito in grammi per metro cubo. Quello che incide sulla percezione di un’aria respirata secca o umida è invece l’umidità relativa (il rapporto tra la densità del vapore contenuto nel volume di aria e la densità massima che questo volume può contenere). Possiamo avere lo stesso valore di umidità assoluta, ma a zero gradi l’ambiente può avere il 100% di umidità relativa (nebbia), oppure, a una temperatura di 30 gradi, centigradi la stessa umidità assoluta ci fa arrivare a un 15% di umidità relativa che per noi rappresenta un caldo secco e asciutto di solito piacevole.
L’aria secca non fa bene. Questo per dire che in inverno la temperatura esterna influenza quella degli spazi chiusi: quindi un’umidità assoluta bassa fuori si traduce in bassa umidità relativa interna e la bassa umidità blocca le nostre difese: la classica “gola secca” è espressione del blocco del meccanismo delle cellule “cigliate” e quindi della maggior suscettibilità delle persone all’attacco dei virus respiratori. Il virus dell’influenza, il coronavirus umano e il virus respiratorio sinciziale umano (RSV) mostrano chiaramente i picchi di incidenza nei mesi invernali, ci ricorda lo studio Usa, come anche il virus della parainfluenza (PIV). Le varie ricerche in merito indicano che alta umidità relativa (> 60%) e bassa (<40%) favoriscano la vitalità dei virus influenzali nelle goccioline respiratorie emesse da soggetti infetti, mentre in condizioni di umidità relativa intermedia (dal 40% al 60%) i virus vengono inattivati. La trasmissione virale era generalmente più efficiente a 5 ° C rispetto a 20 ° C indipendentemente dal altri fattori. «A differenza delle regioni temperate, le infezioni respiratorie hanno poca stagionalità nelle regioni tropicali. Uno studio incentrato su questo aspetto ha mostrato che non è stata osservata alcuna trasmissione di aerosol a 30 ° C con qualsiasi umidità, nonostante la trasmissione per contatto fosse più diffusa e paragonabile a 30 e 20 ° C. Pertanto, una temperatura ambiente elevata probabilmente nega l’effetto dell’umidità sulla trasmissione dell’influenza nelle zone tropicali», si legge nello studio.
Attenzione a respirare aria fredda. Pertanto, un’umidità ideale per prevenire la trasmissione virale respiratoria da aerosol a temperatura ambiente sembra essere compresa tra il 40% e il 60% di umidità relativa. L’inalazione di aria secca provoca la perdita immediata delle ciglia epiteliali delle vie aeree, il distacco delle cellule epiteliali e l’infiammazione della trachea delle cavie. L’inalazione di aria fredda, che è sempre secca a causa della limitata capacità di accumulo d’acqua dell’aria fredda, provoca il deterioramento del meccanismo di difesa mucociliare. Uno studio sull’effetto della temperatura ambiente sulla frequenza del battito ciliare delle cellule ciliate nasali e tracheali isolate da soggetti umani ha mostrato che il battito mucociliare inizia a diminuire quando la temperatura scende al di sotto di 20 ° C e non è più osservato a 5 ° C, perché il freddo altera i meccanismi di difesa antivirale. In inverno e in ambienti interni secchi le vie aeree si difendono meno.
Sciarpa e umidificatori. Come possiamo aiutare le vie aeree a reagire meglio? Sostanzialmente, anche se sembra banale, proteggendo (e scaldando) il naso all’aperto (con sciarpa, ma anche in questo periodo, mascherina) e utilizzando umidificatori di aria in casa, senza tenere i riscaldamenti altissimi. «Tali interventi con umidificatori sono stati realizzati a partire dagli anni ‘60 con risultati promettenti», specifica lo studio di Yale. «Più recentemente – aggiunge - , uno studio nel Minnesota ha rilevato che l’umidificazione delle aule prescolari da gennaio a marzo fino a circa il 45% di umidità relativa si traduce in una significativa riduzione del numero totale di virus influenzali e di copie del genoma virale trovati nell’aria e sugli oggetti». La sciarpa serve quindi a garantire il funzionamento ottimale dell’apparato mucociliare tenendo al caldo le vie aeree, gli umidificatori di ambienti servono a non seccare troppo l’aria interna (bene anche gli umidificatori da calorifero). Infine, anche aprire le finestre e ventilare gli ambienti (oltre che a favorire il ricambio dell’aria) aiuta a stabilizzare le condizioni di umidità relativa in casa o negli uffici.
Il Covid-19 non è stagionale. Ovviamente nel caso del recente Covid-19 non sono solo umidità e temperatura le variabili in gioco (come detto all’inizio): la trasmissione tra persone avviene in qualsiasi momento dell’anno e piuttosto dipende anche dalla durata del contatto con un soggetto positivo, dalla vicinanza, dall’ampiezza degli spazi e da quanto le persone si proteggono con le mascherine e le altre misure che conosciamo. L’inverno però, per i meccanismi descritti, può facilitare l’ingresso dei virus e indebolire i nostri meccanismi di difesa.
Pregliasco: "Con freddo intenso terza ondata Covid più pesante". Da adnkronos.com il 22/12/2020. Un inverno particolarmente gelido potrebbe aggravare la terza ondata di Covid-19, considerata ormai cosa certa dagli esperti. Il fattore climatico, "con un freddo intenso - avverte il virologo dell'università Statale di Milano Fabrizio Pregliasco parlando con l'Adnkronos - potrebbe effettivamente renderla più pesante favorendo la diffusione del coronavirus Sars-CoV-2". E "a peggiorare le cose potrebbe arrivare anche lo scoppio dell'epidemia di influenza", al momento non ancora partita nel nostro Paese. Un'infezione contro la quale, nonostante le raccomandazioni di specialisti e autorità sanitarie, "non tutti gli italiani che avrebbero voluto sono riusciti a vaccinarsi" proprio per la mancanza della materia prima: l'iniezione-scudo, quest'anno un 'miraggio' in alcune regioni per le categorie escluse dalle campagne vaccinali pubbliche. "Gli sbalzi termici, come ben noto - spiega Pregliasco all'Adnkronos Salute - facilitano le infezioni respiratorie dei virus simil-influenzali, mentre l'influenza scatta quando le temperature sono rigide e permangono tali per diversi giorni di seguito. Per il Covid sicuramente, come per tutte le infezioni respiratorie, con un freddo intenso è presumibile possa esserci un'ulteriore facilitazione nella diffusione. Proprio perché il freddo, gli sbalzi termici, provocano un'alterazione della cosiddetta clearance mucociliare, il sistema di continuo rinnovo del muco dell'albero respiratorio, che funziona da una barriera contro le infezioni". Il timore condiviso dal virologo è dunque che, se con l'ingresso nell'inverno il freddo arriverà e permarrà intenso, le cose potrebbero complicarsi anche per l'andamento dell'emergenza pandemica. Il tutto proprio nel pieno della campagna di profilassi anti-Covid.
Coronavirus: il punto su trasmissione, diffusione e permanenza sulle superfici e nell'aria. Ars-toscana.it il 15/9/2020. Il nuovo coronavirus è un virus respiratorio che si diffonde principalmente attraverso le goccioline del respiro delle persone infette (droplets) quando ad es. starnutiscono o tossiscono o si soffiano il naso, e attraverso gli atti del cantare o del parlare con enfasi. Altri meccanismi di trasmissione riconosciuti sono il contatto diretto ravvicinato, toccando con le mani contaminate le mucose di bocca, naso e occhi, raramente la via fecale-orale e, non ultimo, il contatto mani-mucose con superfici contaminate. Le evidenze scientifiche al momento disponibili indicano che il tempo di sopravvivenza del virus sulle superfici varia in relazione al tipo di superficie considerata. Bisogna anche considerare che i dati finora disponibili, essendo generati da condizioni sperimentali, devono essere interpretati con cautela, tenendo anche conto del fatto che la presenza di RNA virale non indica necessariamente che il virus sia vitale e potenzialmente infettivo.
Coronavirus e superfici. Il recente rapporto dell'Istituto superiore di sanità riguardo le raccomandazioni sulla sanificazione di strutture non sanitarie nell’attuale emergenza COVID-19 (superfici, ambienti interni e abbigliamento) e la circolare 22 maggio 2020 del ministero della Salute riportano i tempi di rilevazione di particelle virali sulle superfici più comuni, variabili da alcune ore (come ad es. sulla carta) fino a diversi giorni (come sulla plastica e l’acciaio inossidabile), citando i dati sperimentali prodotti in alcuni recenti studi. Per la risposta alle domande più frequenti sul tema, consulta anche la sezione Superfici e igiene nelle FAQ predisposte dal Ministero della Salute Chin et al. hanno dimostrato che in condizioni di laboratorio, virus in forma infettiva veniva rilevato per periodi inferiori alle 3 ore su carta da stampa e carta per uso igienico, fino a 24 ore su legno e tessuti, e 3-4 giorni su superfici lisce quali acciaio e plastica [Chin AWH, et al. Stability of SARS-CoV-2 in different environmental conditions. Il virus persisteva sul tessuto esterno delle mascherine chirurgiche fino a 7 giorni (∼0,1% dell'inoculo originale). Inoltre, van Doremalen et al., hanno dimostrato che il virus infettante è rilevabile, in condizioni di laboratorio, fino a 4 ore su rame, 24 ore su cartone, 48 ore sull’acciaio e 72 ore su plastica, a 21-23°C e con un’umidità relativa del 40% [van Doremalen N, Bushmaker T, Morris DH, Holbrook MG, Gamble A, Williamson BN, et al. Aerosol and Surface Stability of SARS-CoV-2 as Compared with SARS-CoV-1. New England Journal of Medicine. 2020]. Altri studi recenti effettuati sulla sopravvivenza di coronavirus umani su diverse tipologie di superfici mostrano che, in condizioni sperimentali, tali virus possono sopravvivere da 48 ore fino a 9 giorni a seconda della matrice/materiale, della concentrazione, della temperatura e dell’umidità [Kampf G, Todt D, Pfaender S, Steinmann E. Persistence of coronaviruses on inanimate surfaces and their inactivation with biocidal agents. Journal of Hospital Infection 2020;104(3):246-51]. Uno studio in particolare ha mostrato persistenza di coronavirus umani HCoV-OC43 e HCoV-229E su guanti chirurgici in lattice sterili in un intervallo che andava da meno di un’ora a 3 ore [Sizun J, Yu MW, Talbot PJ. Survival of human coronaviruses 229E and OC43 in suspension and after drying on surfaces: a possible source of hospital-acquired infections. J Hosp Infect 2000;46(1):55-60. doi:10.1053/jhin.2000.0795.]. Per prevenire l'infezione è comunque importante tenere pulite le superfici. L’utilizzo di semplici disinfettanti è in grado di uccidere il virus annullando la sua capacità di infettare le persone, per esempio disinfettanti contenenti alcol (etanolo) al 75% o a base di cloro all’1% (candeggina). Occorre anche disinfettare sempre gli oggetti che si usano frequentemente (telefono cellulare, auricolari, microfono) con un panno inumidito con prodotti a base di alcol o candeggina (tenendo conto delle indicazioni fornite dal produttore).
Coronavirus nell'aria. Sono in corso studi sulla capacità dei virus di attaccarsi alle polveri sottili presenti nell’aria e di essere così trasportati dal vento per ampie distanze o restare in sospensione nell’aria ma ad oggi non ci sono evidenze scientifiche pienamente consolidate che il particolato atmosferico possa essere vettore per la diffusione del SARS-CoV-2 nell'aria al di là delle distanze di sicurezza, ovvero in assenza di sistemi che producono aerosol che invece possono trovarsi in ambiente ospedaliero nell’assistenza a pazienti COVID-19. Leggi la nota ISS.
Coronavirus e aerosol. Allo stato attuale delle conoscenze, la trasmissione mediante particelle di dimensioni inferiori ai 5 μm non è riconosciuta; tuttavia alcune procedure eseguite in ambiente sanitario possono generare aerosol: intubazione tracheale, aspirazione bronchiale, broncoscopia, induzione dell'espettorato, rianimazione cardiopolmonare. Tali operazioni richiedono pertanto particolari misure di protezione (tra cui utilizzo di DPI, quali FFP2 con schermo facciale) come raccomandato anche dall’OMS. Studi recenti basati su campionamenti dell’aria nelle immediate vicinanze di pazienti affetti da COVID-19 aventi carica virale significativa nelle loro secrezioni respiratorie, non hanno rilevato tracce di RNA del virus; al contrario, RNA virale è stato identificato su superfici nelle immediate vicinanze del paziente[Ong SW, Tan YK, Chia PY, Lee TH, Ng OT, Wong MS, et al. Air, surface environmental, and personal protective equipment contamination by severe acute respiratory syndrome coronavirus 2 (SARS-CoV-2) from a symptomatic patient. JAMA. 2020 Mar 4 (Epub ahead of print)] [Cheng V, Wong S, Chen J, Yip C, Chuang V, Tsang Yuen K. Escalating infection control response to the rapidly evolving epidemiology of the Coronavirus disease 2019 (COVID-19) due to SARS-CoV-2 in Hong Kong. Infection Control & Hospital Epidemiology, 2020;1-24. doi:10.1017/ice.2020.]. Uno studio recente ha dimostrato che il SARS-CoV-2 aerosolizzato in laboratorio può sopravvivere fino a tre ore, ma occorre sottolineare che le condizioni di test in laboratorio sono difficilmente confrontabili con una condizione reale in cui vengono emesse goccioline attraverso l’atto di tossire, starnutire o parlare e con procedure che generano aerosol in ambito clinico. L’OMS sottolinea inoltre che, dall’analisi svolta su oltre 75.000 casi di COVID-19 in Cina, non sono emersi casi di contagio attraverso aerosol [World Health Organization. Modes of transmission of virus causing COVID-19: implications for IPC precaution recommendations. Scientific Brief. Geneva: WHO; 2020.[World Health Organization. Report of the WHO-China Joint Mission on Coronavirus Disease 2019 (COVID19). Geneva: WHO; 2020.] e pertanto continua a raccomandare precauzioni per prevenire la trasmissione via droplet per COVID-19, limitando le precauzioni airborne ai casi particolari legati alle specifiche procedure in ambito ospedaliero [World Health Organization. Report of the WHO-China Joint Mission on Coronavirus Disease 2019 (COVID19). Geneva: WHO; 2020.
Focus: permanenza vitale del virus in ambiente sanitario. Di particolare interesse i risultati pubblicati dal New England Journal of Medicine e dal Journal of the American Medical Association in merito alla permanenza vitale del virus in un ambiente ad elevata concentrazione (sanitario) e sulla distanza che quest’ultimo può percorrere trovandosi in un ambiente favorevole (per temperatura e umidità) in presenza di flussi di aria. Di seguito una sintesi dei principali risultati raggiunti. Aerosol and Surface Stability of SARS-CoV-2 as Compared with SARS-CoV-1 N. van Doremalen, et al. NEJM, 17 marzo 2020.
Punti essenziali. Gli autori, attraverso l’applicazione di metodi sperimentali, cercano di definire se il decadimento del virus SARS-CoV-2 (COVID-19) in alcune condizioni ambientali (aerosol, plastica, acciaio inossidabile, rame e cartone) sia sovrapponibile a quanto osservato nel virus SARS-CoV-1. I risultati hanno mostrato che:
SARS-CoV-2 è rimasto vivo in aerosol per 3 ore, con una riduzione del titolo infettivo da 103,5 a 102,7 TCID50 per litro di aria (simile a quella osservata con SARS-CoV-1);
SARS-CoV-2 era più stabile su plastica e acciaio inossidabile rispetto a rame e cartone con una presenza di virus vivo rilevato fino a 72 ore dopo l'applicazione, sebbene il titolo del virus fosse notevolmente ridotto. Simili i risultati osservati sul virus SARS-CoV-1;
Sul rame, il SARS-CoV-2 non è stata individuato vivo dopo 4 ore (SARS-CoV-1 vitale non è stata misurata dopo 8 ore);
Sul cartone, SARS-CoV-2 non è stato misurato dopo 24 ore (SARS-CoV-1 non è stata misurata dopo 8 ore);
Entrambi i virus hanno mostrato un decadimento esponenziale del titolo virale in tutte le condizioni sperimentali. Le emivite di SARS-CoV-2 e SARS-CoV-1 erano simili negli aerosol, con stime mediane di circa 1,1 a 1,2 ore (CI 95%; 0,64 - 2,64 per SARS-CoV-2 e 0,78-2,43 per SARS-CoV-1). Simili anche le emivite dei due virus sul rame mentre sul cartone, l'emivita di SARS-CoV-2 è risultata più lunga rispetto a SARS-CoV-1. La vitalità più lunga di entrambi i virus era su acciaio inossidabile e plastica. L'emivita mediana stimata di SARS-CoV-2 era di circa 5.6 ore su acciaio inossidabile e 6.8 ore su plastica. Le conclusioni a cui sono giunti hanno messo in evidenza che la stabilità dei due virus (SARS-CoV-2 e SARS-CoV-1) nei contesti testati risultano pressoché sovrapponibili, pertanto le differenze epidemiologiche prodotte da SARS-CoV-2 derivano da fattori diversi fra cui la presenza di elevata carica virale nel tratto respiratorio superiore e la notevole possibilità di trasmissione in fase asintomatica. Turbulent Gas Clouds and Respiratory Pathogen Emissions Potential Implications for Reducing Transmission of COVID-19 Bourouiba L. JAMA published online March 26 2020.
Punti essenziali. L’articolo mette in discussione l’applicazione del modello di trasmissione dell’infezione da COVID-19 alla luce di recenti studi effettuati in ambiente sanitario. In sintesi:
il vecchio modello (adottato da WHO e CDC) si basa sulle dimensioni delle goccioline mucosalivari (contenenti carica infettiva) che se di grandi dimensioni si depositano sui materiali circostanti (precipitano) e per contatto possono trasmettere l’infezione da un individuo all’altro; le goccioline più piccole, a contatto con l’aria ambiente (aereosol) e possono trasmettere l’infezione da un individuo all’altro per via respiratoria (entro una certa distanza). Attualmente, il sistema di classificazione del diametro della “gocciolina” (da 5 a 10 μm) rappresenta l’unità di misura utilizzata per valutare la modalità di trasmissione di una malattia infettiva.
Il nuovo modello preso in esame in questo lavoro, prende in considerazione un altro fattore e cioè la distanza e la sopravvivenza delle goccioline all’interno del soffio di aria rilasciato attraverso lo starnuto o il colpo di tosse. In pratica questa teoria ritiene che il grado di umidità e la temperatura interna all’espirazione (soffio di aria) permette alle goccioline di eludere l’evaporizzazione per molto più tempo del previsto. In queste condizioni, la vita di una gocciolina potrebbe essere molto più estesa (frazione che passa da secondi a minuti). Le condizioni dell’individuo e le condizioni ambientali (umidità e calore) possono far sì che le gocce di patogeno si possano trovare anche a una distanza di 7-8 metri. Quando le goccioline perdono lo slancio possono cadere contaminando le superfici oppure, una parte di esse, rimane sospesa in aria intrappolata nella nuvola (cloud) anche per ore seguendo flussi dell’aria ambiente (ventilazione, condizionatori). L’evaporazione di agenti patogeni nei fluidi è poco conosciuta. Uno studio svolto in Cina in ambiente ospedaliero ha individuato particelle di virus negli impianti di condizionamento delle stanze dei pazienti COVID-19 mettendo, così, in discussione la vecchia teoria dicotomica basata sulle dimensioni della goccia (applicazione della distanza 1 o 2 metri). In base ai risultati ottenuti, l’articolo sottolinea l’importanza che tutto il personale sanitario che lavora con COVID indossi maschere adeguate e DIP non basando, quindi, la prevenzione soltanto sulla teoria della distanza (1-2 metri) e sull’uso di maschere o dispositivi non adeguati. Commentary: COVID-19 transmission messages should hinge on science Brosseau L. ScD | Mar 16 2020.
Punti essenziali. L’articolo prende in considerazione le diverse modalità comportamentali e di trasmissione da attivare nei vari contesti. Inizia ribadendo che il dipartimento di prevenzione, i medici e gli operatori sanitari dovrebbero comunicare a tutti che le esatte modalità di trasmissione per SARS-CoV-2 — il nome tecnico del virus che causa COVID-19 — non sono note. Non ci sono ancora studi che supportano una specifica modalità di trasmissione rispetto a un’altra. Tuttavia, la forte similitudine di COVID-19 con SARS e MERS, che mostrano molte somiglianze con COVID-19, suggerisce di concentrarsi sulla trasmissione via aerosol a corto raggio sia in ambito pubblico che sanitario. Si ripete, quindi, l’importanza di fornire agli operatori sanitari le corrette mascherine di protezione ma, di fronte alla forte carenza, il CDC ha modificato alcuni parametri suggerendo anche l’utilizzo di maschere individuali riutilizzabili (in materiale elastometrico). La popolazione deve adottare: distanziamento sociale, in presenza di sintomi attivare assistenza territoriale. Data la carenza di mascherine, i cittadini non devono accumulare materiale come le mascherine per lasciarle agli operatori sanitari.
Trasmissione: il CDC cinese afferma che la trasmissione COVID-19 avviene principalmente da parte di goccioline respiratorie a breve distanza. Tuttavia ribadisce la "possibilità di trasmissione di aerosol in un ambiente relativamente chiuso per lungo tempo esposto a elevate concentrazioni di aerosol”.
Trasmissione aerosol a breve distanza: le particelle più grandi (da 5 a 15 micrometri [μm]) non cadono immediatamente a terra ma rimangono nell'aria per diversi minuti. Le più piccole (meno di 5 μm) rimangono nell’aria per molti minuti o addirittura ore. Tutte le particelle inizieranno immediatamente ad evaporare (il muco contiene molta acqua), il che significa che la gamma di dimensioni delle particelle diminuirà complessivamente. Le particelle più piccole sono più colpite dalla diffusione che dalla gravità, aumentando la loro permanenza in aria. In assenza di correnti d'aria, le particelle sospese nell'aria si disperderanno lentamente nello spazio.
Probabilità di infezione attraverso aerosol a distanza: gli operatori sanitari, che lavorano in ambienti chiusi ad alta concentrazione di virus nell’aria, sono a maggior rischio. In un ospedale temporaneo di Wuhan per il trattamento di pazienti con sintomi lievi, sono state riscontrate alte concentrazioni di RNA nelle aree utilizzate per la rimozione dei DPI (da 18 a 42 copie /m), con le massime concentrazioni riscontrate in particelle da 0,25 a 0,5 μm, e nelle toilette dei pazienti (19 copie / m3). Lo sciacquone può essere fonte di aerosol.
Vitalità in aria: uno studio molto recente ha scoperto che gli aerosol SARS-CoV-2 rimangono vitali per un massimo di 3 ore, il che è simile alla vitalità di SARS-CoV in aria e MERS-CoV. Questo è un tempo adeguato per l'esposizione, l'inalazione e l'infezione che si verificano sia vicino che lontano da una fonte. Trasmissione per contatto: studi condotti su animali supportano questo tipo di trasmissione (es. trasmissione trans-congiuntivale nei furetti). Le goccioline SARS-CoV-2 viaggiano ulteriore ed ultimo più lungo del pensiero ed ancora di più in aria umida Download PDF Copy By Dr. Liji Thomas, MDAug 10 2020
La pandemia in corso COVID-19 è sparsa dagli aerosol respiratori, in cui le goccioline minuscole della saliva e del muco che contengono il coronavirus 2 (SARS-CoV-2) di sindrome respiratorio acuto severo sono espelse dalle vie respiratorie superiori. Sebbene parecchi studi abbiano studiato il caricamento virale di tali goccioline, non molto è conosciuto circa fin dove movimento di queste goccioline o quanto tempo indugiano nell'aria, anche se tali informazioni sono determinanti per la determinazione quanto contagioso sono. Ora, un nuovo studio dai ricercatori all'università di Twente ed all'università di tor Vergata di Roma e pubblicato sul medRxiv* del " server " della pubblicazione preliminare nell'agosto 2020 indica che i presupposti più iniziali circa queste goccioline erano sbagliati. Infatti, nell'ambito di umidità relativa di 50%, le più piccole goccioline sopravvivono a più lungamente più lungamente 50 volte e ad umidità relativa di 90%, fino a 150 volte. Cioè la norma distanziante sociale del sei-piede o del due-metro è grossolanamente insufficiente, dato l'intervallo advective reale delle goccioline in un secondo. E l'intervallo come pure la vita della gocciolina, aumenta soltanto con la più piccola dimensione della gocciolina. Visualizzazioni delle goccioline in una tosse pesante per il RH = 50%: a-d, istantanee della simulazione carica di gocciolina di tosse. A tempo la t = spettrografia di massa 100, la tosse contiene l'aria calda con di contenuto elevato di umidità. L'aria umida calda si propaga (spettrografia di massa del ~ 200 di t) e dissipa (spettrografia di massa del ~ 400 di t) nei dintorni ambientali. A spettrografia di massa del ~ 400 di t, mostriamo le più grandi goccioline che cadono dal soffio mentre le più piccole goccioline rimangono protette e sono portate avanti dal soffio.
Impedire trasmissione respiratoria. Le norme correnti di distanziare del sociale sono nato con occuparsi di carta 1919 dell'influenza spagnola di quel tempo. Ciò, a sua volta, è stata basata su una teoria della trasmissione della gocciolina dei virus sviluppati da William F. Wells nell'ambito della diffusione della tubercolosi. Ha pensato che la vasta gamma delle particelle prodotte da una tosse o da uno starnuto in un paziente della tubercolosi determinasse il comportamento delle goccioline. Le piccole goccioline rapido evaporerebbero e lascerebbero le particelle secche meno contagiose dell'aerosol con il rischio più basso della trasmissione. Le più grandi goccioline sarebbero come i richiami. Nello studio corrente, le goccioline che misurano oltre 5-10 micrometri sono chiamate goccioline respiratorie e possono indurre il host--host a spargersi. Le piccole goccioline, o le goccioline respiratorie, trasferiscono il virus attraverso gli aerosol.
Malgrado l'età di questo principio, la prova sta costruendo che è difettosa. Non solo fa continuare la diffusione virale per avere luogo, particolarmente con i superspreaders, ma le goccioline sono conosciute ad ultimo più lungo ed alla diffusione più lontano di alcuni secondi e di due metri - vale a dire, fino a 8 metri e per fino a 10 minuti, rispettivamente. Ciò è perché le goccioline sono espelse tipicamente come nuvola, all'interno di aria calda ed umida, che ritarda loro asciugarsi e prolunga il loro periodo contagioso. Infatti, la vita della gocciolina dipende dal trattamento di mescolanza all'interno di questa aria turbolenta, mentre il comportamento di essiccamento più iniziale è quello di singola gocciolina.
Trasmissione ærea. Questo cambiamento nei presupposti fondamentali è supportato dagli studi empirici, dalla conoscenza medica e dalla fisica - “la trasmissione ærea interurbana attraverso l'emissione turbolenta multifase della nuvola della gocciolina è un fattore essenziale.„ Alcuni ricercatori hanno indicato che i pazienti molto contagiosi possono spargere il virus in loro aerosol sopra le grandi distanze. Infatti, i risultati di tale diffusione possono essere malattia ancor più severa dovuto le goccioline minuscole dell'aerosol, che piombo alla loro entrata in profondità nei polmoni. Rapporto di vita per 10 del µm 20 e del µm goccioline: a, vita estesa in funzione di umidità relativa fino al RH = 90%. Le curve nella la figura misura secondo la funzione y = a1/(1 − x) + a2, dove a1 e a2 sono i parametri adatti. Visualizzazioni del soffio umido per il RH ambientale = 50% e 90% a spettrografia di massa di tempo 600: la b, il soffio umido mantiene la coerenza per tempo maggiore ed alle distanze molto più lunghe per il più grande RH ambientale. Noti le gamme di colori differenti di umidità per due vetrine.
Umidità e Infectiousness. Lo studio corrente si occupa non solo della natura d'accumulazione degli aerosol, che rimane contagiosa all'interno durante le ore ma anche con il contributo piccolo-capito di umidità. A causa della difficoltà immensa nel rintracciamento del movimento di migliaia di goccioline minuscole nello spazio e col passare del tempo, mentre simultaneamente si tenevano al corrente o regolando dei termini quale la portata, larghezza di distribuzione delle goccioline, la temperatura ed umidità relativa, i ricercatori hanno scelto di usare le simulazioni numeriche invece.
Valutazione della fisica della gocciolina della piccola scala. Tweaked i metodi attuali per assicurare che la piccola scala del trattamento di mescolanza della gocciolina come pure l'accoppiamento della temperatura e dell'umidità, che sono così essenziali all'evaporazione delle goccioline e così della loro vita ed effetti, fossero catturati correttamente. Ciò ha compreso lo sviluppo di uno strumento numerico molto efficiente che sarà utile nel rivelare la fisica di flusso di un evento che accade con la respirazione ed anche che cosa decide il potenziamento enorme della vita di una gocciolina respiratoria relativa visto che la gocciolina isolata dalla sue velocità, temperatura ed umidità circostanti del soffio. Questo strumento può anche essere utilizzato per simulare gli eventi respiratori più complicati, particolarmente quelli che hanno luogo all'interno. I termini dell'esperimento hanno compreso una durata di 0,6 secondi, simulante un soffio di aria turbolento nell'aria ambientale, pieno di 5.000 goccioline dell'acqua come pure dell'aria calda saturata con il vapore, per ripiegare una forte tosse. La temperatura iniziale era 34 oC. La temperatura dell'aria ambientale è stata fissata a 20Co, con l'umidità relativa fra 50% e 90%. Il calore ed il vapore nel soffio turbolento sono scambiati all'aria ambientale. I ricercatori hanno tenuto la carreggiata le goccioline per parecchi secondi per capire la fisica che è alla base della loro evaporazione in blocco.
Reticolo di caduta di grandi e piccole particelle. Il primo risultato ad un RH di 50% è la caduta dalle goccioline più grandi oltre μm 100 di diametro, in un modo balistico, a causa del loro peso confrontato al flusso d'aria, a 0,1 m. - 0,7 m. dalla sorgente. Questi evaporano più velocemente, compromettendo la sopravvivenza delle particelle contagiose. Ciò è d'accordo con le previsioni più iniziali (Wells, 1930) ed il sociale corrente che distanzia le linee guida dall'organizzazione mondiale della sanità (WHO), dal centro per prevenzione delle malattie e controllo (CDC) e dal Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie (ECDC). Una volta più piccole di questo, tuttavia, le goccioline formano le spirali che rintracciano un percorso principalmente orizzontale, che li significa egualmente promuova disperso nell'aria piuttosto che la trasmissione della gocciolina - a differenza dell'ipotesi corrente del WHO. Ciò è dovuto la loro velocità di sistemazione più lenta confrontata alla velocità del liquido in cui sono portati, che significa ulteriore avvezione dalla corrente d'aria turbolenta. Questo ultimo è essenziale nella trasmissione ærea dell'infezione. Questo piccolo comportamento della gocciolina significa che hanno vite molto più alte di quanto le goccioline isolate. Infatti, 10 goccioline del μm ai RH 50% e 90% hanno 60 - 200 volte i tempi di sopravvivenza del valore di Wells. Questi muovono relativo più lento alla quantità di fluido ed in modo da restringa meno dovuto convezione ed evaporazione diminuite. Con le tosse successive, quindi, il soffio può raggiungere oltre 2 m. dalla sorgente al bordo di attacco, con la maggior parte di più piccole goccioline che sono nei dintorni umidi e che vivono così più lungamente.
Implicazioni e raccomandazioni. Quindi, lo studio indica che il campo di umidità intorno alla gocciolina più la velocità turbolenta e non appena il diametro della gocciolina, determina la vita respiratoria della gocciolina. Ciò amplifica la loro vita dagli ordini di grandezza. Il RH ambientale ulteriore estende la vita ed i ricercatori commentano, “questo che trova può spiegare perché molti eventi superspreading COVID-19 sono stati riferiti negli ambienti interni con grande umidità relativa ambientale.„ Citano l'alta diffusione negli impianti del trattamento della carne con aria raffreddata, che aumenta il RH dell'interno immenso. Ciò significa che la concentrazione nella gocciolina e nell'aerosol deve essere gestita all'interno, particolarmente nella caduta e nell'inverno venenti. Di nuovo, i medici specialisti più anziani come Soper (1919) sono destra provata con il loro reclamo, originalmente pertinente alla pandemia spagnola di influenza di quegli anni, che “c'è il pericolo nell'aria in cui tossiscono e starnutiscono.„ Ancora ulteriore, secondo lo studio corrente, “dobbiamo anche aggiungere “parliamo,„ “canti, “gridi,„ e perfino “respiro.„ Infatti, Soper ha raccomandato le finestre aperte a casa ed il lavoro e le maschere per i pazienti sospettati - un protocollo eccellente per l'oggi al pozzo. Lo studio corrente così conferma e spiega le strategie della diminuzione di Soper per uso nel gestire la trasmissione COVID-19. I ricercatori dicono le goccioline respiratorie del blocchetto delle maschere di protezione all'interno ed alcuni possono anche diminuire l'inalazione di queste goccioline, un ruolo essenziale per i lavoratori di sanità nella pandemia. La ventilazione eccellente è ugualmente importante da assicurare i advects contagiosi del soffio dalla stanza o diventa rapido ed altamente si è diluita. Un effetto sfavorevole possibile di questo è che la buona ventilazione può aumentare la lunghezza del percorso di propagazione delle goccioline e questi due effetti di ventilazione sui beni della trasmissione devono essere studiati parallelamente. Per concludere, un RH ambientale più basso contribuirà ad accelerare l'evaporazione delle goccioline e degli aerosol, diminuente l'infettività facendo diminuire la vita delle particelle e degli aerosol contagiosi. Lo studio riassume, “i nostri risultati contribuisce a capire perché queste varie strategie di diminuzione contro COVID-19 riescono…. Il nostri strumento e approccio attuali saranno un punto di partenza per i più grandi studi di parametro e per ulteriori strategie d'ottimizzazione di diminuzione.„
Avviso Importante: il medRxiv pubblica i rapporti scientifici preliminari che pari-non sono esaminati e, pertanto, non dovrebbero essere considerati conclusivi, guida la pratica clinica/comportamento correlato con la salute, o trattato come informazioni stabilite.
Journal reference: Chong, K. L. et al. (2020). Extended Lifetime of Respiratory Droplets in A Turbulent Vapour Puff And Its Implications On Airborne Disease Transmission.
"Pensatemi almeno un po' perchè è dura". Iacopo Melio positivo al Covid: “Se mi sono ammalato io che non esco da un anno si può ammalare chiunque”. Rossella Grasso su Il Riformista il 17 Dicembre 2020. “Sono positivo al Covid”. Come nel suo stile, senza giri di parole Iacopo Melio, giornalista, scrittore e attivista per le battaglie sui diritti umani e civili e consigliere regionale in Toscana ha annunciato così su Facebook di aver contratto il virus. Dice che inevitabilmente dovrà annullare ogni impegno, nel prossimo periodo, che si spera breve. “E poi perché se mi sono ammalato io che non esco da un anno, e che vivo in una famiglia estremamente attenta e isolata dagli altri, significa che davvero può capitare a chiunque”, scrive Melio. “Venerdì mi sono svegliato con grosse difficoltà a respirare, così abbiamo chiamato il 118 e in ospedale mi hanno controllato: lastre ok, saturazione ok, tampone molecolare negativo sia io che mia mamma. Un grande grazie a chi mi ha assistito con gentilezza e professionalità, un po’ meno a quel falso negativo uscito addirittura in coppia… Perciò state sempre attenti ai risultati”. “Mi hanno rimandato subito a casa con la terapia, per evitare di contagiarmi in ospedale pensando fossero malanni generici, d’altronde la saturazione era sotto controllo. Nel frattempo mio babbo si è ammalato lunedì, il giorno dopo ha fatto il tampone ed è risultato positivo. A quel punto io e mia mamma abbiamo rifatto il tampone ieri, e siamo risultati positivi a conferma dei sintomi che avevamo”. “Ad oggi ho tanta stanchezza e debolezza, mal di testa e mal di gola, sinusite, sensazione di febbre, ma soprattutto un grande affanno e difficoltà respiratoria, nonostante non abbia molta tosse (e su questo incrocio e incrociate pure le dita dei piedi insieme a me). Se credete, dite una preghiera per me; se non credete, inviatemi energie positive. Insomma, fate come preferite, basta che mi pensiate un po’ perché non è facile, e lo sapete…Un abbraccio. PS: Passerà, perché deve passare, però facciamo in modo che ognuno continui a fare la sua parte con un po’ di responsabilità e sopportazione… Arriverà un anno migliore, sicuramente, per tutti”.
Andrea Centini per "fanpage.it" il 16 dicembre 2020. Nonostante il coronavirus SARS-CoV-2 abbia iniziato a diffondersi nel mondo circa un anno fa, gli scienziati stanno ancora studiando a fondo i metodi di trasmissione del patogeno e il modo in cui essi vengono influenzati dalle caratteristiche ambientali. Un recentissimo studio condotto da scienziati coreani della Scuola di Medicina dell'Università Nazionale di Jeonbuk, ad esempio, ha scoperto che la trasmissione aerea del virus è possibile anche dopo soli 5 minuti a oltre 6 metri di distanza da un positivo, se quest'ultimo è investito da un flusso d'aria (come quello sprigionato da un condizionatore di un locale chiuso) che ci raggiunge. Un nuovo studio ha invece appena dimostrato che camminare all'interno dei corridoi stretti aumenta sensibilmente il rischio di contagio se innanzi a noi c'è un positivo che ha starnutito o tossito, anche a una distanza maggiore di quella di “sicurezza”. Particolarmente a rischio risultano essere i bambini. A determinare che i corridoi stretti rappresentano un luogo potenzialmente più rischioso per la trasmissione della COVID-19 (l'infezione provocata dal coronavirus) è stato un team di ricerca del The State Key Laboratory of Nonlinear Mechanics dell'Accademia Cinese delle Scienze e della Scuola di Scienze Ingegneristiche dell'università dell'accademia. Gli scienziati, coordinati dal professor Xiaolei Yang, docente presso l'Istituto di Meccanica dell'ateneo di Pechino, sono giunti alle loro conclusioni dopo aver messo a punto una sofisticata simulazione di fluidodinamica che ha mostrato nel dettaglio come si muove il flusso di goccioline respiratorie (droplet e aerosol) alle spalle del contagiato in ambienti con varie caratteristiche spaziali. Come specificato da Yang e colleghi, le esalazioni del respiro di una persona formano una nuvola di goccioline che si disperde intorno e dietro al corpo, dando vita a una scia simile a quella di una barca che solca l'acqua. Dalla simulazione è emerso che si forma una sorta di “bolla di ricircolo” esattamente dietro al busto, e una lunga scia di particelle come una coda che si estende da dietro la vita. Se le goccioline respiratorie rilasciate sono cariche di particelle virali del coronavirus SARS-CoV-2, chi si trova dietro al contagiato rischia di essere investito in pieno e di contrarre l'infezione. A due metri di distanza, ha spiegato il professor Yang in un comunicato stampa, “la scia è quasi trascurabile all'altezza della bocca e delle gambe, ma è ancora visibile all'altezza della vita”. Ciò, come indicato, rappresenta un pericolo soprattutto per i bambini, dato che la scia li raggiunge proprio all'altezza della bocca. Gli scienziati hanno scoperto che, dopo un colpo di tosse, queste nuvole cariche di particelle virali si disperdono in due modi differenti, che possono influenzare in modo significativo il rischio di contagio in base allo spazio in cui ci si trova. Nel primo caso la nuvola di particelle resta attaccata al corpo della persona, che la trascina dietro di sé come una sorta di zaino; nel secondo la nube di particelle si stacca e genera una bolla galleggiante, nella quale le particelle virali risultano molto più concentrate rispetto alla prima variante. “Per la modalità distaccata, la concentrazione delle goccioline è molto più alta rispetto alla modalità attaccata, cinque secondi dopo un colpo di tosse”, ha dichiarato il professor Yang. “Questi risultati rappresentano una grande sfida nel determinare una distanza sociale sicura in luoghi come i corridoi molto stretti, dove una persona può inalare goccioline virali anche se il positivo è molto lontano davanti a noi”, ha aggiunto l'esperto. Anche la velocità di chi si muove in questi ambienti alimenta il rischio di inalare una nuvola di particelle cariche di virus. I dettagli della ricerca “Effects of space sizes on the dispersion of cough-generated droplets from a walking person” sono stati pubblicati sulla rivista scientifica Physics of Fluids.
LE VIE DEL COVID SONO INFINITE. Melania Rizzoli per “Libero quotidiano” il 9 dicembre 2020. «Non capisco come sia possibile. Sono stata sempre attentissima. Non ho sintomi e non avrei mai immaginato potesse succedermi. Non riesco davvero a comprendere come sia potuto accadere». Lo stupore espresso dal ministro Luciana Lamorgese alla scoperta di essere positiva al Coronavirus stupisce anche noi, perché significa che non si è ancora compreso fino in fondo come si fa a contagiarsi o ad essere contagiati. Eppure noi medici, infettivologi, virologi e scienziati lo scriviamo dall' inizio dell' anno su tutti i quotidiani, più volte io personalmente l' ho fatto su Libero, e tutti lo comunichiamo da mesi sui media, per cui fa effetto e stride sentire che componenti del governo, inclusa il ministro dell' Interno, coloro cioè che dovrebbero orientarci e guidarci con sicurezza e polso fermo a superare questa epidemia, ed implementare strategie di contenimento efficaci e mirate, esprimano sconcerto e smarrimento sulle modalità definite misteriose ed incomprensibili con cui si sono ammalati. Ripetiamo quindi su questo foglio, spero per l' ultima volta, qual è il momento di maggiore contagiosità di un positivo al Coronavirus e chi sono i cosiddetti super-diffusori, oltre ai luoghi ed i comportamenti a più rischio.
L'INCUBAZIONE. Le persone positive a Sars-CoV2 risultano maggiormente contagiose quando si trovano ancora nel periodo di incubazione, che dura in media 5-6 giorni, ma può arrivare fino a un massimo di 14, anche se il momento peggiore per inalare il virus da un soggetto positivo è nei 2-3 giorni precedenti allo sviluppo dei suoi sintomi, quando cioè egli sta ancora bene, non ha alcun disturbo, è attivo, lavora e si relaziona, e non sospetta di aver contratto la malattia. Le infezioni asintomatiche rappresentano quindi la più importante fonte di diffusione del virus, soprattutto quando la malattia è ancora in fase di incubazione, ed è da quelle persone che dobbiamo guardarci e distanziarci. Questo però significa che anche il neo-contagiato, che sta bene come il contagioso ignaro che lo ha infettato, inizia a passare il virus a chi gli sta accanto, senza sospettare assolutamente nulla, e con le stesse modalità di un positivo conclamato, poiché è ormai dimostrato che un paziente asintomatico, come chi si è appena infettato, è da subito in grado di diffondere il Corona, seppur in maniera minore di un sintomatico, ed è stato stimato che l' 80% dei contagi è dovuto appunto a soggetti non identificati come positivi al virus al tampone nasofaringeo, perché non lo hanno eseguito o lo hanno fatto precedentemente all' infezione e si ritenevano in sicurezza. Un altro aspetto ormai chiaro è che il coronavirus si diffonde in modo disomogeneo, l' esatto contrario di quello che avviene con il virus dell' influenza, poiché è accertato che il 70% dei positivi infettano poche persone, mentre il 20% dei cosiddetti «super-diffusori» è responsabile di oltre l' 80% dei contagi. E sono proprio i comportamenti, ovvero quello che uno fa e dove lo fa, a decidere se un positivo rientra nel 70% di persone in cui il virus si avvia su un binario morto, o se al contrario fa parte di quel 20% che permette al virus di raggiungere un numero molto elevato di nuovi ospiti.
IL FATTORE TEMPO. Anche se si indossa la mascherina, che riduce il numero di particelle virali ma non lo azzera, più tempo si trascorre in presenza di un infetto apparentemente sano, soprattutto se in vicinanza o a stretto contatto, maggiore sarà la concentrazione del virus nell' aria e molto probabile il contagio. Inoltre quando si è protetti dalla mascherina in luoghi chiusi si tende ad alzare il tono della voce per superare la barriera fonetica che questa impone, per essere ascoltati meglio, un comportamento questo che aumenta il numero delle particelle virali emesse. Inoltre la temperatura dei luoghi di sosta è un problema, poiché quando è troppo bassa e con bassa umidità, viene rallentata l' evaporazione delle particelle di saliva contenenti il virus, che rimangono sospese in aria per un tempo maggiore, pronte per essere inalate od assorbite dalla congiuntiva umida ed accogliente degli occhi. Il Sars-Cov2 infatti si può trasmettere direttamente anche per via oculare, e gli occhi, oltre ad essere una porta d' ingresso del virus, possono essere pure una fonte di trasmissione del contagio, visto che la congiuntivite virale è uno dei sintomi del Covid19. Inoltre, come qualunque altra infezione virulenta, un aspetto fondamentale per il contagio è la cosiddetta «carica virale», la quale se è bassa o rarefatta nel tempo rende il contagio diretto più difficile, anche se uno studio cinese pubblicato sul New Journal of Medicine indica cariche virali simili tra pazienti sintomatici ed asintomatici. Esiste poi il contagio «indiretto», quello che si può trasmettere toccando con le mani oggetti o superfici contaminate da secrezioni nasali, bronchiali o salivari, come i tasti di un computer per esempio, le quali mani poi, se sfiorano bocca, naso ed occhi senza essere lavate, sono in grado di trasferire l' infezione.
VIE ALTERNATIVE. Inoltre esiste la via oro-fecale della trasmissione del contagio, poiché è dimostrato che il virus persiste positivo nel tampone rettale dei pazienti già infetti anche dopo la scomparsa dei sintomi respiratori e quando i tamponi orofaringei risultano negativi (virus rilevati vivi anche sugli asciugamani in uso dopo il bidet). La circolazioni dei positivi asintomatici, dal punto di vista epidemiologico, produce i casi più problematici senza il distanziamento sociale, poiché queste persone, non sapendo di essere infettive, fanno circolare e trasmettono facilmente e velocemente il virus, rendendo sempre più difficile spezzare la catena dei contagi tuttora viva ed in atto. Il tracciamento massiccio in vigore con il tamponamento della popolazione per identificare i casi positivi e tracciare a ritroso i propri contatti serve proprio a questo, ad interrompere la trasmissione del virus, e dal punto di vista medico, il fatto che molte persone possano guarire dall' infezione senza sviluppare sintomi evidenti pur essendo un grande vantaggio, epidemiologicamente questo costituisce un problema enorme. Perché se una di quelle persone è un super-diffusore, essa è in grado di contagiare in una sola giornata tutte le persone che incontra, grazie a quello che è stato chiamato «coefficiente di dispersione K» che ha valori da 0 a 10 e descrive la tendenza di una malattia a creare cluster di soggetti infetti: più il suo valore si avvicina a 0, più la malattia tende a manifestarsi in gruppi di persone incontrate, anche in ambienti con contatti sociali diradati.
SENZA UNA TERAPIA. Tuttavia, se le misure di contenimento attuate fino ad oggi hanno permesso di circoscrivere e ridurre i casi positivi, il coronavirus, essendo ancora orfano di una terapia mirata, continuerà a circolare indisturbato tra noi, magari rafforzando la sua azione e la sua letalità, ma avendo compreso i meccanismi alla base degli eventi di super-diffusione, abbinati alla identificazione dei contesti ad alto rischio, l' unica strategia farmacologica efficace per prevenire ulteriori ondate nei prossimi mesi resta solo ed unicamente il vaccino anti-Covid. Quello che speriamo il ministro Lamorgese, augurandole di guarire in fretta senza conseguenze e senza più stupirsi di come avvengono i contagi, contribuisca a far arrivare il prima possibile nel Paese che governa, oltre che a renderlo disponibile alla maggioranza degli italiani, negativi, positivi o super-diffusori che siano.
A scuola e sui mezzi pubblici: così il coronavirus si trasmette per via aerea negli spazi chiusi. Cristina Marrone per corriere.it l'1 novembre 2020.
Perché si sta parlando molto si trasmissione vie aerosol? Covid-19 non è contagioso come il morbillo ma si stanno moltiplicando studi e varie prove che confermano come la trasmissione del nuovo coronavirus avvenga non solo attraverso i droplets (goccioline pesanti che a causa di una dimensione maggiore, precipitano a terra per forza di gravità entro i due metri) ma anche attraverso minuscole goccioline (aerosol) esalate dalle persone infette quando tossiscono o starnutiscono ma soprattutto quando parlano, cantano, gridano, respirano. Inoltre studi recenti suggeriscono che gli aerosol possono muoversi di diversi metri e riempire una stanza per lunghi periodi mantenendo una carica di infettività elevata. Distanziamento e mascherine difendono dalle goccioline più grandi e sono indispensabili per questa modalità di contagio ma da soli non bastano per contrastare la trasmissione per via aerea.
Quali sono i luoghi in cui si diffonde più facilmente il coronavirus? «I luoghi critici sono gli ambienti chiusi di dimensioni ridotte e con limitata ventilazione, soprattutto con un tempo di permanenza elevato» ricorda Giorgio Buonanno, professore ordinario di Fisica tecnica ambientale all’Università degli Studi di Cassino e alla Queensland University of Technology di Brisbane (Australia). Si è visto infatti in numerosi studi in tutto il mondo che Sars-CoV-2 si diffonde soprattutto in quegli ambienti chiusi dove si riuniscono molte persone: matrimoni, chiese, palestre, ristoranti, mezzi pubblici, cori, bar, mattatoi, carceri, feste soprattutto quando si parla ad alta voce o si canta senza mascherina.
Che cosa può succedere con la stagione fredda? Ora che si va incontro alla stagione invernale i rischi di contagio, anche per via aerea aumentano (proprio come con l’influenza e gli altri virus respiratori) perché si trascorre più tempo al chiuso e la concentrazione di particelle infettive aumenta senza la presenza di un’adeguata ventilazione. È ipotizzabile che la scorsa estate in Italia la diffusione del virus, dopo l’effetto del lungo lockdown, sia rallentata sia per il maggior tempo trascorso all’aria aperta che per la maggiore ventilazione negli ambienti chiusi con le finestre aperte. In questo modo la modalità di trasmissione per via aerea è stata arginata.
Che cosa si intende per ventilazione? In un’aula scolastica di medie dimensioni è possibile ricambiare completamente l’aria aprendo le finestre (areazione) in 10-20 minuti ma con la stagione fredda non è sempre fattibile. L’ideale sarebbe agire con impianti di ventilazione meccanica controllata: nel caso di ricircolo è consigliato l’utilizzo di filtri HEPA. Quando la ventilazione meccanica non è attuabile perché richiede importanti lavori di ristrutturazione si può pensare a purificatori d’aria portatili che possono essere spostati in vari ambienti.
Tutti gli infetti trasmettono allo stesso modo? Secondo le stime di un numero sempre maggiore di studi gran parte delle persone infette potrebbe non contagiare nessuno. Uno studio di Hong Kong in cui sono stati tracciati i contatti è emerso che il 20% dei casi era responsabile dell’80% della trasmissione. Un’ altra ampia ricerca pubblicata su Science ha concluso che il 70% dei casi non era responsabile di nessun contagio mentre solo l’8% dei pazienti è risultato collegato al 60% delle nuove infezioni osservate evidenziando così il ruolo importante dei superdiffusori nella propagazione dell’epidemia. Già all’inizio della pandemia la ricerca aveva dimostrato che tra il 10 e il 20 per cento delle persone infette sono responsabili dell’80% della diffusione del coronavirus. Il problema è che un «superspreader» non è in alcun modo riconoscibile ma se si trova al posto sbagliato nel momento sbagliato darà origine a focolai importanti. Quel che si può fare è evitare che si verifichino «eventi superdiffusori», cioé tutte quelle attività che facilitano la diffusione del contagio.
Che cosa succede se in uno spazio chiuso come un’aula scolastica c’è un positivo? I rischi aumentano quando è il docente a essere infetto perché parla più a lungo e ad alta voce per essere ascoltato, quindi emette 100 volte di più rispetto alla normale respirazione. Un potenziale alunno malato a confronto parla molto sporadicamente ed è decisamente meno pericoloso. Se in una classe di 150 metri cubi 25 studenti passassero 5 ore con un docente malato che spiega per due ore, senza prendere nessuna misura di precauzione contro gli aerosol, potrebbero contagiarsi fino a 12 studenti. Ogni singolo individuo avrebbe la possibilità di infettarsi pari al 15%. «Per avere un R0 accettabile, cioé inferiore a 1 in quella stanza potrebbero stare solo due studenti» spiega Buonanno.
Si può ridurre il rischio di contagio per via aerea in classe? L’Università di Cassino ha pubblicato un tool per la stima del rischio di contagio per trasmissione aerea di Sars-CoV2 in ambienti chiusi. «Se tutti indossassero le mascherine si potrebbero contagiare al massimo 7 studenti (5 in meno della situazione base) e in quella stanza, sempre per avere un R0 inferiore a 1 potrebbero rimanere 3 persone mentre il rischio individuale di contagio si dimezzerebbe. Con la ventilazione forzata (un ricambio totale d’aria ogni 20 minuti) rischierebbero il contagio solo 4 persone e per abbassare l’R0 sotto 1 in quelle condizioni potrebbero restare in classe 5 persone. A scuola fa ancora meglio della ventilazione forzata dotare i docenti di un microfono (così non sarebbero costretti a parlare ad alta voce): solo 1,4 persone rischierebbero il contagio e in quella stanza potrebbero restare 9 persone (con rischio individuale di infezione pari al 2,7%). Se mettiamo insieme tutti i dispositivi: mascherine, ventilazione forzata, microfono il numero massimo di persone contagiate in presenza di un insegnante infettivo scenderebbe drasticamente a 0,4 (meno di un contagio) e in quella stanza potrebbero soggiornare fino a 30 studenti mantenendo comunque un R0 inferiore a 1: solamente con tutte queste precauzioni si potrebbe controllare adeguatamente l’indice R0 mantenendolo al di sotto di 1.
È possibile stimare il rischio anche su un autobus? A bordo di un autobus urbano, con 80 passeggeri, un ricambio d’aria all’ora (sui mezzi i ricambi d’aria sono in verità ancora più elevati), un tempo di permanenza di 30 minuti e soggetti in piedi che parlano, in presenza di un passeggero infetto si potrebbero contagiare al massimo 2 persone. Per abbassare R0 sotto 1 su quell’autobus potrebbero salire 54 persone. Indossando le mascherine il problema si abbatte: potrebbero essere contagiate al massimo 0,7 persone e il bus potrebbe ospitare fino a 107 passeggeri tenendo comunque R0 sotto 1. Può aiutare anche l’incremento della ventilazione forzata con un ricambio d’aria ogni 10 minuti: il risultato è simile a quello ottenuto indossando le mascherine. Se si adottano tutte le misure insieme il numero massimo di persone contagiate sarà 0,4 e a bordo potrebbero salire fino a 193 passeggeri. «I mezzi pubblici, a differenza da quello che si possa credere, non sono luoghi particolarmente rischiosi per la trasmissione via aerosol nel caso di tempi di esposizione contenuti» chiarisce Buonanno. Ma con i tassi di incidenza così elevati di questi giorni è facile che a bordo di un mezzo pubblico possa salire più di un individuo infetto, in tal caso i rischi raddoppiano e triplicano.
Distanziamento e mascherine allora non bastano? «Distanziamento e mascherine sono una condizione necessaria (soprattutto per difendersi dai droplets, le goccioline più grandi e dal contagio a breve distanza) ma non sono sufficienti per il contagio per via aerea negli ambienti chiusi. Sappiamo oggi stimare le condizioni di ventilazione, affollamento e tempi di esposizione negli ambienti chiusi per gestire al meglio il rischio contagio ».
Graziella Melina per “il Messaggero” il 31 ottobre 2020. Se il Sars Cov 2 circola, si diffonde e si sposta lo deve ai gesti più semplici che chiunque compie ogni giorno. La trasmissione delle infezioni avviene, infatti, soprattutto attraverso i droplets, ossia le goccioline che si eliminano quando si parla, si respira, si tossisce, si starnutisce. Essendo minuscole, viaggiano nell' aria a non più di un metro di distanza. Può capitare però che si posino su oggetti o superfici vicini. E, a questo punto però, il guaio lo fa il malcapitato che li tocca: se non si lava subito le mani, finirà infatti col portare a spasso il virus. «Le mani, come continuiamo a dire da sempre, dobbiamo lavarcele spesso - ribadisce Carlo Signorelli, ordinario di Igiene dell' Università Vita-Salute San Raffaele di Milano - se le mettiamo in bocca, infatti, è ovvio che sono il primo fattore di rischio». Come lo è la condivisione degli oggetti. «Sicuramente, scambiarsi il telefono è un altro comportamento da evitare, perché quando uno parla, se è contagiato, la quantità di goccioline emesse cariche di virus è ovviamente maggiore rispetto a quando si respira soltanto». Dunque, mai usare lo stesso telefono, neanche quello fisso a casa. «Va evitato poi lo scambio di bicchieri, posate e bottiglie. Soprattutto tra i giovani, queste abitudini sono comuni. Stesso accorgimento va seguito a casa per i teli da bagno». Per interrompere la trasmissione indiretta, dunque, basta evitare di introdurre il virus nel nostro organismo. Se infatti il Sars Cov 2 si trova posato su uno smartphone, resta lì, immobile. «Tra il dispositivo e le mucose intervengono le mani - ribadisce Patrizia Laurenti, professoressa di Igiene dell' Università Cattolica di Roma - non è che il virus vola in bocca o nel naso». Se si è distratti, è bene comunque «disinfettare i dispositivi, ma meglio ancora è bene lavarsi le mani». Stesso accorgimento per le banconote. «E' più sicuro l' utilizzo della moneta elettronica, meglio ancora il contactless, perché il bancomat lo tocca solo il proprietario, viene poggiato sul lettore, e quindi si tratta di una manovra sicura». Bisogna quindi ricordare sempre che gli oggetti di uso comune, come le maniglie delle porte, gli interruttori, i pulsanti dei citofoni o anche degli ascensori, possono essere contaminati. Se non si possono usare le scale, specifica Laurenti, «è bene tenere conto che anche negli ascensori è necessaria la distanza di almeno un metro. Quindi, se è affollato, meglio attendere il successivo». Che il Sars Cov 2 goda di buona autonomia soprattutto su alcuni materiali lo dimostrano diversi studi. Secondo il Ministero della Salute, infatti, particelle virali infettanti sono state scovate fino a 7 giorni sul lato esterno delle mascherine chirurgiche e fino a 4 su quello interno. Su plastica e acciaio inox fino a 4 giorni. Fino a due giorni, invece, su vetro e banconote. Un giorno soltanto sul tessuto e il legno e fino a 30 minuti su carta da stampa e velina. Se poi il virus prediliga l' umidità o il freddo, ancora gli scienziati non lo sanno. Per il momento, chiosa Laurenti, «non mi sembra che il Sars Cov 2 sia comunque un virus sensibile alle condizioni microclimatiche». Per evitare di portare in giro il virus, è bene comunque disinfettare spesso. Secondo le linee guida del Centro per la Prevenzione e il Controllo delle Malattie Europeo, di quello Statunitense e dell' Oms, «la pulizia con acqua e normali detergenti neutri associata all' utilizzo di comuni prodotti disinfettanti è sufficiente per la decontaminazione delle superfici». E' stato poi dimostrato che disinfettanti a base di alcol o ipoclorito di sodio sono in grado di ridurre il numero dei virus. Dopodiché, serve però la massima attenzione agli oggetti utilizzati per la pulizia: stracci, panni spugna, carta, guanti monouso, mascherine, come raccomanda il ministero, «dovranno essere conferiti preferibilmente nella raccolta indifferenziata». E, comunque, i rifiuti vanno posti in «sacchi di idoneo spessore, utilizzandone eventualmente due, uno dentro l' altro ed evitando di comprimere il sacco durante il confezionamento per fare uscire l' aria». Fondamentale poi «lavarsi accuratamente le mani al termine delle operazioni di pulizia e di confezionamento rifiuti», anche se si indossano i guanti.
Studio del Bambino Gesù: ecco come viaggia il virus nell'aria con un colpo di tosse. La simulazione in 3d della ricerca effettuata in collaborazione con Ergon Research e la Società Italiana di Medicina Ambientale (SIMA). La Repubblica il 29 ottobre 2020. Una simulazione in 3D realizzata dai ricercatori dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù riproduce esattamente il movimento delle particelle biologiche nell’ambiente e l’impatto dei sistemi di aerazione sulla loro dispersione. Stiamo parlando delle ormai tristemente famose "droplets", quelle goccioline che vengono rilasciate nell'aria quando parliamo, o starnutiamo, oppure emettiamo un colpo di tosse. Ma anche dei cosiddetti "aerosol" , le particelle microscopiche emesse col nostro respiro e, di questi tempi, considerate una minaccia a vari livelli. Gli specialisti del Bambino Gesù di Roma, hanno approfondito la questione con uno studio I risultati dello studio, condotto con lo spin-off universitario Ergon Research e la Società Italiana di Medicina Ambientale (SIMA). I risultati sono stati pubblicati sulla rivista scientifica Environmental Research, fornendo informazioni importanti per contenere la diffusione del virus SARS-CoV2 negli ambienti chiusi anche attraverso il trattamento dell’aria.
Lo Studio. I ricercatori hanno utilizzato potenti strumenti di “simulazione fluidodinamica computazionale” (CFD - Computational Fluid Dynamics) per ricreare virtualmente la sala d’aspetto di un pronto soccorso pediatrico dotata di sistema di aerazione, con all’interno 6 bambini e 6 adulti senza mascherina. L'esperimento si è svolto in tre diverse fasi: con il sistema di aerazione spento, a velocità standard e a velocità doppia, per valutare quanta aria contaminata avrebbe respirato ogni persona presente. "La nostra simulazione in 3D si basa su parametri fisici reali, come la velocità dell’aria che esce da un colpo di tosse, la temperatura della stanza e la dimensione delle goccioline di saliva. Non è una semplice animazione - sottolinea il dott. Luca Borro, specialista 3D del Bambino Gesù e primo autore dello studio. - Grazie a questi parametri e ad algoritmi complessi di fluidodinamica riusciamo ad avere una simulazione dei fenomeni studiati il più possibile vicina alla realtà". I risultati dello studio confermano che i sistemi di condizionamento dell’aria svolgono un ruolo determinante nel controllo della dispersione di droplet e aerosol prodotti col respiro negli ambienti chiusi. Per la prima volta è stato documentato, infatti, che il raddoppio della portata dell’aria condizionata (calcolata in metri cubi orari) all’interno di una stanza chiusa riduce la concentrazione delle particelle contaminate del 99,6%. "L'infezione da virus SARS-CoV-2 - spiega il prof. Carlo Federico Perno, responsabile di Microbiologia e Diagnostica di Immunologia del Bambino Gesù - è trasmissibile attraverso il respiro in relazione a tre elementi fondamentali: lo status immunitario della persona, la quantità di patogeno presente nell'aria, misurata in particelle per metro cubo, e l’aereazione dell'ambiente. A parità degli altri elementi, dunque, più alta è la concentrazione di virus, maggiore è la probabilità di contagio". "Il ricambio d’aria negli ambienti – sottolinea il prof. Alessandro Miani, presidente SIMA - anche attraverso l’attivazione di sistemi scientificamente validati di aerazione, purificazione e ventilazione meccanica controllata, si rivela fondamentale nella diluizione del virus e nel suo trasferimento, per quanto possibile, all’esterno, ovverosia nella mitigazione degli inquinanti biologici aerodispersi presenti nelle droplet, riducendo significativamente la concentrazione del patogeno in aria. Questo, unitamente all'utilizzo di mezzi di barriera (mascherine, distanziamento e igiene delle mani), oggi rappresenta il principale strumento per ridurre il rischio di contagio in ambienti confinanti".
Come si diffonde il virus a partire da un colpo di tosse. Redazione su Il Riformista il 30 Ottobre 2020. Cosa succede se una persona fa un colpo di tosse magari mentre è in attesa in un pronto soccorso? I ricercatori dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù ha riprodotto in una simulazione in 3D del viaggio nell’aria delle goccioline Salivari grandi (droplet) e di quelle microscopiche (aerosol) emesse col respiro. Nella ricostruzione vengono riprodotti esattamente i movimenti delle particelle biologiche nell’ambiente e l’impatto dei sistemi di areazione sulla loro dispersione. I risultati dello studio, condotto con lo spin-off universitario Ergon Research e la Società Italiana di Medicina Ambientale (SIMA), sono stati pubblicati sulla rivista scientifica Environmental Research, fornendo informazioni importanti per contenere la diffusione del virus SARS-CoV2 negli ambienti chiusi anche attraverso il trattamento dell’aria. La ricostruzione è avvenuta grazie all’utilizzo di potenti mezzi di “simulazione fluidodinamica computazionale” per ricreare virtualmente la sala d’aspetto di un pronto soccorso pediatrico dotata di sistema di aerazione, con all’interno 6 bambini e 6 adulti senza mascherina. Nei 30 secondi dopo il colpo di tosse ci sono tre diversi scenari in cui il virus si propaga: con il sistema di aerazione spento, a velocità standard e a velocità doppia, per valutare quanta aria contaminata avrebbe respirato ogni persona presente. “La nostra simulazione in 3D si basa su parametri fisici reali, come la velocità dell’aria che esce da un colpo di tosse, la temperatura della stanza e la dimensione delle goccioline di saliva. Non è una semplice animazione”, sottolinea Luca Borro, specialista 3D del Bambino Gesù e primo autore dello studio. “Grazie a questi parametri e ad algoritmi complessi di fluidodinamica riusciamo ad avere una simulazione dei fenomeni studiati il più possibile vicina alla realtà”. “Siamo orgogliosi di contribuire a questo studio con le nostre conoscenze di fluidodinamica computazionale”, afferma Lorenzo Mazzei, consulente CFD di Ergon Research. “L’attività ha dimostrato che, se usati correttamente, questi strumenti possono favorire una maggior comprensione del fenomeno e guidare verso un utilizzo efficace della ventilazione meccanica per migliorare la qualità dell’aria negli ambienti indoor”.
Da ospedalebambinogesu.it il 30 ottobre 2020. Un colpo di tosse in un pronto soccorso al tempo del COVID-19. Il viaggio nell'aria delle goccioline salivari grandi (droplet) e di quelle microscopiche (aerosol) emesse col respiro.
LO STUDIO. Una simulazione in 3D realizzata dai ricercatori dell'Ospedale Pediatrico Bambino Gesù riproduce esattamente il movimento delle particelle biologiche nell'ambiente e l'impatto dei sistemi di aerazione sulla loro dispersione. I risultati dello studio, condotto con lo spin-off universitario Ergon Research e la Società Italiana di Medicina Ambientale (SIMA), sono stati pubblicati sulla rivista scientifica Environmental Research, fornendo informazioni importanti per contenere la diffusione del virus SARS-CoV2 negli ambienti chiusi anche attraverso il trattamento dell'aria. Lo studio sulla dispersione di contaminante negli ambienti chiusi è stato realizzato dagli specialisti del Dipartimento di Diagnostica per Immagini e dalla Direzione Sanitaria del Bambino Gesù, in collaborazione con gli ingegneri di Ergon Research e la Società Italiana di Medicina Ambientale (SIMA) per la supervisione tecnico-scientifica. I ricercatori hanno utilizzato potenti strumenti di "simulazione fluidodinamica computazionale" (CFD - Computational Fluid Dynamics) per ricreare virtualmente la sala d'aspetto di un pronto soccorso pediatrico dotata di sistema di aerazione, con all'interno 6 bambini e 6 adulti senza mascherina. In questo ambiente virtuale è stato tracciato il comportamento delle goccioline e dell'aerosol nei 30 secondi successivi al colpo di tosse in tre diversi scenari: con il sistema di aerazione spento, a velocità standard e a velocità doppia, per valutare quanta aria contaminata avrebbe respirato ogni persona presente. Utilizzando la serie di parametri fisici che regola la dispersione aerea delle particelle biologiche (velocità, accelerazione, quantità, diametro delle droplet, turbolenza, moti connettivi generati dall'aria condizionata), i ricercatori hanno ottenuto una simulazione 3D "fisicamente corretta", che riproduce, cioè, quello che accadrebbe esattamente in un ambiente reale. «La nostra simulazione in 3D si basa su parametri fisici reali, come la velocità dell'aria che esce da un colpo di tosse, la temperatura della stanza e la dimensione delle goccioline di saliva. Non è una semplice animazione» sottolinea il dott. Luca Borro, specialista 3D del Bambino Gesù e primo autore dello studio. «Grazie a questi parametri e ad algoritmi complessi di fluidodinamica riusciamo ad avere una simulazione dei fenomeni studiati il più possibile vicina alla realtà». «Siamo orgogliosi di contribuire a questo studio con le nostre conoscenze di fluidodinamica computazionale» afferma Lorenzo Mazzei, consulente CFD di Ergon Research. «L'attività ha dimostrato che, se usati correttamente, questi strumenti possono favorire una maggior comprensione del fenomeno e guidare verso un utilizzo efficace della ventilazione meccanica per migliorare la qualità dell'aria negli ambienti indoor».
I RISULTATI. I risultati dello studio confermano che i sistemi di condizionamento dell'aria svolgono un ruolo determinante nel controllo della dispersione di droplet e aerosol prodotti col respiro negli ambienti chiusi. Per la prima volta è stato documentato, infatti, che il raddoppio della portata dell'aria condizionata (calcolata in metri cubi orari) all'interno di una stanza chiusa riduce la concentrazione delle particelle contaminate del 99,6%. Al tempo stesso, la velocità doppia causa una dispersione aerea di droplet e aerosol più rapida e a distanze più grandi rispetto all'aria condizionata con portata standard oppure spenta: a condizionatore spento le persone più vicine al bambino che tossisce (1,76 metri nella simulazione) respirano l'11% di aria contaminata mentre i più lontani (4 metri) non vengono raggiunti dalla "nube" infetta. Con il sistema a velocità doppia si abbatte la concentrazione di contaminante e le persone più vicine ne respirano lo 0,3%, ma vengono raggiunte rapidamente anche quelle più lontane che in questo caso respirano lo 0,08% di aerosol contaminato, percentuali bassissime e sostanzialmente irrilevanti ai fini del contagio. «L'infezione da virus SARS-CoV-2 - spiega il prof. Carlo Federico Perno, responsabile di Microbiologia e Diagnostica di Immunologia del Bambino Gesù - è trasmissibile attraverso il respiro in relazione a tre elementi fondamentali: lo status immunitario della persona, la quantità di patogeno presente nell'aria, misurata in particelle per metro cubo, e l'aereazione dell'ambiente. A parità degli altri elementi, dunque, più alta è la concentrazione di virus, maggiore è la probabilità di contagio». «Il ricambio d'aria negli ambienti – sottolinea il prof. Alessandro Miani, presidente SIMA - anche attraverso l'attivazione di sistemi scientificamente validati di aerazione, purificazione e ventilazione meccanica controllata, si rivela fondamentale nella diluizione del virus e nel suo trasferimento, per quanto possibile, all'esterno, ovverosia nella mitigazione degli inquinanti biologici aerodispersi presenti nelle droplet, riducendo significativamente la concentrazione del patogeno in aria. Questo, unitamente all'utilizzo di mezzi di barriera (mascherine, distanziamento e igiene delle mani), oggi rappresenta il principale strumento per ridurre il rischio di contagio in ambienti confinanti».
Mara Magistroni per wired.it il 29 ottobre 2020. Qualche settimana fa vi abbiamo raccontato del balletto dei Centri di controllo e prevenzione delle malattie statunitensi (Cdc) che prima pubblicano un aggiornamento sulle modalità di trasmissione del coronavirus evidenziando la possibilità di trasmissione aerea (airborne), e poi lo ritirano. Un errore, dicono: una bozza non sottoposta a revisione che non doveva ancora essere pubblicata. Adesso quella bozza, forse un po’ edulcorata, è tornata online. Sulla base di evidenze scientifiche crescenti, gli esperti dei Cdc riconoscono che la modalità di trasmissione aerea (a più di un metro di distanza) tramite aerosol (goccioline più piccole di 5 micron) del coronavirus è possibile, sebbene più rara di quella per contatto diretto con una persona infetta o tramite droplet. Le condizioni per la diffusione airborne sarebbero spazi chiusi, non adeguatamente ventilati e affollati. Insomma, sempre più organizzazioni nazionali e esperti mondiali mettono sostengono la questione airborne, trovandosi così in disaccordo con l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), reticente all’aggiornamento delle proprie linee guida. Che cosa la blocca?
Le prove crescenti di trasmissione airborne. Già a luglio 239 scienziati avevano sollecitato con una lettera l’Oms a modificare il proprio punto di vista, sottolineando come le prove di trasmissione aerea di Sars-Cov-2 si stessero accumulando. E oggi alcuni di loro rincarano la dose, con una nuova lettera pubblicata su Science. “Ci sono prove schiaccianti che questa è un’importante via di trasmissione per Covid-19, e abbiamo un disperato bisogno di una guida federale in questa direzione”, ha dichiarato al Washington Post Linsey Marr, esperta di aerosol alla Virginia Tech e tra gli autori della lettera su Science. “Vorrei sottolineare che la trasmissione aerea a corto raggio quando le persone sono a stretto contatto, ovvero l’inalazione di aerosol, probabilmente è più importante della trasmissione da parte di goccioline di grandi dimensioni che vengono spruzzate sulle mucose”. Secondo questi scienziati ci sarebbero casi ben documentati in cui il coronavirus si è diffuso in modo ampio e rapido in un ambiente chiuso: un ristorante a Guangzhou, in Cina, un autobus nella provincia cinese di Zhejiang, un call center a Seoul, un coro nello stato di Washington (dove un membro ha infettato più di 50 persone). Episodi che gli esperti dei Cdc hanno ritenuto sufficienti per modificare le proprie linee guida. Gli aerosol e la trasmissione aerea “sono l’unico modo per spiegare gli eventi di superdiffusione che stiamo vedendo”, ha aggiunto sempre al Washington Post Kimberly Prather dell’Università della California a San Diego, anche lei tra gli autori del nuovo documento. Secondo l’esperta una volta che la via aerea verrà ufficialmente riconosciuta diventerà un problema risolvibile attraverso un’adeguata ventilazione e indossando sempre le mascherine al chiuso. Perché una distanza sociale sicura non esiste in ambienti chiusi.
La reticenza dell’Oms: motivazioni e critiche. Come aveva già dichiarato Benedetta Allegranzi, responsabile tecnico del settore dedicato al controllo delle infezioni dell’Oms, l’organizzazione non nega che il coronavirus possa diffondersi anche per via aerea tramite aerosol oltre la distanza di sicurezza attualmente raccomandata. Sostiene tuttavia che dal punto di vista scientifico le prove siano ancora insufficienti: le condizioni in cui si verificherebbe la trasmissione aerea sarebbero particolari e più rare, e gli scienziati non sarebbero ancora riusciti a replicarle per studiare le dinamiche di diffusione. Una visione troppo rigida e medicalizzata secondo molti esperti, che contestano anche le definizioni di airborne e aerosol dell’Oms, ritenendole formali e in fin dei conti fittizie. Ma non sarebbe solo questo a frenare l’Oms. Stando a quanto dichiarato da Paul Hunter dell’Università dell’East Anglia in Gran Bretagna, l’organizzazione deve tenere conto delle questioni geopolitiche. Le linee guida si rivolgono a ogni Paese del mondo e non tutti hanno le medesime risorse: spostare l’attenzione su una modalità di trasmissione al momento ritenuta meno determinante potrebbe indurre alla migrazione di quelle poche risorse negli stati a basso e medio reddito. Anche questa motivazione, però, è soggetta a critiche da parte di alcuni esperti internazionali, che reputano l’atteggiamento dell’Oms un po’ paternalistico.
Uno studio può cambiare tutto: "Malati Covid? Non contagiano". Lo studio indiano, condotto in due Stati del subcontinente, ha anche provato a fare luce sul tema della contagiosità dei bambini rispetto agli adulti. Gerry Freda, Sabato 03/10/2020 su Il Giornale. Un recente studio scientifico indiano, pubblicato il 30 settembre sulla rivista Science, ha avanzato la tesi, fondata su specifiche ricerche epidemiologiche, che la maggior parte dei soggetti infettati dal Covid non sarebbe affatto contagiosa. Al contrario, soltanto una piccola minoranza all’interno di un’ampia percentuale di positivi sarebbe abitualmente responsabile della diffusione del virus. La ricerca citata è stata condotta da un gruppo di esperti del Center for Disease Dynamics, Economics and Policy di Nuova Delhi, analizzando le catene di trasmissione del patogeno in due Stati federati del subcontinente: Andhra Pradesh e Tamil Nadu. In questi territori, le autorità hanno finora individuato più di 575 mila persone esposte al virus, con circa 85mila casi confermati. A detta dei ricercatori indiani, i malati realmente responsabili della trasmissione sarebbero pochi, appena l’8% del totale dei contagiati. La stessa piccola percentuale di infetti, però, avrebbe una carica virale in grado di dare luogo a una “super diffusione” del Covid. Questo particolare è stato messo in luce da Ramanan Laxminarayan, uno degli autori dello studio apparso su Science, con le seguenti parole di stupore: “Siamo stati molto sorpresi dei nostri risultati. In pratica, l'8 per cento dei pazienti indice, quelli che danno origine a una catena di trasmissione, è stato responsabile del 60 percento delle infezioni secondarie. Sospettavamo di un fenomeno di super diffusione, ma queste proporzioni sono totalmente inaspettate”. La super diffusione del coronavirus, evidenzia il medesimo ricercatore indiano, sarebbe generalmente favorita nelle condizioni di sovraffollamento, in cui ciascuno si trova a stretto contatto con altre persone oppure all’interno del proprio nucleo familiare: “Secondo i nostri dati, in caso di contatti ravvicinati le probabilità di trasmissione variano dal 2,6 in comunità al 9 percento all'interno del nucleo familiare, i rapporti di mortalità variano dallo 0,05 percento tra i pazienti di età compresa tra cinque e 17 anni, fino al 16,6 percento per i soggetti al di sopra degli 85 anni”. Lo studio citato ha inoltre fatto luce sul ruolo dei bambini nella diffusione dei contagi. Il gruppo di esperti indiani ha appunto accertato che, in linea generale, i bimbi possono rimanere contagiati e dare vita a loro volta a catene di trasmissione: “Il ruolo dei bambini – ha sottolineato sempre Laxminarayan- è stato molto dibattuto nella letteratura scientifica a riguardo, ma nel nostro lavoro emerge una prevalenza di infezione tra i più piccoli che sono entrati in contatto con i coetanei. In particolare, nei contesti a basso reddito o con risorse limitate, i bambini hanno costituito circa un terzo dei casi positivi”. Tuttavia, proprio riguardo al tema della contagiosità dei minorenni, gli esperti indiani hanno preferito rinviare giudizi definitivi, puntualizzando, nella ricerca pubblicata su Science, che saranno necessari ulteriori studi per determinare la capacità di trasmissione del Covid da parte dei bambini rispetto a quella degli adulti.
Valentina Arcovio per ''Il Messaggero'' il 2 ottobre 2020. «Gli italiani contagiati dal nuovo coronavirus sono molti di più di quanto riportano le stime ufficiali e i test sierologici potrebbero non aiutarci a rintracciarli tutti». A parlare è Paolo Gasparini, docente ordinario di genetica all'Università di Trieste e direttore del dipartimento di Diagnostica avanzata dell'Ospedale Burlo Garofalo di Trieste, che svela nuovi e inquietanti limiti alla nostra conoscenza sulla diffusione del virus Sars-Cov-2. Con implicazioni importanti per la futura gestione della pandemia.
Professore, perché pensa che il numero dei contagiati reali sia più alto?
«Sulla base di uno studio che abbiamo condotto al Burlo Garofalo, in cui abbiamo dimostrato che gli anticorpi sviluppati a seguito del contagio, dopo poco tempo non risultano più rilevabili nel sangue. E' come se sparissero. Quindi, con i nostri attuali strumenti non siamo in grado di individuare tutte le persone colpite dal virus».
Di quanto pensa sia stato sottostimato il numero totale dei contagiati?
«A luglio le stime dell'Istat indicavano circa 1,5 milioni di persone contagiate. Ma quando è stata effettuata la rilevazione probabilmente gli anticorpi cominciavano già a scomparire. Noi stimiamo circa 6 milioni di contagiati. E' ovviamente solo una stima approssimativa, ma è più vicina al numero reale del fenomeno».
Come è arrivato a questo calcolo?
«Scoprendo che gli anticorpi spariscono in pochi mesi nella stragrande maggioranza dei casi. Abbiamo testato, tra aprile e luglio, 720 dipendenti dell'ospedale, sia amministrativi in smartworking che gli operatori sanitari a contatto con i malati. In una prima rilevazione effettuata tra fine marzo e inizi aprile abbiamo scoperto che il 17 per cento era positivo e che aveva sviluppato gli anticorpi. In molti casi si trattava di persone asintomatiche o paucisintomatiche, che non sospettavamo nemmeno che fossero positive. In particolare, la percentuale di positività tra gli amministrativi è stata del 10 per cento, quella degli operatori sanitari del 20 per cento. Dopo tre mesi abbiamo effettuato una nuova rilevazione: ebbene, se ad aprile il 17 per cento era positivo al test, dopo tre mesi meno dell'1 per cento aveva ancora gli anticorpi. Con un semplice calcolo possiamo stimare che il dato dell'Istat è quasi sei volte più basso di quello che potrebbe essere il dato reale».
In pratica, gli anticorpi che potrebbero dirci se in passato siamo stati contagiati o meno a un certo punto scompaiono?
«Proprio così. Più precisamente, la quantità degli anticorpi si riduce drasticamente nel tempo, tanto che non sono più rilevabili con gli attuali test a nostra disposizione. Io stesso, che avevo scoperto di essermi ammalato, ora non ho più gli anticorpi che dimostrano la mia passata positività».
Quali possono essere le implicazioni del vostro studio?
«Diverse. Primo: ci domandiamo se gli attuali test sierologici determinano o meno se una persona è stata contagiata o meno in passato. Secondo: ci chiediamo quanto durerà l'efficacia di un futuro vaccino».
E' probabile che l'immunità al virus Sars-Cov-2 duri molto poco e che quindi potremmo ammalarci più volte?
«Questa purtroppo è una possibilità. Tuttavia è anche possibile che il nostro sistema immunitario conservi in memoria il virus e che metta in circolo gli anticorpi solo nel momento in cui diventa necessario e che è per questo che dopo un po' non riusciamo a rivelarli con i nostri test».
Quale potrebbe essere l'ipotesi alternativa?
E' possibile che dovremmo abituarci all'idea che periodicamente ci toccherà fare i conti con il virus, anche se avremo fatto un vaccino. E' bene quindi prepararsi a ogni eventualità per evitare di essere nuovamente colti alla sprovvista».
Oms, appello di 238 scienziati. "Contagio aereo sottovalutato". La lettera prova a mettere in guardia sul comportamento del virus: "Anche le particelle più piccole sono pericolose". Manila Alfano, Martedì 07/07/2020 su Il Giornale. Una lettera aperta all'Organizzazione mondiale della Sanità, 239 scienziati uniti per dire attenzione a sottovalutare. «Il covid viaggia nell'aria più di quanto si pensava». Più di quanto credeva l'Oms. Attenzione alle particelle virali che rimangono nell'aria che sono infettive. È uno dei temi più dibattuti nel mondo scientifico dall'inizio dell'epidemia di Coronavirus. Secondo quanto riporta il New York Times 239 scienziati di 32 Paesi hanno inviato una lettera aperta all'Oms, indicando le prove che dimostrerebbero come anche le particelle più piccole, quelle che rimangono per più tempo nell'aria, possono infettare le persone. Gli esperti chiedono all'Organizzazione di rivedere quindi le sue raccomandazioni. I ricercatori hanno in programma di pubblicare la loro lettera su una rivista scientifica la prossima settimana. Dal canto suo, l'Oms sostiene da tempo che il Coronavirus si diffonde principalmente attraverso grandi goccioline respiratorie che, una volta espulse da persone infette in tosse e starnuti, cadono rapidamente sul pavimento. La dottoressa Benedetta Allegranzi, riporta il New York Times, responsabile tecnico dell'OMS sul controllo delle infezioni, ha affermato che le prove che il virus che si diffonde nell'aria non sono convincenti: «Soprattutto negli ultimi due mesi, abbiamo affermato diverse volte che consideriamo la trasmissione aerea possibile, ma certamente non supportata da prove solide o addirittura chiare», ha detto, sottolineando come ci sia «un forte dibattito su questo». Eppure, all'interno dell'Oms i pareri non sono unanimi. Diversi consulenti e membri dell'agenzia hanno osservato come il Comitato per la prevenzione e il controllo delle infezioni sia vincolato da una visione rigida e eccessivamente medicalizzata delle prove scientifiche, oltre ad essere lento e avverso al rischio nell'aggiornamento della sua guida. Nelle linee guida dettate il 6 aprile l'Oms sosteneva che le mascherine sono utili per non diffondere il virus se indossate da persone malate e sono indispensabili per gli operatori sanitari, ma invitava alla cautela rispetto all'uso generalizzato, sottolineando che non esistono sufficienti prove scientifiche del fatto che le mascherine aiutino una persona sana a evitare l'infezione. Anzi nella stessa informativa ammoniva sul falso senso di sicurezza che potrebbero infondere. «Sono molto scossa dalle questioni relative alla trasmissione aerea del virus», ha affermato al Times Mary-Louise McLaws, membro del comitato ed epidemiologa dell'Università del New South Wales a Sydney. «Se iniziassimo a riconsiderare il flusso d'aria, dovremmo essere pronti a cambiare molto di ciò che facciamo». Il dibattito era partito all'inizio di aprile, quando un gruppo di 36 esperti in materia di qualità dell'aria e aerosol esortava l'Oms a considerare le prove crescenti sulla trasmissione aerea del Coronavirus. L'agenzia aveva risposto chiamando Lidia Morawska, leader del gruppo e consulente dell'Oms di lunga data. Ma dalla discussione sarebbe emersa la solita raccomandazione (senza dubbio fondamentale) del lavaggio delle mani. La dottoressa Morawska e altri avevano segnalato diversi episodi in cui indicano la trasmissione aerea del virus, in particolare negli spazi interni scarsamente ventilati e affollati. Secondo loro l'OMS stava facendo una distinzione artificiale tra piccoli aerosol e goccioline più grandi, anche se le persone infette sono in grado di produrle entrambi.
Paolo Russo per ''la Stampa'' il 7 luglio 2020. Gli esperti italiani invitano alla prudenza e aspettano la pubblicazione dello studio prima di tirare le somme, ma quella lanciata da 239 scienziati di tutto il mondo è a suo modo una bomba: il Covid non si trasmetterebbe soltanto con colpi di tosse, starnuti e contatti ravvicinati, ma anche semplicemente respirando l'aria in una stanza dove ha sostato una persona infetta. Un rischio che, se confermato, costringerebbe a dover dare una bella stretta alle misure di sicurezza che molti hanno già deciso invece per proprio conto di allentare. «È ora di occuparsi della trasmissione area del Covid-19» scrivono in una lettera aperta all'Oms e alle altre autorità sanitarie del pianeta gli oltre 200 esperti di 32 Paesi, anticipando le conclusioni di uno studio multicentrico in via di pubblicazione nella rivista "Clinical Infectious Diseases". Finora l'Organizzazione mondiale della sanità ha continuato a ripetere che la trasmissione del virus avviene da persona a persona, attraverso il cosiddetto «droplet», le goccioline di dimensioni comunque rilevanti emesse quando si parla, si tossisce o emette uno starnuto. Ma in 239 chiedono ora all'Oms di rivedere le sue posizioni, perché «esiste un potenziale ma significativo rischio di inalare il virus contenuto nelle microscopiche goccioline respiratorie», che si propagherebbero a breve e media distanza, fino a diversi metri». Da qui la necessità di ventilare meglio luoghi di lavoro, scuole, ospedali e case di riposo. O installare strumenti di controllo delle infezioni, come filtri d'aria di alto livello, e speciali raggi ultravioletti in grado di uccidere i microbi. Anche se poi precisano che quella aerea «non è certamente la principale modalità di trasmissione del coronavirus». Secondo un altro studio dell'Università di Nicosia, precauzioni andrebbero però prese anche all'aria aperta, quando tira il "venticello". Con uno strumento in grado di replicare i colpi di tosse i ricercatori ciprioti hanno dimostrato infatti che con un vento tra i 4 e i 14 chilometri orari le goccioline possono viaggiare fino a 6 metri in una manciata di secondi. Ma sul fatto che ci si possa contagiare soltanto respirando l'aria che ci circonda i nostri scienziati ci vanno cauti. «Che la trasmissione possa avvenire anche con micro-goccioline di aerosol è ancora da dimostrare. Abbiamo visto che questo è stato possibile nelle terapie intensive, ma li la concentrazione del virus era elevata», afferma il virologo dell'Università di Milano, Fabrizio Pregliasco. «Prima di trarre conclusioni aspettiamo la pubblicazione dello studio. Certo è -aggiunge- che se fosse vero dovremmo adottare misure più stringenti, come l'obbligo della mascherina in tutti i luoghi chiusi o la presenza di non più di due persone per 10 metri quadri quando non si è all'aria aperta». Alla cautela invita anche il direttore sanitario dello Spallanzani, Francesco Vaia. «Se lo studio dimostrerà una sua validità scientifica anche l'Oms finirà per cambiare la strategia di prevenzione, aumentando a oltre un metro il distanziamento nei luoghi chiusi, vietando l'uso dei ventilatori e dei condizionatori senza sistemi di ricambio dell'aria. Come Spallanzani -anticipa- stiamo già per pubblicare il decalogo dell'areazione corretta nei luoghi chiusi». Chi nello studio internazionale ci vede poco di nuovo è invece il consigliere del ministro Speranza, Walter Ricciardi. «Che il virus si potesse trasmettere anche con il vapore acqueo generato dalla respirazione lo sapevamo già. La strategia non cambia: al chiuso mantenere il distanziamento, lavare le mani, indossare la mascherina e dove possibile far entrare il sole, che è il più potente disinfettante in natura».
I rischi senza la mascherina: ecco il nuovo studio sui contagi. Un nuovo studio sul Coronavirus rivela che può viaggiare fino a 4 metri di distanza dalla persona infetta e raggiungerne una sana in breve tempo. Rosa Scognamiglio, Martedì 21/07/2020 su Il Giornale. Il coronavirus può spostarsi fino a 4 metri di distanza dalla fonte anche in assenza di vento. E' quanto, in estrema sintesi, emerge da un recente studio sulle droplets, le ormai notorie goccioline di areosol che veicolano la trasmissione del patogeno da un individuo infetto ad uno sano. "La distanza sociale di 1-2 metri potrebbe non essere sufficiente per impedire alle particelle esalate da una persona di raggiungere qualcun altro", avvertono gli autori della ricerca.
Lo studio. Il lavoro è stato pubblicato sulla rivista scientifica Physics of Fluids e vanta la firma di alcuni dei più illustri ingegneri di aerodinamica e fisica del mondo contemplando, tra i vari, il contributo dell'Uc San Diego Jacobs School of Engineering, dell'University of Toronto e dell'Indian Institute of Science. Attraverso l'osservazione di dati specifici, gli esperti hanno scoperto che il coronavirus può raggiungere una distanza di oltre quattro metri dalla fonte anche in assenza di vento. I flussi di micro particelle droplets possono spostarsi agevolmente da un corpo all'altro - fanno testo anche eventuali superfici di destino - in determinate condizioni ambientali e climatiche. In virtù di quanto appurato "il distanziamento sociale di 1-2 metri potrebbe non essere sufficiente senza mascherine", affermano i ricercatori. L'obiettivo dello studio è quello di predire una stima approssimativa delle persone che, nelle prossime settimane, potrebbero entrare in rotta di collissione col virus ed eventualmente scovare uno stratagemma per batterlo sul tempo. A tal riguardo, è stato elaborato un modello matematico in grado di stanare il nemico e prevederne le mosse future.
In cosa consiste il modello matematico. Il sistema approntato dal team di ingenieri si basa sulla “teoria del tasso di collissione” che consente di misurare la percentuale di interazione e collisione di una nuvola droplets espirata da una persona infetta a contatto (non diretto) con altre sane. Il modello, nato per capire il ruolo dell'aerosol che si produce quando respiriamo, è il primo basato su un approccio che, in generale, si usa per studiare le reazioni chimiche. Per questo motivo, chiariscono gli scienziati, può essere applicato per prevedere non solo la diffusione precoce del Covid-19 ma anche quella di altri virus respiratori. La strategia messa a punto collega l'interazione umana su scala demografica con i risultati della fisica delle goccioline su micro-scala (quanto lontano e velocemente si diffondono le goccioline e quanto durano). La strategia messa a punto dagli scienziati collega l'interazione umana su scala demografica con i risultati della fisica delle goccioline su micro-scala (quanto lontano e velocemente si diffondono le goccioline e quanto durano). "Alla base di una reazione chimica c'è che due molecole si stanno scontrando. La frequenza con cui si scontrano ti darà la velocità con cui procede la reazione - spiega uno degli autori, Abhishek Saha, professore di ingegneria meccanica all'University of California San Diego - Qui è esattamente lo stesso: la frequenza con cui le persone sane entrano in contatto con una nuvola di goccioline infette può essere una misura di quanto velocemente può diffondersi la malattia". La trasmissione, più o meno rapida, delle droplets dipende imprescindibilmente dal favore delle condizioni climatiche.
Il clima incide sulla rapidità di diffusione del virus? La fisica delle goccioline "Dipende in modo significativo dal tempo, - prosegue Saha - e sei in un clima più freddo e umido, le goccioline da uno starnuto o di un colpo di tosse dureranno più a lungo e si diffonderanno più lontano che se ti trovi in un clima caldo e secco, dove evaporeranno più velocemente. Noi abbiamo incorporato questi parametri nel nostro modello di diffusione dell'infezione e non ci risulta che sia stato fatto in modelli precedenti, per quel che sappiamo". Una delle scoperte più interessanti in seno alla ricerca riguarda l'interazione tra virus e clima: a una temperatura di 35 gradi con 40% di umidità relativa, una gocciolina può spostarsi di quasi 2,5 metri. Ma a 5 gradi e con l'80% di umidità, la distanza che è in grado di coprire supera quota 3,6 metri. Tutto dipende dalla dimensione delle droplets: le goccioline di 14-48 micron rappresentano un rischio maggiore di contagio perché impiegano più tempo a evaporare e percorrono distanze più lunghe. Le particelle più piccole, invece, evaporano in una frazione di secondo mentre le più grandi si depositano rapidamente sul terreno per effetto del loro peso. Queste osservazioni, sottolineano gli autori, sono "un'ulteriore prova" dell'importanza di indossare le mascherine, in quanto "in grado di bloccare le particelle delle dimensioni più critiche". "La distanza sociale di 1-2 metri - concludono - potrebbe non essere sufficiente per impedire alle particelle esalate da una persona di raggiungere qualcun altro".
Da open.online il 16 luglio 2020. Una squadra di ricercatori sostiene che i raggi ultravioletti abbiano un effetto sul virus Covid-19: riescono a inattivare la carica virale. La scoperta è stata fatta da medici dell’Università degli Studi di Milano che lavorano nell’ospedale Luigi Sacco, il centro di riferimento lombardo per l’epidemia. Alla ricerca hanno collaborato anche l’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf) e l’Istituto nazionale dei tumori. A guidare il team c’è Mario Clerici, professore ordinario di Immunologia all’Università di Milano e direttore scientifico della Fondazione Don Gnocchi.
L’esperimento con lampade diverse. L’esperimento è stato fatto posizionando goccioline di liquido contenente Sars-Cov-2 sotto alcune lampade che trasmettevano raggi Uv di tipo C, quelli che non penetrano l’atmosfera. Il liquido è stato usato come fac-simile di quello che in genere si emette parlando o starnutendo. A spiegarlo al Corriere della Sera è lo stesso Mario Clerici: «Abbiamo valutato una dose bassa di virus (quella che può esserci in una stanza dove è presente un positivo), una dose cento volte più alta (che si può trovare in un soggetto con forma grave di Covid-19) e una quantità mille volte più alta, impossibile da trovare in un essere umano o in una qualunque situazione reale. In tutti tre i casi la carica virale è stata inattivata in pochi secondi al 99,9% da una piccola quantità di raggi UvC». Dopo il primo tentativo andato a buon fine, lo stesso procedimento è stato ripetuto utilizzando i raggi UvA e UvB che, invece, arrivano sulla Terra. E il risultati sono molto simili, come riporta il Corriere della Sera. «Partendo da questi dati ci siamo poi chiesti se ci fosse una correlazione tra irraggiamento solare e epidemiologia di Covid-19. Minore è la quantità di UvA e UvB, maggiore è il numero di infezioni. Questo potrebbe spiegarci perché in Italia, ora che è estate, abbiamo pochi casi e con pochi sintomi, mentre alcuni Paesi nell’altro emisfero – come quelli del Sud America, in cui è inverno – stanno affrontando il picco».
Un’estate senza l’ossessione della mascherina. Secondo Clerici, quindi, quest’estate potremo passarla senza la necessità di dover indossare la mascherina a ogni costo, sulla spiaggia. Questo perché «le goccioline che possono essere emesse da un eventuale soggetto positivo vengono colpite dai raggi solari e la carica virale è disattivata in pochi secondi. Il discorso potrebbe valere anche per superfici di ogni genere».
Le teorie su una seconda ondata. E su una probabile futura ondata, il professore teme quasi certamente che questo possa accadere, ma in forma più debole rispetto a quanto accaduto da marzo in poi. «Il virus che vediamo oggi è lo stesso di febbraio e marzo, non ha subito mutazioni nel suo genoma, se non minime. Dunque è sempre “cattivo”. La differenza è che i raggi solari lo inattivano, rendendo molto più difficile la trasmissione da un soggetto all’altro e anche la replicazione all’interno di un organismo. Il Covid, come tutti i virus, si adatterà all’uomo ma oggi, in Italia, il rallentamento dell’epidemia è dovuto principalmente a motivi ambientali».
"Disattivato in pochi secondi": così i raggi Uv eliminano il virus. Da una ricerca condotta da un team di medici e astrofisici italiani è emerso che il coronavirus diventa inattivo in pochi secondi con piccole quantità di raggi UvC. Gabriele Laganà, Mercoledì 15/07/2020 su Il Giornale. Il Sole potrebbe essere un nostro importante alleato nella lotta contro il coronavirus. Secondo uno studio condotto da un team italiano composto da medici del dipartimento "Luigi Sacco" dell’Università degli Studi di Milano, astrofisici dell’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf) e Istituto nazionale dei tumori, i raggi ultravioletti emessi dalla nostra stella disattiverebbero il temibile microrganismo in pochi secondi. Una notizia per certi versi clamorosa che potrebbe segnare una svolta decisiva nella guerra a Covid-19. A confermare l’attendibilità dello studio è Mario Clerici, primo firmatario dei lavori, professore ordinario di Immunologia all’Università di Milano e direttore scientifico della Fondazione Don Gnocchi. In una intervista rilasciata al Corriere della Sera, illustrando i risultati della ricerca, il professore ha spiegato che si è arrivati a definire l’efficacia dei raggi ultravioletti nei confronti di Sars-CoV-2 attraverso un meccanismo relativamente semplice: "Dapprima abbiamo utilizzato delle lampade a raggi Uv di tipo C, quelli che non arrivano sulla Terra perché bloccati dall’atmosfera". Questi dispositivi, ha sottolineato Clerici, sono simili a quelli usati per purificare gli acquari. "Nell’esperimento- ha continuato- sono state posizionate sotto le lampade gocce di liquido di diverse dimensioni (droplet) contenenti Sars-CoV-2, per simulare ciò che può essere emesso parlando o con uno starnuto. Abbiamo valutato una dose bassa di virus (quella che può esserci in una stanza dove è presente un positivo), una dose cento volte più alta (che si può trovare in un soggetto con forma grave di Covid-19) e una quantità mille volte più alta, impossibile da trovare in un essere umano o in una qualunque situazione reale". Ebbene, i risultati sono stati estremamente promettenti. In tutti e tre i casi, infatti, la carica virale è stata resa inattiva al 99,9% in pochi secondi utilizzando una piccola quantità di raggi UvC. "Ne bastano 2 millijoule per centimetro quadrato", ha specificato il professore che poi ha aggiunto che il virus utilizzato negli esperimenti, fornito dall’Istituto Spallanzani di Roma, sono altamente patogeni, tratti da campioni biologici di pazienti. Per avere ulteriori risposte, il team ha eseguito lo stesso esperimento con i raggi UvA e UvB, quelli cioè che arrivano sulla superficie terrestre. Da una prima analisi, come ha ammesso Clerici, i risultati sono molto simili ma non sono ancora stati messi a disposizione della comunità scientifica perché sono ancora in fase stiamo di elaborazione definitiva. "Il lavoro degli astrofisici- ha spiegato il professore- è stato raccogliere dati sulla quantità di raggi solari in 260 Paesi, dal 15 gennaio a fine maggio. La corrispondenza con l’andamento dell’epidemia di Sars-CoV-2 è risultata quasi perfetta: minore è la quantità di UvA e UvB, maggiore è il numero di infezioni". Questo induce il direttore scientifico della Fondazione Don Gnocchi a spiegare cosa sta accadendo nel mondo a causa del coronavirus. Non sarebbe un caso, secondo il professore, che Italia ora che è estate "ci sono pochi casi e con pochi sintomi, mentre alcuni Paesi nell’altro emisfero, come quelli del Sud America, in cui è inverno, stanno affrontando il picco". Un caso a parte è rappresentato da Bangladesh, India e Pakistan. In questi tre Paesi, nonostante il clima caldo l’epidemia è in espansione. Ma vi sarebbe una risposta che spiegherebbe l’incongruenza: le nuvole dei monsoni bloccano i raggi solari e, quindi, non fermano il coronavirus. Il professore, però, ha sottolineato che"nell’analisi dei colleghi astrofisici, sono state prese in considerazione anche altre variabili, come l’uso della mascherina e il distanziamento interpersonale". Clerici si è detto sicuro che si può stare tranquilli in spiaggia, anche senza mascherina, in quanto "le goccioline che possono essere emesse da un eventuale soggetto positivo vengono colpite dai raggi solari e la carica virale è disattivata in pochi secondi. Il discorso potrebbe valere anche per superfici di ogni genere". Se la ricerca sarà confermata si potrebbe anche risolvere il problema della disinfezione dei luoghi chiusi. In questo caso, basterebbe utilizzare lampade a raggi Uv i cui raggi, ha spiegato ancora il professore "non sarebbero dannosi per gli esseri umani perché parliamo di quantità minime e tempi brevi. Potrebbero utilizzate nei cinema, negozi, uffici e anche nelle scuole. Anche se fosse necessario tenere accese le lampade per diverse ore in presenza di persone, non ci sarebbero rischi per la salute". Clerici ha anche illustrato che è stato condotto uno studio sul rapporto tra quantità di raggi solari e influenza stagionale, analizzando un arco temporale di un secolo: "La classica influenza scompare con l’arrivo della stagione calda, per ricomparire poi da ottobre a marzo. E non dà alcuna immunità di gregge, come sembra accadere nel caso di Sars-CoV-2". Infine, il professore si è anche detto certo che una seconda ondata di Covid ci sarà ma non potente come la prima perché il virus sarà indebolito: "Il virus che vediamo oggi è lo stesso di febbraio e marzo, non ha subito mutazioni nel suo genoma, se non minime. Dunque è sempre "cattivo". La differenza è che i raggi solari lo inattivano, rendendo molto più difficile la trasmissione da un soggetto all’altro e anche la replicazione all’interno di un organismo". "Sars-CoV-2, come tutti i virus, si adatterà all’uomo- ha aggiunto Clerici- ma oggi, in Italia il rallentamento dell’epidemia è dovuto principalmente a motivi ambientali".
«Ricambio d’aria e tono di voce basso. Covid, come combattere le goccioline infette». Laura Cuppini su Il Corriere della Sera l'8 luglio 2020. L’Oms ha ammesso, dopo la lettera di 239 scienziati, che il problema della trasmissione aerea esiste. Buonanno: «I luoghi critici sono gli ambienti chiusi di dimensioni ridotte e con limitata ventilazione». E le mascherine chirurgiche non bastano. La trasmissione aerea di Sars-CoV-2, attraverso le particelle emesse da soggetti positivi che rimangono sospese nell’aria, potrebbe diventare una delle frontiere della lotta alla pandemia. Dopo la lettera di 239 scienziati di 32 Paesi, anticipata dal New York Times e pubblicata su Clinical Infectious Diseases, l’Organizzazione mondiale della sanità ha ammesso che il problema esiste. «Stiamo collaborando con molti dei firmatari della lettera. Ci sono evidenze su questo tema e crediamo di dover essere aperti e studiare per comprenderne le implicazioni sulle modalità di trasmissione e sulle precauzioni da prendere. Ci sono alcune specifiche condizioni in cui non si può escludere la trasmissione aerea, soprattutto in luoghi molto affollati, chiusi. Ma le evidenze vanno raccolte e studiate» ha sottolineato Benedetta Allegranzi, responsabile tecnico dell’Oms per il controllo delle infezioni. «Gli esperti che hanno firmato la missiva ci potranno aiutare per esempio nel comprendere l’importanza della ventilazione negli ambienti. Stiamo studiando e tenendo in considerazione ogni possibile via di contagio» ha precisato Maria Van Kerkhove, a capo del gruppo tecnico per il coronavirus dell’Oms.
I 239 scienziati, tra cui l’italiano Giorgio Buonanno, professore ordinario di Fisica tecnica ambientale all’Università degli Studi di Cassino e alla Queensland University of Technology di Brisbane (Australia), chiedono di rivedere o integrare le linee guida: «L’Oms ha ribadito che il coronavirus si diffonde soprattutto per droplet di dimensioni rilevanti che, una volta emesse dalle persone infette attraverso tosse e starnuti ma anche durante la semplice respirazione o mentre il soggetto parla, cadono rapidamente a terra» scrivono. Ma anche le particelle più piccole possono infettare le persone e dunque una corretta ventilazione degli ambienti e i cosiddetti “filtri facciali” (mascherine N95, FFP2, FFP3) sarebbero essenziali negli ambienti chiusi.
Professor Buonanno, come avviene la trasmissione aerea?
«La trasmissione aerea del contagio avviene per inalazione dell’aerosol emesso da un soggetto infetto (goccioline di diametro inferiore a 10 micron). Per avere il contagio è però necessario inalare un’adeguata quantità di carica virale, ovvero una dose infettante. Inoltre questo virus ha un tempo di dimezzamento della carica virale di circa un’ora».
Quali sono le differenze tra goccioline “grandi”, che cadono a terra per la forza di gravità, e goccioline piccole, che rimangono sospese nell’aria?
«Sulle goccioline grandi (droplet, diametro superiore ai 10 micron) la gravità agisce in modo importante, portandole di fatto al suolo in pochi secondi. Le goccioline più piccole (aerosol) sono invece soggette ai fenomeni di evaporazione e rimangono in sospensione in aria per tempi molto lunghi: hanno quindi la possibilità di muoversi per tratti molto più lunghi rispetto ai droplet».
Le goccioline di piccole dimensioni possono trasmettere il contagio?
«I principi che spiegano teoricamente la dinamica dell’aerosol sono noti da tempo e sono validi per molti altri virus. Durante il corso di una epidemia è sempre difficile trovare dei casi che provino il contagio per via aerea: questa analisi retrospettiva viene svolta solitamente a fine epidemia (come nel caso della Sars). Abbiamo però numerosi casi ed evidenze che dimostrano chiaramente come questo virus possa contagiare per via aerea».
Il rischio esiste anche se la persona che le produce ha una bassa carica virale (come sta emergendo da numerosi studi sui tamponi)?
«Il rischio esiste anche in questo caso, ma notevolmente ridotto. Il soggetto infetto emetterà una minore carica virale e, quindi, in condizioni di buona ventilazione e ridotti tempi di esposizione, il rischio sarebbe basso».
Quali sono i luoghi in cui potrebbe avvenire più facilmente la trasmissione aerea di Sars-CoV-2?
«I luoghi critici sono gli ambienti chiusi di dimensioni ridotte e con limitata ventilazione».
Ci può descrivere il modello che ha messo a punto per calcolare il livello di rischio nei vari ambienti e quali sono i fattori che entrano in gioco, oltre naturalmente alla presenza di uno o più soggetti positivi?
«Il modello teorico messo a punto permette di valutare il rischio individuale di infezione di un soggetto sano sulla base del carico virale emesso dal soggetto infetto (quanta, dove un quantum rappresenta una dose infettante), il numero di ricambi orari dell’aria (ventilazione), la volumetria del locale, i tempi di esposizione. Bisogna specificare che i quanta emessi dipendono dall’attività del soggetto: un soggetto che parla ad alta voce può emettere 100 volte più carico virale rispetto allo stesso soggetto in silenzio».
Facciamo qualche esempio pratico: cosa si può fare per rendere sicuri scuole, ospedali, residenze per anziani, uffici?
«La ventilazione gioca un ruolo fondamentale nella gestione del rischio. Purtroppo in Italia la cura della qualità dell’aria degli ambienti indoor non è mai stata affrontata, delegando alla semplice ventilazione naturale (aria che passa attraverso porte e finestre) il compito di “ripulire” l’aria negli ambienti. Questo è un problema più generale, che riguarda la qualità dell’aria in presenza di qualsiasi sorgente indoor (inquinante). Potrebbe essere questa l’occasione per mettere in sicurezza i nostri ambienti, ma sarebbero necessari investimenti importanti».
Uso corretto delle mascherine e ricambio frequente dell’aria sono criteri sufficienti per proteggersi?
«Il rischio zero non esiste, ma accanto alla ventilazione e alla riduzione dell’emissione (evitando di parlare ad alta voce, per esempio) l’uso corretto delle mascherine chirurgiche può ridurre ulteriormente le possibilità di contagio da aerosol, anche se non in modo rilevante. Questo perché le mascherine chirurgiche nascono per particelle di dimensioni maggiori di 10 micron».
Va bene qualunque tipo di mascherina?
«A differenza delle mascherine chirurgiche, i filtri facciali (FFP2, FFP3, N95) hanno un’efficienza di filtrazione molto elevata, anche per le tipiche dimensioni dell’aerosol».
Il distanziamento di almeno un metro è comunque utile?
«Il distanziamento è condizione necessaria ma non sufficiente per non avere contagi per via aerea negli ambienti chiusi. Con il distanziamento si evita di entrare in contatto con i droplet, le goccioline più grandi, che cadono in prossimità del soggetto infetto».
Lo smog può essere un fattore che facilita la diffusione di Sars-CoV-2?
«Non c’è alcuna relazione tra la diffusione del contagio da Sars-CoV-2 e il particolato atmosferico. In ambienti aperti il contagio non può trasmettersi per via aerea a causa dell’elevata “diluizione” della carica virale: è impossibile, per il soggetto sano, inalare una sufficiente dose infettante».
L’aria condizionata può avere un ruolo?
«L’aria condizionata non ha alcun ruolo nella trasmissione del contagio per via aerea».
Come si è svolta la discussione con l’Oms?
«La prima petizione firmata da 36 scienziati nei primi giorni di aprile è stata discussa con l’Organizzazione mondiale della sanità, ma senza risultato. Abbiamo quindi inviato una lettera-articolo, sottoscritta da 239 esperti internazionali, sullo stesso tema. Il 6 luglio abbiamo inviato una nuova petizione all’Oms per il riconoscimento della possibilità di questa modalità di contagio. In realtà, tra le raccomandazioni internazionali, compare da tempo la ventilazione negli ambienti chiusi che, ovviamente, non sarebbe necessaria in assenza di trasmissione aerea».
Ecco dove si nasconde il Covid. Così scatta la slavina contagio. Sull'interno delle mascherine, alcune parti del virus sopravvivono fino a 7 giorni. Ecco quanto rimane attivo il Sars-CoV-2 nei diversi ambienti. Francesca Bernasconi, Sabato 13/06/2020, su Il Giornale. Dalle mascherina, alle prese d'aria, fino all'aerosol. Il nuovo coronavirus può "nascondersi" su diverse superfici, dove sopravvive per ore e, in alcuni casi, per giorni. Dall'inizio della pandemia sono stati effettuati vari studi, che hanno osservato la capacità del Sars-CoV-2 (o di una sua parte) di rimanere attivo dopo essere venuto a contatto con i materiali.
Il Sars-CoV-2 rimane sulle superfici. La malattia si trasmette tramite i droplets, le piccole goccioline emesse da una persona infetta con uno starnuto o un colpo di tosse, che si propagano per brevi distanze e poi si depositano sugli oggetti che trovano lungo il loro percorso. Uno studio, pubblicato ad aprile su The Lancet, aveva analizzato il comportamento del virus sulle diverse superfici. I ricercatori avevano osservato che su carta da stampa e carta velina, il Sars-CoV-2 resiste poche ore, mentre su acciaio e plastica, le tempistiche risultano maggiori. Lo studio è stato preso in considerazione anche dall'Istituto superiore di sanità (Iss), che lo ha citato in un Report in cui erano state inserite le "Raccomandazioni ad interim sulla sanificazione di strutture non sanitarie nell’attuale emergenza Covid-19: superfici, ambienti interni e abbigliamento". Alcuni studi effettuati sui coronavirus precedenti a Sars-CoV-2 hanno mostrato la possibilità per alcuni agenti patogeni (come quello responsabile della Sars e della Mers) di sopravvivere su varie superfici per un tempo che oscilla da poche ore a qualche giorno, a seconda del materiale su cui si posano, della temperatura, della concentrazione e dell'umidità. Si tratta, però, di dati riferiti all'Rna del virus, che non era legato alla sua infettività. Gli studi sul Covid-19, invece, indicano che, su carta da stampa e carta velina, le particelle virali infettanti sono presenti fino a 30 minuti, ma non sono state più rilevate dopo 3 ore. Su tessuto e legno, invece, il virus è stato rilevato ancora a distanza di un giorno, ma non dopo due giorni, mentre per banconote e vetro, si parla di sopravvivenza fino a 2 giorni, ma non dopo il quarto giorno. Il patogeno sembra resistere maggiormente su plastica e acciaio inox, dove è stato identificato a distanza di 4 giorni, ma non dopo i 7 giorni.
I dubbi sull'aerosol e le prese d'aria. Ma il nuovo coronavirus non resiste solamente sulle superfici. Uno studio, pubblicato ad aprile sul New England Journal of Medicine, infatti, indicava la presenza del Sars-CoV-2 in aerosol anche dopo 3 ore, in condizioni da laboratorio. L'aerosol è composto da minuscole particelle che rimangono sospese nell'aria. Il principale mezzo di trasmissione del virus sono le goccioline, prodotte da starnuti e colpi di tosse, ma non è escluso che anche la nuvola di particelle possa portare al contagio. Una ricerca effettuata nell'ottobre 2019 prendeva in considerazione la trasmissione di diversi virus (tra cui Ebola, Mers e Sars) negli ospedali. Secondo gli autori, l'uso di procedure mediche che generano aerosol per il trattamento di pazienti con infezioni virali potrebbe "potenzialmente amplificare una normale via di trasmissione per i virus respiratori o aprire una nuova via di trasmissione per altri virus". Nel testo si sottolinea che queste procedure (come ventilazione, intubazione e tracheostomia) "potenzialmente in grado di generare aerosol, sono state associate ad un aumentato rischio di trasmissione della SARS agli operatori sanitari o sono state un fattore di rischio per la trasmissione". Il virus potrebbe cioè essere trasmesso dal paziente infetto tramite l'aerosol generato da alcuni macchinari usati per il trattamento medico, ma gli studi a riguardo sono ancora incompleti. Per questo, i ricercatori hanno ipotizzato che i virus potessero "contaminare" l'ambiente circostante: il rischio di un "contagio per via aerogena era stato ipotizzato e dimostrato in alcuni contesti particolari- aveva precisato il presidente dell'Iss, Silvio Brusaferro-e in presenza di alcune procedure soprattutto in ambito sanitario". Uno studio relativo al Sars-CoV-2, pubblicato a marzo su Jama, ha analizzato i campioni ambientali di diverse superfici, dei dispositivi di protezione individuale e dell'aria. I campioni relativi al paziente C, prelevati prima della pulizia ordinaria, hanno "ottenuto risultati positivi, con 13 (87%) di 15 siti di locali (compresi i ventilatori di uscita dell'aria) e 3 (60%) di 5 siti di servizi igienici (water, lavandino e maniglia della porta ) che restituisce risultati positivi". Inoltre, "i tamponi prelevati dalle uscite di scarico dell'aria sono risultati positivi, suggerendo che piccole gocce cariche di virus possono essere spostate dai flussi d'aria e depositate su apparecchiature come le prese d'aria". Nonostante la presenza del virus in tali circostanze, non è ancora stata chiarita la sua capacità infettiva. Per farlo, saranno necessari nuove ricerche più approfondite.
Il virus sulle mascherine. "Uno studio in laboratorio ha rilevato parti di virus nella parte interna delle mascherine dopo 7 giorni dall'inoculo". È l'ultima rivelazione sulla sopravvivenza del virus, arrivata dal presidente dell'Istituto superiore di sanità (Iss), Silvio Brusaferro, che qualche giorno fa è intervenuto alla Commissione di inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti e su illeciti ambientali ad esse correlati. Il Report dell'Iss aggiornato al 15 maggio indicava la presenza di particelle virali infettanti a 4 giorni sullo strato interno delle mascherine chirurgiche e a 7 giorni sullo strato esterno. Dopo 7 giorni, invece, non erano state rilevate particelle infettanti. Ma ora, un nuovo studio avrebbe rilevato la presenza di alcune parti del nuovo coronavirus nella parte interna delle mascherine anche a distanza di 7 giorni. "Si tratta - aveva precisato Brusaferro -di uno studio scientifico in ambienti protetti, non è dunque immediatamente assimilabile a situazioni normali. Costruire un setting sperimentali vuol dire tenerlo protetto da luce del sole e da altri fattori che hanno una influenza" sui risultati nella vita reale. Dagli studi sembra quindi che il Sars-CoV-2 (o una sua parte) si "nasconda" su diverse superfici, negli strumenti usati in ospedale e nelle prese d'aria di alcuni ambienti. Ma per capire il suo grado di contagiosità in simili situazioni servono studi più approfonditi ed effettuati su larga scala.
Che cosa fare? Per evitare qualsiasi possibile pericolo di contagio, la prima cosa da fare è disinfettare o sanificare ambienti e superfici. I campioni prelevati dai ricercatori negli ospedali, infatti, hanno mostrato che, dopo la pulizia, non c'era traccia del nuovo coronavirus, "suggerendo che le attuali misure di decontaminazione sono sufficienti".
Già a marzo, l'Istituto superiore di sanità aveva pubblicato un'infografica in cui venivano dati "consigli per gli ambienti chiusi". Veniva indicato come fondamentale il ricambio dell'aria in tutti gli ambienti chiusi, da effettuare aprendo regolarmente le finestre più distanti dalla strada e agli orari meno trafficati. Importante anche "pulire i diversi ambienti, materiali e arredi utilizzando acqua e sapone e/o alcol etilico 75% e/o ipoclorito di sodio 0,5%". In tutti i casi, veniva specificato, "le pulizie devono essere eseguite con guanti e/o dispositivi di protezione individuale". Consigliata anche la pulizia degli impianti di ventilazione: a casa veniva ricordata la pulizia di "prese e griglie di ventilazione dell’aria dei condizionatori con un panno inumidito con acqua e sapone oppure con alcol etilico 75%". È buona norma anche "pulire regolarmente i filtri e acquisire informazioni sul tipo di pacco filtrante installato sull’impianto di condizionamento ed eventualmente sostituirlo con un pacco filtrante più efficiente".
La maggior parte degli infetti non ha trasmesso il virus. Ecco perché. Uno studio degli epidemiologi di Hong Kong rivela: il 70% dei positivi non ha trasmesso il virus. Cosa hanno fatto i "super diffusori". Alessandro Ferro, Domenica 07/06/2020 su Il Giornale. La maggior parte dei contagi del nuovo Coronavirus in giro per il mondo potrebbe essere stata causata da un numero relativamente basso di persone, da una netta minoranza. È questo il risultato di un nuovo studio internazionale, in fase di pre-stampa, che arriva da un gruppo di epidemiologi ad Hong Kong, secondo i quali almeno il 70% degli infetti che ha contratto il virus non avrebbe "colpe" e non ha trasmesso la malattia a nessuno.
Come nasce la "super-diffusione". In pratica, tutto nasce da eventi di "superspreading" (super-diffusione), come recita il titolo dello studio condotto nella Regione amministrativa cinese di Hong Kong. I ricercatori hanno scoperto che soltanto un 20% dei casi studiati lì fosse responsabile dell'80% di tutte le trasmissioni del Covid-19 e che il 70% dei positivi sono risultati innocui perché non sarebbero riusciti a trasmetterlo a nessun altro. Come è stato possibile, quindi? La motivazione principale risiede nelle situazioni dove si è creato un "super-contagio", quando una sola persona sarebbe stata in grado di infettare un numero sproporzionatamente elevato di chi stava intorno. Secono questa ricerca, sarebbe questo il modo principale in cui si è diffuso il Covid-19. Quali sono questi eventi? Soprattutto, gli incontri sociali al chiuso. Lo studio ad Hong Kong. "Gli SSE (eventi di super-diffusione, ndr) sono generalmente definiti come focolai in cui un piccolo numero di casi infetta un gran numero di casi secondari ben al di sopra della media attesa", scrivono i ricercatori nella parte introduttiva dello studio pubblicato su Researchsquare. Per capirlo meglio, dobbiamo intanto considerare il famoso indice R0, cioè quante persone può potenzialmente infettare ognuno di noi. Per il Sars-Cov-2, si è visto che questo indice oscilla tra 2 e 3. "Ma questa cifra ha dei limiti: non trasmette la vasta gamma tra quanto alcune persone infette trasmettono il virus e quanto poco fanno gli altri", afferma il Prof. Benjamin J. Cowling, uno degli autori dello studio in fase di pre-stampa, che hanno analizzato 1.038 positivi al Covid nella città di Hong Kong tra il 23 gennaio ed il 28 aprile e che, utilizzando i dati di tracciabilità dei contatti, hanno identificato tutti i cluster (gruppi) locali di infezione. "Abbiamo scoperto che il superscovering ha contribuito in modo schiacciante alla trasmissione di Sars-Cov-2 nella città in generale", ha dichiarato Cowling al New York Times. I numeri. Dei 349 casi locali identificati (i restanti 689 sono stati importati da altri territori), ben 196 riguardano soltanto sei eventi in cui si è diffuso il contagio. Una sola persona sembra averne contagiate 73 dopo aver frequentato diversi bar alla fine di marzo. Le altre situazioni in cui sono scoppiati i focolai riguardano matrimoni, cene, feste di lavoro e locali dotati di karaoke. "Nel nostro studio soltanto il 20% dei casi, tutti riguardanti incontri sociali, ha rappresentato un sorprendente 80% delle trasmissioni", continua Cowling. E non meno sorprendente è stato un altro risultato ottenuto da questo studio: il 70% delle persone infette non ha trasmesso il virus a nessuno. Gli studiosi credono che l'esempio di Hong Kong, seppur ristretto, possa tranquillamente essere esteso anche a larga scala . "Noi la pensiamo così", dicono, supportati anche da altri studi a sostegno di questa tesi. Il caso in Corea del Sud. È lampante quanto accaduto a metà febbraio in Corea del Sud: una donna di 61 anni ha frequentato le funzioni religiose nella città di Daegu. Poco dopo, si è dimostrata positiva per il Coronavirus e con lei altre decine di persone. Il conteggio dei casi di nel Paese è rapidamente balzato da 29 (il 15 febbraio) ad oltre 2.900 due settimane dopo. Gruppi di infezioni da Covid-19 come questo sono spuntati quasi da un giorno all'altro dando origine a focolai che sono sfuggiti al controllo. Questi picchi, in numerosi casi, sono spesso ricondotti ad un singolo evento "super-spreader" come quello di Daegu, in cui una persona infetta un numero atipicamente elevato di persone. Lo studio su The Lancet ed altri casi. Si dice che tre indizi facciano una prova, e tre indizi li abbiamo: uno studio pubblicato alla fine di aprile su una delle riviste scientifiche inglesi più famose del mondo, The Lancet, basato su dati provenienti da Shenzhen (nel sud della Cina) su casi sospetti tra viaggiatori provenienti da Wuhan, ha concluso che l'80% delle trasmissioni era causato dall'8-9% dei casi. Un altro documento (che sarà pubblicato ad agosto) di fine aprile ha scoperto che 94 dei 216 dipendenti all'11° piano di un affollato call center in Corea del Sud sono stati probabilmente infettati da una singola persona tra fine di febbraio e l'inizio di marzo. Ancora in fase di revisione e prestampa su Merxviv, un altro studio di 212 casi Covid-19 in Israele tra la fine di febbraio e la fine di aprile ha fatto risalire l'80% delle trasmissioni a solo l'1-10% dei casi. La matematica. Secondo la modellistica matematica di Akira Endo, biochimico giapponse della London School of Hygiene and Tropical Medicine, circa il 10‰ dei casi Sars-Cov-2 potrebbe rappresentare l'80% delle trasmissioni in tutto il mondo. Per farlo, si è servito di un modello matematico che ha rilevato un elevato grado di variazione a livello individuale nella trasmissione di Covid-19 ed ha dato lo stesso risultato: l'espansione della pandemia è dovuta ad un numero relativamente basso di persone.
Poche persone, molti contagi: perché? "Gli eventi di super-contagio stanno accadendo più di quanto ci aspettassimo, più di quanto si potrebbe spiegare con il caso. La frequenza di super-contagio è al di là di ciò che avremmo potuto immaginare", ha dichiarato l'epidemiologo Crowling a Businessinsider. Sotto la lente di ingrandimento, quindi, ci sono eventi che, in tutto il mondo, hanno creato focolai di infezioni da Covid-19 che si sono manifestati anche da un giorno all'altro. "Le esposizioni sociali hanno prodotto un numero maggiore di casi secondari rispetto alle esposizioni familiari o lavorative“, hanno scritto gli autori dello studio, aggiungendo che la riduzione degli eventi di super-contagio può avere un effetto considerevole nel ridurre l’R0 del virus. Questi eventi hanno in comune alcune caratteristiche chiave: hanno riguardato incontri al chiuso in cui molte persone di famiglie diverse sono state a stretto contatto. Ciò non indica necessariamente che una persona sia più contagiosa di altre o che stia diffondendo più particelle virali. Semplicemente, hanno accesso ad un numero maggiore di persone negli spazi che facilitano l'infezione. Cos'è il "super-spreading". L'Organizzazione Mondiale della Sanità afferma che non utilizzerà "super-diffusione" come termine tecnico aggiungendo, però, che "ci possono essere incidenti di trasmissione in cui un gran numero di persone può essere infettato da una fonte comune", si legge sull'agenzia britannica Reuters. Il termine "super-spargitore" indica una determinata persona che può essere più in grado di trasmettere malattie rispetto ad altri, ma gli esperti virilogi affermano che non ci sono prove per dimostrare che sia effettivamente così. Chi è un "super-spreader". Quindi, il super-diffusore è una persona o un evento? Sono entrambi. La diffusione di un virus come il nuovo Coronavirus dipende da una serie di fattori ambientali ed epidemiologici che, alla fine, portano alla trasmissione in singoli casi o cluster (gruppi). Questi includono il paziente ed in quale fase della malattia si trovano, il loro comportamento, il loro ambiente e la quantità di tempo trascorso in quell'ambiente. "Non siamo tutti uguali", ha detto Christl Donnelly, professore di epidemiologia statistica all'Imperial College di Londra. “Variamo nel nostro sistema immunitario, nel nostro comportamento e nel luogo in cui ci troviamo. Tutte queste cose possono influenzare il numero di persone a cui vorremmo trasmettere. Pertanto, possono contribuire i fattori biologici e comportamentali, ma anche il tempo e il luogo", ha affermato.
Il modello Giappone: ecco la regola delle "3C". Il Giappone è geograficamente vicinissimo alla Cina, eppure non ha avuto la stessa intensità della pandemia di altri Paesi ed è uno dei pochi posti al mondo in cui si sta, seppur lentamente, ritornando ad uno stile di vita pre-Covid. Come hanno fatto? Il governo ha consigliato alla gente di stare alla larga dalle 3C: closed spaces (spazi chiusi), crowded places (luoghi affollati) e close-contact settings (contesti di contatto ravvicinato), tutti luoghi ideali per eventi di superspreading. "Solo guardando i numeri delle morti, puoi dire che il Giappone ha avuto successo", ha detto a Bloomberg Mikihito Tanaka, un professore dell'Università di Waseda la scorsa settimana. "Ma anche gli esperti non ne conoscono il motivo", si legge su Businessinsider. Forse hanno agito prima, forse hanno funzionato meglio le misure di lockdown, molti esperti affermano che non è chiaro perché il Giappone non sia stato devastato dal virus e che, probabilmente, non lo sapremo fino alla fine della pandemia.
DAGONEWS il 7 maggio 2020. Il coronavirus potrebbe essere trasmesso anche con il sesso. La notizia che getta nello sconforto chi pensava di darsi alla pazza gioia dopo il lockdown arriva dalla Cina dove un gruppo di scienziati dell'ospedale municipale di Shangqiu ha analizzato i campioni di sperma di 38 pazienti che erano risultati positivi al Covid-19. Tra di loro alcuni erano ancora positivi mentre altri erano guariti all’infezione. Dei 38 uomini, 15 (39,5 per cento) erano nella fase acuta dell'infezione. Gli altri si erano ripresi. Dai risultati dei test sul seme si è scoperto che sei pazienti (15,8 per cento) avevano tracce di SARS-CoV-2 nello sperma. Tra questi un quarto di coloro che erano ancora infetti aveva il virus nello seme, ma il risultato degno di nota per gli scienziati che hanno pubblicato la ricerca sulla rivista JAMA, era che l'8,7 per cento di coloro che erano guariti aveva tracce di Covid nel seme. I maggiori esperti di malattie infettive hanno ammesso che i risultati non sono "sorprendenti" visto che, dai test su virus come lo Zika e l’Ebola, è emerso che erano presenti in campioni di sperma. Al momento lo studio cinese non dimostra che il virus può essere trasmesso per via sessuale, ma suggerisce che è possibile. Motivo per cui gli scienziati dello studio invitano all’astinenza durante l’infezione e nella fase di recupero. «Se si potesse dimostrare che il SARS-CoV-2 può essere trasmesso sessualmente in studi futuri, prendere delle precauzioni diventerebbe fondamentale per prevenire la trasmissione – hanno scritto gli scienziati – Anche se il virus non può replicarsi nel sistema riproduttivo maschile, può persistere. L'astinenza o l'uso del preservativo potrebbero essere considerati mezzi preventivi per questi pazienti. Evitare il contatto con la saliva e il sangue del paziente potrebbe non essere sufficiente, poiché la sopravvivenza della SARS-CoV-2 nello sperma di un paziente in fase di recupero mantiene aperta la probabilità di infettare gli altri». Al momento lo studio lascia molte domande aperte, incluso per quanto tempo il virus resiste nel seme anche dopo la guarigione.
(Askanews il 25 maggio 2020) – Le implicazioni sessuali della pandemia del Sars- Cov-2 “hanno ricevuto scarsa attenzione”, e uno studio di tre professori della Harvard Medical School (Jack L. Turban, Alex S. Keuroghlian e Kenneth H. Mayer) pubblicato su “Annals of Internal Medicine” cerca di porvi rimedio. Stilando anche una tabella sulle pratiche più o meno rischiose e consigliando di indossare anche in quel caso la mascherina. Sulla base dei dati esistenti risulta (ovviamente) che tutte le forme di contatto sessuale con un’altra persona portino con sé il rischio della trasmissione del virus, perché il virus è efficacemente trasmesso tramite la vaporizzazione delle goccioline, le droplets o oggetti contaminati. Da qui la regola aurea del distanziamento fisico che però porta con sé “sostanziali conseguenze per il benessere sessuale”. I ricercatori ricordano che nella vita della maggior parte delle persone la sessualità ha un ruolo importante, quindi esortano i medici, gli operatori sanitari “a consigliare al riguardo i pazienti ogni volta che è possibile”. “Questo – scrivono i tre medici – è un periodo senza precedenti e molto stressante per gli operatori sanitari”, ma “facilitare brevi conversazioni e riferimenti a informazioni pertinenti può aiutare i pazienti a mantenere il proprio benessere sessuale anche nel mezzo alla pandemia”. Ecco perché i tre professori hanno elaborato anche una tabella sui rischi di contagio da Sars-Cov-2- legati ai vari approcci sessuali, facendo una ricognizione degli studi esistenti. Si parte infatti da un dato: “Le prove attuali suggeriscono che tutti i contatti sessuali in presenza di un’altra comportano rischi di trasmissione”. Infatti “SARS-CoV-2 è presente nelle secrezioni respiratorie e si diffonde attraverso particelle aerosolizzate, ed è in grado di resistere sulle superfici per giorni”. Quindi “sulla base di queste informazioni, tutti i tipi di attività sessuale con un’altra persona probabilmente comportano il rischio di trasmissione del virus”. “Le persone infette possono diffondere le loro secrezioni respiratorie sulla loro pelle e oggetti personali da cui il virus può essere trasmesso ai partner sessuali”. E visto che molte persone affette dal virus – ricordano – sono asintomatiche – “gli operatori sanitari in realtà hanno ben poco da offrire come guida ai pazienti se non quella di consigliare l’astensione da qualsiasi attività sessuale con un’altra persona in presenza”. Gli studi invece sulle specifiche vie di trasmissione sessuale sono scarsi e contraddittori: uno studio su un piccolo campione di pazienti non ha rilevato la presenza del virus nello sperma o nelle secrezioni vaginali. Invece un ulteriore studio ha rilevato il virus, usando la reazione di trascrizione inversa della polimerasi a catena, nello sperma di 6 pazienti su 38 (15.8%) . Ma “di fatto la rilevanza della trasmissione sessuale rimane sconosciuta”. E avvertono i dottori di Harvard “fino a quando ciò non sarà compreso meglio, sarebbe prudente considerare lo sperma potenzialmente infetto”. Stessa situazione incerta per la presenza del virus nelle urine (uno studio lo ha rilevato, un altro no) nel dubbio “anche l’urina dovrebbe essere considerata potenzialmente infettiva”. L’Rna del virus è invece stato rilevato in campioni di feci, anche se non si sa se sia in grado di infettare e quale sia la carica virale. Al di là di questi dati rimane il fatto “che qualsiasi contatto interpersonale comporta un rischio sostanziale per la trasmissione della malattia”, visto che il virus rimane sulle superfici comuni e si “propaga nell’orofaringe e nel tratto respiratorio”. A questo punto i dottori esaminano gli effetti psicologici dell’astinenza sessuale e ricordano che “l’espressione sessuale è un aspetto centrale della salute umana, ma spesso è trascurata dagli operatori sanitari”. Quindi messaggi che rappresentano il sesso come un pericolo “possono avere effetti psicologici insidiosi” specie in un momento come questo in cui le persone sono fragili e la loro salute mentale è particolarmente esposte. In particolare “alcuni gruppi, comprese le comunità di minoranza sessuale e di genere, possono essere particolarmente vulnerabili allo stigma sessuale, dato il trauma storico di altre pandemie, come l’Aids”, e “le raccomandazioni sull’astinenza possono evocare ricordi della diffusa stigmatizzazione delle persone durante la crisi dell’Aids”; dall’altro lato “per la popolazione in generale, è improbabile che una raccomandazione sull’astinenza sessuale a lungo termine sia efficace, dati i fallimenti ben documentati degli interventi di sanità pubblica basati sull’astinenza”, oltre al fatto di “promuovere un senso di vergogna”. Detto questo i tre professori hanno stilato una tabella con gli indici di rischio in relazione alle pratiche sessuali, dalla meno alla più rischiosa. L’astinenza è segnata come l’approccio più a basso rischio per la salute sessuale durante la pandemia. La masturbazione “è un’ulteriore raccomandazione”, in quanto non comporta il rischio di infezione da Sars-CoV-2. Al terzo posto in tempo di pandemia è consigliata l’attività sessuale a distanza, che siano telefono, chat, video, o piattaforme digitali meglio se crittografate. Con l’avvertenza qui di fare attenzione alla privacy e ai rischi di revenge porn. Anche questa soluzione però – notano i ricercatori – può non essere praticabile per tutti, ad esempio chi non ha accesso a internet. Del resto, “per alcuni pazienti, l’astinenza completa dall’attività sessuale di persona non è un obiettivo raggiungibile”. Quindi “in queste situazioni, fare sesso con le persone con cui si è in quarantena è l’approccio più sicuro”. Ma il rischio ovviamente ritorna se l’isolamento cessa e si esce fuori di casa, Rischio che aumenta esponenzialmente se il partner sessuale non è la persona con cui si è in quarantena. I tre professori di Harvard consigliano comunque di “ridurre i partner sessuali, evitare i partner che manifestano evidenti sintomi, evitare i baci , evitare i e sessuali che comportino rischio di contaminazione fecale o che coinvolgano sperma e urina, farsi la doccia prima e dopo il rapporto sessuale, pulire lo spazio fisico dell’alcova con sapone e salviette imbevute di alcol” e anche “indossare la mascherina”.Per i medici “gli operatori sanitari dovranno comunque integrare i nuovi progressi scientifici riguardo al virus anche nell’ottica della salute sessuale”. Ad esempio, “come successo durante l’epidemia di Hiv i test sugli anticorpi potrebbero svolgere un ruolo chiave nel modo in cui si valuta il rischio sessuale”.Ancora non si sa se e per quanto chi risulta positivo agli anticorpi sia immune all’infezione, ma se ciò fosse – sottolineano i medici – si potrebbe ricorrere alla “sierodiscriminazione”: coloro che risultano positivi per anticorpi anti-SARS-CoV-2 potrebbero presumere di avere rapporti sessuali sicuri. Ma “sono necessarie ulteriori ricerche per sapere se questa sarà una strategia efficace”. L’invito generale è quello a raccogliere più dati e “mentre continuiamo a combattere la pandemia, i ricercatori e gli operatori sanitari dovrebbero tenere presente la sessualità umana come un aspetto importante della salute e consigliare i pazienti ogni volta che sia possibile”. E “con un atteggiamento non giudicante per incoraggiare discussioni e minimizzare la vergogna”.
Da "ilmessaggero.it" il 28 Aprile 2020. Maneggiare le banconote non ci espone ad alcun rischio significativo di prendere il coronavirus: parola della Bce. In un post sul suo blog, Fabio Panetta, membro del Comitato esecutivo della Banca centrale europea, ha tranquillizzato in merito a questo timore citando dei test secondo cui il virus sopravvive molto più a lungo su altre superfici. Panetta ha sottolineato che i test fatti da alcuni laboratori europei hanno dimostrato che il tasso di sopravvivenza del coronavirus è «da 10 a 100 volte superiore» su una superficie d'acciaio piuttosto che su una banconota di euro nelle prime ore dopo la contaminazione. «Altre analisi mostrano che è molto più difficile che un virus si trasmetta da superfici porose come le banconote di cotone, piuttosto che da superfici lisce come la plastica» ha aggiunto Panetta. Le banconote di euro sono infatti stampate su una carta di pura fibra di cotone, cosa che aiuta a renderle resistenti all'uso e alla rottura. «Nel complesso - ha tranquillizzato Panetta - le banconote non rappresentano un rischio di infezione particolarmente significativo rispetto ad altri tipi di superficie con cui le persone vengono a contatto giornalmente». La Bce ricorda che il contante resta il principale metodo di pagamento dell'eurozona, essendo utilizzato per i tre quarti delle transazioni. La domanda di contante è stata «meno prevedibile» in epoca di coronavirus, ha aggiunto ancora spiegando che alcune persone accumulano soldi a casa mentre altri spendono meno a causa del lockdown.
La tempistica della trasmissione. Coronavirus, qual è il tempo del contagio? La risposta del virologo del Cotugno. Antonio Lamorte su il Riformista il 28 Aprile 2020. Il tempo necessario affinché si verifichi un contagio da Covid-19 è di 15 minuti. Lo ha dichiarato nel corso del giornale radio locale di Radio Crc Targato Italia Massimo Sardo, virologo dell’Ospedale Cotugno di Napoli. “I 15 minuti rappresentano il tempo necessario affinché ci sia una possibile trasmissione – ha dichiarato Sardo – questa è la definizione di contatto stretto. Restare a meno di un metro di distanza dalla persona che presenta il coronavirus può trasmettere l’infezione attraverso le goccioline di saliva che si trovano nell’aria, tutto questo deve avvenire, però, in un periodo di 15 minuti, quindi i contatti occasionali sono molto meno infettanti. Ovviamente, le persone che presentano sintomi sono molto più infettanti degli asintomatici”. L’Ospedale Cotugno è l’avamposto contro il coronavirus della regione e una delle eccellenze a livello mondiale, come riconosciuto da un servizio di Skytg24 britannica. Al Cotugno l’equipe guidata dall’oncologo del Pascale Paolo Ascierto ha anche testato con ottimi riscontri sui pazienti Covid il farmaco anti-artrite tocilizumab. Ai 15 minuti e alla tempistica del contagio aveva fatto oggi riferimento anche il commissario straordinario all’emergenza Domenico Arcuri. “L’App per il contact tracing farà scattare l’alert quando ad esempio il signor Rossi avrà avuto un contatto stretto per più di 15 minuti con una persona positiva. Gli scienziati ci dicono che il tempo minimo certo per essere a rischio contagio in caso di contatto con una persona positiva è di 15 minuti. La distanza considerata a rischio oscilla fra un metro e due metri. Ma è bene considerare il limite massimo”, aveva dichiarato Arcuri nel punto stampa. Che l’esposizione e la tempistica al contagio fosse rilevante nella trasmissione del virus lo avevano evidenziato anche degli studi. Quello dei dottori Joshua D. Rabinowitz e Caroline R. Bartman, ricercatori di chimica che sul New York Times avevano spiegato come non tutte le esposizioni al coronavirus fossero uguali. E che a fare la differenza fosse proprio la quantità di virus con cui si entra in contatto. “Come per qualsiasi altro veleno – avevano spiegato – i virus sono di solito più pericolosi in quantità maggiori. Piccole esposizioni iniziali tendono a portare a infezioni lievi o asintomatiche, mentre dosi più grandi possono essere letali”. Da lì si era formulata la cosiddetta regola dei “sei secondi”.
Coronavirus, le lacrime sono contagiose: lo studio americano. Marco Alborghetti il 12/05/2020 su Notizie.it. Secondo uno studio della John Hopkins University, il 30% dei malati di coronavirus ha sofferto di congiuntivite. Secondo quanto riporta uno studio della John Hopkins University, le lacrime sarebbero un veicolo di diffusione del coronavirus: arriva dall’America la conferma a quanto già rilevato da uno studio dell’Istituto Spallanzani a fine aprile. Gli occhi infatti avrebbero gli stessi recettori delle altre cellule colpite dal virus, come quelle dei polmoni.
Coronavirus, lacrime veicolo di diffusione? Alcuni esperti della John Hopkins University hanno ipotizzato in uno studio la correlazione tra il coronavirus e le lacrime. Più nello specifico, pare che quest’ultime possano rivelarsi veicoli importanti di diffusione. La proteina che Sars-CoV-2 utilizza per entrare nelle cellule è la stessa che gli consente di infettare un organismo tramite gli occhi. I ricercatori hanno trovato negli occhi gli stessi recettori con cui il virus colpisce le cellule dei polmoni, ACE-2.
Congiuntivite primo sintomo. “Questo potrebbe spiegare perché circa il 30% dei pazienti ha sofferto di congiuntivite. Se il virus dovesse entrare attraverso gli occhi, le lacrime potrebbero essere veicolo di diffusione“, spiega Lingli Zhou del Dipartimento di Oftalmologia, Johns Hopkins University School of Medicine. I ricercatori hann svolto la loro ricerca durante le autopsie di alcuni defunti, verificando così che la presenza di ACE-2 nei sulla congiuntiva, sulla cornea e nel corpo vitreo. “Abbiamo trovato anche TMPRSS2, un enzima che coadiuva il virus ad entrare nell’organismo. Questi dati indicano che le cellule della superficie oculare sono suscettibili alle infezioni da Sars-CoV-2. Nelle lacrime si possono pertanto trovare particelle virali che potrebbero provocare la trasmissione dell’infezione ad altri individui”, afferma Zhou, sottolineando l’importanza di adottare pratiche di sicurezza, come una corretta igiene oculare e le maschere per il viso.
Da leggo.it il 22 aprile 2020. I ricercatori dell'Inmi Spallanzani di Roma hanno isolato il virus Sars-CoV-2 nelle lacrime di una paziente. «Il virus è quindi attivo anche nelle secrezioni oculari dei pazienti positivi al virus e potenzialmente infettivo nelle lacrime anche quando i campioni respiratori della paziente, a tre settimane dal ricovero, risultavano ormai negativi». È la conclusione a cui sono arrivati i ricercatori dello Spallanzani in un ricerca pubblicata su "Annals of Internal Medicine". Partendo da un tampone oculare prelevato tre giorni dopo il ricovero da una paziente positiva al virus, ricoverata allo Spallanzani alla fine di gennaio e che presentava una congiuntivite bilaterale, i ricercatori dello Spallanzani sono riusciti ad isolare il virus, dimostrando così che esso, oltre che nell'apparato respiratorio, è in grado di replicarsi anche nelle congiuntive. «Si tratta di una scoperta che ha importanti implicazioni anche sul piano della salute pubblica - evidenziano i ricercatori - tant'è che il risultato è stato comunicato all'Organizzazione mondiale della sanità d'accordo con l'Editor della rivista prima della pubblicazione». La ricerca dello Spallanzani ha inoltre evidenziato «che i tamponi oculari possono essere positivi quando invece i campioni del distretto respiratorio non mostrano più tracce del virus», precisano gli scienziati. «Questa ricerca dimostra che gli occhi non sono soltanto una delle porte di ingresso del virus nell'organismo, ma anche una potenziale fonte di contagio - osserva Concetta Castilletti, responsabile dell'Unità Operativa Virus Emergenti del Laboratorio di Virologia dello Spallanzani - ne deriva la necessità di un uso appropriato di dispositivi di protezione in situazioni, quali gli esami oftalmici, che si pensava potessero essere relativamente sicure rispetto ai rischi di contagio che pone questo virus». Saranno necessari ulteriori studi «per verificare fino a quando il virus continua ad essere attivo e potenzialmente infettivo nelle lacrime: va ricordato infatti che l'analisi molecolare - conclude la ricerca - rileva soltanto la presenza del Rna virale nel campione, e soltanto l'isolamento del virus in una coltura cellulare può evidenziare la sua capacità infettante».
Cristina Marrone per “Salute - Corriere della Sera” il 9 febbraio 2020. Il nuovo coronavirus 2019-nCov, come gli altri coronavirus, si trasmette attraverso le goccioline (droplets) che le persone infette emettono durante i colpi di tosse e gli starnuti. Per evitare il contagio la precauzione più importante resta naturalmente quella di evitare viaggi nelle aree epidemiche della Cina . L' Italia, per contenere il rischio di epidemia ha scelto di sospendere i voli passeggeri per la Cina fino al 28 aprile (restano operativi i voli cargo). Ma chi vive in Italia può fare qualcosa per mettersi al sicuro da eventuali contagi? «Al momento il nuovo coronavirus non sembra circolare nel nostro Paese, i casi di polmonite si contano sulla punta delle dita e finora si tratta di pazienti che hanno contratto l' infezione in Cina» commenta Antonella Castagna, infettivologa, responsabile della Divisione Malattie Infettive dell' Ospedale San Raffaele di Milano. «Sono state prese misure rigorose per arginare il rischio di focolai epidemici in Italia e nel corso delle prossime settimane potremo verificare se queste misure si sono rivelate efficaci; nel frattempo è bene mettere in atto regole di buon senso per limitare la possibilità di trasmissione del virus». Organizzazione mondiale della Sanità e Istituto Superiore di Sanità insistono soprattutto sul lavarsi spesso le mani con acqua e sapone o con disinfettanti alcolici se non c' è acqua a disposizione (soprattutto dopo aver tossito o starnutito, prima e dopo la preparazione di cibo, dopo essere andati in bagno). Strofinare palmi e dorsi con abbondante sapone per un tempo medio di 40 secondi elimina il 99% di batteri e virus. È un gesto semplice a costo quasi zero, troppe volte sottovalutato ma che, al di là del coronavirus, ci aiuta a prevenire molte altre infezioni. «È importante ricordare che la trasmissione può avvenire nel caso in cui dovessimo venire a "contatto stretto" con una persona infetta dal coronavirus. La persona infetta può limitare il rischio di trasmissione ad altri, utilizzando le precauzioni adeguate: indossare la mascherina e lavarsi frequentemente le mani in modo che eventuali goccioline emesse e rimaste sulle mani non vengano "respirate" da altri» sintetizza l' infettivologa. Le altre raccomandazioni suggerite dall' Oms sono: starnutire o tossire in un fazzoletto (e buttarlo via) o nell' incavo del gomito; evitare di toccarsi gli occhi, il naso, la bocca senza essersi lavati le mani; evitare contatti ravvicinati con persone malate o che mostrano sintomi di malattie respiratorie; pulire e disinfettare oggetti e superfici che potrebbero essere contaminati. In particolare, se nelle due settimane successive al ritorno da aree a rischio in Cina compaiono febbre, tosse mal di gola o difficoltà a respirare è importante segnalarlo, telefonando al proprio medico, senza recarsi al Pronto soccorso e riferendo del viaggio in Cina. Il ministero della Salute ha inoltre messo a disposizione un numero di pubblica utilità 1500 per avere ulteriori informazioni. Si è spesso sentito il consiglio di vaccinarsi contro l' influenza. Ma questo difende dal nuovo coronavirus? «No, non esiste un vaccino contro il nuovo patogeno, ma vaccinarsi contro l' influenza e lo pneumococco per le categorie per cui vi è indicazione impedisce la possibile sovrapposizione di patogeni e riduce il rischio di complicanze».
Cristina Marrone per il Corriere della Sera il 23 febbraio 2020. I sintomi del Covid-19 assomigliano molto a quelli dell' influenza e delle forme parainfluenzali, per questo si creano molti falsi allarmi prima che le analisi di laboratorio consentano una diagnosi certa. Febbre, tosse, mal di gola, dolori muscolari sono i più comuni. Segnalati anche congiuntiviti, disturbi intestinali e diarrea, sebbene più rari. Nei casi più seri si manifestano polmoniti che possono portare a gravi insufficienze respiratorie e insufficienza renale. «L' unico elemento (ma non è sempre così) che può far distinguere il coronavirus dall' influenza è l' insorgere di difficoltà respiratorie - spiega Massimo Andreoni, professore di Malattie infettive all' Università Tor Vergata di Roma e direttore scientifico della Società italiana di Malattie infettive tropicali -. Se manca l' aria vale la pena allertare il medico curante, soprattutto qualora si sospetti di essere entrati in contatto con persone risultate positive al virus. Ma solo il tampone faringeo può confermare l' eventuale positività al Covid-19». Il coronavirus, come i rinovirus del raffreddore, segue un andamento stagionale: si diffonde di più in inverno. Il caldo e l' ambiente più secco, oltre al fatto che nella bella stagione si sta meno al chiuso, potrebbero ridurne la diffusione.
TAMPONE. È il personale medico territoriale che valuta, in base alla situazione, chi deve essere sottoposto al tampone faringeo per cercare un' eventuale positività al nuovo coronavirus. Il tampone è una sorta di cotton fioc (come quello usato per cercare le infezioni batteriche alla tonsille) che viene infilato in gola per raccogliere il muco. Il materiale prelevato viene poi inviato a uno dei due laboratori territoriali competenti (ospedale Sacco a Milano e Istituto Spallanzani a Roma) per le analisi. «Non è come un test di gravidanza che può fare chiunque a domicilio e non si vende in farmacia. La corretta raccolta del campione è cruciale per la buona riuscita del test e deve essere quindi fatta da mani esperte per non rischiare falsi negativi o incompleti per inidoneità del campione» spiega Fabrizio Pregliasco, virologo e ricercatore del Dipartimento di scienze biomediche per la salute dell' Università degli Studi di Milano. Inoltre tutta la catena di conservazione del tampone - dalla raccolta al trasporto, fino all' arrivo ai laboratori - deve essere eseguita in modo corretto (il campione viene conservato in un apposito gel) per proteggerne l' eventuale carica virale.
COME SI TRASMETTE. Il coronavirus si trasmette da persona a persona, in genere dopo contatti stretti: in famiglia, in ambienti di lavoro e in luoghi molto affollati come possono essere scuole, supermercati, uffici pubblici. Il contagio, come è successo anche nel Nord Italia, può verificarsi anche in ambiente sanitario. La trasmissione avviene attraverso le alte vie respiratorie (naso e bocca) tramite le goccioline che una persona infetta emette respirando, parlando, tossendo e starnutendo. Perché avvenga il contagio bisogna trovarsi a meno di un metro e mezzo dalla persona portatrice del coronavirus. La trasmissione può avvenire anche portandosi le mani al naso o alla bocca dopo aver toccato una persona infetta o averle stretto la mano (il virus si trasmette attraverso le mucose). Anche se Covid-19 sta circolando in Italia, non è detto che si possa essere contagiati per strada o in luoghi aperti semplicemente toccando una persona già colpita.
PRECAUZIONI. Per difendersi dal contagio ancora oggi la precauzione più efficace è quella individuale, con comportamenti di igiene personale: non toccarsi occhi, naso e bocca con le mani sporche; allontanarsi da chi starnutisce o tossisce; starnutire o tossire in un fazzoletto di carta e buttarlo subito via; mantenere una buona igiene delle superfici. La raccomandazione sulla quale insistono tutte le agenzie sanitarie del mondo è un gesto semplice, a costo quasi zero, ma molto efficace, che limita in misura significativa il passaggio dell' infezione: lavarsi spesso (e bene) le mani con acqua e sapone per almeno 20 secondi, intrecciando le dita e frizionando palmo contro palmo. In mancanza di acqua e sapone possono essere utilizzate soluzioni alcoliche che sono altrettanto efficaci. Le mascherine servono solo agli operatori sanitari che sono a stretto contatto con i pazienti malati e alle persone contagiate per proteggere quelle sane. «In questo momento - commenta il virologo Massimo Andreoni - non è raccomandato né necessario l' uso delle mascherine per la popolazione in generale perché, anche se in alcune zone d' Italia il virus sta circolando, per limitare il contagio basta evitare contatti ravvicinati». Nelle zone dove si sono verificati i focolai sono state predisposte ordinanze molto restrittive. A titolo precauzionale può comunque essere utile fare maggiore attenzione ai luoghi affollati e lavarsi le mani dopo i viaggi sui mezzi pubblici.
COSA SUCCEDE SE TOCCO SUPERFICI INFETTE. Può certamente capitare di starnutire su un oggetto o su una mano con cui poi si tocca qualcosa. In questo caso, attraverso le goccioline emesse, il virus può depositarsi sulle superfici. In teoria, toccando quelle superfici subito dopo la contaminazione e portandosi poi le mani alla bocca ci si potrebbe infettare. Ma si tratta di un meccanismo molto improbabile. «Su questo punto si sta facendo molta confusione dopo la pubblicazione di uno studio che affermava che i coronavirus possono sopravvivere sulle superfici fino a nove giorni» avverte Massimo Andreoni, professore di Malattie infettive all' Università Tor Vergata di Roma. «Il virus nell' ambiente sopravvive poco e male e per essere infettivo deve mantenersi in quantità sufficiente. Potrebbe succedere, ed è un caso remoto, che se tocco la mano o un' altra parte del corpo su cui ha starnutito un soggetto malato e poi mi metto la mano in bocca io venga contagiato. Ma toccare una superficie contaminata è un rischio trascurabile: la carica virale, seppur vitale, è in concentrazione così bassa che difficilmente riuscirebbe a dare l' infezione». L' infettività sulle superfici è dunque così ridotta che il rischio di contagiarsi in questo modo è assolutamente trascurabile. Mantenere una buona igiene degli ambienti resta sempre una strategia vincente: i disinfettanti contenenti alcol, candeggina oppure cloro sono efficaci per disinnescare il coronavirus in pochi secondi. Va ricordato che la via di trasmissione più temuta e più veloce resta comunque quella respiratoria, attraverso le goccioline di tosse e starnuti e non quella da superfici contaminate.
SE HO SINTOMI SOSPETTI CHI CHIAMO. Chi riscontra sintomi simil-influenzali o problemi respiratori non deve andare al Pronto soccorso e neppure recarsi nello studio del medico di base, bensì chiamare il numero 112 (nelle Regioni dove è attivo il numero unico di emergenza) o il 118 e illustrare la situazione. Ogni caso verrà valutato singolarmente e verrà spiegato che cosa fare. A tutti i medici di medicina generale in queste ore è stata distribuita una scheda di triage telefonico con domande da porre ai pazienti che si sospetta potrebbero essere contagiati dal nuovo coronavirus per fare una prima diagnosi. Queste misure servono a evitare che medici e pazienti siano esposti a rischi inutili. Per informazioni generali chiamare il 1500, numero di pubblica utilità attivato dal ministero della Salute.
GLI ASINTOMATICI TRASMETTONO LA MALATTIA. L' Organizzazione Mondiale della Sanità aveva specificato che la trasmissione del virus da parte di pazienti asintomatici è possibile ma molto rara. Alcune prime ricerche avevano tra l' altro evidenziato questa possibilità. Un nuovo studio cinese condotto su 18 pazienti, pubblicato sul New England of Medicine, ha dimostrato che la quantità di nuovo coronavirus presente nel naso e nella gola dei pazienti asintomatici può raggiungere livelli paragonabili a quelli dei malati con sintomi, rendendoli potenzialmente infettivi. La quantità di virus raggiunge il picco subito dopo la comparsa dei primi sintomi, con livelli più alti nel naso che in gola. C'è da dire che chi non ha sintomi non tossisce e non starnutisce ed è quindi improbabile che possa produrre goccioline che favoriscono il contagio. Le persone ritenute asintomatiche in realtà potrebbero avere forme molto lievi della malattia ed essere dunque contagiose. Anche tra le persone risultate positive in Lombardia ci sono asintomatici: stanno bene ma potrebbero essere potenzialmente infettivi anche se è parere di tutta la comunità scientifica che, più i sintomi sono manifesti, più i soggetti sono contagiosi.
L’INFEZIONE COLPISCE SEMPRE IN MODO GRAVE? «Purtroppo no. Può sembrare un paradosso ma la gravità della malattia sarebbe un ottimo sistema per selezionare i pazienti, invece moltissimi sviluppano la malattia in modo blando, come ad esempio in ragazzo rientrato da Whuan e già guarito, e questo rende molto difficile l' identificazione dei pazienti» precisa Massimo Andreoni, direttore scientifico della Società italiana di Malattie infettive tropicali. Secondo quanto emerso dai dati epidemiologici oggi disponibili su decine di migliaia di casi cinesi, nell' 80-90% dei casi il coronavirus causa sintomi lievi e moderati, proprio come un' influenza. Nel 10-15% dei casi può svilupparsi una polmonite, il cui decorso è però benigno in assoluta maggioranza. Si calcola che solo il 4% dei pazienti richieda un ricovero in terapia intensiva e circa il 2,5% di questi muore. Non è ancora chiaro perché alcune persone si ammalino più gravemente di altre. Gli anziani e le persone con problemi di salute rischiano di più e rappresentano infatti la maggior parte delle vittime. Nulla però esclude che anche persone in ottima salute e con polmoni sani possano ammalarsi seriamente (proprio come è successo al paziente di 38 anni ricoverato a Codogno), soprattutto se vengono trascurati i sintomi e se si attendono molti giorni prima di farsi assistere.
Il contagio arriva da tosse e starnuti: può trasmetterlo anche chi ha sintomi lievi? Quanto dura? Le regole per proteggersi. Pubblicato venerdì, 21 febbraio 2020 da Corriere.it. Dall’inizio dell’epidemia apparsa in Cina a dicembre e ufficialmente dichiarata dall’Organizzazione mondiale della sanità il 9 gennaio sono state acquisite informazioni nuove sul comportamento del coronavirus conosciuto come Covid-19?Risponde Giovanni Rezza, responsabile malattie infettive ed epidemiologia dell’Istituto Superiore di Sanità: «No, lo sviluppo dell’epidemia sembra aver confermato la maggior parte delle caratteristiche inizialmente ipotizzate su questo nuovo coronavirus responsabile della malattia indicata col nome di Sars-CoV 2, molto simile a quello che ha dato avvio alla SARS (sindrome respiratoria acuta grave) nel 2002-2003 e al coronavirus della MERS (sindrome respiratoria mediorientale) dal 2014 presente nella penisola arabica. E’ un virus respiratorio appartenente a una famiglia di agenti infettivi noti e che anche in questo caso ha compiuto in una regione della Cina, l’Hubei, capitale Wuhan, un salto di specie dall’animale all’uomo in circostanze che però non sono state ancora descritte».
Dunque come avviene il contagio? «Il virus penetra nelle alte vie respiratorie (naso e bocca) attraverso goccioline emesse da individui infetti con colpi di tosse e starnuti. Perché avvenga la trasmissione è necessario un contatto stretto, indicativamente trovarsi accanto a un malato a circa due metri di distanza in luoghi chiusi, un calcolo prudenziale. Il fatto che adesso il Sars CoV 2 circoli in Italia non significa che si possa essere contagiati per strada o in luoghi aperti semplicemente sfiorando una persona già colpita. Anche per questa malattia infettiva respiratoria esistono i cosiddetti super-diffusori, individui dotati di una carica virale superiore al normale ma anche in questi casi la trasmissione non prescinde da un contatto ravvicinato. Il termine di super diffusore non deve spaventare».
In assenza di sintomi, il coronavirus può passare da un individuo all’altro come affermano ricercatori cinesi in una lettera appena pubblicata sulla rivista New England of Medicine? «In tutte le malattie respiratorie l’eventualità di una trasmissione in assenza di sintomi (febbre, tosse, raffreddore, congiuntivite) non può essere esclusa e fin dall’inizio dell’attuale epidemia l’ipotesi è stata presa in considerazione. E’ accertato però che le possibilità di contagio crescono proporzionalmente ai sintomi. Abbiamo visto che il Sars-CoV 2 provoca una buona percentuale di infezioni caratterizzate da sintomi lievi che non vengono rilevati, ad esempio qualche linea di febbre o un leggero raffreddore. Questi casi possono essere scambiati per asintomatici. Siamo orientati a credere che la Covid-19 sia molto più diffusa delle sindromi che l’hanno preceduta proprio in virtù della sua minore aggressività che le permette di non essere diagnosticata».
Qual’é il tempo di incubazione del Sars-CoV 2? «Il periodo medio è di 5-6 giorni, la durata può variare da 2 a 14 giorni, il periodo stabilito per applicare la quarantena alle persone venute a contatto con un paziente infetto. Se non si ammala entro due settimane significa che è rimasto immune. Ci sono notizie non verificate secondo le quali l’incubazione possa abbracciare un periodo più ampio, fino a tre settimane ma non c’è conferma».
Durante la gravidanza questo coronavirus può passare dalla madre al feto? «Non ci sono storie precedenti di passaggio di questo agente infettivo da donna al bambino. Normalmente i coronavirus non sembrano trasmettersi verticalmente, di solito restano nei polmoni, magari possono raggiungere il sangue ma è molto raro che possano arrivare fino alla placenta. Alle donne in gravidanza viene consigliata e offerta gratuitamente la vaccinazione antinfluenzale (che non protegge dal Sars-CoV 2) perché in questa fase della vita sono più vulnerabili e perché se influenzate durante il parto potrebbero trasmettere il virus al neonato. Secondo la società italiana di malattie infettive e tropicali, la Simit, se la gravidanza è avanzata come nel caso della moglie del 38enne di Codogno trovato positivo in Lombardia e anch’essa colpita dal coronavirus è un fattore certamente positivo «che mette in condizione di ulteriore tranquillità. In Cina un bambino è risultato malato di Covid-19 a 30 ore dalla nascita ma il contagio è probabilmente avvenuto dopo il parto».
L’età avanzata rende più suscettibili al virus? «Come ipotizzato da molti esperti, finora il nuovo coronavirus 2019 ha colpito prevalentemente gli adulti di età compresa tra i 49 e i 56 anni e solo in rarissimi casi i bambini. La conferma è contenuta in uno studio condotto dai ricercatori della Emory University, i cui risultati sono stati pubblicati sulla rivista medica Jama. La ricerca, basata sui dati diffusi dalle autorità cinesi, ha permesso non solo di calcolare l’età media delle persone contagiate dal nuovo coronavirus, ma anche di stimare che in circa un terzo dei casi i sintomi della malattia richiedono il ricovero in terapia intensiva».
E le guarigioni? «Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità il rapporto tra contagi e guarigioni è incoraggiante. La maggior parte dei pazienti, oltre l’80%, contraggono una forma molto lieve tale da permette la guarigione in un paio di giorni. Le forme gravi riguardano soprattutto gli anziani e persone con altre patologie. La letalità, cioè il rapporto tra popolazione e morti, è di circa il 2% rispetto al 10% circa della SARS e ad oltre il 40% della MERS. A neppure due mesi dalla diffusione dell’epidemia non sono disponibili terapie specifiche. Vengono utilizzati in via sperimentali farmaci antivirali studiati per altri infezioni però al momento non si possono trarre conclusioni sull’efficacia».
In primavera l’epidemia influenzale tende a sparire. Si può prevedere un’andamento simile anche per la Covid-19 visto che in ambedue i casi si tratta di sindromi respiratorie? «E’ uno scenario plausibile con la storia di altre epidemie. La SARS è cominciata a novembre del 2002 e ad aprile del 2003 era quasi sparita, ufficialmente conclusa a giugno. La stagionalità delle epidemie è legata al cambiamento delle abitudini delle popolazioni. Nei Paesi occidentali ci si avvia verso temperature più miti, la gente tende a uscire di casa e dai luoghi chiusi, l’anno scolastico ha termine e di pari passo diminuiscono le occasioni di contagio. Si spera che avvenga anche in questa occasione. Però la prospettiva del rallentamento naturale non deve coincidere con l’ abbassamento della guardia».
Come proteggersi? «Le mascherine non servono a meno di non pensare di girare per strada con quelle chirurgiche, senza mai toglierle da bocca e naso, neppure per rispondere al telefono. La protezione efficace è quella individuale con comportamenti di igiene personale. Tutte le agenzie sanitarie insistono molto sul lavaggio frequente delle mani. Negli aeroporti sono stati installati distributori di disinfettanti a disposizione dei passeggeri in arrivo eppure vengono poco utilizzati. Coprire naso e bocca dopo aver tossito e lavare subito dopo le mani è un gesto che andrebbe ripetuto sempre, non solo durante le epidemie».
Cosa fare se avvertiamo sintomi simili all’influenza? «Contattare il medico di famiglia o il 1500, il numero del Ministero della Salute, oppure il 112. I medici telefonicamente sapranno individuare eventuali casi da avviare a ulteriori filtri».
Coronavirus: allarme incubazione e superfici contagiate: risponde l'infettivologo. Alessandro Barcella Le Iene News il 10 febbraio 2020. Due nuovi studi sul coronavirus sostengono che l’epidemia che ha ucciso oltre 900 persone potrebbe avere un’incubazione fino a 24 giorni e che il virus potrebbe mantenersi attivo su alcune superfici anche fino a 9 giorni. Iene.it ha sentito l’infettivologo Matteo Bassetti, che tranquillizza ma non smentisce. Il nuovo coronavirus cinese può restare attivo anche sulla superficie di alcuni oggetti, fino a 9 giorni? L’incubazione del virus non è quella che si credeva fino a oggi, di massimo 14 giorni, ma può arrivare anche a 24? Sono le ultimissime due voci che circolano sul virus nato a Wuhan, nella regione cinese dell’Hubei, e che finora ha ucciso oltre 900 persone, registrando almeno 40.500 casi in tutto il mondo (il 95% dei quali proprio nell’Hubei). Voci estremamente allarmanti, che potrebbero gettare nel panico, ancora di più di quanto non stia già accadendo, il mondo intero. La prima voce arriva dalla Germania, dove i ricercatori della University Medicine Greifswald, con uno studio pubblicato sul Journal of Hospital Infection, sostengono che coronavirus umani e animali potrebbero rimanere attivi (e dunque infettare) anche se presenti su metallo, vetro o plastica, fino a un massimo di nove giorni. Un rischio che però, spiegano, può facilmente essere annullato in caso di adeguata pulizia con “agenti biocidi” , cioè i prodotti usati normalmente per la disinfezione chimica nelle strutture sanitarie. Un allarme a cui si aggiunge quello avanzato dall’epidemiologo cinese Zhong Nanshan, che si occupò dell'epidemia di Sars del 2003. "L'incubazione potrebbe essere zero giorni o arrivare fino a 24, dieci giorni in più di quanto si credesse in precedenza", ha scritto il medico in un articolo, che sta ovviamente facendo il giro del mondo. Panico e notizie infondate potrebbero fare più danni dello stesso virus e allora Iene.it ha deciso di sentire il professor Matteo Bassetti, Direttore della clinica malattie infettive del Policlinico San Martino di Genova e presidente della Società italiana di terapia anti-infettiva (e che avevamo già sentito sulle vere emergenze sanitarie in Italia). La sua risposta, rispetto ai due nuovi allarmi, è confortante, ma il Professor Bassetti non si sente di smentire queste due notizie: “Queste due voci al momento non si possono smentire in maniera assoluta, perché comunque arrivano dal mondo della scienza. I dati pubblicati relativamente ai pazienti di Wuhan parlavano di un periodo di incubazione che andava dai due agli undici giorni, anche se qualcuno già profetizzava che si potesse arrivare ai 14-15, che è quello che in sostanza si è considerato in questa prima fase. Ora esce questo articolo, che sembrerebbe dire che il periodo di incubazione possa arrivare fino a 24 giorni. Bisogna verificare bene da dove arrivino questi studi, arrivati in poco tempo, e se saranno confermati da altre fonti. È chiaro che se 14 giorni non sono sufficienti per mettere in quarantena le persone, questo mette tutti un po’ in imbarazzo, anche rispetto a quelle che sono state le scelte prese finora nei protocolli internazionali. Per quanto invece riguarda la questione delle superfici, il dato pubblicato sul Journal of Hospital Infection dice che queste potrebbero restare infettate fino a 9 giorni. Abbiamo però due aspetti positivi: che con candeggina, acqua ossigenata, alcool, il virus muore in meno di un minuto e che il lavaggio delle mani resta la migliore o una delle misure migliori per prevenire anche l’infezione da coronavirus”. Nella prima puntata della nostra inchiesta abbiamo raccolto la testimonianza da Pechino di Nicoletta e Francesca, mamma e figlia trevigiane che da 20 anni vivono nella capitale cinese.“La zona di Sanlitun, il distretto dei ristoranti di lusso, degli uffici e della vita notturna, è incredibilmente deserta. I marciapiedi e i lunghi viali di solito trafficatissimi sono vuoti: la città è spettrale. Le pochissime persone che si incrociano per strada indossano tutte le mascherine di protezione. Le farmacie di Pechino e i negozi hanno terminato le scorte di disinfettanti”, racconta mamma Nicoletta. Nella seconda puntata della nostra inchiesta, abbiamo mostrato gli incredibili dati di un rapporto, l'indice di sicurezza sanitaria globale 2019, che risponde a questa delicatissima domanda: l'Italia è davvero in grado di affrontare l'epidemia da coronavirus? E quello che emerge dal rapporto è sconsolante : il nostro punteggio complessivo è di 56,2 punti e ci colloca diciottesimi in Europa (su 28 membri) e 31esimi nel mondo (su un totale di 195 paesi monitorati). Nella terza puntata abbiamo appunto mostrato l'appello di Paolo, uno degli italiani bloccati a Wuhan, la cui situazione è appena sbloccata con il ritorno in patria (ritorno che vi abbiamo mostrato poi in questo altro video). Paolo ci aveva poi mandato altre immagini per raccontarci la quarantena alla Cecchignola di Roma. Nella quarta puntata abbiamo raccontato tutte le notizie false e le assurdità che stanno circolando in rete in questo momento di grande panico per la diffusione del coronavirus: dalla polizia di Wuhan che "spara a chi tenta di scappare" a Bill Gates, fino alle “montagne di cadaveri nascoste negli ospedali cinesi” e all'esperimento “sfuggito di mano”. Tra tutte queste teorie complottiste è anche comparso un audio delirante su WhatsApp. Dopo avervi raccontato dell’allarme hacker lanciato da una società specializzata nella sicurezza informatica, abbiamo poi raccolto l’appello della Caritas di Hong Kong, “Ci servono le mascherine, vi prego, aiutateci a combattere il coronavirus!”. La situazione nella metropoli cinese è drammatica: mascherine introvabili nelle farmacie, rubate, vendute al mercato nero, dove chi specula triplica i prezzi. Mentre tantissime persone prive di mascherina sono costrette a rimanere chiuse in casa. A parlarci della situazione è Cherry Lee Tai Ying, membro della Caritas Youth and Community di Hong Kong.
Cristina Marrone per il “Corriere della Sera” l'8 febbraio 2020. I sintomi dell' infezione da parte del nuovo coronavirus assomigliano a quelli dell' influenza e delle sindromi parainfluenzali che circolano in questa stagione e questo è il motivo per cui si creano molti falsi allarmi prima che le analisi di laboratorio consentano di arrivare a una diagnosi certa. Febbre, tosse, dolori muscolari, difficoltà respiratorie e più raramente disturbi gastrointestinali e diarrea sono i sintomi più diffusi. Segnalati anche mal di testa e confusione mentale. Nei casi più gravi, se l' infezione si diffonde nel basso tratto respiratorio, è possibile che compaiano gravi polmoniti (secondo le stime nel 15% dei casi) che possono portare a insufficienza respiratoria acuta. Il virus può diffondersi fino ai reni e causare così insufficienza renale. Non esiste un trattamento specifico per la malattia ma gli studi su potenziali terapie si moltiplicano. In una manciata di casi pazienti gravi sono stati trattati con successo con farmaci antivirali usati contro l' Hiv ed Ebola. In altre situazioni sono stati somministrati farmaci antimalarici, ma i ricercatori sono per ora cauti perché non esistono dati su larga scala. Quando la malattia provoca polmoniti virali particolarmente gravi si può prendere in considerazione l' uso dell' Ecmo, l' ossigenazione extracorporea, una tecnica di rianimazione che supporta le funzioni vitali attraverso l' ossigenazione del sangue (in Italia esistono 14 strutture ospedaliere che dispongono di questi dispositivi). Il periodo di incubazione, cioè il tempo che intercorre tra l' esposizione al coronavirus 2019-nCoV e il manifestarsi dei sintomi della malattia è stimato tra i 2 e i 14 giorni (con una media di 5,5), più lungo di una normale influenza (1-3 giorni). Questo significa che può essere difficile identificare e isolare i pazienti che hanno già contratto il virus ma che ancora non mostrano sintomi. La maggior parte delle persone colpite dal coronavirus guarisce. I pazienti vengono dimessi quando i sintomi spariscono, la temperatura rientra in un range normale per almeno tre giorni e i test sono negativi per almeno due volte a distanza di 24 ore. È però prematuro parlare di immunità persistente, cioè la sicura impossibilità di episodi di malattia successivi al primo. In genere dopo un' infezione da virus vengono prodotti anticorpi con effetto protettivo. Tuttavia gli anticorpi potrebbero non durare così a lungo e i guariti potrebbero essere ancora a rischio di infezione. Sussiste poi l' incognita di possibili mutazioni. Domani in edicola, gratis con il Corriere della Sera , sarà disponibile un numero speciale di Corriere Salute interamente dedicato al coronavirus. Oltre alle informazioni di carattere tecnico (modalità di trasmissione, precauzioni per proteggersi, metodologie adottate per la diagnosi) sono stati realizzati servizi sulle prospettive per la realizzazione di vaccini o di farmaci per contrastare l' epidemia, sulle strategie in materia di salute pubblica poste in essere dalle organizzazioni internazionali, a partire dell' Organizzazione Mondiale della sanità, e nazionali. Un approfondimento è dedicato al cosiddetti spillover , cioè il passaggio dei virus dagli animali all' uomo, all' origine di quasi tutte le epidemie più importanti, come per esempio quella dell' Hiv. Diverse pagine sono state infine riservate al confronto fra l' epidemia sostenuta da questo coronavirus e quelle precedenti, sia in termini medici (livello di contagiosità, indice di letalità eccetera), sia in termini economici, storici e culturali. Viene analizzata, infine, la peculiarità della prima grande infezione «social» della storia.
Coronavirus: “Vi spiego perché l’isolamento è inutile”. Gioia Locati il 5 febbraio 2020 su Il Giornale. L’isolamento non potrà fermare il coronavirus. Vi è prova di contagi avvenuti in Cina, in Usa (cliccate qui) e in Germania nel periodo dell’incubazione. (Fonte: The New England Journal of Medicine, Transmission of 2019-nCoV Infection from an Asymptomatic Contact in Germany). Non solo: è tipico delle infezioni respiratorie diffondersi soprattutto in pazienti a-sintomatici che non manifestano l’infezione. A spiegarcelo è Stefano Petti, professore al dipartimento di Malattie infettive e Salute Pubblica della Sapienza di Roma.
Professore, questa informazione aumenterà l’allarmismo.
“Trattandosi di un virus nuovo, è normale che vi sia tanta attenzione, soprattutto da parte degli addetti ai lavori. Ma non è proprio il caso di preoccupare. I virus a trasmissione aerea sono trasmessi anche dai ‘portatori precoci’ (ossia da chi si trova nel periodo dell’incubazione), è un fatto risaputo, perciò i cordoni sanitari sono una misura primitiva, di quando si ignorava il comportamento dei virus”.
Se l’isolamento non serve, cosa si può fare?
“Adottare le Precauzioni Universali, misure igieniche che si dovrebbero mettere in atto sempre. Perché sono centinaia di migliaia i microorganismi che ci possono colpire durante un’esistenza”.
Esempi?
“Lavarsi le mani e arieggiare le stanze spesso. Buone abitudini da non trascurare, anche se fa freddo. Poi, è importante abbattere l’eccessiva umidità – almeno al di sotto del 65% – tipica delle palestre e delle piscine. Cercare di evitare le distanze ravvicinate, l’ideale è mantenersi ad almeno un metro dal proprio vicino o, comunque, limitare il contatto più ravvicinato al minimo indispensabile”.
Vi sono ospedali, alberghi e uffici con le finestre sigillate.
“Le stanze devono avere un ricambio d’aria naturale. Studi hanno rilevato una percentuale di infezioni respiratorie da virus, funghi e batteri aerei notevolmente più alta negli edifici bassi e sigillati rispetto a quelli con soffitti alti e spifferi alle finestre”.
Le mascherine servono?
“Sì. Perché i virus viaggiano solo nei droplet (le goccioline emesse quanto si parla, si starnutisce o si tossisce), perciò non è importante che la mascherina non riesca a trattenere il virus perché deve fermare i droplet e questo lo fa. Poi, il ricambio d’aria aiuta a diluire i droplet…”.
Il coronavirus n-CoV è aggressivo?
“E’ un patogeno prevalentemente opportunista. Significa che deriva dagli animali e che, da poco, si è adattato all’uomo; che ha una letalità elevata che però riguarda solo le persone immunodepresse (la letalità è il rapporto tra numero di malati e numero di decessi, al momento è del 2% ma è destinata a diminuire nel prossimo futuro)”.
Quindi non è rischioso per le persone sane?
“No”.
Gli immunodepressi rischiano di più di morire di morbillo o di un patogeno opportunista?
“I dati e l’esperienza ci confermano che le morti da patogeni opportunisti sono assai più frequenti negli immunodepressi”.
Ma allora: tutto questo allarmismo?
“È allarmismo, infatti. E di questo è anche colpa dell’Organizzazione Mondiale della Sanità che ha decretato il massimo livello di allerta per questo virus. Cliccate qui. L’infezione non si trasmette con un singolo microrganismo ma con un numero minimo, la cosiddetta carica minima infettante. Che, nel caso del coronavirus, patogeno semi-opportunista, deve essere alta. Cioè per ammalarsi è necessario inalare molti microorganismi in un tempo relativamente breve. Se il nostro stato di salute è buono occorre un contatto assai prolungato per infettarsi”.
Però si è lo stesso contagiosi?
“Sì. I microrganismi patogeni per l’uomo tendono a mascherare i sintomi per potersi propagare meglio all’interno della popolazione. E’ un concetto noto come immune escape e si verifica in seguito all’adattamento del microrganismo alla specie che gli fa da serbatoio. Per tutti i virus, non solo quelli a trasmissione aerea, succede sempre, ma accade anche con i batteri, i miceti, i protozoi, ecc.”.
Questa situazione vale anche per gli altri virus a trasmissione aerea?
“Esattamente. Nello studio di Sarna e colleghi del 2018, cliccate qui, si osservi nella Tabella 4 che i virus respiratori (TUTTI i tipi, compresi molti coronavirus e rhinovirus), sono molto più frequenti nei bambini asintomatici che in quelli con infezioni profonde dell’apparato respiratorio. Teniamo presente che nella popolazione i bambini “apparentemente” sani sono molti di più rispetto a quelli malati, la Tabella 3 mostra simili risultati”.
Se ci si ammala senza accorgersene e se questa è la situazione più frequente possiamo dire che le persone sane non dovrebbero preoccuparsi?
“È così. Ricordiamoci sempre di migliorare il sonno, limitare lo stress e assumere tutti i nutrienti necessari quotidianamente perché questi elementi rinforzano la nostra immunità. Pensiamo agli atleti. Nel lavoro di Valtonen e colleghi del 2019, cliccate qui, si parla proprio di raffreddore e di atleti di alto livello. In figura 2 troviamo molti dei soggetti campionati risultati positivi al virus per un certo tempo ma mai ammalatisi. In Tabella 1 si vede la proporzione di soggetti asintomatici ma positivi a rhino e coronavirus nel Finland team”.
Ma se vi sono regole generali di prevenzione e se i microorganismi che ci possono infettare sono milioni, che senso ha concentrarsi su un solo virus?
“Non ha proprio senso. Vi sono norme di precauzione per i virus aerei, altre per quelli a trasmissione sanguigna, altre per quelli trasmessi dagli alimenti e dall’acqua, altre per quelli con vettore (insetti). Osserviamo per esempio i casi di sospetta influenza in Europa (le cosiddette ILI influence-like illness e ARI acute respiratory infections): secondo l’osservatorio europeo ECDC sono molto meno della metà i casi in cui è coinvolto il virus influenzale (in questa stagione sono solo 1/4, cioè 200.000 su 850.000 campioni delle presunte influenze, secondo la Tabella 1 del report mensile dell’ECDC) e in una buona parte di questi i virus isolati non sono quelli del vaccino (128.000 su 200.000). Ecco anche perché la vaccinazione, che si basa sul controllo di un singolo o a massimo tre o quattro microrganismi è un metodo primitivo di prevenzione delle malattie infettive”.
Studio sul coronavirus n-CoV.
A riprova di quanto dettoci dal professor Stefano Petti, ecco lo studio apparso sul New England Journal of Medicine, qui. A partire dal 1 gennaio a Wuhuan, meno del 10% dei casi identificati è stato al mercato. Oltre il 90% si è infettato per via interumana. Ma attenzione: più del 70% dei casi non ha avuto contatti con persone che presentavano sintomi respiratori, è perciò assai probabile che in più del 70% dei casi la sorgente è stata un soggetto asintomatico. Ecco perché la quarantena non può funzionare.
Da ansa.it il 6 febbraio 2020. Ecco le risposte dell'Istituto Superiore di Sanità ai dubbi più frequenti su esposizione, prevenzione e trasmissione del Coronavirus.
Se prendo gli antivirali prevengo l’infezione? No, allo stato attuale non ci sono evidenze scientifiche che l’uso dei farmaci antivirali prevenga l’infezione da Coronavirus o da altri tipi di infezioni virali.
Se sono stato in metropolitana con una persona che tossiva e nei giorni seguenti compare la tosse anche a me devo andare in ospedale? No, ad oggi non vi è alcuna evidenza scientifica che il nuovo Coronavirus stia circolando in Italia. E’ invece certo che si è in una fase di massima trasmissione del virus influenzale stagionale. Pertanto, se dovessero comparire sintomi respiratori – come febbre, tosse, mal di gola, ecc. – o, comunque, difficoltà respiratorie, è opportuno rivolgersi al proprio medico curante.
Come faccio a sapere se la mia tosse è dovuta a un’infreddatura o al nuovo Coronavirus? Al momento, secondo le evidenze scientifiche disponibili, il nuovo Coronavirus non circola in Italia. Le uniche condizioni di rischio legate alla possibilità di aver contratto l’infezione sono:
aver viaggiato negli ultimi 14 giorni in zone della Cina in cui il virus si sta diffondendo
avere avuto contatti con persone con infezione accertata
In ogni caso, qualora dovessero comparire febbre o disturbi respiratori, considerato che in questo momento si è nel periodo di massima circolazione dell’influenza stagionale, è opportuno rivolgersi al medico curante
Se mi sottopongo privatamente ad analisi del sangue, o di altri campioni biologici, posso sapere se ho contratto il nuovo Coronavirus? No. Non esistono al momento kit commerciali per confermare la diagnosi di infezione da nuovo Coronavirus. La diagnosi deve essere eseguita nei Laboratori di riferimento e, laddove si rilevino delle positività al virus, deve essere confermata dall’Istituto Superiore di Sanità. Qualora si sia stati esposti a fattori di rischio – quali viaggi nelle zone della Cina in cui il virus sta circolando o contatti con persone in cui l’infezione sia stata accertata – è possibile contattare il numero telefonico 1500, messo a disposizione dei cittadini dal Ministero della Salute, per avere risposte da medici specificamente preparati e ricevere indicazioni su come comportarsi. Tuttavia per le persone senza sintomi di una certa gravità e senza fattori di rischio al momento non è previsto iniziare un iter diagnostico.
E’ vero che posso essere contagiato dal coronavirus toccando le maniglie degli autobus? Allo stato attuale, non essendoci evidenze scientifiche della circolazione del virus in Italia, è altamente improbabile che possa verificarsi un contagio da nuovo Coronavirus attraverso le maniglie degli autobus o della metropolitana. E’ comunque buona norma, per prevenire tutte le infezioni respiratorie, lavarsi frequentemente e accuratamente le mani prima di portarle al viso, agli occhi e alla bocca.
L’infezione da coronavirus causa sempre una polmonite grave? No, l’infezione da nuovo Coronavirus può causare uno spettro di sintomi che spaziano da disturbi lievi, tipici delle normali infezioni respiratorie stagionali, a infezioni più gravi come le polmoniti. E’ opportuno precisare, in ogni caso, che poiché i dati in nostro possesso provengono principalmente da studi su casi ospedalizzati, e pertanto più gravi, è possibile che sia sovrastimata la gravità dell’infezione.
Se ho sintomi respiratori e penso di poter essere stato contagiato dal nuovo Coronavirus, devo chiamare il 118 per andare in ospedale o andare dal mio medico curante? Se si è stati esposti a fattori di rischio, come aver viaggiato nelle zone della Cina in cui il nuovo Coronavirus sta circolando o si è stati a contatto con persone risultate infette, per prima cosa è opportuno contattare il numero telefonico 1500, messo a disposizione dei cittadini dal Ministero della Salute, per avere indicazioni sui comportamenti da seguire.
Da “il Giornale” - a cura di Enza Cusmai, con la consulenza di Giancarlo Icardi, direttore di igiene all’Università di Genova, l'1 febbraio 2020. Abitudini corrette per ridurre i rischi di contagio e precauzioni superflue: una guida per scongiurare le psicosi pericolose. Dubbi, comportamenti corretti, precauzioni inutili: dopo i primi casi di Coronavirus in Italia, ecco un vademecum sulle precauzioni necessarie per ridurre al minimo i rischi di contagio e sulle le abitudini che invece non hanno alcuna incidenza sulla diffusione dell' epidemia. Nella foto, l' illustrazione, realizzata nei Centers for Disease Control and Prevention di Atlanta (Stati Uniti), rivela la struttura morfologica del Coronavirus 2019-nCoV, responsabile dell' allerta mondiale.
Via aerea e contatto, ecco come avviene. Il contagio avviene per «via aerea», attraverso le goccioline di saliva espulse da una persona malata con tosse o starnuti. Ma la trasmissione del Coronavirus si verifica anche «da contatto», attraverso le mani contaminate e non lavate, portate alla bocca, al naso o agli occhi. I sintomi della malattia possono comparire da 2 a 14 giorni dopo l' esposizione al virus; in questo periodo il paziente può contagiare chi è a stretto contatto.
Mani lavate spesso e gel disinfettanti. La prima raccomandazione da seguire è di lavare di frequente le mani, cioè 3-4 volte entro le 12 ore con acqua e sapone per almeno 20 secondi. Inoltre, se la mani vengono lavate nei luoghi pubblici (come il bagno di un negozio) si deve chiudere il rubinetto con un fazzoletto di carta. In mancanza d' acqua è opportuno usare del gel disinfettante. Inoltre, bisogna sempre evitare di toccarsi bocca, naso e occhi con le mani non lavate.
Le mascherine? Non servono a nulla. Non servono a proteggerci perché sono fatte di materiali che non impediscono il passaggio di microorganismi come virus e batteri, a differenza di quelle professionali che normalmente vengono utilizzate dagli operatori sanitari. In Cina però sono enormemente diffuse, anche per la suggestione che una barriera seppur sottile come la mascherina possa creare un argine all' ampia circolazione del virus.
Rimanere a casa ai primi sintomi. Chi ha febbre e sintomi respiratori deve restare a casa. Evitare quindi mezzi pubblici, uffici, palestre, piscine, discoteche, teatri. Fuori casa servono buone regole di educazione. Chi starnutisce deve mettersi la mano davanti la bocca poi lavarsi le mani e disinfettarsi. Il fazzoletto dev' essere eliminato, se dimenticato può diventare un veicolo di trasmissione del virus per qualche ora.
Via libera a merci e negozi cinesi. Il virus nell' ambiente esterno può sopravvivere per alcune ore e ancora meno sulle merci e prodotti inscatolati. E siccome dalla Cina i prodotti arrivano tramite nave o aereo, c' è il tempo sufficiente per ammazzare ogni virus. È improbabile quindi che il virus arrivi con un pacco dalla Cina. Di conseguenza non è pericoloso entrare in negozi con articoli cinesi in vendita.
Nessuna minaccia nei ristoranti etnici. In Italia non c' è alcun pericolo se si va a cenare in ristorante cinese o dove si mangia il sushi. I prodotti utilizzati sono praticamente tutti italiani e quelli surgelati vengono trattati prima del consumo. Basta l' abbattimento o la cottura per ammazzare qualsiasi eventuale virus. Inoltre il pesce o la carne non possono trasmettere comunque una malattia il cui contagio avviene per via area.
Farmaci di supporto ma antibiotici inutili. L'antibiotico non serve a curare una malattia virale né a proteggersi preventivamente. Non ha alcun senso tenere a portata di mano anche il paracetamolo o l' aspirina. Questi farmaci servono per contenere la febbre. Per il coronavirus non esiste neppure un' indicazione terapeutica che possa reagire agli antivirali utilizzati per la Sars. Per ora non esistono farmaci specifici, né vaccini. La terapia è solo di supporto.
Voli a lungo raggio quelli più a rischio. In aereo, non portatevi la mascherina se dovete viaggiare da Roma a Milano. Il viaggio è troppo breve. Nei tragitti più lunghi, invece, state alla larga da chi mostra sintomi di malessere e pretendete che usino le solite accortezze, dai fazzoletti al lavaggio delle mani. È dimostrato che i contatti stretti sull' aereo siano considerati solo quelli tra le prime e le ultime due fila dell' aereo. Ed è possibile evitare di farsele assegnare.
Auto-valutazione: disponibile un test. La Simt, società di malattie infettive e tropicali, ha messo a punto una scheda di autovalutazione del rischio di infezione da Coronavirus. Al primo sintomo respiratorio o in caso di febbre si può compilare un questionario su viaggi e sintomi personali che aiuta a capire se la propria situazione possa essere rischiosa o se rivela solo un banale raffreddore, così da evitare di intasare studi medici e ospedali senza fondato motivo.
· L'Indice di Contagio.
Tasso netto di riproduzione. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Il tasso netto di riproduzione, cioè il tasso di riproduzione al netto delle morti, rappresenta il rapporto tra la dimensione totale di una popolazione dall'inizio alla fine di una generazione. In demografia e ecologia delle popolazioni è definito come il numero medio di figlie prodotto da una femmina nel corso della sua vita. Esso si ottiene perciò molto semplicemente integrando la funzione netta di maternità, cioè R0=p(x).v(x)dx dove p(x) è la probabilità di sopravvivere fino all'età x, mentre v(x)dx, funzione netta di maternità, è il numero medio di figlie generate nel tempo dx.
Se R0 > 1, ogni femmina della popolazione prima della sua morte viene più che rimpiazzata, perché nell’arco della sua vita lascia un numero complessivo di figlie maggiore di uno.
Se R0 < 1 ogni femmina non riesce a rimpiazzarsi, la popolazione è in declino; se R0 = 1 la popolazione è stazionaria.
R0 nei modelli epidemici. Dalla demografia dove è nato, il concetto di R0 è passato all'epidemologia quando George MacDonald introdusse il concetto nella letteratura epidemiologica negli anni '50. Per George MacDonald le generazioni nei modelli epidemici che descrivevano la malaria erano le ondate di infezione secondaria che fluiscono da ogni precedente infezione e quelli che in demografia sono le figlie, in epidemologia sono i soggetti che vengono infettati dall'infezione "madre".
R0 oggi in epidemologia e rappresenta il numero medio di infezioni secondarie prodotte da ciascun individuo infetto in una popolazione completamente suscettibile cioè mai venuta a contatto con il nuovo patogeno emergente. Questo parametro misura la potenziale trasmissibilità di una malattia infettiva. Il suo calcolo matematico ha a che fare con le equazioni differenziali ordinarie. Sebbene l'uso frequente del termine "tasso di riproduzione di base" sia in linea con la terminologia originale di MacDonald, vari studi interpretano l'uso del termine "tasso" nel senso che suggerisce una quantità in una unità di tempo. Se R0 fosse un tasso che coinvolge il tempo, la metrica fornirebbe informazioni sulla velocità con cui un'epidemia si diffonderà attraverso una popolazione; ma R0 non indica se si verificheranno nuovi casi entro 24 ore dal caso iniziale o mesi dopo, proprio come R0 non indica se la malattia prodotta dall'infezione è grave.[8] Oggi più correttamente R0 viene chiamato "numero di riproduzione di base".
Che cos’è R0 e perché è così importante. Da Istituto Superiore di Sanità il 5 febbraio 2020. Un parametro importante in un’epidemia di una malattia infettiva è il cosiddetto R0 ovvero il “numero di riproduzione di base” che rappresenta il numero medio di infezioni secondarie prodotte da ciascun individuo infetto in una popolazione completamente suscettibile cioè mai venuta a contatto con il nuovo patogeno emergente. Questo parametro misura la potenziale trasmissibilità di una malattia infettiva. In altre parole se l'R0 di una malattia infettiva è circa 2, significa che in media un singolo malato infetterà due persone. Quanto maggiore è il valore di R0 e tanto più elevato è il rischio di diffusione dell’epidemia. Se invece il valore di R0 fosse inferiore ad 1 ciò significa che l’epidemia può essere contenuta. Da quando l'epidemia del nuovo coronavirus (2019-nCoV) emerso in Cina ha cominciato a diffondersi e sono iniziati a circolare i dati sui primi casi confermati, l'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) e numerosi istituti di ricerca di tutto il mondo hanno diffuso stime di R0 dell'infezione. Queste stime sono comprese tra 1,4 e 3,8 nelle aree colpite in questa prima fase di diffusione. Perché R0 è così importante? R0 è funzione della probabilità di trasmissione per singolo contatto tra una persona infetta ed una suscettibile, del numero dei contatti della persona infetta e della durata dell'infettività questo ci dice che riducendo almeno uno dei tre parametri possiamo ridurre tale valore e quindi poter controllare, o almeno ritardare, la diffusione del patogeno ad altre persone. La probabilità di trasmissione e la durata dell’infettività (senza un vaccino o un trattamento che riduca la viremia) non sono in questa fase modificabili ma, l’immediata diagnosi/identificazione della persona infetta, o di quella potenzialmente infettata, e la possibilità di ridurre i suoi contatti con altre persone permetterebbe una riduzione del’R0. In particolare, come sta avvenendo in Cina, anche le misure di allontanamento sociale (ad es. la sospensione di aggregazioni pubbliche e del trasporto) e la riduzione della trasmissione per contatto (ad es. mediante l'uso di misure di protezione personale da parte degli operatori sanitari) comporterebbero riduzioni del numero di riproduzione di base.
Coronavirus, cos'è l'indice R0 e perché è così importante. Brusaferro (Iss): "In questo momento è vicino all'1, ma dobbiamo arrivare intorno allo 0,5". Valeria Panzeri su quotidiano.net il 31 marzo 2020 - Il presidente dell'Iss Silvio Brusaferro, in merito all'indice di trasmissione del nuovo Coronavirus, il cosiddetto R con zero, ha dichiarato: "è vicino all'uno, ma dobbiamo arrivare sotto il valore uno, intorno allo 0,5, con misure efficaci. Per raggiungere invece il valore zero contagi, ha aggiunto Brusaferro: "ci vorranno mesi". Cerchiamo quindi di fare chiarezza su questo parametro e sul suo significato.
R0: cos'è. R0 è uno dei parametri fondamentali nell'ambito di una malattia infettiva (e di una pandemia) e indica il “numero di riproduzione di base” che rappresenta il numero medio di infezioni secondarie prodotte da ciascun individuo infetto in una popolazione completamente suscettibile, cioè mai venuta a contatto con il nuovo patogeno emergente, come spiega l'Iss. In parole più semplici si tratta del criterio con cui si misura la potenziale trasmissibilità di una malattia infettiva, ovvero il numero di persone che ogni malato può contagiare.
Come funziona nel pratico? L'Istituto Superiore di Sanità spiega molto chiaramente questo passaggio, declinando con un esempio pratico la teoria: "Se l'R0 di una malattia infettiva è circa 2, significa che in media un singolo malato infetterà due persone. Quanto maggiore è il valore di R0 e tanto più elevato è il rischio di diffusione dell’epidemia. Se invece il valore di R0 fosse inferiore ad 1 ciò significa che l’epidemia può essere contenuta." Borrelli ha dichiarato che al momento Covid-19 ha R0 prossimo all'1, ovvero un positivo ha la potenzialità di infettare una persona.
Covid-19: stime R0. "Da quando l'epidemia del nuovo coronavirus (2019-nCoV) emerso in Cina ha cominciato a diffondersi e sono iniziati a circolare i dati sui primi casi confermati, l'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) e numerosi istituti di ricerca di tutto il mondo, hanno diffuso stime di R0 dell'infezione", spiega l'Iss, sottolineando che "queste stime sono comprese tra 1,4 e 3,8 nelle aree colpite in questa prima fase di diffusione."
R0: perché è così importante? "R0 è funzione della probabilità di trasmissione per singolo contatto tra una persona infetta ed una suscettibile, del numero dei contatti della persona infetta e della durata dell'infettività questo ci dice che riducendo almeno uno dei tre parametri possiamo ridurre tale valore e quindi poter controllare, o almeno ritardare, la diffusione del patogeno ad altre persone" chiarisce l'Iss. Considerando che ora non abbiamo un vaccino, nè un farmaco mirato che riduca la viremia - e che questo fatto, al momento, non è modificabile - l’immediata diagnosi/identificazione della persona infetta, o di quella potenzialmente infettata, e la possibilità di ridurre i suoi contatti con altre persone, permetterebbe una riduzione del’R0.
Coronavirus, c’è differenza tra numero di contagi e casi positivi? Riccardo Castrichini il 7 aprile 2020 su Notizie.it. Esiste una differenza tra il numero di contagi da coronavirus e il totale dei positivi: due parametri per due significati. Nei giorni dell’emergenza coronavirus un appuntamento fisso della giornata degli italiani è quello con il bollettino delle 18:00 della Protezione Civile, nel quale vengono comunicati i numeri dei casi positivi, dei morti e del totale dei contagi delle ultime 24 ore. Ma che differenza c’è tra il numero dei positivi e quello dei contagi? Il rischio di fare confusione tra questi fattori è alto e potrebbe impedire di cogliere appieno l’andamento reale della situazione. Iniziamo col dire che il numero dei contagi complessivi riguarda la quantità totale di persone risultate positive al Covid-19 da quando è iniziato il monitoraggio. Ciò significa che in questo numero rientrano: gli attuali malati, i pazienti guariti e i pazienti deceduti. Per positivi si intende invece il numero di persone che in quel giorno specifico risultano affette da coronavirus. Si tratta evidentemente dunque di due parametri distinti. Il numero dei positivi corrisponde a quante persone vive e positive ci sono nell’istante della rilevazione. È dunque normale che il numero di positivi sia inferiore al numero dei contagiati (che comprendono decessi e guariti); man mano che ci avvicineremo all’uscita dall’emergenza il numero dei positivi tenderà a scendere ulteriormente, scollandosi in maniera ancora più significativa da quello dei contagiati. É inoltre importante sottolineare che i numeri che vengono forniti ogni giorno alle 18:00 riguardano esclusivamente i pazienti che sono stati sottoposti a tampone nelle 24 ore e sono risultati positivi. Restano poi fuori dai dati ufficiali coloro che hanno lamentato sintomi lievi, ma non sono stati sottoposti a tampone, e gli asintomatici.
Il significato dei numeri. Volendo dare un’interpretazione logica ai numeri possiamo affermare dunque che il numero dei contagi complessivi, o meglio il suo aumento, offre la misura di quanto rapidamente la malattia si stia diffondendo, mentre l’aumento dei casi positivi indica quante persone necessitano assistenza in quel frangente specifico e anche il livello di pressione sul sistema Italia: che si tratti di degenze in terapia intensiva o pazienti in isolamento domiciliare che necessitano controlli e assistenza.
Valentina Arcovio per “il Messaggero” l'11 marzo 2020. Neanche la matematica, al momento, può salvarci dall'enorme tsunami di incertezza che ha investito il nostro paese. La scienza dei numeri si deve infatti arrendere dinanzi a questo sconosciuto coronavirus. Eppure i matematici ci stanno provando, eccome. Richiamando, riadattando o addirittura creando ex-novo inediti modelli di previsione. Ci hanno provato, ad esempio, qualche settimana tre grandi esperti italiani, il biologo Enrico Bucci, insieme al fisico della Sapienza Enzo Marinari e con la supervisione del fisico Giorgio Parisi, con lo scopo di capire i possibili scenari di diffusione dell'infezione. O anche giovani scienziati, come Gianluca Malato che proprio qualche giorno fa ha dimostrato in un articolo diffuso sul web l'impossibilità di utilizzare due modelli noti, quello esponenziale e quello logistico, per effettuare previsioni sull'epidemia. «Il primo modello è quello esponenziale che descrive una crescita di infezione inarrestabile. Ad esempio, se un paziente infetta 2 pazienti al giorno, dopo 1 giorno avremo 2 infezioni, 4 dopo 2 giorni e così via», spiega Malato. «Il secondo è il modello logistico - aggiunge - che descrive l'evoluzione della popolazione (in questo caso le persone infettate dal virus), basandosi su due elementi: il tasso di crescita esponenziale e le risorse (cioè le persone infettabili), che chiaramente sono limitate. Questo modello prevede a un certo punto una stabilizzazione». Tuttavia, né il modello esponenziale e né quello logistico risponde alle nostre domande. «La conclusione è che ogni giorno il risultato cambia a seconda dei dati aggiornati rilasciati dalla Protezione civile», dice Malato. Tutto si riduce quindi a un puro esercizio matematico. La realtà è infatti che nessun modello può rispondere alle domande che tutti noi ci stiamo facendo: quando finirà l'emergenza? Quando arriverà il picco? Quali saranno gli effetti delle misure di contenimento prese? Semplicemente perché i fattori da considerare sono tanti, molto diversi tra loro e soprattutto incerti e variabili. Oltre alle caratteristiche del virus, bisogna considerare le interazioni sociali, gli aspetti economici e gli aspetti politici... Spiega Antonio Scala, ricercatore dell'Istituto dei sistemi complessi del Consiglio nazionale delle ricerche e presidente della Big Data in Health Society. «Non sappiamo il reale numero delle persone contagiate in un dato momento, sia per i tempi di incubazione ma anche per via della presenza di pazienti asintomatici; non sappiamo quante e che tipo di interazioni sociali queste persone hanno o hanno avuto nel periodo in cui sono o sono state contagiose; non sappiamo esattamente quali sono i numeri delle persone contagiate e poi guarite perché c'è chi ha superato l'infezione con sintomi lievi o confusi con l'influenza; e molto cambia a seconda delle regioni o delle città considerate, che fino a qualche giorno fa hanno applicato misure contenitive diverse», dice Scala. Chi può invece riuscire meglio nell'impresa di azzardare previsioni un po' più affidabili sono gli epidemiologi. «Possiamo considerarli come degli artigiani che possono arrivare a formulare ipotesi plausibili applicando con esperienza alcuni aggiustamenti», dice Scala, impegnato oggi su un'altra ambiziosa impresa matematica. «Stiamo creando un modello che descriva l'andamento delle informazioni relative al nuovo coronavirus sui social, ma in questo caso l'errore implicito anche nelle nostre previsioni non provoca le conseguenze che può avere la divulgazione affrettata di una predizione sull'epidemia», conclude l'esperto del Cnr.
Coronavirus, come si calcola l’indice di contagio R0 da cui dipenderà quando potremo tornare a uscire. Elena Tebano il 2 maggio 2020 su Il Corriere della Sera. Dipende da quante persone al giorno incontra un individuo malato, da quanto resta contagioso e «dalla probabilità di trasmissione dell’infezione per singolo contatto». Il governo ha stabilito che il valore dell’ormai famigerato R0 del coronavirus, cioè l’indice di trasmissione, è uno dei criteri da cui dipende la possibilità di allentare le chiusure e i divieti di spostamento. Deve scendere sotto 0,2, attualmente sarebbe poco meno di uno. Ma come si calcola? Lo spiega su Scienza in rete Stefania Salmaso, epidemiologa ed esperta di statistica medica che ha lavorato a lungo all’Istituto Superiore di Sanità (oggi è un’esperta indipendente). Il tasso di trasmissione, o più precisamente, l’indice di riproduzione, R0, è il valore che descrive come si diffonde la malattia in condizioni «perfette»: quando nessuno è ancora immune e non sono state prese misure come il distanziamento fisico per ridurre i contagi. Come abbiamo scritto più volte, se l’R0 è maggiore di uno si ha un’epidemia, se è minore di uno (cioè ogni malato contagia meno di una persona), l’epidemia si estingue. L’indice di riproduzione dipende da quante persone al giorno incontra un individuo malato e contagioso, quanto a lungo rimane tale e «dalla probabilità di trasmissione dell’infezione per singolo contatto — scrive Salmaso —. Tutte queste quantità sono difficili da osservare direttamente e in genere ci si basa su stime, sotto diverse assunzioni, che vengono utilizzate per costruire modelli matematici a loro volta più o meno rispondenti al vero a seconda appunto della bontà delle assunzioni». Detto altrimenti, soprattutto quando si ha un virus nuovo come Sars-Cov-2, l’R0 non è mai un dato certo, ma il frutto di valutazioni e calcoli sulla base delle conoscenze disponibili (perennemente in evoluzione). «R0 viene sovente stimato retrospettivamente in modo empirico, ossia osservando la velocità di crescita del numero totale dei casi giorno dopo giorno. Sapendo la data di insorgenza dei sintomi, il tempo di incubazione e l’intervallo di tempo tra la comparsa dei sintomi nel caso primario e la comparsa dei sintomi nei casi secondari (detto tempo seriale) è possibile ricostruire le diverse generazioni di casi e stimare l’indice di riproduzione» chiarisce ancora Salmaso. «Nell’attuale pandemia, R0 è stato stimato all’inizio, ad esempio in Lombardia, con un valore pari a 2,6» che è piuttosto alto. L’isolamento generalizzato e il distanziamento fisico sono stati introdotti proprio per abbassarlo «dando per scontato che molte infezioni non vengono riconosciute e si possono propagare in modo silente». Il problema però è che tuttora non conosciamo con certezza tutta una serie di dati che servono a stimare con precisione R0, a cominciare dalla data di insorgenza dei sintomi per la maggior parte dei malati ufficiali (cioè tamponati). «Quando manca la data di inizio dei sintomi, viene usata la data dell’accertamento virologico dell’infezione. Se gli accertamenti fossero fatti tutti alla stessa distanza dall’inizio dei sintomi, usare una data o l’altra non farebbe grande differenza per riconoscere le diverse generazioni di contagi, ma in realtà sappiamo che il sistema di accertamento è andato in affanno in molte aree del Paese e i tamponi sono stati effettuati come si poteva, quando si poteva». Non solo: l’indice di riproduzione generale è «una stima di intensità di trasmissione nella popolazione generale in cui si assume che tutti abbiano le stesse probabilità di contrarre l’infezione». Ma in realtà oggi non è così: chi sta a casa da solo, rispettando i divieti, ha una probabilità molto più bassa di coloro che convivono con un positivo accertato, oppure di un lavoratore di strutture sanitarie come le Rsa dove ci sono già state infezioni accertate. «Anche qui, nella conta quotidiana dei casi diagnosticati, sembra importante sapere quanti di questi siano associati a un medesimo focolaio di contagi — dice Salmaso —. Perché in quel caso la trasmissione non è riferibile alla popolazione generale, bensì ad un contesto circoscritto». Per questo, ancora una volta serve più chiarezza nei dati: sapere dove e quando si sono contagiati i nuovi ammalati permette di capire meglio il tasso di riproduzione reale (e specifico) di Covid-19. Invece finora la cosiddetta «sorveglianza epidemiologica», con le Regioni che sono andate in ordine sparso su test, tracciamenti dei contatti e registrazione dei casi, ha lasciato molto a desiderare. Senza dati adeguati però è impossibile affrontare l’epidemia. Soprattutto se da quei dati dipende la possibilità di allentare l’isolamento in cui viviamo da quasi due mesi.
Il picco e la fine dell'epidemia: ecco cosa dicono queste cifre. Alcuni modelli matematici hanno calcolato il flusso dell'epidemia. Ma tutto dipenderà dal nostro comportamento. Giorgia Baroncini, Martedì 10/03/2020 su Il Giornale. Il coronavirus continua a diffondersi in tutta Italia e mentre il governo adotta misure per cercare di bloccare il contagio, sorgono nuove domande. Quando arriverà il picco? Quando finirà l'emergenza? Nelle ultime settimane stanno circolando numerosi modelli matematici e studi sul virus cinese, ma è difficile fare previsioni sull'epidemia. "I modelli ci sono, li abbiamo, ma per ovvi motivi di non-allarmismo e di serietà non vengono divulgati, visto che sono proiezioni ad uso di chi gestisce l'emergenza e comprendono dati che presentano delle carenze. Non sappiamo quanto siano affidabili perché non possiamo sapere tutto di questo virus, i margini di errore sono molti", ha spiegato al Corriere Paolo Bonanni, professore di Igiene all'Università degli Studi di Firenze. "Il picco - ha continuato il docente - si calcola sulla base del valore di R con zero, che è il tasso di contagiosità che per questo virus abbiamo visto sta tra 2,5 e 3. Questo vuol dire che mediamente ogni persona ne infetta da 2 a 3 e così si possono fare delle previsioni con modelli matematici più o meno dettagliati su come andrà la curva epidemica con questo tasso di contagio. Questo valore in parte dipende dalle caratteristiche biologiche del virus, ma conta anche il livello di densità della popolazione". Il professore ha così invitato a seguire le indicazioni del governo: "Il distanziamento sociale fa in modo che si riduca il picco in altezza, cioè la diffusione del contagio. Altrettanto importante è però spostare il picco più in là nel tempo, in modo che si dia tempo al sistema sanitario di reagire, di avere posti liberi perché le persone sono nel frattempo guarite". "Questo è un momento cruciale perché il contenimento del virus dipende dal nostro comportamento - ha spiegato il professore -: c’è veramente una responsabilità sociale fortissima, minimizzare significa aumentare le probabilità che muoiano le persone". Mentre in Italia il numero dei contagi cresce giorno dopo giorno, in Cina la situazione sembra migliorare. Nel Paese epicentro dell'epidemia crollano i casi, le città iniziano a tornare alla normalità e sono stati chiusi gli ospedali da campo allestiti a Wuhan. "L'epidemia non è finita - ha spiegato Bonanni -, sta rallentando e le loro misure hanno consentito di bloccare la diffusione. A volte la coercizione è quello che serve. Ora però il rischio è che quei pochi che ci sono contagino i suscettibili, che sono ancora moltissimi, dato che il virus è nuovo. Le misure vanno mantenute per tempi più lunghi rispetto a quando si vede un calo significativo dei casi". Il professore non ha infatti escluso che tutto potrebbe riniziare da capo "con una reimportazione dei casi da aree del mondo dove l’infezione ha avuto un andamento più ritardato". Quando si potrà dire che è tutto finito? "Quando non ci sono più casi di una malattia che non è diventata endemica - ha risposto il professore -. Bisognerà vedere appunto se il coronavirus diventerà endemico, cioè se al di là dell'episodio con il picco più alto la malattia ci sarà sempre colpendo poche persone e magari diventando anche più mite dal punto di vista clinico".
Coronavirus, Roberto Burioni: "Mortalità in Lombardia, la minimizzazione è criminale. Voglio le cartelle". Libero Quotidiano l'11 marzo 2020. Roberto Burioni commenta il grafico pubblicato da Nino Cartabellotta: la questione è sempre se si muore per o con coronavirus, di certo c’è che dai dati qualcosa non torna. Innanzitutto il sovraccarico del sistema sanitario in Lombardia non lascia dubbi sul pericolo: in tutta la regione il tasso grezzo di letalità - aggiornato alle 18 del 10 marzo - è dell’8,1%, mentre nelle altre si aggira sul 3,7% di media. “La mortalità in Lombardia è ben più del doppio di quella nelle altre regioni - scrive Burioni su Twitter commentando i dati ufficiali delle istituzioni - se si muore con il coronavirus e non per, vuol dire che i lombardi sono molto più malati degli altri”. Un’eventualità alla quale il noto virologo non sembra credere: “A me i conti non tornano, mi spiace”. Da qui la richiesta: “Voglio vedere le cartelle”. Ormai è chiaro che Burioni la pensa diversamente dalle istituzioni: “La prossima volta che sentirò usare l’espressione ‘è morto con e non per il coronavirus’ sfiderò la Protezione Civile a farmi accedere ai dati clinici dei pazienti deceduti per capire se questa affermazione è vera oppure se è una criminale minimizzazione”.
Virus: quello strano rapporto tra contagi e mortalità. Una delle immagini del Coronavirus SarsCov2 ottenute dal Niaid con il microscopio elettronico. In arancio le particelle virali (fonte Niaid-Rml). Dalla Sars ad Ebola, fino al coronavirus Covid-19. Ecco le statistiche mondiali di quanto sono pericolosi. Antonio Calitri il 04 marzo 2020 su La Repubblica. In attesa di poter incasellare il Covid-19 nella storia della medicina quando l’epidemia in corso sarà superata, le statistiche mondiali sui virus che hanno insidiato l’umanità nell’ultimo secolo ci dimostrano che esiste una vera e propria correlazione inversa tra contagiosità e letalità di questi patogeni. Con morbillo e rotavirus che a livello mondiale sono campioni di contagio ma che fanno relativamente poche vittime e virus letali come la rabbia che, se non riconosciuta e trattata immediatamente, ha un tasso di mortalità pari al 100%.
La legge di natura. Dai dati accumulati nel corso dei decenni da organizzazioni come l’Institut Pasteur di Parigi e il Centers for Disease Control and Prevention (CDC) di Atlanta si può notare che a malattie virali mortali corrisponde quasi sempre un tasso di contagiosità molto basso mentre a virus altamente contagiosi corrisponde una letalità bassa. Sembrerebbe una vera e propria legge della natura che ha consentito finora all’uomo di sopravvivere, seppur con grandi perdite, anche nei periodi più bui, come quello della peste bubbonica del XIV secolo o dell’influenza spagnola del 1918. Attualmente il Covid-19, secondo i dati parziali dell’Organizzazione mondiale della sanità, ha un tasso di diffusione del 2% e un tasso di mortalità di circa il 3%. Numeri che corrispondono a una mortalità abbastanza contenuta ma a una diffusione di non poco conto come stiamo osservando in questi giorni.
L'indice di contagio. L’indice di contagio di un virus, un batterio o un parassita viene contrassegnato con la sigla R0. Se questo è pari a 1 significa che ogni contagiato può contagiare soltanto una persona, se è inferiore a 1 significa che può contagiare meno di un individuo e quindi che la malattia è destinata a spegnersi da sola. I problemi sorgono quando questo indice è superiore a 1. Se davvero il Covid-19 alla fine risulterà avere un R0 di 2 significherà che ogni persona può contagiarne altre due e se non si arresta la diffusione con l’isolamento dei malati, i contagiati raddoppiano ad ogni ciclo. Il virus in assoluto più contagioso è il Rotavirus che ha un tasso di contagiosità (R0) di 17,6 ma una mortalità pari a zero. Secondo più contagioso è la Dengue con un R0 di 11 e una mortalità, se trattata per tempo, dello 0,4% seguito dal Morbillo con un R0 di 9-12 e una mortalità dello 0,7-0,8%. E ancora la Varicella con un R0 di 8,5 e zero mortalità e la Parotite con R0 7 e mortalità dello 0,01%.
Dalla rabbia a Hiv. Naturalmente è bene chiarire che non avere mortalità o averne una bassa non significa che non ci siano conseguenze visto che alcuni effetti di questi virus possono comunque essere problematici e a volte permanenti. Ad esempio nella rabbia non trattata, come avviene soprattutto nei paesi poveri (ma l’anno scorso c’è stato un caso letale in Italia e uno in Norvegia), la mortalità è del 100% a fronte di una contagiosità R0 di 1,6. Dietro la rabbia gli epidemiologici continuano a inserire per letalità l’HIV che, con una contagiosità R0 di 6, se non trattato, come avviene ormai in molti paesi del mondo, è letale all’80%. L’influenza aviaria H5N1 con una contagiosità R0 1 resta un virus letale nel 58% dei casi, che scende al 50% per il virus Ebola, con una contagiosità però doppia (R0 2,2). La prima SARS che si diffuse tra la fine del 2002 e metà del 2003 presentava un indice di contagiosità R0 2,8 e una mortalità del 9,6%.
· Il Tasso di Letalità del Virus.
Silvia Turin per il “Corriere della Sera” il 7 ottobre 2020. Il coronavirus avrebbe colpito il 10 per cento della popolazione mondiale, circa 770 milioni di persone, contro i 35,5 milioni di casi di Covid-19 confermati a livello globale.Lo ha detto lunedì Mike Ryan, il massimo esperto di emergenza dell'Organizzazione mondiale della sanità (Oms): «Le nostre migliori stime attuali ci dicono che circa il 10 per cento della popolazione mondiale potrebbe essere stata infettata da questo virus». Che i casi reali di coronavirus siano più di quelli conteggiati è noto. Durante l'estate i Centri statunitensi per il controllo e la prevenzione delle malattie (Cdc) hanno affermato che la sottostima nel Paese probabilmente era arrivata al 90 per cento. In Italia si era paventato ci fossero 10 volte tanto i casi registrati, in realtà erano 6-7 volte maggiori. La cifra prospettata dall'Oms, però, calcola 20 volte i contagi ufficiali. Sembra un numero davvero alto, soprattutto se parametrato al milione di morti ufficiali, perché porterebbe la letalità del Covid a livelli simili a quelli dell'influenza, ma in ogni Paese colpito dal coronavirus i decessi sono stati molti di più. Attraverso il suo ufficio stampa l'Oms ha chiarito al Corriere della Sera come è stato effettuato il calcolo: «L'Oms ha utilizzato la sieroepidemiologia per comprendere l'entità dell'infezione da Sars-Cov-2. La maggior parte degli studi mostra che la sieroprevalenza risulta inferiore al 10 per cento, ma gli studi sui lavoratori in prima linea e in alcune aree ad alta intensità stimano che sia superiore al 20 per cento. La stragrande maggioranza del mondo, però, rimane a rischio», si legge nella nota. Le indagini di prevalenza effettuate con criteri statistici, però, hanno stimato che, pure in Paesi dove il virus si è diffuso maggiormente, sia stato colpito circa il 5 per cento della popolazione, non il 10. In Italia l'indagine di sieroprevalenza effettuata dal ministero della Salute e dall'Istat (in collaborazione con la Croce Rossa) ha stimato che avessero incontrato il virus un milione e 482 mila italiani, il 2,5 per cento dell'intera popolazione. Anche in Lombardia, la Regione con la più alta prevalenza, si arriva al 7,5 per cento. Ovviamente studi su singole popolazioni o comunità presentano cifre differenti: l'indagine del gruppo Humanitas su 4 mila lavoratori dei sette poli ospedalieri ha scoperto che era venuto a contatto con il virus tra l'11 e il 13 per cento dei dipendenti, con punte del 43 per cento a Bergamo. «Potrebbero aver ipotizzato anche una diversa prevalenza per i Paesi africani, dove la popolazione è più giovane e meno controllata - dice Matteo Villa, analista e ricercatore dell'Ispi (Istituto per gli studi di politica internazionale) -. Il messaggio comunque è giusto: il 90 per cento della popolazione non è stato infettato e quindi l'immunità di gregge non è stata raggiunta. Quello che stona sono i rapporti numerici in relazione ai decessi. Con questi numeri sembrerebbe che la letalità sia minore di quello che ormai ci dicono gli studi, circa quattro volte più bassa, quasi pari a quella dell'influenza». Nella passata stagione influenzale in Italia ci sono stati oltre 8 milioni di casi e 205 morti. Il Covid in Italia ha causato 36 mila morti. La nota dell'Oms si conclude con un appello alla cautela: «Il virus ha il potenziale per causare danni enormi a meno che non intraprendiamo tutte le azioni necessarie per fermare la sua diffusione».
Quando la pandemia dà i numeri. Piccole Note il 9 ottobre 2020 su Il Giornale. La pandemia da COVID-19 tiene banco da mesi, con una diluvio e una continuità di articoli, dibattiti, servizi e inchieste senza precedenti. Di pari passo è aumentato l’esercito di esperti, virologi, medici e analisti che si cimenta più o meno quotidianamente sul tema. Ma quantità raramente fa rima con qualità e il cittadino medio fa spesso fatica a districarsi nella miriade di numeri che vengono sfornati quotidianamente. Peraltro si registrano informazioni e posizioni polarizzate, spesso estreme. Si passa da numeri terroristici, nel senso che incutono terrore in chi li legge, a posizioni altrettanto pericolose che negano, o quasi, il problema.
Numeri assoluti e verità relative. L’articolo di Riccardo Saporiti sul Sole24ore ha il pregio di fare chiarezza su un punto. I numeri vanno sempre “relativizzati”. Non è possibile paragonare il numero di “positivi” ai tamponi di aprile con quelli di ottobre, simili in assoluto, ma molto diversi in percentuale. I secondi infatti sono dovuti a un numero di tamponi più che raddoppiato rispetto ad aprile (tra i 30 e i 60 mila ad aprile, stabilmente intorno ai 100mila a ottobre e oramai verso i 130mila). Allo stesso modo non si possono paragonare i numeri “assoluti” di decessi di un paese come l’India con quelli dell’Italia omettendo che la prima ha quasi 1,4miliardi di abitanti la seconda 60 milioni (circa 1/23esimo). Purtroppo, rileva il Sole24ore, questo indebito utilizzo dei numeri assoluti è quello che spesso si rileva sui media, con l’effetto nefasto di terrorizzare molti e instillare in altri il tarlo riguardo la malafede del loro utilizzo. La tentazione di questi ultimi è spesso altrettanto pericolosa. Derubricare infatti la pandemia a un “raffreddore” è operazione indebita. L’utilizzo di numeri “assoluti” aumenta ulteriormente la confusione quando si cerca di discernere la reale pericolosità del momento attuale, soprattutto in paragone con ciò che abbiamo passato. I decessi attribuiti al Covid-19 (“con” o “per” Covid) nelle ultime settimane variano tra i 16 e i 31 al giorno. Non sono pochi (né sono mai pochi i decessi), ma (quasi) nessuno spiega come mai a fronte di numeri di nuovi positivi paragonabili a quelli di aprile (all’inizio di aprile si registravano stabilmente 3/4mila nuovi positivi al giorno, cifre analoghe a quelle odierne) oggi si registra un numero di decessi inferiore anche di 30 volte ( 4/600 a aprile, 16/31 ad ottobre). Servirebbe una spiegazione, ma perché arrivi, servirebbe anche chi domanda.
Positivi e infettivi. Procedendo per assoluti, il dato che più viene utilizzato, spesso senza spiegazioni, è quello dei nuovi positivi, trattati automaticamente come ammalati e/o portatori di contagio. In realtà esistono ricerche che hanno scoperto che una percentuale rilevante (anche più del 90%) di questi riscontri di positività sono, non solo asintomatici, ma anche non infettivi. Lo spiegava una ricerca pubblicata sul New York Times (da noi ripreso qui), ribadita di recente da uno studio dell’Istituto di Microbiologia di Treviso. Cosi il prof. Rigoli, primario dell’istituto: “Dei 60mila tamponi effettuati 210 sono risultati positivi; ma 199 di essi lo erano in maniera molto modesta, tanto che abbiamo dovuto amplificare molto il “segnale” per trovare i virus; e probabilmente non erano infettivi. Degli 11 positivi in maniera più cospicua, con segnale chiaro, 4 erano asintomatici e 7 sintomatici. Ma alla fine, appunto, solo in 3 casi si è trovata una carica virale paragonabile a quella che vedevamo normalmente nella fase acuta dell’epidemia”. La chiave per fare chiarezza sulla reale pericolosità dei “positivi” è quindi nell’amplificazione del segnale, operazione normale nell’analisi dei campioni che però può essere effettuata secondo numeri variabili. Se non viene data chiara indicazione della quantità di carica virale rilevata dai tamponi il risultato è che tutti i positivi sono uguali, quelli realmente infettivi e quelli che infettivi non sono. Una maggiore chiarezza aiuterebbe.
Pandemia e sanità. L’effetto della concentrazione dell’attenzione sulla pandemia ha portato effetti collaterali alquanto nefasti. Oltre alle disastrose ricadute economiche, si registra una serie di gravi disagi per le cure di tutte le altre patologie. È necessario trovare il modo di ricominciare a far funzionare la sanità in maniera regolare anche per tutti gli altri malati di cui nessuno parla più, ma che continuano a soffrire e morire. “È triplicata la mortalità per infarto in Italia, rileva uno studio della Società Italiana di Cardiologia (SIC)” condotto in 54 ospedali italiani (vedi Agi). “La sanità si è concentrata sulla pandemia e i cardiopatici hanno evitato gli ospedali per paura del contagio”, spiega sempre all’Agi Ciro Indolfi, ordinario di cardiologia all’Università Magna Grecia di Catanzaro e presidente del SIC. “Se questa tendenza dovesse persistere – aggiunge – e la rete cardiologica non sarà ripristinata, ora che è passata questa prima fase di emergenza, avremo più morti per infarto che di Covid-19”. Si tenga presente che le malattie cardiovascolari sono la prima causa di morte in Italia (230mila decessi nel 2019 secondo ISTAT)… Se tale “effetto collaterale” del coronavirus lo si proietta sulle altre patologie si ottiene un quadro drammatico. Si tratta così di armonizzare tre esigenze: evitare che gli ospedali diventino focolai di contagio, assicurare una vera continuità del servizio sanitario e rassicurare quanti vi dovrebbero ricorrere. La predominanza sanitaria, mediatica e politica della prima problematica causa scompensi.
COVID-19, ADESSO L’OMS DÀ I NUMERI REALI: IL TASSO MONDIALE DI LETALITÀ È DELLO 0,14%. Emanuele Canta su Bioblu di Claudio Messora il 7 ottobre 2020. Centinaia di migliaia di morti, anzi no, oltre un milione a livello globale. E poi in Italia, decine di migliaia le vittime, tutte da Covid, anzi no, forse in parte per il Covid, forse avevano altre patologie ma non sappiamo quanto abbiano inciso sul decorso divenuto fatale. Nel dubbio, le autopsie non le facciamo, neghiamole, così capire davvero cosa sia accaduto rimane un mistero, se magari l’utilizzo di quel protocollo terapeutico è stato sbagliato lo sapremo in un’altra vita. Nel dubbio, sempre nel dubbio, chiudiamo tutto e chiudiamo tutti, mettiamo le mascherine anche all’aperto, anche se siamo da soli. Qualcuno in macchina, psicologicamente provato da numeri e notizie catastrofiche, continua a guidare con mascherina e guanti, anche se da solo. Concentratissimo. Anche perché, numeri alla mano, è più facile morire per un incidente stradale. La sintesi, fatta così, sembra grottesca. È vero. Forse tragicomica, se non fosse che le misure di contenimento ci sono ancora, addirittura adesso inasprite con l’utilizzo tornato obbligatorio della mascherina anche all’aperto. Tragicomica, sì, se non fosse che commercianti e imprenditori sono allo stremo mentre qualche presidente di Regione ritiene necessario fargli abbassare la saracinesca nelle ore di punta, la sera, nei weekend. Politica e politicanti ai tempi del Covid-19.
I DATI MONDIALI VANNO RIVISTI. Ma cosa dicono i numeri? Cerchiamo di analizzarli insieme. A livello globale i casi ufficiali di persone che hanno contratto questo coronavirus sono quasi 36 milioni, poco più di un milione il numero di morti. Stando a queste cifre, il tasso di letalità sfiora il 3%. Alto, altissimo. Ma attenzione, la stessa Organizzazione Mondiale della Sanità adesso dichiara per bocca di uno dei suoi massimi esperti, Mike Ryan, che “le migliori stime attuali ci dicono che circa il 10% della popolazione mondiale potrebbe essere stata infettata da questo virus”. Bene, rifacciamo allora i conti. I dati, quelli che la stessa Oms ritiene più verosimili, parlano di circa 770 milioni di casi totali nel mondo, a questo punto il tasso di letalità crolla allo 0,14%. In Italia, tanto per fare un esempio, l’influenza stagionale lo scorso anno ha avuto una letalità dello 0,11%. Non stiamo dicendo che il Covid-19 è una semplice e normale influenza, saremmo tacciati di negazionismo ancor prima di finire la frase, stiamo però evidenziando un aspetto importante: i numeri sono altri e quindi la dimensione di questa malattia non può non essere rivista, almeno nel suo risvolto più preoccupante, cioè riguardo letalità. E quindi, ancora in conseguenza di ciò, i provvedimenti da adottare non possono non tenere conto dei numeri reali e non si possono nemmeno ignorare le conseguenze di certe misure restrittive se i benefici dal punto di vista sanitario non bastano per bilanciare il disastro economico, sociale e psicologico che viene apportato.
E IN ITALIA? Nel nostro Paese i dati ufficiali forniti dalla Protezione Civile parlano, ad oggi, di circa 330 mila casi con poco più di 36 mila morti. Il tasso di letalità, stando a questi numeri, è del 10,91%. Una carneficina. Allora, che i dati siano fuorvianti pare a tutti evidente, sarà sbagliato il metodo di acquisizione, saranno errati i parametri presi in considerazione ma ipotizzare che più di una persona su 10 muore se positivo al Covid-19 ci sentiamo di poter affermare che sia totalmente distante dalla realtà. Ed infatti, anche per il nostro Paese, i numeri sono altri, come gli stessi studi sierologici hanno testimoniato. Le indagini effettuate con criteri statistici hanno evidenziato che la popolazione colpita dal virus sarebbe intorno al 5%. Per cui, rifacendo i conti, su una base di 3 milioni di persone venute a contatto con il Covid-19, il tasso di letalità dal 10,9% scende all’1,2%. Le misure di contenimento, ed è questa la domanda che non possiamo non fare, sono proporzionate? In Lombardia, stando ancora ai numeri ufficiali forniti dalla Protezione Civile, il tasso di letalità è addirittura del 15,6%. A cosa serve continuare a dare numeri di questa portata così evidentemente distanti dalla realtà? Domande che continuano a non trovare risposta, forse anche azzardato tentare di farle.
p.s. Ricordate l’intervista di Byoblu al dottor Pasquale Maria Bacco, il ricercatore che stimava un tasso di infezione tra la popolazione già enormemente maggiore di quanto dichiarato ufficialmente, e che per questo veniva deriso? Eccola qui: da rivedere oggi.
BURIONI CI DERISE PER LA NOSTRA RICERCA, ORA I DATI PARLANO CHIARO – Pasquale Bacco #Byoblu24 su Bioblu di Claudio Messora il 7 agosto 2020. Lo studio condotto dal professore di medicina forense Pasquale Mario Bacco insieme alla sua equipe è arrivato a conclusioni capaci di mettere in discussione molte delle verità assolute urlate finora a reti unificate. La conclusione più scioccante è che in Italia il virus già da ottobre 2019 aveva infettato più del 35% della popolazione, mentre a febbraio 2020 c’era ancora chi dai salotti televisivi tranquillizzava istituzioni e cittadini spiegando che per l’Italia il rischio fosse zero. La ricerca, condotta su di 7 mila persone in tutta Italia e finanziata da Meleam SpA fa chiarezza anche sul numero dei morti: “I numeri della Protezione civile sono fasulli – spiega Bacco – il virus non ha possibilità di uccidere una persona sana, il rischio c’è solo per chi ha una risposta immunitaria bassa”. E per quanto riguarda le cure: “Se il virus si ripresenterà a ottobre sarà molto diverso da quello di adesso, per questa ragione il vaccino non servirà a risolvere nulla, la soluzione c’è e si chiama farmaco”. #Byoblu24
Matteo Villa, Ricercatore del programma migrazioni dell’ISPI - Istituto per gli studi di politica internazionale, per corriere.it il 27 marzo 2020. Il tasso di letalità di COVID-19 in Italia (9,9% al 24 marzo 2020) è un dato molto discusso. Se paragonata ai principali paesi del mondo, la letalità del virus in Italia è nettamente la più alta. Ma utilizzare questo dato sarebbe un errore. Esso infatti non dice quasi nulla circa la letalità reale del virus, che studi recenti stimano nello 0,7% per la Cina, mentre ISPI stima in 1,14% per l’Italia. La differenza tra questo dato realistico e quello «fuori scala» è riconducibile al numero di persone che sono state contagiate ma non sottoposte al tampone per verificarne la positività. ISPI stima infatti che le persone attualmente positive in Italia siano nell’ordine delle 530.000, contro i circa 55.000 “casi attivi” ufficiali. Il dato sulla letalità apparente è dunque un indicatore inaffidabile, e nulla suggerisce che la letalità plausibile italiana sia così diversa dalle cifre attese. All’opposto, confrontare letalità apparente e letalità plausibile ci permette di tracciare meglio la curva dei contagi in Italia, seguendo in maniera più realistica l’andamento dell’epidemia. Nelle ultime settimane sono sorti numerosi dibattiti su COVID-19, la malattia derivante da infezione da coronavirus. All’inizio dell’epidemia ci si chiedeva perché l’Italia avesse così tanti casi conclamati, e così in fretta, rispetto agli altri paesi europei. Oggi, invece, in molti si chiedono perché la malattia in Italia abbia una letalità tanto alta rispetto a quella di molti altri paesi. Il 24 marzo 2020 infatti la letalità italiana sfiorava il 10%, mentre la Cina era al 4% e la Germania si attestava addirittura intorno allo 0,5% C’è persino chi ha tentato di spiegare tali differenze nella diffusione e letalità della malattia tra paesi, indicando come possibili fattori causali lo stress del sistema sanitario nazionale, una mutazione genetica del virus a livello locale, le differenze di temperatura e umidità tra regioni del mondo, o variazioni in termini di legami intergenerazionali (gli italiani vivrebbero più spesso e più a lungo con genitori e nonni, rischiando di contagiarli).
Ipotesi plausibili? Cosa c’è di plausibile in queste ipotesi? Ben poco. Innanzitutto è importante non confondere letalità e mortalità. Quando parliamo di letalità di COVID-19 ci riferiamo a quante persone muoiano sul totale delle persone contagiate (o, meglio, positive). Se invece parliamo di mortalità di COVID-19 ci chiediamo quante persone muoiano sul totale della popolazione. Per fare un esempio, se in un paese di 100 abitanti ci sono 10 contagiati e 5 morti, il tasso di letalità sarà del 50% ma il tasso di mortalità sarà solo del 5%. A parte ciò, spesso il problema nasce da un’altra confusione: quella tra tasso di letalità apparente (case fatality rate, CFR) e tasso di letalità plausibile (infection fatality rate, IFR). Nel corso di un’epidemia, l’unico modo che abbiamo per capire chi sia contagiato è sottoporre una persona a un test, ed è naturale che non si testi l’intera popolazione di persone contagiate. Vi sono almeno due ragioni per cui ciò non avviene. Innanzitutto, può esistere una quota di popolazione asintomatica o paucisintomatica: in questo caso essa non chiede di sottoporsi a test perché non si accorge di essere malata o non ipotizza di aver contratto proprio COVID-19. In secondo luogo, in momenti di espansione dell’epidemia il numero di casi cresce in maniera talmente rapida che può risultare impossibile sottoporre a tampone persino il sottoinsieme di persone sintomatiche e che vorrebbero fare il test: si procede dunque per gravità, limitando i test ai casi via via più critici.
La piramide dei contagiati. C’è, insomma, una piramide di persone contagiate.
Il calcolo della letalità apparente (CFR) si basa solo su una porzione più o meno grande di “punta” della piramide, dividendo il numero di morti confermate per il numero di casi confermati.
Quello della letalità plausibile (IFR) tenta di stimare anche le dimensioni della “base”, ovvero il numero di contagiati totale, per poi dividere il numero delle morti confermate per l’intera grandezza della piramide. Com’è ovvio il calcolo della letalità apparente è immediato, perché sia il numero delle morti confermate che quello dei casi confermati è conosciuto. Il calcolo dell’IFR richiede invece diverse operazioni di stima dei contagi to-tali ed è molto complicato. Tuttavia, calcolare l’IFR è indispensabile per avere un’idea realistica di quante persone contagiate perdano realmente la vita.
Letalità apparente o plausibile? L’Italia come caso studio. Che la letalità apparente sia una cifra non utilizzabile per comprendere come l’epidemia si comporta all’interno e tra i vari paesi è facile da capire: è sufficiente osservare l’andamento nel tempo del CFR italiano. Nei primi giorni dell’epidemia la letalità italiana si attestava intorno al 3%, e tra il 25 febbraio e il 1° marzo era persino gradualmente scesa fino al 2%. Da quel giorno in avanti, al contrario, la letalità ha invertito la rotta e ha cominciato ad aumentare, gradualmente e linearmente, fino a raggiungere il 9,9% il 24 marzo. Cosa spiega quest’inversione di tendenza? Il cambio di politica sui tamponi, richiesto alle Regioni da parte del Governo italiano per adeguarsi alle raccomandazioni dell’OMS. Se torniamo all’inizio dell’epidemia, erano in molti a chiedersi come mai nella settimana successiva al 21 febbraio, il giorno della “scoperta” del paziente 1, i casi positivi in Italia stessero crescendo in maniera esponenziale rispetto agli altri paesi europei. Una risposta è che l’Italia fosse già più avanti sulla curva epidemica rispetto all’Europa. Ma c’era anche un altro fattore: fino al 28 febbraio diverse Regioni avevano cominciato a effettuare tamponi su un campione relativamente vasto di popolazione, testando anche molte persone asintomatiche (per esempio i contatti diretti delle persone positive). I casi, dunque, emergevano prima di quanto accadesse in altri paesi. Dal 28 febbraio in avanti le Regioni hanno iniziato ad adeguarsi alle richieste del Governo – richieste motivate anche da ragioni di necessità, per non sottoporre a un carico di lavoro eccessivo i 31 laboratori autorizzati ad analizzare i risultati dei tamponi in una fase di crescita esponenziale dei contagi.
Inversione di tendenza apparente. L’inversione di tendenza nella letalità apparente è avvenuta dopo un paio di giorni, mano a mano che i test già effettuati venivano analizzati ed esitati dai laboratori e che il cambio di policy prendeva corpo. Da allora la letalità apparente ha imboccato un trend chiaro, lineare e in salita. Siamo dunque passati da una situazione in cui ci chiedevamo perché l’Italia avesse più casi conclamati degli altri a una in cui ci interroghiamo sul perché in Italia la letalità apparente sia così alta. Che il tasso di letalità apparente non sia una buona misura della letalità plausibile è ben esemplificato dalla. Scorporando la letalità nazionale a livello regionale si scopre infatti che questa varia da un massimo del 13,6% in Lombardia a un minimo dell’1,1% in Basilicata. Difficile immaginare che il virus muti in maniera così repentina da luogo a luogo, e che davvero uccida un contagiato ogni 7 in Lombardia e solo un contagiato su 91 in Basilicata. Tanto più che Regioni a bassa letalità si ritrovano sia nel nord della Penisola (Veneto, Valle d’Aosta, Trentino-Alto Adige) sia al sud (Sicilia, Calabria, Sardegna).
La variabilità tra regioni. Ma proprio questa variabilità tra Regioni ci offre il destro per utilizzare l’Italia come un ottimo caso studio. C’è infatti un modo piuttosto diretto per dimostrare come il tasso di letalità apparente di-penda in larga parte dalle politi-che di test delle singole Regioni (Fig. 6). Se una Regione effettua pochi test, sottoponendo a tampone solo le persone sintomatiche o persino solo quelle gravi, è lecito attendersi che per ogni tampone fatto emergano molti casi positivi. Viceversa, se una Regione sottopone a tampone una parte più consistente di potenziali contagiati, dando la caccia anche alle persone asintomatiche o paucisintomatiche, ci attendiamo che abbia una percentuale di casi positivi per tampone nettamente più bassa: in altre parole, gli asintomatici sono più difficili da trovare. Così infatti accade: il Veneto, con le sue politiche di test diffuso, presenta un rapporto di positivi per tampone del 10%, mentre al contrario la Lombardia o le Marche hanno tassi vicini al 40%. Come si può notare dal grafico c’è una stretta relazione tra le politiche di test e la letalità apparente: chi fa più tamponi (a sinistra nel grafico) troverà persone meno gravi nella popolazione generale, e dunque la sua letalità apparente sarà più bassa. Chi ne fa di meno (a destra) troverà soprattutto persone gravi, e dunque la sua letalità apparente sarà più alta.
Letalità plausibile in Italia e numero di contagiati. Una volta stabilito che il CFR è una misura non attendibile, c’è estremo bisogno di stimare l’unico dato davvero importante, ovvero il tasso di letalità plausibile (IFR). In un recente lavoro, Verity et al. (2020) calcolano che la letalità plausibile per persone positive a COVID-19 in Cina sia dello 0,66% (con un intervallo di confidenza del 95% compreso tra 0,38% e 1,33%). Una stima ben lontana, dunque, dal tasso apparente cinese del 4% visibile in Figura 1. Sulla base di questo modello, Ferguson et al. (2020) stimano per il Regno Unito una letalità plausibile dello 0,90% (intervallo di confidenza: 0,40% – 1,40%). La letalità plausibile stimata è più alta di quella cinese perché la popola-zione britannica tende a essere più anziana, e come è noto COVID-19 presenta rischi molto maggiori per le fasce di popolazione più anziane. Seguendo l’esempio di Ferguson et al. abbiamo deciso di replicare l’analisi adattandola al caso italiano. L’Italia ha una distribuzione della popolazione per classi di età ancora più spostata verso gli anziani (Fig. 8), ed è dunque naturale attendersi che la letalità plausibile di COVID-19 sia leggermente più alta di quella britannica. Riportando la letalità plausibile stimata per COVID-19 alle varie classi d’età, stimiamo che la letalità plausibile della malattia in Italia si aggiri intorno all’1,14% (intervallo di confidenza del 95%: 0,51% – 1,78%).
Le stime. Questo ci porta anche all’ultima parte del ragionamento: se il tasso di letalità apparente non ci dice praticamente nulla di quanto sia realmente mortale una malattia e non permette comparazioni tra paesi, il confronto tra letalità apparente e letalità plausibile ci permette di stimare quante siano le persone realmente contagiate dal virus in Italia. È sufficiente dividere la letalità apparente per quella plausibile, ottenendo un moltiplicatore da applicare ai casi ufficiali. Alla cifra così ottenuta sarà poi necessario sottrarre il numero delle persone plausibilmente guarite, che stimiamo utilizzando la percentuale dei guariti tra i casi ufficiali. Stimiamo in questo modo che la popolazione di casi attivi (contagiosi) plausibili sia a oggi quasi dieci volte più alta dei casi ufficiali, nell’ordine delle 530.000 unità contro i 54.030 casi ufficiali. L’incertezza attorno a questa stima è piuttosto ampia: si va da un minimo di 350.000 casi a un massimo di 1,2 milioni di persone contagiose attualmente in Italia.
Conclusioni. Innanzitutto, le buone notizie: in Italia non sembra essere presente un ceppo molto più letale di coronavirus rispetto al resto del mondo. La letalità plausibile del virus varia con la struttura delle età e la sua diffusione nella popolazione: a parità di contagiati, è naturale attendersi un numero di morti più alto in Italia che in Cina perché la popolazione italiana è nettamente più anziana di quella cinese e il virus colpisce in maniera più grave proprio le classi d’età più avanzata. Solo nei prossimi mesi e anni sarà possibile indagare eventuali variazioni tra paesi rispetto a questa stima centrale: ma è difficile attendersi effetti molto ampi rispetto alla “forza” media del virus. Insomma, è arduo dimostrare che in Italia si muoia di più perché i ventenni vivono ancora in famiglia e hanno contatti più frequenti con i nonni. Una seconda buona notizia è che confrontando letalità apparente e letalità plausibile è possibile stimare il numero delle persone contagiate e, allo stesso tempo, osservare in maniera più corretta l’andamento dell’epidemia. I casi ufficiali non offrono infatti una buona indicazione di ciò che stia realmente accadendo, mentre la nostra stima dei casi attivi permette di farlo (e di tenere conto dell’incertezza intorno alla cifra centrale).
Cattive notizie. Ci sono però anche cattive notizie. La prima, collegata alla precedente, è che abbiamo ormai perso contatto con la diffusione del virus nella popolazione generale. Non è infrequente che questo accada nel corso della fase esponenziale del contagio, in cui le risorse disponibili sono in massima parte dirette a far fronte all’emergenza sanitaria qui e ora, piuttosto che a studiare la distribuzione dei contagiati. Nel frattempo, è altrettanto inevitabile procedere con misure di lockdown per evitare che le tante persone malate e non monitorate contagino un numero elevato di persone sane.
Post emergenza. Ma per poter immaginare il periodo post emergenza sarà necessario adottare metodi atti a rintracciare le persone potenzialmente ancora contagiose, che si siano accorte di esserlo o meno, e cercare di censirle per tenere sotto controllo l’epidemia. La seconda cattiva notizia è che, se il virus è sicuramente meno letale di quanto potevamo immaginarci, la sua pericolosità rimane immutata. Da un lato, la letalità si abbassa solo perché aumenta il numero plausibile di contagiati, ma il trend dei decessi rimane purtroppo immutato. Dall’altro, anche immaginando che il virus abbia contagiato 1,2 milioni di persone, si tratterebbe ancora soltanto del 2% della popolazione italiana. Saremmo dunque ancora molto lontani da una diffusione del virus nella popolazione generale sufficientemente ampia da avvicinarsi alla famosa “immunità di gregge”, ottenendo l’effetto di rallentare nuovi contagi (ciò accade quando attorno a una persona contagiosa c’è un numero sufficiente di persone sane e immuni, che fanno da barriera). Un’ultima precisazione, che vale per tutti i paesi, è che soprattutto nelle regioni in cui più alto sarà lo stress sanitario è plausibile attendersi che una quota di decessi non venga censita tra le persone positive al coronavirus, perché non resteranno tempo e risorse per eseguire il tampone neppure post mortem. Ciò non invalida il nostro ragionamento generale, ma richiederà di rivedere al rialzo la nostra stima di casi plausibili di contagio nelle aree più colpite. Quella contro il virus sarà una lotta ancora lunga. Con questo studio abbiamo cercato di fornire alcuni strumenti in più per affrontarla.
· Coronavirus: A morte i maschi; lunga vita alle femmine, immortalità ai bimbi.
(ANSA l'8 ottobre 2020) - Sono 407 i pazienti deceduti SARS-CoV-2 positivi di età inferiore ai 50 anni pari all'1% del totale di 36.008. In particolare, 89 avevano meno di 40 anni e, di questi, 14 non avevano diagnosticate patologie di rilievo. E' quanto emerge dal Report sulle caratteristiche dei pazienti deceduti positivi all'infezione da Sars-Cov-2 in Italia, realizzato dall'Istituto Superiore di Sanità (Iss), aggiornato al 4 ottobre e che mostra come nei tre mesi estivi sia anche aumentata l'età media dei decessi. "Il dato - scrive l'Iss in un tweet - può essere spiegato da maggiori conoscenze sull'infezione e maggiori capacità di cura". L'età media dei pazienti deceduti e positivi a Sars-Cov-2 è 80 anni ed è più alta di oltre 25 anni rispetto a quella di coloro che hanno contratto l'infezione. Mettendo a confronto le caratteristiche dei decessi nei 2 trimestri marzo-maggio e giugno-agosto 2020, emerge dal Rapporto Iss, si nota come nel secondo trimestre aumenta leggermente l'età media (da 77,8 a 81,7 anni) e aumentano i decessi di persone con 3 o più patologie preesistenti, soprattutto fibrillazione atriale e demenza, più che raddoppiate. L'insufficienza respiratoria è stata la complicanza più comune nei pazienti deceduti (94,7% dei casi), seguita da danno renale acuto (23,2%), sovrainfezione (18,2%) e danno miocardico acuto (10,9%). La terapia antibiotica è stata comunemente utilizzata nel corso del ricovero (86,6% dei casi), meno usata quella antivirale (57,9%), più raramente la terapia con corticosteroidi (43,5%). In 1138 casi (26,3%) sono state utilizzate tutte e tre le terapie.
Tina Simoniello per "repubblica.it" il 25 agosto 2020. Anche a 20 anni ci si può ammalare di Covid. Perché il virus non conosce età e infetta chi può. Quindi anche a 20 anni bisogna fare attenzione. Da settimane ormai, Massimo Ciccozzi, responsabile dell'Unità di ricerca in Statistica medica ed Epidemiologia dell'Università Campus Biomedico di Roma, si sgola per mettere in guardia i più giovani.
(…) “Bisogna ricordare che questo virus è molto contagioso, bastano 10-15 minuti di contatto con un infetto a una distanza che non sia di sicurezza o senza mascherina per infettarsi a propria volta”.
Ma se questo virus è contagioso e bastano pochi minuti di contatto con un positivo per infettarsi, perché all'interno di uno stesso gruppo di amici che si comportano allo stesso modo e frequentano gli stessi luoghi c'è chi si ammala e chi no?
"Perché si ammala chi ha un sistema immunitario che in quel momento non è capace di produrre anticorpi a sufficienza. O chi ha il diabete, o chi poco prima del contatto con un positivo ha sostenuto uno sforzo fisico importante, anche solo una partita di calcio, e il suo sistema immunitario non ha ancora recuperato".
Anche ballare richiede un certo impegno fisico...
"Ballare richiede sforzo fisico, e aumentando lo sforzo aumenta la frequenza del respiro, e quindi anche l'emissione delle particelle che veicolano il virus. Per questo il rischio di contagio in discoteca è alto. E poi c'è la questione della distanza. (…)
Chi deve fare il tampone?
"Chiunque sia stato a contatto con una persona risultata positiva, anche se la persona positiva è asintomatica e si è asintomatici a propria volta. E naturalmente chi sa di aver avuto comportamenti a rischio e presenta sintomi "strani", che sono perdita del senso dell'olfatto e del gusto, febbre anche più bassa di 38 gradi, un po' di tosse".
Sebbene meno che nelle settimane passate, ancora oggi molti ragazzi dicono "tanto, pure se mi prendo il coronavirus, non mi succede niente". Ma non è così...
"No, non è così. Un'infezione virale di questo tipo può lasciare strascichi per diverse settimane: per esempio una miastenia, ovvero un senso di intensa e costante stanchezza. Una infiammazione a livello cardiologico. Può durare a lungo anche l'assenza del senso di gusto e olfatto, che secondo uno studio irlandese è frequente soprattutto nei giovani. Parliamo di effetti transitori, ma comunque di disagi. E di disagi evitabili. Noi non sappiamo cosa questo virus lascia in eredità una volta passata l'infezione, anche se lo si incontra a 20 anni" (…)
Da "leggo.it" il 17 ottobre 2020. Gli uomini sono le vittime preferite di Covid-19: rappresentano il 70% dei ricoveri. Questo dato ha indotto i ricercatori a pensare che la maggiore facilità di contrarre l'infezione possa dipendere dalla presenza di più elevati livelli di androgeni, cioè gli ormoni sessuali maschili. Ecco perché molti studi stanno valutando la possibilità di intervenire attraverso gli stessi trattamenti ormonali usati normalmente contro il tumore della prostata e la calvizie, per contrastare l'infezione e l'evolversi della malattia. Proprio queste terapie anti-androgeniche, a cui di solito si ricorre in caso di cancro della prostata o di alopecia, potrebbero dunque rivelarsi decisive per contenere la malattia. Una conferma di arriva da uno studio italiano - pubblicato a fine agosto su “Annals of Oncology”- che ha analizzato più di 9mila pazienti ricoverati in Veneto. Il lavoro ha mostrato come coloro che stavano seguendo una terapia anti-androgenica per tumore della prostata avevano un rischio diminuito di 4 volte di contrarre l'infezione da Covid-19 rispetto ai pazienti affetti da tumore di prostata che invece non assumevano anti-androgeni. Questo e altri studi sono stati presentati e discussi a Roma durante il 93° Congresso nazionale della Società italiana di urologia (Siu). «Fin dal primo momento, con l'esplosione dell'infezione da coronavirus in Cina, è stato chiaro come gli uomini siano i più colpiti dal virus responsabile della pandemia - osserva Walter Artibani, segretario generale della Siu - I primi dati hanno infatti confermato che tre pazienti ricoverati su quattro erano maschi. E che gli uomini sono più a rischio di sviluppare malattie gravi, e perfino la morte, a causa del Covid-19». A conferma di ciò, alcuni studi hanno osservato che gli uomini con calvizie, un tipico segno della presenza alti livelli di androgeni, erano più spesso soggetti al ricovero in ospedale. Questo ha indotto a ritenere che gli ormoni sessuali maschili potrebbero essere coinvolti nei meccanismi alla base dell'infezione. Ma non è tutto: «In linea con questa teoria, è stato osservato che i pazienti affetti da tumore della prostata avevano, prima di iniziare le terapie, un maggior rischio di contrarre il Covid-19, oltre a peggiori risultati nei trattamenti effettuati nei loro confronti», aggiunge Artibani. A fronte di questo, è emerso come pazienti in terapia anti-androgenica per alopecia o tumore della prostata risultano invece parzialmente protetti dall'infezione. E pare accadere lo stesso ai pazienti che assumono abitualmente farmaci inibitori della 5-alfa reduttasi (gli stessi utilizzati per l'alopecia, ma a dosaggi piu elevati) per l'ipertrofia prostatica benigna. «Gli studi in corso si concentrano sul ruolo di un particolare enzima legato alla membrana cellulare (denominato Tmprss2), che appare mutato nei pazienti affetti da tumore della prostata, la cui espressione è regolata positivamente dai livelli androgenici e favorisce l'ingresso del virus nella cellula», spiega Francesco Porpiglia, responsabile dell'Ufficio scientifico della Siu e ordinario di Urologia dell'Università degli Studi di Torino. «Ecco dunque perché un trattamento atto a privare o ridurre la stimolazione degli androgeni potrebbe eventualmente influire sull'ingresso del Covid-19 nelle cellule e di conseguenza impattare sullo sviluppo e sulla gravità della malattia». Gli studi tuttora in corso sono osservazionali prospettici o retrospettivi, quindi richiedono ancora trial clinici adeguati. E ci vorrà ancora qualche tempo, prima di arrivare allo sviluppo di farmaci specifici che agiscono su questo meccanismo d'azione. «Ma al momento è possibile comunque affermare che si tratta di una possibilità concreta - concludono gli esperti - anche se va precisato che si tratterebbe, per ora, di una cura destinata esclusivamente ai pazienti con tumore della prostata. E che, come ogni terapia anti-androgenica, sarebbe comunque controindicata ai cardiopatici e a chi soffre di forme gravi di osteoporosi».
Contagi, il sorpasso delle donne. "Sono il 51 per cento dei malati". L’Iss: ribaltato il trend iniziale. Il 44% dei positivi nelle Rsa, il 25% in famiglia. Michele Bocci il 25 aprile 2020 su La Repubblica. Se si guarda il sesso delle persone contagiate, la storia dell’epidemia di coronavirus si è ribaltata all’inizio di aprile. Prima i maschi erano i più colpiti, con 59 mila casi rappresentavano infatti il 54% dei positivi. In una ventina di giorni di questo mese, secondo l’Istituto superiore di sanità, c’è stata una netta prevalenza di donne, che ora sono il 51,4% delle persone colpite dall’inizio dell’epidemia. Il tutto, mentre la mortalità resta ampiamente sbilanciata dalla parte degli uomini, tra i quali c’è stato il 63,3% dei decessi. Del resto, è stato chiaro fin da subito come il coronavirus provocasse danni maggiori ai maschi. «Stiamo studiando il motivo di questo “shift” tra i contagiati», spiega Gianni Rezza delle Malattie infettive dell’Istituto superiore di sanità. «Intanto però partiamo dal fatto che tra i colpiti ci siano molti lavoratori sanitari, categorie con maggiore presenza femminile, e ospiti delle Rsa, dove ci sono più donne che uomini». In effetti dei quasi 20 mila operatori sanitari contagiati fino ad ora, i maschi rappresentano poco più del 31%. Proprio l’Istituto ieri ha presentato uno studio sui luoghi dove si è diffusa la malattia ad aprile. Si tratta di un lavoro interessante perché spiega come mai anche molte settimane dopo il lockdown, che risale al 9 marzo, le persone abbiano continuato ad ammalarsi. Visto che l’incubazione della malattia dura 14 giorni al massimo, molti si aspettavano, infatti, di osservare una discesa della curva epidemica anche prima di aprile. Il punto è che il coronavirus ha circolato nei domicili delle persone. Cioè nelle Rsa, le residenze dove vivono migliaia di anziani, e tra le famiglie. Lo studio, che valuta un campione di casi ed è stato illustrato dal presidente dell’istituto Silvio Brusaferro ha chiarito che tra l’1 e il 23 aprile il 44,1% delle infezioni si sono verificate appunto nelle Rsa, il 24,7% in ambito familiare, il 10,8% negli ospedali e negli ambulatori, il 4,2% sul luogo di lavoro e il resto altrove. Come ormai chiaro, e ora dimostrato da questo lavoro, nella seconda fase dell’epidemia, dopo la chiusura, c’è stata un’esplosione dei casi nelle Rsa. Più difficile indagare l’inizio della diffusione del coronavirus in Italia. Il paziente 1, quello dell’uomo di Codogno, è stato scoperto il 21 febbraio ma Gianni Rezza spiega che ormai si è certi che il virus partito dalla Cina sia arrivato da noi a gennaio. «Non sappiamo bene ma possiamo dire che circolava da almeno un mese prima. Ha provocato quindi centinaia di casi senza che ce ne accorgessimo, tutti al Nord». Se la curva epidemica va meglio, avvertono dall’Istituto, non bisogna abbassare la guardia rispetto alle misure perché nel giro di due settimane la curva può risalire. E del resto ci sono ancora aree in difficoltà. Brusaferro ha parlato di 106 comuni in 9 regioni che sono già stati o saranno dichiarati “zona rossa” e quindi chiusi. Ieri la Federazione degli Ordini dei medic ha comunicato che è morto il centocinquantesimo camice bianco. Si chiamava Giambattista Perego, aveva 62 anni,e faceva il medico di famiglia a Bergamo. Altri 85, tra i medici morti, erano lombardi. In Italia finora hanno perso la vita 51 medici di famiglia.
Le donne guariscono più in fretta. “Il coronavirus colpisce i testicoli”: ecco perché gli uomini muoiono di più. Redazione de Il Riformista il 20 Aprile 2020. Gli uomini più delle donne. È quanto hanno detto fin qui le statistiche sull’incidenza del coronavirus sulla popolazione mondiale. La risposta potrebbe essere biologica. I testicoli, infatti, potrebbero essere una sorta di rifugio per il virus. A rivelarlo è uno studio condotto negli Usa dal Montefiore Health System e dall’Albert Einstein College of Medicine, in collaborazione con l’Ospedale di Malattie Infettive Kasturba di Mumbai in India. Secondo lo studio quando il Covid-19 entra nel corpo si lega al recettore umano di ACE2, (enzima associato alla trasformazione dell’angiotensina), che costituisce il punto di ingresso nelle cellule umane per il virus Sars-Cov-2. L’ACE2 è individuabile nel tessuto polmonare, intestinale, cardiaco. Secondo lo studio, è presente anche nei testicoli. Nel tessuto ovarico, invece, la concentrazione è notevolmente inferiore. Oltre alla maggiore incidenza del virus tra lo studio aggiunge un altro dato: 20 pazienti di sesso femminile hanno impiegato in media 4 giorni per guarire dal virus. Gli uomini hanno avuto bisogno di 6 giorni.
Perché il coronavirus colpisce più gravemente gli uomini? Perché il coronavirus colpisce più gravemente gli uomini? Le donne sviluppano una risposta immunitaria con linfociti T più potente rispetto agli uomini (anche in età avanzata). Il nuovo studio di Nature. di Cristina Marrone il 27 agosto 2020 su Il Corriere della Sera. Ormai lo sappiamo: nessuno è immune dal coronavirus che può contagiare chiunque, dai bambini agli anziani anche se con percentuali molto diverse. Gli uomini più anziani hanno però il doppio delle probabilità di ammalarsi gravemente e morire rispetto alle donne della stessa età. Il primo studio che ha indagato sulla risposta immunitaria in base al sesso è stato appena pubblicato su Nature e ha fornito un importante indizio: secondo i ricercatori gli uomini producono una risposta immunitaria al virus più debole rispetto alle donne. I risultati suggeriscono che gli uomini, in particolare sopra i 60 anni, potrebbero dover dipendere maggiormente dai vaccini per proteggersi dall’infezione e potrebbero aver bisogno di dosaggi differenti con più richiami.
Il sistema immunitario. Le donne hanno risposte immunitarie più veloci e più forti, forse perché i loro corpi sono «attrezzati» per combattere gli agenti patogeni che minacciano i bambini in grembo o neonati. Anche se, è noto, nel tempo, un sistema immunitario in uno stato di allerta costante può essere dannoso. La maggior parte delle malattie autoimmuni, caratterizzata da una risposta immunitaria eccessiva, sono ad esempio più frequenti nelle donne rispetto agli uomini.
La differenza tra uomini e donne. I ricercatori, guidati dall’immunologo dell’Università di Yale Akiko Iwasaki, hanno lavorato su 98 pazienti con età media di 61-64 anni ricoverati allo Yale New Heaven Hospital con sintomi lievi e moderati. Dall’analisi sono stati esclusi i pazienti collegati a ventilatori e anche coloro che assumono farmaci che influenzano il sistema immunitario per non avere interferenze per arrivare così a studiare le risposte immunitarie in 17 uomini e 22 donne raccogliendo sangue, tamponi nasofaringei, saliva, urina, feci ogni 3-7 giorni. Nel complesso gli scienziati hanno scoperto che le donne hanno prodotto più linfociti T, che possono uccidere le cellule infettate dal virus e impedire la diffusione dell’infezione. Gli uomini invece hanno invece mostrato un’attivazione molto più debole dei linfociti T: più anziani erano più deboli sono risultate le loro risposte con cellule T. «Invecchiando perdono la capacità di stimolare le cellule T - ha spiegato il dottor Iwasaki al New York Times - e coloro che non sono riusciti a produrre linfociti T sono peggiorati con la malattia. Ma le donne, anche molto vecchie, sopra i 90 anni, sviluppano ancora una risposta immunitaria buona e accettabile».
Le citochine. Rispetto agli operatori sanitari e al gruppo di controllo sano, tutti i pazienti avevano livelli ematici elevati di citochine, le proteine che stimolano il sistema immunitario a mettersi in moto. Alcuni tipi di citochine, chiamate interleuchina-8 e interleuchina-18, erano elevate in tutti gli uomini ma solo in alcune donne. I ricercatori hanno scoperto che quelle donne che avevano livelli più elevati di altre citochine si sono ammalate più gravemente.
I limiti. Lo studio presenta comunque dei limiti: il numero di pazienti esaminato è limitato , con un’età media sopra i 60 anni , dettaglio che rende difficile valutare come cambia la risposta immunitaria con l’età. Lo studio inoltre non ha fornito una ragione valida per spiegare le differenze tra uomini e donne: dal momento che le donne avevano tutte o quasi superato il periodo di menopausa è difficile che siano coinvolti gli ormoni sessuali steroidei, che sono sempre stati individuati come «protettivi». Il fatto che anche le donne anziane sviluppino una protezione robusta delle cellule T è un argomento che dovrà essere ulteriormente indagato.
Da lastampa.it il 21 aprile 2020. I testicoli possono essere una sorta di rifugio per il coronavirus. quanto rivela uno studio condotto negli Usa dal Montefiore Health System e dall’Albert Einstein College of Medicine, in collaborazione con l’ospedale di Malattie Infettive Kasturba di Mumbai in India. Lo studio, non ancora sottoposto a peer-review e disponibile sul sito MedRxiv, suggerisce un ulteriore elemento per valutare gli effetti del coronavirus in particolare sui pazienti di sesso maschile. Quando il Covid-19 entra nel corpo si lega al recettore umano di ACE2, (enzima associato alla trasformazione dell'angiotensina), che costituisce il punto di ingresso nelle cellule umane per il virus Sars-Cov-2. L'ACE2 è individuabile nel tessuto polmonare, intestinale, cardiaco. Secondo lo studio, è presente anche nei testicoli. Nel tessuto ovarico, invece, la concentrazione è notevolmente inferiore. I dati a livello globale indicano una maggiore mortalità tra gli uomini. Lo studio aggiunge un ulteriore tassello: 20 pazienti di sesso femminile hanno impiegato in media 4 giorni per guarire dal virus. Gli uomini hanno avuto bisogno di 6 giorni. Il coinvolgimento dei testicoli, come si legge sul Los Angeles Times, induce il professor Aditi Shastri, oncologo al Montefiore Medical Center, a non escludere un'ulteriore ipotesi: «Prenderei assolutamente in considerazione l'ipotesi che il virus possa essere contenuto nel liquido seminale».
Da "qds.it" il 25 maggio 2020. Il Covid-19 colpisce più gli uomini delle donne. Lo dimostrano diversi studi in cui si è evidenziato che circa il 60% delle persone colpite dal virus è di sesso maschile. Ma qual è il motivo di questa differenza di genere? Secondo un’analisi condotta dall’Università Campus Bio-Medico di Roma e Sapienza Università di Roma e pubblicato sulla rivista scientifica “Metabolism”, la risposta è da cercare in un particolare tipo di ormone: il testosterone. “In questa nostra ipotesi di lavoro abbiamo affrontato il problema del testosterone, l’ormone maschile per eccellenza, che può essere più basso o più alto con un ampio range di variazione nella popolazione maschile – spiega Paolo Pozzilli professore ordinario di endocrinologia all’Università Campus Bio-Medico di Roma e direttore di endocrinologia e diabetologia del Policlinico Universitario Campus Bio-Medico – in particolare, sappiamo che i livelli di testosterone diminuiscono con l’età: per cui i soggetti anziani, ossia quelli più colpiti dal Coronavirus, sono anche quelli con più basso testosterone”. Come si legge in questo lavoro, bassi livelli di testosterone possono causare una riduzione dell’attività dei muscoli respiratori, della loro forza complessiva e della capacità di esercizio, mentre la normale circolazione di questo ormone maschile mostra un effetto migliorativo della respirazione. Inoltre, con testosterone basso nel sangue si osserva un aumento dei processi infiammatori che sono associati con un aggravamento della prognosi dell’infezione da Covid-19. “D’altro canto anche un eccesso di attività androgenica potrebbe essere nociva – dichiara Andrea Lenzi professore ordinario di endocrinologia della Sapienza e coordinatore dell’area endocrino metabolica e andrologica del Policlinico Umberto I – in quei soggetti in cui il testosterone funziona troppo, cioè dove esiste una differente capacità del suo recettore di trasmettere il proprio segnale”. “Proprio poiché una delle proteine che serve al virus per entrare nelle cellule, denominata Tmprss2, è molto sensibile agli androgeni – aggiunge – oggi vi è grande attenzione per l’azione dell’ormone maschile nei meccanismi d’ingresso del virus. Infatti, questa proteina, regolata dal testosterone e per questo già studiata nella patologia neoplastica della prostata, potrebbe in futuro diventare un possibile target terapeutico nei maschi affetti da infezione Covid-19”.
“Il coronavirus si nasconde nei testicoli”. E rende gli uomini sterili? Le Iene News il 29 aprile 2020. Secondo uno studio il coronavirus si anniderebbe nei testicoli sfuggendo così al sistema immunitario degli uomini. E non solo: potrebbe anche causare sterilità. Il nostro Alessandro Di Sarno ha parlato con la responsabile della ricerca e ha fatto un piccolo test con l’aiuto di un malato di Covid-19. Ecco cos’ha scoperto. Da giorni sui media rimbalza la notizia di uno studio secondo cui il coronavirus si anniderebbe nei testicoli sfuggendo così al sistema immunitario degli uomini: “Ecco perché muoiono più maschi!”. Se questa notizia fosse vera, la sterilità maschile potrebbe essere una delle conseguenze del nuovo coronavirus. Per saperne di più il nostro Alessandro Di Sarno ha parlato con la professoressa Aditi Shastri, che ha coordinato la ricerca. “Per le statistiche il coronavirus ha un tasso di mortalità più alto negli uomini rispetto alle donne”, ci dice la professoressa. “C’è sicuramente un fattore biologico che porta gli uomini a essere più attaccati dal Covid-19. Il virus è in grandissima quantità nei testicoli, nelle ovaie invece non abbiamo trovato traccia dei recettori ACE2, a cui il virus si lega”. “Questo ci ha fatto pensare che gli uomini non annientino il virus in maniera così veloce perché è come se avessero un serbatoio di questi enzimi nei testicoli”, spiega ancora la professoressa. “Potrebbe provocare delle infezioni e portare alla sterilità”. Anche uno studio cinese ha rilanciato questa possibilità. Per cercare di capirne di più, facciamo una prova. Un uomo di 30 anni, positivo al coronavirus da 40 giorni, si offre di sottoporsi a un test della fertilità. Si era già sottoposto allo stesso test a gennaio e il risultato era che il suo seme era in ottime condizioni. Una volta avuti i risultati ci facciamo aiutare a leggerli dal professor Carlo Foresta dell’università di Padova, che sta lavorando proprio a uno studio tra fertilità e Covid-19: “È tutto normale”. Una grande notizia per il nostro amico. A questo punto, agli uomini non resta che toccarsi le gonadi…
Rilevate tracce di coronavirus nel liquido seminale di alcuni pazienti. Riccardo Castrichini il 9 maggio 2020 su Notizie.it. Sono state trovate da un team di ricerca cinese tracce di coronavirus nel liquido seminale di alcuni giovani pazienti. Un team di ricerca cinese ha rilevato la presenza di tracce di RNA virale del coronavirus SARS-CoV-2 nel liquido seminale di alcuni di giovane età colpiti in forma acuta dal Covid-19. La scoperta è al momento allo stato embrionale, motivo per cui non è ancora chiaro quali possano essere le implicazioni derivanti da questo studio. Resta ad esempio da capire per quanto tempo il coronavirus rimanga nel tessuto testicolare e soprattutto se questo possa eventualmente contagiare un’altra persona. In quest’ultimo caso, proprio come avviene per l’Ebola, il virus potrebbe essere trasmesso anche per via sessuale. Lo studio è portato avanti dagli scienziati dell’Ospedale Generale dell’Esercito di Liberazione del Popolo Cinese e del Centro nazionale di ricerca clinica per le malattie renali, in collaborazione con il Dipartimento di Nefrologia dell’Ospedale di Pechino-Chaoyang e dell’Ospedale Municipale di Shangqiu. I pazienti sottoposti allo ricerca sono stati 50 pazienti maschi affetti da coronavirus, di età pari o superiore ai 15 anni. Tutti hanno sviluppato una forma acuta del Covid-19 nel periodo compreso tra il 26 gennaio e il 16 febbraio. Solo 38 dei 50 pazienti hanno potuto fornire un campione di liquido seminale in quanto alcuni sono purtroppo morti ed altri non erano nelle condizioni cliniche adatte per la ricerca. L’RNA del coronavirus è stato individuato nello liquido seminale di 4 dei 15 pazienti ancora in condizioni gravi, e in 2 fra i 23 in recupero. Lo studio fin qui mostrato, al di là degli sviluppi che avrà in termini dell’identificazione o meno del virus come malattia sessualmente trasmissibile, va a confermare il fatto che l’RNA virale del coronavirus SARS-CoV-2 non circoli solo nell’apparato respiratorio. Recenti studi avevano infatti paventato la sua presenza anche nelle lacrime dei pazienti, nel fluido cerebrospinale e nel liquido peritoneale.
"Covid-19 attacca i testicoli? Ecco la verità". La virologa Gismondo vuole vederci chiaro: "Prima che la notizia diventi virale bisogna pretendere una conferma e un ampliamento dei dati". Luca Sablone, Mercoledì 22/04/2020 su Il Giornale. I testicoli potrebbero essere la causa della letalità del Coronavirus sui maschi: il Covid 19 sembra colpire più frequentemente gli uomini che le donne e uno studio condotto negli Stati Uniti dal Montegiore Health System e dall'Albert Einstein College of Medicine, in collaborazione con l'ospedale di Malattie infettive Katsurba a Mumbai potrebbe aver fornito una risposta. Secondo i ricercatori, le ghiandole sessuali maschili potrebbero essere il rifugio del virus quando si trova sotto attacco: si tratterebbe di una sorta di luogo di fortezza considerando che le ovaie delle donne non hanno la proteina ACE2, il recettore a cui il nuovo Coronavirus si lega per invadere le cellule umane. Lo studio ovviamente dovrà essere sottoposto ai vari controlli del caso, ma pare che le prime reazioni degli esperti non siano del tutto negative. "I testicoli potrebbero avere un ruolo", ha spiegato Kathryn Sandberg. La professoressa alla Georgetown University e specialista della differenza nelle reazioni immunitarie tra uomo e donna, al Washington Post ha dichiarato che in tutti gli ospedali bisognerebbe cercare di avere dati molto più precisi e accurati per quanto riguarda le reazioni diverse tra pazienti maschi e femmine: "Solo così si possono capire i meccanismi che il virus usa per attaccare il corpo umano". Eventualmente ci sarebbe da fare i conti anche con l'ipotesi della trasmissione sessuale. Aditi Shastri, oncologa e autrice del saggio, ha avvertito: "Dovrà essere preso in considerazione che il virus possa essere secreto nel liquido seminale".
"Ecco tutta la verità". Sulla questione è intervenuta Maria Rita Gismondo, mediante un articolo pubblicato su Il Fatto Quotidiano, per fare luce su quanto pubblicato nel recente lavoro preliminare di un "gruppo di ricerca familiare" indio-americano, firmato da Aditi Shastri, oncologo del Montefiore Medical Center in the Bronx (New York, Usa), e sua madre Jayanthi Shastri, microbiologa presso il Kasturba Hospital for Infectious Diseases in Mumbai (India): "Il lavoro afferma che il Coronavirus è stato ritrovato nei testicoli dei malati, ovviamente di sesso maschile, fatto che spiegherebbe, a loro parere, perché i maschi siano più colpiti delle donne". Al momento si sa che il Covid-19 riesce a penetrare nella cellula tramite il legame della sua proteina S di superficie (spikeprotein) ad alcuni recettori cellulari: "Studi hanno dimostrato che la proteina ACE2 , angiotensin-converting enzyme 2, agisce come recettore di membrana per il SARS-CoV". L'ACE2 è presente nei polmoni e nei testicoli. La tesi sostenuta è che gli uomini siano più aggrediti dal virus perché - riuscendo a rifugiarsi nei testicoli - è poco raggiungibile dal sistema immune, ma la direttrice responsabile del laboratorio di di Macrobiologia Clinica, Virologia e Diagnostica Bioemergenze dell'ospedale Sacco di Milano ha voluto chiarire: "Lo sforzo scientifico è sicuramente meritevole, ma credo che, prima che la notizia diventi virale, con ricadute comportamentali da non sottovalutare, si debba pretendere una conferma e un ampliamento dei dati". A suo giudizio mancano alcuni dati fondamentali: il fatto che il virus SarsCoV2 produca anticorpi protettivi e la carica virale (quanti virus) "riscontrata nei testicoli e ancora, in quale momento della storia della malattia". Perciò la Gismondo vuole vederci chiaro: "Tutti dati che al momento non sono a disposizione e che potrebbero dare un profilo diverso alla notizia".
Giampaolo Visetti per ''la Repubblica'' il 15 marzo 2020.
«Sì, ormai possiamo dirlo: questo virus contagia più i maschi delle femmine. Più i casi sono gravi e più si sale con l'età, più la differenza cresce. Le terapie intensive ormai scoppiano di uomini: il problema, con l' epidemia in una fase iniziale, è che non riusciamo a capire perché». Guido Bertolini, 55 anni, responsabile del laboratorio di epidemiologia dell' Istituto Mario Negri di Bergamo, dall' unità di crisi della Lombardia coordina medicine d' urgenza e pronto soccorso. Con 2.600 medici e infermieri dei più importanti ospedali italiani ha appena finito un confronto sulla preferenza del coronavirus per i maschi.
«Non abbiamo dati della qualità che vorremmo - dice a Repubblica - ma le statistiche dopo tre settimane cominciano a essere chiare. Su dieci contagiati in modo grave, 7 sono maschi e 3 sono femmine. Negli anziani arriviamo al rapporto di 8 a 2. Da oggi studiamo un fenomeno che nasconde il segreto per aggredire il virus: la direzione è il suo rapporto con l' assetto ormonale dei due sessi».
Come avete scoperto la maggiore vulnerabilità maschile?
«Fino ad oggi, per riorganizzare gli ospedali, ci si è concentrati sulla resistenza dei bambini e sulla fragilità degli anziani. Adesso, grazie allo scambio dei dati con la Cina, emerge che anche in Italia i maschi sono molto più a rischio: capire perché permette di arrivare alla natura del virus».
Quale spiegazione dà?
«Oggi possiamo formulare solo ipotesi. La differenza più evidente tra maschi e femmine è l' assetto ormonale. I primi producono androgeni, le seconde estrogeni. Questi costruiscono resistenze naturali contro molte patologie, a partire da quelle cardiovascolari. La sfida è capire cosa succede con il Covid-19».
Perché rimangono aspetti non chiari?
«Il primo problema è che dopo la menopausa nelle donne la produzione di estrogeni cala. Anche loro, con l' avanzare dell' età, dovrebbero dunque diventare più attaccabili. Invece non succede. Anzi: più i contagiati sono anziani e più cresce la percentuale di maschi, in particolare nei casi gravi».
Come lo spiega?
«Lo stiamo studiando. Negli anziani possono contribuire altri fattori, come l' abuso pregresso di fumo e di alcol, con i disturbi correlati. Nei maschi è più alta anche l' incidenza di diabete e ipertensione, di problemi cardiovascolari e respiratori».
Quali sono i dati italiani?
«Prendiamo il totale dei decessi: 70% maschi e 30% femmine. Solo l' 1,7% delle donne muore, rispetto al 2,8 degli uomini. Tra i casi confermati siamo a 4,7% tra i maschi e a 2,8% tra le femmine. Se aggiungiamo che il rapporto è di 7 a 3 anche nei ricoveri in terapia intensiva è chiaro che la scienza deve approfondire in fretta».
Dopo quale età la forbice si allarga sempre di più?
«Il confine sono i 50 anni. Prima la differenza è significativa, dopo diventa impressionante. Incidono fattori di rischio e relazione con gli assetti ormonali».
Si può dire che i maschi devono stare più attenti delle femmine?
«No. Tutti devono osservare le misure adottate dal governo e restare in casa. I maschi però devono sapere che, se infettati, spesso vanno incontro a polmoniti più gravi. C' è però un aspetto ancora più preoccupante».
Quale?
«Dobbiamo investire di più sul trattamento ancora più precoce dei contagiati. La partita contro il Covid-19 si gioca nei pronto soccorso: se arriva in terapia intensiva sempre più spesso è già persa».
Come si può fare?
«Accelerando le diagnosi con il "test del cammino" e dotandosi di un numero maggiore di caschi per la ventilazione non invasiva».
Elena Dusi per ''la Repubblica'' il 15 marzo 2020. Un sistema immunitario più allenato grazie alle vaccinazioni dell' infanzia. Potrebbe essere il punto di forza per cui i bambini affrontano il coronavirus con sintomi blandi. L' ipotesi di Mihai Netea, 51 anni, uno dei più importanti immunologi al mondo, professore all' università di Radboud in Olanda, sarà testata in uno studio clinico.
Perché i bambini si ammalano in modo leggero?
«La forma grave si presenta con due caratteristiche: immunoparalisi e iperinfiammazione. Immunoparalisi vuol dire che le difese dell' organismo vengono sopraffatte dal virus. Iperinfiammazione vuol dire che l' infiammazione, un processo utile nella zona presa di mira dal virus (i polmoni), diventa troppo estesa e crea grossi problemi all' organismo. Per effetto della battaglia tra il microrganismo e il sistema immunitario i polmoni si riempiono di liquido e rendono difficile la respirazione».
Nei bambini invece?
«Abbiamo tre ipotesi. La prima è che il sistema immunitario è immaturo e non riesce a scatenare un' iperinfiammazione. Ma il ragionamento può valere solo nei primi due anni di vita. La seconda è che i bambini si affidano molto di più al sistema immunitario innato che non a quello adattativo. Il primo è quello con cui veniamo al mondo. Il secondo apprende e si modella in base ai microbi con cui entriamo in contatto, e nei bambini è meno formato. Può darsi che contro il coronavirus il sistema innato sia più importante».
Il ruolo dei vaccini?
«È la terza ipotesi. Può darsi che i vaccini rendano il sistema immunitario più reattivo non solo contro la malattia bersaglio del vaccino, ma anche contro le altre infezioni. In parte, dunque, anche contro il coronavirus».
Che argomenti ci sono?
«I bambini che hanno fatto il vaccino contro la tubercolosi detto "Bcg" soffrono il 30-50% in meno di malattie respiratorie stagionali, raffreddore incluso. Non sappiamo se lo stesso beneficio valga per gli adulti. Stiamo per avviare un test somministrando il Bcg al personale sanitario in prima linea contro il coronavirus. Vedremo se verrà in parte protetto».
Altri test in programma?
«Calcoleremo se gli operatori del sistema sanitario olandese vaccinati contro l' influenza saranno colpiti meno dal coronavirus. In questo caso consiglieremo a tutti di immunizzarsi il prossimo autunno. Se anche il coronavirus fosse stagionale, scomparirebbe con il caldo ma tornerebbe con il freddo».
Ci sarebbero vaccini più efficaci di altri, in questo effetto "di sponda" contro il coronavirus?
«Non lo sappiamo».
Come si spiega che i casi gravi siano più numerosi fra gli anziani?
«L' intero sistema immunitario, sia innato che adattativo, si indebolisce con il tempo».
Alcuni farmaci riducono l' iperinfiammazione. È una strada promettente?
«Il razionale è giusto. I risultati li vedremo. Nei casi gravi non abbiamo altra scelta che tentare».
Aspettare che si crei un' immunità di gregge è sensato?
«Ha ragione chi sostiene che il virus non è contenibile e chi non verrà colpito oggi lo sarà in autunno. Ma rallentare il contagio è importante. Da qui all' autunno possiamo imparare tanto sul virus e come fronteggiarlo. Potremmo dimezzare la mortalità, portandola allo 0,5 o 0,3%. I miei colleghi delle università di Utrecht e Rotterdam hanno appena annunciato di aver messo a punto un anticorpo monoclonale capace di neutralizzare il coronavirus. Ci vorranno mesi per le sperimentazioni, come per un vaccino. Ma è proprio per questo che il tempo rubato al virus è prezioso».
Femmine, campionesse di lunga vita. Anche tra gli animali. Uno studio ha analizzato la durata media della vita di un centinaio di mammiferi. Scoprendo che, come per la nostra specie, in media le femmine vivono più a lungo dei maschi. Anna Lisa Bonfranceschi La Repubblica il 27 marzo 2020. Le femmine vivono di più, ma sostanzialmente invecchiano alla stessa velocità dei maschi. Il vantaggio in termini di vita vissuta che si osserva nei mammiferi sarebbe piuttosto dovuto a un minor tasso di mortalità in tutte le età. Così racconta uno studio pubblicato su Pnas, che ha cercato di capire se anche tra altri mammiferi in natura, così come si osserva per la nostra specie, le femmine vivessero più a lungo dei maschi. Infatti, ricordano in apertura del loro studio i ricercatori guidati da Jean-François Lemaître del Cnrs - Université Lyon 1, è ben noto come nella popolazione umana le donne vivano più a lungo degli uomini. È donna anche la stragrande maggioranza dei supercentenari. Ma cosa succede per gli altri mammiferi? Sebbene fosse infatti diffusa l'idea che lo stesso si osservasse in altri mammiferi, studi che indagassero a fondo la questione non sono mai stati fatti, spiegano gli scienziati. Che hanno così deciso di colmare questo gap analizzando la durata della vita di maschi e femmine di 134 popolazioni di 101 differenti specie di mammiferi, come canguri, elefanti, orche, leoni, gorilla, pipistrelli, alce e stambecchi per esempio. È così emerso come effettivamente, anche in natura in generale le femmine di mammifero vivono più a lungo dei maschi: hanno in media una vita più lunga del 18,6%, contro quasi l'8% che si osserva tra donne e uomini. Le femmine battevano su questo campo i maschi in circa il 60% delle popolazioni analizzate. Ma perché? Secondo i ricercatori quanto osservato non sarebbe un effetto imputabile a un invecchiamento che viaggia a due diverse velocità nei due sessi – che avrebbe dovuto, secondo questa ipotesi, essere dunque più lento nelle donne. Il guadagno femminile in termini di vita vissuta sarebbe piuttosto dovuto a un minor tasso di mortalità in tutte le età, scrivono i ricercatori. Senza concentrasi particolarmente su aspetti strettamente genetici, alla base di quanto osservato ci sarebbero: “interazioni complesse tra condizioni locali ambientali e costi riproduttivi sesso-specifici”, come scrivono i ricercatori. Nei leoni per esempio, spiega Tamás Székely della University of Bath, tra gli autori del paper, il vantaggio in durata della vita delle leonesse (che in natura vivono circa il 50% in più dei maschi, spiega) non sarebbe dovuto ai maggior rischi corsi dai maschi, che per esempio combattono con altri maschi per la conquista delle femmine, e dunque a una sorta di selezione sessuale. "Le leonesse vivono in branco, dove sorelle, madri e figlie cacciano insieme e si prendono cura una dell'altra, mentre i maschi spesso vivono soli con i propri fratelli e non godono della stessa rete di supporto – ha spiegato Székely – un'altra possibile spiegazione per le differenze osservate è che la sopravvivenza delle femmine aumenta quando i maschi forniscono parte o tutte le cure parentali. Funziona così anche negli uccelli. Mettere al mondo la prole e prendersi cura dei piccoli diventa un costo in termini di salute notevole per le femmine, che si riduce se entrambi i genitori contribuiscono alla loro crescita".
Enza Cusmai per “il Giornale” il 21 agosto 2020. Il Covid colpisce il pianeta giovani con la complicità di movida, feste, assembramenti sotto le stelle. I giovani però sono spesso asintomatici o hanno pochi sintomi e non finiscono in ospedale. Sui grandi numeri l'eccezione è il 17enne della provincia di Bergamo finito in terapia intensiva al Policlinico di Milano. È andata meglio a una ragazza di Roma, ricoverata con polmonite bilaterale, ma è facile che questa lista nera cresca con il rientro delle vacanze. Qualcuno sta peggio, magari se ha fragilità pregresse, com' è accaduto anche durante la prima ondata del virus. Del resto, anche l'Oms ha confermato un trend in ascesa tra gli under 25. A metà luglio, il Covid ha colpito il 15 per cento dei ragazzi tra i 15 e i 24 anni. A fine febbraio la percentuale era del 4,5. Certo, prima erano tempi bui, da paura. I ragazzi stavano rintanati in casa. Ora ci sono le vacanze e il virus sembra una cosa lontana. Ma Hans Kluge, direttore dell'Oms per l'Europa avverte: «Basso rischio non significa nessun rischio». Giovani, non siete invincibili. Ma, a proposito di rischi, non si salvano neppure i bambini. Allarma uno studio appena pubblicato sul Journal of Pediatrics da un gruppo di ricercatori del Massachusetts General Hospital in cui si dimostra che anche i più piccoli possiedono una carica virale molto alta nelle vie respiratorie. La ricerca è stata svolta su 192 bambini e ragazzi di età compresa tra 0 e 22 anni ed è emerso che i ragazzini infetti, anche asintomatici o pre-sintomatici, avevano una carica virale nelle vie aeree superiori significativamente più alta rispetto ad adulti in terapia intensiva gravemente malati di Covid-19. E questo nonostante i più giovani sviluppino meno la malattia perché hanno un minor numero di recettori immunitari per Sars-CoV-2. Un'altra ricerca americana pubblicata su Jama ha confermato che i bambini infetti di età inferiore ai 5 anni possono ospitare nel naso e nella gola livelli di rna virale uguali o addirittura fino a 100 volte superiori agli adulti. Dobbiamo preoccuparci, dunque, a ridosso dell'apertura delle scuole? Fausto Baldanti, responsabile di virologia molecolare all'ospedale San Matteo di Pavia, getta acqua sul fuoco. «Potrebbe non essere corretto comparare la situazione di un bambino asintomatico o presintomatico e in pieno benessere, con un adulto in rianimazione: al primo si misura la replicazione del virus nel naso-gola, al secondo il prelievo avviene a livello di tessuto profondo polmonare spiega il virologo . Ma questo conferma comunque che bambini, ragazzini e giovani adulti si infettano ma presentano una scarsa sintomatologia o sono asintomatici. L'impatto clinico è nell'età più avanzata». La carica virale alta presente nella gola di un bambino, inoltre, non significa che sia più contagioso. «Non ci sono evidenze chiare e certe che i bambini siano maggiormente contagiosi degli adulti. Sicuramente possono infettare in eguale misura, solo che mostrando meno sintomi hanno più chance di contagiare soprattutto i loro coetanei con cui si abbracciano e si baciano. La carica virale inoltre, dipende da molti fattori, la vicinanza, l'uso o non uso della mascherina». Ma sarà sufficiente la mascherina a scuola? «Temo sia difficile farla indossare correttamente alle elementari. La scuola va riaperta, sia chiaro, ma serve una grande vigilanza, grande attenzione: è un passaggio delicatissimo. Bisogna aumentare al massimo il monitoraggio, altrimenti corriamo gli stessi rischi dello scorso inverno».
Perchè i bambini hanno meno probabilità di contrarre il Coronavirus: lo studio. Roberta Caiano su Il Riformista il 9 Novembre 2020. “Bambini e giovani sotto i 20 anni, oltre ad essere molto spesso asintomatici, si stima che abbiano una suscettibilità all’infezione pari a circa la metà rispetto a chi ha più di 20 anni”. E’ questo il dato che si legge sul sito ufficiale del Ministero della Salute citando uno studio pubblicato su Nature Medicine. La ricerca ha sviluppato modelli di trasmissione del Covid-19 nei più piccoli sulla base di dati provenienti da sei paesi, inclusa l’Italia. Secondo gli studiosi, dunque, risulta improbabile che i bambini più piccoli diffondano il virus, ma i bambini più grandi sono più a rischio. “La suscettibilità variabile per età all’infezione da Sars-CoV-2, in cui i bambini sono meno suscettibili degli adulti a contrarre l’infezione a contatto con una persona infettiva, ridurrebbe i casi tra i bambini”, si legge nella ricerca scientifica. I dati dello studio renderebbero così la scuola come punto meno caldo per la diffusione del coronavirus, nonostante le iniziali remore alla riapertura di istituti scolastici e asili nido. “Quando si verificano focolai, per lo più provocano solo un piccolo numero positivi”, specifica la ricerca, in particolare quando vengono adottate precauzioni per ridurre la trasmissione. Tuttavia, i dati mostrano anche che i bambini possono contrarre il virus e diffondere particelle virali, e i più grandi hanno maggiori probabilità rispetto ai bimbi molto piccoli di trasmetterlo ad altri. Secondo Walter Haas, epidemiologo di malattie infettive presso il Robert Koch Institute di Berlino, “a livello globale le infezioni sono ancora molto più basse tra i bambini che tra gli adulti”.
APERTE SCUOLE INFANZIA E PRIMARIE – L’ultimo Dpcm del 4 novembre ha avvalorato i dati secondo cui i bambini al di sotto della fascia d’età compresa tra i 0-6 anni abbiano meno probabilità di contagiarsi. Infatti, il decreto ha confermato la didattica a distanza per le scuole secondarie di primo e secondo grado, a fronte di una didattica in presenza per i più piccoli frequentanti dall’asilo nido alle scuole elementari. Anche per quanto riguarda l’uso delle mascherine e dell’obbligo di distanziamento sociale, la specifica dell’ultima circolare del ministero dell’Istruzione chiarisce che fanno eccezione “i bambini di età inferiore ai 6 anni e i soggetti con patologie o disabilità incompatibili con l’ uso della mascherina”. Ma “a partire dalla scuola primaria, la mascherina dovrà essere indossata sempre da chiunque sia presente a scuola, anche quando gli alunni sono seduti al banco e indipendentemente dalle condizioni di distanza”.
LO STUDIO – I risultati prodotti dalla ricerca sulla base dei dati epidemici provenienti da Cina, Italia, Giappone, Singapore, Canada e Corea del Sud evidenziano come “la pandemia Covid-19 abbia mostrato una percentuale notevolmente bassa di casi tra i bambini”. Le disparità di età nei casi osservati potrebbero essere spiegate dai bambini che hanno una minore suscettibilità alle infezioni, una minore propensione a mostrare sintomi clinici o entrambi. Per questo il gruppo di studio ritiene che “gli interventi rivolti ai bambini potrebbero avere un impatto relativamente piccolo sulla riduzione della trasmissione del nuovo Coronavirus, in particolare se la trasmissibilità delle infezioni subcliniche è bassa”. Per quanto riguarda la situazione italiana su Nature, infatti, si legge che “più di 65.000 scuole in Italia hanno riaperto a settembre, ma solo 1.212 strutture avevano sperimentato focolai 4 settimane dopo. Nel 93% dei casi è stata segnalata una sola infezione e solo una scuola superiore aveva un cluster di oltre 10 persone infette”. I ricercatori sospettano che uno dei motivi per cui le scuole non sono diventate punti caldi della trasmissione è che “i bambini, specialmente quelli sotto i 12-14 anni, sono meno suscettibili alle infezioni rispetto agli adulti”, secondo una meta-analisi di diversi studi sulla prevalenza del virus. Inoltre, ulteriori dati evidenzierebbero come una volta infettati, i bambini piccoli tra 0 e 5 anni hanno meno probabilità di trasmettere il virus ad altri. Il team del dottor Haas ha oltremodo scoperto che le infezioni erano meno comuni anche nei bambini tra 6 e 10 anni rispetto ai più grandi e al personale scolastico. Dunque, “il potenziale di trasmissione aumenta con l’età e gli adolescenti hanno la stessa probabilità di trasmettere il virus degli adulti. Adolescenti e insegnanti dovrebbero essere protagonisti di misure di mitigazione, come indossare mascherine o tornare alla didattica a distanza quando la trasmissione nella comunità è alta”. Dunque la frazione clinica della ricerca specifica per età e le stime di suscettibilità che implicazioni hanno per il carico globale della diffusione del Covid-19, come risultato delle differenze demografiche tra le impostazioni. Nei paesi con strutture di popolazione più giovani, come molti paesi a basso reddito, “l’incidenza pro-capite prevista dei casi clinici sarebbe inferiore rispetto ai paesi con strutture di popolazione più anziane, sebbene sia probabile che le comorbidità nei paesi a basso reddito influenzeranno anche la gravità della malattia”. Ciò si traduce nel fatto che senza misure di controllo efficaci, le regioni con popolazioni relativamente più anziane potrebbero vedere un numero sproporzionato di casi di Covid-19, “in particolare nelle fasi successive di un’epidemia non mitigata”. La distribuzione specifica per età dell’infezione clinica che il team di ricerca ha rilevato è simile nella forma a quella generalmente assunta per l’influenza pandemica, ma la suscettibilità specifica per età è invertita. Queste differenze hanno un grande effetto sull’efficacia della chiusura delle scuole nel limitare la trasmissione, ritardare il picco dei casi attesi e diminuire il numero totale e massimo di casi. Dunque, in relazione al Covid-19, “è probabile che la chiusura delle scuole sia molto meno efficace rispetto alle infezioni simil-influenzali”. Gli studiosi specificano che una minore suscettibilità potrebbe derivare da una protezione crociata immunitaria da altri coronavirus o da una protezione non specifica derivante da recenti infezioni da altri virus respiratori, che i bambini sperimentano più frequentemente degli adulti. “L’evidenza diretta di una ridotta suscettibilità alla Sars-CoV-2 nei bambini è stata mista, ma se fosse vera potrebbe comportare una trasmissione inferiore nella popolazione complessiva”, si legge nel rapporto. Questo testimonierebbe come “le differenze nei modelli di contatto tra individui di età diverse e le differenze specifiche del contesto nella distribuzione per età influenzino esse stesse il numero previsto di casi in ciascun gruppo di età”. I bambini tendono a stabilire più contatti sociali rispetto agli adulti e quindi, a parità di condizioni, dovrebbero contribuire maggiormente alla trasmissione rispetto agli adulti. Se il numero di infezioni o casi dipende fortemente dal ruolo dei bambini, i paesi con diverse distribuzioni di età potrebbero mostrare profili epidemici sostanzialmente diversi e l’impatto complessivo delle epidemie di Covid-19.
Gli studi che assolvono i bimbi: "Sì alle scuole, non sono untori". "Lancet": hanno pochi sintomi e sono meno contagiosi. Tenere i più piccoli a casa ha ridotto le morti solo del 3%. Maria Sorbi, Sabato 30/05/2020 su Il Giornale. I bambini non sono untori, anzi. Hanno una bassissima capacità di contagio. Quindi la decisione di chiudere le scuole e di riaprirle a singhiozzo forse non ha poi tutto questo senso. La scienza scagiona i più piccoli e dà una svegliata alle istituzioni, incitandole a leggere gli ultimi studi prima di prendere altri provvedimenti drastici. «Scienziati e colleghi del comitato tecnico scientifico, leggete i dati» sprona il virologo della Emory University di Atlanta, Guido Silvestri che, nelle sue «Pillole di ottimismo» su Facebook, parla degli studi raccolti da Sara Gandini, direttore di ricerca Semm (School of Molecular Medicine) e Ieo (Istituto europeo di oncologia) di Milano, esperta di epidemiologia e statistica. Già sappiamo che i bambini tendono ad avere una malattia più lieve rispetto agli adulti e spesso nessun sintomo. Raramente il contagio parte da loro. «Una delle possibili spiegazioni - spiega Gandini - è che il Covid si trasmette attraverso starnuti, tosse, stretto contatto e toccando con le mani contaminate bocca, naso o occhi. Poiché i bambini hanno meno sintomi, come tosse e starnuti, rispetto agli adulti, questo comporta probabilmente una minore trasmissibilità». La letteratura medica raccolta finora dimostra in tutte le salse che non ci sono casi di trasmissione da bambino a bambino o da bambino ad adulto. E se ci sono, sono molto rari. Lo scrive il Lancet, lo sostengono numerosi studi cinesi e australiani. «Tutta questa evidenza scientifica - spiega l'epidemiologa - supporta l'ipotesi che anche se ci sono bambini asintomatici che frequentano le scuole, è improbabile che diffondano il contagio». La chiusura elle scuole al massimo ha impedito il 2-4% dei decessi, molto meno di altri interventi di distanziamento sociale. I dati provenienti da Corea del Sud e successivamente Islanda, che hanno effettuato test su vasta scala nella popolazione, hanno confermato un numero significativamente ridotto di positivi a Covid nei bambini. Questo stesso risultato è stato rilevato anche nella città italiana di Vo Euganeo, dove si è effettuato uno screening del 70% della popolazione, non trovando nessun bambino con età inferiore a 10 anni positivo, nonostante un tasso di positività del 2,6% nella popolazione generale. «In tre quarti dei bambini contagiati da Covid-19 il virus ha pochissimo effetto: sono asintomatici o con pochi sintomi» dimostra anche uno studio appena concluso, e coordinato dall'Irccs materno infantile «Burlo Garofolo», in 28 centri (prevalentemente ospedali) di 10 regioni in Italia durante le prime settimane della pandemia. Il lavoro ha analizzato 130 bambini con accertata infezione da Covid-19, 67 dei quali (51,5%) avevano un parente infetto e 34 dei quali (26,2%) erano affetti da altre malattie che nella gran parte dei casi erano patologie croniche di tipo respiratorio, cardiaco o neuromuscolare. La ricerca, che sarà pubblicata a breve sull'European Journal of Pediatrics, una delle più prestigiose riviste internazionali di settore, conferma che la malattia ha uno scarso impatto in età pediatrica. Eppure la politica ancora non ci sente. La sottosegretaria all'Istruzione Anna Ascani proprio ieri ha dichiarato che «la didattica a distanza ha tamponato l'emergenza». E ancora non è chiaro come riaprire le scuole a settembre, cercando si sfasare gli orari di ingresso e di uscita. A quanto sostiene la scienza però le misure sono più utili a non fare assembrare i genitori al portone d'uscita. Lasciare i compagni di classe seduti allo stesso banco non comporterebbe particolari rischi.
Da Ilmessaggero.it il 18 marzo 2020. All'Ospedale pediatrico Bambino Gesù è ricoverato un bimbo di 5 mesi positivo al coronavirus. Il neonato, secondo quanto si apprende, non ha complicazioni. Il bimbo è arrivato con sintomo febbrile domenica 15 marzo al pronto soccorso del Bambino Gesù del Gianicolo, trasportato dall'ambulanza del 118. Segnalato come caso sospetto, è stato gestito da subito secondo i protocolli di sicurezza. Il piccolo paziente è seguito in isolamento da un'equipe interdisciplinare di Malattie infettive, Immunoinfettivologia e Broncopneumologia dell'Ospedale, che ha lavorato in queste settimane in stretta collaborazione con i colleghi dell'Istituto Spallanzani. Ad oggi sono stati oltre 120 i bambini segnalati e gestiti dal Bambino Gesù come casi sospetti. Solo due, con questo, i casi positivi, entrambi in forma lieve e in buone condizioni di salute.
(ANSA il 21 aprile 2020) - Un bambino nato all'ospedale Beauregard di Aosta è risultato positivo all'infezione da nuovo coronavirus. Lo ha appreso l'ANSA. Il parto è avvenuto la scorsa settimana, nella notte tra giovedì e venerdì. La madre, residente nella cintura di Aosta, anche lei positiva, ha partorito con 38 di febbre. Il risultato del tampone è arrivato il giorno dopo la nascita. All'interno dell'ospedale Beuregard è stata riorganizzata la degenza nei reparti di Ostetricia e Pediatria.
Come si manifesta il Coronavirus nei bambini? “Non con tosse”. Antonino Paviglianiti il 13 maggio 2020 su Notizie.it. Coronavirus, i sintomi nei bambini non sono identici a quelli degli adulti: cosa c'è da sapere. Il Coronavirus nei bambini con quali sintomi si manifesta? Secondo gli esperti le prime avvisaglie di Covid-19 sono diverse nei più piccoli rispetto a quanto accade negli adulti. Il nuovo studio emerge da quanto pubblicato su ‘Frontiers in Pediatrics’ ove si fa presente che i primi sintomi da Coronavirus, nei bambini, sono da ricercare in ambito gastrointestinale. Disturbi di stomaco, come la dissenteria, rientrano nei campanelli d’allarme per il Covid-19. Nella rivista pediatrica si legge come i sintomi gastrointestinali farebbero sospettare una potenziale infezione attraverso il tratto digestivo, poiché il tipo di recettori ‘bersaglio’ del virus, presenti nelle cellule dei polmoni, può essere trovato anche nel tratto intestinale. Secondo i pediatri che hanno effettuato questo studio: “La maggior parte dei bambini è colpita solo in modo lieve da Covid-19 e i pochi casi gravi hanno spesso problemi di salute pre-esistenti. È facile che la diagnosi sfugga nella fase iniziale, quando un bambino ha sintomi diversi da quelli respiratori”. Questo, dunque, il pensiero di Wenbin Li del Dipartimento di Pediatria del Tongji Hospital di Wuhan, in Cina, autore dello studio. Nelle regioni in cui questo virus è epidemico – secondo i ricercatori – i bambini che soffrono di sintomi del tratto gastrointestinale, in particolare con febbre o una storia di esposizione a questa malattia, dovrebbero essere considerati come possibili contagi da Coronavirus. L’esame è stato effettuato su un campione di 5 bambini ricoverati in ospedale con sintomi non respiratori, che in seguito sono stati riscontrati come soggetti positivi al Coronavirus. Come riportato nello studio pediatrico, tutti questi bambini sono stati ricoverati per problemi vari: “Uno aveva un calcolo renale, un altro un trauma cranico. Tutti poi avevano una polmonite confermata dalla Tac del torace e il tampone si è rivelato positivo. Ma i loro sintomi iniziali potevano non essere stati correlati a Covid-19: erano lievi o relativamente nascosti prima del ricovero in ospedale. Ed è importante sottolineare che 4 dei 5 casi presentavano sintomi del tratto digerente come prima manifestazione della malattia”.
La Svizzera riapre le scuole: “i bambini non sono vettori” di coronavirus. È vero? La Svizzera conferma la riapertura delle scuole dall’11 maggio “perché i bambini non sono i vettori di questa epidemia”. A partire da alcuni casi a Bergamo in tutto il mondo negli ultimi giorni si sta studiando però una possibile correlazione tra i sintomi dei più piccoli colpiti dalla sindrome di Kawasaki e il Covid-19. “I bambini non sono i vettori principali di questa epidemia, in alcuni singoli casi possono ammalarsi i più grandi, ma in linea di massima la cifra globale dei contagi è bassa tra i più piccini”. A dirlo è Daniel Koch, responsabile dell’unità di crisi Covid-19, il “Mister coronavirus svizzero”. Già tre settimane fa era finito al centro della polemica (qui l’articolo), proprio per aver detto una frase simile annunciando la possibile riapertura delle scuole elvetiche. Ora conferma il ritorno sui banchi in Svizzera e ribadisce il suo pensiero: “si può partire con un piano di protezione, i pericoli per i docenti, compagni di scuola e genitori che possono rientrare nei gruppi a rischio è minimo”. Eppure parla da un paese duramente dal coronavirus con un contagio ogni 291 abitanti. In Italia, dove le scuole restano chiuse fino a settembre, ne contiamo uno ogni 303. Anche se in Svizzera la mortalità da coronavirus è nettamente più bassa della nostra. C’è soprattutto un altro dubbio che in questi giorni si concentra attorno alla domanda: i bambini si ammalano di coronavirus? Sono infatti appena usciti alcuni studi che collegherebbero i sintomi di alcuni piccoli alla sindrome di Kawasaki, una rara forma infiammatoria dei vasi sanguigni che i medici temono possa essere legata al coronavirus. I sintomi sono: febbre, congiuntivite, arrossamento delle labbra e della mucosa orale, anomalie a mani e piedi. La complicazione più temibile è l’infiammazione delle arterie del cuore, che può causare delle dilatazioni aneurismatiche permanenti delle coronarie. Il 21 marzo all’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo viene diagnosticato il primo caso. I medici non hanno dubbi: è la sindrome di Kawasaki. Da allora nel primo epicentro italiano del Covid-19 le diagnosi sono aumentate fino a 20, cioè tante quante quelle degli ultimi 3 anni. A rimanerne colpiti sono stati soprattutto neonati e bambini sotto gli 8 anni. Per l’ospedale Papa Giovanni XXIII si tratta di “chiare prove che confermano che il responsabile è questo nuovo coronavirus”, come scrivono in una nota. Negli ultimi giorni si stanno moltiplicando in Italia e nel mondo gli studi per trovare un’eventuale correlazione tra i fenomeni. In Gran Bretagna per esempio, secondo quanto riporta il Guardian, sono stati trovati dati simili a quelli di Bergamo. Per il momento uno degli studi più completi realizzati finora sul rapporto fra bambini e coronavirus è quello realizzato a Vo’ Euganeo in Veneto, uno dei primi focolai italiani. Ben 234 bambini da 0 a 10 anni sono stati sottoposti al tampone, e nessuno di loro è risultato positivo al Covid-19, nonostante fossero in 13 a vivere in famiglie con persone contagiate. “Ciò non significa che possiamo concludere che i bambini non rischiano di ammalarsi”, precisano comunque gli autori nelle conclusioni. È cauta nel trarre conclusioni anche Vittoria Colizza. Due settimane fa il laboratorio Epicx dell’Istituto di Sanità Pubblica che dirige a Parigi ha avviato varie ipotesi per l’uscita dalla quarantena. Tra queste non c’era la riapertura delle scuole decisa invece dal presidente francese Emmanuel Macron. “Ancora non è chiaro il ruolo dei bambini nel contagio, forse diverso fino ai 10 anni e poi negli adolescenti, che sembrano contrarre di più il virus”, spiega Colizza, che evidenzia anche un altro aspetto: “Nelle due settimane di vacanze scolastiche a febbraio, in Francia l’epidemia si è propagata molto più lentamente. Questo qualcosa vuol dire”. Non a caso, forse, Macron parla ora di una riapertura molto graduale: materne e elementari “su base facoltativa” dall’11 maggio, medie dal 18 mentre per le superiori se ne riparlerà a fine mese. Speriamo si possa presto fare luce sulla questione, in vista del rientro a scuola dei bambini italiani, previsto per settembre.
DAGONEWS il 28 aprile 2020. I medici del Servizio sanitario nazionale inglese (NHS) hanno lanciato un allarme per l’aumento del numero di bambini ricoverati in terapia intensiva con una sindrome che potrebbe essere collegata al coronavirus. In un avviso inviato ai medici di medicina generale, i responsabili sanitari del NHS di Londra hanno dichiarato: «Vi è una crescente preoccupazione per una sindrome infiammatoria correlata al COVID-19 che stiamo riscontrando nei bambini nel Regno Unito. Nelle ultime tre settimane c'è stato un evidente aumento del numero di bambini di tutte le età che presentano uno stato infiammatorio multisistemico che richiede cure nelle unità di terapia intensive di Londra e anche in altre regioni del Regno Unito». Come riscontrato fino ad adesso i bambini, che sono normalmente super-diffusori di malattie virali come l’influenza, non sono stati particolarmente colpiti dal coronavirus. Ma adesso i medici si sono soffermati su questi bambini che vengono ricoverati con mal di stomaco, infiammazione cardiaca e "sintomi gastrointestinali", tra cui vomito e diarrea. I medici hanno confrontato la misteriosa condizione con la sindrome da shock tossico e la malattia di Kawasaki che, combinati, causano ingrossamento del cuore, febbre e problemi respiratori - tutti segni distintivi del COVID-19. Tuttavia alcuni bimbi ricoverati con questa condizioni non sono risultati positivi al coronavirus, complicando ulteriormente la diagnosi e sollevando dubbi sulla presenza di un altro agente patogeno. Gli esperti devono ancora fare chiarezza su quali siano i sintomi, nonostante le richieste dei pediatri di dipingere un quadro più chiaro in modo da poter rimanere vigili. Non è chiaro quanti bambini abbiano avuto la sindrome infiammatoria, né se ci siano stati morti. Secondo l’NHS, i casi di piccoli pazienti con questa sindrome infiammatoria hanno iniziato ad emergere solo nelle ultime tre settimane. I pediatri attendono chiarimenti più specifici e di chiarire se i piccoli avevano eruzioni cutanea e febbre, due sintomi tipici della malattia di Kawasaki.
Bergamo, boom di bambini con la sindrome di Kawasaki: effetto collaterale del coronavirus? C'è chi finisce in terapia intensiva. Libero Quotidiano il 29 aprile 2020. Un probabile effetto "collaterale" del coronavirus, inquietante e spiazzante. Un effetto collaterale che dimostra quanto del Covid-19 sappiamo davvero poco. Della vicenda ve ne abbiamo già dato conto ieri (qui l'articolo), ossia del fatto che nel Regno Unito i funzionari dell'Nhs, il sistema sanitario nazionale, hanno informato i medici di base di Londra del fatto che "nelle ultime tre settimane si è registrato un aumento apparente di casi di infiammazione sistemica che ha necessitato il ricovero in terapia intensiva nei bambini di tutte le età, a Londra e in altre regioni del Regno Unito - riporta il The Guardian -. I casi hanno in comune una sovrapposizione di sintomi della sindrome da choc tossicologico e della malattia di Kawasaki atipica, con parametri ematologici consistenti con un quadro clinico severo da Covid". Il punto però è che un fenomeno identico si sta registrando anche in Italia. Ne dà conto il Fatto Quotidiano, che svela i casi di bimbi che hanno sviluppato una infiammazione dei vasi sanguigni probabilmente in seguito ad aver contratto il coronavirus: si tratta di una patologia simile alla cosiddetta malattia di Kawasaki, una vasculite sistemica febbrile rara che colpisce i bambini per lo più fino ai 5 anni e con una media di 8 casi su 100mila. La sindrome di Kawasaki è caratterizzata dall'infiammazione dei vasi sanguigni di medie dimensioni, nei casi più gravi associata ad aneurismi delle arterie coronarie che, se non trattati, possono essere mortali. Nei Paesi sviluppati, è la causa più comune di cardiopatia acquisita nei bambini e se non adeguatamente curata costituisce un fattore di rischio per la cardiopatia ischemica nell'età adulta. "All'ospedale di Bergamo Giovanni XXIII sono 13 i casi registrati nell'ultimo mese, dai neonati ai 16enni, mentre finora ce n'erano stati al massimo quattro all'anno", spiega al Fatto Quotidiano Lucio Verdoni, reumatologo e pediatria all'ospedale di Bergamo. E ancora, aggiunge: "Solo 2 dei 13 bambini sono risultati positivi al tampone, mentre 11 lo erano al test sierologico" aggiunge. Cifre che rendono abbastanza chiara, lampante, la probabile correlazione con il coronavirus. "Pensiamo che sia una manifestazione dei bambini che hanno contratto il virus in modo asintomatico, per sviluppare poi questa infiammazione a distanza di tempo - aggiunge Verdoni -. Non abbiamo assoluta certezza che sia una patologia causata dal Covid-19, ma certo è che un aumento così significativo di casi in un solo mese, a partire dal 21 marzo e in concomitanza della pandemia, rappresenta un dato molto significativo". Il quadro clinico poi è consistente con quello da Covid. Nei casi più gravi, i bambini ricoverati a Bergamo hanno sviluppano un' infiammazione severa del miocardio e sono entrati in terapia intensiva. Insomma, le complicazioni e le minacce del coronavirus, in questo momento, sembrano essere tutto tranne che sotto controllo.
L'allarme dei pediatri. Cos’è la malattia di Kawasaki e perchè è collegata al Coronavirus. Redazione su il Riformista il 28 Aprile 2020. È arrivato anche in Italia l’allarme per la diffusione ‘anomala’ della malattia di Kawasaki. La sindrome, una vasculite che colpisce i bambini sotto i 10 anni (soprattutto sotto i cinque) e la cui causa è ancora ignota dopo la scoperta avvenuta circa 50 anni fa, ha visto moltiplicare i suoi numeri “in particolar modo nelle zone del paese più colpite dall’epidemia da Sars-Cov-2”, come sottolinea Angelo Ravelli, segretario del gruppo di studio di Reumatologia della Società Italiana di Pediatria. Il primo caso dell’infiammazione dei vasi sanguigni nota appunto come malattia di Kawasaki sarebbe stato riscontrato all’Ospedale Giovanni XXIII di Bergamo lo scorso 21 marzo, ma nel giro di poche settimane è stata diagnosticata ad altri 20 bambini, con i pediatri del nosocomio lombardo che lanciano l’allarme parlando di possibile correlazione col Coronavirus. Come spiegato da Lucio Verdoni, reumatologo pediatra del Giovanni XXII di Bergamo al Corriere della Sera, “negli ultimi due mesi ci siamo accorti che giungevano al pronto soccorso pediatrico diversi bambini che presentavano una malattia nota come Malattia di Kawasaki. In un mese il numero dei casi ha eguagliato quelli visti nei tre anni precedenti”. Per i pediatri italiani “non è chiaro se il virus Sars-Cov-2 sia direttamente coinvolto nello sviluppo di questi casi di malattia di Kawasaki o se le forme che si stanno osservando rappresentino una patologia sistemica con caratteristiche simili a quelle della malattia di Kawasaki, ma secondaria all’infezione. Ciò nonostante, l’elevata incidenza di queste forme in zone ad alta endemia di infezione da Sars-Cov-2 (Lombardia, Piemonte e Liguria) e l’associazione con la positività dei tamponi o della sierologia, suggerisce che l’associazione non sia casuale”. L’allarme sulla malattia di Kawasaki si era diffuso nelle scorse settimane soprattutto in Gran Bretagna, dove il ministro della Salute Matt Hancock ha fatto intendere in una intervista alla radio Lbc che alcuni bambini in Regno Unito siano già morti per la sindrome, che con le complicanze peggiori può portare all’infiammazione l’infiammazione delle arterie del cuore e dilatazioni aneurismatiche permanenti delle coronarie.
La misteriosa simil-Kawasaki legata al coronavirus può colpire anche gli adulti. Cristina Marrone l'8/10/2020 su Il Corriere della Sera. La rara sindrome infiammatoria può interessare adulti di tutte le età anche dopo aver superato l’infezione e senza alcun segno di seria malattia respiratoria. Mesi dopo la scoperta di una sindrome infiammatoria multisistemica pediatrica (MIS-C), condizione legata al Covid che nei bambini mostra sintomi simili alla malattia di Kawasaki, si è visto che la misteriosa malattia può colpire anche gli adulti. Lo ha segnalato un recente report pubblicato negli Stati Uniti dai Centri di Prevenzione delle Malattia (CDC) in cui è stata descritta la sindrome multisistemica negli adulti (MIS-A), malattia rara e grave che colpisce più organi e aumenta l’infiammazione. Il rapporto conclude che i pazienti Covid-19 di tutte le età positivi a Sars-CoV2 o che hanno superato l’infezione possono sviluppare la sindrome simil-Kawasaki. Ad ogni modo anche negli adulti la sindrome sembra molto rara: i Cdc hanno identificato finora due dozzine di casi.
I primi report sui bambini. I primi report sulla misteriosa sindrome infiammatoria multisistemica nei bambini (In Italia conosciuta appunto come simil Kawasaki) sono stati pubblicati per la prima volta a primavera, in particolare da ricercatori britannici e italiani. I bambini con questa sindrome rara, che colpisce più organi e spesso richiede un ricovero in ospedale possono accusare febbre, dolore addominale, vomito, diarrea, dolore al collo, eruzione cutanea, occhi arrossati, affaticamento. Finora i Cdc hanno ricevuto 935 segnalazioni di casi pediatrici, inclusi 19 decessi. In Italia i casi segnalati sono stati quasi 150: nessun bambino è morto.
I 27 casi che riguardano gli adulti. Il nuovo rapporto dei Cdc descrive 27 casi di MIS-A negli Stati Uniti e nel Regno Unito. Sedici di questi casi sono descritti nel dettaglio e i pazienti avevano un’età compresa tra i 21 e i 50 anni. Alcuni dei sintomi erano simili a quelli osservati nei bambini inclusi febbre, sintomi gastrointestinali, eruzione cutanea. Alcuni pazienti hanno riportato anche dolore toracico, palpitazioni e avevano i livelli dei marker che segnalano un’infiammazione molto alti. Tutti i pazienti erano positivi al Covid o a un test sierologico che segnalava che avevano incontrato il virus. Dieci di questi pazienti hanno avuto bisogno della terapia intensiva mentre due sono morti.
Le sindromi infiammatorie forse un processo post infettivo. Gli autori del report hanno osservato che in genere i pazienti ospedalizzati con Covid-19 manifestano infiammazione ai polmoni o altri organi. Nella maggior parte dei casi questi sintomi sono accompagnati da gravi problemi respiratori. In modo abbastanza sorprendente i pazienti con MIS-A non hanno mostrato sintomi respiratori gravi: le metà non ne aveva, l’altra metà li aveva solo lievi. «Le cause alla base di MIS-C e MIS-A non sono note. Ma il 30% degli adulti e il 45% di un campione di 440 bambini con MIS-C sono risultati negativi a Sars-CoV2, ma positivi agli anticorpi contro il virus. Questo suggerisce che le sindromi infiammatorie potrebbero rappresentare processi post-infettivi» hanno concluso gli autori.
“Muove il piedino”, neonata prematura guarisce dal coronavirus: “Soddisfazione unica”. Redazione de Il Riformista l'8 Aprile 2020. Il piedino della piccola che si muove, per la prima volta, dopo le 48 ore in cui è stata priva di coscienza. Un giorno speciale all’ospedale Santa Croce e Carle di Cuneo. Dopo tre settimane di ricovero in terapia intensiva neonatale per la positività al coronavirus, in condizioni critiche e con necessità di un supporto respiratorio meccanico, una neonata prematura è completamente guarita, risultando negativa a due tamponi. “Si tratta del primo caso del genere o uno dei prima. La neonata ha presentato un quadro clinico talmente grave da dover essere intubata – spiega il primario della TIN dell’ospedale piemontese Andrea Sannia -. La piccolina, dopo 3 settimane, è guarita con grande soddisfazione di tutto il personale, soprattutto infermieristico, che, con scrupolosa attenzione, ha gestito notte e giorno, una difficile quarantena”. Nata prematura (pesava appena due chili), la piccola era stata ricoverata dopo 20 giorni di vita al pronto soccorso dell’ospedale di Pinerolo a causa di difficoltà ad alimentarsi e nella respirazione. Dopo le prime cure, è stata affidata al Servizio di trasporto neonatale d’emergenza, intubata e trasferita nella Terapia intensiva neonatale di Cuneo. Adesso potrà finalmente essere accolta dai genitori che in queste settimane sono rimasti in fiduciosa attesa, vedendola solo attraverso le videochiamate con i medici. Per i sanitari è stato “un evento unico così come unica è stata la nostra soddisfazione”.
Cuneo, guarisce dal coronavirus neonata di tre settimane: è stata la prima a essere aiutata con il ventilatore. Nata prematura e ricoverata nel reparto di terapia intensiva, la bimba potrà finalmente tornare a casa. La Repubblica l'8 aprile 2020. La neonata ricoverata nel reparto di Terapia intensiva neonatale di Cuneo. Una bambina di tre settimane positiva al coronavirus, probabilmente il primo caso descritto di neonato affetto da Covid che presentava un quadro clinico talmente grave da necessitare di supporto respiratorio meccanico, è perfettamente guarita e, dopo due tamponi, potrà tornare a casa. Nata prematura - di appena due chili di peso - era stata ricoverata, ad appena venti giorni di vita, al pronto soccorso dell’ospedale di Pinerolo a causa di difficoltà ad alimentarsi e nella respirazione. Dopo le prime cure, è stata affidata al Servizio di trasporto neonatale d’emergenza, intubata e trasferita nella Terapia intensiva neonatale di Cuneo. Lo rende noto la stessa Terapia intensiva dell'ospedale di Cuneo, dove è stata in "isolamento strettissimo" per tre settimane dopo due giorni di incoscienza totale, che oggi l'ha dimessa. Per il primario Andrea Sannia è "un giorno speciale".
Graziella Melina per “il Messaggero” il 22 aprile 2020. Per motivi di privacy non si ha la certezza che il bambino nato pochi giorni fa ad Aosta sia davvero positivo al Covid. E non sarebbe di certo il primo caso. Ma restano aperti ancora tanti interrogativi. «La maggior parte dei bambini che nascono da mamme positive non risultano contagiati», assicura Fabio Mosca, direttore di Neonatologia e Terapia intensiva neonatale, all'Irccs Ca'Granda ospedale maggiore policlinico di Milano e presidente della Società italiana di neonatologia. La trasmissione verticale del virus, cioè da mamma a bambino, non è stata provata, né esistono evidenze che il contagio può avvenire tramite il latte materno. «Per le mamme pauci sintomatiche o con sintomi lievi consigliamo quindi l'allattamento al seno. Poi è bene però tenere il bimbo a tre metri di distanza e utilizzare prodotti specifici per la disinfezione e il lavaggio delle mani». Quando capita invece che il neonato si positivizza, «osserviamo che in genere non ha sintomatologia clinica preoccupante, resta asintomatico oppure ha poca febbre. A proteggerlo, ipotizziamo, è soprattutto la cosiddetta immunità innata».
I DATI. Secondo l'Istituto Superiore di Sanità fino al 10 aprile i casi di contagio nella fascia di età da 0 a 18 anni sono stati 2.040: la maggior parte (880) si è registrata dai 12 ai 18, mentre in ciascuna delle altre tre fasce (0-1, 2-6, 7-11) sono stati circa 400. Solo il 7,0% dei contagiati è stato ricoverato in ospedale. Un bimbo (dai 2 ai 6 anni) purtroppo non ce l'ha fatta. Secondo i pediatri, la percentuale dei bambini affetti dal Covid sarebbe però molto più alta. «Ad oggi tutti i soggetti sotto i 18 anni sembrano i meno colpiti dal contagio - spiega Paolo Biasci, presidente della Federazione italiana medici pediatri -, dobbiamo capire però se questa minore evidenza è dovuta al fatto che ai bambini vengono effettuati meno tamponi, perché spesso poco sintomatici oppure perché la malattia dura pochi giorni». E dire che i pediatri spesso sono i primi a notare che qualcosa non va. «Facciamo la segnalazione, ma poi ci sono dipartimenti di prevenzione che vanno a decidere sull'effettuazione del tampone. Capita anche che il bambino viene contattato dopo qualche giorno, quando i sintomi principali ormai sono sfumati». E così si decide di non sottoporli al test diagnostico. La Società italiana Medici Pediatri (Simpe) calcola che «attualmente i casi pediatrici appartengono a cluster familiari e che sotto l'anno di vita la percentuale di casi critici varia dal 10% al 8,7%. Nelle varie statistiche i bambini asintomatici o paucisintomatici positivi variano dal 47% ad oltre il 50% , il che rende difficile la loro individuazione e li rende i facilitatori ideali durante il periodo scolastico». Per individuare la catena di trasmissione, invece, sottoporre i bambini al test diagnostico potrebbe rivelarsi fondamentale.
LO STUDIO. «La popolazione pediatrica non è stata studiata a fondo - ammette il presidente della Simpe Giuseppe Mele -. Di fatto, sappiamo che i bambini non hanno manifestazioni cliniche importanti, salvo qualche eccezione. Eppure, andare ad indagare l'incidenza del Covid potrebbe rappresentare la chiave di volta del problema: soprattutto nella fase di ripresa delle scuole, proprio per poter andare a spegnere i focolai in maniera mirata». «Finora non abbiamo soggetti particolarmente gravi o critici - spiega Alberto Villani, direttore di Pediatria generale e Malattie infettive dell'Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma e presidente della Società italiana di Pediatria -. I sintomi del Covid sono difficili da definire proprio perché sono prevalentemente lievi. Piuttosto, sono molto preoccupato per gli altri bambini che hanno bisogno di cure: c'è diffidenza a portarli in ospedale per paura del contagio. E così arrivano da noi in ritardo, in condizioni gravissime». Senza contare i piccoli pazienti cronici, «che si ritrovano senza cura perché ovunque sono state sospese le attività non urgenti. E' una situazione che allarma i pediatri di tutti gli ospedali».
Coronavirus, ecco perché i bambini si ammalano di meno. Uno studio su Jama Pediatrics analizza la diffusione del Covid 19 nei più piccoli. Cercando di capire le cause della minore diffusione della patologia tra i giovanissimi. Agnese Ferrara su La Repubblica il 3 aprile 2020. Seppure normalmente i bambini siano prede facili dell'influenza, nel caso del nuovo Coronavirus le cose sembrano essere diverse. I minori contagiati sono meno numerosi degli adulti. E allora perché tenerli chiusi in casa, così come indicato da decreti ministeriali e raccomandazioni dei medici? A fronte della confusione che circola a proposito, una risposta univoca, oltre al buon senso che dovrebbe prevalere in questi casi, arriva dalla scienza. I pediatri americani, in un articolo pubblicato oggi su Jama Pediatrics, analizzano la diffusione del Covid-19 nei bambini residenti nel paese in cui è comparso per primo, la Cina, traendo considerazioni sulla base di questi dati scientifici, incluse le ragioni per le quali i nostri figli piccoli si ammalano meno. "Si tratta di informazioni utili a comprendere ancora meglio il principio di precauzione adottato nel nostro paese secondo cui dobbiamo tutti stare a casa" commenta Alberto Villani, presidente della Società italiana di pediatria (Sip) che ha stilato 10 consigli pratici per le famiglie con bambini, dal titolo 'Stiamo a casa', consultabili sul sito della Sip.
Le ipotesi e gli scenari. Si legge su Jama Pediatrics che su oltre 72.000 casi totali di Covid-19 registrati in Cina, l'1,2% sono ragazzi dai 10 ai 19 anni e lo 0,9% bambini di età inferiore ai 10 anni. Fra questi si evidenzia un decesso fra gli adolescenti e nessuna morte nei piccoli di età inferiore ai 10 anni. I sintomi sono gli stessi degli adulti e sono parecchi i bambini asintomatici. Alla luce di questi dati i ricercatori ragionano sulle cause che potrebbero essere alla base della minore diffusione della patologia nei giovani e giovanissimi ipotizzando diversi scenari. "I tassi di diffusione più bassi del previsto nei bambini cinesi potrebbero essere dovuti alla ridotta esposizione al virus dei piccoli - spiegano gli autori - oppure alla riduzione del contagio per una possibile immunità già acquisita dagli altri virus della stessa famiglia che hanno colpito il paese gli anni scorsi. Ancora potrebbero dipendere dalla ridotta probabilità di manifestare la malattia, anche se infetti dal virus. Va anche considerata la presenza di bambini infetti ma asintomatici che potrebbero essere fonte di nuovi contagi per altri bambini ed adulti".
Non abbassare la guardia. "Per questi motivi e nonostante la minore frequenza della malattia nei piccoli non c'è alcuna ragione per abbassare la guardia", affermano gli specialisti americani che ricordano come le strategie di isolamento sociale siano vitali anche per una fascia particolare di bambini, quelli affetti già da altre patologie, come asma, malattie polmonari, cardiache, neuromuscolari o genetiche e per i bambini immunodepressi che sono particolarmente suscettibili al Covid-19.
La Società di pediatria. Commenta Villani: "I dati confermano ancora una volta che in questo momento dell'epidemia si deve restare a casa e uscire solo per i motivi chiaramente riportati nei decreti ministeriali. Ci sono anche casi di bambini asintomatici e 'portatori sanì del virus perciò in grado di contagiare altri coetanei che magari incontrano per strada, oppure adulti e nonni. Perciò se si dispone di spazi all'aperto, come terrazze, giardini e cortili interni, è utile programmare un'ora al giorno di attività libera per i nostri piccoli, nel rigoroso rispetto del distanziamento sociale con gli estranei. Altrimenti è bene tenerli a casa dove possono svolgere molte attività alternative, incluso partecipare alle faccende domestiche e cucinare con i genitori.
Le eccezioni al decreto. "Ci sono delle eccezioni - spiega Villani - come nel caso di una famiglia monogenitoriale con un bambino così piccolo che non può e non deve essere lasciato a casa da solo mentre si esce per fare la spesa, nel rispetto del distanziamento sociale. Oppure nei casi di bambini con diagnosi di spettro autistico. Loro devono poter uscire di casa, anche più volte al giorno, nel rispetto del distanziamento sociale. Così come i disabili su sedia a rotelle devono poter uscire, sempre nel rispetto del distanziamento sociale. Un lattante in carrozzina invece non deve uscire, a lui non serve andare a spasso. Può stare vicino a una finestra aperta".
Bambini e coronavirus: anche i più piccoli si ammalano gravemente. Pubblicato mercoledì, 18 marzo 2020 su Corriere.it da Cristina Marrone. Il coronavirus che ormai imperversa in tutto il mondo in generale sembra colpire in modo lieve i bambini , che rappresentano la percentuale più piccola delle decine di migliaia di infezioni identificate finora. Ora, il più grande studio finora condotto su bambini e virus ha scoperto che mentre la maggior parte di loro sviluppa sintomi lievi o moderati, una piccola percentuale - in particolare neonati e bambini in età prescolare - può ammalarsi gravemente. L’Organizzazione mondiale della sanità due giorni fa aveva confermato che «i bambini possono essere contagiati. Tendono a sviluppare la malattia in modo più lieve, ma ci sono stati casi di morti e per questo devono essere protetti e tutelati». Lo studio, pubblicato online sulla rivista Pediatrics, ha esaminato oltre 2.000 bambini malati in tutta la Cina, dove è iniziata la pandemia. Per la prima volta fornisce un identikit più chiaro di come i pazienti più piccoli sono colpiti dal virus. I ricercatori hanno analizzato 2.143 casi di minori di 18 anni che sono stati segnalati ai Centers for Disease Control and Prevention cinesi e l’8 febbraio. Poco più di un terzo di questi casi è stato confermato con test di laboratorio. Gli altri sono stati classificati come sospetti in base ai sintomi del bambino, alle radiografie del torace, agli esami del sangue e al fatto che il bambino fosse stato a stretto contatto con persone con coronavirus. Circa la metà dei bambini presentava sintomi lievi, quali febbre, affaticamento, tosse, congestione e forse nausea o diarrea. Più di un terzo, circa il 39%, si è ammalato in modo più serio con sintomi tra cui polmonite o problemi polmonari rivelati dalla TAC, ma senza difficoltà respiratorie. Circa il 4% non ha avuto sintomi. Ma 125 bambini , quasi il 6%, hanno sviluppato una malattia molto grave. Tredici di loro sono risultati «critici», ovvero a rischio di insufficienza respiratoria ( l’incapacità del sistema respiratorio di assicurare un’adeguata ossigenazione del sangue) e di insufficienza d’organo (alterazione della funzione degli organi). Shilu Tong, autore senior dello studio, direttore del dipartimento di epidemiologia clinica e biostatistica al Shanghai Medical Medical Center ha confermato che un ragazzino di 14 anni è morto per il coronavirus. «I bambini di tutte le età sembrano suscettibili al Covid-19 - concludono gli autori del lavoro - senza significative differenze di genere. Sebbene le manifestazioni cliniche del Covid-19 nei bambini siano generalmente meno gravi che quelle dei pazienti adulti, i bimbi più piccoli, in particolare i neonati, sono vulnerabili all’infezione». Per questo gli ospedali di tutto il mondo dovrebbero prepararsi ad accogliere anche pazienti pediatrici. Più del 60% dei 125 bambini che si sono gravemente ammalati avevano meno di 5 anni. Quaranta di questi erano neonati avevano meno di un anno. Il dottor Tong, nelle sue considerazioni, sospetta che i più piccoli siano più suscettibili a questa infezione perché i loro sistemi respiratori e altre funzioni dell’organismo sono in via di sviluppo oltre che avere un sistema immunitario ancora immaturo per non essere mai stati esposti a virus. Srinivas Murthy, professore associato di pediatria all’Università della British Columbia, che non è stato coinvolto in lo studio, intervistato dal New York Times ha spiegato che «i bambini possono essere contagiati a tassi simili a quelli degli adulti, con gravità molto inferiore, ma in alcuni casi possono sviluppare una malattia che richiede una terapia aggressiva». La stessa cosa era stata notata con le epidemie di Sars e Mers in Medio Oriente. Gli scienziati stanno cercando di capire perché così tanti bambini sembrano essere relativamente incolumi al nuovo coronavirus come era già successo con le epidemie di Sars e Mers in Medio Oriente.Una teoria che sta prendendo piede è che il recettore nelle cellule umane a cui si legano le particelle virali, chiamato ACE2, non è espresso in modo deciso nei bambini piccoli, oppure potrebbe avere una forma diversa. «Potrebbe non essere così sviluppato nei bambini come negli adulti e questo potrebbe rendere più difficile il legame tra le punte delle minuscole particelle virali e l’ingresso delle particelle virali» ha aggiunto il dottor Murth. Un’altra teoria è che i bambini hanno, in generale, polmoni più sani rispetto agli adulti, che sono stati più esposti all’inquinamento nel corso della vita. È anche possibile, dicono gli esperti, che il sistema immunitario dei bambini non attacchi il virus in modo violento come fanno i sistemi immunitari adulti. I medici hanno infatti scoperto che alcuni dei gravi danni subiti dagli adulti infetti non sono stati causati dal virus stesso, ma da una risposta immunitaria troppo aggressiva che ha creato un’infiammazione distruttiva.
Cristina Marrone per il “Corriere della Sera” il 27 febbraio 2020. Da martedì in Italia sono stati registrati i primi casi di coronavirus tra i bambini: stanno tutti bene o accusano forme lievi della malattia. Tranquillizza però il fatto che i virologi di tutto il mondo hanno dichiarato più volte che i bambini sembrano essere più resistenti a Covid-19. Pochi statisticamente i casi di minorenni registrati in Cina, Paese più colpito dall' epidemia, e nessun decesso. «Finora - conferma Alberto Villani, presidente della Società italiana di Pediatria - non c' è stato nessun decesso sotto i dieci anni e il virus avrebbe solo lo 0,2% di letalità tra i 10 e i 19 anni e resta stabile fino ai 39 anni. Ad oggi è stato segnalato solo un caso critico di un ragazzo di 15 anni».
La comunità scientifica non ha ancora trovato una risposta certa del perché i bambini sembrano maggiormente protetti, ma è certamente una bella notizia.
«Esistono virus molto aggressivi solo in alcune fasce di età - spiega Villani -. Pensiamo alla varicella ad esempio, che colpisce soprattutto i più piccoli ed è per loro una malattia affrontabile, mentre negli adulti può diventare grave. Oppure la bronchiolite, che tocca i bambini nei primi mesi di vita».
Ma quali sono le ipotesi di questa «protezione»?
«Sappiamo che i coronavirus sono la causa più frequente di raffreddore - ipotizza Alberto Villani, che è anche responsabile del reparto di Pediatria generale e malattie infettive all' Ospedale Bambino Gesù di Roma - e i bambini vanno incontro ripetutamente a infezioni da coronavirus: è possibile che la risposta immunitaria a infezioni recenti da coronavirus aiuti i più piccoli a difendersi meglio anche dal nuovo Covid-19. Inoltre, il sistema immunitario dei bambini potrebbe essere in grado di rispondere meglio all' infezione perché più reattivo».
Questa maggiore «immunità» non è però una novità di questa emergenza. Anche nelle precedenti epidemie di Sars e Mers i bambini erano stati risparmiati. Durante l' epidemia di Sars che dal 2002 al 2003 interessò oltre 8.000 persone, uccidendone 774, furono soltanto 80 i casi di contagio certificati tra i bambini, e 55 quelli sospetti. Nessun minorenne morì per la Sars e solamente uno trasmise il virus a un' altra persona. Durante il periodo epidemico di Mers in Arabia Saudita nel 2012 e in Corea del Sud nel 2015, la maggior parte dei bambini contagiati non sviluppò mai sintomi: erano asintomatici.
Da “la Stampa” il 27 febbraio 2020.
Professor Alberto Villani, presidente della Società Italiana di Pediatria, primario di Pediatria generale e malattie infettive all' ospedale Bambin Gesù di Roma, il Coronavirus adesso ha colpito anche i bambini.
«La cosa non è inaspettata. In base ai dati che arrivavano dalla Cina sapevamo che potevano essere coinvolti dei bambini anche se in forma lieve e senza nessuna letalità».
Colpisce gli anziani e risparmia i bambini. Ma non sono delicati anche loro?
«I bambini, per i contatti che hanno con i virus, sono più esposti degli adulti. Ma i bambini hanno anche difese generiche verso la famiglia dei Coronavirus, di cui il Covid-19 fa parte, che li mette in una condizione particolare».
Naturalmente da quando si è avuta notizia del contagio di bambini, molti genitori sono entrati in agitazione.
«In Italia si può stare tranquilli. Siamo di fronte a una situazione eccezionale e straordinaria perché questa è la prima malattia ai tempi dei social. Girano notizie poco credibili e soprattutto poco serie. Bisogna attenersi alle indicazioni che arrivano dal ministero della Sanità e dagli organi competenti».
Se il bambino ha la febbre meglio chiamare il pediatra, non andare al Pronto soccorso, evitare di intasare i centralini dei numeri delle emergenze. Giusto?
«Sottolinerei pure che, in quelle Regioni dove non esistono disposizioni particolari, i bambini devono andare a scuola. È vero che è un virus che si diffonde molto, ma non ha senso chiudersi in casa in attesa che passi, facendo inutili scorte di viveri come se fossimo al tempo di guerra».
C'è stata la corsa alle mascherine, i disinfettanti hanno prezzi da mercato nero. Al di là della psicosi, sono cose che servono davvero?
«Il disinfettante migliore ce l' abbiamo tutti in casa e si chiama sapone. Bisogna lavarsi per almeno 30 secondi, passando bene tra le dita, più volte al giorno. Questa cosa deve essere vissuta come una opportunità per cambiare gli stili di vita, spesso inadeguati anche nei bambini».
Cosa andrebbe fatto ad esempio?
«Non è salutare che bambini molto piccoli stiano alzati fino alle 11 di sera, che stiano ore davanti a un videogioco o saltino la colazione perché bisogna andare di fretta a scuola. Una riflessione andrebbe fatta sul vaccino».
Per ora non c' è, magari ci sarà.
«Oggi tutti vorrebbero vaccinarsi, se ci fosse. Magari pure quelli che si dicevano no vax. I bambini devono vaccinarsi contro le malattie come previsto dal ministero della Sanità. Ci si vuole poi mettere in testa che se si è anziani o si hanno certe patologie il vaccino contro l' influenza va fatto?».
Coronavirus, Walter Ricciardi: “I bambini sono protetti dalle vaccinazioni”. Laura Pellegrini ill 288 febbraio 2020 su Notizie.it. Walter Ricciardi fa chiarezza sul coronavirus: la malattia ha tasso di mortalità pari al 3%, ma il 95% dei contagiati va incontro a guarigione. Walter Ricciardi, membro del comitato esecutivo dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) è tornato a parlare dell’emergenza coronavirus. Infatti, dopo aver ribadito la necessità di mettere in quarantena coloro che provenivano dalla Cina perché il coronavirus ha un tasso di mortalità superiore a qualsiasi altra influenza stagionale, Ricciardi ha anche invitato a ridimensionare “ridimensionare questo grande allarme. Il 95% dei malati guarisce. Tutti i morti (11 le vittime accertate in Italia, ndr.) avevano già condizioni gravi di salute”. “I bambini reagiscono meglio al coronavirus perché sono protetti dalle vaccinazioni”, lo ha detto Walter Ricciardi dell’Oms alla Protezione civile. Infatti, sono stati segnalati 7 casi di minori contagiati da coronavirus nella giornata di mercoledì 26 febbraio. I bimbi sarebbero limitati alle zone comprese tra la Lombardia e il Veneto. Non sarebbero gravi. “Il Covid-19 non è come una normale influenza, ha un tasso di mortalità più alto”. Walter Ricciardi avverte i cittadini che la malattia passa da un tasso di mortalità pari allo 0,2% di influenza stagionale, a circa il 3% di possibilità di morire. Se non si interviene a monte e in tempi rapidi, quindi, si rischia il collasso. Negli ospedali i posti in terapia intensiva sono limitati e questo potrebbe costituire un grave rischio per le persone infette. Ricciardi ha comunque spiegato che nonostante il tasso di mortalità passi dallo 0,2% (influenza stagionale) al 3% (Covid-19) esiste un modo per diminuire il contagio. Con l’arrivo del caldo, infatti, la situazione potrebbe migliorare. Tuttavia, se il numero degli infetti dovesse aumentare fino a “diffondersi come un’influenza stagionale, avremo migliaia di morti”. In chiusura, il professore ammette di trovarsi di fronte a una sfida della società contemporanea: “Siamo di fronte a una sfida epocale – ha concluso -, è la prima epidemia del mondo contemporaneo“.
Contagiata la prima bimba italiana: vive a Castiglione d’Adda, ha 4 anni e sta bene. Pubblicato mercoledì, 26 febbraio 2020 su Corriere.it da Francesco Gastaldi. Nella zona rossa il coronavirus ha iniziato a colpire anche tra i più piccoli. Una bimba di 4 anni di Castiglione d’Adda - assieme a Codogno «focolaio» del virus in Lombardia - è risultata positiva al tampone. A quanto sembra il contagio potrebbe essere avvenuto nell’ospedale di Codogno, nei giorni del ricovero del 38enne «paziente 1». In ogni caso la bimba, che ha contratto una lieve forma di influenza, sta bene ed è confinata nella sua casa del paesino della Bassa. La giornata ha registrato altri quattro decessi (più uno sospetto). «Qui è come essere ogni giorno in prima linea, non abbiamo notizie nemmeno dei nostri morti», conferma sconsolato Mario Ghidelli, sindaco di San Fiorano (Lodi), che ieri ha registrato ben due vittime. Il primo è un 91enne morto domenica all’ospedale di Codogno, dal quale non era mai stato spostato per le precarie condizioni di salute e ieri è risultato positivo al tampone. Il contagio sarebbe avvenuto all’interno del nosocomio lodigiano. Il secondo, un 77enne con patologie pregresse, è morto nel pomeriggio di ieri a Piacenza, ma non è ancora chiaro se a causa del coronavirus. Si attendono ancora i risultati definitivi. Il Basso Lodigiano, focolaio del virus, ha però fatto registrare sempre ieri una seconda vittima «certa», una 83enne di Codogno che era da tempo ricoverata per gravi patologie e complicazioni polmonari. Complessivamente il conto dei decessi sale a 11 in Italia e 9 in Lombardia che è la regione più colpita sia in termini di contagiati che di vittime. Di queste, sei erano residenti nel Lodigiano e si tratta in prevalenza di ultraottantenni con alle spalle condizioni di salute più che precarie. La terza vittima lombarda di ieri è un 84enne di Nembro (Bergamo): Aldo Cabrini viveva nei pressi dello stadio nel quartiere Conca Fiorita, ed era ricoverato all’ospedale Papa Giovanni XXIII. Domenica era risultato positivo al tampone. Si tratta della seconda vittima bergamasca. Morta anche la donna di 76 anni che era stata ricoverata in rianimazione a Treviso per complicanze respiratorie: era originaria di Paese e presentava un grave scompenso cardiaco.
Coronavirus, cosa succede in Italia se si ammala un bambino: il numero da chiamare, l’isolamento con i genitori. Pubblicato lunedì, 03 febbraio 2020 su Corriere.it da Margerita De Bac. Bambini contagiati dal nuovo coronavirus? È una possibilità che non può essere esclusa ma finora tutti i piccoli sospettati di avere l’infezione, circa cinque, sono stati rimandati felicemente a casa: avevano banali forme influenzali, di quelle che girano in queste settimane di picco. La conferma arriva dal Bambino Gesù, l’ospedale individuato dalla Regione Lazio come centro di riferimento per l’emergenza epidemica che ha bloccato mezza Cina e si è affacciata in Europa con sporadici episodi sugli adulti (un solo paziente pediatrico in Germania). I bambini con sintomi respiratori (tosse e raffreddore, febbre) tipici della malattia da virus 2019-nCoV, che provengono dalle zone infette o hanno avuto contatti con persone arrivate nelle ultime settimane dalla Cina, vengono ricoverati al reparto di malattie infettive dell’ospedale del Gianicolo, diretto da Alberto Villani, presidente della Società italiana di pediatria, attrezzato di stanze di isolamento ad alta sicurezza. I piccoli vengono isolati assieme ai genitori fino a quando dal laboratorio non arriva la conferma di negatività dei test. Escluso il contagio, tutti sono stati rimandati a casa. Il Bambino Gesù raccomanda di seguire le indicazioni del ministero della Salute sulla gestione degli allarmi che riguardano i minori. Non recarsi al pronto soccorso, chiamare il numero 1500 del ministero della Salute, o il medico di famiglia, per la segnalazione. Gli operatori o il medico valuteranno l’opportunità di far intervenire il 112 e disporre l’invio di un’ambulanza con operatori sanitari pronti ad affrontare eventuali rischi infettivi.
Perché così pochi bambini si sono ammalati di coronavirus? Ecco le ipotesi di medici e scienziati. Aria Bendix il 6/2/2020 su it.businessinsider.com. Solo a una manciata di bambini è stato diagnosticato il nuovo coronavirus, che al 6 febbraio 2020 ha ucciso quasi 500 persone e infettato oltre 24.000. Gli esperti di malattie affermano che è positivo che il virus non si sia diffuso molto tra i bambini perché i bambini hanno meno probabilità di lavarsi le mani e coprirsi la bocca, comportamenti che possono diffondere i germi. Gli scienziati hanno ancora molto da apprendere circa l’epidemia di coronavirus che ha ucciso quasi 500 persone e infettato oltre 24.000 in Cina. Uno dei più grandi misteri è il motivo per cui così pochi bambini si sono ammalati. L’epidemia è stata segnalata per la prima volta il 31 dicembre, ma a nessun bambino di età inferiore ai 15 anni è stato diagnosticato il virus fino al 22 gennaio. Uno studio del Journal of Medicine del New England affermava che “i bambini potrebbero avere meno probabilità di essere infettati o, se infetti, possono mostrare sintomi più lievi” rispetto agli adulti. Da allora, i medici hanno registrato alcuni casi una tantum tra i bambini: una bambina di 9 mesi a Pechino, un bambino in Germania al cui padre era già stato diagnosticato il virus e un bambino a Shenzhen, in Cina, che è stato infettato ma non ha mostrato sintomi. Mercoledì 5 febbraio, le autorità cinesi hanno confermato che un bambino a Wuhan, in Cina, era risultato positivo al virus 30 ore dopo la sua nascita; la madre del bambino è una paziente con coronavirus. Ma per la maggior parte, i bambini non sembrano molto vulnerabili al virus. “Da tutto ciò che abbiamo visto, e per ragioni che non ci sono chiare, sembra che questo abbia un impatto soprattutto sugli adulti”, ha detto a Business Insider Richard Martinello, professore associato di malattie infettive alla Yale School of Medicine. “Alcuni dei rapporti che sono arrivati finora dalla Cina provengono da ospedali per adulti e non da ospedali pediatrici, quindi potrebbe essere che non stiamo ancora ricevendo quei dati.” Un basso numero di casi tra i bambini è una buona cosa, secondo gli esperti di salute, perché i bambini hanno meno probabilità di lavarsi le mani, coprire la bocca e astenersi dal toccare gli altri – comportamenti che possono diffondere germi. “Se siamo in grado di proteggere i bambini – primo, fa bene a loro, ma secondo, fa bene alla popolazione“, ha detto a Business Insider Aaron Milstone, epidemiologo e professore di pediatria alla Johns Hopkins University. “Se penetra nella popolazione pediatrica, ciò potrebbe amplificare l’epidemia.”
Pochi bambini hanno avuto la SARS. I sintomi del nuovo coronavirus sono simili a quelli associati alla polmonite o all’influenza: febbre, tosse, brividi, mal di testa, difficoltà respiratorie e mal di gola. Il coronavirus presenta sorprendenti somiglianze con la SARS, che ha ucciso 774 persone e infettato oltre 8.000 tra novembre 2002 e luglio 2003. Vi sono stati anche alcuni casi di SARS tra i bambini: solo 80 casi confermati in laboratorio e 55 casi probabili o sospetti. La maggior parte di quei bambini ha sviluppato la febbre e alcuni hanno avuto anche tosse o vomito. In un rapporto del 2007, gli esperti dei Centers for Disease Control and Prevention hanno stabilito che i bambini di età pari o inferiore ai 12 anni presentavano sintomi più lievi di SARS rispetto agli adulti. Nessun bambino o adolescente è morto a causa del virus e c’è stato solo un caso in cui un bambino ha trasmesso la SARS a un’altra persona. Gli scienziati non sono ancora sicuri del perché. Nell’attuale epidemia di coronavirus, ci sono due spiegazioni del perché così pochi bambini si sono ammalati: o hanno avuto meno probabilità di essere esposti all’inizio, o c’è qualcosa di diverso nel modo in cui i loro corpi rispondono al virus. “Suppongo che la mancanza di bambini segnalati sia dovuta al modo in cui è iniziata l’epidemia”, ha detto a Business Insider David Weber, professore di epidemiologia e pediatria all’Università della Carolina del Nord a Chapel Hill. Le autorità cinesi pensano che il virus sia arrivato per la prima volta alle persone in un mercato del pesce a Wuhan dove venivano venduti animali vivi. “Non ci sono molti bambini che vanno al mercato del pesce“, ha aggiunto Weber. Il mercato di Wuhan è stato chiuso il 1° gennaio e da allora i funzionari locali hanno vietato la vendita di animali vivi in tutta la città. Lunedì, il Partito Comunista Cinese si è impegnato a reprimere il commercio illegale di animali selvatici a livello nazionale.
Se il coronavirus si diffonde tra i bambini, l’epidemia potrebbe peggiorare molto. È anche possibile che gli adulti non stiano diffondendo il virus ai bambini perché le persone stanno attente a lavarsi le mani, a coprire la bocca e ad auto-isolarsi se si sentono male. Il virus può diffondersi tra le persone attraverso goccioline respiratorie come saliva e muco, quindi una buona igiene è fondamentale per prevenire la trasmissione. “Sono un pediatra – adoro i bambini – ma i bambini alimentano davvero la diffusione dei virus respiratori”, ha detto Milstone. “È molto più facile dire agli adulti di tenere comportamenti di buon senso. Se i bambini sono malati, vogliono comunque andare a farsi coccolare dalla mamma o giocare con i loro fratelli.” Mentre l’epidemia continua a crescere, tuttavia, i paesi potrebbero iniziare a segnalare più casi tra i bambini. “Quando vediamo un nuovo virus, l’intera popolazione è suscettibile”, ha detto Milstone. “Non sappiamo se questo virus attacchi il tratto respiratorio degli adulti più di quanto non faccia con quello dei bambini.” Tuttavia, l’influenza probabilmente rappresenta una minaccia più imminente per la maggior parte dei bambini di tutto il mondo rispetto al coronavirus, ha detto Weber. “Le persone dovrebbero essere al momento molto più preoccupate per l’influenza e altre malattie respiratorie o virali“, ha detto. “In molti focolai di influenza, sono i bambini a diffondere i virus più degli adulti.” I bambini di età inferiore ai 5 anni sono ad alto rischio di sviluppare gravi complicazioni da virus influenzale, come polmonite e insufficienza respiratoria e renale, secondo il CDC (Centers for Disease Control and Prevention). Gli scienziati non sono sicuri del perché, ma alcuni sospettano che i bambini abbiano una più forte risposta immunologica, quindi hanno maggiori probabilità di avere la febbre o di subire danni ai tessuti mentre i loro corpi cercano di combattere l’infezione. La maggior parte dei decessi correlati all’influenza negli Stati Uniti – tra il 70 e l’85% – si verifica nelle persone di età pari o superiore a 65 anni. Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, circa l’80% delle morti per il nuovo coronavirus si sono verificate tra persone di età pari o superiore a 60 anni. A differenza dell’influenza, tuttavia, non esiste un vaccino per proteggere le persone da questo nuovo virus. “Se riusciamo a tenere questo virus lontano dalla popolazione pediatrica, ciò contribuirà ad arginarlo”, ha detto Milstone.
Coronavirus, perché colpisce poco i bambini (e con forme lievi). Pubblicato mercoledì, 26 febbraio 2020 su Corriere.it da Cristina Marrone. I contagi da coronavirus aumentano di giorno in giorno in Italia ed ora è arrivata la notizia dei primi bambini positivi al virus: una bimba italiana di 4 anni di Castiglione d’Adda, epicentro del focolaio in Lombardia, altri due di 10 e 15 anni e poi una bambina di 8 anni in Veneto, contagiata molto probabilmente dal primo paziente di Limena. Tutti i pazienti minorenni stanno bene o presentano leggeri sintomi. Ora ci si chiede quanto a rischio siano i nostri figli. Tranquillizza il fatto che i virologi di tutto il mondo hanno dichiarato più volte che i bambini sembrano essere più resistenti alla malattia. Pochi i casi registrati in Cina, paese più colpito dall’epidemia, nessun decesso tra i più piccoli secondo gli studi epidemiologici . «Finora - conferma Alberto Villani, presidente della Società italiana di Pediatria - non c’è stato nessun decesso sotto i dieci anni e il virus avrebbe solo lo 0,2% di letalità tra i 10 e i 19 anni e resta stabile fino ai 39 anni. Ad oggi è stato segnalato solo un caso critico di un ragazzo di 15 anni». La comunità scientifica non ha ancora trovato una risposta certa del perché i bambini sembrano maggiormente protetti, ma naturalmente questa è una bella notizia. «Esistono molti virus - spiega Villani - che sono molto aggressivi solo in alcune fasce di età. Pensiamo alla varicella ad esempio, che colpisce soprattutto i bambini ed è una malattia affrontabile mentre negli adulti diventa malattia importanti o alla bronchiolite che tocca i bambini nei primi mesi di vita. Non è dunque insolito che determinati virus attacchino per fasce di età». È dunque per ora un dato oggettivo che i bambini sembrano i meno colpiti dall’infezione e mostrano un andamento benigno rispetto all’adulto.«Sappiamo che i coronavirus sono la causa più frequente di raffreddore - aggiunge Alberto Villani, che è anche responsabile del reparto di Pediatria generale e malattie infettive all’Ospedale Bambino Gesù di Roma - e i bambini vanno incontro ripetutamente a infezioni da coronavirus: è possibile che la risposta immunitaria a infezioni recenti da coronavirus aiuti i bambini a difendersi meglio anche dal nuovo Covid-19. C’è insomma una difesa generica, seppur non specifica su questo patogeno. Inoltre, il sistema immunitario dei bambini potrebbe essere in grado di rispondere meglio all’infezione perché più reattivo». Incidono poi sul rischio di contagio e, in seconda battuta, sulla mortalità, le cosiddette «comorbidità», cioé le patologie associate come malattie cardiovascolari, diabete, malattie respiratorie croniche, più tipiche di una popolazione anziana anche se naturalmente anche un bambino con patologie che rendono il sistema immunitario più debole può essere più esposto al contagio e quindi, per loro, vanno prese le giuste precauzioni che saranno suggerite dai medici che li hanno in cura. Anche nelle precedenti epidemie di Sars e Mers i bambini erano stati risparmiati . Durante l’epidemia di Sars che dal 2002 al 2003 interessò oltre 8000 persone, uccidendone 774, furono soltanto 80 i casi di contagio certificati tra i bambini, e 55 quelli sospetti. Nessun bambino o adolescente morì per la Sars e solamente uno trasmise il virus a un’altra persona. I ricercatori scoprirono che i bambini sotto i 12 anni avevano molte meno probabilità di essere ricoverati in ospedale o di aver bisogno di trattamenti con ossigeno, mentre i bambini sopra i 12 anni presentavano sintomi simili agli adulti. Anche durante le epidemie di Mers in Arabia Saudita nel 2012 e in Corea del Sud nel 2015, la maggior parte dei bambini contagiati non sviluppò mai sintomi. In questi giorni di chiusura delle scuole e di tutte le attività sportive sono molto spesso i nonni che si stanno occupando dei nipoti mentre i genitori sono al lavoro. I bambini rischiano di contagiare i nonni? «Non esiste un rischio specifico - aggiunge Villani - ma vale il buon senso: se un anziano è malato di tumore e magari sta seguendo una terapia immunosoppressiva è raccomandabile che non trascorra tempo con bambini, che possono facilmente diventare serbatoio di infezioni per familiari e nonni, ma questo vale sempre, non certo solo per il coronavirus». La Federazione Medici Pediatri ha messo a punto una serie di consigli anche per i genitori dei più piccoli. Prima di tutto andare dal pediatra solo se necessario e cercare invece di risolvere i problemi al telefono. Rispettare gli orari dell’appuntamento ed evitare di affollare la sala d’attesa. Altre piccole precauzioni possono aiutare a limitare il diffondersi del contagio: tenere in braccio il bambino se non è in grado di star seduto ed evitare che gironzoli in sala d’attesa e abbia contatti con altri bambini; controllare che il bambino tocchi meno possibile le attrezzature dello studio perché potrebbero essere contaminate da secrezioni; in attesa della visita far usare al piccolo un gioco o un libro portato da casa e non permettergli di condividerlo con altri pazienti.
Coronavirus, contagiati anche 8 bambini, ma stanno tutti bene. "Malati quasi senza sintomi". E ieri a Piacenza da una mamma positiva è nato (sano) Fortunato. Brunella Giovara il 27 febbraio 2020 su La Repubblica. I bambini stanno bene, evviva. Anche l'ultimo, nato ieri in piena tempesta da Covid-19, affacciandosi in un mondo sottosopra dove un parto diventa un'operazione complicata e un filo rischiosa, essendo la mamma positiva al virus, come anche il padre. Ma questo neonato è negativo al test, e con grande soddisfazione di tutti è finito nella nursery dell'ospedale di Piacenza assieme agli altri. Nome provvisorio: Fortunato, scelto dai medici. Famiglia di Codogno, focolaio numero uno, questa donna al nono mese era ricoverata da qualche giorno e l'équipe entrata in sala parto era bardata con tute e maschere e ogni precauzione per evitare il contagio. "Un caso unico in Europa", finora ne esistevano solo cinesi, ha detto Giacomo Biasucci, primario di Pediatria e neonatologia. "Dalla scarsissima casistica si evinceva che non vi era riscontro di virus né nel latte materno, né nella placenta, né nel sangue cordonale, come se il feto fosse in qualche modo protetto". E stanno bene anche tutti gli altri bambini e ragazzini che tanto preoccupano l'Italia. Come quello di dieci anni ricoverato al Policlinico San Matteo di Pavia. Nelle parole del professor Raffaele Bruno, primario di Malattie infettive, "sta benissimo, non aveva e non ha nemmeno la febbre". E come vive un bambino in una stanza chiusa, per giorni e giorni di isolamento? Gioca, mangia e dorme, e soprattutto sta con il suo papà, perché anche il padre è ricoverato. Stanza doppia, televisione accesa sui cartoni, ieri pomeriggio disegnava con i pennarelli, tra qualche giorno si annoierà. "Le statistiche spiegano che anche i bambini possono ammalarsi, in misura minore dei grandi, ma possono. Il nostro piccolo paziente lo definirei, con termine tecnico, un soggetto in buone condizioni", dice Bruno. "I bambini non sono immuni all'infezione, ma i dati che abbiamo oggi a disposizione indicano che il decorso della malattia in loro sembra essere decisamente lieve", spiegava ieri Giovanni Maga, direttore dell'Istituto di genetica molecolare del Consiglio nazionale delle ricerche di Pavia. "I casi in età pediatrica in Cina erano stati molto ridotti o forse non erano stati rilevati perché il decorso era molto benigno". Quindi, "è altamente probabile che nei bambini il Covid-19 causi sintomi molto meno intensi rispetto all'adulto. Non dobbiamo stupirci, al momento l'incidenza dell'infezione nei bambini rimane molto bassa". Il problema è come gestirli, in isolamento e con il via vai di medici infermieri e oss con la maschera. Ma in questo caso del Policlinico il problema si è risolto da solo, essendo un genitore addirittura nella stessa camera. "Tutti noi cerchiamo di non stressarlo, ma devo dire che quando entro e gli dico ciao mi risponde appena con un ciao, perché è sempre molto preso da quello che sta facendo. Non lo stimoliamo più di tanto, lo lasciamo lì tranquillo", dice il professor Bruno. Diversa la condizione del padre, ricoverato per una polmonite e non ancora sfebbrato, ma in via di guarigione. Una volta capito che era positivo al coronavirus, una volta fatti i controlli sul resto della famiglia, si è scoperto che anche il figlio era contagiato, e da qui il doppio ricovero. Il Policlinico non ha neanche ritenuto di dover inserire uno psicologo, in quella camera isolata, e tra una settimana verranno dimessi entrambi, e se ne torneranno alla solita vita, al loro paese che è San Rocco al Porto, in provincia di Lodi. E gli altri minorenni finiti nel turbine del Covid-19 sembra stiano tutti benone, alcuni sono stati persino dimessi. Come il bambino di dieci anni di Soresina, provincia di Cremona, trovato positivo mentre era in vacanza in Trentino, i genitori positivi pure loro. I lombardi, ha spiegato ieri il governatore Fontana, sono tutti legati al focolaio di Codogno. Così la bambina di quattro anni di Castiglione d'Adda, provincia di Lodi, positiva (come padre e nonno) e ricoverata, la Regione assicura che sta bene. C'è quindi un ragazzo di 15 anni degente all'ospedale di Seriate, provincia di Bergamo, positivo ma ricoverato per un'altra patologia che non c'entra con il virus. Poi c'è un diciassettenne di Valdidentro, provincia di Sondrio, studente dell'Istituto tecnico agrario Tosi di Codogno. Si sentiva poco bene, è stato ricoverato a Lecco e sarà dimesso presto. Due suoi compagni di scuola sono risultati positivi: una ragazza di Gordona, in Valchiavenna, e un ragazzo di Montagna di Valtellina. Asintomatici, staranno chiusi in casa per due settimane con le famiglie. Un caso anche in Veneto, una bambina di 8 anni di Curtarolo in provincia di Padova. Anche lei senza sintomi, ma controllata perché venuta in contatto con il focolaio individuato a Limena. I suoi compagni di classe verranno sottoposti al test, ma stanno tutti bene, e lei soprattutto.
“La donna incinta e positiva? Non deve temere per il bimbo i rischi sono gli stessi di tutti”. Intervista a Susanna Esposito, dirittrice della Clinica Pediatrica dell’Ospedale Pietro Barilla di Parma e presidente dell’Associazione mondiale per le malattie infettive. Caterina Pasolini il 22 febbraio 2020 su La Repubblica. Le future mamme hanno paura. Dal momento in cui è apparsa la notizia della professoressa di Codogno, incinta di otto mesi, ricoverata all'ospedale Sacco perchè positiva al coronavirus dopo essere stata contagiata dal marito, si moltiplicano dubbi e domande. E medici di famiglia, pediatri, sono tempestati di chiamate per sapere come evitare i rischi, come tenere al sicuro i figli in arrivo.
Quali sono le precauzioni per le gestanti?
«Uguali a quelle di tutti gli altri: lavarsi le mani spesso e bene col sapone, evitare luoghi e contatti a rischio. Devono stare tranquille le future mamme: il pericolo per loro non è maggiore o diverso che per il resto della popolazione». La professoressa Susanna Esposito di madri, bambini e virus se ne intende. Dirige la Clinica Pediatrica dell’Ospedale Pietro Barilla di Parma, ed è presidente dell’Associazione mondiale per le malattie infettive e i disordini immunologici.
Problemi futuri per i figli?
«Come tutte le infezioni virali, anche nel coronavirus c’è la possibilità che una madre la passi al figlio. Sino ad oggi però non abbiamo notizia, e neppure dati certificati dai cinesi di trasmissione durante la gravidanza».
Maternità a rischio?
«Mettiamo in chiaro che più la donna ha sintomi forti, e quindi carica virale, più elevata è la possibilità di trasmettere l’infezione. Non sappiamo esattamente l’impatto negli ultimi mesi di gestazione, ma abbiamo dati riguardo a cosa le infezioni virali possono provocare all’inizio della gravidanza: aborti ma anche problemi allo sviluppo polmonare o neurologico del feto».
E obbligatorio il cesareo?
«Lo si consiglia nei casi di infezione virale, dopo la 34 settimana, perché riduce il pericolo di contagio al neonato durante il parto».
· Morti: chi meno, chi più.
Coronavirus, Italia terzo paese al mondo per mortalità. Ma il governo non spiega perché. Le Iene News il 20 dicembre 2020. L’Italia è il terzo paese al mondo per vittime di coronavirus ogni 100mila abitanti, il primo se si considerano i 20 stati più colpiti. Nella conferenza stampa in cui sono state annunciate le restrizioni per le feste, il premier Conte ha spiegato la situazione così: “Abbiamo una soglia anagrafica molto alta e dipende anche dalle abitudini di vita, in Italia gli anziani li teniamo vicini a noi“. Ma i numeri raccontano un’altra realtà 68.447 morti da inizio pandemia. Un numero terribile, in continuo aumento, che non da l’impressione neanche di rallentare. Probabilmente quando molti di voi leggeranno questo articolo, quella cifra sarà già da sostituire con una ancora peggiore. E’ questo lo spaccato di quanto sta accadendo in Italia da febbraio: non siamo solo uno dei paesi più colpiti al mondo per numero di casi, ma anche uno di quelli in cui si muore di più per il coronavirus. I numeri nella loro freddezza parlano chiaro: l’Italia è il quinto paese al mondo per numero di morti in totale, preceduto solo da Stati Uniti, Brasile, India e Messico. Nel rapporto tra morti e numero di abitanti (cioè la mortalità), le cose vanno ancora peggio: con 112 vittime ogni 100mila abitati, l’Italia è il terzo paese con più morti dopo Belgio (161) e Perù (115). Considerando invece i 20 grandi paesi più colpiti dal coronavirus, siamo in prima posizione. Insomma, in Italia si muore tantissimo per coronavirus, molto più che in quasi tutti gli altri paesi del mondo. Com’è possibile? Una spiegazione ufficiale è arrivata durante la conferenza stampa di Giuseppe Conte, in cui il premier ha annunciato le nuove restrizioni per le feste: "I morti sono e resteranno una ferita aperta per tutti gli anni a venire, lo sono già adesso”, ha detto Conte. Il premier ha poi cercato di dare una spiegazione alla situazione: “L’alta mortalità in Italia dipende da tanti fattori, abbiamo una soglia anagrafica molto alta e i nostri anziani hanno tante morbilità, quindi la morte colpisce di più. Dipende poi anche dalle abitudini di vita, in Italia gli anziani li teniamo vicini a noi, in altre culture è differente. Dipende da una serie di fattori, con gli scienziati stiamo cercando di dare delle risposte, dopodichè la politica dismette il suo ruolo e si affida alla scienza”. Delle molte cause per cui si muore di coronavirus in Italia, insomma, il governo ne ha condivise due: l’età media avanzata della popolazione - e la conseguente comorbilità ad essa associata - e le abitudini degli italiani nei rapporti familiari. Ma le cose stanno davvero così? Beh, a vedere i numeri sembra proprio di no. l’Italia è il paese più vecchio d’Europa, con un’età media di 46.7 anni, e il secondo paese con il più alto numero di morti ogni 100mila abitanti. Il primo come detto è il Belgio, che però ha un’età media di 41.7 anni, molto al di sotto della media europea di 43.7 anni. Il secondo paese più anziano d’Europa, la Germania, ha un’età media di 46 anni ma registra 31 morti ogni 100mil abitanti: meno di un terzo dell’Italia. Non sembra dunque esserci un evidente nesso tra l’età media della popolazione e il numero di morti per il coronavirus: in un paese molto più giovane del nostro come il Belgio, il rapporto vittime/abitanti è vicino al nostro; in un paese anziano quasi quanto l’Italia, il rapporto vittime/abitanti è nettamente più basso. Questo ovviamente non toglie il fatto che un’età media avanzata e un numero alto di over 65 (in Italia sono oltre il 22% della popolazione) contribuisca a peggiorare i dati della mortalità, ma non può bastare come spiegazione. Sui comportamenti dei cittadini, è ovviamente molto più difficile rispondere con dei numeri: se è vero che la nostra cultura ci porta a tenere più vicini i nostri anziani, è comunque difficile misurare scientificamente quanto questo possa pesare sul numero dei morti. Quello che si può provare a fare è una comparazione con paesi simili e diversi nelle strutture familiari: la Spagna, vicina a noi come cultura, è in effetti il secondo paese con il più alto numero di morti ogni 100mila abitanti tra gli stati più colpiti dal coronavirus, ma è altrettanto vero che un paese molto diverso nella cultura familiare come il Regno Unito si classifica terzo nel rapporto vittime/abitanti, e gli Stati Uniti quarti. Dunque nemmeno questa sembra poter essere una valida spiegazione per giustificare il numero di morti così elevato. E’ invece probabile che Conte abbia ragione quando dice che l’alta mortalità “dipende da una serie di fattori”: alcuni abbiamo provato a raccontarveli qui, dall’inquinamento atmosferico alla mancanza di vitamina D della popolazione italiana. Resta un’ultima domanda: è possibile che i nostri terribili numeri della pandemia possano almeno in parte dipendere da errori delle autorità pubbliche nella gestione dell’emergenza?
T.M. per “Libero quotidiano” il 16 dicembre 2020. Il virus uccide in modo diverso a seconda delle Regioni: è più letale in Lombardia, meno in Campania. E questo a parità di nuovi contagi e indipendentemente dall'età della popolazione residente. Sono sorprendenti i risultati dell'analisi realizzata dall'Osservatorio nazionale sulla salute nelle Regioni italiane dell'Università Cattolica. Lo studio prende in esame sia i dati del periodo compreso tra il 12 ottobre e il 6 dicembre, sia i numeri dall'inizio della pandemia al 14 dicembre. Conclusione: l'intensità del virus - e la sua letalità - sono diverse a seconda della Regione. Il punto di partenza sono i decessi totali: 65.011. Di questi, il 36,7% sono avvenuti in Lombardia, l'11% in Piemonte e il 10,2% in Emilia-Romagna. Il rapporto tra decessi e contagi (ossia la letalità) si attesta al 3,5% a livello nazionale. La Lombardia, però, sperimenta il valore più elevato: 5,4%. Mentre la Regione con quello più basso è la Campania: 1,3%. Una variabilità, in base alla Regione, confermata dai numeri del periodo compreso tra ottobre e dicembre. L'analisi mostra una diffusione del virus, e dei suoi effetti, a macchia di leopardo. La Valle d' Aosta è la Regione con il tasso di decessi Covid-19 più alto in assoluto: 3,11 vittime ogni 10mila abitanti. E questo a fronte di un tasso di nuovi contagi pari a 150,4 ogni 10mila abitanti. La Provincia autonoma di Bolzano, invece, per un numero analogo di contagi, 151,7 per 10mila abitanti, ha un'incidenza di decessi pari a 1,94 ogni 10mila abitanti. L'elevato livello di mortalità si registra anche in Friuli-Venezia Giulia dove, a fronte di un'incidenza dei contagi di 82 ogni 10mila abitanti, si osserva un tasso di decessi pari a 2,82 per 10mila. Un rapporto tra decessi e numero di contagi elevato se confrontato con quello del Veneto - 88,5 contagi ogni 10mila abitanti e 1,87 vittime per 10mila abitanti - e con quello della Toscana: 85,3 contagi e 1,51 decessi ogni 10mila abitanti. Calabria (33,41 contagi e 0,47 decessi per 10mila abitanti), Marche (51,4 e 0,86), Lazio (62,78 e 0,95) e Umbria (77,59 e 1,25) sono le Regioni che hanno il rapporto più basso tra decessi e contagi, oltre alla Campania (85,3 contagi e 1,1 decessi per 10mila abitanti). Osserva Alessandro Solipaca, direttore scientifico dell'Osservatorio: «La variabilità osservata nel nostro Paese si riscontra anche tra i Paesi europei. Una parte della variabilità osservata nei dati è sicuramente dovuta all'imprecisione con cui vengono registrati i casi di contagio e il loro tracciamento». Per esempio: il numero più elevato di contagi, in rapporto a 10mila residenti, si registra in Lussemburgo (626,8), seguito da Repubblica Ceca (522,9) e Belgio (519,0). I meno colpiti dalla pandemia sono Finlandia (51,2), Grecia (110,1) e Lettonia (115,1). La mortalità più alta si riscontra in Belgio (15,3), Italia (10,15) e Spagna (9,9), mentre Finlandia (0,8), Cipro (0,8) ed Estonia (1,0) sono i Paesi meno colpiti. Lo studio invita a non giungere a conclusioni affrettate per spiegare le differenze di numero tra Regioni italiane e Paesi Ue. Si passa dalle carenze organizzative ai ritardi iniziali nel comprendere la gravità dell'emergenza, passando per i deficit nei sistemi di tracciamento dei contagi e per le diverse scelte dei governi, centrali e locali. Senza dimenticare un'altra possibile pista interpretativa: il peso della mobilità nei territori, l'incidenza delle relazioni sociali ed economiche. Le aree più "vitali" sono state quelle più esposte al rischio del contagio. Non a caso la Lombardia è la Regione con la più alta intensità degli spostamenti.
Il 2020 come la 2a Guerra Mondiale Italia, 700 mila morti. Strage da Covid. Affari Italiani il 16/12/2020. Istat, il 2020 come la Seconda Guerra Mondiale. In Italia oltre 700 mila morti. L'emergenza Coronavirus in Italia continua senza sosta. Impressionante il numero di morti giornaliero, ieri altre 846 vittime. Preoccupa l'indice Rt che non scende abbastanza e il dato sui contagiati resta elevato, così come quuello relativo ai ricoveri e alle terapie intensive. A certificare questa situazione arriva il dato del'Istat: in Italia nel 2020 ci saranno oltre 700 mila morti, non succedeva dalla Seconda Guerra Mondiale. È Giancarlo Blangiardo, presidente dell’Istat, che guarda questi numeri in controluce, - si legge sul Corriere della Sera - ed è la prima volta che l’Istituto di statistica ci fornisce le cifre dei decessi riferite all’anno orribile della pandemia. Il presidente Blangiardo ha parlato a margine della presentazione del report dell’Istat sul censimento permanente (riferito agli anni 2018 e 2019) e ha spiegato: «Il 2020 non è ancora finito ma è una valutazione ragionevole che fa pensare che supereremo la soglia dei 700 mila morti. C’è da chiedersi anche se, - prosegue il Corriere - dopo le morti di tanti anziani per il Covid, rimarrà inalterata la media della popolazione italiana: 45 anni nel 2019, due anni superiore ai 43 anni del 2011. «Il nostro Paese ha una demografia debole e lo è diventata ancora di più dopo la pandemia», spiega il presidente dell’Istat. E aggiunge: «A proposito dell’impatto del Covid sulla demografia si può sintetizzare in due numeri, la soglia della mortalità e quello della natalità. Quest’anno è molto probabile che si scenda sotto i 400 mila nati».
Luca Cifoni per “il Messaggero” il 14 dicembre 2020. Il 2020 sarà ricordato come un anno terribile per il nostro Paese, come per il resto del mondo. Abbiamo il record europeo di vittime del Covid e a fine anno il bilancio supererà verosimilmente la soglia di 70 mila. Eppure dal punto di vista delle statistiche sulla mortalità complessiva quello che ci stiamo per lasciare alle spalle dovrebbe essere un anno sì particolare ma non eccezionalissimo. Non molto peggiore del 2015 ad esempio, come ha notato recentemente anche il presidente dell' Istat Gian Carlo Blangiardo. E se, come si spera, il contagio rallenterà anche grazie alla campagna di vaccinazione, nel 2021 la mortalità totale potrebbe rallentare vistosamente. Anche per il triste effetto ben noto ai demografi: anziani e fragili che muoiono in anticipo riducono i numeri del periodo successivo.
GLI EFFETTI. Naturalmente è ancora presto per decifrare in maniera compiuta gli effetti della seconda ondata.
L' istituto di statistica, grazie allo scambio di dati con l' Anagrafe nazionale della popolazione residente e con l' Anagrafe tributaria, riesce a cogliere i dati sull' andamento dei decessi anche a livello locale e ad elaborarli in tempi relativamente rapidi; al momento però per tutti i 7.903 Comuni italiani sono disponibili i numeri fino al 30 settembre, e quindi l' attuale fase viene fotografata solo in piccola parte. Guardando comunque a questi nove mesi, emerge un incremento dei morti per tutte le cause, rispetto alla media 2015-2019, superiore a quelli legati al Covid: oltre 43 mila di fronte ai quasi 36 mila calcolati a fine settembre dal ministro della Salute in relazione al virus. Analizzando però i vari mesi singolarmente, salta all' occhio che questa eccedenza di decessi sugli anni precedenti (del 9 per cento) si è verificata in larga parte tra marzo e maggio: solo in questo periodo la variazione percentuale è del 31 per cento. E l' incremento non è uniforme, come si può immaginare, nemmeno a livello geografico: +18,6 per cento al Nord nell' intero periodo (+60,5 da marzo a maggio) mentre nelle altre aree del Paese la situazione è sostanzialmente stabile. Va ricordato che la percentuale del Nord maschera a sua volta situazioni ancora più gravi nei Comuni maggiormente colpiti dalla prima ondata, come quelli della provincia di Bergamo.
LA RILEVAZIONE. L' andamento generale dei primi nove mesi è spiegato dal calo dei decessi rispetto agli anni precedenti registrato a gennaio e febbraio (quando l' influenza tradizionale ha colpito meno) e - in misura minore - nei mesi di giugno e luglio. In piccola parte può aver influito anche la riduzione della mortalità per altre cause come gli incidenti stradali. Ma cosa si può dire sugli ultimi mesi dell'anno? Per provare a capirlo, è utile guardare ad un' altra rilevazione realizzata dal ministero della Salute (in collaborazione con la Regione Lazio) più rapida anche se inevitabilmente un po' più sommaria, che coinvolge 32 città-campione. In questo caso si arriva al 24 novembre e dunque è possibile avere un' idea anche delle tendenze più recenti. Da ottobre l' eccedenza di mortalità per tutte le cause rispetto ai valori attesi (stimati sulla base degli anni precedenti) è distribuita in modo più uniforme in tutta Italia: a ottobre Nord e Centro-Sud sostanzialmente si equivalgono, +22% e +23% rispettivamente, mentre nel solo periodo 1-15 novembre le Regioni settentrionali fanno segnare un +75% contro il +46% di quelle centro-meridionali. Il report del ministero della Salute segnala però - nell' ultima settimana rilevata - una chiara inversione di tendenza nella maggior parte delle città: quindi ancora mortalità in eccesso, ma in calo visibile rispetto alle settimane precedenti. Tenendo anche conto del fatto che in questi ultimi mesi i decessi legati al Covid sfuggono probabilmente meno di prima al bollettino giornaliero, è possibile che a fine anno il bilancio non sia molto più anomalo del 2015, anno in alcuni fattori (tra cui anche l' influenza ordinaria) fecero aumentare il numero dei decessi di quasi 50 mila unità, ovvero di oltre l' 8 per cento.
Coronavirus e morti, perché in Italia sono così tanti? Le Iene News il 13 novembre 2020. L’Italia è il terzo paese al mondo per tasso di fatalità del coronavirus, e il primo in Europa. E siamo sesti per numero assoluto di vittime, con il solo Regno Unito tra i paesi vicini a contarne di più. Com’è possibile? Età della popolazione, inquinamento dell’ambiente e scarsa capacità di testare sono tre possibili spiegazioni a questi dati 636 morti, esattamente come il 6 aprile quando l’Italia era a metà del lockdown di primavera. Non accenna purtroppo a rallentare la corsa del contatore delle vittime del coronavirus nel nostro Paese, che ha già raggiunto la terribile cifra di 43.589 morti da inizio pandemia. L’Italia è uno dei paesi al mondo che sta registrando più vittime a causa del coronavirus: siamo in sesta posizione in questa triste classifica globale, preceduti solamente dagli Stati Uniti, dal Brasile, dall’India, dal Messico e dal Regno Unito. Paesi che però, a eccezione del Regno Unito, hanno una popolazione molto più grande dell’Italia. E anche il nostro il tasso di letalità è tra i peggiori al mondo: il 4,2% delle persone che contraggono il coronavirus muoiono. Peggio di noi solo il Messico, con un mortalità del 9,8%, e l’Iran con il 5,5%. Perfino il Regno Unito, che conta più vittime di noi (a oggi sono 50.457), registra una letalità del 4,0%, leggermente inferiore alla nostra. Purtroppo, come abbiamo detto, il contatore delle vittime in Italia è tornato a crescere come la scorsa primavera: appena un mese fa, il 13 ottobre, i morti sono stati 41. Due settimane fa, il 30 ottobre, sono stati 199. Ieri sono stati 636. Nemmeno i paesi europei che registrano più casi totali di noi hanno registrato ieri un numero così alto di vittime: in Spagna sono state 356, in Francia 425, nel Regno Unito 563. Com’è possibile che l’Italia, che già nella prima ondata registrava numeri superiori agli altri paesi europei, conti così tanti morti con il coronavirus? La risposta è complessa, e probabilmente non tutte le variabili sono già note. Però alcune sì, e possono aiutare a dare un quadro più preciso. In primo luogo, potrebbe influire l’età della popolazione: l’Italia è infatti il secondo paese più “vecchio” al mondo, dove gli abitanti con più di 80 anni sono ben il 7,5% del totale. Solo il Giappone ha un numero più alto, con il 9% della popolazione over 80. Stringendo lo sguardo alla sola Europa, Francia e Regno Unito sono i paesi a noi più vicini in questa graduatoria, con il 6 e il 5,5% rispettivamente. E, forse non a caso, Regno Unito e Francia sono i paesi europei che hanno avuto più vittime insieme a noi. Sappiamo ormai che il coronavirus tende a colpire in maniera più grave le persone anziane e con problemi di salute pregressi (sebbene sia utile ricordare che i rischi sono alti per tutte le fasce della popolazione). E l’Italia è il paese in Europa con già abitanti anziani: il 22,6% delle popolazione ha più di 65 anni. E siamo anche il paese con la mortalità più alta in caso di infezione. Sebbene non sia ancora stata dimostrata una correlazione diretta tra questi due dati, è più che plausibile che vi sia un nesso. Un nesso che però non spiega totalmente il numero così alto delle vittime: il secondo e terzo paese in Europa per anziani sono Grecia e Portogallo, che nemmeno lontanamente si avvicinano al nostro numero di vittime ogni 100mila abitanti. E allora serve aggiungere un altro elemento, di cui abbiamo già ampiamente discusso: l’inquinamento. Sono ormai svariati gli studi che mettono in relazione un alto tasso di inquinamento dell’aria con sintomi più gravi del coronavirus, e secondo le ricerche della Società italiana di medicina ambientale il particolato atmosferico può contribuire a rendere più facili le infezioni trasportando il virus più lontano del normale droplet. E sappiamo anche che la pianura padana è la regione geografica più inquinata d’Europa. Anche in questo caso, il dato si riflette sulla mortalità del coronavirus: se l’Italia registra il 4,2% di tasso di letalità, la Lombardia raggiunge il 6,4%. E’ la regione più inquinata e quella in cui più ammalati muoiono. Subito dietro si posiziona l’Emilia Romagna, con una letalità del 6,1%. E anche il Piemonte registra un dato leggermente più alto della media nazionale, con il 4,3%. In questa particolare classifica della letalità regionale, spicca anche il dato della Liguria, che raggiunge il 5%. Sebbene non sia in pianura padana, è nettamente la regione più anziana d’Italia: oltre il 12% dei residenti ha un’età superiore agli 80 anni. Insomma, età avanzata della popolazione e inquinamento sono due possibili chiavi di lettura per capire perché l’Italia continui a registrare così tanti morti con il coronavirus anche nella seconda ondata. In questi giorni però c’è chi ne sta suggerendo anche una terza: il rapporto tra casi e vittime è così alto anche perché non riusciamo di nuovo più a tracciare i casi di coronavirus. E a guardare i dati dei tamponi, la spiegazione potrebbe avere un fondamento: nelle ultime due settimane infatti il numero di persone testate è rimasto essenzialmente stabile tra le 120 e le 130mila nei giorni feriali, ma in quindici giorni il rapporto tra persone testate e positivi è salito dal 23,96 al 28,45%. E questo potrebbe indicare che i casi continuano ad aumentare mentre la nostra capacità di tracciarli e testarli è quasi arrivata al livello di saturazione. Se questo fosse confermato, saremmo in grado di scovare sempre più solo i casi più seri tra i contagiati - quelli che presentano una sintomatologia importante - e questo inevitabilmente fa salire il tasso di letalità, perché dalla statistica resterebbero esclusi i positivi asintomatici o paucisintomatici che non tracciamo più.
Perchè in Germania il virus uccide di meno? I tre «segreti» del modello Merkel. Paolo Valentino su Il Corriere della Sera il 14/11/2020. Tamponi a tappeto, grande spesa in sanità, posti letto in terapia intensiva quasi raddoppiati. Ecco cosa fa dire alla sanità tedesca «La situazione è grave, ma non siamo impotenti». Sono stati 23.542 i nuovi contagiati da Covid-19 e 218 le persone decedute nelle ultime 24 ore in Germania. È un’incidenza pari a circa 140 nuove infezioni ogni 100 mila abitanti nell’arco di una settimana (in quella precedente era stata di 125). Il tasso di contagio, cioè il numero di persone che ogni malato infetta a sua volta, rimane intorno a 0,9. A dispetto del lockdown soft in vigore dai primi di novembre, «il numero dei casi e anche quello dei morti sono destinati a salire, dice il direttore del Robert Koch Institut Lothar Wieler, che mette in guardia dalla concreta possibilità che in certe aree il virus si diffonda in modo incontrollato. È cambiato qualcosa nella Repubblica Federale, uscita a testa alta dalla prima ondata della pandemia e indicata in tutto il mondo come modello di una strategia molto ben pensata ed efficace contro il Covid-19. Una felice combinazione di test di massa, forte attrezzatura ospedaliera e flessibilità della governance grazie al federalismo aveva consentito a fine maggio di limitare i danni della pandemia a 180 mila casi e poco più di 8.500 decessi. Ma come altrove in Europa e nel mondo, l’illusione è durata una sola estate. E i tedeschi tornati in Germania dalle vacanze si sono rivelati il principale innesco della nuova ondata, che all’inizio ha colto di sorpresa sia i Länder, titolari della Sanità, sia il governo di Berlino. In poche settimane, l’aumento esponenziale dei contagi ha fatto temere il peggio: un sistema in affanno soprattutto nella capacità di tracciamento, scontento diffuso, focolai improvvisi. Già il 15 ottobre è stato superato il picco di aprile con 6.294 nuovi infettati in un solo giorno, che sono schizzati a 14.700 dieci giorni dopo e hanno per la prima volta superato quota 20 mila il 6 novembre. Anche il numero dei decessi è salito fino a superare i 200 al giorno. Al momento in cui scriviamo, dall’inizio della pandemia ci sono stati in Germania 751 mila casi di Coronavirus, pari a circa 8.600 per ogni milione di abitanti, il che la pone più o meno a metà della graduatoria di 217 Paesi del mondo. I morti sono stati 12.200, cioè circa 140 per un milione di abitanti e in questo caso la Germania è molto più sotto nella classifica, tra il 65mo e il 70mo posto. «La situazione è seria», non si stanca di ripetere la cancelliera Angela Merkel, di nuovo nel suo ruolo di madre della Nazione, che non ha mai smesso di ricordare ai tedeschi i rischi legati a una perdita di controllo della pandemia, invocando la scienza come bussola della sua azione. Eppure Lothar Wieler si dice «cautamente ottimista»: «La situazione è grave ma non siamo impotenti». In effetti negli ultimi giorni si è notato un rallentamento dell’impennata della curva. Ma il dato più interessante, che fa della Germania un caso a parte, è quello dei decessi: stando almeno alle cifre ufficiali, nella Repubblica Federale di Covid-19 si muore di meno che altrove. Perché? Qual è, se esiste, il segreto della Germania di fronte alla pandemia? Ricominciamo dall’inizio e vediamo le componenti essenziali di breve e di lungo periodo della strategia tedesca e i suoi risultati nell’anno del Covid-19.
I test. La Germania è stata fortunata a essere investita dalla pandemia con un ritardo di un mese rispetto ad altri Paesi europei, in primis l’Italia. Il che le ha permesso di prepararsi e limitare gli errori. Sin dall’inizio l’early tracking è stato decisivo: i tamponi, che a marzo venivano effettuati a 160 mila la settimana, a maggio erano saliti a 400 mila. Questo rendeva possibile individuare i contagiati in una fase della malattia ancora non avanzata e curarli per tempo. Questa capacità di fare test è diventata impressionante dopo l’estate: ai primi di ottobre i tamponi erano oltre un milione la settimana, oggi 1,6 milioni. Poco meno del 7% risulta positivo.
Il sistema ospedaliero e le terapie intensive. È il vero pilastro del modello. In Germania ci sono 1.925 ospedali, non sempre efficienti a causa di un sistema semipubblico basato su centinaia di casse mutue in concorrenza fra di loro. Ma con i suoi circa 500 mila posti letto, è una rete capillare che nell’emergenza ha fatto la differenza. I posti di terapia intensiva, che all’inizio della pandemia erano 28 mila, ora sono circa 40 mila di cui 30 mila con respiratore. Attualmente nei sedici Länder ci sono 3.300 mila ammalati di Covid-19 in terapia intensiva, e di loro più di 1.800 hanno bisogno di un supporto respiratorio. Tenendo conto di quelli occupati da persone con altre patologie, i letti di terapia intensiva liberi per eventuali nuovi casi di Covid sono quasi 6.700. C’è tuttavia una carenza di personale, soprattutto in alcuni Länder , come ad esempio Berlino, dove molti ospedali sono stati costretti a rinviare operazioni meno urgenti e richiamare personale da poco andato in pensione.
I tracciatori. Perno imprescindibile del sistema sono i quasi 380 Gesundheitsämter, equivalente delle nostre Asl (che però sono appena un centinaio) e che vengono da alcuni considerati l’arma segreta della guerra alla pandemia, la prima linea di difesa della popolazione. Una presenza capillare nel territorio, che serve a raccogliere i dati e soprattutto a tracciare i contagi: a maggio ci lavoravano 17 mila persone, in agosto 22.900 e quasi tutti i nuovi assunti sono impegnati esclusivamente nel tracciamento. Eppure, l’esplosione della seconda ondata li ha colti di sorpresa, e in ottobre non riuscivano più a seguire i contagi. La stessa cancelliera ha lanciato l’allarme: «I numeri sono troppo alti».
Il secondo lockdown. Il 14 ottobre, al vertice tra governo e Länder, i premier regionali si sono presentati in ordine sparso e nessuna vera misura restrittiva erga omnes è stata varata. È stata Merkel a metterli in riga, prima rivolgendo un appello accorato alla popolazione: «Non facciamo abbastanza per tenere il male lontano». Poi, due settimane dopo, imponendo il lockdown soft. In vigore fino alla fine del mese, prevede la chiusura di bar, ristoranti, palestre, piscine, teatri, cinema, centri estetici e bordelli in tutto il Paese. Il divieto di riunioni private con più di 10 persone, che devono appartenere al massimo a 2 famiglie. Il bando agli eventi di massa e il divieto di viaggiare dentro il Paese per ragioni turistiche. L’obbligo della mascherina per strada nelle situazioni di affollamento. In compenso, con una scelta di grande coraggio e civiltà, rimangono aperte scuole e asili nido.
Le misure economiche. Oltre al doppio bazooka (353 miliardi di euro, più oltre 800 miliardi di garanzie su prestiti) varato a diverse riprese tra marzo e giugno, per far fronte alle conseguenze economiche della pandemia, il governo federale ha accompagnato il nuovo lockdown con un pacchetto di ammortizzatori di altri 10 miliardi di euro, che potrebbero arrivare a 15 e andranno alle aziende colpite dalle chiusure. Quelle con meno di 50 dipendenti riceveranno in novembre il 75% dei loro incassi nello stesso mese del 2019. Inoltre, artisti e lavoratori autonomi dello spettacolo avranno accesso a prestiti di emergenza quasi senza interesse. È stata anche prolungata fino a gennaio l’indennità di disoccupazione, che viene erogata per pagare le ore non lavorate a causa delle chiusure o dei tagli di produzione e che compensa fino all’80% del salario di ogni dipendente. Gli ammortizzatori economici sono un fattore decisivo dell’accettazione delle misure restrittive da parte della società tedesca, dove le manifestazioni negazioniste rimangono marginali.
Il fattore Merkel. La forza tranquilla di Angela Merkel è stata cruciale. Letteralmente rigenerata dall’emergenza, ha dato il meglio di sé, senza mai tentennare o cedere alla demagogia. La sua stella polare è stata la comunità scientifica. Anche nei momenti in cui il peggio è apparso alle spalle, la cancelliera non ha mai abbassato la guardia. Anche ora avverte: «Non ci sono le condizioni per riaprire i ristoranti il 1° dicembre». Il 75% dei tedeschi approva il suo operato. La cultura del consenso di un Paese che vede nel rispetto della norma l’antidoto al caos ha fatto il resto. Merkel non lo farà, ma se decidesse di candidarsi una quinta volta, verrebbe probabilmente rieletta a furor di popolo.
Tutto oro quel che luce? La Germania ha avuto all’inizio della pandemia un infelice riflesso nazionalistico, con il blocco delle frontiere e il divieto di esportazione di mascherine e materiale sanitario verso gli altri Paesi europei, poi fortunatamente corretto. Sul piano interno ha dovuto affrontare una preoccupante penuria di mascherine durante la primavera. Il sistema federale non ha sempre funzionato a dovere e spesso i capi dei Länder hanno fatto ognuno per conto loro, con esiti diversi da regione a regione. Ci sono stati casi, come i focolai nei mega-mattatoi dove viene lavorata la carne, che hanno svelato realtà di sfruttamento e totale assenza di rispetto delle più elementari regole igieniche. Sul fondo, dal 1993 al 2017, la spesa sanitaria tedesca è più che raddoppiata e oggi è pari a 230 miliardi di euro l’anno, il 12% del Pil. Ma i soldi non vengono spesi tutti nel modo giusto e il sistema delle Krankenkasse non è un modello di best practice. Ancora nel 2019, uno studio della Fondazione Bertelsmann suggeriva di chiudere centinaia di piccoli ospedali assolutamente al di sotto degli standard internazionali di qualità. L’emergenza ha rovesciato i parametri. E la massa critica del sistema sanitario tedesco nella pandemia si è dimostrata un frangiflutti. Repetita juvant: in Germania, per il Coronavirus, si muore di meno. (Ha collaborato Christina Ciszek)
Filippo Facci per “Libero quotidiano” il 25 ottobre 2020. Presto il Covid ammazzerà un sacco di gente, ma non per il virus: per altre patologie trascurate, non curate, messe in secondo piano dall' agenda politica e sanitaria del nostro Paese. È brutto dirlo, ma, obbligati scegliere, converrebbe prendersi il Covid piuttosto che una delle malattie croniche che in Italia e in Occidente uccidono la maggior parte della gente: dai tumori all' ipertensione all' artrosi (artrite) alle malattie allergiche, ciò di cui soffre il 40 per cento degli italiani (dato fornito dall' immunologo Mauro Minelli) e spesso con tassi di mortalità bel più alti di quelli del Covid, ridotto al 3 per mille: e non perché abbia perso «carica virale», ma perché è conosciuto e curato meglio. Per il resto, sempre parlando di numeri, in Italia muoiono circa 650.000 persone all' anno, e di Covid per ora 37.000. Il Covid è una malattia raccomandata, come dire: in parte perché la sua contagiosità la rende difficile da gestire, in parte perché la carica emotica che si trascina dietro è stata calamitata da decisioni politico-sanitarie che paiono irreversibili. Il governo di Giuseppe Conte sarà ricordato solo per la Pandemia: e ora che si riaffaccia, ricomincia l' impazzimento e in diversi ospedali hanno già fermato visite e interventi chirurgici. C' è gente che attende interventi urgenti (ma non urgentissimi) e aspetta a casa col suo carcinoma. A Bergamo un tumore alla prostata diagnosticato a gennaio è stato operato a settembre. Sempre a Milano un esame del fundus oculi (esame oculistico con molte finalità) è stato fissato per il 2022. È il mese della prevenzione del tumore al seno, ma se provate a prenotare una visita a Milano (a Milano) rischiate di andare ancora al 2022. Già nel maggio scorso scrivemmo che sono stati rinviati a date impossibili esami urgenti come le mammografie, che di norma prevengono il 60 per cento dei casi di tumore al seno: il che significa, in termini meramente statistici, che la sanità lombarda, in futuro, potrà ritrovarsi ad affrontare un 60 per cento di tumori in più, per la gioia delle pazienti e non ultime delle casse sanitarie. C'è chi azzarda calcoli più precisi: secondo Bruno Magi, segretario di Sumai assoprof (il sindacato unico della medicina ambulatoriale) durante il lockdown le visite specialistiche prenotate e saltate sono state circa 14 milioni, mentre gli esami di diagnostica non effettuati ammonterebbero a 12 milioni. Sembrano tantini, ma saprà quel che dice. Le liste d' attesa dopotutto erano fuori controllo anche prima, figuriamoci adesso. Dunque l' errore che si profila, oggi, è quello già compiuto ieri, a marzo: milioni di malati cronici sono stati abbandonati dagli ospedali monopolizzati, «covizzati», «sporchi» di virus, sotto stress, mentre i medici di famiglia intanto erano oberati di richieste e costretti a fare solo telefonate o passaggi di improbabili ricette dalla finestra. E i pronti soccorso? Se non eri moribondo per Covid, manco ti guardavano, e qualche volta, purtroppo, non ti guardavano comunque. Tuttavia, nel suo piccolo, la gente continua mediamente a morire per le malattie tradizionali, ma spesso più sola di prima. Il Covid, oltretutto - diciamo così - viene pagato bene. Le regioni pagano gli ospedali convenzionati (il cosiddetto Drg) per ogni singolo intervento chirurgico (poi dipende dall' intervento) o a giornate di degenza; nel caso del Covid, Guido Bertolaso aveva parlato di 2000 euro giornaliere a paziente covizzato (senza terapia intensiva) e però subito, in rete, i vari siti «antibufala» avevano detto che non era vero. In effetti non è vero: non sono 2000, sono 1800. È molto, e non manca chi ha gridato a una «covizzazione» degli ospedali per tornaconto economico: ma sono speculazioni dietrologiche. Certo, occuparsi professionalmente di Covid è impegnativo ma non sottopagato. La Toscana, non da sola, ha varato degli incentivi ad hoc, una specifica indennità in busta paga. Ma non interessa, ora. Il punto vero è che da giugno a oggi non è stato pianificato niente (tantomeno col Mes) forse perché hanno creduto che il Covid non sarebbe tornato, non così, o forse più semplicemente perché è un governo di comprovati incapaci. Sicché, tra le altre cose, non sono state formate delle equipe e non sono stati preservati degli ospedali «puliti», cioè degli ospedali «bolla» dove non possa capitarti di entrare per una frattura e uscire chissà quando perché ti sei beccato il Covid. Ora, invece, con la fretta ansiosa del governo e delle regioni, gli ospedali tendono a prediligere i malati di Covid ai malati di altre cose - questo è indubbio - e a rimetterci, come detto, sono milioni di pazienti o malati cronici che potranno presentarsi in ospedale solo se stanno per schiattare, anche perché la medicina generale è pressata dalle continue richieste per fare tamponi o vaccini antinfluenzali. E la curva dei decessi non-covid in compenso peggiora ogni giorno, anche se resta verissimo che le morti «per covid» restano poche perché il virus agisce tipicamente come un colpo di grazia su patologie preesistenti. Un nuovo lockdown - che tutti danno per certo, presto o tardi - preannuncia quindi una nuova strage, morti dovuti al fatto che, come dire, in ospedale il letto era occupato. Ma un nuovo lockdown preannuncia, pure, un sarcastico miglioramento della salute media degli italiani: non faranno più esami né diagnosi, e moriranno ufficialmente da sani.
La rivista Lancet: morti italiani sottostimati. Sono il 60% in più. "L'Italia ha sottostimato le morti da Covid". C'è un articolo uscito sulla prestigiosa rivista scientifica Lancet firmato da Gianfranco Alicandro, Giuseppe Remuzzi e Carlo La Vecchia dello scorso 3 settembre che imbarazza il governo. Felice Manti, Domenica 11/10/2020 su Il Giornale. «L'Italia ha sottostimato le morti da Covid». C'è un articolo uscito sulla prestigiosa rivista scientifica Lancet firmato da Gianfranco Alicandro, Giuseppe Remuzzi e Carlo La Vecchia dello scorso 3 settembre che imbarazza il governo. Secondo la rivista, il numero dei morti da Coronavirus da gennaio a maggio sarebbe almeno il 60% in più di quelli ufficialmente dichiarati. La discrepanza rispetto ai numeri forniti dalla protezione civile sarebbe colpa di un'alchimia contabile innescata da una serie di dati che non si sono mai incrociati perfettamente. Nell'articolo si cita come fonte anche il consulente del governo sulla pandemia Andrea Ricciardi - già nel mirino per aver definito il lockdown «last, blind decision» («decisione ultima, presa alla cieca», ndr). L'articolo incrocia il numero totale dei morti ottenuto attraverso l'integrazione dei dati dei registri funebri disponibili per quasi 8mila città italiane, pari al 95% del campione nazionale, a causa dei tanti decessi di persone non testate né trattate. Almeno 15mila solo a marzo, dice Lancet, altre 2.500 ad aprile mentre a maggio la mortalità totale sarebbe inferiore rispetto alle attese. Insomma, nei tre mesi di pandemia i morti di Covid sarebbero stati non meno di 44mila, altro che i 33.386 registrati. Sul tema è intervenuto anche Luca Fusco, il presidente del comitato che riunisce le vittime di Covid-19 nel Bergamasco e nelle zone della Lombardia più colpite dalla pandemia. «Il comitato non ha mai dichiarato percentuali precise - ha detto Fusco al Giornale - ma è sempre stato convinto, fin dall'inizio dell'epidemia, che le comunicazioni ufficiali fossero riviste al ribasso». Ma il problema, secondo Fusco, è un altro. «Questo modo di agire unitamente a tutte le altre menzogne, sottrazioni di documenti, cancellazioni improvvise di notizie denotano la presumibile, se non certa, presenza di profonde colpe da parte di una inetta classe politica». E quando ricordiamo a Fusco che sulle eventuali responsabilità del governo e di Regione Lombardia ci sono delle inchieste della magistratura, Fusco sottolinea: «Infatti, sono colpe che il comitato non determina in maniera puntuale - lasciando il compito alla magistratura - e continuando ad aiutarla in questo immane lavoro. Siamo certi di arrivare alla verità ed abbiamo completa fiducia nella magistratura inquirente».
Coronavirus, Blangiardo presidente Istat a Quarta repubblica: grafico-bomba, il confronto sconvolgente tra i morti nel 2015 e nel 2020. Libero Quotidiano il 29 settembre 2020. Il presidente dell'Inps Pasquale Tridico, travolto dal caso dell'aumento di stipendio, ha tirato in ballo il collega Gian Carlo Blangiardo. E lui, nominato presidente Inps "in quota Lega" (mentre Tridico è d'area M5s) risponde ospite di Nicola Porro a Quarta Repubblica: "Dal 1 novembre ad oggi ho preso 114 euro, perché in quanto sono in pensione non mi spetta nulla". Insomma, un'altra figura di palta per Tridico, che da questa estate percepisce 150mila euro (contro gli iniziali 62mila euro) pur avendo rinunciato, come ha spiegato con una lettera a Repubblica, ai 100mila euro di arretrati concessigli dalla ministra del Lavoro (grillina) Nunzia Catalfo. Bontà sua. Ma a Quarta Repubblica, Blangiardo ha affrontato anche il tema del coronavirus e della mortalità in Italia, presentando carte alla mano una statistica per certi versi sconcertante. "Muoiono di media in un anno 630.000 persone, un possibile bilancio per quest'anno dovrebbe essere tra 45.000 e 75.000 morti in più", è l'analisi del presidente Istat sull'anno della pandemia. "Ma nel 2015 ci sono stati 55.000 morti in più". E 5 anni fa non ci fu alcuna epidemia. Il grafico è chiaro.
Testo di Paolo Becchi E Giovanni Zibordi il 7 settembre 2020. Sono stati pubblicati sondaggi nei principali paesi sulla percezione dell’opinione pubblica del Covid-19 (ad es. un mese fa dall’ International COVID-19 Opinion Tracker). Il dato stupefacente è che in tutti i paesi l’ opinione pubblica stima i morti di Covid-19 circa cento volte maggiori di quelli che sono nella realtà. Come si vede nella tabella, l’ opinione pubblica risponde che i morti a causa del Covid sono il 3%, il 6% o addirittura il 9% della popolazione, mentre se si dividono i 40 mila decessi circa in UK e Francia per le rispettive popolazioni (vicine a 70 milioni di persone) si ottiene uno zero virgola zero sei (0,06%). Gli americani sbagliano più di tutti, ma anche i tedeschi e gli svedesi nei sondaggi amplificano di 100 volte circa il dato reale. Ora, è noto che in qualunque sondaggio l’ opinione pubblica di solito sovrastima i numeri e le percentuali dei fenomeni di cui si parla molto sui media. Ad esempio nel caso percentuale di immigrati tipicamente nei sondaggi viene indicata al 20% quando nella realtà è il 10% circa. Ma nel caso del virus Covid-19 parliamo di un errore di 100 volte, non di 2 o 3 volte. Non si tratta però di un problema di dimestichezza con la statistica, seppure elementare da parte dell’italiano o americano medio, ma di una manipolazione che avviene ogni sui media perché da sei mesi si parla solo ogni giorno dei morti da Coronavirus contati da uno ad uno e se si dicesse invece ogni tanto che però il totale dei decessi da Covid è uno “zero virgola zero sei” della popolazione, cambierebbe la percezione dell’ opinione pubblica. Sarebbe difficile giustificare la paralizzazione della vita sociale e la distruzione di centinaia di miliardi di euro di reddito per una variazione del numero di decessi dello zero virgola zero qualcosa, una variazione che è già avvenuta in altri anni, perché è successo che in Italia il numero dei decessi annuali oscillasse anche di circa 40mila, da 550mila a 590 mila ad esempio. La colpa però non è del cittadino che dovrebbe avere la voglia di controllare i numeri e fare le divisioni e le percentuali, ma di chi per mestiere dovrebbe interpretare i dati e trasformarli in notizie sui media. Ad esempio gli autori del presente articolo hanno pubblicato il 17 aprile sul Sole24ore un pezzo che sulla base dei dati stimati di mortalità attribuita al Covid sosteneva che non era eccessiva su base storica e statistica al punto tale da giustificare di distruggere mezza economia italiana e togliere il diritto di uscire di casa ad un intera popolazione. Il Comitato di Redazione del Sole24ore, per la prima volta forse nella storia del giornale, con un comunicato ha preso le distanze dal direttore che aveva pubblicato questo articolo e non lo ha poi rimosso come aveva chiesto il CdR. I giornalisti del principale giornale economico nel loro comunicato trovavano scandalosa la nostra tesi che “non è la mortalità eccessiva a livello nazionale che giustifica il blocco prolungato dei diritti e della vita degli italiani”, al punto che non meritava neanche di essere discussa (”sono parole che preferiamo non commentare”). Non si trattava però di controbattere quanto avevamo scritto, ma semplicemente di condannarlo come si faceva nel medioevo con gli eretici. Qui parliamo di una testata economico-finanziaria i cui giornalisti hanno chiesto la censura di un articolo e non vogliono nemmeno discuterne la tesi o i dati citati, come se si trattasse di una incitazione alla strage di donne e bambini. L’articolo faceva notare che la percentuale annuale di morti a livello nazionale che si poteva stimare (in aprile) per questa patologia da virus non era, socialmente e statisticamente, tale da giustificare misure da tempo di guerra. Con il pretesto di questa variazione nella mortalità che statisticamente si è già verificata per altri motivi (oscillazioni di 30 o 40mila decessi in più all’anno sono avvenute negli ultimi dieci anni) abbiamo ora però distrutto l’economia. Come si vede il reddito e la produzione italiana sono collassati come non è mai successo in tempo di pace e tre o quattro volte di più che durante le crisi del 2008 e 2012. Dopo il breve picco in marzo e aprile, da metà maggio, smentendo le previsioni dei virologi ed epidemiologi citati sempre dai giornali, la mortalità totale settimanale in Italia e in tutta Europa è tornata nella media. Invece di fare autocritica e riesaminare se non si sia sbagliato clamorosamente, si insiste nell’alimentare la psicosi parlando ossessivamente ora dei “contagi”, anche se non hanno più nessuna relazione con il numero di malati e di decessi. Ad es. il paese che ha avuto il maggiore picco di contagi è questa estate la Spagna, dove però, come anche succede in Francia, Italia, UK, Germania ecc non si vede nessun aumento dei decessi. Lo stesso andamento lo si vede in Italia e in tutti i paesi europei. Affermare come fanno i vari esperti governativi, Crisanti, Ricciardi, Galli, Pregliasco, che però i morti potrebbero essere stati o saranno in futuro molti di più è solo un ipotesi, a sua volta criticata e contraddetta da altrettanti esperti e scienziati in giro per il mondo e soprattutto non confermata dai dati dei decessi totali. Ora che sono passati altri quattro mesi è ovvio che la “mortalità non era eccessiva al punto tale da dover chiudere il paese” come avevano scritto sul Sole24ore guardando ai dati. Le statistiche sono ormai chiare per chi faccia solo un minimo sforzo di andare oltre il “bollettino” del Covid giornaliero del governo dei “contagi”. E il governo e i giornali che lo giustificano ormai sono costretti a coprirsi di ridicolo parlando ora di impedire persino di lavorare a distanza, da casa con il computer, per chi sia “positivo” anche se sta benissimo. Come se il virus si diffondesse tramite la linea ADSL dell’ internet. Ma la semplice realtà è quella dei decessi e i decessi sono nella media statistica di variazione annuale e non tali da giustificare misure dannose per tutta la società. Ad esempio in Italia con 60 milioni di abitanti e poco meno di 600 mila decessi l’anno per tante cause diverse, sono stati attribuiti al Covid-19 circa 35 mila decessi. Lasciamo stare che quelli per i quali è effettivamente la causa di decesso sono probabilmente di meno. Se togliamo tre zeri da entrambe le cifre, 60 milioni di abitanti e 35 mila decessi, abbiamo 600 mila abitanti e 35 morti, cioè in una città come Bologna appunto di 600mila abitanti i morti nell’anno sono solo 35 per Covid. Se togliamo un altro zero abbiamo 60mila diviso 3,5, per cui in una cittadina piccola di 60mila abitanti, come ce ne sono tante in Italia, i morti per Covid sono circa tre nel corso dell’anno. Volendo tradurre in termini che tutti capiscono le statistiche, il governo, con l’appoggio dei grandi media, ha fatto chiudere in casa tutti e impedito di lavorare a molti e ancora adesso ostacola il funzionamento della scuole e amministrazione pubblica perché in cittadine di 60 mila abitanti, come possono essere ad es Carpi o Avellino o Siena, ci sono stati tre decessi di anziani in più in un anno. Oppure a Latina o Ancona o Treviso (cittadine intorno ai 100 mila abitanti) ci sono stati cinque o sei decessi in più di anziani già malati in un anno. Lo sappiamo che i decessi erano concentrati in alcune province del Nord dove in marzo e aprile la media era più dieci volte alta, ma le politiche di chiusura e blocco o “distanziamento” sono state adottate per tutta l’Italia e durano ora tutto l’anno. Se parliamo allora di tutto l’anno e tutta l’Italia la statistica è questa: in media, si è verificato un decesso, quasi sempre di persona molto anziana e con altre patologie, ogni 20 mila abitanti (dato che i morti sono praticamente cessati). I giornalisti del Sole24ore e altri grandi media trattano il disastro economico e sociale causato non dal Covid, ma dalla politica di Lockdown come necessario, ma solo perché evitano di discutere con chi (in genere sui social media) fa notare i dati reali non dei fantomatici “contagi”, ma dei decessi. E i decessi per o con Covid sono lo zero virgola zero sei per cento di decessi nell’anno. Si continua invece a parlare della “pandemia” del Coronavirus come se fosse il problema principale dell’umanità, ma il numero di decessi nel mondo (settecentomila), è pari all’uno per cento circa dei decessi dell’anno (che nel mondo sono 70 milioni circa) e allo zero virgola zero uno per cento della popolazione mondiale (700 mila decessi diviso 7 miliardi di abitanti del pianeta = 0,01%). In questo modo però l'opinione pubblica è stata talmente bombardata dai bollettini quotidiani dei morti del Covid, e ora crede che i morti siano il 2 o 3 o 6 per cento quando in realtà sono cento volte di meno, lo 0,02% o lo 0,03% o nei casi peggiori lo 0,06% della popolazione. Come un numero crescente di scienziati ed esperti che anche noi abbiamo provato più volte a citare ha sostenuto, il virus del Wuhan è un fenomeno statisticamente e socialmente non rilevante. Senza contare che, come ha fatto notare Michael Levitt termini di “Anni di Vita Persi” (Years of Life Lost”) è completamente diverso per la società avere 30 mila decessi di 80enni e 30 mila decessi di 20enni. Nel secondo ogni decesso implica 60 anni di vita persi cioè 1,8 milioni di anni di vita persi mentre nel primo statisticamente 3 anni di vita persi cioè 90 mila anni di vita persi. Chi scrive questo articolo rientra nella categoria “anziani” e rimpiangerebbe molto la dipartita da questo mondo, consci però del fatto che la vita è stata già largamente vissuta e la vera tragedia sarebbe di ostacolare ora quella dei figli e nipoti, specialmente quelli che forse non verranno alla luce per la miseria economica che il governo sta creando in Italia.
Emergenza: quando i numeri parlano da soli
Deceduti nel mondo nel 2020: 1 gennaio – 1 maggio
Coronavirus: 237.469
Malaria: 327.267
Suicidio: 357.785
Incidenti Stradali: 450.388
Cancro: 2.740.193
Fame: 3.731.427
Malattie Infettive: 4.331.251
Aborti: 14.184.388
Fonte: worldometers.info Dati ufficiali World Health Organization (WHO)
(ANSA il 27 aprile 2020) - Le vittime del coronavirus nel mondo potrebbero essere molte di più di quanto non dicano i dati ufficiali. E' quanto emerge da un'analisi del Financial Times condotta su 14 Paesi colpiti dalla pandemia, tra cui l'Italia e tutti i principali Paesi europei. Il quotidiano britannico parla di un bilancio delle vittime quasi il 60% superiore a quello delle statistiche ufficiali, un dato al quale gli esperti arrivano mettendo a confronto i decessi avvenuti tra marzo a aprile di quest'anno con quelli dello stesso periodo dei cinque anni passati. Risultato: ci sono stati 122 mila morti in più rispetto ai livelli normali, molti di più dei 77 mila decessi ufficiali registrati in queste nazioni a causa dei contagi del Covid-19. Se anche negli altri stati non compresi dallo studio del Financial Times i dati dovessero essere in egual misura sottostimati, il coronavirus globalmente potrebbe aver ucciso fino a 318.000 pazienti, ben al di sopra delle attuali 200.000 e oltre vittime. In tutti i Paesi analizzati, esclusa la Danimarca, il numero dei decessi da marzo ad aprile 2020 avrebbe di gran lunga superato la media storica: in Italia del 90%, in Belgio del 60%, in Spagna del 51%, nei Paesi Bassi del 42% e in Francia del 34%. In particolare, per quel che riguarda il nostro Paese il Financial Times calcola per la Lombardia, l'epicentro della pandemia in Europa, il 155% in più di decessi rispetto alla media dei cinque anni precedenti, e nella sola provincia di Bergamo del 464%, il dato più alto in assoluto davanti a New York (200%) e Madrid (161%).
Morti Covid, tutte le bugie in Europa. Ecco i dati reali. di Milena Gabanelli e Simona Ravizza il 28 aprile 2020 su Il Corriere della Sera. Ogni giorno tutti i Paesi d’Europa (e non solo) comunicano i bollettini ufficiali con contagi e decessi. Ma, in particolare sul numero di vittime, quanto sono davvero attendibili Italia, Spagna, Regno Unito, Francia, Svezia, Svizzera e Paesi Bassi? Per la Germania e il Belgio non è possibile saperlo, perché non comunicano ancora i dati necessari a scoprirlo. In base alle statistiche ufficiali, oggi l’Italia è il Paese europeo più colpito dopo la Spagna. Il drammatico bilancio delle vittime, ormai intorno alle 27 mila, è addirittura il più alto. Per capire, però, il reale impatto del virus sul nostro Paese rispetto al resto d’Europa bisogna sapere chi dice davvero la verità e quanto è ridimensionato il numero dei decessi. I dati sulle morti da Covid-19, che ci vengono comunicati quotidianamente dalla Protezione civile, si riferiscono solo ai pazienti con una diagnosi accertata tramite il tampone, e quindi sono inferiori rispetto alla realtà. La stessa cosa avviene negli altri Paesi europei considerati. Un’elaborazione dell’Istituto per gli studi di Politica internazionale (Ispi) sui morti registrati dai rispettivi Istituti di statistica nazionali, che Dataroom consulta in anteprima, ci permette di mettere a confronto Paese per Paese il numero dei morti di quest’anno con quelli degli anni precedenti. La differenza dovrebbe corrispondere alle morti da Covid-19, ma rispetto ai dati comunicati durante i mesi dell’epidemia c’è una notevole distanza. Cosa vuol dire? Che sono i morti sottostimati, cioè i pazienti che hanno contratto la malattia ma non sono stati tamponati e quelli deceduti per effetti collaterali del coronavirus: dai pazienti con infarti, ictus, aneurismi, o altre patologie, non visitati e soccorsi in tempo a causa degli ospedali pieni. Una volta individuato questo numero è possibile sapere anche quali sono i Paesi che hanno barato di più nella comunicazione e che hanno il tasso di mortalità in eccesso più alto per milione di abitanti.
Il confronto con gli anni precedenti. Il periodo preso in considerazione tra un Paese e l’altro può variare di qualche giorno, in base all’aggiornamento che ciascuno fa, ma vengono sempre analizzati i dati dei decessi fotografati dagli Istituti di statistica nazionali tra marzo e aprile 2020 rispetto alla media degli ultimi quattro anni (2015-2019). Per avere un confronto attendibile ovviamente non sono paragonati i dati dell’ultimo minuto. Dimentichiamoci, allora, per un attimo i bollettini quotidiani e guardiamo i morti registrati dalle anagrafi. La Spagna conta 68.056 decessi contro i 39.981 dello stesso periodo negli anni precedenti. È il Paese dove la crescita è maggiore: più 70%. I Paesi Bassi fanno registrare un più 50% (22.352 contro 14.895). Segue l’Italia con 78.757 decessi al 4 aprile contro 57.882. Gli ormai noti dati Istat ci dicono che a livello italiano l’aumento in media è del 36% (ben sappiamo, però, che la più colpita è la Lombardia con incrementi che arrivano a decuplicarsi nei comuni della Bergamasca). Anche il Regno Unito registra un più 36% (63.842 contro 46.877). Poi Svizzera più 25%, Francia e Svezia più 20%.
Vittime reali e morti comunicati. Questo aumento dei decessi, in gergo statistico, viene definito «eccesso di mortalità». Per fare un passo in avanti occorre quantificare la distanza che c’è tra le vittime in più che si contano quest’anno e i morti che ci vengono comunicati tutti i giorni dalla Protezione civile e dalle autorità degli altri Paesi. Il confronto fa emergere un numero: quello delle vittime non contemplate dai bollettini Covid-19, ovvero la sottostima. In cima alla graduatoria in termini assoluti c’è il Regno Unito (meno 8.184), poi la Spagna (meno 7.326), quindi l’Italia (meno 5.547), i Paesi Bassi (meno 3.797), la Francia (meno 3.679), la Svizzera (meno 339) e la Svezia (298). Annota il ricercatore dell’Ispi Matteo Villa: «Qui capiamo, ancora, cosa manca per un approccio più sistematico alla Fase 2: riuscire a tener traccia delle persone decedute è cruciale per poter comprendere come stia procedendo realmente l’epidemia in ciascun Paese».
La sottostima dei decessi Covid-19. È ovvio che non tutti i decessi in eccesso possono essere considerati di sicuro morti da Covid-19. Ma il numero è la spia più attendibile che possiamo avere sul reale tasso di incidenza dell’epidemia sulla popolazione, i cosidetti «effetti collaterali», che include appunto i decessi non da coronavirus, ma di pazienti che non sono riusciti a essere curati al meglio in un momento in cui gli ospedali sono stati travolti dai malati Covid-19. Qui prendiamo in considerazione la differenza tra i decessi reali e quelli comunicati non più in termini assoluti, ma in percentuale. Ne esce la classifica dei Paesi con i bollettini meno affidabili. La sottostima maggiore è dei Paesi Bassi (104%), a ruota il Regno Unito (93%), la Francia (41%), l’Italia (36%), la Svezia e la Spagna (35%) e la Svizzera (34%). «Non è vero che l’Italia sottostima i decessi molto più degli altri Paesi europei — sottolinea Villa —. Anzi, è sorprendente constatare come siano più o meno tutti in linea tra il 30 e il 40%, tranne Paesi Bassi e Regno Unito che invece sono molto lontani dagli altri». Complessivamente, la verità è che i dati comunicati sono sottostimati del 49%. Manca, insomma, all’appello una vittima su tre.
L’incidenza sulla popolazione. I dati reali — ossia i morti in più rispetto agli anni scorsi — ci permettono anche di sapere qual è il Paese europeo davvero più colpito per milione di abitanti. Spagna 663 decessi, Italia 586, Regno Unito 554, Paesi Bassi 524, Francia 482, Svezia 295, Svizzera 246. «Questa classifica è molto più realistica di quella che otterremmo utilizzando i soli numeri comunicati», riflette Villa.
Il caso Belgio. Il Belgio è un caso a sé, addirittura quasi ignorato. Non è possibile calcolare il numero reale di morti causati dalla pandemia perché non è aggiornato il registro con il numero totale dei decessi a marzo e aprile. Il governo belga, però, dice di essere più trasparente rispetto al resto d’Europa perché, dentro ai suoi 7.200 morti Covid dichiarati, include anche i sintomatici non testati e le morti sospette dentro le case di riposo, dove si sta consumando una silenziosa strage: quasi il 50% dei morti. Anche se prendiamo questo numero per buono, restano fuori dal conto tutti gli altri. Infatti se si confronta l’unico dato disponibile, ovvero la media dei decessi degli anni 2009-2018, si può vedere per esempio che dal 7 al 13 aprile il numero dei morti Covid-19 supera quello relativo a tutte le altre cause. Resta il fatto che se vogliamo attenerci ai bollettini ufficiali comunicati da tutti i Paesi, il Belgio oggi conta il numero di decessi più alto di tutto il continente (e forse nel mondo): 597 per milione di abitanti, contro i 480 della Spagna e i 430 dell’Italia. Un dato disastroso se si considera che non è solo un piccolo Paese dell’Unione (11 milioni di abitanti), ma rappresenta il cuore stesso dell’Europa. Bruxelles è la sede del Parlamento e della Commissione europea, e la ripartenza passa anche da lì. Eppure, sulla gestione della pandemia è anche il Paese sul quale ci sono meno informazioni.
Coronavirus, Ft: il bilancio delle vittime potrebbe essere superiore del 60 percento. Il quotidiano economico-finanziario britannico ha messo a confronto i decessi tra marzo e aprile 2020 con medie dello stesso periodo dei cinque anni precedenti: le statistiche mostrano 122 mila morti in più, ossia un aumento in media del 50 percento. La Repubblica il 26 aprile 2020. Il bilancio delle vittime per coronavirus in vari Paesi Europei, tra cui Austria, Belgio, Danimarca, Francia, Italia, Paesi Bassi, Portogallo, Spagna, Svezia e Svizzera, potrebbe essere quasi il 60% più alto di quanto riportato dai conteggi ufficiali. Secondo un'analisi del Financial Times, le statistiche sulla mortalità mostrano 122 mila decessi in più rispetto alle medie degli anni precedenti. Molto di più rispetto alle 77 mila morti ufficiali registrate per Covid 19 nei Paesi presi in esame. Se la stessa sottostima fosse applicata a tutto il mondo, il bilancio globale delle vittime passerebbe dalle oltre 205 mila a 318 mila. Un calcolo complesso. Il Ft ha confrontato il numero delle morti totali nei Paesi presi in esame tra marzo e aprile 2020 con le media di mortalità dello stesso periodo dal 2015 al 2019 e ha rilevato 122 mila morti in più, ossia un aumento in media del 50 percento. Si oscilla da un aumento delle morti del 60 percento in Belgio a un incremento del 5 per cento in Danimarca, mentre in Spagna, Paesi Bassi e Francia viene registrato rispettivamente un balzo del 51 percento, 41 percento e 34 percento. Le morti in eccesso sono più pronunciate nelle aeree urbane più toccate dalla diffusione del coronavirus il che, specialmente nelle economie emergenti, ha travolto il sistema di rilevazione. In Lombardia, ad esempio, il quotidiano britannico rileva oltre 13mila morti in eccesso nei 1.700 municipi dove sono disponibili i dati. Si tratta di un aumento del 155 per cento rispetto alla media storica. Di gran lunga superiore ai 4.348 decessi attribuiti al Covid 19 nella regione italiana. Con un aumento del 464 percento delle morti rispetto alle medie degli anni precedenti, la provincia di Bergamo è la regione che ha registrato il più alto incremento al mondo, seguita da New York con il 200 percento e Madrid con il 161 percento. Nella capitale indonesiana Jakarta, i dati sulle sepolture mostrano un aumento di 1.400 rispetto alla media storica nello stesso periodo, 15 volte la cifra ufficiale dei 90 morti per Covid dichiarati. L'incremento non è tutto da attribuire al nuovo coronavirus, ma allo stesso tempo è necessario considerare una diminuzione della mortalità per altre cause, come incidenti stradali o infortuni sul lavoro, per via delle restrizioni messe in atto in diversi Paesi. L'accuratezza delle statistiche, specifica il Financial Times, dipende da quanto efficacemente ogni Paese sta cercando di tenere i conti. La Cina per esempio ha dovuto rivedere il bilancio delle vittime della malattia in maniera retroattiva. Il rischio di sottostime è più elevato nelle case di riposo per anziani, particolarmente vulnerabili al virus. Le loro morti non sono state correttamente attribuite al coronavirus negli Stati Uniti, in Canada e nel Regno Unito. Secondo il professor David Spiegelhalter, che studia la comprensione pubblica del rischio all'Università di Cambridge, i conteggi giornalieri riportati dal Regno Unito ad esempio sono "troppo bassi" perché tengono conto solo dei decessi avvenuti in ospedale: "L'unico paragone imparziale che si può fare tra Paesi diversi è basato sull'osservazione della mortalità globale". Molti non sono morti per Covid, sul certificato di morte la causa resta spesso polmonite. E non questi non vengono contati. "Eppure sono inevitabilmente collegati a questa epidemia". Solo oggi il San Francisco Chronicle riporta il caso di Patricia Dowd, 57 anni, morta a causa di un infarto causato dall'infezione da coronavirus. Secondo il rapporto dell'autopsia, eseguita dalla dottoressa Susan Parson, "l'infezione virale di Covid 19 ha intaccato cuore, trachea, polmoni e intestino". La patologa forense Judy Melinek, alla quale è stato chiesto di rivedere il rapporto dell'autopsia, ha commentato: "Non è stato un infarto. C'è qualcosa di anormale".
Paolo Becchi e la mortalità da coronavirus, analisi controcorrente: i numeri non sono così tragici come dicono governo e virologi. Paolo Becchi e Giovanni Zibordi su Libero Quotidiano il 28 aprile 2020. Mentre il governo sfrutta al meglio il virus per mantenersi vivo a scapito nostro, conviene fare un analisi disincantata dell'epidemia. Occorre scegliere dei dati e come riferimento possiamo partire dai 232mila decessi di media negli ultimi quattro anni tra gennaio e aprile, chiedendoci se e di quanto quest' anno li si sia superati.In Italia i decessi annuali variano tra 630 e 650mila e nel periodo invernale hanno una oscillazione che può essere anche di 20 o 25 mila in più o in meno. La questione è se quest' anno siano veramente molti di più come tutti immaginano sentendo parlare di 26 mila decessi da Coronavirus e poi anche di altri decessi non rilevati. In Francia questo confronto è stato presentato dal prof. Didier Raoult dell' Istituto di malattie infettive di Marsiglia (l' epidemiologo con un indice Hirsch massimo al mondo di 175, in base al numero di citazioni di pubblicazioni scientifiche). Raoult sostiene anche lui la tesi che, dal punto di vista della mortalità cumulativa a livello nazionale, quest' anno non c' è una situazione eccezionale, perché in Francia nel periodo invernale, quindi dicembre-marzo, il totale dei decessi di questa stagione "con Coronavirus" era 216mila contro 218mila, 224mila e 223mila negli anni precedenti.
Città campione - In Italia si devono fare estrapolazioni per ottenere una stima del totale nazionale dei decessi per l' anno 2020 perché l' Istat non fornisce il dato nazionale se non dopo oltre quattro mesi. Finora nessuno lo ha fatto e si citano invece sempre delle percentuali di aumento della mortalità del 70 o 80%, che l' Istat ricava però solo da un campione di città del Nord tra marzo e inizio aprile. Questo campione ora è stato allargato a un numero maggiore di Comuni, il 32%, ma scelti con il criterio della mortalità superiore alla norma del 20%. La questione che poniamo è quanti siano i decessi quest' anno rispetto agli altri anni. Dato che sentiamo parlare di 26 mila decessi "da Coronavirus" e molti articoli parlano di molti altri decessi per Coronavirus non rilevati, l' impressione che l' opinione pubblica riceve è che quest' anno la mortalità sia molto in eccesso rispetto agli altri anni, quindi di almeno 26 mila morti in più o forse anche 40 mila morti in più (se fosse vero che molti non sono rilevati). Come però anche Marina Davoli e Paola Michelozzi sono costretti a riconoscere "il decremento invernale, prima dell' epidemia, e l' incremento dei mesi di marzo e aprile, in qualche misura si sono compensati", per cui il saldo da inizio anno a livello nazionale dovrebbe essere inferiore a quello dei 25 mila morti attribuiti al Covid. Occorre tenere presente che la mortalità nella stagione invernale oscilla tra 8 e 26 mila decessi da un anno all' altro. Nei mesi invernali si verificano oscillazioni di 20 mila decessi da un anno all' altro anche in un singolo mese, dovuti quasi tutti a polmoniti, la cui media di morti è di 18mila l' anno. Da una parte allora ci sono notizie per le quali la mortalità da coronavirus sarebbe più alta perché alcuni decessi avvenuti in casa non vengono rilevati, dall' altra va rilevato che la mortalità stagionale quest' anno in Italia (e in tutto l' Occidente in realtà) era molto più bassa della norma. Come capire allora quale sia la situazione reale emergenza? I dati dell' articolo sopra citato di Davoli e Michelozzi su un campione di 10 città del Nord indicano 2,624 morti in più da inizio anno al 7 aprile. Se si fanno assunzioni in base alla percentuale di popolazione del Nord campionata e quella restante e alla mortalità relativa delle varie province su base storica, si può stimare il totale del Nord intorno a 13 mila morti in più da inizio anno. Andrebbe stimato cosa succeda nei restanti 23 giorni di aprile se si usano i dati delle due autrici che si fermano al 7 aprile, ma dato il calo dei ricoveri in terapia intensiva, ora sui 2,100 in tutta Italia, può essere che l' effetto di mortalità eccessiva (rispetto alla media storica) sia ormai minimo. Quindi ci sarebbe una stima di circa 13 o forse 14 mila morti in eccesso a livello nazionale da gennaio ad aprile, rispetto ad un dato medio degli ultimi quattro anni di 232 mila morti, cioè un +7% circa in Italia quest' anno. Se poi nel resto dell' anno non si verifica un' altra ondata di polmoniti di questo genere, rispetto alla media dei 640-650 mila decessi annuali l' incremento sarebbe inferiore al 3%. In sintesi, sulla base dei dati riportati dalle due autrici, si ha un effetto stimabile intorno a 13-14 mila morti "in eccesso" che è un incremento del 7% circa su base stagionale (4 mesi) e di meno del 3% su base annuale in Italia.
Effetto lockdown - Si può obiettare che è stato il lockdown "stile Wuhan" adottato in Italia dall' 11 marzo a ridurre la mortalità e senza questo i morti avrebbero potuto essere decine di migliaia in più. Va allora ricordato che in media i decessi avvengono dopo circa 20 giorni dal contagio, per cui è solo dall' 1 o 2 aprile che (in media) si può dire che il lockdown ha avuto effetto sulla mortalità. Dal momento che i dati di cui si parla arrivano al 7 aprile, sono circa 5 i giorni in cui si è sentito l' effetto. Una verifica si potrebbe fare usando l' esempio del Paese criticato perché non ha chiuso neanche le scuole, la Svezia. Questo modello indicava per la Svezia una curva di decessi che saliva fino a giugno, invece ha raggiunto il massimo e declina da inizio aprile come in Italia. In Svezia la mortalità complessiva sinora è di 217 per milione di abitanti, in Italia di 430. Dato allora che in Italia stiamo autoinfliggendo ai cittadini, alla società e all' economia un danno paragonabile a quello di una guerra, bisogna, a nostro avviso, tenere presente che la mortalità che lo dovrebbe giustificare non è nemmeno lontanamente paragonabile a quello di una guerra. L' emergenza economica farà molti più danni di quella epidemiologica. Dallo Stato terapeutico passeremo alla civiltà della carestia. Distruggere 200 o 300 miliardi di reddito annuale farà soffrire milioni di italiani che finiranno in miseria e povertà.
Coronavirus, task force del governo contro le “bufale”. Meloni: “Per oscurare le verità scomode?” Marta Lima domenica 5 aprile 2020 su Il Secolo d'Italia. Una task force del governo per controllare la diffusione di “fake news”, altrimenti dette bufale, sul coronavirus. Senza che al suo interno vi sia neanche un medico, un competente, uno che ne capisca di scienza e di eventuali verità messe in dubbio dalle “fake”. Una bufala? No, tutto vero. Lo annuncia il sottosegretario Martella, con grande enfasi. Sulla nuova iniziativa del governo, più o meno utile ma decisamente maldestra nei modi, si abbatte la critica e l’ironia di Giorgia Meloni, che parla di “sedicente task force anti Fake news”. “Avrà il compito di assicurarsi che sia diffusa solo LA VERITÀ sul Covid-19 (proprio come il Ministero della Verità di orwelliana memoria). Sempre il Governo ha scelto di imperio gli “esperti” (tra loro neppure un medico o un virologo) che decideranno cosa si può dire e cosa no. Utile ricordare che tra le “fake news” c’erano fino a ieri anche il fatto che gli asintomatici trasmettono il virus. Che fosse utile tenere in quarantena chi proviene da zone a rischio, che fosse saggio indossare la mascherina in pubblico. Credo che si stiano limitando le libertà fondamentali e costituzionali con eccessiva disinvoltura”. La leader di Fratelli d’Italia, in sintesi, teme che l’organismo, di cui faranno parte solo giornalisti e docenti di comunicazione (in gran parte di area politica riconducibile alla maggioranza) possa censurare le verità “scomode” per il governo, senza aver alcun supporto scientifico da parte di chi realmente è in grado di esprimersi.
Il post scriptum della Meloni è chiaro. “Mi manderanno in un campo di rieducazione per queste mie parole o si limiteranno a oscurare il post su Facebook?”. O magari si limiteranno a censurare le fake news su Renzi, più che sul coronavirus? E la task force si esprimerà anche sulle fake news dei grillini, come il terrapiattismo, il no-vaccinismo, la cospirazione dei piedi sporchi?
Mollicone: una task force anti-sovranista?
“Mi rivolgo al sottosegretario Martella: stiamo fronte comune per il sostegno all’editoria e la stampa in questa difficile fase, ma dobbiamo denunciare come la task force voluta dal governo sia marcatamente sbilanciata verso sinistra, in un chiaro orientamento antisovranista, tanto da includere esperti e personaggi come Puente”. Lo afferma il deputato di Fdi, Federico Mollicone. “Questi debunker di professione dovrebbero scegliere cosa sia vero o falso per tutta Italia? Chiediamo un riequilibrio della composizione con tecnici non politicizzati, componenti delle autorità garanti e medici. Il contrasto alla disinformazione sul Covid-19 è necessario per tutelare la salute umana e l’economia nazionale, ma non vorremmo che gli strumenti messi in campo possano diventare una censura politica, sullo stile orwelliano”, conclude Mollicone.
Coronavirus, il mistero dei morti: quanti sono davvero? FdI chiede a Conte la verità. Redazione su Il Secolo d'Italia domenica 5 aprile 2020. Il tema se l’era posto qualche giorno fa il direttore del Secolo d’Italia Francesco Storace in un editoriale in cui si chiedeva al governo Conte di fare chiarezza su quanti fossero, effettivamente, i morti per il coronavirus. Oggi lo stesso quesito, in questo video in basso, se lo pone il senatore di Fratelli d’Italia Giovanbattista Fazzolari, che si chiede e chiede a Conte: quante sono veramente le vittime?
“C’è ancora troppa incertezza, eppure c’è un metodo semplice per saperlo. Avere i dati sulla mortalità, dello scorso anno, nello stesso periodo, nelle zone colpite dal flagello del coronavirus. Perché è così difficile fare quel raffronto?
Conte sta nascondendo i morti: sono ottomila o ottantamila? Francesco Storace sabato 28 marzo 2020 su Il Secolo d'Italia. Giuseppe Conte deve dire la verità sui morti. Ogni giorno i numeri ondeggiano sulle centinaia di decessi da o con coronavirus, ma le voci dai paesi e dalle città – a partire da Bergamo – raccontano un’altra drammatica realtà rispetto alle cifre sciorinate dalla protezione civile. La sensazione è che sia partita una spregiudicata opera di minimizzazione del numero delle persone finite all’altro mondo. In questa macabra contabilità ci sono solo quelli che spirano in ospedale. Ma sono un’infinità i morti in casa. A Bergamo si calcola che siano dieci volte tanto. E’ il ministro Lamorgese che si deve muovere con grande rapidità. Ciascuna anagrafe comunale ha i dati: a marzo 2019 furono 58mila i morti in tutta Italia. E quanti nel marzo 2020? Anche fermandoci al registro dei decessi al giorno 25 di marzo si può verificare che cosa è successo in tutta la Nazione. Vogliamo sapere a quanto ammonta l’inerzia di quelle terribili settimane in cui il governo non faceva assolutamente nulla dopo la dichiarazione dello stato di emergenza del 31 gennaio. Niente blocco delle frontiere. Assenza di dispositivi di protezione da assicurare agli operatori sanitari. Terapie intensive ai minimi termini. Nulla di nulla. Il contagio si è diffuso rapidamente in assenza di misure efficaci e tempestive. E se a questo dovesse corrispondere un aumento esponenziale del numero delle vittime – per di più occultato – non osiamo pronunciare l’epiteto che meriterebbero quanti hanno sottovalutato la tragedia. Cercavano i razzisti e dimenticavano i loro doveri. Raccontano i medici, ormai disperati, di essere costretti a scegliere tra chi ricoverare in ospedale e chi mandare a casa; a chi praticare i tamponi e a chi no; e poi il lavoro sporco tocca a quelli del territorio e a chi è arrivato a dare una mano a chi non ce la fa più. E vanno nelle case a registrare morti su morti per l’anagrafe cittadina. Se moltiplichiamo per dieci i morti in ospedale da ottomila diventano ottantamila. Un numero spaventoso, cifra da guerra, da conflitto bellico. Ci dicevano invece che era una normale influenza, mangiavano involtini primavera in televisione e festeggiavano a suon di aperitivi. Sapete quale può essere il dato più terribile? Non è affatto detto che la diminuzione del numero dei morti corrisponda ad un pericolo che cominciare ad attenuarsi. Perché se siamo chiusi in casa ed è in casa che i più malandati ci lasciano le penne, nessuno verrà mai a raccontarci quanti sono e di che cosa sono morti. Ma se nel comune ics lo scorso anno morivano venti e quest’anno duecento chi ce lo racconta? Serve un ordine del Viminale ai prefetti: è urgente conoscere la verità sulle vittime. Per ora è certo che è esplosiva la situazione al nord, ma se il coronavirus penetra con virulenza anche al centrosud con una sanità meno forte che nel settentrione, nelle case si morirà in maniera pestilenziale. E la cosa più assurda è che ci sia – è il caso della regione Lazio – chi fa resistenza persino al recupero delle strutture sanitarie dismesse. Sbrigatevi se non volete passare voi per criminali.
CHI MENO.
Decessi Covid, in Molise morti stabili rispetto allo scorso anno: diminuite a Campobasso e Isernia. Quotidianomolise.com il 28 Aprile 2020. In aumento, rispetto al 2019, ad Agnone, Trivento, Campomarino e San Martino. Per quanto riguarda il Molise sono tre gli incrementi di decessi di rilievo, tra il 2019 e il 2020: i comuni molisani coinvolti sono Agnone (da 8 a 14), Campomarino (da 2 a 7) e Trivento (da 3 a 8). Stabili i dati di San Martino in Pensilis (quota 9) e Ururi (4). Il dato di CAMPOBASSO e ISERNIA è più basso di quello dello scorso anno. La consapevolezza è ormai diffusa, suffragata da crescenti ricerche: il numero dei decessi ufficiali per Covid-19 in Italia, fornito dalla Protezione civile, è sottostimato. Mancherebbero, nei conteggi, soprattutto persone decedute nelle case di riposo o nella propria abitazione, a cui non è mai stato fatto il tampone. Per ricalcolare la cifra, con maggiori indici di affidabilità, anche se naturalmente non di assoluta certezza, si ricorre per lo più alla differenza tra il numero dei decessi medi avvenuti negli ultimi anni e quelli totali, nello stesso periodo, di quest’anno. Da tale risultato si sottrae il numero delle morti classificate “per” e “con” Covid-19. Il resto va “indagato”. Tuttavia il calcolo non è così scontato.
LE VARIABILI – Per quanto riguarda la media degli anni precedenti, due variabili sono costituite dal numero dei residenti (di solito decrescente) e dall’invecchiamento della popolazione (con decessi crescenti); nel raffronto con il 2020, che include febbraio, va considerato il giorno in più dell’anno bisestile; il dato quotidiano dei decessi Covid-19 spesso è falsato dai ritardi di comunicazione e registrazione, superiori alle 24 ore, come confermano le stesse Regioni, per cui va contestualizzato per settimana. Esistono, poi, le cosiddette “morti indirette”, generate dal caos pandemia che inficia le cure a pazienti con altre patologie. Infine bisogna tener conto che un “decesso Covid”, che coinvolge per lo più persone molto anziane e/o con altre patologie, non è per forza “una morte in più” nel conteggio annuale in quanto potrebbe trattarsi di una scomparsa che avviene soltanto qualche mese prima, per cui una parte dell’aumento dei decessi a fine anno si riequilibra. Infine va tenuto presente che la “quarantena” ha variato – seppur di pochissimo – le percentuali delle cause di morte, riducendo ad esempio gli incidenti stradali o sul lavoro e aumentando quelli domestici. Tenendo in considerazione tutti questi criteri e utilizzando diverse fonti, l’Ufficio comunicazione dell’Unsic ha tentato di raggiungere il dato più vicino possibile a quello reale.
LE FONTI – La prima fonte utilizzata è l’Istat. Tre i testi: un report sui decessi per qualunque causa dal 1° gennaio al 21 marzo 2020 in 1.084 comuni; un secondo report sui decessi per qualunque causa dal 1° marzo al 4 aprile 2020 in 1.689 comuni (parte dei 5.909 che compongono l’anagrafe nazionale della popolazione residente), scelti dall’istituto di statistica tra quelli con almeno dieci decessi e un aumento dei morti superiore al 20% rispetto alla corrispondente media del quinquennio 2015-2019. Il terzo documento, “Scenari sugli effetti demografici di Covid-19”, attesta che il totale dei decessi tra il 1° marzo e il 4 aprile nei 5.069 Comuni è stato, nel complesso, superiore del 41% rispetto a quanto osservato per l’analogo periodo del 2019. Scaturiscono ipotesi da un minimo di 34mila ad un massimo di 123mila morti in più nel 2020, con discesa dell’aspettativa di vita alla nascita da 0,42 a 1,4 anni nelle condizioni del modello più sfavorevole.
Altro riferimento è il Sistema di sorveglianza della mortalità giornaliera, gestito dal Dipartimento di Epidemiologia dalla Asl Roma 1 su incarico del ministero della Salute. Il rapporto epidemiologico include i dati di 19 città. L’ultimo report, il quinto, aggiornato al 18 aprile, parla di un incremento del 76% della mortalità totale per le città del nord, del 10% per quelle del centro-sud. Per singole città, domina Brescia (197%, la settimana precedente era al 215%), quindi Aosta (153%, era al 142%), Milano (103%, era al 96%), Genova (84%, era all’81%), Bolzano (62%, era al 58%), Torino (57%, era al 55%), Trento (50%, era al 51%), Bari (42%, era al 43%), Civitavecchia (31%, era al 41%), Bologna (47%, era al 40%), Potenza (28%, era al 35%), Verona (40%, era al 33%), Messina (20%, era al 22%), Venezia (14%, era al 16%) e Roma (7%, era al 6%).
Altre fonti: le ricerche o le rielaborazioni di Centro studi Nebo, Infodata del Sole 24 Ore, InTwig, Istituto Cattaneo, La Voce, Scienzainrete e YouTrend.
FINO A 30MILA DECESSI IN PIU’ PER COVID – Cosa emerge, in termini generali, dall’assemblaggio e dalla rielaborazione dei dati operato da Giampiero Castellotti e Giuseppe Tetto dell’Ufficio comunicazione dell’Unsic? Che al 27 aprile 2020 il numero complessivo dei decessi per Covid-19 in Italia può essere fissato a 52mila unità, nella stima più prudente, fino a 57mila, cioè da 25mila a 30mila in più della cifra ufficiale. Come si arriva a questi numeri?
Il primo rapporto Istat, nel dettaglio, già rivela un rilevante scollamento: 16.216 decessi a fronte dei 7.843 medi negli anni precedenti. Una differenza di 8.373 unità. A tale cifra vanno sottratti i decessi Covid, rapportati al campione e raffinati. Il “peso” della Lombardia è determinante: nei comuni lombardi analizzati dall’Istituto di statistica l’aumento è stato del 143% dal 1° al 21 marzo 2020, con differenza di 5.050 unità, che proiettate a tutta la regione portano ad una prima cifra tra gli 8mila e i 9mila decessi in più. Emblematici alcuni dati nel raffronto tra il 2020 e la media 2015-2019:Bergamo (da 4,3 a 19 decessi al giorno), Brescia (da 6,4 a 18 al giorno), Alzano (più che quadruplicati) e Nembro (più che sestuplicati). Includendo tutto marzo,Bergamo ha 553 decessi, ben 428 in più rispetto a marzo 2019, mentre i numeri ufficiali parlano di 201 morti per Covid-19 (InTwig-Eco di Bergamo). Crescite significative di decessi, nei primi rilevamenti, per Emilia-Romagna (superiore al 75%), Trentino-Alto Adige e Piemonte (superiore al 50%), Veneto (superiore al 40%), Liguria (superiore al 35%), percentuali comunque superiori alle morti per Covid-19.
La seconda indagine Istat si spinge al 4 aprile, includendo quindi il picco dei decessi e può essere misurata con quella, relativa alla stessa data, del Sistema di sorveglianza della mortalità giornaliera. Utilizzando anche il terzo documento dell’Istituto di statistica, si può estendere la nostra indagine al 27 aprile.
Per quanto riguarda gennaio 2020, il dato nazionale definitivo dei decessi per ogni causa di morte non dovrebbe scostarsi di molto da quello dello scorso anno, anche perché non abbiamo avuto un’influenza particolarmente letale ed il clima non è stato così rigido.
Ben diverso il discorso nel periodo 1 febbraio-4 aprile: se lo scorso anno sono decedute 114.695 persone (dati Istat), quest’anno è possibile ipotizzare una cifra tra le 150mila e le 160mila, di cui 15.383 morte ufficialmente per Covid-19. La stima più alta è sostanzialmente in linea con il 41% in più ipotizzato dall’Istat (circa 47mila decessi in più), quella più prudente è frutto dell’incrocio delle altre ipotesi, dell’apporto delle variabili ed è alimentata soprattutto dagli scostamenti in Lombardia, con i picchi nel Bergamasco (decessi probabilmente quintuplicati), nel Cremonese (quadruplicati), nel Lodigiano e nel Bresciano (circa triplicati).
Nei 40-50mila decessi in più è possibile individuare una rilevante quota di “morti Covid” non classificate (25-30mila casi), da sommare ai 26.977 deceduti “ufficiali” al 27 aprile. Il totale raggiunge 52-57mila casi.
A livello territoriale emerge, in linea generale, che gli scostamenti sono presenti prevalentemente in Lombardia e nel Nord Italia, mentre nel Mezzogiorno le più rilevanti differenze per numero di morti in sostanza corrispondono alle aree con i più alti numeri ufficiali per Covid-19, con una quota rilevante determinata dalle case di riposo.
Una cosa è certa: occorre aspettare anche mesi per avere un quadro più attendibile. I conti si fanno sempre alla fine. Per avere una panoramica dettagliata, anche a livello territoriale, che tiene conto delle differenti ricerche citate, con prevalenza di quella compiuta dall’Istat sui 1.689 comuni.
COVID19: Meno morti rispetto al 2019. Leggete i dati ISTAT, PERBACCO! Pubblicato su 2 aprile 2020 da SPEZZIAMOLECATENE. Da questa situazione ne possiamo uscire solo comprendendo la reale portata di quanto sta succedendo. O prendiamo in mano i dati ufficiali degli anni scorsi e li confrontiamo con quelli di quest’anno. O sarà la fine per noi perché le intenzioni di chi sta dietro a tutto questo terrorismo non sono per niente buone! Ovvio che ogni giorno il bollettino di guerra della Protezione Civile violenta le menti della popolazione italiana reclusa in casa. Questo perché pochi conoscono o sono andati a cercare le statistiche precedenti. Quando sei a conoscenza che, ogni giorno, muoiono 1.780 persone i numeri della Protezione Civile non fanno più lo stesso devastante effetto terroristico. Di seguito pubblichiamo i dati UFFICIALI ISTAT relativi ai decessi del 2019. A seguire abbiamo caricato i dati di quasi tutte le regioni del Nord Italia e fatto un confronto tra le tre regioni (Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna) più colpite dal COVID-19 e i dati nazionali. Purtroppo viene confermato quanto scritto precedentemente: queste tre regioni, le più sviluppate e ricche del paese, sono tra le più mortifere.
AGGIORNAMENTO 05.04.2020. Dopo il tanto vomito scatenato dagli idioti utili al sistema, abbiamo la conferma che oggi la gente non comprende quello che legge. Dove abbiamo mai scritto che i morti non esistono? Dobbiamo vergognarci perché abbiamo pubblicato dei dati ufficiali? Volete la fonte dei dati pubblicati? In fondo agli screenshot l’abbiamo inserita appositamente. Capite che la gente non legge e parte per la tangente, sfogando tutta la loro stupidità, la rabbia e frustrazione, perché non sono in cerca della verità? Se non siete interessati a comparare i dati storici della mortalità nessuno vi costringe a non leggere i terroristici articoli del mainstream. Fatevi torturare dalle trasmissioni h24, fatevi impaurire. Continuate ad abbassare le difese immunitarie. In questo post (non articolo), come in quelli passati, si presentano solamente dei dati storici e nessuno nega, o abbia mai negato, che le vittime non ci siano. Solo nelle vostre menti malate e perverse possono esistere queste follie. Evidente che più di qualcuno abbia dei problemi importanti a livello psichico e trova come unico canale di sfogo la tastiera. Vedete che la quarantena vi fa molto male? Infine, l’aggiornamento si chiude, con la dichiarazione del Capo del Dipartimento della Protezione Civile, Angelo Borrelli, dove dichiara APERTAMENTE che loro comunicano giornalmente TUTTI i deceduti.
Da Gennaio a Novembre 2019 in Italia sono stati registrati 590.449 decessi.
MEDIA MENSILE: 53.677 decessi
MEDIA GIORNALIERA: 1.767 decessi
TRIMESTRE GENNAIO-MARZO 2019: 185.967 decessi
LOMBARDIA: Da gennaio a novembre 2019 sono morte 92.936 persone.
MEDIA MENSILE 8.448
MEDIA GIORNALIERA 278
TRIMESTRE GENNAIO-MARZO 2019: 29.593 decessi
EMILIA ROMAGNA: Da gennaio a novembre 2019 sono morte 46.517 persone.
MEDIA MENSILE 4.228
MEDIA GIORNALIERA 139
TRIMESTRE GENNAIO-MARZO 2019: 14.502 decessi
VENETO: Da gennaio a novembre 2019 sono morte 45.217 persone.
MEDIA MENSILE 4.110,63
MEDIA GIORNALIERA 135
TRIMESTRE GENNAIO-MARZO 2019: 13.934 decessi
FRIULI VENEZIA GIULIA: Da gennaio a novembre 2019 sono morte 13.119 persone.
MEDIA MENSILE 1.192
MEDIA GIORNALIERA 39
TRIMESTRE GENNAIO-MARZO 2019: 4.040 decessi
LIGURIA: Da gennaio a novembre 2019 sono morte 19.818 persone.
MEDIA MENSILE 1.801
MEDIA GIORNALIERA 59
TRIMESTRE GENNAIO-MARZO 2019: 6.028 decessi
PIEMONTE Da gennaio a novembre 2019 sono morte 49.268 persone.
MEDIA MENSILE 4.478
MEDIA GIORNALIERA 147
TRIMESTRE GENNAIO-MARZO 2019: 15.620 decessi
TRENTINO ALTO ADIGE: Da gennaio a novembre 2019 sono morte 10.758 persone.
MEDIA MENSILE 978
MEDIA GIORNALIERA 32
TRIMESTRE GENNAIO-MARZO 2019: 2.640 decessi
Confrontiamo i dati delle tre regioni più colpite dal COVID-19 Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna con quelle nazionali:
ANNO (11 MESI): 184.670 / 590.449 decessi. Il 31,9 % del totale.
MEDIA MENSILE: 16.786 / 53.677 decessi. Il 31,9 % del totale.
MEDIA GIORNALIERA: 552 / 1.767 decessi. Il 32% del totale.
TRIMESTRE GENNAIO-MARZO 2019: 58.029 / 185.967 decessi. Il 32% del totale.
MORTI IN ITALIA PRIMO TRIMESTRE ANNO 2019 E ANNO 2020
Dal 01/01/2019 AL 31/03/2019: 185.967 (senza Coronavirus)
Dal 01/01/2020 AL 31/03/2020: 165.367 (con Coronavirus)
20.000 circa morti in meno rispetto all’anno precedente.
Coronavirus, "a marzo 2019 15 mila morti per polmoniti varie". Pubblicato da adnkronos.com il: 02/04/2020. A marzo 2019 i morti per polmoniti varie sono stati 15 mila, e quindi sono morte più persone per malattie respiratorie di quest'anno per Coronavirus. Lo spiega il presidente Istat, Gian Carlo Blangiardo, in un'intervista ad Avvenire. ''Stiamo collaborando intensamente con il ministero della Salute per costruire indagini sul campo che ci aiutino a vedere la parte sommersa dell'iceberg Covid'', spiega Blangiardo. Quindi, sottolinea il presidente dell'Istat, studieremo gli asintomatici e i paucisintomatici ''insomma quel popolo invisibile dei malati che si curano da soli, o che non sanno neanche di aver contratto il virus. Stiamo costruendo un'indagine, ma la procedura sarà diversa da quella tradizionale. Si tratterà di cogliere un campione molto ampio e rappresentativo della popolazione italiana, che sarà analizzato con procedure sanitarie: tamponi, esami del sangue, ecc. Cerchiamo di capire anche il cosiddetto effetto gregge''. Blangiardo evidenzia che ''l'Italia ha una demografia molto anziana. I primi due mesi di quest'anno per la mortalità erano stati buoni, con livelli più bassi rispetto agli stessi mesi del passato. E' brutto dirlo, ma la mortalità aveva risparmiato soggetti fragili, i primi poi a cadere quando è arrivata la ventata indotta dal Civid-19''. ''E' ancora presto per fare stime sui decessi -continua Blangiardo-. Ci sono i morti da Covid, quelli colpiti indirettamente da Covid, che per un ingolfamento e la debolezza della struttura sanitaria non hanno potuto avere la cura dovuta, e poi ci sono le morti non legate alla pandemia. Nel complesso c'è stato un aumento molto importante e lo scopriremo a conti fatti. Ma ricordiamoci sempre, quantomeno, che questa non è la 'spagnola', quando ci furono più di mezzo milione di morti in Italia''.
Paolo Viana per avvenire.it il 7 aprile 2020. Sarebbe bastata la nota del 31 marzo – quella sul raddoppio dei decessi al Nord nei primi 21 giorni di marzo – per capire che «l’Istat c’è», come dice in quest’intervista il presidente Gian Carlo Blangiardo, annunciando che i 2.200 dipendenti dell’Istituto di statistica, tutti in smart working a casa loro, «stanno collaborando intensamente con il ministero della Salute per costruire indagini sul campo che ci aiutino a vedere la parte sommersa dell’iceberg Covid». E rivela: numeri alla mano, nello stesso periodo di tempo, l’anno scorso, sono morte più persone per malattie respiratorie che quest’anno per Covid-19.
Quindi, Istat studierà gli asintomatici?
«Proprio loro – risponde il demografo – e i paucisintomatici, insomma quel popolo invisibile dei malati che si curano da soli, o che non sanno neanche di aver contratto il virus».
Come li individuerete?
«Stiamo costruendo l’indagine, ma la procedura sarà diversa da quella tradizionale. Si tratterà di cogliere un campione molto ampio e rappresentativo della popolazione italiana, che sarà analizzato con procedure sanitarie: tamponi, esami del sangue, ecc. Cercheremo di capire anche il cosiddetto effetto gregge».
Che impatto ha fare molti o pochi test nel valutare patogenicità e mortalità?
«Lo sapete anche voi che cambia tutto».
La parte sommersa dell’iceberg è formata anche dai morti che nessuno ha mai censito, questo ormai lo ammette anche l’Istituto superiore di sanità... Riuscirete a capire quanti sono?
«Noi ci esprimiamo con i numeri che riusciamo a raccogliere e a validare. Quando affermiamo che nei primi 21 giorni di marzo al Nord i decessi sono più che raddoppiati rispetto alla media 2015-19 non è una impressione, ma un dato. Quando scriviamo che a Bergamo i decessi sono quasi quadruplicati passando da una media di 91 casi nel 2015-2019 a 398 nel 2020, riferiamo delle evidenze. Idem quando denunciamo «situazioni particolarmente allarmanti» nel Bresciano oppure un maggiore incremento dei decessi degli uomini e delle persone maggiori di 74 anni di età. Lavoriamo per ampliare queste conoscenza, ma dobbiamo tenere conto del fatto che la trasmissione dei dati è più lenta e complicata di quel che si vorrebbe in condizioni ordinarie, figuriamoci in un’emergenza sanitaria. Quando l’Istat fornisce un valore, quello è stato trattato secondo standard europei».
Restiamo nella parte bassa dell’iceberg: quanti morti erano già malati?
«Abbiamo tre tipi di morti: quelli che ricollegabili soprattutto al Covid, con o senza altre patologie; coloro che non muoiono di Covid ma per Covid, cioè ad esempio infartuati che in condizioni normali si salverebbero; i morti che non hanno contratto Covid. Noi siamo in grado di dare elementi sui decessi, distinguerli per 21 fasce d’età e farlo estraendo questi numeri dall’anagrafe centralizzata, in modo da dare ai decisori preziosi elementi di valutazione. Per l’approfondimento delle schede di morte c’è l’Istituto Superiore di sanità».
Questo, comunque, è un virus per vecchi?
«Sì, i dati che stanno emergendo circa la mortalità dicono chiaramente che colpisce in maniera molto prevalente persone anziane: è quasi un terribile processo di selezione naturale che elimina i soggetti deboli. Terribile. Ma ancor più terribile perché appare in qualche modo facilitato dalla nostra capacità di curarli».
Cosa intende?
«La chiamo la maledizione degli anni pari. Il 2019, come tutti gli anni dispari, ha visto una regressione dei decessi. L’anno pari inizia bene, ma poi arriva marzo, con un virus che falcia coloro che la morte aveva risparmiato...»
Il Servizio sanitario nazionale cura allo stesso modo tutte le fasce d’età?
«Sì e sarebbe una barbarie, altrimenti. Non abbiamo dati che facciano pensare il contrario. Se ci sono risorse scarse, questa scarsità si è ripercossa in modo lineare su tutte le fasce d’età».
Di solito si salvano prima le donne e i bambini. Perché qui il rapporto s’inverte?
«Ci sono patologie relazionate all’età e al sesso, non è una novità».
Dal 21 febbraio al 31 marzo sono morte 12.428 persone per Covid 19. Quanti sono i morti di influenza nel mese di marzo (nel quale, quest’anno, si sono concentrati i decessi di coronavirus) degli anni scorsi?
«Più che i morti per influenza, che è più difficile da attribuire come effettiva causa di morte, conviene ricordare i dati sui certificati di morte per malattie respiratorie. Nel marzo 2019 sono state 15.189 e l’anno prima erano state 16.220. Incidentalmente si rileva che sono più del corrispondente numero di decessi per Covid (12.352) dichiarati nel marzo 2020».
Questo non è un Paese per bambini: dopo il Covid sarà peggio?
«Temo un effetto Chernobyl, una preoccupazione che disincentiva la natalità. Ma qui parla il demografo, non il presidente dell’Istat, perché dati statistici ancora non ce ne sono».
Quale impatto economico stimate per il lockdown?
«Stiamo valutandolo. Nel documento che abbiamo presentato al Parlamento in un’audizione presso la Commissione bilancio del Senato, i dati economici relativi ai settori che hanno subito la sospensione delle attività mostrano come il lockdowncoinvolga 2,2 milioni di imprese (il 48,8% del totale), oltre 7 milioni di addetti (il 42,8%), con un valore aggiunto annuo di poco meno di 300 miliardi. È ancora presto per definire scenari, anche se c’è poco da stare allegri, visto che, come abbiamo comunicato in questi giorni, l’epidemia Covid-19 è intervenuta in un momento in cui in Italia la fase di ripresa ciclica perdeva vigore, per via della Brexit, dei dazi statunitensi e del rallentamento della domanda tedesca. Comunque, nella Nota mensile che verrà pubblicata il prossimo 7 aprile presenteremo interessanti simulazioni di impatto economico (diretto e indiretto) delle limitazioni delle attività produttive».
CHI PIU’.
Inps: poco attendibili i dati della Protezione civile. I morti sono quasi 19mila in più. Pubblicato giovedì, 21 maggio 2020 su Corriere.it da Carlotta De Leo. L’Inps rivede i conti della pandemia: secondo uno studio dell’Istituto di previdenza, in Italia tra marzo e aprile ci sarebbero circa 19mila vittime in più concentrate soprattutto al Nord (+84%). Decessi dovuti al coronavirus sfuggiti alle stime quotidiane della Protezione civile che l’Istituto di previdenza definisce «ormai poco attendibili». Mancherebbero all’appello, soprattutto, le persone morte in casa (e non in ospedale) e quelle che non sono state sottoposte a tampone. Dalla Protezione civile per ora nessun commento, del resto di tratta di dati che non vengono considerati paragonabili. Nello studio «Analisi della mortalità nel periodo di epidemia da Covid-19» l’Inps evidenzia come le cose all’inizio del 2020 andassero piuttosto bene: a gennaio e febbraio i morti in Italia sono stati 124.662 (10 mila in meno rispetto alle attese). Poi c’è stata una brusca inversione di tendenza: i decessi tra marzo e aprile sono schizzati a 156.429, ovvero 46.909 in più rispetto alle stime. Di questi decessi, solo 27.938 sono state dichiarati come Covid-19. Ma l’Istituto di previdenza precisa che «la quantificazione dei decessi per Covid-19, condotta utilizzando il numero di pazienti deceduti positivi fornito su base giornaliera dal Dipartimento della Protezione Civile, è considerata, ormai, poco attendibile». La stima, infatti, è influenzata «dalla modalità di classificazione della causa di morte» e dall’esecuzione di un test con esito positivo. Inoltre, «se il decesso avviene in casa è molto difficile il tampone venga fatto». «A questo punto ci si può chiedere: quali sono i motivi di un ulteriore aumento di decessi pari a 18.971, di cui 18.412 tutti al Nord?». La risposta dell’Inps è chiara: tenuto conto che il numero di decessi è piuttosto stabile nel tempo, «con le dovute cautele si può attribuire all’epidemia in atto una gran parte dei maggiori decessi avvenuti negli ultimi due mesi». Quindi, quasi 47mila. Inoltre, spiega l’Inps, «la distribuzione territoriale dei decessi strettamente correlata alla propagazione dell’epidemia e la maggiore mortalità registrata degli uomini rispetto alle donne è coerente con l’ipotesi che la sovra-mortalità sia dovuta a un fattore esterno, in assenza del quale una eventuale crescita di decessi dovrebbe registrare delle dimensioni indipendenti sia dal territorio che dal sesso». I decessi tra marzo e aprile al Nord, quindi, sono aumentati dell’84% rispetto alla media degli anni precedenti a fronte di un aumento del 11% al Centro e del 5% al Sud. L’aumento dei decessi tra marzo e aprile, con diversa intensità, «riguarda tutto il territorio nazionale ma soprattutto il Nord Italia dove si ha quasi un raddoppio del numero dei morti giornalieri (da 830 a 1.527 al giorno)». In particolare, spiega l’Inps, «la distribuzione per classi di età evidenzia un aumento del numero dei decessi giornalieri per tutte le fasce. In particolare, al nord nelle fasce 70-79 e 80-89 raddoppiano quasi il numero dei decessi mentre nel centro sud l’aumento è decisamente contenuto». Al 30 di aprile le province più colpite risultano Bergamo, Brescia, Cremona, Lodi e Piacenza. In queste aree, «l’età media al decesso di 81,5 (78 anni per i maschi e 85 per le femmine). La percentuale di donne è risultata del 44,5%», a conferma che il virus colpisce maggiormente gli uomini ( 53,8%). L’andamento dei decessi tra marzo e aprile, secondo l’Inps, «è stato condizionato non solo dall’epidemia, ma anche dalle conseguenze del lockdown». Conseguenze negative come «persone morte per altre malattie perché non sono riuscite a trovare un letto d’ospedale o perché non vi si sono recate per paura del contagio» spiega l’Inps. Ma anche conseguenze positive come «la riduzione delle vittime della strada o degli infortuni sul lavoro». In ogni caso, conclude l’Istituto di previdenza , «per comprendere al meglio le vere conseguenze dell’epidemia si dovrà aspettare di debellare completamente il virus, con il vaccino o una terapia antivirale efficace».
(ANSA l'8 maggio 2020)- -Sono state 25.354 le morti in più registrate dall'Istat dal 20 febbraio al 31 marzo, pari al 39% in più rispetto allo stesso periodo degli anni precedenti, "dei quali poco più della metà sono attribuibili a Covid diagnosticato". Lo ha detto il presidente dell'Istat, Giancarlo Blangiardo, nella conferenza stampa organizzata dall'Istituto Superiore di Sanità (Iss). I dati riguardano 6.866 Comuni e, ha detto Blangiardo, "non si tratta di un campione, ma di una selezione ragionata per avere un quadro della situazione il più completo possibile". In particolare, delle oltre 25.000 morti in più registrate dal 20 febbraio al 31 marzo 2020, ha proseguito il presidente dell'Istat, il 54% (13.710) sono avvenute a causa della Covid-19 e il 46% è avvenuto per cause direttamente o indirettamente legate alla Covid-19. Sulle donne l'impatto del virus è più contenuto. Lo ha affermato il presidente dell'Istat, Giancarlo Blangiardo, alla conferenza stampa settimanale organizzata dall'Istituito superiore di sanità.
Mancano oltre 10mila morti: ecco la verità sul coronavirus. Nella sola Lombardia sarebbero 7mila i decessi in più che non sono stati conteggiati. Secondo uno studio le vittime nei mesi di marzo e aprile sarebbero di molto superiori. Valentina Dardari, Giovedì 23/04/2020 su Il Giornale. I numeri dei morti divulgati non sarebbero quelli reali. E un po’ lo si era capito. A confermare questa idea ci sono gli scienziati e le statistiche. Un po’ come ha fatto la scorsa settimana Wuhan, anche noi adesso dobbiamo rivedere i nostri conteggi. Come riportato da Repubblica, a conferma di ciò c'è uno studio elaborato da un gruppo di esperti, tra i quali i fisici Giorgio Parisi, Enzo Marinari, Federico Ricci-Tersenghi, Luca Leuzzi e il biologo Enrico Bucci. Gli scienziati si sono soffermati sui dati forniti dall’Istat, relativi ai decessi nel nostro Paese nel periodo tra il 22 febbraio e il 4 aprile.
Numeri paragonati agli anni precedenti. Questi numeri sono poi stati paragonati con quelli degli anni precedenti riferiti agli stessi periodi presi in esame quest’anno. Ebbene, è stato osservato che, nelle regioni maggiormente colpite dall’epidemia coronavirus, il numero di decessi è risultato essere molto più alto della media stagionale. Ma non solo, sarebbe di molto superiore ai numeri divulgati dalla Protezione Civile, catalogati come conseguenza del contagio da Covid-19. Se prendiamo per esempio la Lombardia, negli anni scorsi morivano circa 11mila persone. Quest’anno, nello stesso periodo, i decessi sono stati 27mila, dei quali, solo 9mila sono stati certificati come dovuti al coronavirus. Mancano quindi all’appello settemila morti. Che non sono proprio pochi. Idem in Emilia Romagna dove ci sono 1.100 morti in più rispetto a quelli certificati, e in Liguria, dove il numero si aggira intorno a quota 400. Insomma, la Protezione Civile sembra essersi persa qualche morto lungo la strada. Ma quanti per l’esattezza?
Sono 10mila i decessi non conteggiati. Secondo lo studio divulgato, “al 4 aprile 2020 il numero reale di decessi in eccesso dovuti all'epidemia (in modo diretto ed indiretto) era circa 25.000”. Mentre lo stesso giorno il bollettino ufficiale parlava di un totale di 15.362 morti. Più o meno 10mila decessi in meno. Ma sono quindi tutti morti a causa del virus? Secondo gli studiosi le ipotesi sono fondamentalmente due. La prima è che queste possano “essere morti da coronavirus avvenute fuori dagli ospedali e dunque non certificate per questo motivo. Oppure si potrebbe trattare di decessi causati indirettamente dall'epidemia: molte persone, che avrebbero avuto bisogno di cure per altre patologie o incidenti, hanno rinunciato a rivolgersi alle strutture sanitarie perché le sapevano al collasso, o se lo hanno fatto non sono state assistite”. Per esempio a Bergamo, dove le vittime ufficiali sono state 2.425, ma in realtà ve ne sarebbero altre 3mila non riportate nel conteggio. Forse perché le strutture ospedaliere erano zeppe e sono quindi morti a casa.
Il picco c'è stato prima. Per spiegare meglio la situazione, gli scienziati hanno preso in considerazione l’idea che il Covid-19 uccida più uomini che donne. Nei 10mila decessi che mancano all’appello non vi sarebbe questa distinzione. A questa analisi risultano quindi importanti le morti causate indirettamente dal coronavirus. Nella Regione Lombardia ci sarebbero stati 5mila morti non-Covid e 10mila Covid, la metà esatta. Vittime che si sarebbero potute salvare se le strutture ospedaliere non fossero state al collasso. Come sottolineato da Enrico Bucci, questo dato “dovrebbe far riflettere profondamente su quanto l' organizzazione dell'emergenza e il mantenimento dei servizi essenziali permetta di ridurre l' impatto di una epidemia”. Secondo quanto emerso dallo studio, il picco dei decessi sarebbe inoltre avvenuto prima rispetto ai numeri ufficiali divulgati. Ciò vuol dire che nella prima fase dell’epidemia molti morti sono andati persi.
Luca Ricolfi per “il Messaggero” l'8 aprile 2020. È una congettura. Solo una congettura. E speriamo pure che sia sbagliata. Però sono troppi giorni che giro e rigiro i dati Istat sulla mortalità nei comuni italiani, e non riesco a scacciare il dubbio. Quindi eccomi qua, provo a raccontare quel che viene fuori. Una decina di giorni fa l'Istat ha reso pubblici dei dati sull'andamento della mortalità in due periodi comparabili, ossia le prime 3 settimane di marzo 2019 e le prime 3 settimane di marzo 2020. I dati non riguardano tutti i comuni, ma solo una parte (di qui il tono dubitativo del mio discorso) di quelli in cui vi sono stati scostamenti apprezzabili fra la mortalità di quest'anno e quella dell'anno scorso. Ebbene, in molti comuni è successo quello che per la prima volta venne denunciato dal sindaco di Bergamo, Giorgio Gori, qualche settimana fa. Ovvero: i morti in eccesso rispetto all'anno scorso, sono molto più numerosi dei morti ufficiali per Covid-19 comunicati dalla Protezione Civile. E poiché non sembrano esserci spiegazioni plausibili per questo eccesso di mortalità, che non si è verificato solo a Bergamo ma in numerosi altri comuni, pare inevitabile concludere che i morti effettivi per Covid-19 siano molti di più di quelli ufficiali. Su questa conclusione vi è sostanziale accordo fra quanti (studiosi e non) hanno nei giorni scorsi provato a maneggiare i dati della mortalità. Il dubbio è solo se i morti effettivi siano 2, 3 o 4 volte di più dei morti accertati. Sembra che il moltiplicatore sia circa 3, ma il fatto che il campione Istat non includa tutti i comuni, bensì solo comuni con scostamenti anomali della mortalità non può che indurre alla prudenza. Fin qui tutto (relativamente) chiaro. Se però andiamo un po' più a fondo, e ci prendiamo la briga di distinguere fra le varie zone del Paese, ecco che ci si presenta un dato scioccante: contrariamente a quanto siamo portati a pensare basandoci sulle morti ufficiali per Covid-19, il Mezzogiorno non risulta affatto un'isola felice, relativamente preservata dal virus, ma ha numeri paragonabili a quelli del resto dell'Italia. Che cosa vuol dire paragonabili?
Vediamo. Secondo la Protezione Civile il numero di morti da Covid-19 per 100 mila abitanti è 46.5 nelle regioni della zona rossa (Lombardia, Veneto, Emilia Romagna, Marche), 2.6 nelle regioni del Sud (incluso il Lazio), 15.0 nel resto d'Italia. Dunque al Sud la mortalità da Covid-19 è quasi 20 volte più bassa che nella zona rossa, un ovvio motivo di conforto per chi vive nelle regioni relativamente preservate. Ma se, anziché usare i dati dei morti ufficiali, usiamo gli eccessi di mortalità desumibili dai dati Istat, i numeri cambiano completamente: le morti attribuibili al Covid-19 sono 104 ogni 100 mila abitanti nella zona rossa, e sono ben 66 su 100 mila abitanti nel Sud. Dunque sono un po' di più della metà, non un ventesimo. Possiamo anche metterla così. Se prendiamo per buone le stime desumibili dai dati Istat, dobbiamo concludere che nelle regioni della zona rossa si sono attribuiti al Covid 45 casi contro 100 effettivi, mentre al Sud se ne sono riconosciuti meno di 5 su 100. Detto ancora più crudamente: se vuoi sapere quanti sono i decessi effettivi per Coronavirus, ti basta moltiplicare per 2 se sei in una regione della zona rossa, ma devi moltiplicare almeno per 20 se sei in una regione del Mezzogiorno. In breve e in conclusione: per avere il numero effettivo dei morti non ci occorre solo un moltiplicatore (più o meno prossimo a 3), ma ne dobbiamo usare più di uno, molto diversi da un territorio all'altro.
Non voglio tediare il lettore con le infinite precisazioni e distinguo che sono doverose in un saggio scientifico (chi fosse interessato può leggerne alcune nel sito della Fondazione Hume: fondazionehume.it), ma mi limito a due considerazioni, una tecnica e una di sostanza. La considerazione tecnica è che è molto difficile ipotizzare che l'enorme sotto-diagnosi dei casi di Covid-19 al Sud sia interamente, o in gran parte, dovuta alla non rappresentatività del campione di comuni fornito dall' Istat. E' verosimile che con un campione di comuni rappresentativo l'entità della sotto-diagnosi possa attenuarsi, ma è quanto mai implausibile supporre che le differenze territoriali emerse fin qui miracolosamente scompaiano o diventino trascurabili. La considerazione di sostanza è che, ove si confermasse che la sotto-diagnosi al Sud (ma anche in alcune zone del Nord) è enorme, tipo 9 casi dimenticati su 10, occorrerebbe capire come ciò sia stato possibile. L'unico indizio che sono riuscito a trovare è che l'entità della sotto-diagnosi è fortemente correlata con il sottodimensionamento dei posti letto, come se la percentuale di casi Covid-19 individuati e correttamente classificati fosse in qualche modo connessa alla forza e all'ampiezza della rete ospedaliera. Resta un'ultima osservazione, forse la più rilevante: se il Covid-19 è diffuso in modo comparabile in tutte le aree del Paese, non sarà facile pianificare una ripartenza per grandi blocchi, con le zone verdi del Sud che riaprono molto prima delle zone rosse del centro-nord. Anche perché, se a questo punto dell'epidemia i punti di partenza sono molto più ravvicinati di quanto finora si è supposto, non è affatto detto che la meta dei contagi-zero sia raggiunta prima da una metà del Paese e dopo dall'altra. La gara per arrivare primi in zona contagi-zero è aperta, e ogni Regione, ogni Provincia, ogni Comune dovrà giocare fino in fondo le proprie carte.
I morti in Italia nel 2020. By Neil il 02/04/2020 su butac.it. Il ciclo delle notizie è chiaramente monopolizzato dalla pandemia, e nuovo argomento di dibattito è il numero dei morti per via del nuovo coronavirus. A parte il legittimo dibattito sul metodo di conteggio dei morti causati direttamente o indirettamente dal virus, sembra che non ci sia modo di evitare che alcuni partano con campagne a suon di post e condivisioni, sostenendo che i morti siano molti di meno o molti di più.
L’Istat ha pubblicato il 1° aprile una serie di dati parziali sui decessi in Italia che possono essere molto utili, ma partiamo subito con alcune considerazioni:
I dati si riferiscono a tutti i decessi, non sono solo quelli per COVID-19.
I dati diffusi sono parziali, si riferiscono a 1084 comuni sui 5866 che fanno parte del sistema ANPR (Anagrafe Nazionale della Popolazione Residente).
I comuni che fanno parte dell’ANPR sono circa il 75% dei comuni italiani.
I dati si riferiscono solo ai comuni “verificati”, cioè i comuni con un numero di decessi che, nel periodo 1° gennaio-21 marzo 2020, è risultato superiore o uguale a 10 unità e che nel mese di marzo del 2020 hanno presentato, rispetto alla corrispondente media del quinquennio 2015-2019, un incremento della mortalità pari ad almeno il 20%. Qui trovate la nota esplicativa dell’ISTAT. Ovviamente questi dati verranno aggiornati appena l’Istituto avrà raccolto e verificato gli altri comuni. Cosa ci dicono quindi i dati finora? Essendo dati parziali bisogna stare attenti a trarre conclusioni, anche perché il contagio non è omogeneo sul territorio italiano. Aggiorneremo anche noi di volta in volta questo articolo per tenervi aggiornati sui dati.
Dato globale. Il dato più semplice si ricava confrontando i totali degli anni che vanno dal 2015 al 2020 dal 1° gennaio al 21 marzo.
2015: 34339
2016: 30411
2017: 35018
2018: 33520
2019: 33575
2020: 40244
La media quindi dei comuni finora verificati dal 2015 al 2019 è di 33372. Il totale del 2020 mostra un aumento importante. Come si può vedere il totale può avere variazioni notevoli, basta vedere la differenza tra il 2016 e il 2017 che è infatti poco meno della differenza tra il 2017 e il 2020. Questo significa che con dati parziali non si possono trarre conclusioni definitive, ma la tendenza è evidente. Nella nota linkata sopra viene fatta presente una cosa molto importante per la valutazione dei dati raccolti: L’incremento della mortalità complessiva osservato nel mese di marzo rappresenta una brusca inversione di tendenza dell’andamento della mortalità giornaliera dei mesi di gennaio e febbraio 2020. Nei primi due mesi del nuovo anno, infatti, i decessi erano stati inferiori al numero medio osservato nello stesso periodo nel 2015-2019. Un fenomeno che può ritenersi attribuibile al ridotto impatto nei primi due mesi dell’anno dei fattori di rischio stagionali (condizioni climatiche ed epidemie influenzali). Ciò spiega come mai, se si considera il complesso dei decessi dal primo gennaio al 21 marzo 2020, in diversi comuni non si ravvisa un aumento, ma piuttosto una diminuzione del numero dei morti, rispetto al dato medio dello stesso periodo degli anni 2015-2019. Nel mese di marzo quindi è concentrato l’aumento rispetto agli anni precedenti, dando supporto alla tesi che l’incremento sia da attribuire all’infezione da coronavirus esplosa a cavallo tra febbraio e marzo 2020.
Dati specifici. Quello che però può essere molto utile e molto più esplicito al momento sono i dati dei singoli comuni, dove in alcuni casi l’aumento è straordinario. I dati li potete trovare qui, questi dati si riferiscono solo ai morti dal 1 al 21 di marzo. Il file non è perfetto dato che la variazione percentuale non è segnata correttamente per tutti i comuni, ma se andiamo a considerare le “zone rosse” la differenza è importante:
Bergamo: anno 2019 101 morti, anno 2020 398 morti.
Codogno: anno 2019 15 morti, anno 2020 87 morti.
Brescia: anno 2019 134 morti, anno 2020 281 morti.
Ci sono anche comuni dove nell’anno 2019 si sono viste pochissime morti e nel 2020 numeri completamente diversi. Prendiamo come esempio sempre le aree che sappiamo più colpite:
Gorle (BG): anno 2019 1 morto, anno 2020 23 morti.
Castiglione D’adda (LO): anno 2019 3 morti, anno 2020 43 morti.
Alzano Lombardo (BG): anno 2019 8 morti, anno 2020 83 morti.
Guardando i dati dei comuni in provincia di Bergamo, Cremona, Brescia e Lodi possiamo capire perché gli ospedali abbiano avuto difficoltà, alcuni incrementi percentuali sono enormi. Bisogna anche tenere presente che mancano gli ultimi dieci giorni di marzo, perciò la situazione reale è con tutta probabilità ancora più grave.
Conclusione?
Al momento quello che possiamo dire con certezza è che l’incremento dei decessi nelle zone più colpite è notevole: i dati verificati dimostrano che c’è stato un numero anomalo di decessi rispetto all’anno scorso, e il fatto che l”aumento sia concentrato nel mese di marzo non può essere stato che a causa dell’epidemia dovuta al coronavirus. Ovviamente servono più dati, e più specifici, e l’ISTAT li fornirà sicuramente.
Virus. L'Istat confronta i morti del 2019. Pino Ciociola mercoledì 1 aprile 2020 su Avvenire. Il bollettino della Protezione civile. E l'Istat: i decessi di anziani raddoppiati al Nord rispetto agli anni passati e quadruplicati a Bergamo. Crescono nuovamente i contagi, il numero dei morti rimane alto, ma in lieve flessione. Ecco l’aggiornamento quotidiano nazionale (insieme ai numeri dei due giorni precedenti) reso noto da Angelo Borrelli, capo del Dipartimento della Protezione Civile. I nuovi contagi sono 2.937 (l’altro ieri 1.648 e ieri 2.107). Fra questi, 1.565 in Lombardia, con il doppio dei tamponi effettuati ieri (l’altro ieri erano stati 1.154 e ieri 1.047). Sempre rispetto a ieri, i guariti sono 1.118 (l’altro ieri 1.590 e ieri 1.109). I decessi restano molti, 727 (l’altro ieri 812, ieri 837), fra questi, sono 394 le vittime in Lombardia (458 l’altro ieri, 381 ieri). I ricoverati nelle terapie intensive, infine, sono 4.035 (l’altro ieri 3.981, ieri 4.023). Dei quali 1.342 in Lombardia, tornando a crescere (più 18 sempre rispetto a ieri, 1.324).
Altri numeri. Pesantissimi. Secondo l’Istat, nei primi 21 giorni di marzo il coronavirus ha raddoppiato i decessi in alcune zone del Nord e a Bergamo addirittura li ha quadruplicati (“da una media di 91 casi nel 2015-2019” si è passati “ai 398 nel 2020”). L’Istituto ha analizzato le morti appunto nei primi 21 giorni del mese finito ieri e li ha rapportati alla media registrata dello stesso periodo dal 2015 al 2019. E “incrementi della stessa intensità registrata Bergamo, quando non superiori - annota l’Istat -, interessano la maggior parte dei comuni della provincia bergamasca”. L’Istituto spiega che “l’incremento dei decessi è ravvisabile solo a partire dalla fine di febbraio e dalla prima settimana di marzo ed è concentrato nei comuni del Nord e del Centro in cui l’epidemia si è diffusa di più”. Con gli aumenti “ragguardevoli non solo nei centri urbani maggiori, ma anche in realtà comunali di dimensioni demografiche più contenute”.
Ancora. “Situazioni particolarmente allarmanti – si legge – si riscontrano anche nella provincia di Brescia, nel cui capoluogo i decessi nelle prime tre settimane di marzo sono più che raddoppiati: da 134 nel 2015/2019 a 381 nel 2020. Va ancora rilevato come incrementi superiori al 200% siano presenti anche in capoluoghi come Piacenza o Pesaro. Considerando il genere e la classe di età dei deceduti, si conferma il maggiore incremento dei decessi degli uomini e delle persone maggiori di 74 anni di età”.
Coronavirus, a marzo anche a Milano la mortalità è raddoppiata. Davide Mancino il 3 aprile 2020 su infodata.ilsole24ore.com. Dopo l’arrivo del Covid-19 a Milano e in diverse grandi città la mortalità generale è praticamente raddoppiata, mostrano gli ultimi dati del sistema di sorveglianza della mortalità giornaliera (Sismg).
A febbraio 2020 a Milano erano morte circa 230-240 persone a settimana, poi arrivate a 473 a metà marzo e 561 nella settimana successiva. A Brescia erano decedute fra 30 e 40 persone circa ogni settimana, ma a cominciare dalla seconda e terza settimana di marzo i morti sono arrivati prima a 84, poi a 106 per poi calare leggermente a 101. A Genova – altro esempio – i decessi erano andati da un minimo di 128 a un massimo di 169 a febbraio, ma hanno raggiunto i 302 dal 21 al 27 marzo. I numeri sono ancora più preoccupanti per un’altra ragione. Non includono l’area di Bergamo, zona più colpita d’Italia e che tuttavia non fa parte delle città censite dal sistema di monitoraggio. Lì, secondo altri numeri resi disponibili dall’Istat, rispetto all’identico periodo del 2019 i morti sono quadruplicati: erano 101 dall’1 al 21 marzo dell’anno scorso, sono arrivati a 398 nel 2020. Le statistiche di Istat e Sismg fanno comunque riferimento a periodi di tempo diverso e non possono essere confrontate direttamente fra loro. Restando al capoluogo lombardo, troviamo che sempre secondo Istat rispetto all’identico periodo del 2019 ci sono stati il 17% di morti in più. Ci riferiamo qui di nuovo ai giorni che vanno dall’1 al 21 marzo, e che proprio per questo non catturano ancora l’intera portata dell’epidemia: lì il grosso dei decessi si è verificato appunto a cominciare da metà mese circa. I numeri dell’agenzia nazionale di statistica mostrano anche che la mortalità è cresciuta moltissimo soprattutto per gli anziani. Nel 2019 erano morte 88 persone fra 65 e 74 anni, poi arrivate a 113. Solo leggermente cresciuti i decessi per i 75-84enni, mentre per ultra-85enni le morti sono passate da 439 a 546. Questo comunque non vuol dire che i giovani o i sani siano immuni: tra le vittime lombarde ci sono decine e decine di persone sotto i 60 anni e senza particolari problemi di salute precedenti. Sempre a Milano – anche se questo in effetti vale un po’ ovunque – gli uomini risultano colpiti più gravemente delle donne, e fanno registrare un maggior numero di morti. “I risultati mostrano una forte differenza dell’incremento di mortalità osservato per genere, pari a +63% negli uomini e +39% nelle donne nelle città del nord. […] Nelle donne il trend di incremento per fasce di età mostra un incremento inferiore al 20% fino a 74 anni nelle donne del nord ed un incremento circa del 40% nelle classi più anziane, sopra i 75 anni, mentre nelle donne del sud l’eccesso di registra solo nella classe di età 85 o più”. Tuttavia, come ricordano gli autori, i possibili meccanismi che spiegano queste differenze di genere non sono ancora chiari. Per capire come stanno andando il modo migliore è fare un paragone con gli anni precedenti. Come sono cambiate le cose? Questo è un periodo dell’anno in cui, di solito, la mortalità tende a diminuire e non a crescere moltissimo come invece sta facendo. Succede perché i due grandi picchi nei decessi avvengono in inverno per le “basse temperature e le epidemie influenzali”, come spiega un rapporto SISMG precedente, in estate per le ondate di calore. In teoria a questo punto della stagione il grosso dell’influenza dovrebbe essere passato e i morti diminuiscono, ma in pratica l’arrivo del Covid-19 ha mandato fuori scala le rilevazioni. Nel momento in cui ci troviamo, mostrano le analisi del Sismg, la mortalità media giornaliera al nord – dove l’epidemia è ormai diffusa – risulta di molto superiore a quella registrata nei cinque anni precedenti. “I grafici città specifici, si legge nell’ultimo rapporto, evidenziano gli incrementi della mortalità totale a Milano, Brescia e Genova rispettivamente a partire dal 6, 8 e 10 marzo. In termini di mortalità settimanale, a Brescia l’incremento si osserva a partire dalla settimana del 7-13 marzo. soprattutto nella classe di età 85+ anni. A Milano e Genova, l’incremento si osserva a partire dalla settimana del 14-20 marzo nella classe di età 75-84 anni. Un incremento minore della mortalità si osserva anche a Bolzano dal 12 marzo (a carico soprattutto della classe 75-84 anni), a Torino dal 18 marzo, a Verona dal 15 marzo e a Bologna dal 17 marzo”. Al centro-sud, d’altra parte, “si osserva un incremento della mortalità giornaliera a Perugia, Civitavecchia, Roma, Messina e Potenza. In particolare la mortalità settimanale evidenzia un incremento a carico della classe di età 75-84 anni a Roma, Perugia e Messina. Il primo rapporto conclude ricordando che “i dati del Sismg rappresentano l’unica fonte disponibile in Italia (ed uno dei pochi sistemi in Europa) in grado di monitorare in tempo reale l’andamento della mortalità totale e di stimare, per le principali città italiane, l’eccesso di mortalità giornaliero in relazione alla diffusione del virus Covid-19, producendo stime del numero di eccessi per classi di età, utilizzando come dato di riferimento la serie storica dei dati giornalieri della mortalità per ogni città inclusa nella sorveglianza”. I dati comunicati ogni giorno dalla protezione civile sui decessi per Covid-19 sono per parte loro ben inferiori, anche considerando che ovviamente non tutti i morti dipendono dall’epidemia in corso, e con tutta probabilità non riescono a includere molti casi di persone che hanno contratto il virus, ne sono poi morte ma senza venire testate. Per scovare queste persone è necessario, come ha fatto un’inchiesta de L’Eco di Bergamo, consultare le anagrafi locali. Il modo migliore per stimare l’andamento dell’epidemia è forse quello indiretto, cioè contando quante persone sono morte in più rispetto alla media degli anni precedenti attraverso dati come quelli forniti dal Sismg. Naturalmente è anche un metodo più complicato, perché di fattori che fanno fluttuare i decessi ce ne sono sempre molti in gioco – per quanto nessuno anche solo lontanamente vicino alla gravità del Covid-19. Altri dettagli interessanti che emergono dal primo bollettino riguardano le caratteristiche dell’epidemia italiana, che risultano al momento ben diverse da quanto è successo per esempio in Cina. Nel nostro caso è presente una percentuale maggiore di casi gravi, con circa il 13% di persone ricoverate in terapia intensiva contro il 9% del paese asiatico. Dei casi individuati – cioè delle persone effettivamente sospettate di aver contratto il virus e poi sottoposte a un test – in Italia è morto il 7,2% contro il 2,3% della Cina. La mortalità è “simile nei due paesi fino alla classe di età 60-69 anni (circa 3,5%)”, mentre troviamo un “incremento maggiore al crescere dell’età nel nostro paese (rispettivamente 12,8% e 8% nella classe di età 70-79 anni e 20,2% e 14.8% nella classe degli over 80)”. “L’epidemia italiana è iniziata nel Nord Italia, in Lombardia, che ad oggi registra circa il 40% dei casi notificati a livello nazionale e oltre il 60% dei decessi, seguita dall’Emilia-Romagna (13% dei casi e 14% dei decessi)”. Sempre al 26 marzo secondo la protezione civile vi è comunque il 19% e l’11% dei decessi nel centro-sud. Va ricordato comunque che i morti che osserviamo oggi sono l’esito finale di un’infezione avvenuta circa due settimane fa, secondo le migliori stime oggi disponibili. Se i decessi registrati per Covid-19 sono senza dubbio minori rispetto al numero reale di morti, il distacco fra casi scovati e casi effettivi è con tutta probabilità ancora più ampio. Stime aggiornate al 1 aprile di un gruppo di epidemiologi della London School of Hygiene & Tropical Medicine ipotizzano per esempio che i test condotti in Italia abbiano individuato appena il 6% circa di tutte le persone contagiate, il che porterebbe i casi reali a valori ben maggiori rispetto ai 100mila ufficiali di inizio aprile. L’autore ringrazia Davide Ederle e biotecnologi.org per l’aiuto durante il lavoro di ricerca per questo articolo.
Coronavirus, il numero reale dei decessi. In Bergamasca 4.500 in un mese. Isaia Invernizzi Giornalista de L'Eco di Bergamo Mercoledì 01 Aprile 2020. È questo il risultato dell’analisi svolta da L’Eco di Bergamo e InTwig sui dati dei Comuni bergamaschi. Più del doppio rispetto ai 2.060 morti ufficiali. Quello che i numeri ufficiali non dicono. Non dicono che a marzo 2020 in provincia di Bergamo sono morte oltre 5.400 persone, di cui circa 4.500 riconducibili al coronavirus. Sei volte rispetto a un anno fa. Di sole 2.060, i decessi “ufficiali” certificati «Covid-19» avvenuti negli ospedali bergamaschi (dato aggiornato a ieri), conosciamo tutto: età, sesso, malattie pregresse . Nulla sappiamo degli altri 2.500. Molti sono anziani, morti nel letto di casa propria o nelle residenze sanitarie assistite. Nonostante i sintomi inequivocabili, come riportano le testimonianze di medici e famigliari, non sono stati sottoposti a tampone per accertare la positività alla malattia. Sul certificato di morte si legge solo «polmonite interstiziale». Mentre i rappresentanti di Protezione civile e Regione Lombardia, sul palcoscenico quotidiano delle pagine Facebook, sciorinavano i numeri di contagi e tamponi, gli abitanti della provincia di Bergamo lanciavano il loro grido di dolore. Le fotografie con i mezzi dell’esercito che trasportano centinaia di bare e i necrologi pubblicati da L’Eco hanno fatto il giro del mondo, testimonianza del dramma che stanno vivendo tutti i bergamaschi. Anche i sindaci se ne sono accorti subito: «I dati ufficiali sono solo la punta dell’iceberg» - hanno detto il 17 marzo sulle pagine di questo giornale.
Mortalità a marzo 2020: il confronto con il 2019. Carlos Arija Garcia su laleggepertutti.it l'1 Aprile 2020.
Quanto può avere inciso il coronavirus nel numero dei decessi registrati in Italia nel periodo più caldo dell’epidemia? Lo spiega (solo parzialmente) l’Istat. C’è un detto popolare secondo cui «a pensare male, a volte ci si azzecca». Pensare alle teorie del complotto quando si parla di coronavirus può sembrare (e forse lo è) inopportuno. Ciò non toglie, però, che alcuni dettagli tutt’altro che irrilevanti risultino quanto meno poco chiari. Tra questi, quello che colpisce di più è la statistica dei decessi. Ne abbiamo già parlato in qualche articolo in cui facevamo riferimento allo strano rapporto tra il numero di casi positivi in Italia e in Germania e quello dei morti registrati in entrambi Paesi. In pratica, a parità di contagi, Berlino ne contava poco più di 200 mentre nel nostro Paese ce n’erano 3.000. Le stesse perplessità le abbiamo espresse mettendo a confronto le cause dei decessi registrati dall’Istat in passato (influenze, polmoniti, malattie respiratorie o cardiovascolari, ecc.) e i decessi classificati come «morti da coronavirus». Oggi si tende a mettere nello stesso contenitore, quello del Covid-19, sia chi muore dopo avere contratto il virus da sano e chi muore di un’altra patologia ma risulta, comunque, positivo al coronavirus. Insomma, un criterio che ha portato le cifre al livello che tutti conosciamo e che ogni sera ci aggiorna la Protezione civile. Non resta che affidarsi ai dati Istat sulla mortalità in Italia in questo primo trimestre del 2020, interessato per poco meno della metà dall’epidemia, e confrontarli con quelli dello stesso periodo dell’anno precedente. Ma pure qui c’è da fare alcune precisazioni. La prima: l’Istat non è ancora in grado di fornire dei dati completi riguardanti tutto il territorio nazionale, ma soltanto di alcuni Comuni. La seconda: la statistica sui decessi riguarda il periodo dal 1° gennaio 2020 fino al 21 marzo. Mancano, pertanto, 10 giorni, cioè un terzo del mese di marzo. La terza: i dati del 2020 non sono diversificati per cause di morte, ma comprendono tutte le possibili ragioni di un decesso: dal coronavirus, appunto, agli incidenti stradali, dagli incidenti sul lavoro ai suicidi, dalle morte naturali agli infarti. E la quarta precisazione, probabilmente la più importante: i dati si riferiscono all’indice di mortalità e non a quello di letalità. Qual è la differenza? Come abbiamo già avuto modo di spiegare in altri articoli, l’indice di mortalità è il rapporto tra le persone decedute in un determinato arco di tempo e quelle residenti in tutto il Paese. La letalità, invece – parlando, in questo caso, di coronavirus –, è il rapporto tra le persone decedute per Covid-19 e quelle dichiarate positive al virus. Va da sé che nel primo caso, avremo una percentuale più ridotta, perché, a parità di decessi, si prende come riferimento i 60 milioni di italiani e non solo quelli affetti da coronavirus, come per il calcolo della letalità. Detto questo, quali sono i numeri che escono dal confronto tra il totale dei morti nel 1° trimestre 2019 e lo stesso periodo del 2020? Prima di rispondere a questa domanda, c’è un dato che può risultare interessante.
Influenza e mortalità. Abbiamo detto che il periodo di riferimento è il primo trimestre dell’anno. Sono dei mesi in cui ci sono migliaia di decessi provocati dall’influenza. Da quella, diciamo così, «normale», quella che arriva tutti gli anni, non certo dal ben più grave Covid-19. Secondo i dati forniti dal bollettino FluNews-Italia, distribuito dall’Istituto superiore di Sanità, da metà ottobre 2019 all’undicesima settimana del 2020 (tra metà e fine marzo) l’influenza ha interessato circa 7 milioni e 200mila persone. Nell’undicesima settimana, i casi sono stati 264mila.
Ecco gli ultimi dati pubblicati dall’Iss sull’influenza:
casi gravi: alla nona settimana della sorveglianza sono stati segnalati 169 casi gravi di cui 35 deceduti;
mortalità (totale, non solo di influenza): durante l’undicesima settimana del 2020, la mortalità è stata superiore al dato atteso, con una media giornaliera di 261 decessi rispetto ai 215 attesi. Il dato è basato sulla rilevazione in 19 città campione italiane che raccolgono quotidianamente il numero di decessi per gli ultra 65enni per tutte le cause. Tale numero viene confrontato con quello atteso costituito dalla media dei decessi registrati nei cinque anni precedenti.
In totale, nelle prime 12 settimane del 2020, cioè nel primo trimestre, l’Iss ha contato ufficialmente 2.520 decessi per influenza. Mediamente, in una stagione si arriva alle 8.000 unità.
Durante la dodicesima settimana, nessun campione è risultato positivo all’influenza. Perché non c’è più? No: perché i laboratori sono impegnati in qualcosa di più urgente e sono pochissimi quelli che hanno comunicato i dati.
Mortalità nel 2019 e nel 2020.
Teoricamente, quindi, e secondo la pubblicazione dell’Istituto superiore di Sanità FluNews-Italia, i 2.520 decessi che abbiamo appena citato sono dovuti solo alle conseguenze dell’influenza stagionale dal 1° gennaio a fine marzo, e non dal coronavirus. Un dato che finisce, per il momento, nel «calderone unico» in cui l’Istat ha riversato i numeri relativi alla mortalità registrata in Italia dall’inizio dell’anno. Impossibile per ora, come si diceva, scorporare le varie cause dei decessi per capire quante persone muoiono per una determinata causa piuttosto che per un’altra. L’unica certezza, come abbiamo appena visto, è quella dell’influenza stagionale, secondo il dato aggiornato alle prime 12 settimane del 2020. Non avendo nemmeno un riferimento sul totale nazionale, possiamo dare qualche indicazione su alcune delle città in cui c’è stata un’incidenza maggiore dell’epidemia. Ad esempio, confrontando il dato dal 1° al 21 marzo del 2019 e quello dello stesso periodo del 2020 (ultimo disponibile) troviamo questi numeri relativi ai decessi:
Milano: da 885 a 1.039 morti (+17%);
Bergamo: da 101 a 398 morti (+294%);
Alzano Lombardo (BG): da 8 a 83 morti (+937,5%);
Nembro (BG): da 11 a 121 morti (+1.000%);
Ponte S. Pietro (BG): da 3 a 44 morti (+1.366%);
Brescia: da 134 a 281 morti (+109%);
Crema (CR): da 23 a 103 morti (+348%);
Cremona: da 54 a 136 morti (+152%);
Piacenza: da 75 a 279 morti (+272%);
Fidenza (PR): da 20 a 71 morti (+255%);
Pesaro (PU): da 66 a 188 morti (+184%).
Ad ogni modo, dai numeri messi a disposizione dall’Istituti di statistica si può avvertire un aumento dei decessi (in alcuni casi più che considerevole) dal mese di marzo 2019 al marzo 2020, cioè al mese in cui l’epidemia di coronavirus era già scoppiata in Italia. Ma occorre ricordare che questi dati comprendono tutte le cause di morte e non solo quelle del coronavirus.
Covid uccide ma nessuno lo sa. È raddoppiato il numero di morti. I dati ufficiali non tornano. È strage silenziosa degli innocenti: "Muoiono nelle case o nelle Rsa, ma senza il tampone". Giuseppe De Lorenzo, Venerdì 03/04/2020 su Il Giornale. "Ho il terrore che fuori da qui non si stia capendo cosa ci succede. Qui si muore come mosche. È chiaro?". Sara Agostinelli lo aveva capito già da metà marzo, un po' come tutti i bergamaschi. Se fuori dalla finestra "le sirene non si fermano mai", se al "112 non riescono a risponderti", se "il cimitero della città non riesce a smaltire i corpi" allora vuol dire che qualcosa non va. "Decine di morti al giorno. Decine e decine", aveva scritto nella sua bottiglia consegnata al mare di Facebook. Era troppo presto, ancora, perché i numeri confermassero quel che i cittadini delle province più colpite stavano provando sulla loro pelle, ovvero che i dati "ufficiali" dei morti per Covid-19 sembrano essere troppo lontani dalla realtà. Qualcuno l'ha chiamata la "strage sommersa". Altri la strage silenziosa. I primi dubbi sorgono a metà marzo ai sindaci dei Comuni più colpiti che vedono soccombere in meno di un mese molti più concittadini dell'anno precedente. Claudio Cencelli, sindaco di Nembro, cittadina focolaio nella Bergamasca, elabora allora un grafico grazie alle sue competenze da fisico. Il confronto tra la media dei deceduti negli ultimi 4 anni (2015-2019) e i morti registrati nel 2020 mostra un risultato sconcertante: "Il numero vero è almeno 4 volte quello ufficiale", assicura. Gli uffici comunali al 25 marzo avevano registrato 158 decessi, 123 in più della media e soprattutto molti più di quelli ufficialmente attribuiti al coronavirus. Come Nembro, tanti altri Comuni denunciano che i decessi che ogni giorno la Protezione Civile comunica sono in realtà solo la punta di un enorme iceberg. Per Giorgio Gori a Bergamo "i morti sono tre volte quelli ufficiali". A San Pellegrino Terme solo a marzo sono scomparse 45 persone, di cui 11 di coronavirus. L'anno prima erano state solo due. Sulla stessa barca ci sono Codogno, Gravedona, Dongo. E poi Scanzorosciate, San Giovanni Bianco, Castellone. Anche Albino piange: "Lo scorso anno, dal 23 febbraio al 27 marzo erano morte 24 persone, quest’anno sono 145 - spiega il sindaco Fabio Terzi - tra i deceduti, quelli con coronavirus ‘certificati’’ sono 30. È chiaro che i conti non tornano". Ecco, i conti. Da una parte il freddo bollettino della Protezione Civile, dall'altra la carovana di camion dell'Esercito che trasporta sfilze di bare. Il dubbio si insinua. Molti se lo chiedono: ma quanti saranno davvero i morti per colpa del Covid? A provare a fare una stima sulla Bergamasca ci hanno pensato l'Eco di Bergamo e l’istituto di ricerca InTwig, secondo cui la scia di sangue lasciata dal virus in provincia nel solo mese di marzo è di almeno 4.500 morti. Più del doppio dei 2.060 censiti da Angelo Borrelli. Questo macabro calcolo coinvolge soprattutto la Lombardia, certo. Ma non solo. A ufficializzare la discrepanza tra il 2019 e il 2020 ci ha pensato infatti l'Istat, confrontando i decessi totali nei primi 21 giorni di marzo su oltre mille Comuni italiani. È la fotografia statistica di una tragedia, con incrementi che arrivano fino a punte del 2.600% (Pandino, in provincia di Cremona). A Bergamo dai 101 morti dell’anno scorso si è passati a 398 (+294%), eppure solo 201 sono "ufficiali" Covid-19. A Piacenza hanno contato 204 cadaveri in più del 2019 (+272%). Le ex zone rosse sono ovviamente quelle dove le discrepanze sono più evidenti. A Nembro l'incremento rispetto all’anno scorso è stato del 1000%, da 11 a 121 morti. Poi ci sono Codogno +480%, San Pellegrino Terme +1.300 e Alzano +938%. Una ecatombe. Negli oltre mille Comuni di tutta Italia considerati nella rilevazione, l'Istat registra 16.216 dipartite nel marzo di quest'anno. L'anno scorso erano state appena 8.054, per un incremento del 101%. Cioè il doppio. E i dati fin qui registrati dalla Protezione Civile non sembrano bastare per giustificare un'esplosione simile. La domanda che molti si pongono è: perché così tanta differenza tra i decessi certificati "Covid" nella Bergamasca e la realtà dei fatti? "È estremamente ragionevole pensare che queste morti in eccesso siano in larga parte persone anziane o fragili che muoiono a casa o in strutture residenziali, senza essere ricoverate in ospedale e senza essere sottoposte a tampone per verificare che fossero effettivamente infettate con il Covid-19", ipotizzava il sindaco Cencelli. A Mediglia, nel Milanese, in meno di 30 giorni i 150 ospiti di una struttura per anziani sono diventati la metà. Il virus ne ha portate via 65, una dietro l’altra. La strage silenziosa degli "innocenti" è stata denunciata anche dal Forum del Terzo Settore e da chi si occupa delle Rsa per anziani. "Muoiono nelle case o nei servizi residenziali, senza poter avere accesso a tutte le cure a cui vengono invece sottoposte le persone che riescono ad essere ricoverate- scrive l'Uneba - Sono persone che muoiono nel silenzio: spesso non rientrano neanche nel conteggio dei 'decessi per Covid19' perché a loro è stato negato anche il diritto alla diagnosi". In provincia di Bergamo l'Uneba ha denunciato 600 decessi su 6.400 posti letto occupati nelle Rsa. E per Valeria Negrini, presidentessa di Confcooperative – Federsolidarietà Lombardia, su 60mila anziani nelle strutture lombarde alla fine dell'epidemia si rischia di perderne "almeno il 10%. Cioè seimila nonni. "I campanili dei paesi non suonano più le campane a morto", diceva Sara con dolore, "perché altrimenti lo farebbero ininterrottamente".
I morti di Bergamo quadruplicati rispetto al 2019. Il Dubbio l'1 aprile 2020. Si è passati da una media di 91 casi nel 2015-2019 a 398 nel 2020. E la dem bergamasca Carnevali piange in Aula. Non dimenticheremo mai…». Con la voce incrinata dalla commozione, trattenendo a stento le lacrime e sostenuta dall’applauso dei colleghi, Elena Carnevali, deputata del Pd di Bergamo, è intervenuta in aula nel dibattito seguito all’informativa del ministro Roberto Speranza sull’emergenza coronavirus. La Carnevali si è commossa ricordando l’impegno del personale sanitario: «Hanno assistito i nostri cari fino all’ultimo respiro, ci hanno permesso di salutarli a distanza e rincuorali, hanno messo per tutti noi un carico di umanità e fratellanza. Dobbiamo riconoscere di più il loro lavoro». La deputata del Pd, tra l’altro, ha spiegato: «La resilienza di questi mesi lascerà segni incancellabili». Ha sottolineato che nel bergamasco «si soffre e si reagisce». Ed ha detto: «Non dimenticheremo mai il convoglio militare che trasporta le bare». Lo scorso 25 marzo, le lacrime e la commozione avevano caratterizzato l’intervento del parlamentare Leghista Daniele Belotti: «Io e il collega Invernizzi abbiamo lasciato oggi il fronte di Bergamo per venire qui a portare la voce di una terra duramente provata. Non sappiamo più dove portare i morti e non sappiamo più dove curare i malati. Chiediamo chiarezza per i 1.267 morti contati ieri, deceduti dalla fine di febbraio. Settanta, ottanta morti al giorno», aveva dichiarato Belotti con la voce rotta dalle lacrime e dalla disperazione per il numero di vittime dall’inizio della diffusione del Covid-19. Decessi quadruplicati a Bergamo nelle prime tre settimane di marzo rispetto allo stesso periodo del 2019, decessi raddoppiati nella città di Brescia e in altri centri dove particolarmente alti sono stati i casi di coronavirus. La statistica è stata diffusa dall’Istat e conferma quanto alto sia il prezzo in vite umane pagate da alcune zone d’Italia all’epidemia e allunga i sospetti sul fatto che i morti da Covid-19 conteggiati dalle statistiche non siano tutti quelli falciati dal virus. E intanto dall’Istat arrivano numeri impietosi e drammatici: nei primi 21 giorni di marzo al Nord – dice l’istituto di statistica – i decessi sono più che raddoppiati rispetto alla media 2015-19. Il dato emerge dalla nota esplicativa che accompagna i dati sulla mortalità in Italia. E si evidenzia la situazione di Bergamo, dove i decessi sono quasi quadruplicati «passando da una media di 91 casi nel 2015-2019 a 398 nel 2020».
Coronavirus Bergamo, i morti per l'Istat sono molti di più: 4500. I dati reali. Affari Italiani Giovedì, 2 aprile 2020. Quadruplicati i decessi rispetto allo scorso anno. Il Covid-19 si è portato via il doppio delle persone censite (2.060).
Coronavirus Bergamo, i morti per l'Istat sono molti di più: 4500. I dati reali. Il Coronavirus in Italia continua nella sua folle corsa. La Lombardia e in particolare la provincia di Bergamo restano le zone più colpite. Le statistiche ufficiali parlano di 2.060 morti nella Bergamasca, ma una statistica dell'Istat, e un'analisi svolta dall'Eco di Bergamo e dall'istituto di ricerca InTwig raccontano ben altri numeri, che evidenziano il dramma che sta vivendo la Val Seriana e dintorni. La cifra dei morti è di 4.500 decessi - si legge su Repubblica - più del doppio dei 2.060 morti “ufficiali” – certificati coronavirus – fin qui censiti dal database di Protezione Civile e Regione Lombardia. A cristallizzare la conta è un’analisi svolta da L’Eco di Bergamo e dall’istituto di ricerca InTwig: e l’esito è stato avvalorato ieri dalla statistica dell’Istat, secondo la quale a Bergamo i decessi sono quadruplicati nelle prime tre settimane di marzo rispetto allo stesso periodo del 2019. L'indagine dell'Eco è stata lanciata tra i 243 Comuni della provincia: hanno risposto 91 amministrazioni che rappresentano 607mila abitanti (oltre il 50% della popolazione totale). Il primo dato emerso riguarda il numero totale dei morti nel mese di marzo: 5.400 persone (sei volte rispetto a un anno fa). Di queste, 4.500 sono riconducibili al Covid-19. Ma c’era una discrepanza importante da chiarire. È quella che i sindaci del territorio avevano evidenziato il 17 marzo: "I dati ufficiali sono solo la punta dell’iceberg", dissero. Ora viene a galla il “sotto”. Se dei 2.060 decessi ufficiali sappiamo tutto, nulla sappiamo degli altri 2.500. Lo stesso discorso vale per i contagi, ma qui entra in gioco il fattore tamponi (non fatti). Ad ogni modo: considerando l’indice di mortalità più basso, nella sola città di Bergamo (120 mila abitanti) i contagiati sarebbero 35mila. "Penso in realtà siano ben di più", dice il sindaco Gori.
Salvatore Vassallo, Direttore Istituto Cattaneo, per “la Stampa” il 3 aprile 2020. Per gestire la crisi attraversandola con meno danni e ansie possibili è fondamentale che le istituzioni pubbliche e i cittadini abbiano una misura corretta delle sue dimensioni. A cominciare dal numero delle vittime e dal peso che i numeri assoluti hanno in prospettiva storica, nei territori a cui si riferiscono. Va detto che i calcoli sulla mortalità da coronavirus sono complicati da molti fattori, non solo dalla mancanza di dati completi. Una analisi dell' Istituto Cattaneo condotta da Asher Colombo e Roberto Impicciatore su dati Istat riferiti a 1084 comuni ha mostrato che nei primi tre mesi dell' anno il livello della mortalità è stato significativamente superiore a quello della media nello stesso periodo dei cinque anni precedenti, con un picco nel mese di marzo. Dai dati Istat si vede anche che nelle regioni più colpite dal virus la crescita dei decessi accertati all' anagrafe rispetto alla media del quinquennio precedente è dovuta in una quota preponderante ai maschi (64%) rispetto alle donne (36%). Questo sembra confermare che la gran parte dell' incremento sia proprio dovuto al Covid-19. Le stesse tendenze si intravedono anche al Sud, seppure in misura molto attenuata. Quindi, dai dati attualmente disponibili sul totale delle morti registrate all' anagrafe, il numero di quelle riconducibili alla pandemia appare decisamente superiore rispetto al numero acclarato dal sistema sanitario. Naturalmente, solo analisi condotte su serie storiche più lunghe, alla fine del ciclo, potranno dire in che misura il virus avrà indotto o accelerato la mortalità. Solo alla fine del percorso potremo dire quanto abbiamo perso, in termini di vite, produzione, consumi. E quanto abbiamo imparato, nell' uso delle tecnologie digitali, ad esempio. Cose che ovviamente non si possono pesare sulla stessa bilancia. È certo comunque che nei sentimenti degli italiani oggi si mescolino diverse comprensibili preoccupazioni. Tutti i sondaggi convergono nel mostrare che c' è una quasi unanime condivisione del timore per la diffusione del virus, così come un larghissimo consenso verso le misure restrittive adottate dal governo. Tra le tante domande riferite a questi aspetti presenti nelle rilevazioni svolte da SWG nelle ultime tre settimane ne abbiamo selezionate quattro, e abbiamo cercato di capire quali differenze esistono nel livello della preoccupazione tra donne e uomini, tra Nord e Sud, in base all' età, al livello di benessere, al settore occupazionale e al titolo di studio. Gli italiani si dividono al momento 60 a 40 nel ritenere più preoccupante la crisi sanitaria rispetto a quella economica. Come per gli altri indicatori, non ci sono grandi divari tra le categorie di cittadini elencate prima. Se non per il fatto che le donne sono nettamente più preoccupate degli uomini per il primo versante della crisi, verosimilmente come riflesso della loro maggiore attenzione alla cura dei familiari e in particolare dei più anziani. Un italiano su due ritiene che la crisi potrebbe mettere a repentaglio (abbastanza o molto) il posto di lavoro proprio o di uno dei parenti più stretti. Anche qui con lievi differenze, che vedono una preoccupazione di poco maggiore al Sud e minore tra i laureati. Solo un intervistato su 4 teme che potrebbe arrivare il momento in cui scarseggeranno cibo o altri beni di prima necessità nei negozi. Quanto, infine, alla preoccupazione di contrarre la malattia, non ci sono tante differenze tra le generazioni. Gli anziani rischiano oggettivamente di soffrire conseguenze più gravi, ma il virus si trasmette senza badare all' età. Non ci sono nemmeno differenze significative tra Nord e Sud, al contrario di quanto sarebbe invece ragionevole aspettarsi considerando la localizzazione dei focolai più virulenti e dei casi accertati. Di nuovo, sono più preoccupate le donne degli uomini. Ma la paura per la propria salute personale - è forse questa la cosa più interessante e curiosa - ha anche una importante componente politica. Negli Stati Uniti, secondo un' analisi pubblicata dal «New York Times», gli elettori democratici sono nettamente più preoccupati per la diffusione del virus degli elettori repubblicani. A prima vista si potrebbe pensare, perché gli elettori di destra sono più preoccupati per le sorti dell' economia. In Italia, apparentemente, succede il contrario. Gli elettori democratici e 5 Stelle sono meno preoccupati rispetto a quelli di Salvini e Meloni di contrarre il virus. Con tutta probabilità, in entrambi i casi, i sostenitori dell' opposizione vengono persuasi dai loro leader oppure coltivano per proprio conto l' impressione che il governo non stia facendo abbastanza per contenere l' epidemia o che sia composto da persone poco capaci di gestire la crisi. Cosicché anche la percezione che il virus possa ulteriormente diffondersi o il timore di essere personalmente infettati nel loro caso crescono.
Coronavirus, analisi dell’Istituto Cattaneo: “Il numero dei morti doppio rispetto a quanto comunicato dalla Protezione Civile”. Dati sottostimati, pazienti invisibili e morti non classificate. Da giorni il dubbio che l'epidemia di sia più vasta e profonda di quanto apparisse era presenti sui media e nelle richieste di sindaci e amministratori. Non solo Bergamo tra le città più colpite: ci sono anche Pesaro, Biella e Cremona. Il Fatto Quotidiano l'1 aprile 2020. Dati sottostimati. Pazienti invisibili e morti non classificate. Da giorni il dubbio che l’epidemia di Covid 9 sia più vasta e profonda di quanto apparisse era presenti sui media e nelle richieste di sindaci e amministratori. Oggi oltre alla pubblicazione dei primi dati Istat – che indica che il numero dei decessi al Nord è raddoppiato con una stima del 337% per la sola Bergamo – c’è l’analisi più ampia ed estesa a 1080 degli 8000 comuni italiani dell’Istituto Cattaneo di Bologna. Alla domanda su quanti decessi in più ha provocato l’epidemia nel nostro paese, l’Istituto risponde che “il numero di decessi riconducibili a Coronavirus in Italia risulta comunque il doppio di quello a cui si arriva sulla base dei numeri relativi ai pazienti deceduti positivi al test per Covid-19, comunicati dalla Protezione Civile“. Il confronto dei dati riguarda il periodo 21 febbraio-21 marzo e la media dello stesso periodo relativa al precedente quinquennio 2015- 2019.
Dal Nord al caso di Bari: il conto dei morti non torna. Infatti al 21 marzo 2020 i pazienti deceduti positivi al Covid-19 erano 4.825, ma la differenza, rilevata dalla nostra analisi, tra i decessi nel 2020 e la media dei decessi nel periodo 2015-2019, per il periodo che va dal 21 febbraio al 21 marzo, era già 8.740. E questo valore fa riferimento a un campione che include solo mille degli oltre 8mila comuni italiani, equivalenti a 12,3 milioni di abitanti su un totale di 60,4 milioni. Anche sotto un assunto di massima prudenza, in base al quale nei rimanenti 7mila comuni non dovessero rivelarsi scostamenti rispetto alla mortalità media degli anni precedenti, il numero di decessi riconducibili a Coronavirus in Italia risulta comunque il doppio di quello a cui si arriva sulla base dei numeri relativi ai pazienti deceduti positivi al test per Covid-19, comunicati dalla Protezione Civile. Nelle regioni del Nord fino al 75% di morti in più – Il semplice confronto di questi due valori, spiegano i ricercatori, rivela le dimensioni della crescita della mortalità e la variabilità territoriale di tale crescita. In Lombardia il numero di morti nel periodo considerato è stato più che doppio rispetto allo stesso periodo nei cinque anni precedenti. In Emilia-Romagna la crescita è stata superiore al 75%, mentre in Trentino-Alto Adige e in Piemonte è stata comunque superiore al 50%. Il Sud e le Isole non risultano immuni a queste percentuali. La variazione del numero di morti, secondo l’analisi dell’Istituto nel Sud e Isole è stata del 40,2%, un valore pari a quello del Veneto, e superiore al 35% registrato dalla Liguria. I ricercatori hanno osservato anche la variazione nella mortalità tra uomini e donne. La maggiore vulnerabilità degli uomini al coronaviru è ormai nota. Ma per gli studiosi anche l’osservazione delle differenze nella crescita dei decessi tra uomini e donne rivela, tuttavia, l’esistenza di differenze territoriali non trascurabili. Queste sono molto consistenti nelle regioni del Nord (sono più che doppie in Trentino-Alto Adige), più deboli dove la crescita è stata relativamente più contenuta, come nel Centro Italia, nulle al Sud. La crescita dei decessi si è innescata tra la fine di febbraio e i primi giorni di marzo. Il numero di morti prende a salire rapidamente ben oltre i valori precedenti. A iniziare è la Lombardia alla fine di febbraio, seguita dall’Emilia-Romagna ai primi di marzo. La crescita appare più lenta in Piemonte, in Veneto e nel Centro. Il caso del Sud merita qualche considerazione a parte. I dati confermano che anche al Sud e Isole, pur con dimensioni più contenute, già a partire dagli inizi di marzo, si era verificato uno scostamento rispetto all’andamento pre-crisi, e che un altro è iniziato dopo la fine della seconda settimana, e sarebbe ancora in corso. Le città con più decessi. Non solo Bergamo– Le cronache dei giorni scorsi hanno riportato come alcuni città siano state più colpite. Nessuno dimentica la sfilata di mezzi militari impegnati a trasportare dal territorio di Bergamo decine di bare. La città lombarda e con Piacenza, Parma o Brescia, sono da tempo al centro dell’interesse degli osservatori. Ma ci sono altri centri Pesaro, Cremona, Biella, sono rimasti finora lontani dai riflettori. La crescita della mortalità è stata superiore anche in altre aree, lontane da quelle considerate focolai di contagio, e che probabilmente questi decessi sono avvenuti tra le pareti domestiche e senza che venisse condotto il test per rilevare la presenza del virus. Anche nel caso delle città, le serie temporali rivelano lo scostamento della mortalità dall’andamento precedente all’emergenza. Nei comuni capoluogo considerati, la crescita dei decessi si innesca tra la fine di febbraio e i primi giorni di marzo, e nella seconda settimana di marzo raggiunge un picco. Il numero di morti, infatti, prende a salire rapidamente ben oltre i valori precedenti, prima a Bergamo e Piacenza, poi a Brescia, Milano e Parma e infine, dopo la prima settimana di marzo, a Pesaro, dove il picco non sembra però ancora essere stato raggiunto. I casi accertati nel mondo hanno superato quota 87mila, e i morti oltre 43mila, con
l’Italia a guidare questa triste classifica con 12.428 casi. Sono ormai 180 (su 206, quindi l’87%) i paesi nel mondo che hanno dichiarato la presenza di casi di Covid 19 all’interno del proprio territorio. Ed è di oggi la notizia che in Cina si teme una nuova ondata di contagi.
Coronavirus Bergamo, veri dati dell’epidemia: a marzo il doppio dei morti. Asia Angaroni l'01/04/2020 su Notizie.it. Il Coronavirus ha gravemente colpito la città di Bergamo. Molte le vittime decedute in casa: a marzo 5mila morti, il doppio dei dati ufficiali. Non c’è pace per Bergamo: nelle vie silenziose del centro e tra i sentieri della Città Alta aleggia un silenzio luttuoso spezzato solo dalle sirene delle ambulanze. La città piange le sue vittime e, con la strenua dedizione che le appartiene, è pronta a ripartire. Quel silenzio penetrante non le è proprio. Si vuole recuperare la voglia di festeggiare, di assaporare spensieratezza e allegria. Si vuole rinascere. Il sindaco Giorgio Gori ha più volte denunciato l’emergenza Coronavirus e la situazione critica della sua Bergamo: i dati reali parlano di 5mila morti nel solo mese di marzo. Più del doppio rispetto a quanto riportato dai conteggi ufficiali. Molte vittime, infatti, sono morte in casa, talvolta senza neppure aver fatto il tampone. A lungo gli ospedali hanno lamentato la difficoltà a cui ogni giorno vanno incontro, tra terapie intensive ormai piene e attrezzature mediche scarseggianti. Le strutture sanitarie, arrivate al collasso, non si sono perse d’animo: ogni giorno lottano per salvare i malati. Per molti, tuttavia, non è stato possibile. A marzo 2020 si sono registrati cinquemila vittime in più a Bergamo e provincia rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Le perplessità espresse dai sindaci della Val Seriana e dal primo cittadino di Bergamo Giorgio Gori sembrano ora pienamente confermate. Il Corriere della Sera, infatti, ha analizzato i decessi in 25 Comuni bergamaschi per una popolazione complessiva di 400mila abitanti. È evidente quindi che i dati dei deceduti forniti dalla Regione comprendano solo i pazienti ufficialmente contagiati che hanno perso la vita, ovvero coloro che sono stati sottoposti a tampone. Secondo quanto riferito da Palazzo Lombardia fino alla serata di martedì 31 marzo, le vittime sono 2.060. In realtà, i dati reali sarebbero nettamente più alti: le vittime sono più del doppio rispetto a quanto riportano i dati ufficiali. Sarebbero 5.021 i deceduti, 161 al giorno per tutto marzo. “È una sofferenza quotidiana che stiamo affrontando con ogni sforzo possibile”, ha commentato al Corriere della Sera il sindaco di Scanzo, Davide Casati. Il collega Claudio Cancelli, sindaco di Nembro, che con Alzano Lombardo è la cittadina più devastata dal Covid-19, ha preferito non aggiungere altro. Più volte Cancelli ha denunciato l’alto numero di morti: i deceduti, a sua detta, sono stati 4 volte superiori rispetto a quanto detto dalla Regione. “È un trend quotidiano insostenibile, speriamo davvero finisca presto”, fa sapere Marzio Zirafa, primo cittadino di Ponte San Pietro, che a sua volta ha voluto commentare la situazione di emergenza Coronavirus a Bergamo.
Coronavirus, Daisy Pirovano sindaco di Misano: "La prefettura? No, ecco come sappiamo il vero numero dei morti". Paolo Natali su Libero Quotidiano il 30 marzo 2020. In trincea, insieme a medici, infermieri e operatori sanitari. Stiamo parlando di tanti sindaci che, pur di tutelare i propri cittadini, da settimane sono chiamati a compiere scelte coraggiose, a volte difficili e persino impopolari. Ma di fronte ad un’emergenza come quella del covid-19, ora più che mai, sono loro ad essere chiamati a dare risposte concrete alle persone. Il problema è che in questa battaglia sono stati lasciati spesso soli da un governo centrale che ha sfornato decreti e moduli di autocertificazione, ma non è ancora riuscito a mettere in campo un’azione tempestiva e coordinata sui territori. Così loro, i sindaci, hanno fatto da soli. Come tante altre volte. Lo sa bene Daisy Pirovano, primo cittadino di Misano Gera d’Adda, comune di 3mila abitanti nel cuore della provincia bergamasca, quella zona che ha pagato il prezzo più alto finora in termini di vite. Abbiamo ancora tutti negli occhi le immagini dei camion militari e del loro doloroso incedere proprio sulle strade della bergamasca… Da un mese Pirovano e tanti colleghi lavorano più di 15 ore al giorno e la stanchezza, come ammette lei, comincia a farsi sentire. Ma non c’è tempo per pensarci. Nessuno può permettersi questo lusso, tanto meno chi amministra un comune nel cuore di una terra ferita ma fiera, dove il senso pratico, l’orgoglio e la voglia di rialzarsi valgono più di mille parole. "Il principale problema per noi è di tipo informativo: non abbiamo dati relativi ai positivizzati, riceviamo solo un foglio dalla prefettura ma i dati non sono aggiornati da almeno 15 giorni. Le notizie io le so esclusivamente dalla gente e i dati dei decessi arrivano esclusivamente dalla nostra anagrafe. Non abbiamo avuto né aiuto né indicazioni da dare alla cittadinanza a parte i decreti che conoscono tutti". C’è poi anche un tema di sostenibilità economica. Per quanto tempo i comuni potranno andare avanti così? "Noi continuiamo a pagare gli stipendi ma poi sappiamo benissimo che non è detto che le tasse inizino ad entrare", continua Pirovano. E così, tanti primi cittadini della bergamasca hanno fatto rete. "Ho anticipato con la chiusura di parchi, cimiteri e discariche ma anche di parrucchieri e altre attività e questo è stato possibile solo grazie al senso di responsabilità dei miei cittadini e alla collaborazione di Carabinieri e Protezione Civile. Abbiamo attivato servizi di spesa a domicilio assistenza agli anziani contando molto sulla disponibilità dei commercianti che stanno facendo le consegne. Uno dei primi decreti aveva precisato che i comuni non potevano emettere ordinanze sul covid-19 tanto che la Prefettura le aveva ritirate. È evidente come ci sia stato un ritardo di settimane per quanto riguarda le restrizioni da attuare", chiosa il primo cittadino. "Dalle indicazioni più generiche, a quelle tremendamente pratiche, quotidiane, tutto diventa un paradosso senza una cabina di comando. "Ci arrivano indicazioni che le famiglie in quarantena non devono fare la raccolta differenziata, ma mettere tutto in un unico sacco. Peccato che io non so quali siano le famiglie per avvisarle. Fortunatamente sono gli stessi contagiati che con senso di responsabilità, chiamano in comune. Servono inoltre regole ancora più ferree per consentire agli operatori e alle aziende ancora aperte di avere i presidi. E poi c’è il tema dell’approvvigionamento dei beni di prima necessità per evitare code di ore davanti ai supermercati visto che ormai è impossibile fare la spesa online". E la popolazione anziana, quella più debole e a rischio in un contesto del genere diventa ancora più fragile ed esposta come sottolinea il sindaco di Misano Gera d’Adda: "Un altro problema che non è stato affrontato è proprio quello di reperire i contanti per gli anziani. Come fa una persona che non sta bene, anziana o meno, a ritirare i soldi per pagare la merce che gli arriva a casa? Vogliamo che si formino code degli anziani fuori dalle poste per andare a prendere le pensioni? Forse sarebbero necessarie altre soluzioni". È una lotta quotidiana da più di un mese per salvare i nostri cittadini e aiutare tutti. Stiamo facendo raccolte fondi per aiutare gli ospedali di Treviglio , Caravaggio e Romano di Lombardia con respiratori e RX. Tutto quello che recuperiamo lo diamo ad ospedali, protezione civile e forza dell’ordine". Poche indicazioni e confuse dal governo. Ma quel che è peggio è che mancano i presidi di protezione essenziali. Chiedo al sindaco cosa abbiano ricevuto sinora e la risposta è perentoria: “Ancora oggi nulla. Ho comprato io i guanti tempo fa, ma altri comuni hanno dovuto chiudere proprio per la mancanza di presidi. Se penso che i primi giorni si diceva che le mascherine non fossero indispensabile mi viene una rabbia… Quello che arriva lo abbiamo solo grazie alla gente e a donazioni individuali . In diversi comuni ci sono artigiani e produttori che si sono impegnati per realizzare gratuitamente mascherine e lo stesso vale per le aziende di moda”. E in questo contesto una buona notizia, proprio per i lavoratori del comparto moda, arriva dal Fondo Sanimoda che ha deciso di estendere gratuitamente la polizza assicurativa per gli oltre 177 mila lavoratori del settore dipendenti delle piccole, medie e grandi aziende iscritte e in regola con i versamenti coprendo i costi di ricovero ospedaliero dei lavoratori risultati positivi al virus Covid-19 per un periodo massimo di 30 giorni nonché l’isolamento domiciliare in caso di positività al tampone e una diaria post ricovero nell’eventualità in cui si rendano necessari trattamenti di terapia intensiva. Tanti esempi virtuosi da parte di cittadini, associazioni, aziende e amministratori locali che stanno facendo la propria parte e anche di più in uno scenario di emergenza che non fa distinzioni né sconti a nessuno. E che questo governo finora ha gestito in modo palesemente confuso e disorganizzato.
La bugia dei numeri, la droga delle sei. Alessandro Gilioli il 27 marzo 2020 su L'Espresso. Il sindaco di Nembro, ieri sera, spiegava a Radio Popolare che i numeri ufficiali sui deceduti di Covid-19 nel suo comune sono tutti falsi: «Bisognerebbe almeno moltiplicarli per quattro. La maggior parte sono morti nelle loro case o nella residenza per anziani. Poi non li hanno nemmeno tamponati. Quindi non risultano alle statistiche». È esattamente la stessa cosa che mi diceva l'altro giorno Elena Testi, la brava collega che scriverà da Bergamo sul prossimo numero dell'Espresso: «Quando si parla dei numeri ufficiali qui tutti mi spiegano che non significano niente. C'è molta gente che muore a casa e gli ospedali non impegnano certo le macchine per fare i tamponi a chi è già morto. Quindi nessuno di loro compare nei dati». Lo stesso sindaco Giorgio Gori, seppure con toni meno diretti, ha detto cose simili: nella mia città i conti non tornano. Ieri alla conferenza stampa della Protezione civile un collega (chiedo scusa se non ricordo chi) ha fatto proprio questa domanda ad Agostino Miozzo, il dirigente della protezione Civile che sostituiva Borrelli: avete idea di quanta gente muore in casa? Non ha avuta alcuna risposta. Nessuna. Miozzo ha replicato parlando d'altro, mascherine, furbetti, ciclisti, le solite cose. Il che forse pone anche questioni di altro tipo, cioè che senso ha fare conferenze stampa se poi non si risponde alle domande, a questa come ad altre poste dai colleghi più svegli (ad esempio, senza ottenere risposta è stato chiesto: perché Nembro e Alzano non sono stati dichiarati zone rosse come Codogno? Ha inciso o no quella mancata decisione sull'attuale mattanza di Bergamo e provincia? Quanti sono i cittadini stranieri e gli immigrati contagiati? Ha funzionato l'autoisolamento della comunità cinese a Prato o è una fake?). Se quelli della Protezione civile incontrano i giornalisti per non rispondere, ci mandino un video su Facebook come tutti gli altri e chiudiamo la finzione.
Ma il punto non è nemmeno questo. Il punto è quello dei numeri quotidiani, a cui siamo tutti attaccati per capire se possiamo sperare o no. Ed è ormai evidente che questi numeri sono, se non del tutto falsi, comunque molto, molto, molto approssimativi. Le cifre sui morti, appunto, nascondono chi se n'è andato in casa. Quanto ai numeri quotidiani dei contagiati, quelli che ossessivamente guardiamo tutti alle sei del pomeriggio, dipendono da almeno due varianti: la quantità di tamponi effettuati e la tempistica con cui vengono forniti i risultati dai diversi laboratori. Che a volte rallentano, a volte invece si accavallano. Quindi questo stillicidio quotidiano di cifre non ha alcun valore reale. «Ci sono fluttuazioni dovute al caso», spiega oggi a Repubblica Vittorio Demicheli, epidemiologo della task force lombarda in campo contro il virus. Ma sul numero dei contagiati c'è anche una terza variabile, forse più sottovalutata. E cioè che - come testimoniano i medici di famiglia - ci sono tantissime persone che restano a casa, con tosse e sintomi da Coronavirus, ma che non hanno abbastanza febbre o ipossia da essere ricoverati, quindi nemmeno tamponati. I loro medici di famiglia li curano come possono, con Tachipirina o altro. Sono contagiati fantasma, fuori dai numeri delle sei di sera. Del resto ce lo aveva già rivelato Borrelli, che le cifre dei contagiati erano false, quando l'altro giorno ha ammesso che «è verosimile il rapporto uno a dieci tra contagiati ufficiali e quelli veri».
Insomma, siamo tutti attaccati quotidianamente a numeri che sono, diciamo così, molto approssimativi. O più semplicemente farlocchi , almeno nel day-by-day. Eppure siamo tutti lì a studiarne le varianti anche minime, oggi più cento, ieri meno trenta, stasera va un po' meglio, stasera va un po' peggio. Che dire, che fare, allora? L'ideale sarebbe non guardarli ogni pomeriggio, staccarsi da questa tortura quotidiana per almeno una settimana: magari dopo un po' di giorni le cifre hanno un po' più senso, come tendenza, come curva. Lo dice, in linguaggio più tecnico, sempre Demicheli: «I numeri vanno letti per la tendenza e non per i valori puntuali». Guardando più a ritroso, la settimana scorsa, si vede ad esempio che in Lombardia la percentuale dei contagiati aumentava ogni giorno a doppia cifra, adesso no, siamo tra il più 7,9 per cento di ieri e il più 5,4 di mercoledì.
In sintesi nasce come una bella idea, questa conferenza stampa quotidiana: nasce come un esercizio di trasparenza e di confronto tra istituzioni e media-cittadini in un momento di emergenza. Ma è diventata un'altra cosa, un esercizio di reticenze, di mezze bugie e soprattutto di numeri sbilenchi. Colpa di nessuno, probabilmente: le cose vanno in modo inaspettato quando accadono catastrofi così inaspettate. Dovremmo staccarci, da quel rito quotidiano, soprattutto dal suo sciorinamento di cifre ballerine. Ma è difficile, e non ce la faccio neppure io, s'intende: ogni sera, alle sei, come a prendere una droga che sai che ti fa male ma di cui non riesci a fare a meno.
· Morti “per” o morti “con”?
SI MUORE DI COVID O CON IL COVID? Da ilfattoquotidiano.it il 9 dicembre 2020. Il 39,9% delle morti verificatesi per Covid in Italia dall’inizio della pandemia è avvenuta in Lombardia. Ma le differenze tra la prima e la seconda ondata sono evidenti: se infatti nel periodo marzo-maggio un decesso su 5 è avvenuto in Lombardia e oltre l’85% solo nel Nord Italia (Emilia-Romagna compresa), durante i mesi autunnali (ottobre-novembre) la distribuzione si è allargata a tutta la Penisola, coinvolgendo anche il Centro-Sud e in particolare due Regioni: la Campania – passata da 477 (1,4%) a 1621 morti (8,3%) – e la Sicilia, che ha avuto 906 decessi in più in autunno rispetto alla primavera, passando dallo 0,9% al 6,2% del totale dei morti in Italia. Sono i dati che emergono dall’ultimo report dell’Istituto superiore di sanità sulle caratteristiche dei pazienti deceduti positivi al coronavirus in Italia, basato sui dati aggiornati al 2 dicembre e che descrive le caratteristiche di 55.824 pazienti. A livello nazionale, l’età media dei deceduti è 80 anni mentre solo l’1,2%, ovvero 657, era under 50. Il 97% dei deceduti aveva malattie precedenti e tra queste la più frequente è l’ipertensione arteriosa. Diabete di tipo 2 e cardiopatia ischemica sono le altre patologie osservate più frequentemente. I sintomi più frequenti accusati dai positivi che sono poi deceduti restano febbre e difficoltà respiratoria. Il tempo mediano tra l’insorgenza dei sintomi e la morte è di 12 giorni. Nel 53,3% dei casi i deceduti sono arrivati in ospedale da casa.
I dati delle Regioni e il confronto tra prima e seconda ondata. Il report dell’Iss riporta la distribuzione geografica dei decessi, secondo i tre periodi dall’inizio della pandemia nel 2020: il periodo iniziale (marzo-maggio), il secondo periodo (giugno-settembre) e il terzo (ottobre-dicembre), anche se quest’ultimo è ancora in corso. Dalla tabella emerge come se la prima ondata primaverile ha riguardato soprattutto il Nord e in particolare la Lombardia, con la seconda ondata in autunno il Covid ha causato numerosi morti in tutta Italia. Da marzo a maggio oltre l’85% dei decessi era avvenuto nel Nord Italia (Emilia-Romagna compresa). Da ottobre al 2 dicembre invece la percentuale di morti sul totale nazionale ha superato il 40% nelle Regioni del Centro-Sud. La maggior parte dei decessi rimane quindi concentrata nella parte settentrionale della penisola, ma non c’è più la sproporzione che si era verificata in Primavera. Dopo la Lombardia, (22.252) La seconda regione per numero di decessi è l’Emilia Romagna con 5.805 (10,4% del totale), seguita da Piemonte 5556 (10%), Veneto 3899 (7%), Lazio 2525 (4,5%) e Liguria 2419 (4,3%).
L’età dei deceduti – L’età media dei morti è 80 anni ed è andata sostanzialmente aumentando fino agli 85 anni toccati durante la prima settimana di luglio, per poi tornare calare. I pazienti deceduti inoltre hanno un’età mediana più alta di oltre 30 anni rispetto a quella dei pazienti che hanno contratto l’infezione (età mediane: pazienti deceduti 82 anni – pazienti con infezione 48 anni). Le donne decedute (il 42,3% del totale) hanno un’età più alta rispetto agli uomini (età mediane: donne 85 – uomini 80). Al 2 dicembre invece sono 657 (1,2%) i pazienti deceduti di età inferiore ai 50 anni. In particolare, 163 di questi avevano meno di 40 anni (102 uomini e 61 donne con età compresa tra 0 e 39 anni). Di 29 pazienti di età inferiore ai 40 anni non sono disponibili informazioni cliniche. Degli altri pazienti, 119 presentavano gravi patologie preesistenti (patologie cardiovascolari, renali, psichiatriche, diabete, obesità) e 15 invece non avevano diagnosticate patologie di rilievo.
Le patologie preesistenti – In media le persone morte dopo avere contratto il Covid, secondo l’analisi dell’Iss basata su 5726 deceduti, avevano 3,6 malattie preesistenti e diagnosticate. Complessivamente, il 3,1% dei pazienti analizzati non presentavano patologie, il 12,4% presentava una patologia, il 18,5% presentava due patologie e il 65,9% presentava tre o più patologie. Tra queste la più frequente è l’ipertensione arteriosa. Diabete di tipo 2 e cardiopatia ischemica sono le altre patologie osservate più frequentemente, seguite da fibrillazione atriale, demenza e insufficienza renale cronica.
Diagnosi, sintomi e terapie – Nel 90,8% delle diagnosi di ricovero erano menzionate condizioni (per esempio polmonite, insufficienza respiratoria) o sintomi (per esempio, febbre, dispnea, tosse) compatibili con il coronavirus. Nel 9,2% dei casi la diagnosi di ricovero non era da correlarsi all’infezione. I sintomi più comunemente osservati prima del ricovero nei pazienti deceduti sono nell’ordine dispnea, febbre e tosse, meno comuni sono diarrea e emottisi. L’8,1% delle persone non presentava alcun sintomo al momento del ricovero. L’insufficienza respiratoria è stata invece la complicanza più comunemente osservata nel campione (94,1% dei casi), seguita da danno renale acuto (23,6%), sovrainfezione (19,3%) e danno miocardico acuto (10,8%). La terapia antibiotica è stata comunemente utilizzata nel corso del ricovero (85,9% dei casi), meno utilizzata quella antivirale (50,2%), più raramente la terapia steroidea (49,8%). Il comune utilizzo di terapia antibiotica, spiega l’Iss, può essere spiegato dalla presenza di sovrainfezioni o è compatibile con l’inizio di una terapia empirica in pazienti con polmonite, in attesa di conferma di un tampone positivo. Estremamente diverso, evidenzia sempre il rapporti, l’uso dei farmaci nei tre periodi considerati, con una netta riduzione nell’utilizzo degli antivirali e un aumento nell’uso degli steroidi da giugno in poi.
Dai sintomi al decesso: i tempi – Il tempo mediano che trascorre dall’insorgenza dei sintomi al decesso è di 12 giorni: dall’insorgenza dei sintomi al ricovero in ospedale passano 5 giorni, dal ricovero al decesso altri 7 giorni. Il tempo intercorso dal ricovero in ospedale al decesso è più lungo per coloro che vengono trasferiti in rianimazione (12 giorni contro 6 giorni). L’Iss fa notare che tra il periodo marzo-maggio e l’estate praticamente raddoppia il tempo che trascorre dall’insorgenza dei sintomi al decesso, mentre torna ai livelli iniziali durante l’autunno. Inoltre, diminuisce il tempo che trascorre dall’insorgenza dei sintomi all’esecuzione del tampone sia in estate che in autunno rispetto alla prima ondata, così come il tempo tra l’insorgenza dei sintomi e il ricovero in ospedale: questi risultati, si legge nel rapporto, sembrano suggerire una maggiore reattività del sistema sanitario testimoniata dalla maggiore rapidità nell’esecuzione di esami diagnostici e nell’ospedalizzazione. Infine, l’Iss evidenzia che la maggior parte dei pazienti deceduti proveniva dal proprio domicilio (53,3%). Il 22,9% proveniva invece da strutture residenziali socio-sanitarie o socio-assistenziali (Rsa, casa di riposo, hospice, reparti o strutture di lungo degenza). Il 18,6% era stato trasferito da un altro ospedale e il 5,2% da altre strutture non specificate.
Da ravennanotizie.it 12 dicembre 2020. È di qualche giorno fa – data 2 dicembre 2020 – il Report sulle caratteristiche dei pazienti deceduti positivi all’infezione da Covid-19 in Italia elaborato nell’ambito dell’ISS Istituto Superiore di Sanità. L’analisi si basa su un campione di 55.824 pazienti deceduti e positivi all’infezione in Italia, appunto. Il Rapporto è stato prodotto dai membri del Gruppo della Sorveglianza Covid-19 (in fondo l’elenco dei membri). In sintesi il report racconta che l’età media dei deceduti è 80 anni (più alta per le donne, meno per gli uomini). Solo l’1,2%, ovvero 657 morti era under 50. Il 97% dei deceduti aveva malattie precedenti. La distribuzione geografica – La prima regione per numero di morti è la Lombardia (quasi il 40%), seguita dall’Emilia Romagna (10,4%), poi Piemonte, Veneto, Lazio e Liguria. I sintomi più comuni al momento del ricovero sono febbre, dispnea e tosse. In estate l’età media delle vittime era salita fino ad arrivare a 85 anni (la prima settimana di luglio, per poi tornare a calare). La diversa distribuzione territoriale in questa seconda ondata ha cambiato le proporzioni: da marzo a maggio in Lombardia si registravano il 47,6% delle morti, quasi la metà del totale, per scendere al 32,3% nel periodo giugno-settembre e al 27% tra ottobre e dicembre. In calo rispetto al dato generale anche il Piemonte, che aveva l’11,9% dei decessi nella prima fase, per poi calare al 9,2% in estate e al 6,7% nella seconda ondata. Viceversa, le regioni del centro sud hanno visto incrementare il loro contributo alle vittime totali: il Lazio è passato dal 2,4% della prima ondata al 7,9% della seconda, la Toscana dal 3% al 6,4. Peggio la Sicilia, passata dallo 0,9% al 6,2% del totale, e la Campania, dall,1,4% all’8,3%. Dati demografici – L’età media dei pazienti deceduti e positivi a Covid-19 si colloca circa a 80 anni. Le donne sono il 42,3% del totale, gli uomini il 57,7%. L’età media dei pazienti deceduti è più alta di oltre 30 anni rispetto a quella dei pazienti che hanno contratto l’infezione (età mediane: pazienti deceduti 82 anni, pazienti con infezione 48 anni). La figura 1 mostra il numero dei decessi per fascia di età. Le donne decedute dopo aver contratto infezione da Covid-19 hanno un’età più alta rispetto agli uomini (età mediane: donne 85 – uomini 80).
Patologie preesistenti – La tabella che segue presenta le più comuni patologie croniche preesistenti (diagnosticate prima di contrarre l’infezione da Covid-19) nei pazienti deceduti. Questo dato è stato ottenuto da 5.726 deceduti per i quali è stato possibile analizzare le cartelle cliniche. Il numero medio di patologie osservate in questa popolazione è di 3,6. Complessivamente, 180 pazienti (3,1% del campione) non presentavano patologie, 712 (12,4%) presentavano 1 patologia, 1.060 (18,5%) presentavano 2 patologie e 3.774 (65,9%) presentavano 3 o più patologie. Prima del ricovero in ospedale, il 21% dei pazienti deceduti Covid-19 positivi seguiva una terapia con ACEinibitori e il 14% una terapia con Sartani (bloccanti del recettore per l’angiotensina). Nelle donne il numero medio di patologie osservate è di 3,8; negli uomini il numero medio di patologie osservate è di 3,5.
Diagnosi di ricovero – Nel 90,8% delle diagnosi di ricovero erano menzionate condizioni (per esempio polmonite, insufficienza respiratoria) o sintomi (per esempio, febbre, dispnea, tosse) compatibili con SARS-CoV-2. In 491 casi (9,2% dei casi) la diagnosi di ricovero non era da correlarsi all’infezione. In 72 casi la diagnosi di ricovero riguardava esclusivamente patologie neoplastiche, in 165 casi patologie cardiovascolari (per esempio infarto miocardico acuto-IMA, scompenso cardiaco, ictus), in 70 casi patologie gastrointestinali (per esempio colecistite, perforazione intestinale, occlusione intestinale, cirrosi), in 184 casi altre patologie.
Sintomi – I sintomi più comunemente osservati prima del ricovero nei pazienti deceduti positivi al Covid erano: febbre, dispnea e tosse. Meno frequenti sono diarrea e emottisi. L’8,1% delle persone non presentava alcun sintomo al momento del ricovero.
Complicanze – L’insufficienza respiratoria è stata la complicanza più comunemente osservata in questo campione (94,1% dei casi), seguita da danno renale acuto (23,6%), sovrainfezione (19,3%) e danno miocardico acuto (10,8%).
Terapie – La terapia antibiotica è stata comunemente utilizzata nel corso del ricovero (85,9% dei casi), meno usata quella antivirale (50,2%), più raramente la terapia steroidea (49,8%). Il comune utilizzo di terapia antibiotica può essere spiegato dalla presenza di sovrainfezioni o è compatibile con inizio terapia empirica in pazienti con polmonite, in attesa di conferma laboratoristica di COVID-19. In 1.384 casi (24,5%) sono state utilizzate tutte e tre le terapie. Al 4,1% dei pazienti deceduti positivi all’infezione da SARS-CoV-2 è stato somministrato Tocilizumab.
Tempi – L’ultima tabella mostra i tempi mediani (in giorni) che trascorrono dall’insorgenza dei sintomi al decesso (12 giorni), dall’insorgenza dei sintomi al ricovero in ospedale (5 giorni) e dal ricovero in ospedale al decesso (7 giorni). Il tempo intercorso dal ricovero in ospedale al decesso è di 6 giorni più lungo in coloro che sono stati trasferiti in rianimazione rispetto a quelli che non sono stati trasferiti (12 giorni contro 6 giorni). 9. Decessi di età inferiore ai 50 anni Al 2 dicembre 2020 sono 657, dei 55.824 (1,2%), i pazienti deceduti SARS-CoV-2 positivi di età inferiore ai 50 anni. In particolare, 163 di questi avevano meno di 40 anni (102 uomini e 61 donne con età compresa tra 0 e 39 anni). Di 29 pazienti di età inferiore ai 40 anni non sono disponibili informazioni cliniche; degli altri pazienti, 119 presentavano gravi patologie preesistenti (patologie cardiovascolari, renali, psichiatriche, diabete, obesità) e 15 non avevano diagnosticate patologie di rilievo.
Stefano D'Orazio morto di coronavirus, Dagospia: "Il problema è sempre lo stesso", la malattia prima del Covid. Libero Quotidiano il 07 novembre 2020. Era il "bersaglio perfetto" del Covid, Stefano D'Orazio. Lo storico batterista dei Pooh scomparso venerdì a 72 anni, spiega Dagospia, "aveva una malattia del Sistema Immunitario che non gli ha dato scampo. Una malattia autoimmune contro la quale combatteva da anni". Per questo il coronavirus, innestato su una situazione critica complessa (anche se non compromessa, come confermato dalla moglie del musicista Tiziana Giardoni), è risultato drammaticamente decisivo. "Il problema è sempre quello - prosegue Dago -: se il sistema immunitario è compromesso, il rischio di morire una volta contratto il Covid-19 aumenta molto, spesso in modo inesorabile". Come confermato dai compagni di band di D'Orazio, Red Canzian e Roby Facchinetti, la situazione è precipitata in poche ore: ricoverato da una settimana, soltanto venerdì pomeriggio Stefano era sembrato migliorare. Poi il tragico epilogo, comune anche a molte vittime di questa epidemia meno famose di lui.
Se è Covid, è per sempre. Gioia Locati il 13 ottobre 2020 su Il Giornale. “Quando sei in ospedale, il timbro di fabbrica, te lo dà la positività al virus. Se sei positivo e asintomatico e vieni ricoverato per un infarto, diventi un paziente Covid (e se a causa dell’infarto finisci in terapia intensiva, sei comunque paziente Covid”). Non solo. “Se sei stato positivo al Sars-Cov-2 e in seguito diventato negativo, se ti dovessero capitare un infarto o un ictus fatali, sei annoverato fra i morti di Covid. È un assurdo, lo so, ma oggi si ragiona così”. Queste sono le parole di Luca Zaia, presidente della Regione Veneto, pronunciate alla conferenza stampa del 27 agosto. Per la verità, su questo “timbro di fabbrica” indelebile come un tatuaggio, avremmo volentieri accolto chiarimenti o approfondimenti da parte del Comitato Tecnico Scientifico o dell’Istituto Superiore di Sanità. Ma non sono mai arrivate risposte alle nostre domande (inoltrate dalla prima settimana di settembre). Soltanto una telefonata informale con l’ufficio stampa durante la quale ci è stato riferito che “non conoscendo il virus, prudenzialmente, si può pensare che qualsiasi malattia sopraggiunta dopo la negativizzazione sia dovuta al virus stesso”. È assurdo ma è così.
Paese che vai, virus che trovi. Tuttavia in questo caso si tratta di una licenza tutta italiana. Le linee guida OMS sulle cause di morte da Covid 19 sono ben diverse. Leggete qui e osservate la tabella allegata con la scritta No Covid 19 Death. In Italia chi è positivo e poi muore per un infarto è contato come decesso Covid, secondo i parametri OMS invece, nello stesso caso, la morte è da ascrivere ad infarto. Ci si chiede se questo modo di classificare i decessi possa spiegare l’ alta letalità attribuita al Covid 19 in Italia, mentre in altri Paesi è stata ed è minore. Fra le linee guida OMS troviamo: “È importante registrare e segnalare i decessi dovuti a COVID-19 in modo uniforme” (pag 3). E: “I cambiamenti (nel modo di classificare i decessi, ndr) a livello nazionale porteranno a dati meno comparabili a quelli di altri Paesi e meno utili per l’analisi” (pag 9).
L’OMS ricorda che esistono anche altre malattie:
“Le persone con COVID-19 possono morire per altre malattie o incidenti, tali casi non sono decessi dovuti a COVID-19 e non dovrebbero essere registrate come tali. Nel caso in cui pensi che COVID-19 abbia aggravato il decesso, è possibile segnalare COVID-19 nella Parte 2”. (Pag 7). Per valutare i dati dell’epidemia di oggi, occorre non dimenticare questa premessa, il cosiddetto “timbro di fabbrica”.
Come colpisce il Covid: confronto fra ieri e oggi. Dati relativi al 5 ottobre 2020 e paragonati con quelli di sei mesi prima, il 5 aprile 2020 vedi tabelle ISS allegate:
Positivi al test oggi 59.000 vs. sei mesi fa 91.000
Tamponi effettuati totali 12.000.000 vs. 700.000
Ospedalizzati oggi 3.500 vs. 29.000
Terapia intensiva oggi 300 vs. 4.000
Deceduti nella giornata 16 vs. 525
In sintesi:
I positivi sono il 65% rispetto a 6 mesi fa, tanti, però:
I malati in ospedale sono il 12%
I malati in terapia intensiva sono il 7,5%
I deceduti nella giornata sono il 3%
Abbiamo chiesto un commento a questi numeri all’epidemiologo Stefano Petti: “Sono le percentuali, progressivamente in calo, a fotografare l’oggi. È evidente che le persone positive non si ammalano come sei mesi fa e non vanno in rianimazione come sei mesi fa. Altrimenti, entro pochi giorni, il tempo per i positivi di ammalarsi seriamente, vedremmo la stessa proporzione, il 65%, anche nei ricoverati e in quelli in terapia intensiva, oltre che nei decessi. Invece siamo al 12%, il 7% e il 3%”.
Aggiunge Petti: “È chiaro che il virus è assai meno aggressivo di sei mesi fa. I numeri sono questi e sui numeri non ci possono essere dispute. Osservando la tabella ISS sulla proporzione di casi negli ultimi 30 giorni, suddivisi per stato clinico ed età, si nota che su 47.468 soggetti oltre il 50% degli ultranovantenni è asintomatico”.
Ps. Infine, sulla conta dei morti, non dimentichiamo che c’è il “timbro di fabbrica”.
Melania Rizzoli per ''Libero Quotidiano'' il 17 settembre 2020. Lo scorso anno nel nostro Paese sono stati celebrati 650.614 funerali, un numero in linea con la media degli anni precedenti, ma in realtà di cosa muoiono gli italiani? Le principali cause di morte, che raccontano un popolo sempre più vecchio, sono state rese note di recente dall'Istat, i cui dati demografici indicano che l'1,7% della popolazione residente, pari a 60.391.000, passa a "miglior vita" in maggioranza per le solite quattro o cinque patologie più diffuse, nonostante i tassi di mortalità relativi a queste malattie si siano ridotti di oltre il 40% negli ultimi dodici anni.
INFARTO. Tralasciando i dati sulle vittime di Covid-19 dei mesi scorsi, che hanno superato le 35.700 unità seminando angoscia in tutto il Paese, scopriamo che in Italia il boom di decessi è legato a malattie del sistema cardio-circolatorio, poiché tra infarti, ischemie, malattie del cuore e cerebrovascolari, lo scorso anno sono morte 232.992 persone, e il mesto primato dell'insorgere di tali patologie spetta all'ipertensione, ovvero alla pressione alta che corrode cuore ed arterie, la cui incidenza, non essendo sempre curata o trattata a dovere, sul totale dei decessi, è aumentata del 5% rispetto al 3,8% di dieci anni fa. In seconda posizione troviamo i tumori maligni che hanno causato la dipartita di 180.085 malati di cancro, anche se in campo oncologico oggi la situazione è senza dubbio rosea rispetto a qualche tempo fa, ma la sfida resta difficile e i decessi diminuiscono con maggiore lentezza.
SISTEMA RESPIRATORIO. Le malattie del sistema respiratorio, che vanno dalle complicanze dell'influenza alla polmonite, hanno condotto al cimitero 53.372 italiani, mentre quelle del sistema nervoso e degli organi di senso (Parkinson, Alzheimer ecc), raddoppiate rispetto a dieci anni fa, hanno ucciso 30.672 pazienti, un dato questo, che essendo legato alle patologie degenerative tipiche della terza età, racconta bene il crescente invecchiamento della popolazione italiana. Seguono poi le malattie endocrine, nutrizionali e metaboliche, con il diabete mellito che svetta in prima linea (ottava causa di morte nel nostro Paese) le quali hanno fatto perire 29.519 pazienti, un numero superiore alle morti per tumore maligno di colon, seno e pancreas messe insieme. La statistica Istat rivela poi i decessi per disturbi psichici e comportamentali (24.406), per malattie dell'apparato digerente (23.261), per traumi, avvelenamenti, suicidi, omicidi e incidenti stradali (20.565), seguite da morti per cause "mal definite" (non diagnosticate) e risultati anomali (14.257), per malattie infettive e parassitarie (14.070), patologie dell'apparato genito-urinario (12.017), del sistema osteomuscolare e tessuto connettivo (3.651), malattie del sangue e del sistema immunitario (3.272), della cute e del tessuto sottocutaneo (1.413), per finire con le malformazioni congenite e malattie cromosomiche (1.399), condizioni morbose di origine perinatale (801), e complicazioni della gravidanza e del parto (16). La curiosità da segnalare è che al 17esimo posto di questa funerea classifica spunta la setticemia, in aumento del 13,1%, che ormai rappresenta l'1.3% di tutte le morti, poiché la sepsi (infezione diffusa in tutto il corpo) è spesso associata ad un quadro morboso caratterizzato da patologie croniche sottostanti, il cui peso aumenta con l'invecchiamento, per cui tale incremento di mortalità è legato alla maggiore presenza di anziani multicronici ed alla crescente importanza attribuita a questa causa dai medici certificatori.
PARKINSON E ALZHEIMER. L'Istat segnala anche che risultano crescenti le morti per Parkinson (10,8%) e di tumore maligno del cervello (17,6%), la cui eziologia di entrambe le patologie è tuttora sconosciuta. Ancora più doloroso è il dato relativo ai suicidi, diverse migliaia all'anno, una delle prime cause di morte dei giovani trai 15 e i 24 anni, anche se per questa fascia di età i numeri pareggiano con quelli degli incidenti stradali. La buona notizia, allargando lo sguardo al quadro complessivo dei dati su riportati, è che c'è da essere ottimisti, perché sono poche le malattie in cui è aumentata la mortalità, nel tempo le tre principali cause di decesso sono diventate meno frequenti, migliorando di molto la prospettiva di vita degli italiani, e nel caso delle malattie del sistema cardio-vascolare il miglioramento è stato rapido, tanto che in diverse regioni, come quelle del Nord, il tasso di mortalità risulta più che dimezzato. Un'altra linea di demarcazione è il genere, poiché le donne vivono diversi anni più degli uomini e di conseguenza il loro tasso di mortalità è minore, con qualche eccezione, perché quando si tratta di asma, influenza o disturbi psichici e comportamentali essere uomini o donne non fa differenza, anche se queste ultime muoiono più dei maschi di Alzheimer. I numeri, ad ogni modo, non vanno presi alla lettera anche quando provengono dall'Istat, perché a volte è difficile determinare con esattezza una causa di morte, mentre altre volte è cambiato il modo in cui gli eventi terminali vengono catalogati dai medici. E i dati della settimana scorsa sfatano una paura collettiva di questi mesi e confermano una certezza scientifica: nel nostro Paese non si muore di solo Covid. L'altro giorno per esempio nell'arco delle 24 ore in Italia sono decedute per tumore 360 persone, 269 per cause cardiocircolatorie, 10 per suicidio e 6 per Covid. Giudicate voi.
Sono morti, ma erano già guariti: contati come vittime del Covid. Il bollettino della protezione civile riguardo agli 11 decessi del Veneto parla chiaro: "Si tratta in gran parte di pazienti nel frattempo negativizzatisi, ma che su indicazione del ministero vanno registrati comunque come soggetti con infezione da Covid". Federico Garau, Venerdì 28/08/2020 su Il Giornale. Aveva destato una certa apprensione il numero di decessi (11) per Covid-19 registrato in Veneto lo scorso mercoledì 26 agosto. A quanto pare, tuttavia, i dati riferiti ai cittadini necessitano di essere esaminati con particolare attenzione, dato che, come svelato da "La Verità", a finire nel conteggio delle morti per Coronavirus non sono soltanto le vittime conclamate del morbo, ma anche le persone guarite o negativizzate. Per fornire un quadro preciso della situazione, il quotidiano di Maurizio Belpietro riporta proprio il bollettino giornaliero in questione, dove si leggono delle informazioni che nelle ultime ore hanno scatenato una forte polemica, soprattutto sui social. "L'alto numero di decessi, 11, registrati nel bollettino Covid della Regione Veneto comprende soggetti, quasi tutti anziani, morti sul territorio (non in ospedale) negli ultimi giorni, e conteggiati solo oggi", si legge infatti nel documento, che poi prosegue: "Si tratta in gran parte inoltre di pazienti contagiati dal virus nei mesi scorsi, nel frattempo negativizzatisi, ma che su indicazione del ministero della Sanità vanno registrati comunque come soggetti con infezione da Covid". In molti, sul web, si stanno adesso lecitamente ponendo delle domande. Gli 11 cittadini morti in Veneto non si trovavano in ospedale, non erano pazienti affetti da una grave forma di Coronavirus, anzi, alcuni di loro si erano addirittura negativizzati. Perché inserirli nella conta, quando il decesso è avvenuto per altre cause? "Cioè, basta avere avuto il virus in passato, poi se muori è sempre colpa del virus?”, si domanda su Facebook un utente indignato, come riportato da "AffariItaliani". Pare che il ragionamento, almeno per quanto riguarda il bollettino in esame, sia proprio questo: siccome in passato avevano avuto il Coronavirus, le persone decedute devono essere aggiunte alla macabra conta che viene comunicata ogni sera insieme al numero dei positivi. E se un ex paziente Covid morisse tragicamente in un incidente stradale, anche in questo caso andrebbe a sommarsi alle morti per Sars-Cov-2? Questa è la domanda che si pongono in tanti. "La Verità" ha quindi deciso di chiedere delle precisazioni direttamente all'Istituto superiore di sanità. L'ente ha risposto che il Covid-19"è una malattia ancora in fase di studio (...), non si conoscono bene le conseguenze a lungo termine di questo virus, ed i pazienti contagiati, seppur negativizzati, potrebbero morire dopo diverso tempo comunque per i danni causati dal Coronavirus". Inoltre, "non è certo che i pazienti risultati negativi al tampone abbiano poi totalmente debellato il virus. Il monitoraggio di chi è stato paziente Covid continua anche sul lungo periodo, perché il virus potrebbe fare danni a lungo termine". Questa, dunque, sarebbe la risposta. L'Istat, aggiunge "La Verità", ha inviato al personale medico dei moduli in parte già compilati, per condurre degli studi epidemiologici. "È importante riportare sempre l'informazione, confermata o sospetta, della presenza di Covid-19. Se si ritiene che il Covid-19 abbia causato direttamente il decesso, riportare questa condizione nella parte I, anche se non c'è una diagnosi confermata. Riportare comunque la condizione indicando probabile o sospetta", si legge nelle indicazioni riportate sui modelli inviati ai medici. La sola "probabilità" basta a far pensare al Coronavirus, quando in realtà l'unico metodo inconfutabile per risalire alle reali cause del decesso resta l'esame autoptico.
(ANSA il 16 luglio 2020) - Il Covid-19 è causa diretta di morte nell'89% dei decessi di persone positive al test SarsCov2, mentre per il restante 11% il decesso è dovuto a malattie cardiovascolari (4,6%), tumori (2,4%), malattie del sistema respiratorio (1%), diabete (0,6%), demenze e malattie dell'apparato digerente (0,6% e 0,5%). Il dato emerge dal Rapporto "Impatto dell'epidemia Covid-19 sulla mortalità" di Istat e Iss in base alle informazioni riportate dai medici in 4.942 schede di morte di soggetti positivi al SarsCov2.
Graziella Melina per "Il Messaggero" il 17 luglio 2020. C'è voluta l'analisi di 4.942 schede di morte di soggetti positivi al SarsCov2 perché alla fine la polemica che ha tenuto banco durante l'epidemia da Covid sulla effettiva letalità del virus si spegnesse in modo definitivo, e senza ulteriori strascichi e puntualizzazioni. Ora il dato è ufficiale e lo certifica l'Istituto Superiore di Sanità insieme all'Istituto Nazionale di Statistica: il Sars Cov 2 è causa diretta di morte nell'89% dei decessi di persone positive, mentre solo per il restante 11% dei pazienti il decesso è dovuto a malattie cardiovascolari (4,6%), nel 2,4% a tumori, nell'1% a malattie del sistema respiratorio, e poi a diabete (0,6%), e a demenze e malattie dell'apparato digerente (rispettivamente 0,6% e 0,5%).
I DATI. Dal rapporto Impatto dell'epidemia Covid-19 sulla mortalità, che prende in considerazione il 15,6% del totale dei decessi notificati fino allo scorso 25 maggio, emerge poi che il Sars Cov 2 ha colpito soprattutto (nel 92%) le persone dai 60 ai 69 anni e nel 82% dei casi chi aveva meno di 50 anni. Tra le concause di morte, si confermano le cardiopatie ipertensive (18% dei decessi), il diabete mellito (16%), nel 13% le cardiopatie ischemiche, per il 12% i tumori (12%). Hanno avuto un peso nell'aggravamento della malattia anche (ma con frequenze inferiori al 10%) le malattie croniche delle basse vie respiratorie, le malattie cerebrovascolari, le demenze o la malattia di Alzheimer e l'obesità. Le complicanze di Covid che portano al decesso sono principalmente la polmonite (79% dei casi) e l'insufficienza respiratoria (55%). Altre complicanze meno frequenti sono lo shock (6%), la sindrome da distress respiratorio acuto (Ards) ed edema polmonare (6%), le complicanze cardiache (3%), la sepsi e poi le infezioni non specificate (3%). Ma che il Sars Cov 2 non debba essere preso sottogamba neanche dai soggetti sani, gli esperti dell'Iss lo ribadiscono chiaramente: Covid-19 è una malattia che «può rivelarsi fatale anche in assenza di concause». E infatti, «non ci sono concause di morte preesistenti nel 28,2% dei decessi analizzati - come si legge nel rapporto - percentuale simile nei due sessi e nelle diverse classi di età». Solo tra 0-49 anni la percentuale di decessi senza concause è più bassa, pari al 18%. Il 71,8% dei decessi di positivi ha invece almeno una concausa: il 31,3% una, il 26,8% due, il 13,7% tre o più.
I COMMENTI. «Finalmente questo rapporto conferma in maniera definitiva il dato sulla mortalità da Covid precisando che nella stragrande maggioranza dei casi la mortalità è legata direttamente alla presenza del virus - commenta Massimo Andreoni, direttore clinica malattie infettive del Policlinico Tor Vergata di Roma -. Questi dati attestano quella che è l'osservazione clinica abituale, ossia che anche in pazienti con precedenti comorbidità, in alcuni casi estremamente grave, la causa finale di morte è comunque strettamente legata alla presenza del virus. Quindi - sottolinea Andreoni - la discussione legata al concetto se il paziente con Covid muore con Sars cov 2 oppure muore per colpa di Sars cov 2 finalmente trova una sua definitiva conferma sulla importanza che il virus riveste come causa di morte». Anche Claudio Mastroianni, direttore della clinica malattie infettive del Policlinico Umberto I di Roma aveva già osservato sul campo la pericolosità del virus: «Ci siamo subito resi conto, soprattutto nella fase pandemica, come il virus rappresentava il movente principale, la causa iniziale che poi sfociava in complicazioni - ricorda -. Se non ci fosse stato il virus molti dei nostri pazienti probabilmente si sarebbero potuti salvare, non avrebbero avuto le complicanze che si sono verificate. Questo è un aspetto molto importante da considerare soprattutto nella diffusione massima del virus: all'inizio forse c'è stata un'esposizione continua e ripetuta a quantità di Sars Cov 2, documentata anche dagli esami autoptici. I dati oggi lo documentano, e i fatti ce lo dimostrano non solo qui in Italia, ma anche in Paesi dove la pandemia è esplosa. Negli Stati Uniti e in Brasile non credo che ci sarebbero stati tanti morti se il virus non fosse stato così diffuso».
Oltre il Covid 19 troppe morti inspiegabili. Gioia Locati il 17 maggio 2020 su Il Giornale. Ringrazio il professor Stefano Petti, epidemiologo alla Sapienza, che ci invita a riflettere su due studi recenti dedicati alla pandemia. Entrambi i lavori, uno italiano e uno inglese, pubblicati sul British Medical Journal, affermano che vi è stata una mortalità in eccesso e che solo una piccola parte di queste è dovuta alla pandemia. Lo studio inglese fa un passo in più: individua le cause di queste morti nella mancata assistenza ospedaliera. Il primo lavoro esamina la situazione a Nembro, piccolo centro del bergamasco. Per quantificare l’impatto della malattia, gli autori hanno confrontato i morti per tutte le cause verificatisi quest’anno fino all’11 aprile con la mortalità annuale dal 2012 al 2019. Quest’anno, in poco più di tre mesi, da gennaio all’11 aprile, si sono verificati quasi il doppio dei decessi annuali rispetto agli anni precedenti (194 rispetto alla media di 115.25 morti all’anno). La mortalità generale, nel marzo di quest’anno (154.4×1000) poi è stata di ben 11 volte maggiore rispetto alla mortalità generale del marzo 2019 (14.3×1000).
Quale la conclusione degli autori? È innegabile che il Covid 19 sia stato, in qualche modo, responsabile dell’aumento dei decessi. Ma gli autori affermano anche che solo circa la metà dei decessi sono confermati come Covid 19.
Attenzione: In realtà i decessi associati al Covid 19 (cioè persone decedute e positive al test, quindi non necessariamente decedute a causa del Covid 19) sono stati solo 85 dei 194, cioè il 43.8%. Quindi 109 morti verificatesi quest’anno a Nembro, pari al 56,2% del totale, non sono attribuibili al Covid 19. Il loro numero è talmente elevato che rappresenta il 95% della media delle morti che si verificano normalmente in un anno.
Qui le considerazioni di Petti: “In maniera del tutto arbitraria ci è stato detto che anche le morti non accertate per Covid 19 sono dovute al Covid 19 solo che non è stato possibile accertarlo. In base a quali prove questa supposizione dal momento che sono stati fatti i tamponi anche alle persone decedute? Forse al fatto che c’è una percentuale di negativi al tampone che in realtà ha l’infezione da Sars-Cov-2? Non è certo una spiegazione soddisfacente perché allora si potrebbe anche dire che molte persone decedute positive al test avevano solo una infezione nasofaringea da Covid 19 e non erano morte a causa del virus, come lo stesso ISS riporta quotidianamente sui suoi bollettini. In realtà, è probabile che le morti realmente dovute al Covid 19 siano state anche meno di 85, visto che non è stata fatta la distinzione tra morti a causa del Covid 19 e morti per altre cause con una infezione nasofaringea del Sars-cov2”.
Il secondo studio. Il lavoro inglese ha analizzato la mortalità nei piccoli centri del Galles e dell’Inghilterra e concluso che solo un terzo delle morti dichiarate in eccesso si può attribuire al Covid 19. Secondo David Spiegelhalter, presidente del Winton Center for Risk and Evidence Communication presso l’Università di Cambridge, il Covid 19 non ha giustificato l’alto numero di morti che si sono verificate soprattutto nei ricoveri per anziani. Di 30.000 decessi, solo di 10.000 è stato specificato Covid 19 sul certificato di morte. L’autore si chiede se l’enorme numero di morti inspiegabili (non spiegabili con il Covid 19) nelle case di riposo sia dipeso da diagnosi non tempestive. “Spero venga posta una seria attenzione a questo problema” ha detto. Secondo David Leon, professore di epidemiologia alla London School of Hygiene & Tropical Medicine “alcune di queste morti si sarebbero potute risparmiare se le persone fossero state ricoverate in ospedale. Questa situazione richiede un’attenzione urgente e nuove misure per garantire l’accesso ospedaliero a chi ne ha bisogno”. Gli autori concludono che “i dati di oggi hanno mostrato che le strategie per contenere la pandemia del coronavirus nell’assistenza sociale è stata tardiva e inadeguata e ha messo in evidenza importanti debolezze nel sistema di assistenza sociale a causa di decenni di abbandono e di mancanza di riforme. Il Covid 19 ha in definitiva amplificato l’impatto umano di decenni di sottofinanziamento nel settore e l’abbandono della politica”.
Conclusioni. Riflette Petti: “Se i malati (residenti nelle case di riposo) di patologie diverse dal Covid 19 fossero potuti andare in ospedale, non sarebbero morti. Negli ospedali i posti, soprattutto quelli nei reparti di terapia intensiva, erano occupati dall’emergenza Covid. Anche la Regione Lombardia con la delibera dell’8 marzo, si è preoccupata di far posto ai malati di Covid, liberando posti letto. L’allegato 2 indica la possibilità di nuovi posti nelle strutture extra ospedaliere, RSA e centri di riabilitazione. “Così è accaduto che i pazienti ospedalizzati con problemi respiratori, neurologici e cardiologici, anche quelli tracheotomizzati e ventilati artificialmente, purché stabilizzati, ma che non avevano il Covid, venissero trasferiti nelle RSA che certamente non hanno le stesse potenzialità degli ospedali nel trattare tempestivamente patologie respiratorie e cardiocircolatorie acute. A mio parere – aggiunge Petti – l’ipotesi degli epidemiologi inglesi calza anche per la Lombardia. Nelle RSA lombarde vi è un numero molto elevato di anziani con patologie gravi, non autosufficienti, che non hanno avuto accesso agli ospedali perché occupati. In aggiunta a ciò, la delibera ha spostato nelle RSA anche i ricoverati degli ospedali che non avevano il Covid (oltre a una parte di quelli che avevano il Covid). Possiamo purtroppo dire anche noi che molti anziani non sarebbero morti se fossero potuti andare in ospedale. In altre parole: la mortalità nel 2020 è aumentata in modo considerevole per il Covid 19, non solo per la malattia quanto per le misure eccezionali prese per combatterla”.
È stato un errore dei politici o dei consulenti? “Premesso che occorra aumentare i posti di terapia intensiva e subintensiva oltre al personale ma visto che, al momento, queste risorse non ci sono, l’unico aiuto può arrivare da epidemiologi seri, non da promotori dell’allarmismo e del panico. È fondamentale studiare, calcolare, valutare e quindi anche decidere fino a dove arrivare nel gestire un’emergenza”. La tabella allegata è estratta dal terzo report nazionale sulle strutture sociosanitarie redatto dall’ISS e aggiornato il 14 aprile 2020: mostra che su 6673 decessi nei ricoveri italiani solo 364 erano positivi al Covid. Conclude Petti: “Anche volendo ammettere le responsabilità di alcune RSA, cosa che non è assolutamente accertata, ci sono stati troppi decessi per così poco Covid 19”
Simone Pierini per leggo.it il 10 maggio 2020. L'Istituto superiore di sanità ha stilato un rapporto sui decessi legati all'emergenza Covid-19 analizzando i dati ricevuti fino al 7 maggio. L’analisi si basa su un campione di 27.955 pazienti deceduti e risultati positivi all’infezione da SARS-CoV-2 in Italia. Oltre la metà dei morti sono in Lombardia (il 52,3% per l'esattezza), il 13,4% in Emilia Romagna, il 7,8% in Piemonte e il 5,7% in Veneto. Sono queste le regioni più colpite. Per le altre la percentuale è sotto al 4% con sette regioni addirittura sotto l'1%: parliamo di Sicilia, Valle d'Aosta, Sardegna, Calabria, Umbria, Basilicata e Molise. L'età media delle vittime rilevata dallo studio è di 80 anni e risulta di 20 anni superiore all'età media delle persone contagiate dal virus. Di questi il 39% sono donne mentre il restante 61% sono uomini. Le donne inoltre presentavano un'età superiore a quella degli uomini, 85 anni contro 79. Al 7 maggio sono 312 (l'1,1%) i pazienti deceduti di età inferiore ai 50 anni. In particolare, 66 di questi avevano meno di 40 anni (42 uomini e 24 donne con età compresa tra 0 e 39 anni). Di 14 pazienti di età inferiore ai 40 anni non sono al momento disponibili informazioni cliniche, mentre gli altri 40 presentavano gravi patologie preesistenti (patologie cardiovascolari, renali, psichiatriche, diabete, obesità) e 12 non avevano diagnosticate patologie di rilievo. All'interno del rapporto è stato analizzato il quadro clinico delle cartelle di 2621 persone decedute. Quasi il 60% delle vittime presentavano tre o più patologie pregresse, il 21,3% ne presentava due, il 15% ne presentava una e solo il 3% non presentava alcuna patologia. Il numero medio totale di malattie preesistenti è superiore a 3. Il 24% dei pazienti deceduti SARS-CoV-2 positivi seguiva una terapia con ACEinibitori e il 17% una terapia con Sartani. «Sono morte per coronavirus?», è una delle domande più frequente posta dai cittadini che ha successivamente scatenato le teorie complottistiche che negavano l'impatto del virus sulla mortalità. Sempre seguendo il campione delle 2621 cartelle cliniche analizzate risulta che nel 92,5% delle diagnosi di ricovero erano menzionate condizioni come polmonite, insufficienza respiratoria o sintomi compatibili con Covid-19. Nel restante 7,5% dei casi la diagnosi di ricovero non era da correlarsi all’infezione: in 20 casi la diagnosi di ricovero riguardava esclusivamente patologie neoplastiche, in 74 casi patologie cardiovascolari (per esempio infarto miocardico acuto, scompenso cardiaco, ictus), in 24 casi patologie gastrointestinali (per esempio colecistite, perforazione intestinale, occlusione intestinale, cirrosi), in 66 casi altre patologie. Tra le complicanze più diffuse c'è l’insufficienza respiratoria (il 97,0% dei casi), seguita dal danno renale acuto (22,6%), dalla sovrainfezione (12,4%) e dal danno miocardico acuto (10,8%). I sintomi più comunemente osservati prima del ricovero nei pazienti deceduti positivi all’infezione da SARS-CoV-2: febbre dispnea e tosse rappresentano i più comuni, meno frequenti sono diarrea e emottisi. Infine Il 5,8% delle persone non presentava alcun sintomo al momento del ricovero. La cura più utilizzata nei pazienti deceduti analizzati dalle cartelle cliniche è stata la terapia antibiotica (per l'85% dei casi), meno usata quella antivirale (57%), più raramente la terapia steroidea (37%). Il comune utilizzo di terapia antibiotica può essere spiegato dalla presenza di sovrainfezioni o è compatibile con l'inizio di una terapia empirica in pazienti che presentavano la polmonite, in attesa di una conferma dal laboratorio della positività al Covid-19. In 557 casi (21,6%) sono state utilizzate tutte e tre le terapie. Al 4,2% dei pazienti è stato invece somministrato Tocilizumab. L'Iss ha anche analizzato i diversi lassi di tempo passati in base all'inizio dei sintomi, al ricovero fino al decesso. Dall'insorgere dei primi sintomi al decessi mediamente sono passati dieci giorni, dai sintomi al ricovero in ospedale altri cinque giorni e dal ricovero alla morte ulteriori cinque giorni. Il tempo intercorso dal ricovero in ospedale al decesso è di 4 giorni più lungo in coloro che sono stati trasferiti in rianimazione rispetto a quelli che non sono stati trasferiti (9 giorni contro 5 giorni).
Un’epidemia con dati poco affidabili. Le proposte. Gioia Locati il 24 marzo 2020 su Il Giornale. Condivido con voi i dati disponibili sull’infezione da Coronavirus e alcune riflessioni che, nelle ultime ore, dopo tanto ascoltare e leggere, hanno catturato la mia attenzione. Da un lato siamo bombardati dai bollettini angoscianti, i numeri dei contagiati aumentano ogni ora, dall’altro vi sono voci critiche su come vadano interpretati questi numeri.
Le morti accertate. A oggi ci sono 5.476 morti di “presunta malattia Covid”. L’Istituto Superiore di Sanità parla di “presunta malattia” perchè sono ancora da valutare la gran parte delle cartelle cliniche. Il 18 marzo, dopo aver esaminato 355 cartelle delle 2.003 pervenute, l’Istituto Superiore di Sanità, aveva dichiarato che solo 3 persone morte (di o con il coronavirus) non avevano altre patologie concomitanti. Cliccate qui. Gli altri 352 defunti presentavano in media 3 co-morbilità, può darsi perciò che la causa di morte sia stata un’altra malattia o sia successo che la polmonite interstiziale abbia aggravato quadri clinici già compromessi. Questi dati sono fondamentali per capire da quale nemico stiamo cercando di proteggerci. Il fatto che sia “pericoloso” solo per gli anziani o per le persone malate non vuol certo dire che lo si debba sottovalutare. Ma c’è chi afferma che il virus sia potenzialmente virulento per tutti. Nelle righe che seguono troverete il parere di un epidemiologo americano, John Ioannidis (è anche statistico ed è uno dei ricercatori tra i più citati al mondo); leggerete i dati che Stefano Petti, docente di Epidemiologia alla Sapienza, ha divulgato ai suoi studenti e gentilmente condiviso con noi e ascolterete il medico Ernesto Burgio, ricercatore di biologia molecolare, Presidente del comitato scientifico della Società Italiana di Medicina Ambientale (SIMA) e membro del consiglio scientifico di ECERI (European Cancer and Environment Research Institute) di Bruxelles che spiega molto bene perché questo virus a Rna è assai virulento e non è paragonabile a una comune influenza.
La mancanza di dati. “Un fiasco in divenire?” Inizia così l’articolo dell’epidemiologo John Ioannidis, che trovate qui. A tre mesi dalla comparsa dell’epidemia, l’autore lamenta per la maggior parte dei Paesi, “la mancanza di dati affidabili sulla prevalenza del virus in un campione casuale rappresentativo della popolazione generale”. Scrive: “Man mano che la pandemia di coronavirus prende piede, stiamo prendendo decisioni senza dati affidabili“. E ancora: “Un tasso di letalità nella popolazione dello 0,05% è inferiore a quello dell’influenza stagionale. Se questo è il vero tasso, bloccare il mondo con conseguenze sociali e finanziarie potenzialmente enormi può essere totalmente irrazionale”.
I numeri. “Soltanto alla fine dell’anno sarà possibile confrontare i dati della mortalità del 2020 con le annate precedente. E, guardando ai morti in più, si potrà comprendere il fenomeno – spiega Stefano Petti – L’andamento della mortalità italiana non è per nulla regolare, segue picchi periodici – mai chiariti peraltro – a distanza di circa 2-4 anni. Ad esempio nell’inverno del 2015, da gennaio a marzo, si verificarono 217.000 morti premature in Europa tra gli ultra65enni e soltanto 9.000 distribuite nelle altre fasce di età, solo parzialmente attribuite all’influenza. L’Italia, quell’anno, pagò il prezzo più alto: 45.000 decessi in soli tre mesi (Michelozzi et al, 2016). Non è finita. Nell’inverno 2017 emerse un altro picco. In una sola settimana, l’ultima di febbraio, ci furono 55.000 decessi prematuri in Europa tra gli ultra65enni, le altre classi di età neanche sfiorate. Cliccate qui”.
La situazione oggi. “Nei mesi scorsi l’andamento della mortalità negli over 65 è stato più basso dell’atteso. Trovate qui i dati. Nell’ultima settimana del 2019 e nella prima del 2020 i decessi sono risultati addirittura al di sotto dell’intervallo di confidenza (la forbice che stima le morti attese). Sia la distanza dai picchi del 2015 e del 2017, sia l’andamento delle ultime settimane facevano prevedere un eccesso di morti nelle settimane successive. Che si è verificato nella settimana 1-7 marzo. A queste settimana di picco si aggiungeranno anche le successive, si avrà un eccesso di mortalità che compenserà un difetto del periodo precedente”.
La situazione in Lombardia. Continua Petti: “Ho calcolato le morti in eccesso in Italia e in Lombardia per il 2019, secondo il trend dal 2002 al 2018: le morti attese in Italia nel 2019 erano 642.000 ma se ne sono verificate 647.000, quindi 5.000 in più dell’atteso ma comunque entro l’intervallo di confidenza (627.000-656.000). Ho fatto lo stesso calcolo per la Lombardia ed è emerso che le morti attese erano 98.500 ma se ne sono verificate quasi 102.000, quindi quasi 3.500 in più dell’atteso e oltre l’intervallo di confidenza (96.000-101.000). È quindi una differenza totalmente inaspettata che ci dice che nel 2019 il 70% delle morti in eccesso in Italia si sono verificate nella sola Lombardia. La Lombardia ha sempre avuto un numero di decessi pari al 15% del numero totale in Italia ma questa percentuale sta rapidamente aumentando dal 2014 ad oggi e questo si riflette nell’enorme numero di decessi per cause multiple che si sta verificando in questa regione”.
“È virulento, lo sappiamo dal giorno del sequenziamento”. Vi invito ad ascoltare l’intervista che il ricercatore Ernesto Burgio ha rilasciato qui. (Dura 1h 43m). Burgio afferma che “da quando il virus è stato sequenziato sono note ai ricercatori alcune caratteristiche dei virus pandemici (ad esempio se la carica infettiva è alta, si scatena nel corpo una tempesta di molecole infiammatorie, responsabile dell’aggravamento dell’infezione). E che potrebbe rivelarsi pericoloso per tutti, non solo per gli anziani o i più cagionevoli”. Suggerisce di “immaginare lo scenario peggiore per non farsi trovare impreparati in autunno”. Propone di creare “corridoi sanitari” come è stato fatto a Wuhan: “Proteggere medici e infermieri; smistare i positivi e isolarli dai familiari; estendere il monitoraggio ai contatti; creare reparti intermedi per chi ha bisogno di ossigeno ma non di incubazione”. Burgio ricorda poi che “il rischio maggiore non è all’aperto ma nei luoghi chiusi con poco ricambio d’aria. Occorre ridurre la trasmissione dove sta avvenendo, soprattutto negli ospedali”. Infine, condivido un appello di alcuni concittadini bresciani.
I posti letto delle cliniche private. Quante strutture private di ricovero e cura in Lombardia potrebbero prestare i propri posti letto agli ospedali bergamaschi e bresciani? A Brescia stanno dimettendo dall’ospedale pubblico pazienti anziani malati di Covid, con febbre alta e tosse, “perchè respirano da soli”, visto che non ci sono posti per tutti. I familiari di questi malati avrebbero trovato accoglienza in cliniche private a pagamento. In questa grave situazione di emergenza tutta la società è chiamata a collaborare, a rinunciare a qualcosa, dal lavoro alle libertà individuali. Stanno arrivando 8mila sanitari a rinforzo, presto saranno disponibili le agognate mascherine, alcuni alberghi mettono a disposizione i propri posti letto. E come mai la Regione Lombardia, che pure negli anni ha incentivato l’apertura di numerose cliniche private, non ha ancora chiesto di poter disporre di quei posti letto?
Coronavirus, Walter Ricciardi: "Perché così tanti morti in Italia? Solo per una minoranza il virus è la vera causa”. Libero Quotidiano il 21 marzo 2020. Non si arrestano i contagi e i decessi in Italia di coronavirus. Con l'ultimo bollettino rilasciato venerdì 20 marzo dalla Protezione Civile, l’Italia il picco di vittime fino ad ora registrate: 627. Eppure per Walter Ricciardi, consulente speciale del ministero della Salute sull’epidemia, la colpa non è da imputare solo all'epidemia. "Non dobbiamo paragonare l’Italia alla Cina, ma l’Italia all’Hubei e la Lombardia a Wuhan, perché - spiega in un'intervista a Tpi - se paragoniamo l’Italia alla Cina siamo fuori scala. In Cina l’epidemia ha coinvolto un territorio di 60 milioni di abitanti, significa che il cuore del focolaio epidemico è grande come la Lombardia e che il denominatore è più o meno lo stesso, e la dinamica è più o meno la stessa, con il rallentamento che stiamo osservando anche in Italia”. Ma non solo perché il nostro Paese vanta (si fa per dire) un tasso di letalità elevato. "Per questo ci sono due spiegazioni. La prima - prosegue - è l’età della nostra popolazione: l’età media dei pazienti ricoverati a Wuhan era di 46 anni, la nostra è superiore ai 63 anni, e quando hai in ospedale pazienti più anziani hai conseguenze più pericolose dal punto di vista della prognosi". La seconda spiegazione, invece, non è da mettere a confronto con la Cina, bensì con gli altri Paesi europei. Si tratta della "codifica delle morti", che si effettua su base regionale ed è molto generosa nell’attribuire al virus la causa diretta di mortalità. "Come dimostrano le procedure di verifica dell’Istituto Superiore di Sanità - conclude l'esperto - solo per una minoranza di casi il virus è stata la causa diretta della morte, anche se ha certamente infettato e ha scatenato un peggioramento di condizioni". Malattie pregresse e età non hanno agevolato la guarigione dunque.
Fabrizio Caccia per corriere.it il 23 marzo 2020. Ogni giorno va peggio, professore: ieri altri 793 morti, di cui 546 in Lombardia, che ormai da sola ha quasi raggiunto i decessi di tutta la Cina. Che succede?
«Attenzione — dice Carlo Signorelli, docente di Igiene e Sanità Pubblica all’università Vita e Salute del San Raffaele di Milano — Facendo un’accurata ricostruzione temporale direi che i 793 morti sono la fotografia di un contagio avvenuto mediamente 16 giorni fa. Tra tempo d’incubazione del virus (circa 6 giorni), altri 5 tra l’accertamento della positività e il ricovero e altrettanti dal ricovero al decesso. È un’ondata, perciò, che arriva da prima della stretta del governo. Ora a breve dovremmo vedere il picco. E poi c’è un’ulteriore considerazione...».
Sarebbe?
«Secondo i dati dell’Iss sono decessi che riguardano persone con patologie pregresse la cui età media sfiora gli 80 anni. E anche i morti di età inferiore nel 99 per cento dei casi avevano patologie concomitanti. In Cina poi, è già stato detto, la popolazione non è mica così vecchia come da noi...».
D’accordo, ma i 793 sono comunque morti con il coronavirus.
«La verità è che in Italia abbiamo deciso di segnalare tutti i morti portatori di coronavirus a prescindere dalle patologie pregresse. Per questo il numero è così alto. Nella scheda di morte di una persona ci sono di solito tre voci: causa iniziale, causa intermedia e causa finale. Prendiamo il caso di un malato di tumore che muore con il coronavirus. La causa iniziale resta il cancro. Se non c’era quello, la persona non moriva. Ora, tra qualche tempo, quando sarà possibile distinguere i casi, sono sicuro che i morti che hanno avuto per causa iniziale, unica, il coronavirus, vedrete che non saranno molti. Rispetto ai numeri che abbiamo oggi, direi un centinaio forse. La Spagna e la Francia stanno facendo come noi, la Germania invece credo che li stia contando così: su 21 mila casi, si registrano appena 75 decessi. Evidentemente, cioè, considerano solo i morti di coronavirus come causa unica. Non mi do altre spiegazioni».
Davvero il picco lo vedremo a breve? Almeno questo...
«Sì. Se invece non arriva forse c’è sfuggita qualche altra via di trasmissione (gli impianti di condizionamento dell’aria negli ospedali?) o forse il virus ce lo siamo presi in tanti già molto prima che scattassero le misure e poi una volta chiusi tutti dentro casa ecco che sono aumentati i contagi».
Per fortuna, invece, nel Centro-Sud i numeri sono più clementi.
«Il clima influisce. Anche in Africa hanno avuto contatti con la Cina, eppure là non c’è stata un’esplosione di casi. In Italia, dunque, il clima più caldo del Centro-Sud rispetto al Nord potrebbe essere una spiegazione. Così anche se nei giorni scorsi in tanti si sono spostati dalle città del Nord portandosi appresso l’infezione, l’evoluzione è comunque più lenta. La speranza è che l’estate porti ovunque un abbattimento di contagi con una rapida normalizzazione».
È la speranza di tutti.
«Eh già, perché con queste misure non si sa mica quanto possa durare la tenuta sociale».
"Muore chi è gravemente malato". Ma molti sono solo ipertesi. Il 48,6% prima di contrarre il coronavirus aveva già tre o più patologie pesanti: a incidere maggiormente anche l'ipertensione arteriosa (73,8%). Luca Sablone, Domenica 22/03/2020 su Il Giornale. L'odiosa (e vergognosa) formula con cui vengono commentati i dati relativi ai defunti Coronavirus è sempre la stessa: "Muoiono solamente gli anziani e chi era già gravemente malato". Come se fosse superficiale anticipare il proprio decesso. Al di là di queste assurde congetture, è importante analizzare i numeri: l'edizione odierna di Libero prende in considerazione quelli dell'Istituto superiore di sanità aggiornati a venerdì. L'età media dei deceduti è di 78,5 anni e il 48,6% prima di contrarre il Covid-19 aveva già 3 o più patologie pesanti: la ricerca si basa su 3.200 pazienti morti e positivi al virus. Per il 76% si tratta di uomini. Solamente l'1,1% (corrispondente a 36 unità) erano sotto i 50 anni: 9 di questi (tra cui solo una donna) ne avevano tra i 31 e i 39, mentre 7 presentavano già significativi problemi di salute. Con 1.309 decessi su 3.200 la fascia d'età più colpita risulta essere quella tra gli 80 e gli 89 anni, dove la differenza tra uomo e donna è netta: da una parte 884, dall'altra 425. Ancora più drastica è la realtà nella seconda fascia con più morti, ovvero tra i 70 e i 79 anni: 877 contro 257. Ma la forbice più ampia riguarda i defunti tra i 60 e i 69 anni, dove i decessi maschili sono il quintuplo di quelli femminili. Gli esperti sono al lavoro per tentare di dare una spiegazione a tale difformità.
Patologie già presenti. Va analizzato anche il contesto delle patologie preesistenti: il 48,6% ne aveva tre o più, il 26,6% ne aveva due, il 23,5 una, l'1,2% non era malato. A incidere maggiormente il diabete mellito (33,9%) e la cardiopatia ischemica (30,1%). Ma anche l'ipertensione arteriosa (73,8%), riconducibile alle recenti statistiche mediche che parlano di circa 17 milioni di italiani che soffrono di pressione alta. Tuttavia resta ancora aperta la discussione tra chi sostiene che nella maggioranza dei casi si tratta di defunti "con il Coronavirus" piuttosto che "da Coronavirus". Il capo del Dipartimento della protezione civile Angelo Borrelli ha sottolineato: "Ricordo che noi conteggiamo tutti e non facciamo distinzione per e con Coronavirus". Nella giornata di ieri, sabato 21 marzo, il bollettino è stato molto pesante: sono 793 i nuovi deceduti, per un totale di 4.825 persone; in un solo giorno si è registrato un incremento di 4.821 contagiati (42.681 attualmente positivi). Silvio Brusaferro, presidente dell'Istituto superiore di sanità, ha spiegato: "Il bilancio dei morti di oggi segna numeri molto importanti. Ma le caratteristiche sono le stesse e si parla di persone particolarmente fragili: una popolazione con età media intorno agli 80 anni, con una o più patologie".
Il report sulla letalità del virus "Ecco perché è sovrastimata". Il presidente, Nino Cartabellotta: "Ma non abbassate la guardia. Bisogna rimanere a casa e applicare misure di distanziamento sociale". Francesca Bernasconi, Mercoledì 18/03/2020 su Il Giornale. "Gravità e tasso di letalità sono ampiamente sovrastimati". A rivelarlo è la fondazione Gimbe, che in un report ha analizzato i dati riguardanti i casi di Covid-19 in Italia, sottolineando la possibile presenza di "70mila casi non identificati". Sarebbero, quindi, almeno 100mila le persone contagiate dal coronavirus, dato che farebbe abbassare il tasso di letalità della malattia. I dati ufficiali, aggiornati al 17 marzo, mostrano 31.506 casi, di cui 2.060 (6,5%) si trovano in terapia intensiva, 12.894 (40,9%) ricoverati in ospedale con sintomi, mentre 11.108 (35,3%) in isolamento domiciliare. I dimessi sono 2.941, pari al 9,3%, mentre i deceduti sono 2.503 (7.9%). "Questa distribuzione di gravità della malattia – spiega il presidente Gimbe Nino Cartabellotta, al Sole24ore – appare molto più severa di quella cinese: infatti, lo studio condotto sulla coorte cinese e pubblicato su Jama riportava 44.415 casi confermati di cui 81% lievi, 14% severi (ospedalizzati) e 5% critici (in terapia intensiva), con un tasso grezzo di letalità del 2,3%". Ma, avverte Cartabellotta, i dati italiani sono stimati sulla base dei tamponi effettuati, che per la maggior parte vengono fatti su soggetti con sintomi. In questo modo, vedremmo solo una parte dei casi. Infatti, "assumendo una distribuzione di gravità della malattia sovrapponibile a quella delle coorte cinese, si può ipotizzare che la parte sommersa dell'iceberg contenga oltre 70.000 casi lievi/asintomatici non identificati". In questo modo, il tasso di letalità e di gravità della malattia si allineerebbero a quelli cinesi. La stessa cosa varrebbe per i decessi. In Italia, il tasso grezzo di letalità ha raggiunto ieri il 7,9%, variabile da una Regione all'altra. Ma questo, spiega Cartabellotta, "rappresenta una spia rossa sul sovraccarico degli ospedali, in particolare delle terapie intensive, allineando i numeri alla narrativa di chi lavora in prima linea". La sovrastima del tasso di gravità, però, "non deve in alcun modo fare abbassare la guardia". Il presidente del Gimbe ricorda l'importanza delle misure di contenimento adottate dal governo italiano, linea a cui si stanno conformando anche gli altri paesi europei: "L'Italia è ormai sulla strada giusta e, considerando che l’efficacia delle misure di distanziamento dipende dalla loro rigorosità, dalla tempestività e dall'aderenza dei cittadini, Europa, Stati Uniti e tutti i paesi del mondo, dovrebbero fare tesoro dell’esperienza (e degli errori) dell"Italia". Un "approccio frammentario", infatti, rischierebbe di rendere vani i risultati italiani, creando "casi di rientro". E sulla durata dell'epidemia, Cartabellotta non si sbilancia, ritenendo sia impossibile rispondere alla domanda, data l'influenza di fattori imprevedibili. Ma una cosa è certa: la "necessità di rimanere a casa e di applicare rigorosamente tutte le misure di distanziamento sociale imposte dal Governo con l'obiettivo di ridurre la circolazione del virus, di evitare il contagio di altre persone".
Luca Cifoni per ilmessaggero.it il 17 marzo 2020. È una delle domande di queste drammatiche giornate, forse quella che si pone con più urgenza: perché in Italia ci sono così tanti decessi per coronavirus, più di quanti se ne attenderebbero pur in presenza di un numero elevatissimo di contagiati? La letalità apparente (rapporto tra deceduti e persone positive al test) con i dati di ieri arriva al 7,7%, un valore che non trova riscontro negli altri Paesi. I morti italiani sono circa il 30% di quelli globali, come evidenzia anche un report dello Spallanzani. Come mai? Epidemiologi e statistici hanno risposto da una parte esponendo l'ipotesi - assai fondata - che i malati effettivi siano almeno il doppio di quelli registrati ufficialmente; dall'altra ricordando che i decessi riguardano in larga parte persone molto anziane afflitte da varie altre patologie. L'età media dei morti è intorno agli 80 anni e circa due terzi dei casi confermati riguardano persone con più di 60 anni. Il fattore età potrebbe essere parzialmente rilevante nel confronto con Paesi con una struttura più giovane, come l'Iran la Cina o in misura minore la Corea del Sud. Ma non spiega nulla se si vanno a guardare i numeri bassissimi delle morti in Germania, dove l'età mediana della popolazione è analoga alla nostra. La discussione sul tema si è concentrata sui diversi criteri adottati nei due Paesi per contabilizzare i decessi. Da noi è stato precisato fin dall'inizio che i numeri si riferiscono a pazienti morti dopo essere stati trovati positivi al coronavirus, ma non necessariamente per questa causa: le autorità sanitarie si riservano valutazioni dopo aver approfondito i singoli casi. In Germania la procedura è meno chiara ma verosimilmente porta a includere nel conteggio solo i decessi il cui collegamento con il Covid-19 è dimostrato al di là di ogni dubbio. Il fatto che la mortalità italiana si inserisca in un contesto di fragilità dei parenti anziani è confermato anche dalla rilevazione sui decessi degli ultrasessantacinquenni - effettuata normalmente per valutare l'andamento della normale influenza: fino a fine febbraio (quando però l'epidemia non si era ancora scatenata con la violenza attuale) i decessi erano un po' inferiori a quelli attesi in base agli andamenti degli anni scorsi. Ma forse c'è dell'altro. Tornando al confronto tra Italia e Germania, la popolazione vecchia potrebbe incidere in modo diverso. Gli anziani italiani per tradizione e organizzazione sociale vivono in contatto più stretto con il resto della popolazione, ed anche con la fascia giovane, rispetto a quanto avviene nel Nord Europa. Una situazione confermata dall'esperienza empirica di molti italiani ma evidenziata anche - seppur in modo meno diretto - dalle statistiche. Come quelle di Eurostat che segnalano come da noi i due terzi dei giovani tra i 18 e i 34 anni vivano ancora con i genitori, contro il 40% dei coetanei tedeschi. Il fenomeno persiste pur se con minore intensità a età maggiori: per il nostro Paese i ricercatori tedeschi Christina Bayer e Moritz Kuhn hanno calcolato per il nostro Paese una percentuale superiore al 20 per cento nella fascia 30-49. Guardando le cose da un altro lato, sempre Eurostat ci fa sapere che in Italia il 17,4 per cento degli anziani vive in coppia insieme ad altre persone: in Germania la percentuale non arriva al 3. Simile a quella italiana è la struttura di altri Paesi mediterranei come la Spagna che si sta avviando anch'essa su un percorso di alta mortalità apparente. E non è solo un fatto di convivenza in senso stretto, ma anche di vicinato (generazioni diverse che abitano nello stesso quartiere se non nello stesso immobile) e in generale di rapporti tra genitori anziani e figli più frequenti rispetto ad altre aree dell'Europa. Questo modello culturale e sociale potrebbe ora essere messo a dura prova non solo dalla malattia in sé, ma delle eventuali contromisure di medio-periodo, se comprenderanno forme di isolamento o di limitazione della mobilità per le persone anziane.
Capua: «Mamma Europa, sbrigati: regole comuni per classificare i casi». Pubblicato lunedì, 16 marzo 2020 su Corriere.it da Ilaria Capua, virologa. Chi lavora in laboratorio lo sa: lavorare in emergenza è complicato. A dire la verità fare qualsiasi cosa in emergenza è complicato. È pericoloso guidare la macchina in emergenza perché si aumenta il rischio di incidenti, è sconsigliabile pure preparare la cena in emergenza - si sbaglia e alcune cose si bruciano o restano crude. Ma torniamo ai laboratori, a tutti i laboratori biomedici del mondo che oggi devono confrontare l’emergenza Covid-19 (leggi qui tutti gli aggiornamenti) con test nuovi, magari poco robusti e ripetibili. In più lavorare in laboratorio ai tempi dell’emergenza vuol dire che non hai spazio per le migliaia di campioni che inondano i congelatori e una collocazione devi trovargliela, che qualsiasi routine di lavoro viene stravolta, che si fanno i doppi turni e serve più personale in accettazione che non c’è mai. Ma questo ci sta. Sono eventi imprevisti per i quali possiamo soltanto accelerare i tempi. Ma se il virus non lo conosci di certo non puoi sviluppare i test in anticipo. Però una cosa in anticipo si poteva fare, e a questo avrebbe dovuto pensarci l’Europa: far arrivare a tutti gli Stati membri delle linee guida armonizzate per la registrazione dei casi. I dati certi che abbiamo mostrano che i decessi sono avvenuti in soggetti che avevano in media tre o più malattie. Quindi soggetti fragili. Se una persona è cardiopatica o diabetica è chiaro che è meglio che un’altra malattia non la prenda, Coronavirus, Klebsiella o Influenza che sia. Ed il nocciolo del problema è proprio questo: ogni Paese europeo misura i «casi» secondo criteri diversi. È chiaro che alcuni dei pazienti fragili possono avere contratto l’infezione prima del ricovero (o anche in ospedale) e il decesso è poi avvenuto per altri motivi. Sembra quasi un virus scippatore, può andarti molto male - ma in genere ti ruba solo un po’ di tempo, qualche settimana. Non sembra proprio, a oggi, un virus con il Kalashnikov. Credo che la prima, primissima domanda che dobbiamo porre all’Europa sia di sviluppare urgentemente delle linee guida che armonizzino la metodologia di categorizzazione del «caso Covid» ad almeno due livelli. Primo chiarimento: ad ogni persona deceduta per altri motivi (incidente stradale, polmonite, neoplasia in fase terminale) gli facciamo il test per il Coronavirus? Se non fosse così, abbiamo assolutamente bisogno di uniformarci fra Stati membri. Chiarito questo, allora, le persone che risultano positive sono da considerarsi decessi da coronavirus o sarebbe più opportuno considerare i casi mortali di Covid soltanto solo i casi dei decessi ascrivibili ad una infezione respiratoria virale acuta grave (il virus si chiama per l’appunto Sars-2 da cui Severe acute respiratory syndrome)? Cara mamma Europa, ora siamo tutti nei guai. Sono decenni che lavori per non fare figli e figliastri quando si tratta di malattie. Almeno ci provi. Avevi previsto linee guida per tutte le malattie che conosci, degli animali, delle piante e degli esseri umani e ci abbiamo lavorato insieme per scrivere le Direttive Comunitarie. Ci abbiamo lavorato venti anni ad armonizzare i protocolli diagnostici e di intervento in sanità pubblica come sull’influenza aviaria o sulle aflatossine nelle materie prime, nei mangimi e negli alimenti. Però, non avevi pensato all’emergenza di un virus pandemico completamente diverso da quello a cui eravamo abituati. Cara mamma Europa, le mamme sanno che quando le cose si fanno di corsa si sbaglia qualcosa. Ora però, ti prego, sbrigati, armonizza i protocolli. Abbiamo bisogno di direttive. Comunitarie.
Ecco le tre malattie gravi che aprono le porte al virus. Tra i soggetti più a rischio anche gli anziani. L'appello del medico: "Questi pazienti possono proteggersi stando a casa". Francesca Bernasconi, Domenica 15/03/2020 su Il Giornale. Sembra che ormai non ci siano più dubbi. I dati parlano chiaro. La mortalità da Covid-19 risulta più elevata "per gli ipertesi, i pazienti con aritmie cardiache, i diabetici e soggetti con patologie cardiovascolari". E, più in generale, per gli anziani. A sottolinearlo è Antonio Rebuzzi, professore di Cardiologia all'Università cattolica di Roma e direttore della Terapia intensiva cardiologica del Policlinico Gemelli nella Capitale. "Il messaggio- specifica ad AdnKronos Salute- è semplice: bisogna stare a casa. Questi pazienti possono proteggersi stando a casa". Ad essere più a rischio, quindi, oltre agli anziani, sono le persone che soffrono già di ipertensione, diabete e aritmie cardiache. Sono loro, in particolare i soggetti che devono alzare il livello di allerta, di fronte alla minaccia di contrarre il nuovo coronavirus, che ha scatenato la pandemia che sta facendo paura al mondo intero. A sottolineare il rischio corso dai pazienti con queste patologie era già stato l'American College of Cardiology che, come aveva riportato il Giornale, citando il Messaggero, aveva messo in guardia i pazienti cardiopatici o con patologie legate alla pressione alta. Secondo i dati dell'Istituto superiore di sanità (Iss), risalenti al 4 marzo, che analizzavano i morti italiani per coronavirus (105 allora), il 74,6% del campione era iperteso, il 33,8% soffriva di diabete mellito e il 70,4% aveva subito una cardiopatia ischemica. Oltre a porre l'accento sui pazienti più a rischio in caso di contagio da Covid-19, il professor Rebuzzi ha sottolineato un altro problema, legato all'epidemia che ha colpito, tra gli altri Paesi, anche l'Italia. "Abbiamo un problema importante, legato a Covid-19- ha annunicato- non riusciamo a operare, gli interventi di cardiochirurgia sono bloccati". Il problema è la mancanza di sangue, carente a causa della poca affluenza di donatori: "Non abbiamo sangue. I donatori non vengono per paura del coronavirus". E ha lanciato un appello a tutti i cittadini romani: "Andate a donare il sangue", ha chiesto, assicurando che "lo si può fare in modo sicuro". "Altrimenti- fa notare il cardiologo- a risentirne saranno pazienti, anche gravi, che potrebbero essere salvati".
Il virus apre i canali acqua interstiziale dei polmoni tramite sviluppo flogosi mediata da citochine. Una sorta di anafilassi cronica?? Muoiono affogati lentamente?
Ma sul numero di morti italiani (e degli altri paesi) qualcosa non torna…Pino Pisicchio su Il Dubbio il 13 marzo 2020. L’Oms dovrebbe pretendere un’uniformità dei mezzi diagnostici da parte di tutti i paesi. Altrimenti chi agisce con scrupolo potrebbe subire danneggiamenti. L’OMS ha formalizzato soltanto l’11 marzo la pandemia da covid 19. L’ha fatto, peraltro, nel corso di una conferenza stampa tenuta in un contesto costretto, ignorando le regole-base della profilassi, come misurare una distanza di sicurezza tra persone nello stesso ambiente. Val la pena di ricordare che l’agenzia delle Nazioni Unite incaricata di occuparsi della sanità su scala globale, svolge anche il ruolo di fonte ufficiale dei dati sanitari attraverso l’Health Emergency Dashboard, avendo riguardo ai principi vincolanti presenti nella sua Costituzione, molto chiari sul piano del ruolo di garante della corretta informazione sanitaria. È l’art. 2 che al paragrafo g) afferma: «(l’OMS) favorisce qualsiasi informazione, parere e soccorso concernente la sanità», norma che va letta in coordinamento con il paragrafo t) «Uniforma, per quanto necessario, i metodi di diagnosi», con l’intuibile intento di mettere a disposizione gli strumenti diagnostici dimostratisi più efficaci ma anche di rendere il più possibile comparabili i dati sulla morbilità attraverso il loro uso. Attingiamo, dunque, dalla fonte HED (Health Emergency Dashboard) dell’11 marzo 2020 le informazioni ufficiali relative alla diffusione del coronavirus nel mondo. Alla data si registravano 119.711 contagi, distribuiti in 110 paesi e 4350 morti, pari al 3,63% degli ammalati di covid 19, valore di per sé importante. Del totale dei contagiati, però, ben 80.955 erano nel territorio cinese, dove si registravano 3162 decessi, pari al 3,9 del totale dei contagiati nello Stato. L’OMS aveva anche proposto una lettura più analitica, scorporando i dati relativi alla Cina dal resto del mondo: i casi registrati nei 109 paesi colpiti dal coronavirus erano 37.286 con un numero di 1129 decessi, pari al 3,02 dei contagiati. L’attenzione ai dati relativi ai decessi ci porta a valutare i numeri globali all’interno di un range plausibile, che evidenzia un picco di 3,9% in Cina, paese che ha subito il primo e più violento impatto con il coronavirus, sopportando anche il peso dell’enorme numerosità della popolazione, e un 3,6% globale. Anche scorporando il dato cinese, il valore percentuale rimanente supera il 3%, il che non lascerebbe segnalare particolari anomalie. In questo contesto, invece, appare macroscopicamente anomalo il dato italiano che, nella stessa giornata in cui si è formalizzata da parte dell’OMS la conclamata pandemia, faceva registrare 14.514 tra ammalati e guariti dal covid 19 e ben 827 morti, con una percentuale del tutto fuori misura, pari al 5,7%. Il divario nella contabilità dei decessi balza agli occhi in tutta evidenza e non riesce a trovare motivazioni plausibili. E diventa ancora più allarmante a soli due giorni dalla conferenza stampa dell’OMS, quando vengono registrati in Italia 1016 decessi, a fronte dei 4720 sul piano mondiale, con una percentuale francamente abnorme del 21%: più di un quinto dei decessi di tutto il pianeta sarebbero italiani. L’affermazione ricorrente relativa all’invecchiamento della popolazione italiana, come motivo centrale del picco dei decessi, non regge più di tanto: in Italia gli over 65 sono il 22,8% della popolazione, ma in Giappone (che ha solo 581 contagiati e dichiara il 2,7% di decessi) sono il 27%, in Germania (1.908 contagiati e lo 0,16% di decessi) il 21,4% e Francia (2,1 % di decessi) e Inghilterra (1,7% di decessi), tanto per restare nel continente europeo, superano il 19% di “anziani”. Ne’ ci sentiamo di giudicare particolarmente inefficaci le misure di contenimento adottate dalle autorità italiane, perché, oltretutto, non ci è parso che in altri paesi, diversi dalla Cina, siano stati adottati rimedi in termini di profilassi più rigorosi e drastici dei nostri. E non possiamo, francamente, far carico di questa moria inusitata a psicologismi sul «carattere degli italiani portati ad una naturale socialità». Certo, resterebbe il motivo della più accurata diagnostica nell’analisi della diffusione del morbo, attraverso una verifica a tappeto con tamponi e di una diversa catalogazione dei decessi da corona virus, con l’inclusione, oltre ai decessi direttamente causati dall’epidemia, anche di cause derivanti da patologie pregresse, aggravate dal covid 19. Tuttavia neanche può essere che la più attenta e rigorosa reazione all’aggressione dell’evento epidemico, che ha comunque rappresentato un comportamento virtuoso da parte dell’autorità italiana, per una perversa eterogenesi dei fini ,oggi possa rivelarsi un cattivo affare per l’immagine del paese e per la sua reputazione nel mondo, con contraccolpi drammatici sul piano dell’economia nazionale. Di certo c’è un problema che riguarda la gestione dei dati da parte dell’OMS, che continua a propalare informazioni prive della necessaria uniformità dei mezzi diagnostici, in contrasto con la sua stessa Costituzione, con pregiudizio di paesi che possono aver agito con maggiore scrupolo e dei cittadini che hanno il diritto ad una informazione completa e scientificamente attendibile.
L’Iss: «Solo 2 morti non avevano altre patologie. Allarme contagi al centrosud». Pubblicato sabato, 14 marzo 2020 da Corriere.it. L’identikit lo ha fatto il presidente dell’Iss Silvio Brusaferro: si tratta di persone che hanno un’età media di 80,3 anni di cui solo il 25,8% donne. La fascia d’età più a rischio è quella tra gli 80 e gli 89 anni ma c’è un ulteriore dato che va tenuto in considerazione: «La maggioranza delle vittime – spiega – aveva più patologie croniche, solo due erano non portatrici di patologie».
Coronavirus: Iss, in Italia i decessi accertati finora per causa del Covid-19 sono solo due. Roma, 13 marzo 2020 (Agenzia Nova) - Le persone morte a causa del coronavirus in Italia, che non presentavano altre patologie, potrebbero essere solo due. E' quanto risulta dalle cartelle cliniche finora esaminate dall'Istituto superiore di sanità, secondo quanto riferito dal presidente dell'Istituto, Silvio Brusaferro, nel corso della conferenza stampa tenuta oggi presso la Protezione civile a Roma. "I pazienti deceduti positivi hanno una media di oltre 80 anni - 80,3 per l'esattezza - e sostanzialmente sono prevalentemente maschi", ha detto Brusaferro. "Le donne sono il 25,8 per cento. L'età media dei deceduti è significativamente più alta rispetto agli altri positivi. Le fasce d'età superiori ai 70 anni, con un picco tra gli 80 e gli 89 anni. La maggioranza di queste persone è portatrice di patologie croniche. Soltanto due persone non sono risultate al momento portatrici di patologie", ma anche in questi due casi, l'esame delle cartelle non è concluso e potrebbero, dunque emergere cause di morte diverse dal Covid-19. Il presidente dell'Iss ha precisato che finora dagli ospedali di tutta Italia sono pervenute "poco più di cento cartelle cliniche". Sono i primi dati un minimo dettagliati forniti finora dalla Protezione civile sulle cause di morte dei pazienti affetti da coronavirus. Allo stato attuale, infatti, le autorità non sono in grado di distinguere coloro i quali sono morti a causa del virus, da quelli che, invece, vengono quotidianamente comunicati all'opinione pubblica, ma che erano in massima parte portatori di altre gravi patologie e che, quindi, non sarebbero deceduti a causa del Covid-19. Rispondendo a una domanda di "Agenzia Nova", infatti, Brusaferro non ha saputo indicare il numero esatto dei decessi da coronavirus. Il professore ha però chiarito che, in base ai dati analizzati, la grande maggioranza delle vittime "avevano serie patologie e in alcuni casi l'insorgenza di un'infezione delle vie respiratorie può portare più facilmente a un decesso. Per far chiarezza su questo punto, e fornire dati reali, "man mano che acquisiremo le cartelle andremo ad approfondire ulteriormente. Comunque le popolazioni più a rischio sono quelle fragili, portatrici di più patologie".
Coronavirus, Rezza (Iss): “Nessun supervirus in Italia, tasso letalità è più basso della Cina”. Fan Page l'11/3/2020. In Italia non esiste nessun supervirus, il coronavirus è lo stesso cinese, quello di Wuhan con qualche piccola mutazione che però non ne ha cambiato le caratteristiche primarie. A dirlo è il direttore del Dipartimento di malattie infettive dell'Istituto superiore di Sanità Giovanni Rezza durante la conferenza stampa di oggi per fare il punto sui dati che riguardano l'emergenza coronavirus.
Non esiste un virus autoctono italiano. "Abbiamo isolato e sequenziato il genoma del virus sia di un paziente cinese che di un paziente lombardo – ha spiegato Rezza – a differenza di quanto qualche giornale italiano ha scritto ipotizzando l'esistenza un virus autoctono italiano, posso assicurare che il virus è sempre quello cinese, che viene da Wuhan, ci sono solo piccole mutazioni che però non ne cambiano le caratteristiche". Nessuno virus italiano più aggressivo e dunque letale ha chiarito il direttore del Dipartimento di malattie infettive dell'Istituto superiore di Sanità che ha poi spiegato anche che il tasso di letalità non è maggiore di quello cinese perché i dati non sono assoluti ma vanno interpretati.
La popolazione italiana è più anziana rispetto a quella cinese. "Il tasso di mortalità in Italia sembra effettivamente più elevato – ha spiegato Rezza – se si stratifica per età però scopriamo che non è più alto di quello cinese ma è più basso perché la popolazione italiana è molto più anziana rispetto a quello cinese. Inoltre non si può standardizzare a livello internazionale il tasso di letalità della malattia perché dipende da quanti test si fanno". Rezza ha infatti spiegato che se si testano solo le persone sintomatiche il tasso di letalità si alza perché vengono prese in considerazione le persone che stanno più male, se invece si fanno molti test e si pescano anche gli asintomatici il tasso di letalità si abbassa: "Se usassimo come denominatore la stima degli infetti il tasso di letalità sarebbe più basso", ha concluso.
Decessi con coronavirus e per coronavirus: servono ulteriori indagini. Infine ha spiegato che anche la numero delle vittime potrebbe variare poiché vi è una differenza tra decessi per coronavirus e decessi con coroanvirus che ad oggi però non può essere ancora specificata: "Può accadere che una persona che muore da un momento all'altro, facendo un tampone, si scopre che era affetta da coronavirus, e questo potrebbe diminuire il numero di morti attribuibili al coronavirus". Su questo, ha però spiegato Rezza, che non ci sono dati certi: "Bisogna acquisire cartelle mediche dei pazienti e fare ulteriori indagini", ha concluso.
Il direttore sanitario dell’Istituto Galeazzi di Milano: "Mortalità italiana inferiore a quella cinese. Priorità le terapie intensive, importante attenersi alle misure restrittive, anche nelle aree dove finora il numero di contagi è rimasto contenuto”. Luisiana Gaita l'8 marzo 2020 su Il Fatto Quotidiano. Tra gli ultimi dati comunicati dal capo della Protezione civile, Angelo Borrelli, c’è quel 4,25% di deceduti (al 6 marzo) rispetto ai contagi da Coronavirus nel nostro Paese. Ed è un dato che desta preoccupazione. Proprio per questo è necessario chiarire cosa rappresenti davvero quella percentuale e se si possa davvero parlare di “tasso di mortalità” del Covid19. Ilfattoquotidiano.it lo ha chiesto al virologo Fabrizio Pregliasco, direttore sanitario dell’Istituto Galeazzi di Milano e docente di Igiene all’Università Statale, secondo il quale “un tasso che supera il 4 per cento è sicuramente un dato sovrastimato, perché di qualsiasi epidemia si tratti, è tipico che i casi identificati siano inferiori a quelli reali”.
NON CONOSCIAMO I DATI REALI – D’altro canto questo virus è caratterizzato da forme di sintomatologia non grave. “Molte persone, in Italia e nel mondo, hanno contratto il Covid19 senza neppure rendersene conto – aggiunge Pregliasco – e probabilmente questa è stata la causa della diffusione dell’epidemia”. Quanti contagiati potrebbero esserci davvero nel nostro Paese? “Generalmente nelle epidemie i contagi registrati vanno moltiplicati anche fino a dieci volte”. Questo significa una cosa: non possiamo parlare di tasso di mortalità del virus, perché non abbiamo e, forse, non avremo mai il dato reale, ma solo di tasso di mortalità tra i contagiati che il sistema sanitario è riuscito a identificare”. Che in questa fase, superato il boom iniziale di tamponi eseguiti anche a chi non presentava sintomi e non veniva da aree più a rischio, sono quelli che hanno i sintomi più evidenti o che sono stati a stretto contatto con persone contagiate o che vivono in zone rosse. “L’unico dato abbastanza certo – spiega il virologo – è proprio quello dei decessi, anche se è estremamente difficile, anche con i dati delle autopsie a disposizione, comprendere se queste persone sono morte per il Coronavirus o con il Coronavirus, ma per altre cause. Se prendiamo il dato dei decessi, la mortalità è più alta rispetto all’influenza. Se volessimo calcolare un tasso di mortalità reale con questi criteri, dovremmo dunque tener conto di tutti i contagiati (anche quelli che in questo momento non sanno di esserlo) e dei pazienti effettivamente morti per il virus. Impossibile.
IL CONFRONTO CON GLI ALTRI PAESI – In questi giorni si è anche confrontato il tasso di mortalità in Italia con quello cinese e con quello mondiale. Secondo quanto ha affermato il direttore generale dell’Organizzazione mondiale della sanità Tedros Adhanom Ghebreyesus “a livello globale si arriva al decesso in circa il 3,4% dei casi di Covid-19. Per fare un confronto, l’influenza uccide meno dell’1% degli infetti”. Ma anche i dati mondiali sono suscettibili di tutti i limiti fin qui osservati. “A incidere sul tasso di mortalità di ogni singolo Paese – spiega il virologo – sono anche le differenze tra i sistemi sanitari dei vari Paesi, che possono essere più o meno preparati per contrastare il contagio”.
MORTALITÀ PIÙ BASSA RISPETTO ALLA CINA – Tornando alla Cina, l’Istituto Superiore di Sanità ha confrontato i dati sulla letalità cinese con quelli italiani, rilevando che la mortalità generale attuale nel nostro Paese “è inferiore a quello che si aveva in Cina nella prima fase dell’epidemia” e che, comunque, per tutte le fasce d’età il tasso di letalità del Coronavirus “in Italia è inferiore anche rispetto a quello che si registra attualmente in Cina”. In Italia, infatti, al 4 marzo la letalità (calcolata come numero di decessi sui casi confermati) tra gli over 80 risulta del 10,9%, mentre in Cina al 24 febbraio (ultimo dato disponibile, estratto dal report della commissione congiunta Cina-Oms) era del 14,8%. Tra 70 e 79 anni, la letalità del Covid19 in Italia è del 5,3%, mentre in Cina dell’8%, mentre tra 0 e 69 è dello 0,5% nel nostro Paese, contro l’1,3% del Paese asiatico. In generale, al 4 marzo (i dati diffusi da Borrelli sono successivi, ndr) in Italia la mortalità era al 3,5%, mentre in Cina al 24 febbraio era del 2,3%.
IL VIROLOGO: “ATTENTI AL 10 % IN TERAPIA INTENSIVA” – Secondo Pregliasco, però, la priorità in questo momento è quella che riguarda i pazienti che devono entrare in terapia intensiva. “Sappiamo che l’80 per cento dei casi identificati – spiega – riporta un’influenza più pesante di quella a cui siamo abituati, mentre il 10% delle persone con sintomi finisce in terapia intensiva”. Ed è questo il dato da tenere principalmente sotto controllo, perché se dovesse aumentare in modo esponenziale e, soprattutto, in modo repentino, c’è il rischio che il sistema sanitario non regga. “In quest’ottica – aggiunge il virologo – va considerato il periodo di incubazione media, che arriva a 14 giorni, e le relative possibilità di contagio. Per questo è importante attenersi alle misure restrittive, anche nelle aree dove finora il numero di contagi è rimasto contenuto”.
Bisogna dire morti "per" coronavirus o "con" coronavirus?
Coronavirus ad alta mortalità ma in Italia si muore «con» il ...Il Mattino 7 marzo 2020. Si può morire di coronavirus a causa di una polmonite bilaterale che riduce la capacità di diffusione dell'ossigeno nel sangue mentre si...
Come vanno letti i dati sul coronavirus in Italia. Bisogna dire morti "per" coronavirus o "con" coronavirus? Il tasso di letalità in Italia è davvero più alto di quello cinese? E cosa è cambiato quando non sono più stati testati gli asintomatici? Agi il 12 marzo 2020. Ormai, nel tardo pomeriggio di ogni giorno, siamo abituati a vedere il capo della Protezione civile, e commissario straordinario per l’emergenza Covid-19, Angelo Borrelli, rilasciare in conferenza stampa una serie di numeri relativi alla diffusione del nuovo coronavirus (Sars-CoV-2) nel nostro Paese. I dati su casi positivi, guariti e deceduti sono consultabili online in una mappa interattiva della Protezione civile, che fornisce anche le statistiche regionali sul numero dei test effettuati e sul numero dei ricoverati con sintomi, di chi è in terapia intensiva o in isolamento domiciliare. Ma come vanno letti questi numeri? Cerchiamo di fare un po’ di chiarezza, con una breve guida di lettura alle principali voci dei bollettini della Protezione civile.
Come leggere il numero dei morti. Partiamo dal dato relativo ai deceduti. Alle ore 17 del 10 marzo 2020, i morti in Italia tra i casi positivi al nuovo coronavirus erano in totale 631 (+168 rispetto al giorno prima), di cui oltre il 74 per cento (468) in Lombardia.
Morti “per” o morti “con”? Come ha spiegato la Protezione civile in un comunicato stampa, il numero dei decessi «potrà essere confermato solo dopo che l’Istituto Superiore di Sanità avrà stabilito la causa effettiva del decesso». «Ci tengo a precisare che non si tratta di decessi “da” coronavirus», ha poi detto Borrelli il 10 marzo in conferenza stampa. «Sono persone che sono decedute e tra le diverse patologie avevano anche il coronavirus». In parole semplici, non è ancora possibile sapere se le morti presenti nei bollettini della Protezione civile siano morti direttamente causate dal coronavirus, oppure “indirette”, in cui il coronavirus ha contribuito a creare ulteriori complicazioni in un quadro clinico già compromesso. È ancora presto per avere evidenze epidemiologiche in questo ambito, ma il 5 marzo scorso l’Istituto superiore di sanità (Iss) ha pubblicato una prima analisi su un campione di 105 deceduti con coronavirus, tra i quali il numero medio di patologie osservate era di 3,4 (soprattutto ipertensione, cardiopatia ischemica e diabete mellito). Alcuni virologi, come ad esempio il professore dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano Roberto Burioni, sono critici con questo modo di comunicare i dati. Secondo Burioni, «l’espressione “è morto con il coronavirus non per il coronavirus”» rischia di essere «una criminale minimizzazione». Un discorso, secondo Burioni, è parlare di morti con coronavirus «con un tumore metastatico o con una cardiopatia scompensata», un altro è parlare di «quelli con una lieve ipertensione e un diabete di tipo 2 e un sovrappeso». Al momento, dati dettagliati di questo tipo non sono però disponibili e bisogna dunque attendere le future analisi dell’Iss. La questione non è comunque secondaria, come ha sottolineato il 10 marzo 2020 in un’intervista a Scienza in rete Walter Ricciardi, membro del comitato esecutivo dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) e consigliere del ministro della Salute per il coordinamento con le istituzioni sanitarie internazionali. Secondo Ricciardi, l’Italia sta registrando i morti con coronavirus «senza quella maniacale attenzione alla definizione dei casi di morte che hanno per esempio i francesi e i tedeschi, i quali prima di attribuire una morte al coronavirus eseguono una serie di accertamenti e di valutazioni che addirittura in certi casi ha portato a depennare dei morti dall’elenco. Di fatto capita che accertino che alcune persone siano morte per altre cause pur essendo infette da coronavirus». Questa pratica, sempre secondo l’ex presidente dell’Iss, spiegherebbe un’altra questione: il fatto che, ad oggi, il tasso di letalità del Sars-CoV-2 in Italia sembra essere più elevata che altrove. Secondo il Robert Koch Institute tedesco – l’agenzia federale che si occupa di prevenire e contrastare la diffusione delle epidemie, contattata dai nostri colleghi tedeschi di Correctiv – la differenza dei numeri dipenderebbe dal fatto che l’epidemia in Italia è in fase avanzata, mentre in Germania in fase iniziale. Le regole su come si registrano i morti non sarebbero quindi particolarmente rilevanti e lo dimostrerebbe il fatto che i primi due decessi attribuiti al coronavirus in Germania erano due anziani affetti da diverse e gravi patologie. Senza la pretesa di voler qui risolvere la questione, segnaliamo quindi che il tema è molto complesso e le posizioni anche del massimo livello di competenza e autorevolezza non appaiono sempre conciliabili.
Perché abbiamo un alto tasso di letalità? Il tasso di letalità, in breve, è un indicatore epidemiologico che mette in rapporto il numero dei decessi con quello dei contagiati. In base ai dati aggiornati alle ore 18 del 10 marzo 2020, la letalità nel nostro Paese del nuovo coronavirus si aggirerebbe intorno al 6,2 per cento (631 decessi su 10.149 positivi totali). Due recenti studi, fatti dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) e dal Centro cinese di controllo e prevenzione delle malattie (Ccdc) su due campioni da decine di migliaia di casi, mostrano però che in Cina il tasso di letalità da Covid-19 è più basso di quello attuale in Italia. Ma qui entra in gioco il fattore demografico, legato all’età della popolazione italiana. «In Italia al 4 marzo la letalità (calcolata come numero di decessi sui casi confermati) tra gli over 80 risulta del 10,9 per cento, mentre in Cina al 24 febbraio (ultimo dato disponibile, estratto dal report della commissione congiunta Cina-Oms) era del 14,8 per cento», ha chiarito il 6 marzo l’Iss in un comunicato stampa. «Tra 70 e 79 anni il confronto vede l’Italia con una letalità del 5,3 per cento, mentre la Cina ha l’8 per cento, e tra 0 e 69 è 0,5 per cento nel nostro Paese contro l’1,3 per cento cinese». È vero che il tasso di letalità è al momento più basso in Cina rispetto all’Italia, ma una delle possibili spiegazioni è il “peso” del numero nel nostro Paese dei pazienti più anziani.
«Non dimentichiamo che l’Italia ha un’età media molto più alta rispetto ad esempio alla Cina (44,3 anni contro 37,4) e questo mette ancora più pressione sulle strutture e gli operatori nelle zone colpite dall’epidemia», ha detto il 6 marzo il presidente dell’Iss Silvio Brusaferro. Nonostante questo, come mostrano i dati di un bollettino epidemiologico pubblicato dall’Iss il 10 marzo, è bene ricordare che non solo le fasce più anziane sono a rischio contagio, con tutte le conseguenze che questo può comportare. Al 9 marzo, circa il 22 per cento dei positivi ai test aveva tra i 19 e i 50 anni. «L’indagine rileva una percentuale significativa di casi sotto i 30 anni, un dato che conferma quanto questa fascia di età sia cruciale nella trasmissione del virus», ha specificato il 10 marzo Brusaferro. Infine, come analizzeremo nel dettaglio tra poco, esiste un’altra possibile spiegazione per l’apparente alto tasso italiano di letalità, legata a come vanno letti i dati sui casi positivi da nuovo coronavirus.
Come leggere il numero dei casi positivi. Come abbiamo visto, alle ore 17 del 10 marzo 2020, da inizio contagio nel nostro Paese si sono contati 10.149 casi positivi da nuovo coronavirus. Monitorare l’aumento dei casi è, in teoria, fondamentale per capire se il contagio nel nostro Paese stia seguendo una crescita esponenziale o meno (discorso analogo vale per i decessi) e con quali tempi di raddoppio del numero dei contagiati.
Ci sono dei ritardi nella trasmissione dei dati. Dai calcoli quotidiani dell’economista Riccardo Puglisi, emerge che tra il 2 marzo e il 9 marzo 2020 gli aumenti giornalieri di casi confermati di Covid-19 sono sempre stati (eccetto un giorno) superiori al 23 per cento rispetto al giorno prima. Ma l’aumento di “solo” il 10,65 per cento registrato il 10 marzo fa capire, come chiariremo meglio tra poco, che nella pratica possono esserci dei limiti nella lettura dei dati dei casi positivi forniti quotidianamente dalla Protezione civile. Come spiega in una nota la Protezione civile nella sua mappa online, il dato dei casi positivi del 10 marzo è ad esempio parziale, perché quelli provenienti dalla Lombardia non erano completi. «I dati raccolti sono in continua fase di consolidamento e, come prevedibile in una situazione emergenziale, alcune informazioni sono incomplete», ha sottolineato l’Iss nel suo bollettino epidemiologico del 10 marzo. «In particolare, si segnala, soprattutto nelle Regioni in cui si sta verificando una trasmissione locale sostenuta del virus, la possibilità di un ritardo di alcuni giorni tra il momento della esecuzione del tampone per la diagnosi e la segnalazione sulla piattaforma dedicata. Pertanto, la diminuzione dei casi che si osserva negli ultimi due giorni [7 e 8 marzo, ndr], deve essere interpretata come un ritardo di notifica e non come descrittiva dell’andamento dell’epidemia». In ogni caso, anche se il dato del 10 marzo può sembrare positivo (un aumento minore rispetto agli altri giorni, al netto che i dati lombardi sono parziali), un numero giornaliero non basta. Bisogna fare riferimento a trend di più giorni per evidenziare i primi effetti dei nuovi provvedimenti voluti dal governo.
Chi viene sottoposto al test? Come ha sottolineato anche il bollettino epidemiologico dell’Iss dell’11 marzo, un secondo problema di come vanno letti i numeri sui casi positivi – oltre a questi eventuali casi di parziale comunicazione dei dati – riguarda il modo in cui vengono rilevati i contagiati (con effetti sul tasso di letalità). Dal 26 febbraio scorso – in linea con una circolare del Ministero della Salute del giorno prima – si è stabilito che i test andassero fatti solo ai soggetti sintomatici (per esempio con febbre e problemi respiratori), mentre prima venivano testati anche gli asintomatici. Il numero totale sui casi positivi che leggiamo nei bollettini della Protezione civile è quindi frutto di due strategie di test diverse, applicate in momenti diversi (prima e dopo il 26 febbraio).
Questo ha comportato due conseguenze. Da un lato, negli ultimi giorni non vengono rilevati i contagiati tra i soggetti asintomatici, riducendo quindi il rilevamento potenziale del numero dei possibili casi positivi (come si vede anche dai calcoli di Puglisi). Dall’altro lato, questo cambio di strategia nel fare i test spiegherebbe l’alto tasso di letalità registrato in Italia, rispetto ad altri Paesi. Come ha chiarito il 5 marzo a Il Messaggero l’epidemiologo dell’Università di Pisa Pier Luigi Lopalco, «il rapporto tra contagiati e morti cambia in base a quante persone vengono sottoposte al tampone e se sono sintomatiche o senza sintomi». In parole semplici, se si sottopongono ai test sia i soggetti sintomatici che quelli asintomatici, è più probabile che la letalità sia più bassa rispetto a uno scenario in cui sono testati solo le persone con sintomi. Questo avviene perché nel calcolo si contano anche persone, gli asintomatici, che magari non svilupperanno mai sintomi e quindi non subiranno gravi conseguenze, come la morte.
Come leggere il numero dei ricoverati. Al di là delle incertezze legate alle morti per (o con) coronavirus e ai test per i casi positivi, per capire la gravità dell’emergenza da Covid-19 nel nostro Paese basta vedere l’andamento delle persone ricoverate, in particolare in terapia intensiva. Alle ore 17 del 10 marzo 2020, il 59,2 per cento (5.038) degli 8.514 casi in quel momento positivi era ricoverato in ospedale con sintomi. A questi vanno aggiunti 844 pazienti (il 9,9 per cento) ricoverato in terapia intensiva, a causa delle gravi polmoniti e dei problemi respiratori causati dal virus. Una settimana fa, il 2 marzo, erano 166: cinque volte meno. Come ha evidenziato il 10 marzo su Twitter l’esperto di statistica Matteo Villa, se si sommano i decessi con i casi gravi (ossia i ricoverati in terapia intensiva) si scopre che il loro andamento è quello di una progressione esponenziale. Nell’immediato, questo sta già mettendo sotto un enorme sforzo la sanità di regioni come la Lombardia, la più colpita dal contagio. Al 10 marzo (ore 17) i ricoverati in terapia intensiva negli ospedali lombardi erano 446 (una settimana fa, il 2 marzo, erano 127, poco meno di un quarto del dato attuale) ma dall’inizio dell’epidemia, secondo i dati dell’assessore al Welfare della Regione Lombardia Giulio Gallera, gli assistiti in questi reparti sono stati 778 (con 80 deceduti e 103 dimessi). Ad oggi, i posti letto in terapia intensiva in Lombardia sono in totale poco più di 900 (su un totale nazionale di poco superiore a 5 mila): i malati da Covid-19 ne occupano già oggi più della metà, con la conseguenza che si è iniziato a trasferire alcuni pazienti dagli ospedali lombardi ad altre regioni italiane. «Ci sono altri malati che vanno gestiti», ha detto all’Adnkronos il 9 marzo Antonio Pesenti, direttore del Dipartimento di anestesia-rianimazione ed emergenza-urgenza del Policlinico di Milano, che coordina l’Unità di crisi per le terapie intensive in Lombardia. «Bisogna che i reparti si svuotino, ma è una cosa che può avvenire in maniera molto graduale». «Le previsioni mostrano che al 26 marzo potremmo avere in Lombardia almeno 18 mila casi di Covid-19 ricoverati, di cui un terzo in terapia intensiva», ha aggiunto Pesenti. Sempre il 9 marzo, la Consip (la centrale acquisti della Pubblica amministrazione) ha pubblicato i risultati della gara per fornire, tra le altre cose, quasi 4 mila ventilatori per reparti di terapia intensiva e sub-intensiva. Qualche giorno fa il governo ha approvato un decreto per potenziare il sistema sanitario nazionale (Ssn), per esempio con l’assunzione di medici specializzandi, mentre con una circolare il ministero della Salute ha predisposto un piano per aumentare del 50 per cento i posti in terapia intensiva in tutto il Paese.
Conclusione. Ricapitolando: ecco alcune cose da tenere a mente quando si leggono i numeri pubblicati dalla Protezione civile sul coronavirus. Per quanto riguarda le morti, i dati non ci dicono se sono decessi di persone morte per il virus o con il virus. Secondo alcuni virologi, questa sarebbe una differenza di poco conto (e da non risaltare sul piano comunicativo), ma sulla questione si registrano opinioni contrastanti anche tra gli esperti. Attenzione poi a quando sentite parlare di tasso di letalità e di confronti con altri Paesi, come la Cina. Al momento, il rapporto tra deceduti e contagiati in Italia sembra essere più alto, ma questo si spiegherebbe (oltre che per il fatto visto sopra) con il peso della popolazione anziana italiana e con il modo in cui vengono raccolti i dati sui contagiati. I casi positivi totali sono infatti influenzati da un cambio di metodologia per i test introdotto a fine febbraio, quando si è deciso di testare solo i sintomatici. Monitorare l’andamento giornaliero dei casi positivi resta comunque necessario per capire qual è l’andamento della curva del contagio, ma è anche vero che ci sono ritardi tra i dati comunicati dalla Protezione civile e quelli rilevati dalle singole regioni. Discrepanze che possono rendere fuorvianti i ridotti aumenti (o cali) in percentuale dei contagiati da un giorno all’altro. Nell’immediato, è necessario monitorare i numeri sui ricoverati in ospedale, in particolare nei reparti di terapia intensiva. Gli aumenti previsti nei prossimi giorni, infatti, metteranno ancora più sotto sforzo il nostro sistema sanitario, soprattutto in regioni come la Lombardia maggiormente colpite dal contagio.
Coronavirus, Ricciardi: "Sovrastimati i casi positivi. Riusciremo a contenere l'epidemia". L'ex presidente dell'Iss sottolinea che è stato fatto un uso sbagliato dei tamponi perché i casi confermati sono meno numerosi di quelli dichiarati. Andrea Pegoraro, Giovedì 27/02/2020 su Il Giornale. “C'è un'ampia possibilità di sovrastimare le positività. Bisogna utilizzarli in modo appropriato”. Walter Ricciardi, consigliere del ministro della Salute Roberto Speranza, parla dei test del tampone ma allo stesso tempo è “ottimista” perché “riusciremo a contenere il virus”. Il componente del consiglio esecutivo dell’Oms (Organizzazione mondiale della sanità) ritiene una scelta sbagliata aver dato indicazione di fare i tamponi anche alle persone asintomatiche. Ricciardi fa l'esempio del Veneto, che ha agito in modo errato “derogando all'evidenza scientifica”. L’ex presidente dell’Iss (Istituto superiore di sanità) spiega che le linee guida dell’Oms prevedevano i test solo su soggetti sintomatici con 2 caratteristiche ovvero “il contatto con malati di Covid-19 accertati e la provenienza da zone di focolai". Ricciardi sottolinea che queste direttive non sono state applicate e ciò ha creato "confusione e allarme sociale. Oggi in tutto il mondo abbiamo test non perfetti dal punto di vista della sensibilità perché messi a punto in poco tempo e devono essere perfezionati”. Secondo l’esponente dell’Oms, esiste una concreta possibilità di sovrastimare i casi positivi al coronavirus. "Significa - prosegue Ricciardi - che i casi verificati sono circa 190, confermati dall'Istituto superiore di sanità che ha il compito di validare l'eventuale positività dei test condotti nei laboratori locali. Quindi meno dei 424 casi dichiarati che invece includono quelli in attesa di conferma”. Il medico ha precisato che questa situazione ha fatto in modo che il risultato della positività sia stato anticipato dalle Regioni, in particolare Veneto e Liguria. Quindi il ministero della Salute ha dovuto comunicare queste informazioni all’Oms per obbligo di trasparenza. In un'intervista al Corriere della Sera, Ricciardi dice che si dovrebbe andare verso una fase di riduzione del coronavirus, a maggior ragione se verranno seguite le misure indicate nelle ordinanze ministeriali. “Io ho sperimentato da tecnico 4 epidemie, alcuni colleghi stranieri ne hanno viste passare nove - evidenzia -. E tutte hanno avuto le stesse caratteristiche. Se gli interventi funzionano vengono infine circoscritte per evitare che diventino pandemie”. Secondo l’esponente dell’Oms, la prossima settimana si dovrebbe avere un quadro della situazione più chiaro. Ricciardi è “ottimista” ed è convinto che il nostro Paese riuscirà a contenere il virus, anche perché “la primavera e le temperature più miti possono aiutare”. Coronavirus, un documento parla di “casi sovrastimati” in Italia Rec News 11/03/2020. Il caso emblematico di Vo: mentre il mainstream gridava alla tragedia, i dati (reali) parlavano di qualche decina di “contagi” e dieci ricoveri. E dopo i vaccini, spunta un nuovo business qualche giorno fa c’è stato il caso di Treviso. I dati di Iss e Prociv avevano dato conto di “diciassette casi”, poi smentiti. Poi sono arrivati i 60 medici di base di Cosenza “tutti in quarantena”, ennesima costruzione allarmistica per far passare – soprattutto all’estero – l’immagine di un’Italia piegata dal Coronavirus “profetizzato da Bill Gates. Ma quale sarebbe il tornaconto di Conte e degli altri? Abbiamo provato a spiegare quali sono le poste in gioco, settore per settore . A gettare ulteriore luce su quella che assume sempre più i contorni di una grossa costruzione mediatica per danneggiare il Belpaese e per lucrare su una (presunta) emergenza, è arrivato il 5 marzo uno studio del NCBI che spiega come l’80,33% dei tamponi fatti a chi era entrato in contatto con malati di Covid-19 e che avevano rilevato il coronavirus, avessero in realtà generato dei “falsi positivi”. L’altra Vo: 84. casi e dieci ospedalizzati Per restare in ambito nazionale, l’otto marzo del 2020 il presidente della Regione Veneto Luca Zaia scriveva al premier Giuseppe Conte e al ministro della Salute Roberto Speranza per domandare “quali motivazioni scientifiche” fossero alla base dell’inserimento delle province di Venezia, Padova e Treviso nelle cosiddette “zone rosse”. Il governatore allegava la relazione del Comitato Tecnico Scientifico a supporto dell’Unità di Crisi della Regione Veneto, che in pratica per zone considerate ad alto rischio e repentinamente isolate come Vo, ha riscontrato appena 84 casi, 10 dei quali ospedalizzati. Fiumi di tamponi. Nell’ambito dello stesso documento, a mettere i puntini sulle “i” arrivava inoltre l’Azienda Zero della Regione Veneto, che metteva a disposizione dati dettagliati sui tamponi effettuati. In pratica quello che la stampa commerciale ha definito il più grande studio collettivo (che ha riguardato quasi la totalità degli abitanti di Vo Euganeo) per acquisire dati sul coronavirus, è stato in realtà il più grande laboratorio d’Italia per generare falsi positivi. Un “modello” che in queste ore a detta di personaggi come il virologo Andrea Crisanti, andrebbe esteso a tutta Italia. Il modesto costo di somministrare 60 milioni di tamponi circa lo spiega lo stesso Crisanti: 30 euro a tampone “appena”, che come abbiamo visto generano più falsi positivi che tutto il resto. Quanti posti di terapia intensiva e strumentazioni per gli ospedali che possono servire anche passata la (presunta) emergenza italiana di coronavirus si acquisterebbero con gli stessi soldi? Il nuovo business da trenta euro a testa. I tamponi sono poi davvero stati effettuati secondo necessità? Stando a quanto reso noto dall’ISS, dovevano essere destinati unicamente a chi mostrava sintomi, ma già stiamo assistendo all’esercito di impavidi che fa la fila davanti ai nosocomi. E a Vo? Per accertare le decine di casi – molti dei quali, dicono Zhuang e il suo team, potrebbero essere falsi positivi – sono stati fatti 2778 tamponi. Il 29 febbraio si è raggiunto il picco di 728 tamponi in un giorno, il 2 marzo (appena due giorni dopo) il numero di tamponi era uguale a zero (!!!). I tamponi – che per di più starebbero arrivando dalla realmente contaminata Cina, mentre le mascherine sono arrivate dall’Africa – sono un po’ i nuovi vaccini: più che guardare alle reali necessità ora bisogna farne tanti, tutti e subito. Smettendo magari da un giorno all’altro a copertura raggiunta, segno evidente che più che a far fronte a un’emergenza bisogna costruirne una per consentire a determinati business di proliferare o di anticipare e consolidare (come nel caso del 5G) il loro avvento.
CORONAVIRUS, L’ANALISI DEI DATI: L’ITALIA È DAVVERO LA PIÙ COLPITA DOPO LA CINA? Attraverso l'analisi dei dati, cerchiamo di capire se e perché l'Italia è il bersaglio perfetto del Covid-19. Domenico Di Sarno de La Redazione de Il Digitale il 12 Marzo 2020. L’emergenza con cui tutto il mondo sta facendo i conti e in particolare l’Italia, ha sicuramente dei numeri. In altre parole se il mondo sta facendo i conti con il coronavirus abbiamo pensato di fare i conti al coronavirus. I bollettini e gli aggiornamenti che riguardano il numero complessivo e l’andamento giornaliero dei contagi, delle vittime e delle guarigioni si susseguono e, considerando uno di questi due aspetti, l’Italia e la Cina sono i 2 paesi più colpiti.
ANALIZZIAMO I DATI DEI PAESI PRINCIPALI. Vediamo innanzitutto un confronto numerico tra i principali paesi coinvolti. Al primo posto nel mondo c’è la Cina. Secondo i dati diffusi tramite una piattaforma web del dipartimento di ingegneria civile della John Hopkins University, che aggiorna i dati mediamente ogni 30 minuti, avendo come fonti gli organismi predisposti dai governi nazionali, alle 13:53 del giorno 12 marzo 2020 il totale di tamponi positivi nel mondo sono 127820 di cui 80932 in Cina. Questo significa che il paese più popoloso del mondo ha una percentuale del 63,317% dei casi, o per chi preferisce le frazioni, circa i 7/11 della popolazione mondiale contagiata.
I MORTI E I GUARITI DA COVID-19. In totale i morti sono 4717 e 68309 i guariti. Dei 4717 deceduti 3056 sono cinesi, vale a dire il 64,786% del totale. I guariti in Cina sono 50318, vale a dire il 73,662% del totale. Vediamo anche altri dati della Cina che ci torneranno utili nel confronto con gli altri paesi. Il paese del dragone ha una superficie di 9546000 Km quadrati con una popolazione di 1,433 miliardi di abitanti, questi sono dati tratti dal World Factbook della Cia del 2019.
LA SITUAZIONE NEL NOSTRO PAESE IN CONFRONTO ALLA COREA DEL SUD. Al secondo posto sia per i contagi che per numero di vittime c’è l’Italia con 12462 casi accertati, 827 morti e 1045 guariti. In altre parole nel nostro paese abbiamo un percentuale pari al 9,74% dei contagiati, il 17,532% dei morti e solo l’1,52% delle guarigioni. Abbiamo una popolazione di 60359546 abitanti così come riportato dell’Istat nell’ultimo bilancio mensile di dicembre 2019. La superficie del Bel Paese è di 302000 km quadrati. Proviamo a fare i conti al virus anche in Corea del Sud che al momento è il quarto paese al mondo per numero di vittime e di contagiati, rispettivamente con 66 decessi e 7869 contagiati. La Corea del Sud ha una popolazione di circa 51 milioni di abitanti con una superficie di poco più di 100 mila Kmq, vale a dire un terzo dell’Italia. In questo caso però dobbiamo considerare anche una densità di popolazione quasi tripla, cioè di 491 abitanti per Km quadrato, contro i circa 200 dell’Italia. In questo caso i dati più aggiornati sono quelli forniti dalla Banca Mondiale ma si possono trovare stime sensibilmente diverse fatte dal FMI e dalle Nazioni Unite. Possiamo quindi passare a vedere quanti sono i contagi sul totale della popolazione e dell’estensione dello stato.
UN QUADRO RIASSUNTIVO.
Cina: 1 contagio ogni 17712 persone e ogni 117 km quadrati
Italia: 1 contagio ogni 4854 persone e ogni 24,2 Km quadrati
Corea del Sud: 1 contagio ogni 6531 persone e ogni 12,96 Km quadrati L’eccezione che conferma la regola.
Dal punto di vista degli abitanti, in questo confronto e solo in questo confronto, l’Italia appare il paese più colpito come incidenza sulla popolazione mentre per l’incidenza sul territorio il paese più colpito è la Corea del Sud. Proviamo a sfatare questo mito del paese più colpito e prendiamo in analisi l’Islanda. Si tratta di un’isola molto distante da tutti eppure si sono registrati finora 85 casi. La popolazione è di poco superiore ai 360 mila abitanti con una conseguente incidenza sulla popolazione di 1 contagio ogni 4235 abitanti e ogni 1200 Km quadrati circa. Ecco che da questo punto di vista il paese più colpito non è l’Italia.
L’IMPOSSIBILITÀ DELL’OMOGENEITÀ DEI DATI. I dati qui esposti sono però viziati da 2 fattori, il primo è la possibilità di risentire degli eventi in corso e di un conseguente e continuo mutamento, il secondo è quello che si è preferita sempre la fonte più aggiornata in fatto di crescita demografica. Va tuttavia sottolineato che anche in caso di fonti meno recenti, l’incidenza del contagio sarebbe sensibilmente diversa e non vedrebbe l’Italia al primo posto. Ci sono poi degli errori intrinseci nelle misurazioni statistiche che sono legati alla natura stessa della statistica. I dati riportati dalla John Hopkins University non tengono conto dello strumento diagnostico ossia del kit usato per fare il cosiddetto tampone. Non solo. Non è riportato il numero di tamponi eseguiti in ogni paese e nemmeno il tipo di kit usato, va infatti precisato che l’OMS ha fornito delle specifiche per un tipo di tampone mentre alcuni paesi usano un loro metodo diagnostico come ad esempio gli Stati Uniti. Infine, nota più importante, la legge statistica che regola il campionamento casuale semplice asserisce che la stima è tanto più accurata quanto più grande è il campione. In Italia sono stati eseguiti più tamponi che negli altri paesi. In altre parole il virus non è stato cercato su tutta la popolazione ma è stato cercato su più persone in Italia. Questo distorce anche il calcolo sulla mortalità assoluta che pare attestarsi poco sopra il 3% ma potrebbe essere più bassa.
LE DIFFERENTI “POLITICHE” DI DIAGNOSI E I PARERI DISCORDANTI DEI VIROLOGI. Dobbiamo poi tenere presente la politica di ricerca. Nei primi giorni successivi al primo contagio avvenuto il 20 febbraio 2020, in Italia sono state eseguite indagini diagnostiche su chiunque presentasse sintomi simil-influenzali. Si tratta della stessa cosa accaduta in Cina nei primi giorni di gennaio. Successivamente la metodologia di indagine è cambiata andando a cercare il genoma del virus solo in persone che avevano sintomi simil-influenzali ma che avevano un ragionevole motivo, ad esempio di contatto, con zone o persone provenienti dalle aree di contagio. In altre parole, a parte gli esempi qui mostrati, che numericamente e statisticamente mostrano che l’Italia non è il paese più colpito, c’è anche il criterio di ricerca. A questi due fattori si aggiunge un terzo che è quello dell’enfasi data dagli organi di stampa. Il professo Burioni del San Raffaele di Milano sostiene che ogni morte con coronavirus è da ritenersi una morte per coronavirus mentre altri suoi colleghi come la dottoressa Gismondi dell’ospedale Sacco di Milano e la professoressa Ilaria Capua, ritengono di dare meno importanza al fattore coronavirus soprattutto nei casi di decessi con comorbilità.
CHI HA RAGIONE? La risposta a questa domanda potrebbe essere “unicuique suum”, ovvero a ciascuno il suo, il suo pensiero. Inizialmente i fatti hanno dato ragione a Burioni e lui aveva chiesto a gran voce le misure amministrative che ora sono state attuate per prevenire il contagio paventando uno scenario simile a quello odierno già nell’ultima settimana di gennaio. Qui si è soltanto provato a fare un’analisi statistica, senza considerare fattori climatici e di inquinamento ambientale che, secondo parecchie indiscrezioni non scientificamente confermate ma neppure smentite, possono influenzare la veicolazione del virus. Il fenomeno è stato osservato nella maniera quanto più accurata possibile per presentare i numeri e solo quelli, auspicando che il tutto duri il meno possibile. Domenico Di Sarno
Roberto Burioni contro la Gismondo. Influenza e coronavirus, confronto dei morti: "Ecco i veri numeri". Libero Quotidiano il 13 marzo 2020. Sul coronvirus è ancora polemica a distanza tra Roberto Burioni e Maria Rita Gismondo, che dirige Microbiologia clinica, virologia e bioemergenze dell'ospedale Sacco di Milano. La virologa, ospite di Paolo Del Debbio a Dritto e rovescio su Rete 4, ha ricordato che solo l'anno scorso in Italia si sono registrati "8.000 decessi per influenza". Un tentativo, dunque, di far rientrare l'emergenza dopo l'ultimo bollettino che ha portato i morti da coronavirus (o con, come sostiene la Gismondo) a 1.016 di fatto in tre sole settimane. "Ecco i numeri VERI dell'influenza", ribatte Burioni su Twitter. Nel 2018/19, l'anno peggiore, si parla di 607 guariti da casi gravi e 205 vittime. Un bilancio, dunque, contenuto, anche se molti fanno notare al professore come lo schema si possa applicare anche alla "banale" influenza stagionale, scorporando dal computo i morti le cui condizioni erano già gravemente compromesse e su cui si è innestata la componente aggiuntiva dell'influenza. Una guerra di numeri che sicuramente alimenta il confronto tra scienziati, ma lascia interdetti i pazienti (e i telespettatori).
Coronavirus, tutti gli errori grossolani della virologa Gismondo. Perché ancora parla? Carlomanno Adinolfi il 9 Marzo 2020 su ilprimatonazionale.it. “Ora in tanti mi danno ragione. Fra una settimana non parleremo più di coronavirus, ne farò un ciondolo”. Era il 26 febbraio quando Maria Rita Gismondo, direttrice del Laboratorio di microbiologia clinica, virologia e diagnostica delle bioemergenze dell’ospedale Sacco di Milano, faceva la sua profezia destinata ad essere ricordata allo stesso modo di quelle di Piero Fassino. Sarebbe quasi da chiederle a che punto è oggi il ciondolo. La Gismondo, ricordiamolo, fu il primo alfiere della normalizzazione della situazione, del “tranquilli è tutto a posto” e del “il coronavirus è una semplice influenza”. Divenne “famosa” nei media e nei social quando il 23 febbraio scrisse il noto post in cui diceva “È una follia questa emergenza. Si è scambiata un’infezione appena più seria di un’influenza per una pandemia letale” chiedendo di abbassare i toni ed entrando in contrasto con il virologo Roberto Burioni che invece invocava misure di sicurezza e prevenzione per cercare di fermare il diffondersi del virus alla radice con metodi anche drastici.
E’ come una normale influenza. Sempre quel giorno la Gismondo riportava il dato – riportato e non verificato da Open, fact checking failed – secondo cui nello stesso periodo la normale influenza stagionale aveva fatto 217 decessi al giorno, contro le dieci del Covid-19. Riportando un dato del tutto fuori dalla realtà, visto che i 217 decessi giornalieri non era un dato che si riferiva ai decessi per influenza ma alla mortalità generale nell’ottava settimana del 2020 . Anche di fronte alla crescita esponenziale di contagi e decessi nell’ultima settimana di febbraio la Gismondo mantenne il punto, arrivando addirittura a dire che il virus aveva una mortalità solamente dello 0,1% (all’epoca come ora i dati parlavano di oltre il 3%) e che i decessi registrati per coronavirus non erano affatto per coronavirus perché “sarebbero morti comunque”. Il tutto facendosi sempre forza sui “dati ufficiali” e sui “numeri” che, però, anche allora dicevano tutt’altro.
Sempre in quell’intervista aveva anche negato che una cifra di pazienti tra il 10% e il 20% finiva in rianimazione. Era il 28 febbraio ma la Gismondo già metteva le mani avanti sostenendo che “i virus cambiano” e che “se mi doveste intervistare fra tre giorni potreste dire che il virus non esiste più così come il virus si diffonde di più”. Due giorni dopo tornava alla carica sul confronto con l’influenza classica, parlando di “ben 300 morti in quattro settimane con cinque milioni di contagi”, numeri che oggi di fronte a quelli del Covid-19 dopo appena due settimane e mezzo dall’inizio del contagio fanno sorridere. Ma già iniziava a parlare di emergenza per la presenza di molti casi critici in pochissimi giorni che avrebbero potuto mettere a rischio l’organizzazione sanitaria.
La Gismondo e il parziale dietrofront. Una volta esplosa l’emergenza e una volta rivelatasi in tutta la sua evidenza la reale pericolosità del virus, ovviamente le è stato chiesto se davvero considerasse ancora il Covid-19 alla stregua di un’influenza normale. “Queste dichiarazioni le ho fatte sempre tenendo in primo piano i numeri, è poco più di un’influenza per quanto riguarda i contagi e la percentuale di morti” ha detto il 4 marzo. Una mortalità tre volte superiore e una contagiosità due volte superiore sarebbero dunque “poco più”. Ma stavolta lanciava seriamente l’allarme sull’organizzazione sanitaria perché il 10% dei contagiati ha bisogno di terapia intensiva (dato negato o comunque ridimensionato il 28 febbraio, appena sei giorni prima). Cosa che, per la cronaca, con un’influenza normale non accade. Dopo essersi giustificata per aver parlato “numeri alla mano” ma che i numeri cambiano, ha poi affermato che i numeri vanno visti in un lungo arco temporale e non di giorno in giorno.
Intervento tardivo anche per colpa della Gismondo. Resta la domanda: perché allora ha parlato nei primi giorni quando i numeri erano ovviamente ancora pochi? E perché ne ha approfittato per far girare la convinzione sia nei media che nelle istituzioni che non ci sarebbe stata nessuna emergenza, che non bisognava prendere provvedimenti e che l’epidemia si sarebbe risolta in pochissimi giorni, diventando uno dei megafoni che poi ha avallato la politica governativa dell’intervento tardivo? E poi da un virologo direttore di uno dei più famosi ospedali italiani ci aspetteremmo qualcosa di più di una fredda analisi dei numeri per cui basterebbe anche uno statistico. In questa sede non mettiamo assolutamente in discussione le capacità della Gismondo, non ne abbiamo minimamente la competenza e siamo anzi sicuri che la direttrice del Sacco, se ricopre quel ruolo, sia tra le persone più competenti, però è indubbio che in tutta la situazione un virologo come Burioni abbia avuto uno sguardo più profondo e fatto una analisi più lucida e che se si fosse dato più retta a lui che non alla Gismondo ora probabilmente non saremmo in questa situazione.
Burioni costretto alle scuse. E questo porta a un altro fatto di una gravità assoluta. Infatti fa pensare il fatto che politici e media all’indomani della querelle tra i due abbiano di fatto costretto Burioni a scusarsi con la collega per averla chiamata in modo irrispettoso come “la signora del Sacco”. Quindi di fronte a una possibile pandemia si è preferito porre l’attenzione sul politically correct e sulla guerra di parole giuste e si è voluto dare ragione alla dottoressa solo perché in quel momento era diventata l’emblema della donna vittima del maschio bullo. Poco importa che avesse ragione il dottore e non la dottoressa. E la Gismondo ha anche cavalcato l’onda buonista – nonostante la sua poca attenzione per le persone che “tanto sarebbero morte lo stesso”… – dichiarando in un’altra occasione: “In un mondo che vuole innalzare muri, la natura ci ha dimostrato che i confini non esistono”.
L’odio della Gismondo per i “confini”. Dichiarazione gratuita, politicizzata e soprattutto pericolosissima che cozza con i numeri perché il virus ha dimostrato che il paese che meno controlla i suoi confini è il primo paese per morti e contagi dopo la Cina e il primo per tasso di percentuale tra contagiati e popolazione, mentre una nazione vicinissima alla Cina come il Giappone, che oltre ad avere confini naturali è anche molto attento a chi entra e che tra l’altro ha da subito preso provvedimenti senza mettersi a fare le pulci alle parole, ha un tasso di contagi tra la popolazione tra i più bassi del mondo. Forse proprio i confini sarebbero potuti dunque servire a contenere l’epidemia, ergo la sua dichiarazione oltre ad essere chiaramente politicizzata risulta anche di una gravità assoluta. Ma quello che forse dà ancora più fastidio è che dopo aver cercato di negare l’emergenza, dopo aver lanciato appelli alla normalizzazione e dopo aver di fatto contribuito a creare una cappa di ridicolizzazione della paura per il virus e anzi di quasi menefreghismo verso il contagio, la dottoressa Gismondo ci fa ora la morale dichiarando che è “triste vedere giovani senza responsabilità sociale” perché vanno tranquillamente in giro invece di rimanere a casa come richiesto dal governo. Ovvero per lei è triste vedere giovani che fanno esattamente quello che neanche venti giorni fa lei stessa voleva che facessero, senza preoccuparsi di una “emergenza che non esiste”. Sarebbe meglio, forse, se la Gismondo facesse meno apparizioni in tv soprattutto dopo aver preso una cantonata clamorosa sulla gravità del virus. Anche perché, se non abbiamo la competenza per giudicare il suo lavoro da virologa, sicuramente abbiamo la sicurezza che come potenziale politico o personaggio immagine sarebbe un disastro completo. Carlomanno Adinolfi
Virologa Gismondo Coronavirus a breve al 60 70 per cento tra noi. Umbriajournal.com 13 Marzo 2020. “Noi stiamo assistendo ad un incremento di casi di contagio rilevati. Sappiamo tutti che questo virus è diffuso nella popolazione molto più rispetto a quello che stiamo vedendo, tra poco il 60-70% della popolazione sarà rilevato positivo. Ma non dobbiamo preoccuparci. Con dei numeri maggiori ci renderemo conto che questo virus è meno letale di quanto possiamo pensare adesso“. Lo dice Maria Rita Gismondo, direttrice del laboratorio di Microbiologia clinica dell’ospedale Sacco di Milano, intervenuta ai microfoni della trasmissione L’Italia s’è desta, condotta dal direttore Gianluca Fabi, Matteo Torrioli e Daniel Moretti su Radio Cusano Campus, emittente dell’Università Niccolò Cusano. “Questo virus– spiega- nella gran parte dei casi, o è silente o ci dà sintomi simil influenzali, nel 90% dei casi. C’è un 10% di persone che ha bisogno di essere ricoverato in ospedale. Borrelli ci ha detto più volte che le fasce più toccate sono anziani con 1 o 4 patologie. Il virus dunque è stato un aggravante. Ad oggi i dati di morte diretta per Coronavirus sono molto scarsi, si parla di qualche unità.
I giovani in terapia intensiva?
La medicina non è mai una scienza esatta, quindi non significa che non ci possano esserci casi di qualche giovane. Dobbiamo però vedere la curva, dobbiamo parlare della maggior parte dei casi. Dobbiamo andare a vedere se ci sono altre malattie. Oggi l’età media dei deceduti è 81-83 anni, i guariti sono quasi il doppio delle persone che vengono ricoverate in terapia intensiva. Io non dico che la situazione sia rosea. Giuste tutte le precauzioni che vengono prese. Se ognuno di noi diventa serbatoio del virus può provocare una grave infezione ad una persona anziana. Siamo a casa due settimane perchè dobbiamo evitare il contagio, meno persone sono contagiate, meno si ammalano e meno deceduti avremo. Non illudiamoci di avere casi zero in tutta Italia e in tutta Europa. La Lombardia è stata particolarmente sfortunata perchè ha avuto quel focolaio che ci ha messo in crisi. Se non ci fosse stato quel focolaio avremmo avuto pochi casi aumentati nel tempo e non questa crisi sanitaria”. “Tra due settimane- continua la virologa– ci aspettiamo un calo drastico dei casi positivi, dei ricoverati e dei malati. Non possiamo però pensare che tra due settimane il virus sia scomparso, ci accompagnerà ancora per qualche mese, ma una cosa è avere 30 ricoverati in terapia intensiva, altra cosa è averne 3.000″. Sulla possibilità che il caldo sia un alleato contro il Coronavirus. “E’ vero che quando andiamo verso il caldo i virus respiratori calano nella loro presenza, ma questo è dovuto soprattutto alle nostre abitudini perchè durante l’inverno ci accalchiamo nei locali ed è molto più facile stare più vicini. L’estate stiamo più all’aperto e questo ci aiuta ad essere meno esposti ai virus” dice Gismondo. Riguardo la sperimentazione sulle terapie anti Coronavirus. Per raggiungere il vaccino ci vorrà tempo, forse arriverà anche dopo il picco in tutta Europa. La cosa più rapida è sicuramente una terapia perchè abbiamo tante molecole che potrebbero essere attive nei confronti del virus. «Conosciamo il virus e quindi possiamo fare ipotesi di molecole attive – dice Gismondi, virologa – La sperimentazione comincia al Sacco e al San Matteo perche’ sono sempre stati in prima linea, purtroppo anche come numero di casi. E’ essenziale provare e riprovare molecole che possano darci una terapia. Credo stiano puntando su due target diversi di attività:
l’antivirale punta ad inibire il virus rapidamente,
l’altra molecola (quella del farmaco anti artrite) mira a ridurre l’infiammazione.
Possibile che possano diventare una terapia combinata. Mai più un euro tolto al Sistema sanitario nazionale. “Tutti dobbiamo imparare da questa esperienza. La sanità nazionale non può essere spezzettata in varie regioni. Il cittadino su tutto il territorio nazionale deve avere lo stesso diritto alla salute. Addirittura auspicherei su tutto il territorio europeo. Spero che le persone non dimentichino i nostri sacrifici e soprattutto i nostri giovani volontari, senza di loro non potremmo fronteggiare la crisi e spero che diventino dipendenti a tutti gli effetti” conclude la virologa.
Coronavirus, Roberto Burioni fa chiarezza sui decessi: "Tutti sono morti di coronavirus. Altre patologie? Non c'entrano". Libero Quotidiano il 06 marzo 2020. Ogni giorno le istituzioni al momento della lettura dell'ultimo bollettino dichiarano che i decessi sono tutti legati a quadri clinici complicati ed a patologie pregresse. Pensare che siano morti pazienti già malati è una sorta di rassicurazione per chi si sente sano, ma in realtà è sbagliato dire che i 197 italiani siano morti con e non di coronavirus. Lo afferma senza mezzi termini Roberto Burioni, che smaschera la "nuova scemenza" pericolosa quanto quella che descriveva il Covid-19 "solo un'influenza". Un giornalista chiede se finora è stata stabilita una correlazione diretta tra questa infezione e il decesso, ovvero se qualcuno è morto di coronavirus. Il noto virologo risponde così: "Posto che si muore sempre per un arresto circolatorio, tutti sono morti a causa del coronavirus. Se un malato terminale lo contrae, non ce ne accorgiamo neanche". A chi ipotizza che vengano imputati al Covid-19 decessi provocati da altre patologie, Burioni replica che "questo assolutamente non avviene". E quindi anche i pazienti che presentano più di due patologie non sarebbero morti per una banale influenza, ma esclusivamente per il coronavirus.
Burioni: "Ecco perché tutti sono morti a causa del Coronavirus". Il virologo vuole essere chiaro: "Decessi di altre patologie attribuite al Covid-19? Questo non avviene, è la nuova pericolosa scemenza". Luca Sablone, Sabato 07/03/2020 su Il Giornale. "Se noi imputiamo al virus decessi che altrove imputano ad altre patologie...". Questa l'accusa relativa alla gestione dell'emergenza Coronavirus: da diverse ore in molti stanno sollevando dubbi sul numero delle vittime da Covid-19. In tanti pensano che i decessi attribuiti al virus siano errati poiché derivanti da altre patologie. Ma Roberto Burioni ha smentito queste tesi ed è uscito allo scoperto senza mezzi termini: "Questo assolutamente non avviene, è la nuova pericolosa scemenza dopo 'è solo un’influenza'".
Marco Congiu: Scusi Prof, domanda ingenua ma non pretestuosa: finora è stata stabilita una correlazione diretta tra questa infezione e il decesso? Detto banalmente: qualcuno è morto “di Coronavirus”?
Roberto Burioni: Posto che si muore sempre per un arresto circolatorio, tutti sono morti a causa del coronavirus. Se un malato terminale contrae il coronavirus non ce ne accorgiamo neanche.
Il virologo sul proprio profilo Twitter ha risposto alla domanda relativa alla correlazione diretta tra questa infezione e la morte: qualcuno ha perso la vita a causa del Coronavirus? "Posto che si muore sempre per un arresto circolatorio, tutti sono morti a causa del Coronavirus. Se un malato terminale contrae il Coronavirus non ce ne accorgiamo neanche", ha spiegato. L'elevato tasso di mortalità finora registrato potrebbe essere effettivamente molto più basso, visto che l'infezione non è sempre riconosciuta e riconoscibile, ma occorre fare due precisazioni: pare che in Cina "le infezioni asintomatiche non siano state così tante"; inoltre è irrilevante considerando che "quello che importa per la saturazione delle nostre terapie intensive (che avvenendo alzerebbe mostruosamente la mortalità) contano i numeri assoluti".
Marco Congiu: Ok, grazie. Un’ultima domanda (poi la lascio a @MedicalFactsIT): l’elevato tasso di mortalità finora registrato potrebbe essere effettivamente molto più basso, visto che l’infezione non è sempre riconosciuta e riconoscibile, corretto?
Roberto Burioni: Potrebbe ma 1) sembra che in Cina le infezioni asintomatiche non siano state così tante 2) è irrilevante visto che quello che importa per la saturazione delle nostre terapie intensive (che avvenendo alzerebbe mostruosamente la mortalità) contano i numeri assoluti.
"Scemenza acuta". Anche il giornalista Antonello Piroso ha sollevato la questione: "In Italia secondo me c'è un modo di contare i morti per Coronavirus sbagliato. Contiamo chi muore con il Coronavirus, non per. Che senso ha? Gli altri paesi non lo fanno". Ma pure in questa occasione è arrivata puntuale e secca la smentita da parte dell'esperto: "Propongo un conteggio alternativo. Lasciamo stare i morti. Quanti sono in questo momento i pazienti ricoverati in terapia intensiva a causa del Coronavirus e non con il Coronavirus? Perché i reparti da alcuni giorni scoppiano? Contiamo anche questi in modo errato?". Infine Burioni ha riassunto la propria posizione in merito, replicando duramente contro chi ha ipotizzato degli errori nel calcolo dei decessi: "La scemenza più acuta che si sente - dopo 'è solo un’influenza' che ormai è stata smentita dalla dura realtà - è 'non è morto per il Coronavirus ma con il Coronavirus'. Presto ne parleremo".
Come distinguere l’infezione da Coronavirus da una Sindrome Virale comune. Roberto Gava il 10 marzo 2020. La continua evoluzione dell’epidemia da Coronavirus CoVID-19 che sta interessando il nostro Paese sta creando un giustificato allarme in molte persone. I nostri Governanti fanno bene a cercare di usare ogni sistema per arginare l’estensione del contagio per il semplice motivo che le persone più gravi (specie gli anziani, ma non solo) potrebbero trovarsi in condizioni critiche che necessitano di una respirazione assistita. I nostri Centri ospedalieri di Terapia Intensiva, però, hanno delle capacità di assistenza limitate e quindi se il numero dei contagiati sale bruscamente in pochi giorni o settimane, i posti disponibili si satureranno rapidamente e non ci sarà posto per altri. Se invece si riuscisse a smorzare il picco di nuovi malati in modo da spalmare il loro numero in un arco di tempo più lungo, si permetterebbe alle persone che hanno superato l’emergenza di essere trasferite dalla Terapia Intensiva ai reparti di Medicina Generale lasciando il posto per nuovi assistiti. Tutto questo giustifica pertanto le raccomandazioni di evitare gli assembramenti e gli “incontri ravvicinati” … sperando che i divieti promulgati non creino nuovi eccessivi problemi ai sani (pensiamo all’importanza di salvaguardare l’economia di molte piccole e medie imprese commerciali, cioè l’economia dell’Italia). In ogni caso, le persone hanno paura e, come scrivevo nel mio articolo precedente su questo stesso argomento, “la paura della malattia può essa stessa creare malattia, perché crea tensione, stress e lo stress prolungato slatentizza i punti deboli della persona: può far salire la pressione, può causare aritmie cardiache, disturbare il sonno e la digestione … e alla fine indebolisce il sistema immunitario. Proprio quello che in questo periodo non deve avvenire!“. La paura la si controlla con il ragionamento, ma questo ha bisogno di motivazioni, conoscenze …Ecco allora il motivo per cui ho pensato di fornire le informazioni sottostanti.
L’infezione si trasmette principalmente in famiglia. Sappiamo tutti che i Coronavirus umani si trasmettono da una persona infetta a un’altra principalmente attraverso il contatto diretto con la saliva, i colpi di tosse e gli starnuti (entro un raggio di circa 1-1,5 metri), ma da un documento ufficiale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) è emerso che in Cina la principale causa di contagio (78-85%) è avvenuto all’interno della famiglia. La trasmissione nell’aria su lunghe distanze (oltre i 2 metri), specie se in ambienti grandi o all’aperto, non è invece un’importante causa di diffusione, quindi non si dovrebbe proibire alle persone di andare a passeggiare all’aperto, anzi sarebbe consigliabile specialmente nelle belle giornate di sole (l’aria aperta e il sole ostacolano enormemente la sopravvivenza di tutti i virus).
L’infezione da Coronavirus è molto contagiosa? Secondo i dati diffusi dall’OMS, emerge che se si ha un contatto personale diretto con una persona infetta, la probabilità di rimanere infettati non è assolutamente elevata, perché è solo dell’1-5%. Sappiamo anche che ci si può contagiare se si tocca la mano di un malato oppure oggetti che quest’ultimo ha appena toccato, ma a patto che:
il malato abbia toccato gli oggetti da poco, dato che il virus pare sopravvivere poche ore (forse non più di 3-4) al di fuori della persona;
dopo aver toccato l’oggetto contaminato, il virus non ci infetta entrando attraverso la nostra cute, ma solo se noi ci mettiamo le mani in bocca o ci tocchiamo il naso, cioè le mucose oro-nasali.
Per questo è consigliabile lavarsi spesso le mani, ma specialmente quando si rientra a casa o si è stati in luoghi pubblici.
Ricordiamo infine che un malato può diffondere il Coronavirus durante i sintomi della malattia ma, come per tutte le virosi, lo può fare anche nei 5-6 giorni che precedono la manifestazione clinica dei sintomi (secondo alcuni anche nei 15 giorni precedenti) e quindi prima che si scopra che è stato realmente infettato: è questo il grave problema delle malattie virali che facilita la loro diffusione. A causa di tutti questi motivi, questa nuova infezione da Coronavirus è destinata verosimilmente ad estendersi a tutti i Paesi del mondo, perché quelli che oggi sono sani potrebbero diventare malati nei prossimi giorni e, se questo è vero, nel frattempo contribuirebbero a diffondere il virus.
I sintomi dell’infezione da Coronavirus. Secondo l’OMS, i sintomi dell’infezione da CoVID-19 non sono specifici e la presentazione della malattia può variare da nessun sintomo (soggetto asintomatico) a grave polmonite e morte. A partire dal 20 febbraio 2020 e sulla base dello studio di 55.924 soggetti cinesi che hanno ottenuto la conferma dell’infezione con il tampone faringeo, i segni e i sintomi più rappresentati sono stati i seguenti:
febbre (87,9%),
tosse secca (67,7%),
spossatezza (38,1%),
espettorazione mucosa tossendo (33,4%),
difficoltà respiratoria (18,6%),
mal di gola (13,9%),
cefalea (13,6%),
dolori muscolari (14,8%),
brividi (11,4%),
nausea o vomito (5,0%),
congestione nasale (4,8%),
diarrea (3,7%),
espettorato sanguinolento (0,9%),
congestione congiuntivale (0,8%).
Altri due studi hanno evidenziato sintomi simili.
Inoltre, quasi sempre c’è una spiccata riduzione dei linfociti (in genere 500-600/mcL) e nella maggior parte dei pazienti le concentrazioni della proteina C reattiva (PCR), dell’enzima lattico-deidrogenasi (LDH) e della proteina siero amiloide A (proteina della fase acuta) sono elevate.
In ogni caso, l’80% degli infetti sviluppa solo una malattia molto lieve. Solamente nei casi più gravi l’infezione può causare polmonite basale, in genere bilaterale, con difficoltà respiratoria acuta grave e raramente la morte. Infatti, il 14-15% dei pazienti è così grave da aver bisogno di respirare ossigeno altamente concentrato (e non solo per pochi giorni, ma spesso per 2-3 settimane), mentre quelli veramente più gravi (circa 5% delle persone) hanno bisogno del ricovero in Terapia Intensiva per poter disporre della respirazione assistita. Secondo il suddetto documento dell’OMS, la durata della patologia dal suo inizio sintomatologico fino alla guarigione è in media di 2 settimane per i pazienti precedentemente sani e che durante la malattia avevano sintomi lievi, ed è in media di 3-6 settimane per i pazienti gravi e critici che sono diventati così perché già precedentemente malati o immunodepressi per vari motivi (rinvio al mio precedente articolo).
Ai primi sintomi viene da chiedersi: avrò il Coronavirus? In queste settimane siamo ancora nel periodo in cui sono presenti varie virosi stagionali che causano dei quadri sintomatologici del tutto sovrapponibili, almeno nei giorni iniziali a quelli in cui può comparire la sintomatologia dell’infezione da Coronavirus. Non dimentichiamo neppure che chiunque di noi potrebbe in qualsiasi momento prendersi un raffreddore con lieve febbricola e malessere generale e potrebbe facilmente pensare che sia l’inizio di una infezione da Coronavirus lieve-moderata. In queste situazioni viene spontaneo chiedersi:
Cosa devo fare?
Devo fare il tampone faringeo?
Devo andare in Pronto Soccorso?
Devo mettermi in quarantena?
E i contatti con i familiari?
E il lavoro?
Va subito precisato che si raccomanda di non andare al Pronto Soccorso se non si hanno sintomi importanti (febbre elevata con difficoltà respiratoria evidente) che testimonierebbero un interessamento polmonare (il virus causa una polmonite interstiziale). È facile quindi in questa situazione che i malati si sentano abbandonati in casa, soprattutto perché anche i Medici possono contrarre l’infezione e il loro numero non è elevato. Il risultato è che il paziente resta a casa senza cure … e la paura aumenta!
Principali differenze con le sindromi virali stagionali. Quindi è importante capire quali sono le principali differenze tra l’infezione da Coronavirus e una infezione virale stagionale comune e non pericolosa … se non altro per tranquillizzare molte persone! Va subito detto che differenziare queste due patologie è talvolta difficile, è di esclusiva competenza medica e l’analisi va obbligatoriamente personalizzata sul singolo caso. Comunque, data l’emergenza del momento, credo sia importante fornire qualche parametro alle persone che vivono questo periodo con una particolare ansia. Precisiamo che l’esatta diagnosi del tipo di infezione è possibile solo con l’esame microbiologico di un campione prelevato con il tampone faringeo e che utilizza la tecnica della PCR (Reazione a Catena della Polimerasi), un esame che fornisce l’esito in solo 2-3 ore. Comunque, gli studi pubblicati in questo ultimo mese e alcuni documenti dell’OMS ci permettono sicuramente di dare alcune importanti informazioni. Ad esempio, sembra accertato che molto raramente il CoVID-19 ammala i giovani con età sotto i 18 anni e, se li ammala, induce in loro solo una lieve patologia simil-influenzale. Per di più, i dati preliminari che arrivano dagli studi condotti in Cina indicano che i bambini colpiti dal virus sono stati infettati dagli adulti, piuttosto che viceversa, mentre nel caso del virus influenzale accade proprio l’opposto: i bambini sono un importante veicolo di trasmissione comunitaria del virus dell’influenza e sono essi che contagiano agli adulti. Inoltre, il CoVID-19 ha una incubazione più lunga della sindrome influenzale e quindi si diffonde un po’ meno velocemente. Il CoVID-19 non si esprime praticamente mai con i comuni sintomi del raffreddore (starnuti e secrezione nasale). Quindi, se compare una semplice sintomatologia di rinite, rinosinusite o rinofaringite (cioè poco più di un banale raffreddore), anche se è accompagnata da una febbricola, e questi sintomi non vanno rapidamente peggiorando accompagnandosi a tosse secca insistente e difficoltà respiratoria, ma restano per alcuni giorni e poi si riducono gradualmente come accade per una semplice forma virale, non bisogna pensare di aver contratto il Coronavirus! Quest’ultimo, infatti, ha delle caratteristiche cliniche sue che, specie quando l’infezione è di entità importante-grave e secondo i dati forniti dal suddetto documento dell’OMS, permettono di differenziarlo abbastanza facilmente dalle comuni virosi stagionali (raffreddore, rinosinusite, rinofaringite, sindrome influenzale, ecc.). Affrontiamo ora il problema della mortalità da Coronavirus, per non correre il rischio di ammalarci e morire più delle conseguenze della paura che di quelle di questo nuovo virus.
Mortalità da sindrome influenzale stagionale. In Italia la mortalità da sindrome influenzale stagionale (quindi NON SOLO da virus influenzale vero e proprio) sembra sia di circa 7.000 persone all’anno. Secondo InfluNet (il sistema nazionale di sorveglianza epidemiologica e virologica dell’influenza, coordinato dal nostro Ministero della Salute con la collaborazione dell’Istituto Superiore di Sanità), ogni anno la sindrome influenzale colpisce circa 6-7 milioni di persone, cioè il 9% della popolazione. In Italia i virus influenzali causano direttamente all’incirca 300-400 morti ogni anno, con circa 200 morti per polmonite virale primaria, però a questi decessi, a seconda delle stime dei diversi studi, vanno aggiunti 4-8.000 morti “indirette” causate dalle complicanze polmonari (polmoniti batteriche) o cardiovascolari (scompenso cardiaco) dell’influenza. I numerosi virus che causano le sindromi influenzali stagionali possono infatti creare delle complicazioni soprattutto negli anziani o comunque in tutte le persone che prima di ammalarsi di influenza erano già affette da patologie croniche gravi o da immunodeficienze. Si stima quindi che il nostro tasso di mortalità dell’influenza stagionale (ossia il rapporto tra morti e contagiati) sia inferiore all’uno per mille, cioè 0,1%.
È più facile morire di sindrome influenzale stagionale o di Coronavirus CoVID-19? Se facciamo il confronto con il nuovo Coronavirus, ci si potrebbe allora chiedere: la nostra sindrome influenzale stagionale è più pericolosa dell’infezione da CoVID-19, considerando che solo in Italia i morti per la prima sono ogni anno più di quelli registrati finora in Cina a causa del nuovo virus? A livello generale la risposta, che però per ora si basa solo su dati provvisori, dovrebbe essere “SI”, perché è vero che la mortalità del CoVID-19 sembra essere intorno al 2,3% (secondo il China CDC dell’11 febbraio, ci sono stati 1.023 morti su 44.672 casi cinesi infettati confermati) (9). La mortalità cinese da Coronavirus sale al 3-4% se viene calcolata invece come rapporto tra deceduti e malati, ma in ogni caso è pur sempre maggiore di quella della sindrome influenzale. Però, dato che quest’ultima colpisce milioni di persone, alla fine fa più morti. Questo discorso però dovrebbe essere fatto quando questa epidemia sarà conclusa, perché ora è decisamente troppo presto per trarre conclusioni: sono cifre provvisorie dato che non conosciamo l’esatto numero dei contagiati da CoVID-19, che verosimilmente sarà un numero più alto (molte persone sono scarsamente sintomatiche e quindi non sono state registrate). La differenza sostanziale tra virus influenzali e Coronavirus è che: mentre i normali virus che causano la sindrome influenzale stagionale sono noti al nostro organismo e non possono infettare tutta la popolazione perché molte persone sono già immunizzate (perché vaccinate o perché già protette dagli anticorpi naturali formatisi da precedenti contatti), questo nuovo Coronavirus, invece, è sconosciuto al nostro sistema immunitario, pertanto trova le persone immunologicamente impreparate e quindi diffonde molto più velocemente (come pare stia facendo in questo ultimo periodo da noi e in altri Paesi del mondo) e può anche causare danni gravi, che pare avvengano in una percentuale maggiore, sebbene per ora all’interno di un minor numero di persone infettate. Inoltre, la mortalità da Coronavirus è condizionata dal tipo di assistenza che si può dare al malato che si trova in condizioni critiche. In conclusione, credo che dovremo attendere ancora 1-2 mesi per avere dati più precisi, ma è probabile che nel frattempo, per i motivi appena espressi, l’infezione da CoVID-19 si estenderà in tutto il mondo e durerà almeno altri 2 mesi.
L’infezione da Coronavirus CoVID-19 è veramente pericolosa? Se osserviamo i tassi di mortalità di altre epidemie, possiamo constatare che l’infezione da CoVID-19 non è pericolosissima, anche se sembra avere una grande capacità e rapidità di diffusione. In questo periodo, infatti, nel Sudest Asiatico imperversano i virus Nipah e Hendra che hanno tassi di mortalità del 30-60%, eppure non generano tutto questo allarme sociale. È vero però che “noi siamo ovviamente toccati da ciò che ci tocca direttamente” e, a parte l’influenza stagionale, tutti gli altri virus ci hanno allarmati ma non spaventati realmente … dato che non hanno toccato “casa nostra”.
Fattori che influenzano la mortalità da Coronavirus CoVID-19. Per i dati di cui disponiamo, possiamo anche dire che la mortalità da Coronavirus è fortemente influenzata dall’età della persona colpita, dalle sue condizioni di salute preesistenti e soprattutto dall’aiuto che il malato ottiene dal Sistema Sanitario Nazionale. Le condizioni Sanitarie del Paese colpito sono molto importanti, perché il 20% delle persone infette in Cina ha avuto bisogno di cure ospedaliere per settimane (2), però la maggior parte dei letti erano già occupati da persone che erano ricoverate per altre malattie. Quindi, come abbiamo già detto, i malati gravi da CoVID-19 muoiono in percentuale maggiore se non sono disponibili letti nei reparti di Terapia Intensiva. Pertanto, la cosa più importante è in primo luogo contenere la diffusione del virus per mantenere basso il numero di pazienti gravemente malati e in secondo luogo aumentare il numero di letti ospedalieri (compreso il materiale sanitario e il personale medico e infermieristico) fino a quando non ce ne sarà abbastanza per assistere tutti i malati gravi.
Chi muore a causa del nuovo Coronavirus? Sono essenzialmente anziani (circa l’84%) e immunodepressi … e tra questi la mortalità è ovviamente molto più elevata del 2,3% riportato dagli studi cinesi, ma lo stesso accade anche per la comune influenza. Infatti, secondo il documento dell’OMS (2), il tasso di mortalità per le persone infettate e che presentavano patologie preesistenti all’infezione da CoVID-19 variava in base al tipo di patologia presente. Quello che è interessante notare dall’analisi di questi dati è che la mortalità tra le persone che erano sane prima di ammalarsi di Coronavirus è solo dell’1,4% e in questo gruppo di decessi le persone sono prevalentemente ultra-ottantenni. Va anche sottolineato però che, secondo il documento della China CDC dell’11.2.2020 (9), la mortalità sale fino al 49% nei pazienti definiti gravemente critici (sono gli anziani che precedentemente all’infezione da CoVID-19 erano già affetti da gravi patologie preesistenti).
Anche l’età delle persone infette è importante. Pertanto, anche l’età delle persone infette è importante e a tale riguardo sono interessanti pure i dati forniti dallo studio dell’epidemia cinese che riguardano la mortalità in funzione dell’età dei malati. Si è infatti capito che più si è giovani, meno probabilità si ha di essere infettati e meno probabilità si ha di ammalarsi gravemente o di morire se ci si infetta. Per capire bene questa tabella, bisogna fare attenzione a non fraintendere i dati esposti. Infatti, se consideriamo ad esempio la classe di età tra i 20 e i 29 anni, vediamo che questa rappresenta il 13,5% di tutti i cinesi. Ebbene, la tabella non ci dice che l’8,1% delle persone tra i 20 e i 29 anni si è infettato, ma solo che l’8,1% delle persone infettate si trovava in questa fascia d’età e che lo 0,2% di coloro che hanno contratto l’infezione in questa fascia d’età è morto. Ciò significa che la probabilità che i giovani di questa età hanno di prendere l’infezione è molto più bassa rispetto la media.
Il rischio di ammalarsi è diverso tra uomini e donne? Per quanto riguarda la suddivisione di questa infezione tra i due sessi, va ricordato che dai dati cinesi risulta che le donne prendono la malattia con la stessa frequenza degli uomini, ma la mortalità tra le donne è del 2,8%, mentre tra gli uomini è del 4,7%.
Se l’infezione avviene durante la gravidanza, che rischio corrono la mamma e il suo bambino? La malattia non sembra essere più grave se presa durante la gravidanza, perché lo studio di 9 parti di donne infettate nell’ultimo trimestre di gravidanza (sono numeri piccoli, ma abbiamo solo questi) ha rivelato che i bambini sono nati con il parto cesareo e sani senza risultare infettati. Non è però noto cosa possa succedere ai feti nel caso l’infezione colpisca loro madre nel I o nel II trimestre di gravidanza, poiché questi bambini non sono ancora nati.
Persone maggiormente a rischio. Come ho scritto nel mio articolo precedente, i virus possono entrare e moltiplicarsi in tutte le persone che vengono a contatto con essi, però gli effetti possono essere molto diversi, perché dipendono da molti fattori interferenti (le caratteristiche del virus, la carica virale, le condizioni fisio-patologiche della persona, lo stile di vita della persona, ecc.). Per quanto riguarda il Coronavirus, i dati finora disponibili ci permettono di dire che questa infezione può essere pericolosa prevalentemente per gli anziani ultra-ottantenni e per coloro che sono affetti da gravi patologie croniche (infatti i morti appartengono quasi completamente solo a questo gruppo di persone).
Per tutte le altre informazioni su questa infezione, rinvio a quanto ho scritto in precedenza. In ogni caso, direi che la cosa più importante per evitare l’infezione, oltre alle norme consigliate dai nostri Governanti, è tenere ben funzionante il nostro sistema immunitario con un corretto stile di vita e seguire i consigli non farmacologici che ho indicato nel mio precedente articolo. Se tu cerchi una soluzione e ti impegni seriamente la troverai sempre a qualunque problema …ma sei disposto ad impegnarti seriamente? Come sempre, dipende da ognuno di noi.
IL VIRUS CI LASCIA SENZA FIATO. DAGONEWS il 12 marzo 2020. Medici e ricercatori di tutto il mondo impegnati nella lotta al coronavirus hanno nuovi elementi per comprendere gli effetti del Covid-19 sul nostro corpo. In particolare sono i medici stanno collaborando, condividendo le TC scan dei pazienti, per studiare come il coronavirus attacca i polmoni. Le radiografie mostrano macchie bianche nei polmoni che i radiologi chiamano opacità del vetro smerigliato: quegli spazi, generalmente riempiti da aria, sono occupati da muco che impedisce al paziente di respirare visto che non c’è spazio per l’ingresso di ossigeno. Le immagini pubblicate appartengono a una donna di 41 anni che aveva febbre e tosse, ed è risultata positiva al virus. Al momento, secondo un articolo pubblicato su “Radiology”, la rivista della Radiological Society of North America (RSNA), non è disponibile alcun trattamento della malattia e l’unica possibilità è al momento limitare i contagi. Attualmente ci sono stati più di 4.600 decessi il COVID-19 in tutto il mondo. L'epidemia di coronavirus continua a diffondersi, con 126.000 casi confermati a livello globale.
Polmonite da coronavirus Sars2-CoV-2019: quanto è pericolosa e come si cura. Polmonite da coronavirus: come riconoscere i sintomi e quali sono cure e trattamenti a seconda della gravità. Federico Mereta, giornalista scientifico, il 28 febbraio 2020 su Di Lei. I numeri parlano chiaro. Almeno otto persone su dieci superano senza particolari difficoltà l’infezione da coronavirus Sars2-CoV-2019 e l’attenzione si deve concentrare sul restante 20 per cento delle persone che l’hanno contratta. Per molti di loro, pur se la reazione al virus può interessare anche altri organi, è la polmonite. Ma perché viene? E come si affronta?
Una reazione eccessiva dell’organismo. Tecnicamente la forma di polmonite viene definita interstiziale e anche in questa circostanza la guarigione avviene in modo completo, dopo il necessario trattamento. L’infiammazione, legata non direttamente al virus ma piuttosto alla reazione del sistema immunitario, interessa l’area del polmone in cui avvengono gli scambi tra aria e gas. L’aria che entra infatti scende dalle alte vie respiratorie attraverso la trachea, un grande tubo che si trova nel torace. Poi, come una linea ferroviaria che giunge in prossimità della stazione principale, la trachea si suddivide nei bronchi, i “binari” del respiro. Questi diventano sempre più piccoli, fino ad arrivare alla “centrale operativa” del polmone, quella dove avvengono gli “scambi” che ci permettono di vivere. Si tratta di un piccolo “sacco” pieno d’aria, che si chiama alveolo. In questo sacchetto giungono non solo le più piccole diramazioni delle vie del respiro, ma anche i capillari del sangue. E proprio negli alveoli avviene il “miracolo”. Le pareti di queste strutture sono infatti tanto sottili da far passare i gas che arrivano dall’esterno e sono trasportati dal sangue. L’alveolo – nel corpo umano ce ne sono circa 300 milioni – svolge costantemente la sua funzione fondamentale. Prende il gas del sangue e lo manda verso l’esterno, per farlo eliminare con la respirazione. E si “impossessa” dell’aria ricca di ossigeno (mediamente circa il 20% dell’aria che respiriamo è fatto di ossigeno), che verrà poi distribuito ai globuli rossi e quindi andrà ad alimentare tutto l’organismo. La maggior parte dell’ossigeno infatti viene caricato sulle molecole di emoglobina, gli speciali “vagoncini” che, all’interno dei globuli rossi, hanno il compito di portarlo fin nelle zona più lontane del corpo. In caso di grave infiammazione polmonare, come avviene nella polmonite interstiziale, questo meccanismo ovviamente si altera. Con evidenti ripercussioni sulla salute generale dell’organismo, oltre che sull’apparato respiratorio. Ovviamente non tutti i casi sono ugualmente seri: la gravità del quadro dipende dall’interessamento più o meno ampio del tessuto polmonare. Quanto meno questo è coinvolto, tanto maggiore è la possibilità di superare più rapidamente, e senza grandi stress, il problema.
Sintomi e trattamenti. Rispetto alla classiche manifestazioni dell’infezione da coronavirus Sars2-CoV-2019, cioè febbre, tosse e leggeri disturbi respiratori, quando il quadro porta alla polmonite si accentuano le difficoltà di respiro e possono comparire dolori al torace. Ovviamente il trattamento varia di caso in caso e non è ovviamente mirato solo al virus, che può indurre danni diretti soprattutto all’inizio quanto piuttosto alle conseguenze che la risposta difensiva comporta. Infatti la polmonite può essere legata ad una risposta abnorme delle difese dell’organismo che non si limita solamente alle zone in cui si replica al virus ma si diffonde. E con la sua potenza può danneggiare anche il tessuto polmonare sano.
Sul fronte delle cure, come spesso accade in malattie di questo tipo, il tempo rappresenta l’elemento chiave per giungere alla guarigione. Non bisogna avere fretta quando c’è una polmonite. Poi, in base alla serietà del singolo quadro e al coinvolgimento più o meno massiccio dei polmoni, si possono avere supporti diversi: si va dalla semplice somministrazione dell’ossigeno-terapia fino all’intubazione, che permette in pratica di vicariare con una macchina, all’interno di una terapia intensiva, la normale funzione polmonare. Nei casi più gravi infine si può arrivare all’impiego dell’ECMO: questa è una tecnica di circolazione extracorporea, da impiegare solamente in situazioni davvero complesse. La sigla ECMO sta per Extracorporeal Membrane Oxygenation. Con questa apparecchiatura la funzione dei polmoni viene sostituita da un dispositivo che, drenando parte del sangue circolante del paziente dall’atrio destro, lo ossigena, rimuove l’anidride carbonica e lo reinfonde direttamente nelle arterie.
Morire di polmonite, succede a 800mila bambini nel mondo. Vanity Fair il 14/11/2019. La mortalità infantile nel mondo è in costante diminuzione, ma i numeri restano comunque alti e impressionanti. Nel 2018 sono stati oltre 800mila i bimbi con meno di 5 anni morti nel mondo solo per polmonite, una morte ogni 38 secondi. La maggior parte di loro aveva meno di due anni. «Ogni giorno, circa 2.200 bambini sotto i 5 anni muoiono a causa di polmonite, una malattia curabile e quasi sempre prevenibile», ha spiegato Henrietta Fore, direttore generale dell’Unicef. I dati dicono che questa causa di morte viene prima di diarrea, 437.000 bambini, e malaria, 272.000 vittime. Oltre la metà delle morti di bambini a causa di polmonite è avvenuta in soli 5 paesi: Nigeria, India, Pakistan, Repubblica Democratica del Congo ed Etiopia. La mancata vaccinazione è una delle cause dell’alto numero di morti. Nel 2018 71 milioni di bambini non hanno ricevuto le tre dosi raccomandate di Pcv (vaccino pneumococcico coniugato). La maggiore diffusione del vaccino ridurrebbe i casi. A livello globale poi, il 32% dei bambini con sospetta polmonite non viene portato nelle strutture sanitarie. Appena il 3% delle spese per le ricerche per le malattie infettive è destinata alla polmonite, che però causa il 15% delle morti nei bambini sotto i 5 anni. Nel 2013, Organizzazione mondiale della Sanità e Unicef hanno pubblicato il primo Piano d’azione globale integrato per la prevenzione e il controllo della polmonite e della diarrea. Il dato è ancora alto, ma è all’interno di un trend positivo. Negli ultimi vent’anni il tasso di mortalità infantile si è ridotto secondo un’analisi pubblicata da Nature: la mortalità sotto i cinque anni è scesa da 9,7 milioni di decessi nel 2000 a 5,4 milioni nel 2017. Questi dati hanno però una netta distinzione territoriale. Nei 99 paesi a basso e medio reddito ci sono stati il 93% dei decessi di bambini sotto i 5 anni del 2017. Ogni giorno nel mondo muoiono 15 mila bambini sotto i cinque anni. Secondo i ricercatori, più della metà dei decessi considerati nell’indagine sarebbero stati prevenibili con una maggiore igiene e vaccinazioni. A questo si aggiungono anche motivazioni sociali e religiose come la scarsa considerazione per le donne e le discriminazioni nei confronti di gruppi etnici, oltre alle violazioni dei diritti umani e le guerre.
· …e senza Autopsia.
Coronavirus, il gruppo ribelle dei medici legali: «Fateci fare le autopsie». Pubblicato sabato, 23 maggio 2020 su Corriere.it da Giusi Fasano.
Professor Pomara è vero che lei a alcuni suoi colleghi vi state organizzando contro la circolare che di fatto non vuole le autopsie per i morti di Covid-19?
«Ci stiamo organizzando contro il lockdown della scienza. Siamo una trentina. Medici legali e anatomopatologi biochimici, anestesisti e clinici medici di Foggia, Trieste, della Sapienza di Roma, Catania, Messina e Torino. Abbiamo deciso di fare da soli, visto che lo Stato non vuole utilizzare le nostre conoscenze».
E che cosa state facendo?
«Stiamo collezionando le autopsie fatte nei nostri rispettivi istituti, che sono poche e quasi tutte ordinate dall’autorità giudiziaria. Mettiamo assieme gruppi di ricerca, informazioni preziose, stiamo attentissimi a quello che pubblicano gli altri scienziati nel mondo e studiamo i tessuti sotto varie forme: le loro alterazioni, la biochimica, la patologia molecolare...»
Cristoforo Pomara è il più giovane ordinario di Medicina legale d’Italia, dirige l’Isituto di Medicina legale di Catania ed è l’autore di un trattato di tecniche autoptiche forensi studiato in tutto il mondo.
Chi finanzia le vostre ricerche?
«Finora è stato autofinanziamento, adesso ha deciso di darci una mano una fondazione catanese. Fra noi ci stiamo dividendo i compiti a seconda del tipo di laboratorio di cui disponiamo e dei contributi che possiamo dare. Lo scopo è cercare di capire il più possibile su questo virus, più studi i tessuti più puoi intervenire meglio e velocemente».
Perché in Italia le autopsie non si fanno?
«Perché c’è questa circolare del ministero della salute che dice espressamente “non si dovrebbero fare” e in sostanza questo vuol dire che chi ordina di farle, cioè direzioni sanitarie e magistrati, si assume la responsabilità in caso di contagio fra i medici. Quindi le dispongono in pochissimi. So che ne hanno fatte alcune a Bergamo, a Milano. Vorrei ricordare che il nostro sistema prevede l’obbligatorietà dell’autopsia a fini diagnostici quando non si conosce esattamente la causa della morte».
Per i pazienti infetti morti nelle rianimazioni si è parlato quasi sempre di polmonite.
«Ma non si muore così in tanti di polmonite nelle rianimazioni! Tanto che quando a Bergamo hanno fatto le prime autopsie hanno realizzato che più pazienti erano deceduti a causa di trombosi e che la polmonite era una conseguenza della formazione dei trombi. Il passaggio successivo è stato ipotizzare il coinvolgimento dei vasi sanguigni. Insomma: un passo alla volta si può fare molta strada nelle conoscenze cliniche e quindi nella terapia».
E invece la prima circolare che scoraggiava le autopsie è stata ripubblicata anche a maggio.
«Sembra incredibile ma è così. Io dallo Stato mi aspetterei che si chiedesse: di cosa sono morte tutte quelle persone? Mi aspetterei che dicesse: studiamoci bene tutto, preveniamo eventuali ricadute. I morti parlano, come si dice. È successo per Ebola, per l’Aids: le autopsie hanno fatto la differenza, sono fondamentali per cercare le risposte giuste».
Però il ministro diceva nella circolare che si potevano fare in sicurezza con le sale di biocontenimento.
«Benissimo, e allora facciamole queste camere di biocontenimento. Stiamo spendendo una montagna di soldi per fronteggiare il virus. Ognuna di quelle sale costerà al massimo 50 mila euro, non è una spesa impossibile. Ne basta una per ogni capoluogo di provincia».
Secondo lei saremmo ancora in tempo?
«Certo. Siamo in tempo a fare tutto. Facciamo come hanno fatto i tedeschi che sono diventati i top mondiale nelle pubblicazioni scientifiche sui risultati degli esami autoptici. Ad Amburgo, che è capofila di questi studi, le autopsie sono obbligatorie. Vogliamo dire che forse è anche per questo impegno che la Germania conta meno vittime dell’Italia?»
Quindi se lei potesse sciogliere il nodo qui e adesso che cosa farebbe?
«Io come ricercatore — e con me il nostro gruppo dei 30 medici legali che le dicevo prima — chiedo a mani giunte di rivedere questa circolare e mettere i ricercatori nelle condizioni di poter studiare la fisiopatologia della morte, cioè la catena della morte. Se potessi fare un appello mi spingerei anche un po’ oltre». In che senso? «Chiederei una deroga al divieto di mostrare i congiunti ai parenti. Perché non poterli vedere e salutare un’ultima volta? È straziante quello a cui abbiamo assistito: lunghi ricoveri in solitudine e poi niente funerali, nessun addio. Noi medici legali possiamo sterilizzare il cadavere e renderlo alla famiglia per un ultimo saluto, senza contatti. Nessuno lo sa ma perfino l’Oms ha scritto che tutto questo è possibile».
· Coronavirus. Fact-checking (verifica dei fatti). Rapporto decessi-guariti. Se la matematica è un'opinione.
Filippo Facci per ''Libero Quotidiano'' il 23 marzo 2020. Esponiamo i dati di venerdì – resi noti sabato - ma vi proponiamo anche un altro modo di leggerli, perché le cose sono cambiate (molto) e bisogna imparare a prendere i numeri con le pinze, dicendo chiaramente che alcuni dati sono sicuramente fallaci, mentre altri, che magari prima quasi non guardavate, sono gli unici certi, sono gli unici che contano, sono gli unici che possono spiegare come siamo messi e quindi indicare che cosa fare e come reagire a ogni livello. Prima la liturgia: secondo il metodo-arlecchino della Protezione civile, dall’inizio dell’epidemia 53.578 persone hanno contratto il virus (6.557 in più rispetto al giorno prima, crescita del 13.9 per cento) e ne sono morte in tutto 4.825 (793 più del giorno prima, 19.7 per cento) mentre 6.072 sono guarite (943 più del giorno prima, più 18.4 per cento). Le persone contagiate sarebbero (sarebbero, ripetiamo) 42.681 escludendo i morti e i guariti, che se sommiamo agli attuali contagiati danno appunto 53.578, il dato di oggi. La protezione civile dice pure che i pazienti ricoverati con sintomi sono 17.708, e che 2.857 sono in terapia intensiva, mentre altri 22.116 sarebbero in isolamento domiciliare fiduciario. I dati per regione li trovate nella tabella, mentre di seguito ci soffermiamo sulla Lombardia perché è l'epicentro decisivo e indicativo, e perché la utilizzeremo come modello per proporre una diversa lettura. In Lombardia vengono indicati 25.515 contagiati (3251 in più) con un 3.095 morti totali, con un incremento soltanto di 546 morti che è un dato notevole. Questi, in particolare, sono dati veri ma sicuramente anche parziali, e parecchio. I dati certi e più affidabili dicono che in Lombardia ci sono 8258 ospedalizzati (523 in più) e che quelli in terapia intensiva da coronavirus occupano 1093 letti su 1250 occupati da chi ha altre patologie (ci sono anche loro). Domanda fondamentale: sono ancora disponibili posti in Terapia intensiva? Risposta: sì, ci sono, ma sono pochi – in attesa di miracoli a cui stanno lavorando – anche se qui c'è l'altro dato importante che dobbiamo guardare: i dimessi, intesi come guariti, che sono in netta crescita e rispetto al giorno prima sono stati 2139: tanti, e sono quelli che fanno ben sparare ma soprattutto che garantiscono un ricambio ospedaliero che faccia reggere il sistema. Nota: la gente rimane in terapia intensiva mediamente tra i 15 e i 20 giorni. I famosi esperti, da tempo, dicono che una diminuzione dei contagi potrebbe iniziare da lunedì, ma non c'è da badarci più di tanto. Altra nota: il famoso «paziente 1» sta molto meglio, e probabilmente sarà dimesso lunedì. Questi sono i famosi dati delle 18, orario fatale per una parte degli italiani e scelto però da un'altra parte di connazionali per le sceneggiate dai balconi: tuttavia nel giro di una settimana le sceneggiate si sono ammosciate e la lettura dei dati è divenuta disorientante, e va reinterpretata con occhiali diversi. In genere si guardano le persone contagiate, morte, ricoverate e guarite; già sapevamo che il criterio-arlecchino per calcolare i contagiati cambiava da regione a regione e ancor più da nazione a nazione, al pari del dato sui morti, che in certe realtà – Germania, Russia – faceva letteralmente ridere. Ora è più chiaro che il numero ufficiale dei contagiati, fornito dalla Protezione civile, è poco rilevante o poco indicativo, al pari dei morti (mettendo da parte ogni giustificata reazione emotiva) perché i contagiati sono sicuramente molti di più: da dieci a quindici volte di più, stima spannometrica ma avvalorata dal fatto che molta gente ha cominciato a morire fuori dagli ospedali, a casa, in attesa di ricovero o fuori dal pronto soccorso; questo è assodato, ma non pesa sui conteggi nazionali o regionali anche per ragioni burocratiche. Quindi i dati della Protezione civile, quelli che abbiamo dato oggi e diamo ogni giorno, sono solo basati sulla situazione degli ospedali: ma non ci dicono il vero numero dei morti, né dei contagiati, né dei malati gravi. Stesso discorso riguarda i tamponi, che si fanno o non si fanno con criteri diversi da regione a regione, e in Lombardia, per esempio, ormai si fanno a gente solo con sintomi molto gravi: nella bergamasca c'è gente che è morta prima di arrivare a fare il tampone, ma anche loro nei conteggi ufficiali non risultano. E' giusto saperlo. Poi ci sono altre dati che non ci vengono forniti, e che sarebbero fondamentali. Qual è il numero di dimessi dalla Terapia intensiva che sono dimessi da vivi e quanti da morti? Poi dati più tecnici, ma che aiuterebbero molto a capire: quanto dura la durata della polmonite interstiziale nella sua fase acuta? La Sars durava tantissimo, il Coronavirus non si sa, né si sa se cambi in base all’età. Riguardo alla degenza media, ancora, l’epidemia vera è scoppiata da tre settimane: i dati sulla degenza media in terapia intensiva (15-20 giorni) quanto sono affidabili? Che i contagiati siano parecchi di più, per ora, ha una sola conseguenza positiva: significa che il tasso di mortalità è ancora più basso di quanto si pensava, mettendo definitivamente al sicuro bambini e giovani che non abbiano patologie sulle quali il coronavirus possa accanirsi. Ma un'altra grossa differenza potrebbe essere determinata dall'assenza di farmaci autorizzati in Italia: in tutto il mondo stanno autorizzando farmaci, da noi tutto tace. Questo virus può fare molto male anche ai sani, ed è capitato, ma difficilmente li uccide. Quanto ai vecchi, la stessa definizione di «anziano in salute» è di per sé discutibile: chi è avanti con gli anni può essere costituzionalmente una roccia, ma il tempo indebolisce comunque il sistema immunitario e l'efficienza di tutti gli apparati, questo è pacifico, il che non toglie che possano esserci 60enni messi meglio di 40enni perché la natura, più ancora degli stili di vita, ha voluto così. Una conseguenza di questo sfalsamento dei dati è insomma che dovremmo guardare con maggiore attenzione agli unici dati che sono certi: per esempio il numero di coloro che ogni giorno vengono ricoverati (ospedalizzati, soprattutto in terapia intensiva) rispetto al numero di chi viene dimesso dai rispettivi reparti: dal saldo uscirà la disponibilità di posti letto disponibili, che a sua volta determina la tenuta del nostro sistema sanitario. Perché se hai 90 anni e ti ricoverano all'istante, ma hai due o tre patologie pregresse, non ti salverà neppure la terapia intensiva del prossimo secolo. Così pure, se hai 40 anni e non hai nessuna patologia pregressa, e però non ti ricoverano neppure, potrebbero essere cazzi. La virtualità e approssimazione dei dati principali (contagiati e morti) non fa parte di un complotto nazionale, ma della mancanza di un coordinamento dei metodi di rilevamento tra regioni italiane e tra nazioni europee e mondiali: non hanno fatto in tempo a realizzarlo, o non l'hanno realizzato per ragioni politiche, forse ciascuno vuol gestire i dati a suo piacimento. Anche se cinicamente badassimo solo ai posti letto, i dati sfalsati sarebbero comunque un problema, perché costituiscono fragile database utilizzato dai vari tecnici ed esperti per fare previsioni e studi scientifici che sinora, non a caso, di buchi nell'acqua ne hanno fatti tanti. Sicché, quando arriverà il picco dei contagi, non lo sa con certezza nessuno, al pari di un sacco di cose che continuiamo a non sapere: per esempio quanto duri davvero l'incubazione, se la quarantena di 14 giorni sia sufficiente, quanto sia il caso di insistere con un paese agli arresti domiciliari.
Giuseppe Salvaggiulo per “la Stampa” il 16 marzo 2020. «Attenti ai numeri: se male interpretati, rischiano di farci commettere altri errori», ammonisce Nino Cartabellotta, medico e presidente della fondazione Gimbe, la principale data room sul coronavirus, interpellata anche dall' estero.
«Il cittadino si fa l' idea che il 7% dei contagiati muore, e un altro 7% va in terapia intensiva. Ma è una distorsione ottica».
In che senso?
«Il numero dei contagiati è di gran lunga superiore. Noi vediamo la punta dell' iceberg».
Come mai?
«In questa fase dell' epidemia si è deciso giustamente di non eseguire più i tamponi a tappeto, limitandoli a specifiche categorie».
Quanto è grande tutto l' iceberg?
«Sotto il pelo dell' acqua vedremmo tutti i positivi asintomatici o con sintomi simil influenzali lievi, che secondo la letteratura internazionale riferita alla Cina sono l' 81% dei contagiati. Ipotizzando che la gravità dell' epidemia in Italia sia uguale, vuol dire che abbiamo almeno 40 mila contagiati non censiti».
Con quali conseguenze?
«Il lato positivo è che il tasso di letalità, ovvero il rapporto morti/contagiati, è molto più basso Quello negativo è che questi 40 mila non sanno di essere contagiati e possono comportarsi senza le cautele necessarie».
Cioè sono untori a loro insaputa?
«Essi non rischiano nulla, ma possono inconsapevolmente provocare danni gravi alla salute di altre persone, soprattutto quelle più fragili con sovraccarico degli ospedali. Bisognava spiegarlo bene e subito: state a casa».
Perché non è stato fatto?
«Per tranquillizzare la popolazione».
Come sta evolvendo la situazione?
«La curva dei contagi cresce con una media giornaliera intorno al 20%. Quindi il numero assoluto dei casi raddoppia ogni 4-5 giorni. Quando la curva comincerà a flettere per diversi giorni potremo dire che le misure stanno funzionando».
Che significato ha il record di morti su base giornaliera?
«L' incremento è concentrato in Lombardia. Temo sia il sintomo di un sistema sanitario che comincia a essere stressato. Ma si comincia a morire di più anche nel resto del Paese».
Qual è l' evoluzione dal punto di vista geografico?
«Noi analizziamo i dati su tre macrocontenitori. Quello dei primi focolai: Lombardia, Emilia Romagna e Veneto; quello delle regioni limitrofe: Piemonte, Marche e Liguria, a cui ora si è aggiunta la Toscana; il centro-sud. E constatiamo che hanno curve analoghe, ma temporalmente distanziate. Negli ultimi giorni la crescita di nuovi casi è rallentata in Lombardia al 13% e si sta impennando nel Centro-Sud al 30%».
Che cosa vuol dire, per i prossimi giorni?
«Se le persone non seguono le misure del governo, al Sud sarà un disastro».
Il blocco totale del Paese è arrivato tardi?
«Il 2 marzo avevo detto pubblicamente di applicarlo subito. I numeri lo suggerivano».
Perché non lo si è fatto?
«C' è stato un eccesso di prudenza per le conseguenze economiche e un eccesso di imprudenza per quelle sanitarie.
Si è preferito assecondare l' espansione del virus creando dei confini geografici con misure differenziate e graduali».
Non ha funzionato il contenimento in Lombardia?
«Bisognava imparare dalla Cina, cinturando subito tutta la Lombardia con Piacenza, che è una derivazione dello stesso focolaio. Invece, limitando la zona rossa ai dieci Comuni lodigiani, s' è dato al virus la possibilità di propagarsi. Le conseguenze le vediamo a Bergamo e Brescia».
Qual è la lezione?
«Il virus è molto più veloce delle decisioni politiche. Se ne frega del consenso sociale e delle preoccupazioni per l' economia. Lo diciamo anche a chi ci chiede informazioni dall' estero».
Come mai c' è ancora confusione su mascherine, posti letto, ventilatori polmonari?
«A fine gennaio non è stato preparato un piano pandemico, per farsi trovare preparati.
Ora è tardi, in alcune aree del paese valgono le regole della medicina delle catastrofi».
Bollettino del Ministero della Salute riferito al 28 marzo 2020. Infettati 92472: Positivi 70065 (in attesa di evoluzione della malattia); Deceduti 10023; Guariti 12384.
Ad occhio sembra che il Rapporto decessi-guariti è quasi alla pari. Ergo: una metà degli infettati muore, l'altra guarisce.
Coronavirus, Di Maio: "Rapporto decessi-guariti ora è alla pari". Il ministro degli Esteri ha parlato al termine di una teleconferenza con l'ambasciatore italiano a Pechino. Lapresse.it 31 gennaio 2020. "Sono circa 10mila i contaminati dal Coronavirus, 213 sono i decessi, con un’età media sopra i 75 anni, 210 sono i guariti. Quello che può far ben pensare è che 72 ore fa il rapporto tra decessi e guariti era di 2 a 1, mentre ora è alla pari". Così il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, alla Farnesina, al termine della teleconferenza con l'ambasciatore italiano a Pechino, Luigi Ferrari, per aggiornamenti sul Coronavirus.
Coronavirus, lo studio che mette in dubbio i tassi di mortalità ufficiali. Lorenzo Misuraca su ilsalvagente.it il 24 Febbraio 2020. Man mano che passano i giorni la scienza puntella le certezze attorno al coronavirus. Pur se in divenire, c’è anche una stima dell’effettiva pericolosità del covid-19. In particolare, la percentuale di mortalità è attestata attorno al 3%. Ma una pubblicazione sull’American journal of epidemiology mette in dubbio la correttezza di questo tipo di calcolo per un’epidemia non conclusa e avanza altre metodologie che danno risultati ben più preoccupanti.
Il metodo di misurazione più comune. Il tipo di stima del rischio più diffusa si basa sul rapporto tra numero di deceduti e contagiati per coronavirus. Secondo questo calcolo, stando alle ultime cifre ufficiali, i 2618 morti accertati rappresentano il 3,3% dei 79360 complessivamente contagiati. Ma secondo l’articolo “Metodi per stimare il rapporto di mortalità per un nuova, emergente malattia emergente” (Ghani et al), pubblicato sull’American journal of epidemiology, questo metodo è accurato solo a epidemia finita, con tutti i casi chiusi, mentre può essere “fuorviante se, al momento dell’analisi, il risultato è sconosciuto per una percentuale non trascurabile di pazienti”. Insomma mettere in rapporto i morti relativi a casi aperti magari due settimane prima con i contagiati da un giorno, per i quali non si ha certezza sul tipo di decorso, sarebbe scorretto.
Il primo metodo alternativo basato sulla finestra di tempo tra contagi e morti. Per tanto gli autori di questo articolo suggeriscono una formula che tenga conto del lasso di tempo necessario per capire se un contagio ha portato alla guarigione o al decesso. La formula in questione sarebbe: tasso di mortalità = decessi nel determinato giorno / numero di contagiati tot giorni prima. I ricercatori guidati da Ghani scelgono ad esempio 7 giorni come periodo di tempo per distanziare i due elementi del rapporto da calcolare. Facciamo una prova aggiornata ai dati più recenti. tasso di mortalità = decessi al 24 febbraio (2618) / numero di contagiati al 17 febbraio (71000). Considerando questo rapporto, il tasso di mortalità sarebbe il 3,7%, abbastanza più alto della stima più comune. Percentuale che arriva a 6,5 inserendo un intervallo di 14 giorni invece che 7 tra data del contagio e data dei decessi.
Il secondo metodo alternativo basato solo sui casi chiusi. C’è poi un’altra metodologia citata nello stesso articolo, che considera dati certi solo i casi chiusi, sia che siano finiti con una guarigione (dimissioni dall’ospedale) sia che siano finiti con il decesso del paziente. In questo caso la formula da considerare è: tasso di mortalità = decessi / (decessi + guariti). Proviamo a calcolarlo a partire dai dati più aggiornati, utilizzando i 2618 decessi e i 25148 guariti nel mondo. In questo caso il tasso di mortalità si alza addirittura al 9,4%, molto distante dal 3,3% comunemente considerato come numero di riferimento. Difficile stabilire l’affidabilità di un modello rispetto a un altro, e tutti e tre hanno una base di razionalità, ma dei limiti. Per esempio il primo metodo non tiene conto del fatto che il rapporto tra casi ospedalizzati e morti nelle prime fasi è più alto a causa del fattore sorpresa che porta al ricovero solo i casi più gravi, mentre il secondo nel calcolo dei guariti non tiene conto chi non è mai stato ricoverato ed ha sconfitto il virus a casa. Per questi motivi abbiamo chiesto un parere informato all’Istituto superiore di sanità, sperando in una risposta pronta che disperda i dubbi in tal senso.
Coronavirus, i numeri del contagio. Gianluca De Feoyoutrend.it il 13 Marzo 2020. Datawrapper ha creato una serie di grafici e mappe per spiegare la diffusione del coronavirus senza creare panico tra la popolazione. L’11 marzo l’OMS ha dichiarato che il contagio globale da coronavirus è diventato ufficialmente una pandemia. Ciò significa che la diffusione del virus è ormai così ampia da toccare un grandissimo numero di persone in diverse aree geografiche del mondo. Chartable – il blog di datawrapper – ha creato una serie di grafici e mappe (con i dati della dashboard creata dalla Johns Hopkins University e altre istituzioni) per seguire l’evoluzione dell’epidemia in tutto il mondo. Le infografiche sono definite “responsabili” dagli stessi analisti che le hanno prodotte, poiché, come spiegato nell’articolo, vogliono servire ai giornalisti per spiegare il coronavirus senza creare panico tra la popolazione.
Coronavirus: i numeri del contagio. Ad esempio, nella tabella sopra sono riportati i dati assoluti, le morti e le guarigioni, ma anche le percentuali su scala globale. Si nota così che solo lo 0,0007% della popolazione mondiale (uno su 142.000) è ufficialmente affetto da COVID-19, e che i morti sono solo il 3,69% di chi si è sottoposto al tampone. Quest’ultimo dato, peraltro, è sicuramente sovrastimato: non tutti i contagiati, infatti, vengono testati (molti sono asintomatici o mostrano sintomi lievi), per cui il loro numero reale è molto più alto; al contrario, la quasi totalità dei decessi è riportata.
Coronavirus: la pandemia stato per stato. Volgendo lo sguardo ai singoli stati, la provincia cinese dell’Hubei (che conta circa 57 milioni di abitanti) è – al momento della scrittura di questo articolo – l’area più contagiata del mondo con circa 250 infetti per milione di abitanti. L’Italia è al secondo posto con 10.590 casi al 12 marzo, meno di 180 per milione. Seguono Corea del Sud e Iran, dove sono scoppiati gli altri due focolai più critici al di fuori della Cina. Gli altri paesi che occupano i primi dieci posti sono tutti europei con l’aggiunta degli Stati Uniti, dove l’epidemia è ancora limitata a meno di 10 contagiati per milione di abitanti.
Coronavirus COVID-19: i casi confermati a livello globale. Osservando invece l’evoluzione su scala globale si notano due importanti elementi. In primis, con il passare dei giorni il divario tra decessi e guarigioni è in continuo aumento, dal momento che stanno guarendo sempre più persone di quelle che muoiono. L’altro elemento riguarda il numero di contagi totali nel tempo, che dipende a sua volta da due fattori: il metodo di conteggio e le misure di contrasto. Il 13 febbraio il governo cinese ha deciso di modificare il metodo di comunicazione del numero di contagiati, includendovi anche i casi diagnosticati solo clinicamente (cioè individui a cui non è stato possibile fare il tampone oppure sono risultati negativi, ma che presentano evidenti sintomi da COVID-19). Di conseguenza, come si nota nel grafico, il dato relativo ai contagi è aumentato in un solo giorno di quasi 15mila casi. Dal 18 febbraio in poi, invece, i contagi sono iniziati a diminuire su scala globale , probabilmente a causa delle stringenti misure messe in atto dal governo cinese nel mese di gennaio. C’è stato però un nuovo aumento dopo il 5 marzo, durante i giorni in cui l’epidemia ha iniziato a far registrare grandi numeri al di fuori della Cina, in particolar modo in Italia. Verosimilmente, almeno per il caso italiano, ci vorranno dunque un paio di settimane per vedere gli effetti delle misure restrittive messe in atto nei giorni scorsi.
La mappa “responsabile”. Osservando la mappa del globo terrestre che riporta i dati relativi ai casi confermati sovrapposti alle guarigioni, si nota come nell’Hubei il rapporto sia piuttosto positivo: all’11 marzo, su circa 67mila contagiati i guariti erano più di 50mila. Quasi ovunque nel resto del mondo il dato sembra meno confortante, ma solo perché l’epidemia si è diffusa ampiamente solo di recente e il decorso della malattia ha una durata di circa due settimane. L’Hubei, che combatte il virus già da gennaio, può offrirci dunque un quadro – piuttosto confortante – di quella che sarà la situazione tra qualche settimana.
Come vanno letti i dati sul coronavirus in Italia. Il tasso di letalità in Italia è davvero più alto di quello cinese? E cosa è cambiato quando non sono più stati testati gli asintomatici? Agi 12 marzo 2020. Ormai, nel tardo pomeriggio di ogni giorno, siamo abituati a vedere il capo della Protezione civile, e commissario straordinario per l’emergenza Covid-19, Angelo Borrelli, rilasciare in conferenza stampa una serie di numeri relativi alla diffusione del nuovo coronavirus (Sars-CoV-2) nel nostro Paese. I dati su casi positivi, guariti e deceduti sono consultabili online in una mappa interattiva della Protezione civile, che fornisce anche le statistiche regionali sul numero dei test effettuati e sul numero dei ricoverati con sintomi, di chi è in terapia intensiva o in isolamento domiciliare. Ma come vanno letti questi numeri? Cerchiamo di fare un po’ di chiarezza, con una breve guida di lettura alle principali voci dei bollettini della Protezione civile.
Come leggere il numero dei morti. Partiamo dal dato relativo ai deceduti. Alle ore 17 del 10 marzo 2020, i morti in Italia tra i casi positivi al nuovo coronavirus erano in totale 631 (+168 rispetto al giorno prima), di cui oltre il 74 per cento (468) in Lombardia.
Morti “per” o morti “con”? Come ha spiegato la Protezione civile in un comunicato stampa, il numero dei decessi «potrà essere confermato solo dopo che l’Istituto Superiore di Sanità avrà stabilito la causa effettiva del decesso». «Ci tengo a precisare che non si tratta di decessi “da” coronavirus», ha poi detto Borrelli il 10 marzo in conferenza stampa. «Sono persone che sono decedute e tra le diverse patologie avevano anche il coronavirus». In parole semplici, non è ancora possibile sapere se le morti presenti nei bollettini della Protezione civile siano morti direttamente causate dal coronavirus, oppure “indirette”, in cui il coronavirus ha contribuito a creare ulteriori complicazioni in un quadro clinico già compromesso. È ancora presto per avere evidenze epidemiologiche in questo ambito, ma il 5 marzo scorso l’Istituto superiore di sanità (Iss) ha pubblicato una prima analisi su un campione di 105 deceduti con coronavirus, tra i quali il numero medio di patologie osservate era di 3,4 (soprattutto ipertensione, cardiopatia ischemica e diabete mellito). Alcuni virologi, come ad esempio il professore dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano Roberto Burioni, sono critici con questo modo di comunicare i dati. Secondo Burioni, «l’espressione “è morto con il coronavirus non per il coronavirus”» rischia di essere «una criminale minimizzazione». Un discorso, secondo Burioni, è parlare di morti con coronavirus «con un tumore metastatico o con una cardiopatia scompensata», un altro è parlare di «quelli con una lieve ipertensione e un diabete di tipo 2 e un sovrappeso». Al momento, dati dettagliati di questo tipo non sono però disponibili e bisogna dunque attendere le future analisi dell’Iss. La questione non è comunque secondaria, come ha sottolineato il 10 marzo 2020 in un’intervista a Scienza in rete Walter Ricciardi, membro del comitato esecutivo dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) e consigliere del ministro della Salute per il coordinamento con le istituzioni sanitarie internazionali. Secondo Ricciardi, l’Italia sta registrando i morti con coronavirus «senza quella maniacale attenzione alla definizione dei casi di morte che hanno per esempio i francesi e i tedeschi, i quali prima di attribuire una morte al coronavirus eseguono una serie di accertamenti e di valutazioni che addirittura in certi casi ha portato a depennare dei morti dall’elenco. Di fatto capita che accertino che alcune persone siano morte per altre cause pur essendo infette da coronavirus». Questa pratica, sempre secondo l’ex presidente dell’Iss, spiegherebbe un’altra questione: il fatto che, ad oggi, il tasso di letalità del Sars-CoV-2 in Italia sembra essere più elevata che altrove. Secondo il Robert Koch Institute tedesco – l’agenzia federale che si occupa di prevenire e contrastare la diffusione delle epidemie, contattata dai nostri colleghi tedeschi di Correctiv – la differenza dei numeri dipenderebbe dal fatto che l’epidemia in Italia è in fase avanzata, mentre in Germania in fase iniziale. Le regole su come si registrano i morti non sarebbero quindi particolarmente rilevanti e lo dimostrerebbe il fatto che i primi due decessi attribuiti al coronavirus in Germania erano due anziani affetti da diverse e gravi patologie. Senza la pretesa di voler qui risolvere la questione, segnaliamo quindi che il tema è molto complesso e le posizioni anche del massimo livello di competenza e autorevolezza non appaiono sempre conciliabili.
Perché abbiamo un alto tasso di letalità? Il tasso di letalità, in breve, è un indicatore epidemiologico che mette in rapporto il numero dei decessi con quello dei contagiati. In base ai dati aggiornati alle ore 18 del 10 marzo 2020, la letalità nel nostro Paese del nuovo coronavirus si aggirerebbe intorno al 6,2 per cento (631 decessi su 10.149 positivi totali). Due recenti studi, fatti dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) e dal Centro cinese di controllo e prevenzione delle malattie (Ccdc) su due campioni da decine di migliaia di casi, mostrano però che in Cina il tasso di letalità da Covid-19 è più basso di quello attuale in Italia. Ma qui entra in gioco il fattore demografico, legato all’età della popolazione italiana. «In Italia al 4 marzo la letalità (calcolata come numero di decessi sui casi confermati) tra gli over 80 risulta del 10,9 per cento, mentre in Cina al 24 febbraio (ultimo dato disponibile, estratto dal report della commissione congiunta Cina-Oms) era del 14,8 per cento», ha chiarito il 6 marzo l’Iss in un comunicato stampa. «Tra 70 e 79 anni il confronto vede l’Italia con una letalità del 5,3 per cento, mentre la Cina ha l’8 per cento, e tra 0 e 69 è 0,5 per cento nel nostro Paese contro l’1,3 per cento cinese». È vero che il tasso di letalità è al momento più basso in Cina rispetto all’Italia, ma una delle possibili spiegazioni è il “peso” del numero nel nostro Paese dei pazienti più anziani. «Non dimentichiamo che l’Italia ha un’età media molto più alta rispetto ad esempio alla Cina (44,3 anni contro 37,4) e questo mette ancora più pressione sulle strutture e gli operatori nelle zone colpite dall’epidemia», ha detto il 6 marzo il presidente dell’Iss Silvio Brusaferro. Nonostante questo, come mostrano i dati di un bollettino epidemiologico pubblicato dall’Iss il 10 marzo, è bene ricordare che non solo le fasce più anziane sono a rischio contagio, con tutte le conseguenze che questo può comportare. Al 9 marzo, circa il 22 per cento dei positivi ai test aveva tra i 19 e i 50 anni. «L’indagine rileva una percentuale significativa di casi sotto i 30 anni, un dato che conferma quanto questa fascia di età sia cruciale nella trasmissione del virus», ha specificato il 10 marzo Brusaferro. Infine, come analizzeremo nel dettaglio tra poco, esiste un’altra possibile spiegazione per l’apparente alto tasso italiano di letalità, legata a come vanno letti i dati sui casi positivi da nuovo coronavirus.
Come leggere il numero dei casi positivi. Come abbiamo visto, alle ore 17 del 10 marzo 2020, da inizio contagio nel nostro Paese si sono contati 10.149 casi positivi da nuovo coronavirus. Monitorare l’aumento dei casi è, in teoria, fondamentale per capire se il contagio nel nostro Paese stia seguendo una crescita esponenziale o meno (discorso analogo vale per i decessi) e con quali tempi di raddoppio del numero dei contagiati.
Ci sono dei ritardi nella trasmissione dei dati. Dai calcoli quotidiani dell’economista Riccardo Puglisi, emerge che tra il 2 marzo e il 9 marzo 2020 gli aumenti giornalieri di casi confermati di Covid-19 sono sempre stati (eccetto un giorno) superiori al 23 per cento rispetto al giorno prima. Ma l’aumento di “solo” il 10,65 per cento registrato il 10 marzo fa capire, come chiariremo meglio tra poco, che nella pratica possono esserci dei limiti nella lettura dei dati dei casi positivi forniti quotidianamente dalla Protezione civile. Come spiega in una nota la Protezione civile nella sua mappa online, il dato dei casi positivi del 10 marzo è ad esempio parziale, perché quelli provenienti dalla Lombardia non erano completi. «I dati raccolti sono in continua fase di consolidamento e, come prevedibile in una situazione emergenziale, alcune informazioni sono incomplete», ha sottolineato l’Iss nel suo bollettino epidemiologico del 10 marzo. «In particolare, si segnala, soprattutto nelle Regioni in cui si sta verificando una trasmissione locale sostenuta del virus, la possibilità di un ritardo di alcuni giorni tra il momento della esecuzione del tampone per la diagnosi e la segnalazione sulla piattaforma dedicata. Pertanto, la diminuzione dei casi che si osserva negli ultimi due giorni [7 e 8 marzo, ndr], deve essere interpretata come un ritardo di notifica e non come descrittiva dell’andamento dell’epidemia». In ogni caso, anche se il dato del 10 marzo può sembrare positivo (un aumento minore rispetto agli altri giorni, al netto che i dati lombardi sono parziali), un numero giornaliero non basta. Bisogna fare riferimento a trend di più giorni per evidenziare i primi effetti dei nuovi provvedimenti voluti dal governo.
Chi viene sottoposto al test? Come ha sottolineato anche il bollettino epidemiologico dell’Iss dell’11 marzo, un secondo problema di come vanno letti i numeri sui casi positivi – oltre a questi eventuali casi di parziale comunicazione dei dati – riguarda il modo in cui vengono rilevati i contagiati (con effetti sul tasso di letalità). Dal 26 febbraio scorso – in linea con una circolare del Ministero della Salute del giorno prima – si è stabilito che i test andassero fatti solo ai soggetti sintomatici (per esempio con febbre e problemi respiratori), mentre prima venivano testati anche gli asintomatici. Il numero totale sui casi positivi che leggiamo nei bollettini della Protezione civile è quindi frutto di due strategie di test diverse, applicate in momenti diversi (prima e dopo il 26 febbraio).
Questo ha comportato due conseguenze. Da un lato, negli ultimi giorni non vengono rilevati i contagiati tra i soggetti asintomatici, riducendo quindi il rilevamento potenziale del numero dei possibili casi positivi (come si vede anche dai calcoli di Puglisi). Dall’altro lato, questo cambio di strategia nel fare i test spiegherebbe l’alto tasso di letalità registrato in Italia, rispetto ad altri Paesi. Come ha chiarito il 5 marzo a Il Messaggero l’epidemiologo dell’Università di Pisa Pier Luigi Lopalco, «il rapporto tra contagiati e morti cambia in base a quante persone vengono sottoposte al tampone e se sono sintomatiche o senza sintomi». In parole semplici, se si sottopongono ai test sia i soggetti sintomatici che quelli asintomatici, è più probabile che la letalità sia più bassa rispetto a uno scenario in cui sono testati solo le persone con sintomi. Questo avviene perché nel calcolo si contano anche persone, gli asintomatici, che magari non svilupperanno mai sintomi e quindi non subiranno gravi conseguenze, come la morte.
Come leggere il numero dei ricoverati. Al di là delle incertezze legate alle morti per (o con) coronavirus e ai test per i casi positivi, per capire la gravità dell’emergenza da Covid-19 nel nostro Paese basta vedere l’andamento delle persone ricoverate, in particolare in terapia intensiva. Alle ore 17 del 10 marzo 2020, il 59,2 per cento (5.038) degli 8.514 casi in quel momento positivi era ricoverato in ospedale con sintomi. A questi vanno aggiunti 844 pazienti (il 9,9 per cento) ricoverato in terapia intensiva, a causa delle gravi polmoniti e dei problemi respiratori causati dal virus. Una settimana fa, il 2 marzo, erano 166: cinque volte meno. Come ha evidenziato il 10 marzo su Twitter l’esperto di statistica Matteo Villa, se si sommano i decessi con i casi gravi (ossia i ricoverati in terapia intensiva) si scopre che il loro andamento è quello di una progressione esponenziale. Nell’immediato, questo sta già mettendo sotto un enorme sforzo la sanità di regioni come la Lombardia, la più colpita dal contagio. Al 10 marzo (ore 17) i ricoverati in terapia intensiva negli ospedali lombardi erano 446 (una settimana fa, il 2 marzo, erano 127, poco meno di un quarto del dato attuale) ma dall’inizio dell’epidemia, secondo i dati dell’assessore al Welfare della Regione Lombardia Giulio Gallera, gli assistiti in questi reparti sono stati 778 (con 80 deceduti e 103 dimessi). Ad oggi, i posti letto in terapia intensiva in Lombardia sono in totale poco più di 900 (su un totale nazionale di poco superiore a 5 mila): i malati da Covid-19 ne occupano già oggi più della metà, con la conseguenza che si è iniziato a trasferire alcuni pazienti dagli ospedali lombardi ad altre regioni italiane. «Ci sono altri malati che vanno gestiti», ha detto all’Adnkronos il 9 marzo Antonio Pesenti, direttore del Dipartimento di anestesia-rianimazione ed emergenza-urgenza del Policlinico di Milano, che coordina l’Unità di crisi per le terapie intensive in Lombardia. «Bisogna che i reparti si svuotino, ma è una cosa che può avvenire in maniera molto graduale». «Le previsioni mostrano che al 26 marzo potremmo avere in Lombardia almeno 18 mila casi di Covid-19 ricoverati, di cui un terzo in terapia intensiva», ha aggiunto Pesenti. Sempre il 9 marzo, la Consip (la centrale acquisti della Pubblica amministrazione) ha pubblicato i risultati della gara per fornire, tra le altre cose, quasi 4 mila ventilatori per reparti di terapia intensiva e sub-intensiva. Qualche giorno fa il governo ha approvato un decreto per potenziare il sistema sanitario nazionale (Ssn), per esempio con l’assunzione di medici specializzandi, mentre con una circolare il ministero della Salute ha predisposto un piano per aumentare del 50 per cento i posti in terapia intensiva in tutto il Paese.
Conclusione. Ricapitolando: ecco alcune cose da tenere a mente quando si leggono i numeri pubblicati dalla Protezione civile sul coronavirus. Per quanto riguarda le morti, i dati non ci dicono se sono decessi di persone morte per il virus o con il virus. Secondo alcuni virologi, questa sarebbe una differenza di poco conto (e da non risaltare sul piano comunicativo), ma sulla questione si registrano opinioni contrastanti anche tra gli esperti. Attenzione poi a quando sentite parlare di tasso di letalità e di confronti con altri Paesi, come la Cina. Al momento, il rapporto tra deceduti e contagiati in Italia sembra essere più alto, ma questo si spiegherebbe (oltre che per il fatto visto sopra) con il peso della popolazione anziana italiana e con il modo in cui vengono raccolti i dati sui contagiati. I casi positivi totali sono infatti influenzati da un cambio di metodologia per i test introdotto a fine febbraio, quando si è deciso di testare solo i sintomatici. Monitorare l’andamento giornaliero dei casi positivi resta comunque necessario per capire qual è l’andamento della curva del contagio, ma è anche vero che ci sono ritardi tra i dati comunicati dalla Protezione civile e quelli rilevati dalle singole regioni. Discrepanze che possono rendere fuorvianti i ridotti aumenti (o cali) in percentuale dei contagiati da un giorno all’altro. Nell’immediato, è necessario monitorare i numeri sui ricoverati in ospedale, in particolare nei reparti di terapia intensiva. Gli aumenti previsti nei prossimi giorni, infatti, metteranno ancora più sotto sforzo il nostro sistema sanitario, soprattutto in regioni come la Lombardia maggiormente colpite dal contagio.
Come leggere i numeri sul nuovo coronavirus. Il Post il 19 febbraio 2020. Gli aggiornamenti giorno dopo giorno su nuovi contagi e numero di morti possono distrarre dal quadro complessivo, più complicato e che ancora non conosciamo. Da settimane gli aggiornamenti quotidiani sul nuovo coronavirus (SARS-CoV-2) offrono numeri e statistiche sul numero di persone infette, sulle persone morte a causa della malattia (COVID-19) e sui pazienti guariti dimessi dagli ospedali. Le cifre fornite ogni giorno sono importanti per le autorità sanitarie e gli epidemiologi, che devono valutare l’efficacia delle politiche di contenimento dei contagi, ma possono risultare fuorvianti per l’opinione pubblica, soprattutto se sono presentante con poche informazioni di contesto. Sul New York Times il matematico John Allen Paulos, un docente della Temple University (Philadelphia) che si occupa spesso di numeri e del modo in cui sono usati sui giornali, ha scritto una breve guida per non perdersi tra i dati del nuovo coronavirus o farsi prendere troppo dal panico. La newsletter del Post sul coronavirus arriva ogni sera e racconta molto di più di quello che trovi sui giornali: è gratuita e ci si iscrive qui.
Quanto si muore di COVID-19. Tecnicamente, definire il tasso di letalità di una malattia non è una cosa molto complicata. Il termine serve per indicare la percentuale calcolata sul numero di persone morte per una determinata malattia (D) diviso per il numero totale di persone che si sono ammalate (I). Il problema non è l’operazione in sé, piuttosto banale, bensì determinare con certezza i due numeri da utilizzare nel calcolo.
Incertezze. I morti per COVID-19 sono indicati sulla base di valutazioni cliniche ed esami di laboratorio, per capire se le persone decedute avessero contratto effettivamente il nuovo coronavirus. Le cause di morte possono però essere altre, nonostante la presenza del virus. Nel caso di una persona con problemi cardiaci o malattie croniche come il diabete, può essere complicato stabilire l’effettiva causa di morte e quindi compilare statistiche sufficientemente affidabili. Le cose si complicano ulteriormente nel determinare il numero totale di infetti. Tra questi sono comprese naturalmente le persone ricoverate in ospedale dopo essere risultate positive ai test sul nuovo coronavirus, mentre non è sempre chiaro come e se comprendere gli individui che hanno iniziato i trattamenti in assenza di una diagnosi definitiva (perché comunque mostrano già sintomi e hanno bisogno di assistenza medica) e coloro che potrebbero già essere stati contagiati, ma che nei primi giorni di incubazione non mostrano ancora sintomi. Una complicazione ulteriore è data dai casi non risolti o non determinabili. Ci possono essere infatti circostanze in cui un individuo contrae il nuovo coronavirus, ma non sviluppa sintomi particolari e non si accorge di essere infetto. Le autorità sanitarie non sono inoltre ancora riuscite a determinare con precisione il periodo di incubazione della malattia, cioè il tempo che intercorre tra il contagio e lo sviluppo dei primi sintomi. L’intervallo temporale massimo è stato collocato a due settimane, ma serviranno altri studi per delimitarlo con precisione.
I numeri sui media. Ogni giorno viene diffuso un nuovo bilancio sul numero di malati e di deceduti a causa della COVID-19, ma non sempre i giornali e gli altri media forniscono informazioni di contesto sufficienti per orientarsi e farsi un’idea. La scorsa settimana, per esempio, le autorità sanitarie della provincia di Hubei – il cui capoluogo è Wuhan, l’epicentro della crisi – hanno rivisto il modo di indicare le persone infette da nuovo coronavirus, includendo gli individui che mostrano sintomi da COVID-19, anche se non sono ancora stati sottoposti ai test di laboratorio per accertare la presenza del virus. Di conseguenza, in 24 ore il numero di nuovi casi giornalieri è aumentato di 9 volte circa, portando a un certo sensazionalismo da parte dei media. Diversi giornali avevano titolato sul fatto che il numero di contagiati fosse aumentato enormemente in appena un giorno, senza premurarsi di spiegare da subito che l’incremento fosse dovuto a una modifica nel modo di fare i calcoli. Altri avevano fornito più informazioni di contesto, ma usando comunque titoli sensazionalistici, portando a nuove preoccupazioni dell’opinione pubblica che da settimane segue con apprensione l’evolversi dell’epidemia.
I numeri forniti dalla Cina. Il cambiamento da un giorno all’altro ha fatto nascere inoltre nuovi sospetti nei confronti delle autorità cinesi: c’è chi ha ipotizzato che i numeri più bassi fossero stati comunicati in buona fede a causa del modo errato di conteggiare i casi, e chi invece che si fosse trattato di una scelta deliberata, visti alcuni precedenti. Per esempio, all’inizio dell’epidemia di SARS tra il 2002 e il 2003, il governo della Cina aveva provato a nascondere e minimizzare il problema, nel timore che potesse danneggiare la sua economia all’epoca in forte crescita. In realtà la spiegazione potrebbe essere più semplice e banale: è possibile che nelle prime settimane ospedali e cliniche non avessero strumenti a sufficienza per rilevare con test di laboratorio la presenza del nuovo coronavirus. Il fatto che i numeri siano stati rivisti, con un aumento significativo di nuovi contagi, sembra rendere più probabile quest’ultima spiegazione: il sistema sanitario cinese era sotto forte pressione e faticava a tenere il passo con il continuo afflusso di probabili contagiati negli ospedali.
Ci vuole tempo. Il problema di fondo è che occorre tempo prima che un’epidemia causata da un nuovo virus offra dati rilevanti, dal punto di vista della statistica, per fare previsioni e analisi più approfondite. I numeri forniti ogni giorno dalle autorità sanitarie vengono ripresi così come sono dai media, finendo nei loro cicli di notizie quasi sempre tarati sulle 24 ore, senza offrire prospettive più ampie. Il risultato è una comunicazione sull’epidemia che rischia di creare più ansie che vera informazione. Scrive Paulos, analizzando un intervallo più ampio di dati sul nuovo coronavirus: Martedì il tasso di letalità della COVID-19 sembrava essere intorno al 2,5 per cento. È un dato in linea con quello segnalato, per esempio, dall’inizio dell’epidemia fino al 28 gennaio scorso. Per fare un confronto, il tasso di letalità dell’influenza stagionale negli Stati Uniti oscilla tra lo 0,1 e lo 0,18 per cento. Per la SARS è del 10 per cento circa, mentre per la MERS è del 35 per cento. Per Ebola è oscillato tra il 25 e il 90 per cento, a seconda delle epidemie, con una media intorno al 50 per cento. Per quanto ne sappiamo finora, COVID-19 sembra essere molto meno fatale rispetto ad altre infezioni da coronavirus e malattie che hanno causato grandi epidemie negli ultimi decenni. Le parole da tenere in considerazione sono “per quanto ne sappiamo finora”: né più né meno di questo, significa che il nostro approccio alla situazione potrebbe cambiare con l’arrivo di nuovi dati.
Letalità e contagiosità. Semplificando: un virus può essere molto letale, ma poco contagioso, oppure essere molto contagioso, ma poco letale. La prima condizione è meno frequente rispetto alla seconda: un virus ha “interesse” a diffondersi il più possibile, e quindi essere molto contagioso costituisce un vantaggio. L’alta contagiosità implica che il numero di persone infette sia molto più alto e di conseguenza che ci possa essere una grande quantità di morti in termini assoluti. Nel caso del nuovo coronavirus, la percentuale di morti per COVID-19 potrebbe quindi essere bassa, ma questo non significa che in termini assoluti possa esserci un basso numero di decessi. È però ancora presto per saperlo e se non avverrà sarà perché il contenimento dei contagi, in atto da settimane, avrà funzionato.
Coronavirus: la Matematica del Contagio. Pietro Verzelli il 12/03/2020 su immoderati.it. Un recente articolo apparso sul Corriere ha avuto il grande merito diffondere le basi della modellizzazione epidemiologica spiegando che il cuore del problema è un numero, R0, che controlla il tasso di diffusione del coronavirus: ogni malattia ha il suo, quello del coronavirus appare essere circa 2,5. Se questo numero è minore di 1 la malattia non si diffonderà, mentre se è maggiore di 1 avverrà un "outbreak" che porterà al diffondersi dell’epidemia. Ma da dove viene questo numero? Da cosa dipende? Cosa vuol dire che rappresenta “il numero medio di persone che ogni contagiato contagia”? E come dobbiamo interpretarlo? Dato che 2.5 non è, evidentemente, un valore così basso, tanto che ci troviamo tutti confinati in casa, ho deciso di scrivere un articolo in cui si spiega la questione della matematica del contagio.
IL MODELLO SIR. Questo semplice (e semplicistico) modello si basa su due premesse fondamentali:
1 – divisione in compartimenti: le persone sono classificate in base al loro stato. Quando una persona cambia stato, non fa altro che passare da un compartimento ad un altro. Non si tiene conto dell’età, dello stato di salute e di nessun altro fattore: tutte le persone sono, ai fini della modellizazione, uguali. Data una popolazione di N individui, il modello SIR considera tre possibili stati:
Sano (S): Gli individui che non si sono ancora ammalati ma che, potenzialmente, potrebbero farlo. Per questo a volte si usa il termine suscettibili.
Infetto (I): Gli individui infetti e, quindi, contagiosi, che diffondono la malattia.
Rimossi (R): Gli individui che sono stati infettati ma che ora non diffondo più la malattia né possono riprenderla. Quindi possono essere i guariti (recovered) o i morti. Ai fini di questa modellizzazione non fa differenza e quindi parliamo genericamente di rimossi.
Essendo ogni membro della popolazione parte di uno di questi tre gruppi, è facile convincersi che S + I + R = N. Questa equazione deve valere in ogni istante di tempo! Se un individuo si ammala “I” aumenterà di una unità e S calerà di una, in modo che il totale N rimarrà comunque invariato.
2 – Mixing omogeneo. Questa ipotesi consiste nell’assumere che ogni persona ha le stesse probabilità di incontrare un individuo infetto. Detta in parole povere significa che se il 10% della popolazione è infetta, anche il 10% delle persone con cui entrate in contatto è infetta. La stessa cosa vale anche per gli altri due compartimenti. Tale ipotesi appare un po’ grossolana (per non dire irrealistica), ma ci permette di non andare a considerare le diverse reti di contatti, abitudini o caratteristiche di ogni individuo: per grandi numeri, tende a funzionare abbastanza bene, almeno in prima approssimazione. Forti di queste due assunzioni, andiamo a porci la seguente domanda: immaginiamo di conoscere al tempo t = 0 il numero dei Sani S, degli infetti I e dei rimossi R. Come varieranno queste quantità nel tempo? Per farlo, iniziamo a ragionare sul funzionamento della malattia.
CONTAGIO. Un individuo si può ammalare quando entra in contatto con un infetto. Come possiamo modellizzare questo fenomeno? La nostra malattia avrà un tasso di diffusione “proprio”, dipendente dalle caratteristiche del patogeno, che chiameremo β: questo numero rappresenta la probabilità che ha un individuo sano di ammalarsi quanto entra in contatto con un infetto. Immaginiamo ora che, in media, un infetto entri in contatto con k persone. Usando l’ipotesi di mixing omogeneo, sappiamo che di queste “k” persone il numero di persone sane sarà S (il totale di sani) diviso N (la popolazione totale). Questo numero altro non è che la “densità di sani” ed e’ facile intuire che, all’inizio dell’epidemia, è un numero molto vicino ad 1 dato che S è quasi uguale ad N. Essendoci “I” individui infetti che trasmettono il patogeno, la variazione del numero di infetti sarà: Ok. Mi rendo conto che questa e’ una equazione differenziale ma non preoccupatevi: capire cosa significa, ovvero, cosa ci sta dicendo, è estremamente semplice. Riscriviamola in questa forma (mi perdonino i matematici che leggono): la variazione (dI) del numero di infetti è uguale al termine tra parentesi (che abbiamo discusso) sopra, moltiplicato per l’intervallo di tempo preso in considerazione (ad esempio, un giorno). Non siete ancora convinti? Scriviamo I(t) per indicare i malati al tempo t (ad esempio, oggi). Vogliamo sapere quanti saranno i malati a tempo t+dt (domani). Per quanto detto: Cioè i malati domani I(t + dt) saranno uguali ai malati di oggi I(t) più la variazione nel numero di malati giornaliera (β k I S/N) moltiplicata per la “lunghezza” del giorno dt. Siccome sento le urla del mio prof di analisi devo smetterla con questo esempio, ma spero che il concetto si sia capito: abbiamo una equazione che ci dice come varia il numero di infetti. Che ne è dei sani? Siccome il numero di persone deve rimanere costante, ogni infetto non è altro che un sano che si ammala. Perciò la variazione dei sani è data semplicemente dall’opposto della variazione dei malati.
GUARIGIONE. Siccome sono tempi bui, lasciamoci prendere da un po’ di ottimismo e assumiamo che R corrisponda al numero dei Recovered, ovvero alle persone che dopo essere state infetti, guariscono. La guarigione nel nostro modello funziona in modo diverso dal contagio: una persona infetta guarisce dopo un certo tempo, semplicemente. Questa cosa viene modellizzata definendo il tasso di guarigione, ovvero la probabilità di guarigione di un infetto per unità di tempo, indicata con μ. Di conseguenza, la variazione del numero di guariti dR NON dipenderà dal numero di guariti, ma dal numero di infetti: più persone sono infette, più persone guariranno. In simboli e siccome il numero totale di persone deve rimanere invariato, andremo anche a modificare l’equazione degli infetti aggiungendo un termine che tenga conto di questa variazione. Ora, siccome tutte queste quantità non dipendono dall’esatto numero di persone N, attuiamo una “normalizzazione”, dividendo S, I ed R per N. Avevamo già incontrato S/N e la avevamo chiamata densità di sani, quindi ci limitiamo a fare lo stesso con anche gli altri due compartimenti, definendo s = S/N, i = I/N e r = R/N. Per sapere quanti sono effettivamente, ad esempio, gli infetti non dobbiamo fare altro che moltiplicare i per la popolazione totale (ad esempio, 60 milioni). Notiamo che essendo s,i,r quantità solo positive, i guariti non possono che aumentare (la loro variazione e’ il prodotto di due quantità positive) e i sani non possono che calare (la loro variazione e’ un prodotto di 4 termini positivi con davanti un meno). Sarà quindi interessante capire la variazione degli infetti, che avendo sia un termine positivo sia uno negativo possono avere un comportamento non monotono.
EPIDEMIA O NO? Bene è momento di dare un senso ai nostri termini. Torniamo alla loro interpretazione: le malattie con alto β tenderanno a diffondersi molto, perché e’ molto facile che il contatto con un infetto risulti in un’infezione. Invece μ rappresenta quanto tempo ci mette una persona a guarire (o morire): se una malattia ha alto μ, significa che le persone rimangono poco infette (passato subito da i ad r). Ma questo implica che la malattia si diffonderà PIÙ LENTAMENTE, perché ogni infetto avrà meno tempo per infettare gli altri prima di guarire (o morire): è questo il motivo per cui le malattie che uccidono molto velocemente gli infetti (ad esempio l’ebola) difficilmente si espandono largamente, per quanto infettive siano: gli infetti tendono a morire prima di avere diffuso la malattia. Vediamo quindi che è molto naturale definire il rapporto tra queste due quantità (tendendo conto anche di k), ed esso non sarà altro che l’ormai famoso R0. R0 infatti rappresenta il numero medio di persone infettate da una persona infetta: questo numero sarà alto se la malattia si diffonde molto facilmente (alto β) o se un infetto rimarrà tale molto a lungo (basso μ). Ma perché la soglia “critica” è proprio R0 > 1? Le equazioni del modello SIR sono discretamente complicate. Tuttavia possiamo aiutarci con una semplificazione: quando la diffusione della malattia è all’inizio, i guariti saranno in numero trascurabile (r = 0). Questo ci permette di scrivere s = 1 – i (perchè S + I = N, quindi s + i = 1) e avere una singola equazione per l’evoluzione dell’epidemia (almeno al suo inizio) che dipende solo da i. La soluzione di questa equazione per tempi brevi può essere approssimata da un esponenziale. Vediamo chiaramente che l’argomento dell’esponenziale avrà segno negativo quando R0 è minore di uno. Questo significa che la quantità iniziale di infetti i0 tenderà a DIMINUIRE col passare del tempo! Se invece R0 è maggiore di 1, il segno sarà positivo e gli infetti aumenteranno. In altre parole, il valore di R0 determina la possibilità di avere un outbreak o meno. Nella figura ho disegnato l’evoluzione del numero di infetti per malattie con diversi R0. vediamo che, come previsto, gli infetti tendono a calare sin da subito quando R0 <1, mentre negli altri casi raggiungono un picco prima di iniziare a scendere. Questo fenomeno è dovuto ad una saturazione: come abbiamo detto, la soluzione esponenziale vale solo quando gli infetti sono pochi, perché si può assumere che ci siano abbastanza sani da contagiare. Col passare del tempo, la diffusione sarà più difficile perché i sani saranno sempre meno, sostituiti da infetti o da guariti (che, nel nostro modello non possono essere infettati). Ci si potrebbe chiedere: che ruolo gioca il μ che compare nella formula esponenziale davanti a R0? Non e’ altro che un fattore di scala (temporale): malattie con lo stesso R0 ma diverso μ si diffonderanno allo stesso modo, ma lo faranno in più o meno tempo. Si noti nella figura che il valore massimo raggiunto dagli infetti è sempre lo stesso, solo spostato nel tempo.
IL PERICOLO DELL’EPIDEMIA. Ci interessa ora capire cosa significhino questi valori. Immaginiamo di considerare una malattia con un R0=2 (per ossere ottimisti rispetto al coronavirus) e proviamo a vedere l’andamento degli infetti nel tempo. Innanzitutto vediamo che la previsione exponenziale si discosta abbastanza rapidamente dalla realtà: assumendo che la scala temporale sia in giorni, dopo tre settimane è già in atto una saturazione. Il picco di casi avviene a circa 40 giorni, dopo di che inizia scendere. Al giorno 150 non ci sono più infetti. Ci tengo a specificare che questi numeri non sono indicativi, hanno il solo scopo di descrivere il fenomeno in modo più che qualitativo: non aspettatevi 6 mesi di quarantena (non a causa di questo modello almeno). Se osserviamo il picco però capiamo perché ci sia da preoccuparsi: al quarantesimo giorno, quasi 18% della popolazione è infetto! Su una popolazione di 60 milioni, sono quasi 11 milioni di persone. È un numero enorme, drammatico. Ma non è finita qui. Proviamo a mostrare non solo il numero di infetti, ma anche il variare di s e di r. Incredibile vero? Al termine dell’epidemia (ovvero quando i = 0) quasi l’80% della popolazione è stata contagia ed è tra i rimossi! Ipotizzando che una letalità (numero dei morti tra i contagiati, che nel nostro caso corrispondono ad r) del 4% (che è più o meno il valore stimato per il COVID19) , la mortalità (ovvero il numero di morti sulla popolazione totale) sarebbe del 3.2%! Significherebbero quasi due milioni di morti su una popolazione di 60 milioni, un numero davvero gargantuesco. È per questo che stanno venendo prese misure cosi’ stringenti in questi giorni: il pericolo è enorme. Cosa fare quindi? Come abbiamo visto, R_0 dipende da β e da μ che sono caratteristiche del patogeno e su cui è molto difficile agire. Tuttavia, vi è anche un altro termine: k, il numero di contatti medio che ha una persona per unità di tempo. Ed è proprio su quello che si applicano queste misure restrittive: spingere la gente a restare a casa e a non frequentare luoghi affollati, ha il semplice scopo di diminuire i contatti e le occasioni di contagio, e quindi ridurre R_0. Io non sono un medico né mi occupo di epidemiologia: il solo scopo di questo articolo era dimostrare come anche una semplice modellizzazione può spiegare un fenomeno complesso quale la diffusione di una epidemia per dare un senso alle misure così restrittive che stiamo subendo in questi giorni. Le fonti di ispirazione per il mio articolo sono state lo splendido video di 3B1B e il capitolo 10 del libro di Barabasi, che contiene anche modelli di contagio più raffinati, che tengono conto della rete di contatti delle persone o discutono il ruolo delle vaccinazioni. Buon isolamento.
· La Sopravvivenza del Virus.
Rosario Dimito per “il Messaggero” il 26 maggio 2020. Sui vestiti le particelle del Covid-19 resistono 1 giorno mentre dopo due giorni non sono più rilevate. Sulla carta da stampa e carta velina invece, restano in vita 30 minuti e dopo tre ore scompaiono. Sui soldi hanno una autonomia di 2 giorni e dopo 4 sono inefficaci. In una circolare appena uscita del Ministero della Salute, firmata dal dg Giovanni Rezza, sulla base di «dati sperimentali più recenti relativi alla persistenza del virus SARS-CoV-2, vengono date «indicazioni per l'attuazione di misure contenitive del contagio attraverso procedure di sanificazione di strutture non sanitarie (superfici, ambienti interni) e abbigliamento». I vestiti vanno sanificati con il vapore. Rezza sottolinea che «il lavaggio delle mani e il distanziamento sociale costituiscono il punto cardine della prevenzione». Inoltre il top manager evidenzia che la «trasmissione delle infezioni da coronavirus, incluso il SARS-CoV-2, avviene soprattutto attraverso droplets, goccioline di diametro = 5 µm (una microunità, ndr) che originano dagli atti del respirare, parlare, tossire e starnutire. Per le loro dimensioni i droplets viaggiano nell'aria per brevi distanze, generalmente inferiori a un metro, e possono direttamente raggiungere soggetti suscettibili nelle immediate vicinanze, come anche depositarsi su oggetti o superfici che diventano quindi fonte di diffusione del virus». Nelle prescrizioni, la Salute aggiunge che oltre ai criteri generali validi per tutta la popolazione, «per le attività commerciali si indicano tre punti fermi per il contenimento della diffusione del virus Sars-CoV-2: 1) pulire accuratamente con acqua e detergenti neutri superfici, oggetti; 2) disinfettare con prodotti disinfettanti con azione virucida, autorizzati; 3) garantire sempre un adeguato tasso di ventilazione e ricambio d'aria». Nello svolgimento delle procedure di sanificazione, Rezza raccomanda di adottare le corrette attività in questo ordine: a) normale pulizia ordinaria con acqua e sapone riduce la quantità di virus presente su superfici e oggetti; b) pulizia di superfici di mobili e attrezzature da lavoro, macchine, strumenti, nonché maniglie, cestini, deve essere fatta almeno dopo ogni turno; c) rischio di esposizione è ridotto ancor più se si effettuano procedure di disinfezione utilizzando prodotti disinfettanti con azione virucida autorizzati (PMC o biocidi). È importante la disinfezione frequente di superfici e oggetti quando toccati da più persone; d) disinfettanti uccidono i germi sulle superfici. Effettuando la disinfezione di una superficie dopo la sua pulizia, è possibile ridurre ulteriormente il rischio di diffondere l'infezione. I disinfettanti devono essere utilizzati in modo appropriato secondo le informazioni riportate nell'etichetta. Non mescolare insieme candeggina e altri prodotti per la pulizia e la disinfezione. Se il posto di lavoro, o l'azienda non sono occupati da almeno 7-10 giorni, per riaprire l'area sarà necessaria solo la normale pulizia ordinaria. Nelle raccomandazioni si sottolinea che interruttori della luce e maniglie delle porte o altre superfici e oggetti frequentemente toccati dovranno essere puliti e disinfettati utilizzando prodotti disinfettanti con azione virucida. Un capitolo ad hoc è dedicato ai negozi di vestiti. Per gli ambienti chiusi sottoposti a notevoli afflussi di pubblico e contenenti materiali con esigenze di disinfezione aggiuntive per i capi di abbigliamento, è opportuno programmare trattamenti giornalieri, o comunque a cadenza regolare definita. Ecco le nuove regole. Guanti, dispenser con gel idroalcolici all'ingresso delle cabine di prova, impedire contatto con la merce esposta senza guanti, potenzierebbe gli effetti della sanificazione periodica dei locali; insieme limiterebbero la diffusione del virus anche nel caso in cui nei negozi di abbigliamento fosse offerta la possibilità di indossare il capo per prova. Sanificazione dei camerini. Il vapore secco sembra essere il metodo consigliabile per la sanificazione degli abiti. L'utilizzo di prodotti chimici è scoraggiato per motivi legati alla stabilità dei colori, alle caratteristiche delle fibre. Le radiazioni ionizzanti sono difficilmente esportabili a livello di attività commerciale: le lampade UV-C potrebbero essere un buon compromesso per costo-efficacia e rapidità d'uso, ma non per tutti i capi d'abbigliamento (ad es., è sconsigliato per biancheria trattata con sbiancanti ottici e per abiti in fibre naturali dai colori accesi o intensi). Il lavaggio dei capi, sia in acqua con normali detergenti oppure a secco presso le lavanderie professionali, è certamente una buona prassi in grado di rispondere alle esigenze di sanificazione, ma rappresenta un processo di manutenzione straordinario.
Il virus resiste per un giorno sui vestiti e per sette sulle mascherine. Il virus può essere eliminato dalle superfici degli oggetti mediante una accurata disinfenzione: per i tessili e l'abbigliamento è consigliata la vaporizzazione. Rosa Scognamiglio, Lunedì 25/05/2020 su Il Giornale. Quanto resiste il virus sulle superfici in legno? Come si possono disinfettare tessili e capi d'abbigliamento? Sono queste alcune delle domande che molte persone si pongono nella loro quotidianità e alle quali tenteremo di dare risposta partendo dalle indicazioni fornite dall'Istituto Superiore di Sanità (ISS). Secondo l'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), la trasmissione del virus SARS-CoV-2 avviene mediante droplets, ovvero, goccioline di diametro ≥ 5 μm, e costituite perlopiù da acqua, che vengono emesse dal nostro organismo durante la respirazione, con un colpo di tosse o uno starnuto. I droplets viaggiano nell’aria per brevi distanze - generalmente inferiori a un metro - e possono raggiungere soggetti suscettibili nelle immediate vicinanze, ma anche depositarsi su oggetti o superfici che, pertanto, diventano fonte di diffusione del virus. Gli oggetti, così contaminati, possono costituire veicolo di "trasmissione per contatto indiretto", contingenza che si verifica quando portiamo le mani alla bocca, al naso o agli occhi dopo aver toccato una superficie inquinata dal patogeno. Dato per certo che il lavaggio delle mani costituisce la prima regola per una corretta prevenzione, la pulizia e disinfezione degli ambienti sono fondamentali per prevenire e contenere la diffusione del Covid-19. Studi pregressi sui coronavirus (SARS e MERS) suggeriscono che il tempo di sopravvivenza di questi patogeni sulle superfici, in condizioni sperimentali, oscilli da poche ore fino ad alcuni giorni in dipendenza del materiale interessato, della concentrazione, della temperatura e dell’umidità. Quanto al SARS-CoV-2, invece, ricerche precipue hanno dimostrato che il virus resiste fino a 72 ore su plastiche e acciaio inossidabile mentre ha una minore capacità di persistenza su rame e cartone (dalle 4 alle 24 ore). Inoltre, la sua stabilità risulta altamente variabile e sensibile al calore. In uno studio recente, è stato osservato che, infatti, ad una temperatura di 4°C il Covid-19 trova il suo habitat naturale, a 56° C perde virulenza e a 70°C non sono più rilevabili tracce dell'Rna virale. Nello stesso approfondimento, è stata valutata anche che la stabilità del patogeno sulle diverse superfici. Dalla rilevazione è emerso che il SARS-Cov-2 è più stabile sulle superfici lisce, in particolare, su acciaio inox e plastica con una periodo di permanenza di circa 4 giorni (7 sullo strato esterno dei presidi chirurgici). Nel dettaglio, i tempi sono:
carta da stampa e carta velina 30 minuti/3 ore
tessuto 1/2 giorni
legno 1/2 giorni
banconote 2/4 giorni
vetro 2/4 giorni
plastica 4/7 giorni
acciaio inox 4/7 giorni
Pulizia e disinfezione delle superifici. Appurato che il virus resiste sulle superfici, è buona norma sanificare frequentemente (pulizia e/o disinfezione) quelle ad alta frequenza di contatto (maniglie, superfici dei servizi igienici, superfici di lavoro, cellulare, tablet, PC, occhiali ed altri oggetti di uso comune). Ma quali sono i prodotti virucida più efficaci? Acqua e sapone o detergenti neutri, in linea generale, sono già sufficienti a garantire una buona detersione scongiurando il pericolo di una contaminazione. Tuttavia, sul mercato sono disponibili diversi disinfettanti che garantiscono l’azione virucida. Organismi nazionali ed internazionali, e i dati derivanti dai PMC (Presidi Medici Chirurgici), suggeriscono prodotti diversi a seconda della matrice da pulire. Vediamo, nel dettaglio, quali sono:
Superfici in pietra, metalliche e vetro: detergente neutro e disinfettante virucida - sodio ipoclorito 0,1 % o etanolo (alcol etilico) al 70% o altra concentrazione, purché sia specificato virucida.
Superfici in legno: detergente neutro e disinfettante virucida (contro i virus) a base di etanolo (70%) o ammoni quaternari (es. cloruro di benzalconio; DDAC).
Servizi igienici: pulizia con detergente e disinfezione con disinfettante a base di sodio ipocloritoalmeno allo 0.1% sodio ipoclorito.
Tessili (es. cotone, lino) Lavaggio con acqua calda (70°C-90°C) e normale detersivo per bucato; in alternativa, lavaggio a bassa temperatura con candeggina o altri prodotti disinfettanti per il bucato.
Non si esclude che prodotti altri prodotti presenti sul mercato, e con concentrazioni di etanolo più basse, siano ugualmente utili alla disinfezione. Sono inoltre disponibili ed efficaci prodotti disinfettanti per superfici, sempre autorizzati dal Ministero della Salute, a base di altri principi attivi, quali: miscele di sali di ammonio quaternario (es. cloruro di didecil dimetil ammonio, cloruro di alchil dimetilbenzilammonio) o perossido d’idrogeno, che dichiarano in etichetta attività virucida/antivirale.
Tessili e abbigliamento. Così come le altre superfici, anche tessili e abbigliamento necessitano di essere disinfettati. Nella circolare del Ministero della Salute n. 5443 del 22/02/2020, viene fatto riferimento alla disinfezione di biancheria da letto, asciugamani e vestiti sporchi all’interno degli hotel in conformità alle indicazioni del WHO. Ma se qualcuno avesse intenzione di sanificare i capi d'abbigliamento o i tessuti dei divani, ad esempio, a casa propria, cosa dovrebbe fare? Esistono due tipologie di disinfezione: la prima è chimica; la seconda prevede trattamenti di tipo "fisico". Il trattamento con disinfettanti chimici dei materiali tessili non è consigliato, se non nel caso di tessuti che possono essere lavati in lavatrice ad almeno 60 °C con prodotti detergenti e disinfettanti. In linea generale, si consiglia di valutare sempre se il prodotto prescelto è idoneo alla disinfenzione del capo che si intende trattare. Tre sono le sostanze di largo consumo, ad oggi presenti sul mercato:
Alcoli. Così come si apprende dal Rapporto ISS, siaa l’etanolo che il propanolo "possono interagire con le fibre naturali provocando fenomeni di rigonfiamento, ma anche il loro utilizzo su fibre sintetiche, normalmente più resistenti all’alcool, potrebbe causare danni irreversibili ai capi colorati dando origine a fenomeni di scolorimento o scioglimento. Inoltre, l’impiego di prodotti a base di alcool,soprattutto se utilizzati in forma nebulizzata, rappresenta un fattore di rischio aggiuntivo legato all’infiammabilità". Dunque, sarebbe meglio evitarli.
Ipoclorito di sodio e acqua ossigenata. Sono sconsigliati poiché potrebbero danneggiare i capi colorati causandone il rilascio di colore e la formazione di macchie.
Ozono: pur essendo capace di agire in tempi rapidi sui virus, e pur disponendo sul mercato di appositi armadi, box o altri contenitori per poter eseguire il trattamento, il suo impiego andrebbe valutato con attenzione poiché il suo potereossidante potrebbe alterare i colori dei tessuti.
Tra i trattamenti di tipo fisico, il primo in cima alla lista, è il calore (vapore secco) per 30 minuti, utilizzato anche secondo le prescrizioni del Koch Institute per la sanificazione delle mascherine chirurgiche. Il vapore secco non rappresenta un problema poiché viene già utilizzato nelle operazioni di finissaggio dei tessut. Il tempo necessario affinché il calore risulti realmente efficace fa riferimento alle peculiarità dei tessuti (presenza di pieghe, cuciture, risvolti, etcetera). In linea di massima, bastano 30 minuti ma, in alcuni casi, occorre maggior tempo di vaporizzo.
"Il Coronavirus muore solo a 90 gradi". Secondo gli scienziati dell’Università Aix-Marseille il virus non riuscirebbe a sopravvivere solo a quella temperatura. Cade quindi l’ipotesi che possa scomparire con l’estate. Valentina Dardari, Domenica 19/04/2020 su Il Giornale. Uno studio francese ha in parte smorzato la speranza che con l’arrivo dell’estate, e di conseguenza del caldo, il coronavirus venga ucciso. A meno che, s’intenda, quest’anno non si presentino temperature roventi che superino i 90 gradi. Un po’ improbabile. Come riportato da il Corriere, i ricercatori dell’Università Aix-Marseille, guidati da Remi Charrel, professore di Emergenza delle patologie virali, hanno infatti sperimentato che il Covid-19 non riesce a sopravvivere solo dopo un’esposizione di 15 minuti a temperature superiori ai 90 gradi, praticamente lo si deve portare al punto di ebollizione. Con temperature minori sembrerebbe di sì. C’è da dire che la ricerca deve ancora essere sottoposta a validazione scientifica. L’obiettivo iniziale dello studio francese era quello di capire come il Sars-Cov-2 sia in grado di vivere e addirittura riprodursi anche dopo lunghe esposizioni a temperature elevate. Per fare questo, il team di lavoro di Charrel ha condotto l’esperimento chiamato “Valutazione dei protocolli chimici e di riscaldamento per l'inattivazione del Sars-Cov-2”. Ma in cosa consiste esattamente?
Lo studio francese. I ricercatori hanno riscaldato il virus in provetta per scoprire fino a quale temperatura riesce a resistere. Per prima cosa hanno creato due colture diverse di cellule renali da una scimmia africana. Una è stata infettata dal virus prelevato da un paziente di Berlino. Mentre l’altra no. Entrambe sono state inizialmente sottoposte a 60° Celsius per un’ora, durante i quali, nel primo caso, non tutti i ceppi del patogeno sono stati distrutti e anzi, si sono pure riprodotti. Nel secondo invece sono morti tutti. La temperatura è stata quindi alzata a 92° per 15 minuti di esposizione. Durante questo esperimento la distruzione è stata totale, il virus è stato finalmente stroncato. I protocolli che sono stati usati durante i test sono gli stessi già utilizzati con altri virus, come per esempio l’Ebola. Queste procedure prevedono infatti di riscaldare ad alte temperature il virus per un'ora per neutralizzarne il potere infettivo.
Il virus muore a 90 gradi per 15 minuti. In questo caso sono bastati quindici minuti a più di novanta gradi. Secondo lo studio, il coronavirus può resistere fino a due giorni sui vestiti, e solo il lavaggio a 92 gradi, per 15 minuti, è stato in grado di ucciderlo completamente. Se lo studio dovesse venire validato farebbe cadere completamente l’idea che il coronavirus possa sparire con l’arrivo della bella stagione. Del resto in proposito c’erano già stati pareri discordanti e molti virologi avevano parzialmente smentito la possibilità che questo possa realmente avvenire.
Francesco Rigatelli per La Stampa il 17 marzo 2020. «Il coronavirus si indebolirà col passare del tempo e diventerà meno contagioso. E’ l’unica maniera che ha per sopravvivere. E il virus ha questa intelligenza». Elisa Vicenzi lo ha studiato per la Sars, «che è diversa, ma si è attenuata per durare» e dalla Suina alla Zika non c’è malattia che non sia passata dal suo laboratorio di capo dell’Unità Patogenesi virale e Biosicurezza del San Raffaele. Ora guida con Alberto Mantovani, direttore scientifico dell’Humanitas, una squadra sul coronavirus finanziata da Dolce e Gabbana.
Che ricerca state conducendo?
«Contro il Sars-CoV2, questo il nome scientifico del virus, vogliamo approfondire il ruolo dell’immunità innata, che è costituita da molte componenti sia cellulari sia del sangue e di altri tessuti e fluidi corporei, ed è la prima difesa dell’organismo contro i virus. Si tratta di un sistema che agisce rapidamente, a differenza dell’immunità specifica dei linfociti che per produrre anticorpi impiegano settimane. Il nostro progetto si concentra su alcune molecole dell’immunità innata, scoperte dal Professor Mantovani, e considerate antenati degli anticorpi, che potrebbero prevenire l’infezione del coronavirus».
Oltre al vostro, a che punto sono gli studi per debellare la malattia?
«La scienza si sta concentrando sulle molecole in grado di prevenire l’infezione o inibire la replicazione virale. In particolare, su farmaci già in uso nella pratica clinica come nella terapia dell’Hiv, che hanno dimostrato qualche efficacia contro il coronavirus, oltre alla ovvia ricerca di un vaccino».
Quest’ultimo chi ha più probabilità di trovarlo?
«Difficile predirlo, anche perché il ruolo degli anticorpi nella protezione o nell’eliminazione del virus non è ancora ben noto. Al National Institutes of health di Bethesda negli Stati Uniti stanno lavorando e lo Spallanzani di Roma collabora con il grande esperto Rino Rappuoli».
Cosa si è capito finora del coronavirus?
«E’ stata risolta la struttura tridimensionale della proteina virale che lega il recettore specifico sulle cellule bersaglio dell’apparato respiratorio. Conoscendo questo legame si possono cercare le molecole, come gli anticorpi, che possono interferire all’entrata del virus nelle cellule».
E’ stato escluso il complottismo che si tratti di un prodotto da laboratorio sfuggito di mano?
«Sì, perché non esiste niente di simile da cui partire. L’origine più probabile è una delle 1200 specie di pipistrello, quella a ferro di cavallo. Con un probabile ospite intermedio, che secondo il consorzio di ricerca Next strain, ha la stessa sequenza genetica del pangolino, un formichiere utilizzato dalla medicina cinese».
Ci sono regole utili per evitare il virus?
«Oltre a seguire le regole bisogna ricordare che la paura è nemica della salute, perché genera stress e indebolisce il sistema immunitario. Sull’alimentazione le vitamine come la B12 o la D, che viene col sole, sono fondamentali. Una dieta varia e ricca di vitamina C aiuta. Vale la regola delle cinque porzioni di frutta o verdura al giorno».
Si fa fatica a seguire il senso del contagio, che idea si è fatta?
«Una sfortunata catena d’infezione iniziata da un asintomatico o con sintomi sottovalutati. Sono questi ultimi a preoccuparmi, perché continuano a trasmettere il virus».
Che crescita dei contagi prevede?
«E’ una situazione complessa e ancora in evoluzione, ma le cose dovranno andare peggio prima di andare meglio e il caldo non è detto che aiuti».
E’ vero che ha un andamento trifasico e nella terza settimana si aggrava?
«Può avere un’evoluzione grave e diventare polmonite. Difficile che un under 60 muoia però. E per gli anziani molto dipende dalle cure mediche».
Bisognava quarantenare chi veniva dalla Cina da subito?
«Bloccare i voli diretti con la Cina non è bastato, anzi potrebbe aver aumentato le persone che hanno fatto scalo e sono arrivate in Italia senza controllo con un effetto boomerang».
A livello storico queste epidemie sono in aumento o sono un caso?
«Iniziano negli anni ’80 con l’Hiv, poi c’è una pausa e si intensificano: nel 2003 la Sars, nel 2005 l’Aviaria, nel 2009 la Suina, nel 2016 Zika e ora questa. Tutte di origine animale. Il mondo è più collegato e in Asia o in Africa la sovrappopolazione altera lo spazio della natura con commistioni tra uomo, animali domestici e selvatici. Cambiamenti climatici e sottosviluppo fanno il resto».
Coronavirus, l'infettivologo Bassetti: misure governo eccessive? "Forse sì". Le Iene News il 28 febbraio 2020. Il coronavirus è poco più grave di un’influenza o è un’infezione gravissima? Si può morire solo a causa di questo virus? L’infettivologo Matteo Bassetti risponde alle domande che ci avete mandato sul coronavirus. E insieme facciamo qualche riflessione sul panico che ha scatenato. “Chi dice che il coronavirus è una malattia infettiva gravissima dice delle balle”. A parlare è Matteo Bassetti, il direttore della clinica di malattie infettive di Genova, che ha risposto alle domande che in tantissimi ci avete fatto sulla pagina nostra Facebook e Instagram e che Giulia Innocenzi gli ha fatto durante la puntata di Iene.it: aspettando Le Iene. Tra chi dice che il coronavirus è poco più grave di un’influenza e chi dice che la situazione è gravissima, con chi sta? “Chi dice che è gravissima dice una balla. Io rispondo con i numeri: in Cina su 73mila casi l’80-85% hanno avuto forme lievi o medio lievi, il 10-15 % forme gravi e solo il 5 % forme gravissime. Il coronavirus non ha niente a che vedere con la Sars, che aveva una mortalità del 10%”. “È un virus di fronte al quale noi non abbiamo un sistema immunitario pronto, ma resta un virus affrontabile dal nostro sistema sanitario. Dobbiamo scendere di livello rispetto a tutto questo allarmismo”. E in questo senso, secondo Bassetti, il numero di tamponi che l’Italia ha fatto per controllare chi fosse contagiato ha contribuito a renderci il terzo paese al mondo per numero di infetti. “Si è deciso di fare tantissimi tamponi. Cioè noi abbiamo preso non solo quelli che avevano i sintomi, ma anche i loro contatti e quelli che erano del tutto asintomatici. Abbiamo tolto un coperchio. Ma questa strategia è stata usata anche da altri paesi come Francia o Germania? No! Pure loro avevano dei casi, ma non hanno fatto come noi, non sono andati a tamponare tutti, altrimenti non avrebbero 16 casi!”. Ma partiamo con le domande che arrivano dai nostri utenti. Sonia chiede: “Se una persona usa sempre la mascherina e i guanti, prende ugualmente il coronavirus?”. “La mascherina classica, ovvero quella chirurgica, serve a poco”, risponde l’infettivologo. “Bisogna usare quella specifica. Poi attenzione perché hanno una durata di qualche ora come capacità filtrante. Inoltre a volte metterla porta a comportamenti lassisti di altro tipo: della serie ‘ho la mascherina quindi non mi lavo le mani’. Mentre la cosa più importante da fare è proprio questa: lavarsi le mani”. Davide chiede: “Una persona sana può morire a causa del coronavirus?”. In effetti i casi di decessi che sono stati registrati finora sono di persone tendenzialmente anziane e con altre patologie. “È una domanda a cui non è facile rispondere. L’influenza, che viene paragonata al coronavirus, può uccidere le persone sane e questo appunto può succedere anche con il coronavirus. Per quanto riguarda l’influenza stagionale abbiamo tra i 5 e gli 8mila decessi l'anno, che variano da quelli per l’influenza a quelli con l’influenza. Ogni anno in Italia noi abbiamo centinaia di casi gravi, influenze che finiscono in rianimazione. L’influenza non è una malattia banale: quando dico che il coronavirus è simile all’influenza quindi non lo sto banalizzando”. Vale chiede: “Come tutti i virus invernali, anche il coronavirus sparirà con l’arrivo della bella stagione?”. “È difficile dare previsioni”, dice l’infettivologo. “La Sars è arrivata in inverno ed è sparita a giugno. Ma non è sparita per il caldo, bensì per le misure di contenimento. Il coronavirus sparirà nel momento in cui le misure di contenimento avranno effetti positivi, fino a quel giorno il coronavirus ci farà compagnia come ci fa compagnia il virus influenzale”. Di fronte a queste dichiarazioni la domanda sorge spontanea: le misure del governo sono eccessive? “Secondo me probabilmente sì. Siamo di fronte a un virus che ha una letalità talmente bassa che io faccio veramente fatica a capire tutto questo”. E continueremo a parlare di coronavirus anche nella prossima puntata di Iene.it: aspettando Le Iene, in streaming dalle 20.45 ogni martedì e giovedì sulla pagina Facebook de Le Iene, iene.it e mediasetplay.it.
"Il virus resta fino a quattro giorni", la scoperta sulle mascherine. In uno studio pubblicato sul proprio sito ufficiale, l'Istituto superiore di sanità affronta l'argomento mascherine, svelando quanto il Coronavirus sia in grado di resistere sulla loro superficie. Federico Garau, Giovedì 21/05/2020 su Il Giornale. Usare le mascherine, oppure no? Quanto ci proteggono in realtà dal rischio di contrarre il Covid-19? Queste sono soltanto alcune delle domande formulate dagli italiani in questi lunghi giorni di emergenza Coronavirus. Adesso che le misure di lockdown sono state allentate, con il conseguente avvio della Fase 2 ed il graduale ritorno alla normalità, è più che mai fondamentale saper utilizzare i dispositivi di protezione individuale indispensabili per diminuire il pericolo di contagio. In questi mesi sono state molteplici le opinioni degli esperti: se da un lato alcuni hanno sconsigliato l'utilizzo delle mascherine, ritenendole del tutto inutili se indossate da persone sane, dall'altro in molti hanno raccomandato il loro utilizzo, specialmente negli spazi chiusi. Deciso a fare chiarezza, l'Istituto superiore di sanità (Iss) ha affrontato l'argomento in uno studio dal titolo "Raccomandazioni ad interim sulla sanificazione di strutture non sanitarie nell'attuale emergenza Covid-19" pubblicato sul proprio sito ufficiale. Nel documento, dove si trattano varie tematiche che vanno dalla pulizia di luoghi e superfici, con tanto di descrizione dei detergenti e dei disinfettanti da impiegare, fino alle varie procedure di sanificazione a disposizione, si parla anche di mascherine, caldamente consigliate nella Fase 2. Il gruppo di ricerca si è particolarmente interessato al tempo di permanenza del virus sui dispositivi, una volta entrato in contatto con essi. Il risultato è sconcertante. Sulla carta il Coronavirus è in grado di resistere al massimo 30 minuti, sui tessuti e sul legno un giorno, su banconote e vetro 2 giorni, ma sulle mascherine protettive può restare dai 4 ai 7 giorni. Necessario fare un distinguo. Dallo studio è emerso che il Covid-19 può infettare lo stato interno delle mascherine chirurgiche fino a 4 giorni, mentre lo strato esterno può restare contaminato fino a 7 giorni. Per questa ragione, dunque, è importante essere scrupolosi. "I dati riportati sono il frutto di evidenze di letteratura scientifica, ma vanno declinati in base alle situazioni ambientali. Ad esempio, i Coronavirus resistono meglio a temperature basse e in ambienti umidi. Il fatto che sopravvivono, inoltre, non significa di per sé che trasmettano la malattia: se ci sono poche particelle virali, infatti, la carica infettante è minore", ha spiegato a Tgcom24 il professor Paolo D'Ancona, epidemiologo dell'Iss. "Purtroppo, però, non si conosce quale sia la dose minima per infettare, anche perché dipende dalle difese immunitarie dei singoli individui. Pertanto, bisogna stare sempre molto attenti", ha aggiunto. È molto importante, ha proseguito il medico, saper trattare nel modo giusto i dispositivi di protezione, una volta utilizzati. "Le mascherine lavabili vanno usate una volta sola e poi messe subito in lavatrice, senza poggiarle sui mobili. Quelle monouso vanno gettate nella raccolta indifferenziata subito dopo l'utilizzo. In entrambi i casi vanno toccate solo sugli elastici, lavandosi prima e dopo le mani. Attenzione infine a non gettarle a terra, il rischio infettivo è minimo ma l'impatto sull'ambiente è alto", ha dichiarato. Quanto alle procedure di pulizia di oggetti e/ambienti, il documento dell'Iss tratta anche le varie metodologie, che vanno dalla più semplice detersione fino alla sanificazione, alla disinfezione ed alla sterilizzazione. Si tratta di termini decisamente più noti in ambito sanitario. Ciò che è importante tenere a mente è che ogni procedura ha inizio dalla detersione, che consiste nel rimuove lo sporco e parte dei microrganismi sia attraverso un'azione meccanica che con l'utilizzo del detergente. Si procede quindi alla sanificazione, un "complesso di procedimenti e operazioni di pulizia e/disinfezione che comprende anche il mantenimento della buona qualità dell'aria con il ricambio in tutti gli ambienti". Con disinfezione, invece, si intende il trattamento di oggetti e superfici con prodotti studiati per abbattere la carica microbica. Per il trattamento delle mascherine chirurgiche, il Koch Institute ha proposto come soluzione il vapore secco (calore) per 30 minuti.
“Il Covid resiste fino a 28 giorni sulle superfici”. La verità sullo studio shock. Andrea Walton su Inside Over il 12 ottobre 2020. Il virus Sars-Cov-2 può sopravvivere fino a 28 giorni su alcuni tipi di superfici e materiali come le banconote, gli schermi dei telefoni cellulari e l’acciaio inossidabile. La scoperta (apparentemente allarmante) è stata fatta dalla Commonwealth Scientific and Industrial Research Organisation (Csiro), l’agenzia governativa australiana responsabile della ricerca scientifica, che ha condotto una serie di esperimenti al buio (i raggi ultravioletti uccidono il virus rapidamente) e ad una temperatura di 20 gradi celsius. Secondo il Dottor Larry Marshall, a capo del Csiro, “è importante riuscire a scoprire, con precisione, quanto il virus riesca a sopravvivere sulle superfici per predirne e mitigarne la diffusione”. Non tutti sono della stessa idea. Il professor Ron Eccles, ex direttore del Common Cold Centre, ha affermato che lo studio creerà “un timore eccessivo nella popolazione” chiarendo come “nell’esperimento non sia stato usato muco umano fresco (il vettore più efficace) come veicolo di diffusione del virus”. Le conclusioni della ricerca sarebbero, per il professor Eccles, non realistiche ed esagerate dato che “i virus possono sopravvivere per ore (e non per giorni) all’interno del muco umano sulle superfici”.
Affermazioni controverse. I ricercatori del Csiro ritengono che la capacità del Sars-Cov-2 di resistere a basse temperature sull’acciaio potrebbe riuscire a spiegare una serie di focolai scoppiati all’interno di mattatoi e ghiacciaie. Migliaia di persone si sono infettate, in tutto il mondo, dopo essere state impiegate presso abbattitori ed impianti di lavorazione della carne. Gli autori dello studio hanno inoltre ipotizzato che il virus possa sopravvivere sul cibo fresco e su quello congelato. Un’evidenza, quest’ultima, in contrasto con quanto dichiarato dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) in materia. L’ente sanitario ha infatti chiarito come “non ci siano casi confermati di trasmissione del Covid-19 attraverso il cibo o lo scatolame”. Un rapporto della International commission on microbiological specifications for foods (Icms), un ente che da decenni conduce test di sicurezza alimentare, ha confermato la tesi dell’Oms (assenza di prove in materia) ed anche secondo la Food and Drug Administration americana, l’agenzia federale che si occupa della regolamentazione di farmaci, terapie sperimentali ed alimenti, non ci sono rischi di contrarre il Covid-19 da cibo ed imballaggi.
Le altre scoperte in materia. Nel marzo del 2020 una ricerca pubblicato sul New England Journal of Medicine aveva analizzato la capacità di sopravvivenza del Sars-CoV-2 in aerosol e sulle superfici. Il virus era risultato più stabile su superfici quali plastica e acciaio inossidabile, rimanendo vitale fino a 72 ore dopo l’applicazione, pur con una notevole riduzione della sua carica. Sul rame, invece, la sopravvivenza non era andata oltre le quattro ore mentre sul cartone questo intervallo si era prolungato fino a toccare le 24 ore. Gli studi in materia ricordano come uno degli strumenti più importanti per prevenire la diffusione del Sars-CoV-2 sia il frequente (non ossessivo) lavaggio delle mani e possibilmente anche di alcuni oggetti di uso quotidiano. Un’altra ricerca pubblicata successivamente su Physic of fluids ha invece dimostrato come una temperatura più elevata faccia asciugare più rapidamente la gocciolina di saliva che trasporta il virus riducendone la capacità di sopravvivenza. Secondo questa indagine una maggiore umidità aiuterebbe il virus a resistere maggiormente sugli oggetti. Più in generale bisogna comunque ricordare come il contagio da superfici non sia tra le principali vie di trasmissione del virus, che la probabilità di contrarlo da un oggetto sia bassa e che occorra mettersi in bocca o portare sul viso mani contaminate affinché questo avvenga. Il rischio di fondo è che alcune persone, messe psicologicamente alla prova dalla pandemia o sofferenti a causa di patologie psichiatriche, possano sviluppare fobie o timori ossessivi (ed eccessivi) in materia di Covid-19. Fobie che potrebbero rivelarsi più persistenti e dalle conseguenze più gravi dello stesso Covid-19 e che potrebbero provocare problemi psicologici anche negli anni a venire.
Coronavirus lo studio: “Resta 24 ore sul cartone, tre giorni sulla plastica”. Laura Pellegrini l'11 marzo 2020 su Notizie.it. Il coronavirus è in grado di rimanere sulle superfici per diverse ore: uno studio distingue diversi materiali e spiega come ridurre il contagio. Mentre nell’aria il coronavirus è in grado di sopravvivere per diverse ore, quanto può stare su materiali in carta, cartone e plastica? Lo ha rivelato uno studio del National Institutes of Health, della Princeton University e della University of California, Los Angeles sulle superfici. La ricerca è stata finanziata dal governo degli Stati Uniti e dalla National Science Foundation. Le scoperte, inoltre, rispondono ai dubbi di moltissime persone. Il coronavirus resta 24 ore sul cartone e tre giorni sulla plastica: questo ha rivelato lo studio del National Institutes of Health, della Princeton University e della University of California, Los Angeles sulle superfici. Molte persone, infatti, nutrivano dubbi sulla sopravvivenza del Covid-19 su certi tipi di materiali. Ora la scienza ha dato una risposta. L’importanza di una corretta igiene delle mani ma anche delle superfici della propria casa è essenziale per prevenire il contagio da coronavirus. Secondo la ricerca, infatti, il virus rimane nell’aria fino a tre ore, mentre resta fino a quattro ore sul rame e fino a 24 ore su cartone. Infine, il Covid-19 rimane fino a due o tre giorni su plastica e acciaio inossidabile. Julie Fischer, professoressa di microbiologia alla Georgetown University, ha dichiarato: “È uno studio solido che risponde alle domande poste dalle persone”. “Quello che dobbiamo fare – ha poi aggiunto – è lavarci le mani, essere consapevoli che le persone infette possono contaminare le superfici” e non toccarci il naso, la bocca o gli occhi.
L’avvertimento degli esperti: “Non teme il caldo estivo”. Asia Angaroni il 23/03/2020 su Notizie.it. Secondo gli esperti non vi è alcuna relazione statistica tra il Coronavirus e il caldo estivo: il Covid-19 non teme le alte temperature. Con nuovi e più restrittivi provvedimenti da parte del governo italiano, si cerca di contenere l’emergenza Covid-19, diminuendo i contatti, proteggendo i cittadini e apportando, si spera, un calo dei contagi. I numeri, nonostante la lieve flessione registrata, sono ancora alti e drammatici. In molti sperano che l’arrivo della bella stagione aiuti a debellare definitivamente il virus, permettendo al nostro Paese (e al resto del mondo) di risollevarsi da mesi bui e difficili, tornado a condurre la propria vita di sempre. Tuttavia, in seguito a una serie di studi condotti, gli esperti hanno fatto sapere che tra il Coronavirus e il caldo estivo non vi sarebbe alcuna relazione statistica. Infatti Massimiliano Fazzini, climatologo dell’Università di Camerino e Coordinatore del Gruppo di esperti sul Rischio Climatico della Società Italiana di Geologia Ambientale (Sigea), ha avvertito: “Il Coronavirus non terrebbe conto delle variazioni climatiche. Questo è il risultato di uno studio in costante evoluzione”.
Coronavirus non teme il caldo estivo. Matteo Bassetti, direttore di Malattie infettive dell’ospedale San Martino di Genova, ha ricordato che nel 2014 un virus paragonabile a quello odierno contagiò numerosi cammelli in Medio Oriente. In quell’occasione, il contagio ci fu “in condizioni climatiche non fredde”. A spiegare la mancata relazione tra Coronavirus e alte temperature è il climatologo Massimiliano Fazzini. La conferma è arrivata in seguito agli studi avviati il 20 gennaio scorso. È stata testata prima l’area di Wuhan, epicentro della pandemia, poi zone particolarmente fredde e calde del globo e, infine, Lombardia e Veneto, i focolai italiani del Covid-19. A Wuhan, nell’intero mese di febbraio parallelamente al periodo in cui è stato registrato il picco di contagi, la temperatura è stata fredda. Tuttavia, i dati erano superiori alla media. Anche le precipitazioni sono state inferiori rispetto alle medie stagionali. Alla luce di simili riscontri. Gli esperti hanno dichiarato: “Queste anomalie non sono tali da poter amplificare il segnale epidemiologico”. Inoltre, il rapporto tra l’andamento del contagio giornaliero e quello termico ha come risultato coefficiente di correlazione pari a 0,11, un dato “statisticamente insignificante”. “Il quadro del clima non ha influito in alcun modo sull’evoluzione dell’epidemia”, è la prima conclusione a cui sono giunti gli studiosi. Anche a marzo in Cina, dove il virus sembra essere debellato ma si teme per i cosiddetti “contagi di ritorno”, non si osservano anomalie termiche significative “tali da poter eventualmente giustificare un rapido calo della virulenza dovuto al segnale termico”. Dal 20 febbraio 2020 al 18 marzo, gli esperti hanno realizzato lo studio prendendo in esame l’area del lomardo-veneto, la più colpita dall’emergenza Covid-19. Sono stati analizzati i dati termici, pluviometrici e del vento di dieci stazioni nei tre focolai principali di diffusione (aree di Codogno, Nembro e Vo’). Stesse considerazioni effettuate in altre quattro province lombarde fortemente interessate dal virus. Si tratta, in tal caso, di Bergamo, Brescia, Cremona e Pavia.
Lo studio in Italia. La conclusione è analoga a quella emersa a Wuhan. Infatti, i coefficienti di correlazione tra la diffusione giornaliera del virus e i parametri meteoclimatici “non hanno affatto evidenziato alcun rapporto statistico”. Dal punto di vista meteo-ambientale, non sussiste una relazione necessaria e sicura tra le variazioni climatiche e l’evoluzione epidemiologica del Coronavirus. A farlo sapere è il professor Fazzini. Massimiliano Fazzini ha avvertito: “Da più parti si sono fatte svariate allusioni sull’incidenza della variabile temperatura evidenziando che il virus potesse perdere virulenza all’aumentare o al sensibile diminuire di questo parametro. Alcuni divulgatori hanno curiosamente evidenziato che il Covid-19 morirebbe oltre i 27 gradi centigradi di temperatura. Per ora l’indicazione non è confermata dai nostri rilevamenti. Anche le variabili del soleggiamento e del vento non danno indicazioni in questo senso”.
Il virus colpisce in 14 minuti: ecco come. Una normale conversazione potrebbe essere un veicolo per la trasmissione del virus. Gli ambienti chiusi sono i luoghi peggiori. Valentina Dardari, Venerdì 15/05/2020 su Il Giornale. Anche parlare con un collega in ufficio potrebbe portare a trasmettere il coronavirus da una persona all’altra. Le goccioline prodotte durante la conversazione possono rimanere diffuse nell’aria fino a 14 minuti. Gli ambienti chiusi sono i più pericolosi. Fin dall’inizio ci è stato detto di evitare di stare accanto a soggetti che starnutiscono o tossiscono, perché il rischio di contagio, dovuto alle goccioline, i droplets, che vengono prodotte durante queste azioni è molto alto.
Anche una chiacchierata può essere pericolosa. Come riportato dal Corriere, una nuova ricerca pubblicata su Pnas, spiega come le goccioline in questione possano rimanere nell’aria tra gli 8 e i 14 minuti anche durante una normale chiacchierata. Stiamo parlando di migliaia di droplets di dimensioni superiori al millimetro. In ambienti chiusi, come uffici, bar, negozi, abitazioni, persone asintomatiche o con sintomi lievi possono comunque infettare chi hanno accanto. Lo studio è stato condotto in laboratorio, dove però non si può esattamente capire la quantità di coronavirus necessario affinché avvenga il contagio. Questa ricerca comunque sottolinea una volta di più l’importanza di utilizzare le mascherine e mantenere la distanza di sicurezza al fine di evitare ogni possibile rischio. I droplets sono quelle goccioline respiratorie che emettiamo da naso e bocca, e che, per la forza di gravità, cadono verso il basso andandosi a posare su tavoli, indumenti, pulsanti. Insomma, su ogni superficie presente. Chi le tocca può poi contagiarsi portando semplicemente le mani al volto. Possono anche rimanere sospese nell’aria ed essere inalate da altre persone.
2.600 goccioline prodotte in un solo secondo. Gli studiosi del Mit, il Massachusetss Institute of Tecnology, hanno condotta una ricerca, poi pubblicata su Jama, secondo la quale uno starnuto produce un insieme di droplets che possono raggiungere i 6-8 metri di distanza. Le goccioline più grandi si depositano più velocemente, mentre quelle più piccole evaporano e vengono chiamate aerosol. Un colpo di tosse ne produce circa 3mila, ancor peggio gli starnuti che arrivano a circa 40mila. Durante uno studio condotto dai ricercatori del National Institute of Diabetes and Digestive and Kidney Diseases dell’Università della Pennsylvania, è stato chiesto a un gruppo di volontari di dire più volte, nella parte aperta di una scatola di cartone, le parole “stay healthy”, ovvero rimanere in salute. I laser usati durante l’esperimento hanno dimostrato che mentre venivano pronunciate le parole, in un solo secondo venivano emesse circa 2.600 goccioline. All’interno delle quali vi potrebbe benissimo essere il Covid-19. Il team di ricerca, guidato da Philip Anfinrud e Adrian Bax, ha stimato in circa 4 micron la grandezza media delle goccioline sospese nell’aria, che si sono rimpicciolite dal 20 al 34% a causa dell’evaporazione della parte acquosa, rispetto ai 12-21 micron di quelle appena emesse. Se poi si parla ad alta voce si emettono ancora più goccioline e di dimensioni maggiori. In un minuto di conversazione un soggetto positivo può andare a produrre all’incirca 1000 goccioline contenenti il virus che possono permanere nell’aria dagli 8 ai 14 minuti. Gli studiosi hanno spiegato che “queste osservazioni confermano che esiste una sostanziale probabilità che il parlare normale causi la trasmissione di virus nell’aria in ambienti chiusi”. Ancora non si sa se tutte le goccioline emesse siano realmente infette, oppure se vi debba essere al loro interno una minima quantità di virus perché una persona venga contagiata. Nel dubbio, meglio comunque evitare di parlare vicini, mantenendo la distanza di sicurezza di un metro e mezzo. Meglio se con mascherina e in un ambiente aperto.
Coronavirus, in laboratorio sopravvive nell'aria fino a tre ore. Cosa fare negli ambienti chiusi. Studio di un team di virologi americani analizza la vita del virus. Gli esperti: resta valida la distanza di sicurezza di 1-1,5 metri, portata che in genere uno starnuto o un colpo di tosse non superano. Ma in ambienti affollati e chiusi, come per chi vive con un positivo, anche quando si rispetta questa distanza sarebbe bene aprire la finestra. Negli ascensori uno per volta. Elena Dusi il 22 Marzo 2020 su La Repubblica. Pensavamo che il virus sopravvivesse nell'aria solo pochi minuti. I nuovi dati ci invitano a un po' più di cautela. Il primo esperimento con l'attuale coronavirus, per capire qual è la sua sopravvivenza al di fuori dell'organismo, è stato condotto dagli scienziati del laboratorio di virologia del National Institute of Allergy and Infectious Diseases: l'Istituto americano per le malattie infettive. I risultati sono stati pubblicati sul New England Journal of Medicine, una rivista scientifica, il 17 marzo. Spruzzato in aerosol in condizioni di laboratorio, il coronavirus sopravvive fino a tre ore. Tra il momento in cui viene nebulizzato e lo scadere delle tre ore, la sua quantità si è ridotta molto (diventa la metà nel giro di un'ora). Ma la sopravvivenza resta comunque superiore alle nostre previsioni. Finora le stime si basavano sull'esperienza di altri virus che si trasmettono da una persona all'altra a bordo di goccioline (droplets) emesse respirando, parlando, tossendo o starnutendo, che decadono negli giro di pochi secondi. Resta valida la distanza di sicurezza di 1-1,5 metri, portata che in genere uno starnuto o un colpo di tosse non superano. "Ma in una stanza in cui resti a lungo una persona infetta, il suo respiro continua a concentrare particelle virali nell'aria. In ambienti affollati e chiusi, anche quando si rispetta la distanza di un metro, sarebbe bene aprire la finestra" spiega Carlo Federico Perno, virologo dell'università di Milano. Carlo Signorelli, professore di Igiene al San Raffaele di Milano, si chiede se questa nuova osservazione possa avere delle implicazioni sugli impianti di aerazione degli ospedali, soprattutto quelli di vecchia data. "In ambienti dove si concentrano molti malati, potrebbe rendersi necessario sterilizzare in qualche modo l'aria che passa nei condotti, per evitare che vi si accumulino quantità di virus che possono essere rischiose". Non è una certezza, solo un'ipotesi, che era stata avanzata anche nel caso della nave da crociera Diamond Princess, attraccata a febbraio per la quarantena a Yokohama, e dove l'epidemia era dilagata a causa dei molti malati concentrati in spazi angusti e, almeno in teoria, segregati nelle cabine. "Avanzare una supposizione di questo tipo è facile, dimostrarla è molto più arduo, ma ci stiamo ponendo il problema" spiega Signorelli. E al di fuori degli ospedali? L'attenzione per gli ambienti chiusi vale per le persone che restano in casa, se un membro della famiglia è positivo. Negli ascensori, dove non si dovrebbe entrare più di uno alla volta. "Altrimenti sarebbe difficile perfino rispettare la distanza di un metro", sottolinea Signorelli. Negli ambienti affollati: "Lì, non all'aperto, può aver senso indossare la mascherina", suggerisce Perno. Che conclude: "Per quanto riguarda le condutture, dalle quali sappiamo che possono dipendere le epidemie di legionella, normalmente nelle case non ci sono. Ma potrebbero essere installate in alcuni luoghi di produzione, dove si usano impianti di condizionamento centralizzati".
Giulia Marchina per "open.online" il 24 marzo 2020. Il Coronavirus è in grado di sopravvivere per un tempo relativamente lungo in ambienti esterni, stando a uno studio dei ricercatori americani dei Centers for Disease Control and Prevention, diffuso lunedì 23 marzo. Il lavoro ha dimostrato che il virus ha resistito per un massimo di 17 giorni a bordo per esempio della nave da crociera Diamond Princess, all’interno delle cabine. Il report ha esaminato le misure di contenimento prese dal governo giapponese e statunitense per contenere i contagi da Covid-19 sulla nave Diamond Princess e sulla nave Grand Princess in California. I passeggeri e l’equipaggio di entrambe le navi sono stati messi in quarantena a bordo dopo che gli ospiti precedenti, che non avevano avuto alcun sintomo a bordo di ciascuna delle navi, sono risultati positivi dopo l’attracco. Il virus «è stato identificato su una varietà di superfici in cabine di passeggeri infetti sia sintomatici che asintomatici fino a 17 giorni dopo che le cabine erano state lasciate libere sulla Diamond Princess ma prima che fossero condotte le procedure di disinfezione», hanno scritto i ricercatori. Questo però non significa che la trasmissione sia avvenuta tramite superfici esterne. Lo studio ha voluto dimostrare come «la trasmissione avveniva attraverso più viaggi di più navi». Partendo da una data, il 17 marzo, i ricercatori hanno notato che erano in corso almeno 25 viaggi con navi da crociera con casi confermati di Covid-19 e che questi sono stati rilevati durante o dopo la fine della crociera. Il 46,5% delle infezioni, cioè quasi la metà, a bordo della Diamond Princess erano asintomatiche quando sono state testate. Solo qualche giorno fa, i ricercatori del National Institutes of Health, CDC, UCLA e Università di Princeton hanno scoperto che il coronavirus può durare fino a tre giorni su plastica e acciaio inossidabile. Lo studio ha anche scoperto che la quantità di virus rimasta su quelle superfici è diminuita nel tempo.
· L’Identificazione del Virus.
Helsinki, i cani annusano chi ha il coronavirus: "Precisi quasi al cento per cento". La Repubblica il 24 settembre 2020. Da mercoledì 23 settembre l'Università di Helsinki ha dato il via ad un esperimento, che durerà quattro mesi, all'Aeroporto internazionale della capitale finlandese, dopo gli incoraggianti risultati in laboratorio. I cani, già usati per rilevare malattie come il cancro, attraverso il sudore dei viaggiatori rilevano la presenza del coronavirus, con un campione molecolare molto più piccolo rispetto ai test, come conferma anche uno studio francese. "Fanno la stessa cosa dei test PCR (Polymerase chain reaction) con una precisione quasi al cento per cento e con un'importante differenza - dice Anette Kare, della società che addestra i cani per conto dell'Università - i cani riescono a individuare la positività anche cinque giorni prima che si manifestino i sintomi". Esperimenti analoghi sono in corso anche in Australia, Francia, Germania e Gran Bretagna, mentre l'aeroporto di Dubai ha iniziato la sperimentazione nell'hub internazionale.
Da video.lastampa.it il 17 marzo 2020. I ricercatori del Peter Doherty Institute hanno osservato le capacità dell'organismo di combattere il COVID-19 e guarire dall'infezione. L’istituto di Melbourne ha mappato le risposte immunitarie di una paziente e poi guarita. Si tratta di una donna sui 40 anni tornata da Wuhan in Cina. I dati raccolti permetteranno di valutare l'efficacia di possibili vaccini. "Abbiamo esaminato l'intera gamma della risposta immunitaria della paziente, utilizzando le conoscenze acquisite in molti anni nello studio delle risposte immunitarie nei pazienti ricoverati con influenza", scrivono gli studiosi. "Dopo tre giorni, abbiamo individuato l'emergenza di una forte popolazione di cellule immunitarie, un segnale di recupero già individuato durante l'infezione influenzale stagionale. Abbiamo quindi previsto che la paziente era in via di guarigione, e così è stato, dimostrando che anche se il COVID-19 è causato da un nuovo virus, in una persona sana il recupero clinico è simile a quanto abbiamo osservato nella comune influenza" concludono i ricercatori. Ora sperano di espandere lo studio a livello internazionale per capire perché alcune persone muoiono e altre no e sviluppare risposte rapide anche a futuri virus emergenti.
Coronavirus, le immagini traumatiche della Tac dei primi due infettati. Pubblicato martedì, 17 marzo 2020 da Corriere.it. Sono immagini scioccanti quelle diffuse dai ricercatori dell’Istituto nazionale di malattie infettive Spallanzani di Roma in uno studio che verrà pubblicato sull’«International journal of infectious diseases». Sono le radiografie e le immagini della Tac dei polmoni appartenenti alle prime due persone risultate infette in Italia, due turisti cinesi in vacanza, e che dimostrano quanto può essere devastante il nuovo coronavirus. I due pazienti, un uomo di 67 anni e una donna di 65, erano in forma e in salute. Seguivano solo una terapia orale per tenere a bada l’ipertensione. Dopo aver riscontrato problemi respiratori e febbre, la coppia è stata sottoposta a test di laboratorio che hanno confermato l’infezione con il virus Covid19. Entrambi i pazienti hanno continuato ad aggravarsi fino a sviluppare la sindrome da distress respiratorio dell’adulto (la cosiddetta Ards). Ci sono voluti solo quattro giorni per arrivare all’insufficienza respiratoria e due giorni dopo entrambi i pazienti respiravano solo grazie a un ventilatore. Le prime radiografie effettuate sui pazienti mostrano «opacità del vetro smerigliato». Un primo importante riscontro nell’esatta definizione dei contorni della malattia ancora in parte sconosciuta.
Daniela Polizzi per corriere.it il 10 marzo 2020. Imprese della farmaceutica sempre più impegnate a dare supporto nella ricerca per trovare soluzioni per arginare la diffusione del Coronavirus. La mossa questa volta arriva da DiaSorin, multinazionale italiana della diagnostica in vitro, su sangue e tessuti, quotata in Borsa, che ha completato gli studi per supportare l’approvazione nell’Ue e negli Stati Uniti di un innovativo test molecolare per l’identificazione rapida del nuovo COVID-19. La notizia ha fatto correre il titolo in Borsa: a Piazza Affari le azioni dell’azienda farmaceutica guadagnano oltre l’11% a metà mattina.
Gli studi allo Spallanzani e al San Matteo. Gli studi dell’azienda che fa capo alla famiglia Denegri sono stati completati presso l’Ospedale Spallanzani di Roma ed il Policlinico San Matteo di Pavia e hanno consentito di formulare un test per ottenere risultati entro 60 minuti rispetto alle 5-7 ore attualmente necessarie con altre metodologie. Il test sarà commercializzato con marchio CE in Europa e presentato alla Food and Drug Administration per l’Emergency Use Authorization entro la fine di marzo 2020. L’azienda farmaceutica guidata da Carlo Rosa, ceo e azionista, aveva sviluppato questa tecnologia Mdx, originariamente sviluppata per fornire risposte diagnostiche rapide sia per uso militare che civile, e che oggi può contribuire per accelerare le diagnosi della malattia.. Ad oggi DiaSorin ha installato oltre 800 analizzatori LIAISON® MDX in grandi istituti ospedalieri europei e statunitensi per diagnosticare le infezioni influenzali stagionali oltre che una varietà di altre infezioni virali e batteriche per le quali il tempo di risposta risulta fondamentale per decidere il corretto trattamento di cura del paziente.
Semplicità di utilizzo. La tecnologia MDX, grazie alla rapidità nel fornire i risultati e alla semplicità di utilizzo, risulta ideale per valutare l’ammissione al ricovero ospedaliero del paziente, in una fase in cui la velocità è fondamentale. DiaSorin, inoltre, ritiene che tale tecnologia potrebbe aiutare notevolmente gli ospedali a decentralizzare i test per la diagnosi del Coronavirus e contribuire ad un significativo miglioramento dell’attuale processo di ricovero dei pazienti potenzialmente contagiosi. Il test di DiaSorin seguirà il protocollo raccomandato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità che mira ad analizzare diverse regioni del genoma virale per ridurre al minimo l’impatto di possibili mutazioni future.
Il virus. «“Ci siamo attivati non appena sono state rese pubbliche le informazioni sulla sequenza genetica del virus, collaborando con i Centri di Riferimento italiani e statunitensi per sviluppare test molecolari veloci e accurati per fronteggiare questa emergenza sanitaria. Abbiamo analizzato oltre 150 sequenze virali pubblicate oggi nel database mondiale delle banche genetiche e disegnato un test destinato a rilevare tutte le varianti attualmente conosciute del Coronavirus COVID-19”, ha dichiarato Giulia Minnucci, R&D Director Europe in DiaSorin. In linea con il proprio posizionamento quale “Specialista della diagnostica”, DiaSorin ha sempre mostrato il proprio impegno nel fornire una risposta tempestiva alle malattie infettive emergenti, come testimonia l’Emergency Use Authorization ottenuta per il kit Simplexa™ Influenza H1N1 (2009) e per il kit LIAISON XL Zika Capture IgM II. DiaSorin lavora a stretto contatto con le organizzazioni sanitarie mondiali e la Food and Drug Administration durante le situazioni di emergenza sanitaria, finalizzando il proprio impegno ad una migliore gestione del paziente grazie a risultati diagnostici rapidi, affidabili ed efficaci.
· Il test per la diagnosi.
Coronavirus, il test si può fare da privati: quanto costa, dove andare. Marco Bardesono il 25 marzo 2020 su Libero Quotidiano. Da sabato scorso il centralino del laboratorio di analisi Albaro di Genova squilla ininterrottamente. Cioè da quando, sul profilo Facebook della struttura, è stato pubblicato il comunicato relativo all' inizio, a partire da ieri, di analisi a pagamento per privati per diagnosticare il Covid 19. Analisi che si effettuano anche a domicilio al "prezzo politico" di 100 euro. Non è il classico tampone, ma un prelievo di sangue che successivamente subisce uno sceening attraverso un analizzatore immunologico. «Questo test viene effettuato - spiega la dottoressa Elisabetta Grillo, responsabile della struttura - non a pazienti asintomatici, ma ha chi ha le prime avvisaglie influenzali che possono nascondere il virus di Wuhan». Automatizzato - Al centro analisi Albaro telefonano da Genova e da fuori regione: «C' è chi è soltanto curioso e chiede informazioni, chi ne ha necessità e chi si prenota. Noi non eseguiamo le analisi se queste non vengono richieste dal medico di famiglia a fronte di chiari sintomi patiti dal paziente». Il test si basa su una tecnologia avanzata di chemiluminescenza e «dopo un periodo di validazione presso il nostro laboratorio - si legge nel comunicato dell' Albaro - risulta essere riproducibile, sensibile e specifico. A differenza dei test manuali, questo metodo è altamente automatizzato e risponde a tutte le caratteristiche di tracciabilità previste per una moderna indagine sierologica. Il prelievo può essere effettuato in qualsiasi momento della giornata senza alcuna conseguenza sulla qualità del risultato». Strutture affiancate - Il laboratorio consegnerà i referti ai pazienti dopo qualche ora. «Se un nostro paziente dovesse risultare con positività in corso - aggiunge il professor Giovanni Mieoli - se asintomatico dovrà restare a casa in isolamento, se invece presentasse i sintomi dovrà seguire l' iter già reso noto dalle autorità sanitarie.
Abbiamo deciso di offrire questa possibilità che è peraltro contemplata dal bando con cui Alisa (il sistema sanitario della Regione Liguria) sta cercando strutture private da affiancare al pubblico per svolgere questi esami». Dunque, il Laboratorio Albaro mette a disposizione della sanità pubblica, nel caso ciò fosse richiesto, macchinari, struttura e personale medico e paramedico. Una simile iniziativa si sta avviando in queste ore anche in Lombardia e Piemonte dove la multinazionale Cerba HealthCare Italia ha offerto, su richiesta delle autorità sanitarie, di eseguire test con i tamponi per individuare i casi di Covid -19. Il comparto privato potrebbe mettere a disposizione 5mila test al giorno, che si aggiungerebbero così ai 10mila eseguiti dalla sanità pubblica. «Ma non è pensabile - sottolinea Stefano Massaro, amministratore delegato di HealthCare Italia - fare uno screening di massa della popolazione in tempi utili. I test vanno eseguiti tempestivamente, ma seguendo protocolli di priorità individuati dalle autorità sanitarie».
Marco Bardesono per “Libero quotidiano” il 24 marzo 2020. Da sabato scorso il centralino del laboratorio di analisi Albaro di Genova squilla ininterrottamente. Cioè da quando, sul profilo Facebook della struttura, è stato pubblicato il comunicato relativo all' inizio, a partire da ieri, di analisi a pagamento per privati per diagnosticare il Covid 19. Analisi che si effettuano anche a domicilio al "prezzo politico" di 100 euro. Non è il classico tampone, ma un prelievo di sangue che successivamente subisce uno screening attraverso un analizzatore immunologico. «Questo test viene effettuato - spiega la dottoressa Elisabetta Grillo, responsabile della struttura - non a pazienti asintomatici, ma ha chi ha le prime avvisaglie influenzali che possono nascondere il virus di Wuhan». L' iniziativa del centro - diretto professor Giovanni Melioli, uno dei più noti virologi genovesi, già responsabile del laboratorio analisi dell' ospedale pediatrico Gaslini del capoluogo ligure - prima di essere attuata è stata condivisa con le autorità sanitarie della regione, e presto tale tecnologia sarà acquisita anche da centri privati di altre città. Laboratori di analisi di Milano, Torino e Bologna hanno annunciato l' operatività delle procedure entro pochi giorni. «Il test che proponiamo - aggiunge Elisabetta Grillo - è sul mercato già da tempo e prevede l' utilizzo di strumentazioni che noi abbiamo acquistato per primi e abbiamo sperimentato con successo. Il costo per il pubblico lo abbiamo contenuto al massimo ed è pressoché alla portata di tutti». Al centro analisi Albaro telefonano da Genova e da fuori regione: «C' è chi è soltanto curioso e chiede informazioni, chi ne ha necessità e chi si prenota. Noi non eseguiamo le analisi se queste non vengono richieste dal medico di famiglia a fronte di chiari sintomi patiti dal paziente». Il test si basa su una tecnologia avanzata di chemiluminescenza e «dopo un periodo di validazione presso il nostro laboratorio - si legge nel comunicato dell' Albaro - risulta essere riproducibile, sensibile e specifico. A differenza dei test manuali, questo metodo è altamente automatizzato e risponde a tutte le caratteristiche di tracciabilità previste per una moderna indagine sierologica. Il prelievo può essere effettuato in qualsiasi momento della giornata senza alcuna conseguenza sulla qualità del risultato». Il laboratorio consegnerà i referti ai pazienti dopo qualche ora. «Se un nostro paziente dovesse risultare con positività in corso - aggiunge il professor Giovanni Mieoli - se asintomatico dovrà restare a casa in isolamento, se invece presentasse i sintomi dovrà seguire l' iter già reso noto dalle autorità sanitarie. Abbiamo deciso di offrire questa possibilità che è peraltro contemplata dal bando con cui Alisa (il sistema sanitario della Regione Liguria) sta cercando strutture private da affiancare al pubblico per svolgere questi esami». Dunque, il Laboratorio Albaro mette a disposizione della sanità pubblica, nel caso ciò fosse richiesto, macchinari, struttura e personale medico e paramedico. Una simile iniziativa si sta avviando in queste ore anche in Lombardia e Piemonte dove la multinazionale Cerba HealthCare Italia ha offerto, su richiesta delle autorità sanitarie, di eseguire test con i tamponi per individuare i casi di Covid -19. Il comparto privato potrebbe mettere a disposizione 5mila test al giorno, che si aggiungerebbero così ai 10mila eseguiti dalla sanità pubblica. «Ma non è pensabile - sottolinea Stefano Massaro, amministratore delegato di HealthCare Italia - fare uno screening di massa della popolazione in tempi utili. I test vanno eseguiti tempestivamente, ma seguendo protocolli di priorità individuati dalle autorità sanitarie».
Coronavirus: test rapido per diagnosi Covid 19 in 5 minuti. In consegna alle strutture italiane. Si tratta di un prodotto che è stato iscritto al registro del ministero della Salute. Nelle Marche alcuni esemplari sono già stati forniti a diverse aree della sanità. La Repubblica il 24 Marzo 2020. Un test rapido per riscontrare l'eventuale contagio da coronavirus: il Rapid Test è di facile utilizzo, bastano poche gocce di sangue del paziente, il riscontro visivo arriva in 5 minuti e consente ai medici di conoscere subito la presenza del coronavirus Covid 19 nel paziente. Il kit è in consegna alle prime strutture ospedaliere italiane. Nelle Marche alcuni esemplari sono già stati forniti a diverse aree della sanità e il primo grande quantitativo è in arrivo per il Gruppo Kos-S.Stefano. Moltissimi altri ospedali da tutte le regioni d'Italia stanno prendendo contatti in queste ore. La fornitura arriva in Italia grazie alla Innoliving di Ancona, che ha stretto un accordo con la multinazionale Zhezhiang Orient Gene Biotech Co Ltd produttrice del "Rapid test per Covid 19 Mod. GCCOV-402a". Si tratta di un kit, regolarmente iscritto al ministero della Salute da Innoliving spa, corredato di una corposa sperimentazione clinica da parte di centri studi, ospedali e università cinesi.
Coronavirus, in Puglia al via i test rapidi negli ospedali: "Screening su medici e operatori per bloccare focolai". Il risultato dei prelievi sul sangue non ha la stessa affidabilità del tampone ma permetterà di realizzare un censimento di contagiati e asintomatici, da estendere anche al resto della cittadinanza. Giuliano Foschini il 24 Marzo 2020 su La Repubblica. Non saranno tamponi a tappeto. Ma saranno fatti migliaia di test, a personale sanitario soprattutto. Nella gestione dell'emergenza Coronavirus in Puglia la novità più rilevante riguarda la decisione del capo della Task force, Vito Montanaro, e del responsabile scientifico, il professor Pierluigi Lopalco, di avviare una campagna di screening tra il personale sanitario, principalmente, per verificare lo stato di salute degli operatori. In Puglia, come nel resto d'Italia, sta emergendo sempre più che il Covid19 sta diventando un virus ospedaliero: con il lockdown, e pochissima gente per strada, il maggior luogo di infezione restano le strutture sanitarie. Con il personale medico e infermieristico particolarmente esposto: tra i contagiati, uno su tre è un ospedaliero. Secondo un documento del 21 marzo della task force regionale sono 72 gli operatori sanitari (il 29,8 per cento dei casi) tra i positivi al Covid. "Questi operatori - si legge nella nota - hanno potuto contrarre l'infezione in comunità o durante l'attività lavorativa. Ma il dato epidemiologico importante è rappresentato dal fatto che ben un terzo dei casi complessivi sono potenzialmente in condizione di accendere focolai ospedalieri, con potenzialità di diffusione comunitaria". Da qui la decisione di effettuare una campagna di test proprio tra i sanitari. "Le autorità regionali - si legge in una comunicazione della task force alle Asl - stanno valutando al momento l'opportunità di eseguire indagini sieroepidemiologiche attraverso l'utilizzo di test rapidi". Nel documento viene evidenziato che i test non possono essere validati come "test diagnostici individuali" perché il livello di affidabilità è basso, però "possono essere utili a conoscere, a livello di popolazione complessiva, la diffusione del virus nella comunità ospedaliera o di popolazione in generale. Servono cioè ad avere una idea della quota di popolazione che sia entrata in contatto con il virus". Ci sono diverse tipologie di test rapidi e la task force sta valutando quali utilizzare sulla base della maggiore affidabilità: tra i test c'è, ad esempio, l'Antibody Determination Kit che è stato già utilizzato in Cina; oppure il "Simplexa COVID-19 Direct Kit" che ha ricevuto il via libera negli Usa. La procedura è veloce, ma il risultato non affidabile come quello del tampone: sostanzialmente, si fa un prelievo di sangue capillare, pungendo un dito, si mette una goccia di sangue nella provetta del device, si aggiunge un buffer specifico, si aspetta la reazione. I positivi saranno messi in quarantena, e tolti dall'ambiente ospedaliero. I test verranno ripetuti a distanza di sette giorni, in modo da avere una qualità scientifica del dato più adeguata. Si partirà dagli ospedali dove si sono verificati casi di contagio: Altamura, per esempio.Ma anche Copertino, Altamura, Manfredonia. La scelta è stata fatta perché, nonostante il potenziamento, non è possibile continuare a intasare i laboratori che stanno reggendo con fatica i tamponi dei sintomatici che si stanno effettuando in tutta la Regione.
L’analisi dei tamponi e il nuovo test che accorcia i tempi di attesa. Una biologa dell'ospedale Cotugno di Napoli racconta come avviene l'analisi dei tamponi per accertare la positività al Coronavirus. Un nuovo test diagnostico sarà in grado di abbattere i tempi di attesa per conoscere la diagnosi. Agata Marianna Giannino, Martedì 24/03/2020 su Il Giornale. È lungo, delicato e richiede l’impiego di un numero adeguato di risorse umane il lavoro di esame dei tamponi effettuati per accertare la positività al Covid-19. Ce lo racconta una biologa del laboratorio microbiologia e virologia dell’ospedale Cotugno di Napoli, Luciana Petrullo, responsabile aziendale Anaao, l’associazione dei medici dirigenti. “Noi facciamo di tutto: l’accettazione, il controllo dell’anagrafica, la sanificazione dei tamponi, diamo una risposta immediata a quei campioni che risultano più urgenti non soltanto per le condizioni cliniche del paziente, ma anche quando il campione viene da un reparto pediatrico, o per liberare posti e quindi per dare referti negativi in tempi utili in maniera tale da poter liberare prontamente i posti nelle unità di degenza”, ci spiega. Nella fase iniziale dell’emergenza Coronavirus, nel laboratorio del Cotugno arrivavano tutti i tamponi da vagliare. L’individuazione di altri centri di riferimento in Campania ha permesso di alleggerire il lavoro, anche se – come ci spiega Petrullo – tutti i casi positivi devono comunque essere confermati dal loro laboratorio. La procedura da seguire per analizzare un tampone prevede una prima fase di accettazione, poi avviene lo smistamento al laboratorio che deve eseguire il test. “L’accettazione, fase preanalitica, è quella più delicata per il laboratorista”, spiega Petrullo. I tamponi, secondo quanto ci spiega, arrivano in tre contenitori e devono essere innanzitutto sanificati, poi si passa al controllo dell’anagrafica: “Bisogna capire l’anagrafica e verificare che anche sulla provetta ci sia contrassegnato il nome corretto del paziente”. L’ accettazione – dice – è “un processo manuale molto lungo e pericoloso, viene fatto sotto cappa, e quindi servono abbastanza persone, purtroppo la macchina non può sostituire l’operatore in questo”. Nello step successivo, i tamponi “vengano divisi per giorni. E, quando si arriva a un certo numero, si fa partire subito la prima seduta di analisi con dei piani di lavoro. Questo si fa a catena. Poi si passa alla refertazione, che è manuale”. Infine, dopo “l’estrazione, l’amplificazione, la lettura interpretazionale dei risultati", avviene "l’inserimento dei risultati e contemporaneamente l’immissione nel file fornito dalla Regione per tenere sotto controllo l’epidemia da Covid 19”. Il meccanismo è a ciclo continuo. Nessuna distrazione. Attenzione alta su ogni forma di precauzione. Le comunicazioni con altri reparti avvengono solo via telefono. “Ci troviamo a lavorare con delle divise quasi da astronauta, non abbiamo contatti tra di noi, portiamo perennemente la mascherina. Siamo molto attenti al rispetto sia dell’utilizzo sia della diffusione dei dispositivi di protezione individuale, ma anche alla continua detersione delle mani e sanificazione delle mani”, racconta Petrullo. Il lavoro è ininterrotto. Si va avanti anche per 12-14 ore al giorno: “Senza mai guardare l’orologio – afferma - senza mai lamentarsi, anzi cercando di darci l’un con l’altro una mano, facendo di tutto”. Eppure, sono diverse le segnalazioni arrivate da più parti di ritardi nell’esecuzione dei test, ma la biologa così risponde: “I tempi sono quelli tecnici. Purtroppo una seduta richiede 4 o 5 ore, pertanto si lavora in maniera continua e si cerca di dare priorità a quei campioni che risultano più urgenti nell’ambito di una routine già avviata, quindi è chiaro che i sintomatici hanno una priorità rispetto ai contatti non sintomatici, ma i tempi sono assolutamente rispettati, c’è una grandissima professionalità e nessuno torna a casa senza lasciare qualcosa di non fatto. In un giorno riusciamo ad analizzare circa 200 campioni”. Per l’abbattimento dei tempi di analisi dei tamponi, si spera in un nuovo test diagnostico messo a disposizione da un’azienda farmaceutica. “Con il nuovo test diagnostico – rivela Petrullo - riusciremo a fare in un’ora circa una ottantina di campioni, quindi si avrà sicuramente un abbattimento dei tempi di attesa, questo anche in previsione di un forte aumento dei campioni, perché il sindacato, l’Anaao, si sta battendo in ambito regionale e nazionale per l’esecuzione di tamponi soprattutto agli operatori sanitari, che sono i più esposti”. “Noi – dice - ci sentiamo come dei soldati, che purtroppo si trovano a combattere una guerra contro un nemico invisibile, e che devono necessariamente garantire un’adeguata assistenza, anche diagnostica, ai pazienti”. Dei soldati senza armi, a stretto contatto con il nemico virus senza le adeguate protezioni. “Siamo molto attenti al rispetto dell’utilizzo sia della diffusione dei dispositivi di protezione individuale, ma anche alla continua detersione delle mani e sanificazione delle mani – riferisce la biologa del Cotugno – e, a tal proposito, quello che non è mai mancato a quest’ospedale oggi purtroppo comincia a mancare e di fronte a un’emergenza che è mondiale, per cui chiediamo alle autorità competenti e a tutti i professionisti che lavorano per poter aiutare gli operatori sanitari a fare l’impossibile, come abbiamo fatto noi senza che ce lo chiedesse nessuno. Noi facciamo molto più della nostra parte e chiediamo anche ai cittadini di fare la loro, restando a casa, perché, allo stato attuale delle conoscenze, questa è l’unica vera arma per difendersi dal contagio, dal virus che, come abbiamo capito, è fortemente diffusivo”.
Coronavirus, è pronto il test dell’italiana DiaSorin: diagnosi in un’ora (invece che sei). Pubblicato lunedì, 23 marzo 2020 su Corriere.it da Carlo Cinelli e Daniela Polizzi. Carlo Rosa, DiaSorinDa quando è stato annunciato il nuovo test, racconta Rosa, «ci chiamano da tutta Italia. Abbiamo scelto di avere un’interlocuzione direttamente con le regioni che stanno coordinando l’emergenza sanitaria, a cominciare dalla più colpite, Lombardia, Piemonte, Veneto ed Emilia Romagna. Saranno loro, in base ai rispettivi piani, a decidere dove utilizzarlo». Con l’ok arrivato venerdì dalla Food and Drugs administration oggi potrà iniziare la commercializzazione del test anche negli Stati Uniti, dove saranno prodotti per tutto il mondo dalla controllata Diasorin Molecular, basata in California. Ad aprile si stima che verranno prodotti 300 mila test, di cui centomila per il mercato italiano. Considerata l’emergenza, ai destinatari risulta che il gruppo abbia tagliato i prezzi di fornitura di un 25%: «c’è un tema di responsabilità sociale», taglia corto Rosa. La risposta è arrivata intanto dal mercato che già aveva fatto di Diasorin uno dei casi di Borsa del 2019, anno in cui il titolo si è apprezzato di circa il 60% passando la soglia dei 6,5 miliardi di capitalizzazione a fine dicembre. Senza contare che dal 10 marzo, giorno dell’annuncio del nuovo test di diagnosi rapida del Covid-19, il titolo a Piazza Affari è salito da 104 euro fino a sfiorare i 130 euro (venerdì ha limato la crescita chiudendo a circa 112 euro, sulla scia dell’andamento di tutto di tutto il listino). Hanno giocato a favore anche i conti dell’anno passato chiusi con 180,1 milioni di generazione di cassa contro i 163,6 milioni del 2018, un importo record nella storia del gruppo. Un buon passo per la società con radici in Piemonte che solo cinque anni fa al listino milanese esprimeva un valore di 40 euro per azione. L’apprezzamento ha permesso di distribuire circa 500 milioni di dividendi agli azionisti, con un total shareholder return (utile netto e dividendi distribuiti) composito del 1.061% dal 2007, anno in cui DiaSorin è stata quotata a Milano. «Bisogna che le aziende investano sempre in ricerca per poter ragionare sul lungo periodo. Ma anche il Paese dovrebbe sostenere i campioni italiani in settori strategici come quello delle scienze della vita. Perché solo la ricerca può aiutare a tirarci fuori dai guai che il futuro può preparare», dice Rosa il cui gruppo ha puntato 250 milioni in questo settore negli ultimi quattro anni. «Continueremo a impegnarci con un ritmo di 40-50 milioni l’anno perché guardiamo al futuro». Puntualizzazione importante e attesa, visto che l’impatto del Coronavirus sta ormai falcidiando nel mondo il ricorso alla tradizionale diagnostica, con punte del -75% in Cina nelle sei settimane di picco del virus, quando i pazienti venivano invitati a non recarsi proprio in ospedale. Qualcosa di analogo sta succedendo in Italia e un po’ ovunque. E questo naturalmente genera un effetto negativo su un settore industriale che presenta una concentrazione di costi importanti, secondo uno schema di massima che vede l’ente sanitario pagare il test, ricevendo macchine in uso senza oneri a fronte di costi che l’azienda ammortizza in media in tre anni. D’altra parte l’attesa di una trasformazione del virus in una presenza endemica su mercati più maturi potrebbe spingere le autorità a richiedere una dose massiccia di test in futuro, anche al fine di effettuare screening di massa. Una prassi già seguita negli Usa per l’influenza comune, con 40-50 milioni di test ogni anno (In Italia come in Europa siamo nell’ordine di una decina di migliaia).Tornando a DiaSorin, tutto inizia nel 2016 quando il gruppo rileva dall’americana Quest Diagnostics , alleata con 3M, la californiana Focus Diagnostics (ora battezzata DiaSorin Molecular), nata per le diagnosi rapide. In «pancia» ha la piattaforma creata per conto dell’esercito Usa che sarebbe dovuta servire a testare i militari impegnati negli scenari di guerra (nella campagna verso Kuwait City furono tutti vaccinati contro l’antrace). Oggi la società molecolare, che conta 50 ricercatori tra Usa e Italia, installa presso i laboratori mondiali le proprie piattaforme chiamate Liaison Mdx su cui si possono fare fino a 40 diversi esami diagnostici sofisticati, come il test erpetico sul liquido cerebro-spinale per i bambini ma anche per le infezioni virali come il coronavirus. È guidata dal presidente John Gerace. Il gruppo era tentato di sviluppare il test in California, cuore americano del biotech. Ma i giovani ricercatori italiani nel centro di Gerenzano (Varese) hanno convinto Rosa a lasciarli provare in Italia. Missione compiuta. Giulia Minnucci, la responsabile della ricerca molecolare di Diasorin in Europa, ha coordinato il loro lavoro di progettazione del test poi validato a Pavia e Roma. Commenta, riconoscente, Rosa: «Hanno lavorato giorno e notte per settimane allo Spallanzani e al San Matteo. I nostri 25 giovani ricercatori italiani così sono riusciti a sviluppare il test diagnostico veloce per il Covid-19 in otto settimane, una cosa che in genere richiede dodici mesi di lavoro». E chissà che quella squadra non riesca a rinverdire il clamoroso successo del test sulla vitamina D che Diasorin ha lanciato per prima 25 anni fa e rinverdito con un nuovo programma sei anni fa.
Coronavirus, gli Usa danno 679 mila dollari all’italiana DiaSorin per accelerare l’arrivo sul mercato del suo test rapido. Pubblicato venerdì, 13 marzo 2020 su Corriere.it da Francesca Basso. I test saranno prodotti in California dalla controllata statunitense DiaSorin Molecular, ma sono il risultato del centro di ricerca di Gerenzano (Varese), dove c’è anche il quartier generale dell’azienda che fa capo alla famiglia Dengeri. Un altro centro di ricerca è in California. Il team guidato da Giulia Minnucci, R&D Director Europe di DiaSorin, ha messo a punto un test per ottenere risultati di analisi dei tamponi entro 60 minuti rispetto alle 5-7 ore attualmente necessarie con altre metodologie. A fine marzo la società riuscirà a produrre 50 mila test per arrivare a un massimo di 150 mila per fine aprile. Gli studi per il test sono stati realizzati in collaborazione con l’Ospedale Spallanzani di Roma e il Policlinico San Matteo di Pavia. Il risultato, spiega l’azienda, è un test non solo rapido ma estremamente sensibile in grado di individuare anche mutazioni del virus. I test saranno venduti principalmente in Italia e poi ai Paesi che ne faranno richiesta. L’azienda farmaceutica ha sviluppato la tecnologia Mdx originariamente per diagnosticare in modo rapido le infezioni influenzali stagionali e altre infezioni virali e batteriche per le quali il tempo di risposta risulta fondamentale per decidere il corretto trattamento di cura del paziente. Le macchine in uso già processano 40 tipi di test, a cui ora si è aggiunto quello per l’individuazione del Covid-19. DiaSorin ha installato oltre 800 analizzatori LIAISON® MDX in grandi istituti ospedalieri europei e statunitensi e ora sta procedendo alla riprogrammazione per consentire che siano a disposizione là dove ora c’è l’emergenza.
Coronavirus, il test rapido è in arrivo ed è stato studiato in Italia. Cecilia Lidya Casadei il 15 marzo 2020 su Notizie.it. La DiaSorin è pronta per presentare il nuovo test rapido per la diagnostica del Coronavirus, una svolta che aiuterà gli ospedali. Buone notizie dal fronte Coronavirus: a breve diremo addio ai tamponi per il nuovo test rapido. Solitamente sono necessarie dalle 5 alle 7 ore per avere un risultato da tampone, grazie al nuovo dispositivo di testing sarà possibile ridurre i tempi a solo 1 ora. Il test rapido per il Coronavirus sarà prodotto da DiaSorin, multinazionale che opera nella immunodiagnostica e diagnostica molecolare. Gli studi necessari allo sviluppo di questo innovativo sistema molecolare di identificazione si sono svolti in territorio italiano, presso l’Ospedale Spallanzani di Roma e il Policlinico San Matteo di Pavia. La presentazione del test rapido avverrà verso fine marzo 2020 e a fare gli onori sarà la Food and Drug Administration. Tale procedura consentirà alla DiaSorin di ottenere il marchio CE in Europa per il dispositivo e l’autorizzazione all’utilizzo in emergenza.
Come funziona il test. Il nuovo sistema di diagnostica segue un protocollo Oms: si analizzano diverse regioni del genoma virale, al fine di ridurre al minimo l’impatto delle possibili mutazioni future. Usa la tecnologia Mdx, che permette di avere un riscontro in tempi davvero molto brevi. Sono già diversi gli ospedali europei e americani che usano gli analizzatori Liaison Mdx. Secondo le stime, ne sono stati installati oltre 800 per la diagnosi di altri virus e infezioni batteriche.
Un aiuto per il sistema ospedaliero. “Ci siamo attivati non appena sono state rese pubbliche le informazioni sulla sequenza genetica del virus, collaborando con i centri di riferimento italiani e statunitensi per sviluppare test molecolari veloci e accurati per fronteggiare questa emergenza sanitaria“, dichiarano i portavoce di DiaSorin. Lo studio ha preso in analisi oltre 150 sequenze virali, per far sì che potessero rilevare tutte le varianti conosciute di Coronavirus.
Il lancio del dispositivo si presenta come un’innovativa soluzione per decentralizzare i test diagnostici e contribuire al miglioramento del ricovero pazienti. Non resta quindi che aspettare la fine di marzo 2020 per poterne trarre beneficio sul campo.
Silvia Turin per il “Corriere della Sera” il 23 marzo 2020.
1 Quanti tipi di test esistono per il virus Sars-CoV-2?
Ne esistono di due tipi: il tampone laringo-faringeo su campione biologico e i test anticorpali sierologici, risponde Fabrizio Pregliasco, virologo dell' università Statale di Milano.
2 In cosa consiste il tampone laringo-faringeo?
Misura il virus circolante in gola o nelle narici. In laboratorio, nel campione biologico prelevato, grazie a un meccanismo di replicazione si amplifica il genoma del virus fino a renderlo evidente. Per la procedura serve un laboratorio di biologia molecolare che faccia anche i controlli.
3 E i test sierologici?
Sono test anticorpali che vengono fatti con un prelievo di sangue e misurano le immunoglobuline M (IgM), anticorpi associati alla risposta immunitaria durante la prima esposizione dell' organismo al virus, e le immunoglobuline G (IgG), le risposte immunitarie secondarie che intervengono in fase di guarigione. Questi test hanno un' alta imprecisione che è nella loro natura. Non si tratta di cattiva esecuzione, ma di fattori statistici che riguardano il tipo di virus.
4 Sarebbe preferibile allargare la base dei soggetti sottoposti a tampone?
Sì, nelle regioni non ancora pesantemente colpite da Covid-19 e in generale sul personale sanitario e delle Residenze Sanitarie assistenziali per anziani.
5 La gente potrebbe sentirsi più sicura dopo aver fatto il tampone?
Il risultato del tampone è la fotografia di un istante che dà in qualche caso una falsa sicurezza: si è negativi oggi, ma positivi domani.
6 Si può testare tutta la popolazione?
Sarebbe impossibile, secondo Pregliasco. I laboratori sarebbero sotto pressione e il risultato non darebbe valore aggiunto a quel che si deve fare: quarantena e/o distanziamento sociale. Parlando di tamponi laringo-faringei, secondo il calcolo di Stefano Massaro, ad di Cerba HealthCare Italia (specializzata nella diagnostica ambulatoriale e nelle analisi cliniche), le quattro maggiori strutture di laboratori privati in Italia (compresa quella che guida) possono aggiungere 5 mila test ai circa 10 mila tamponi al giorno del sistema sanitario nazionale. Se per eccesso si arrivasse a ipotizzare di farne in tutto 50 mila, per testare il 70 per cento della popolazione italiana ci vorrebbero 900 giorni.
7 Qual è l' efficacia dell' esame anticorpale?
È un esame secondario, che rivela se si sono o meno sviluppati gli anticorpi, non dice quanto si è contagiosi. Alcuni kit non hanno avuto neanche vere e proprie validazioni da parte del ministero della Salute, che infatti ne sconsiglia l' uso. Non è inutile in futuro, adesso però non dice se si è infetti.
8 Ci sono difficoltà di produzione dei tamponi?
I tamponi fisicamente ci sono, i kit di laboratorio meno, poi c' è la capacità produttiva del laboratorio, che dipende dal lavoro degli specialisti.
9 I laboratori privati sono pronti a dare una mano?
L' azienda guidata da Stefano Massaro, ad esempio, è in contatto con l' Ats di Milano per avere il via libera. Non farebbero tamponi ai loro pazienti, ma sarebbero coordinati dalla Protezione civile e dalle autorità sanitarie per rispettare le priorità decise.
· Guarigione ed immunità.
Milena Gabanelli e Simona Ravizza per il "Corriere della Sera" il 21 dicembre 2020. A oggi, in Italia, i guariti ufficiali dal Covid-19, cioè coloro a cui è stata diagnosticata la positività al virus e poi la sua scomparsa, superano il milione. Il 61% coinvolge la popolazione nell'età più produttiva, dai 20 ai 59 anni, il 26% dai 60 anni in su, il 13% dai 19 anni in giù. Il 51,5% sono femmine, il 48,5% maschi. Tutte queste persone possono essere considerate immuni? Numerosi studi ormai concordano: quando si contrae il Covid, il 93% dei contagiati produce gli anticorpi neutralizzanti. La loro funzione è quella di impedire al virus di penetrare nelle cellule. Ciò succede tra i 6 e i 20 giorni dal contagio, e il meccanismo è questo: dopo l'infezione si attivano i linfociti B che producono gli anticorpi IgM, IgG e IgA. Un loro sottoinsieme (IgG e IgA) è quello che poi riesce a rendere innocue le nuove particelle virali. Gli anticorpi neutralizzanti, a loro volta, si accompagnano all'attivazione delle cellule killer (linfociti T), specializzate nel riconoscere e nel distruggere il virus. Tutta questa spiegazione è utile a capire perché quando il Covid attacca, la risposta immunitaria è doppia (linfociti B e T). Una volta superata l'infezione, nelle settimane o nei mesi successivi, gli anticorpi calano: non c'è più il virus, non c'è più bisogno di loro. Nell'organismo però restano le cellule memoria, pronte a intervenire in caso di necessità. L'ipotesi che il calo di queste «difese» esponga quindi a un nuovo contagio, viene smentita. Il parallelo che spesso viene fatto con l'influenza può essere fuorviante: in questo caso il fatto che ci riammaliamo non è dovuto al calo degli anticorpi, ma alla mutazione molto frequente del virus, varianti mutate che il sistema immunitario non riconosce più. Il Covid-19, anche se è un virus simile a quello dell'influenza, sembra avere un genoma più stabile, e la risposta che genera il sistema immunitario è verso più frammenti delle proteine virali e non uno solo. Infatti le mutazioni osservate finora (e, forse, anche la nuova variante inglese, almeno fino a prova contraria) non sono associate a un cambio di severità della malattia. Ma quanto dura la risposta immunitaria? Tutti gli studi finora dimostrano che resiste nel tempo. A quantificare il «quanto» c'è il recentissimo studio svolto in collaborazione tra il Policlinico San Matteo di Pavia e il Karolinska Institute di Stoccolma: le cellule memoria persistono per almeno 6-8 mesi dall'infezione. Considerando che la malattia è esplosa poco meno di un anno fa, questo è il tempo massimo di osservazione possibile ad oggi, ma potrebbe essere ben più lungo. Vuol dire che chi è guarito dall'infezione non si reinfetta più? No, perché in medicina il 100% non esiste, inoltre in questo caso siamo di fronte a una malattia troppo recente. Ma sappiamo almeno quante sono le probabilità di contagiarsi di nuovo? La risposta arriva dagli esiti preliminari dello studio appena ultimato dal dipartimento di Virologia del Policlinico San Matteo, assieme agli ospedali di Piacenza e Lecco, e che al momento è quello numericamente più corposo. Hanno osservato tutto il loro personale sanitario, e verificato quanti operatori si sono ammalati durante la prima ondata, e quanti si sono reinfettati nel corso della seconda. Su 9.610 operatori sottoposti al test sierologico a maggio, sono risultati positivi in 1.460 (15,2%). Di questo gruppo, da giugno a oggi, si sono ricontagiati in 27 (1,8%), di cui 18 in modo asintomatico. Degli 8.150 risultati invece negativi al sierologico si sono contagiati in 540 (6,6%). Le informazioni che ci arrivano da questo studio sono principalmente tre. La prima è che, vista la differenza altamente significativa dal punto di vista statistico nei contagi tra i due gruppi, il rischio di infezione per chi non è entrato in contatto con il Covid è circa del 350% superiore rispetto a quello di chi l'ha già contratto. La seconda dimostra che la falla è scattata durante le vacanze estive, poiché all'interno dello stesso contesto protetto (e dove tutti erano stati sottoposti a screening), l'infezione si è riscontrata al rientro dalle ferie o in contesti familiari, creando di conseguenza qualche focolaio nell'ospedale. La terza è la più importante: la protezione naturale di un guarito è forse più elevata anche di quella garantita dai vaccini che stanno uscendo. La loro efficacia massima dichiarata è intorno al 95%. Tradotto: se mi sono già ammalato ho l'1,8% di probabilità di ricontagiarmi, con il vaccino il 5%. Va detto che nessuna vaccinazione di massa dà una copertura totale, per esempio quella contro il morbillo arriva al 98%, quelle influenzali vanno dal 70 all'80%, proprio a causa delle mutazioni più frequenti. Questi studi supportano, dunque, l'ipotesi di vaccinare per ultimi i guariti che aumentano di giorno in giorno. Nel frattempo, chi si è ammalato e poi è guarito, può muoversi in una zona rossa senza rischiare una multa esibendone la certificazione? La domanda non è banale. Al momento non c'è una definizione univoca di «guarito». Il bollettino di oggi, che li calcola in circa 1,3 milioni di persone, include sia chi si è negativizzato, sia chi è stato dimesso dall' ospedale, cioè chi è clinicamente guarito ma potrebbe essere per un breve periodo ancora positivo e contagioso. Le indicazioni su durata e termine dell'isolamento, invece, sono: per gli asintomatici dieci giorni dalla comparsa della positività; per i sintomatici dieci giorni, di cui tre senza sintomi. E per entrambi serve anche il test negativo. I positivi a lungo termine possono uscire dopo una settimana senza sintomi, ad almeno 21 giorni dalla loro comparsa. In questo contesto «guarito» indica chi non è più contagioso. Ma in nessuno dei casi la guarigione viene equiparata all'immunità. Gli studi del San Matteo possono essere un passo importante - se confermati anche su un campione di popolazione generale - per considerare la possibilità per «i guariti» e tutti quelli che via via si vaccinano, di andare per esempio all'estero per lavoro senza essere sottoposti poi a quarantena, o di spostarsi da una regione all'altra, anche per motivi personali, senza rischiare una multa? Consentirebbe al sistema di iniziare a ripartire. La via più semplice potrebbe essere quella di esibire la certificazione del test di positività e negatività, o dell'avvenuta vaccinazione. Fermo restando l'obbligo inderogabile di osservare in pubblico le regole di protezione e distanziamento. Per evitare il caos, e perché siamo sempre in terra incognita. Per fare questo ci vuole ovviamente una norma, e avrebbe senso cominciare a pensarci subito. Nei prossimi mesi (se non settimane) sappiamo già che ci saranno altre strette: se si considerassero margini per questa fetta di popolazione, il peso sarebbe almeno in parte attenuato. Sarebbe inoltre uno stimolo per le Regioni a darsi da fare nell'organizzazione efficiente delle vaccinazioni, e un incentivo a prenotarsi per gli scettici. Un tema che ancora nessun Paese sta affrontando: non solo, alcuni nemmeno contano il numero dei «guariti». La Francia, su di 2,3 milioni di contagiati da febbraio a oggi, ne dichiara guariti solo 180 mila, perché conta solo i dimessi dagli ospedali. La Spagna ha smesso di contarli il 18 maggio. I numeri della Gran Bretagna non sono disponibili. In Germania li stima un algoritmo del Koch Institut. Il 19 dicembre erano 1,1 milioni.
Elena Dusi per "la Repubblica" l'11 dicembre 2020. Il sistema immunitario ha forse una memoria migliore del previsto, di fronte ai coronavirus. L' incontro con Sars-Cov-2 resta impresso nelle cellule T - uno dei reparti dell' esercito che ci difende dai microbi - anche negli asintomatici. Finora si credeva che solo se accompagnato da sintomi il Covid lasciasse anticorpi e protezione. L'infettivologo Antonio Bertoletti, originario di Cremona, ma volato da 15 anni alla Duke University di Singapore, è andato a cercare tracce dell' immunità dove nessuno aveva pensato di guardare. Fra i muratori accatastati nei dormitori delle periferie della metropoli asiatica.
Cosa avete fatto?
«Lì si annidano dei focolai e molti lavoratori, giovani e in salute, sono asintomatici. Abbiamo trovato 85 positivi senza segni di Covid. La loro risposta immunitaria era stata esemplare. Sapevamo da studi precedenti che negli asintomatici non restano anticorpi. In compenso abbiamo trovato altri attori del sistema immunitario, le cellule T, in quantità simili ai sintomatici».
Chi ha cellule T ha memoria dell' infezione ed è immune?
«Crediamo che sia così, anche se non abbiamo certezza. Le cellule T sono più difficili da osservare rispetto agli anticorpi, anche se stiamo lavorando a un test da distribuire per facilitare queste analisi. Nel caso degli anticorpi sappiamo che c' è un calo rapido dopo la guarigione. Le cellule T invece sembrano durare di più. I nostri volontari avevano infezioni vecchie di 3 o 4 mesi. A luglio abbiamo pubblicato su Nature uno studio in cui ne trovavamo anche fra i guariti della prima Sars, 17 anni fa».
Quindi il timore che l' immunità duri solo pochi mesi è infondato?
«È presto per dirlo. Sappiamo che alcune cellule T resistono alcuni mesi. Ma non sappiamo se bastano a proteggerci da un nuovo contagio».
È più protetto chi è guarito o chi riceverà il vaccino?
«Il sistema immunitario durante un' infezione naturale produce anticorpi contro più porzioni del virus. Nel caso del coronavirus, riconosce la spike, la punta della corona, ma anche altre proteine. I vaccini invece prendono di mira solo la spike. Ma questo non vuol dire che il vaccino non funzioni. I dati preliminari sono incoraggianti».
Chi ha avuto il virus va vaccinato?
«Dopo gli altri. Può darsi che chi è guarito non abbia una protezione completa: ci sono stati sporadici casi di reinfezione. Ma non è nemmeno naif come gli altri. Neanche il vaccino funzionerà probabilmente come uno scudo totale. Ma dovrebbe contenere l' infezione in un gruppo ristretto di cellule. Il sistema immunitario agisce così: non blocca, ma contiene».
Vaccini e immunità naturale ci faranno uscire dalla pandemia?
«Sì, avremo altri picchi, che saranno via via più bassi. L' immunità naturale dei guariti si aggiungerà a quella dei vaccinati, Nel frattempo, però, vedremo calare anche anticorpi e cellule T. Ancora non sappiamo quanto durerà la loro protezione».
Come mai a Singapore e nei paesi vicini ci sono pochi casi?
«Le regole sono rigide. Ci sono focolai soprattutto nei dormitori di operai e muratori, che però sono in genere giovani, magri e sani. In tutta la regione, anche dove i contagi sono numerosi, la severità dei sintomi sembra più bassa rispetto all' occidente. A contare è l' età più giovane. Ma può darsi che la frequenza delle malattie infettive i sia più alta e che essersi contagiati in passato con un virus che al sistema immunitario ricorda l' attuale coronavirus aiuti a far scattare le nostre difese in modo più efficiente».
Chi ha il gruppo sanguigno 0 rischia meno il Covid? Diversi studi confermerebbero che il gruppo sanguigno potrebbe svolgere un ruolo importante nel contrarre o meno un’infezione. Valentina Dardari, Giovedì 15/10/2020 su Il Giornale. Coloro che hanno il gruppo sanguigno 0 hanno meno probabilità di contrarre il Covid e di ammalarsi in modo grave. Una doppia ricerca proverebbe che il gruppo sanguigno influisce sulla suscettibilità delle persone alle infezioni. E anche sulla possibilità o meno di avere un attacco grave della patologia.
Gruppo sanguigno 0: meno probabilità di contrarre il Covid. Secondo uno studio danese, su 7.422 soggetti positivi al coronovavirus, solo il 38,4% apparteneva al gruppo sanguigno 0. Invece il 44% delle persone positive era del gruppo A. Un altro studio, questa volta canadese, aveva invece rilevato che su 95 pazienti gravemente malati a causa del Covid, l’84% di quelli tra loro con gruppo sanguigno A o AB necessitava ventilazione meccanica, mentre solo il 61% di quelli appartenenti ai gruppi sanguigni 0 o B. Come riportato da Il Messaggero, nello studio canadese si è anche visto che i soggetti con gruppo sanguigno A o B avevano passato un periodo più lungo nei reparti di terapia intensiva. In media 13,5 giorni, mentre i pazienti con gruppo sanguigno 0 o B ci restavano circa nove giorni. Il dottor Mypinder Sekhon, medico di terapia intensiva al Vancouver General Hospital e uno degli autori dello studio canadese, ha spiegato che è necessario avere risultati in molti Paesi che diano lo stesso risultato. Sekhon, che è anche un assistente professore clinico presso la Divisione di Critical Care Medicine e Dipartimento di Medicina presso l'Università della British Columbia, ha precisato che “se uno è del gruppo sanguigno A, non deve andare nel panico. E che, se sei del gruppo sanguigno O, non sei libero di andare nei pub e nei bar”. Ancora sconosciuta però la causa. “Non sappiamo se si tratta di una sorta di protezione del gruppo O, o se si tratta di una sorta di vulnerabilità negli altri gruppi sanguigni. Penso che questo abbia interesse scientifico, e quando scopriremo qual è il meccanismo, forse saremo in grado di usarlo in qualche modo per quanto riguarda il trattamento” ha chiarito Torben Barington, l'autore senior dell'articolo danese e professore di clinica presso l'Odense University Hospital e l'Università della Danimarca meridionale.
Le possibili cause. Secondo Sekhon, il risultato avuto potrebbe avere questa spiegazione: “Persone con gruppo sanguigno O hanno meno problemi di coagulazione nel sangue”. La coagulazione è stata proprio una delle principali cause della gravità del Covid. Un’altra spiegazione potrebbe essere riconducibile agli antigeni del gruppo sanguigno e al modo in cui questi influenzano la produzione di anticorpi che servono per combattere le infezioni. O anche a geni associati ai gruppi sanguigni e al loro effetto sui recettori del sistema immunitario.
La verità sul gruppo sanguigno: quale protegge dal Covid-19? Lo scorso giugno, anche uno studio californiano aveva affermato che il gruppo sanguigno 0 può essere più resistente al coronavirus rispetto a quello di tipo A, che risulterebbe invece più suscettibile ed in grado di infezioni maggiori. Lo studio era stato condotto su 750mila persone, delle quali 10mila erano positive al virus. Un altro studio europeo aveva riscontrato che nei soggetti con gruppo sanguigno A c’è il 50% in più di probabilità di avere bisogno di ventilazione assistita. Uno studio cinese, già a fine marzo, aveva osservato come il gruppo sanguigno 0 fosse associato a un rischio inferiore per l'infezione rispetto ai gruppi sanguigni non 0.
Mauro Evangelisti per il Messaggero il 13 settembre 2020. Secondo i ricercatori della Scuola di Medicina della Nanjing University, la protezione degli anticorpi sviluppati da chi ha combattuto e vinto contro Covid-19 dura solo un mese. Se arrivassero nuove conferme, sarebbe una conclusione preoccupante perché significherebbe che una persona guarita può ammalarsi di nuovo. E soprattutto che i vaccini, su cui si sta lavorando in tutto il mondo, dovrebbero superare nuovi ostacoli. Il professor Andrea Crisanti, dell' Università di Padova, non condivide queste conclusioni: «Lo studio che abbiamo fatto a Vo' Euganeo ci dice che la protezione degli anticorpi dura almeno 5 o 6 mesi, non certo solo uno». Discorso differente, è la tesi espressa in passato da Crisanti, per quanto riguarda gli asintomatici, per i quali gli anticorpi diminuiscono molto più velocemente. Anche altre ricerche erano arrivate a conclusioni differenti da quelle dell' Università di Nanjing e, malgrado qualche caso sparuto di possibili reinfezioni, il fatto che non vi siano numeri significativi di pazienti contagiati due volte, ad esempio in Cina e in Corea del Sud dove il virus è arrivato prima, rafforza la tesi del professor Crisanti.
CONCLUSIONI. Cosa dice lo studio cinese, già pubblicato? Si basa sul monitoraggio della produzione degli anticorpi in 19 pazienti non gravi e in sette in condizioni invece gravi, per sette settimane da quando è stata rilevata la malattia. Secondo i ricercatori, un paziente su cinque non aveva anticorpi contro il virus dopo le dimissioni dall' ospedale. «I livelli del sistema immunitario sono scesi significativamente tra le tre e le quattro settimane successive, suggerendo una vulnerabilità dei soggetti al coronavirus quanto quella prima del contagio iniziale». Un' alta percentuale (80,7 per cento) di pazienti guarita dal virus, ha mostrato evidenze di attività di anticorpi contro il Sars-CoV-2 (sia pure a vari livelli), mentre il restante 19,3 non aveva alcuna immunità. Lo studio ha sostenuto di aver dimostrato che le attività neutralizzanti dei sieri di convalescenza calano in modo significativo nel periodo compreso tra i 21 e i 28 giorni dopo la dimissione dall' ospedale. Altra affermazione dei ricercatori cinesi: «Comprendere le risposte adattative in cui il corpo produce anticorpi che si legano specificamente al Sars-CoV-2 tra i pazienti con Covid-19 fornisce informazioni fondamentali per lo sviluppo di un trattamento efficace e di un vaccino preventivo».
SPERANZE. E mentre proseguono le ricerche sulle caratteristiche di un coronavirus che, va sempre ricordato, conosciamo solo da otto mesi, i vari progetti per trovare un vaccino vanno avanti in parallelo. In particolare, allo Spallanzani è in fase di sperimentazione quello italiano elaborato da ReiThera, società di Castel Romano. Spiega il direttore sanitario dello Spallanzani, Francesco Vaia, intervistato da SkyTg24: «Se tutto va bene e senza correre, ci auguriamo in primavera di poter cominciare ad avere la formula per andare in commercializzazione di un vaccino tutto italiano. Sul nostro vaccino abbiamo cominciato la fase uno, che è la fase tipica della sicurezza e sarà la fase della immunogenicità, cioè quella in cui la dose inoculata all' interno dell' organismo deve determinare la produzione di anticorpi cosiddetti neutralizzanti che sono in grado di bloccare la replicabilità del virus. Fino ad oggi, non abbiamo avuto nessuna reazione avversa. Entro fine ottobre dovremo avere i primi dati sull' immunogenicità. Poi scattano le fasi due e tre».
MELANIA RIZZOLI per Libero Quotidiano il 13 settembre 2020. Non date retta a chi vi dice di aver avuto l'infezione da Covid-19 e di essere diventato immune, di non temere recidive o complicanze, di non poter più contagiare nessuno e di essere al sicuro, perché di questa nuova malattia sappiamo ancora troppo poco ed ogni settimana la scienza ne rivela un nuovo aspetto spesso sinistro. Una ricerca italiana appena pubblicata sulla rivista BMJ Global Health ipotizza che l' immunità acquisita dopo l' infezione virale non solo potrebbe non essere protettiva, ma addirittura potrebbe favorire reinfezioni con sintomi più gravi, mentre un nuovo studio appena sottoposto a revisione paritaria condotto al King' s College di Londra rivela notizie ancora più brutte, ovvero che l'immunità del Coronavirus si indebolisce drasticamente nel giro di qualche settimana e non durerebbe nemmeno tre mesi. I ricercatori hanno dimostrato infatti che il livello di anticorpi negli individui infettati dal Covid-19 raggiunge il suo picco dopo tre settimane dalla comparsa dei sintomi, per poi diminuire gradualmente, fino a raggiungere la scomparsa nel sangue del 70% di anticorpi durante la convalescenza ed in molto soggetti gli stessi non sono più dosabili, cioè non più rilevabili con le comune analisi ematiche. Oggi infatti sappiamo con relativa certezza che la maggior parte di chi si ammala di Covid19 sviluppa anticorpi entro 19 giorni e pare che tali molecole siano "neutralizzanti", ovvero in grado di respingere futuri attacchi del virus, ma questa fragile immunità durando non più di tre mesi non garantisce affatto una protezione duratura. Ogni anno daccapo. Ma in pratica cosa vuol dire tutto questo? Significa che il virus cinese potrebbe dunque tornare ad infettare le stesse persone, anno dopo anno, esattamente come accade nelle influenze virali stagionali più comuni, e tale rivelazione implica una più importante e più temibile ipotesi da tenere in grande considerazione, poiché se l' infezione da Covid-19 genera livelli di anticorpi così limitati nel tempo, questo vuol dire che anche la copertura del tanto atteso futuro vaccino teoricamente avrà una durata limitata e una sola dose potrebbe non essere sufficiente perché coprirebbe solo i tre mesi successivamente alla somministrazione. Attualmente esistono altri quattro tipi di coronavirus in circolazione diffusa, quelli per capirci che causano il comune raffreddore, e che reinfettano le persone abbastanza spesso perché l' immunità che da loro deriva è molto breve, e da tali studi summenzionati sembra che Sars Cov-2 possa rientrare nella stessa categoria e non garantire affatto una protezione perpetua poiché la vita dei suoi anticorpi prodotti nel sangue non è particolarmente duratura. Queste importanti ricerche, se confermate da ulteriori test clinici, pongono quindi una serie di interrogativi sulla futura efficacia del vaccino anti Covid-19, sul quale sono riposte le speranze di tutto il mondo scientifico per mettere una pietra tombale sulla terribile pandemia di questo secolo. Certo è ancora presto per trarre conclusioni, ma l' evidenza di sempre più pazienti che si riammalano a distanza di tempo crea allarme e sconcerto, anche se diversi scienziati confidano nella immunità "adattativa", costituita dai globuli bianchi B e T in grado di memorizzare le caratteristiche di un agente patogeno anche per tutta la vita. tutti i dubbi Circa i casi di seconda infezione segnalati in tutto il mondo, non è ancora chiaro se si tratta davvero di una nuova malattia oppure se il virus, magari annidato nella profondità degli alveoli polmonari, sfugge al rilevamento del test Tampone, o se frammenti virali indugiano nel corpo a lungo dopo la scomparsa dei sintomi. Il punto è che molti pazienti che si sono ammalati nei mesi scorsi, a distanza di tempo sono diventati negativi non solo al test Tampone ma anche al test sierologico ripetuto a distanza, a dimostrazione appunto della breve e perduta immunità. Certo il calo della risposta immunitaria per sé non significa il fallimento della ricerca sul vaccino, ma per avere maggiori certezze sulla durata della protezione non resta che continuare gli studi epidemiologici e ripetere i test sierologici per la rilevazione degli anticorpi a scadenza fissa, ad esempio ogni tre mesi per chi fosse risultato positivo alle Immunoglobuline G. E soprattutto, per voi che leggete, non resta che continuare a proteggersi e cercare di non contagiarsi, evitando una malattia ancora grave, ancora in gran parte sconosciuta alla scienza ed orfana di una terapia mirata.
Mantovani: "Quelli che riprendono il Covid non per forza si riammalano". Ancora non si sa quanto dura la memoria immunologica dopo l’infezione. Neanche dopo il vaccino. Valentina Dardari, Venerdì 28/08/2020 su Il Giornale. Secondo uno studio condotto da un team di ricercatori dell'università di Hong Kong gli anticorpi neutralizzanti non garantiscono l'immunità dal coronavirus. Con anticorpi neutralizzanti si intendono delle particelle con un'azione fortemente inibente il virus, prodotte da soggetti che hanno contratto precedentemente l'infezione. Sarebbe quindi possibile rimanere contagiati più di una volta.
Reinfettarsi non significa riammalarsi. Infettarsi nuovamente di coronavirus non equivale però ad ammalarsi ancora. Alberto Mantovani, direttore scientifico dell'Istituto clinico Humanitas di Rozzano (Milano) e docente di Humanitas University, ha spiegato all’Adnk Salute che "il fatto che ci sia una prova formale che è avvenuta una re-infezione non equivale a dire che la persona che si è contagiata due volte si è riammalata". Qualche speranza quindi sembra esserci. L’immunologo ha sottolineato che oggi gli scienziati sanno molto di più sull’immunità al coronavirus, ma ancora non basta. Mantovani ha spiegato: “ C'è un caso documentato di re-infezione in cui però la persona, da quello che ho letto sulla rivista scientifica che ha pubblicato il caso, la Clinical Infectious Diseases, non ha sviluppato malattia". Questo è stato anche confermato dal virologo Malik Peiris, dell’università di Hong Kong, conosciuto come uno dei pionieri nello studio del virus della Sars. Il caso starebbe a significare che il soggetto si è reinfettato ma non si è riammalato, e quindi il suo sistema immunitario sta facendo il suo dovere.
Gli anticorpi: la punta dell'iceberg. Mantovani ha evidenziato che "gli anticorpi anti Sars-CoV-2 sono solo la punta dell'iceberg della risposta immunitaria. C'è infatti una risposta di prima linea, che è l'immunità innata, e che di solito nel 90% delle volte che incontriamo un nemico risolve i problemi, senza che ce ne accorgiamo. La maggior parte delle specie viventi ha solo quello come difesa. Poi ci sono i direttori dell'orchestra immunologica, che sono le cellule T e sono quelle che hanno la memoria immunologica. Il cuore di questa memoria è qui. E poi noi vediamo i missili anti Covid, ma sono solo una delle manifestazioni". Secondo quanto dimostrato dai dati del Karolinska Institutet svedese, ci sarebbero molte persone prive degli anticorpi, ma che hanno comunque la risposta delle cellule T. Queste, come spiegato da Mantovani, si possono definire una specie di centrale operativa. L’immunologo ha infine aggiunto che il caso di Hong Kong “ci fa riflettere sul fatto che non sappiamo quanto dura la memoria dopo l'infezione" da coronavirus. Né quanto duri dopo la somministrazione del vaccino. Il monitoraggio più lungo fino a questo momento è di 56 giorni.
Silvia Turin per il “Corriere della Sera” il 28 agosto 2020. Gabriella si è ammalata di Covid-19 a marzo. Ricoverata per polmonite, è stata dimessa dopo un mese: «Ancora adesso ho addosso una grande stanchezza e perdo i capelli a mazzi», racconta. Valentina, che, sempre a marzo, ha affrontato in casa la malattia, dice: «La febbre e le bolle sulla pelle sono rimaste fino a luglio. E la stanchezza: in vacanza con mio figlio sono stata settimane sdraiata». Gabriella e Valentina sono tra le molte persone che soffrono di quella che in Italia si chiama «sindrome post Covid», all'estero «Long Covid». Sono ufficialmente guarite e negative al tampone, ma hanno sintomi da più di tre mesi: debolezza, fiato corto, eritemi, perdita di memoria, ansia e dolori muscolari. Si raccontano sul gruppo Facebook creato da Morena Colombi: «Noi che abbiamo sconfitto il Covid», forte di 1.128 iscritti. Gli studi scientifici sul Long Covid sono ancora pochi e perlopiù coinvolgono le persone reduci dall'ospedale. Uno dei primi al mondo è stato pubblicato su Jama da un team della Fondazione Policlinico Gemelli di Roma. Tra gli autori, Francesco Landi, primario di medicina fisica e riabilitazione: «Dopo mesi abbiamo riscontrato affaticamento, fiato corto, dolori articolari o al petto, tosse, mal di testa. In molti casi è la perdita di massa muscolare ad aver causato il senso di debolezza. I disturbi, però, dovrebbero scomparire». «La perdita di massa muscolare provoca un "decondizionamento" che causa affanno e fatica - osserva Fabiano Di Marco, cavaliere della Repubblica da poco, direttore della Pneumologia presso il Papa Giovanni XXIII di Bergamo -. Quasi sempre ci sono cicatrici nei polmoni, ma non ne pregiudicano il funzionamento. Le cicatrici dell'anima, invece, sono più marcate». Massimo Loda ha 53 anni e a settembre inizierà gli incontri con uno psichiatra: «A distanza di cinque mesi ho attacchi di panico, stanchezza, dolori al petto, perdita di concentrazione: ti sembra di avere un ospite dentro». La perdita di memoria è comune, ma non si tratta di depressione: «A volte le infezioni virali scatenano dei meccanismi che possono contribuire a una diminuzione della capacità di memorizzazione», chiarisce Giancarlo Cerveri, direttore del Dipartimento di salute mentale dell'Asst di Lodi. «I colleghi ti dicono che sei ansiosa», racconta Laura Pellizza, operatrice in una Rsa. Per affrontare la lunga coda della malattia servono esami medici e viste specialistiche. Lo scopo del gruppo Facebook è anche quello di far riconoscere la «sindrome post Covid», per avere il rimborso delle spese sanitarie. Il dramma di molti, infine, è il ritorno al lavoro: Gabriella, insegnante elementare, è indecisa: «Come posso tornare adesso? Mi sento una persona inaffidabile».
Long Covid: le storie di chi è negativo, ma non è mai guarito (e ha sintomi da mesi). Silvia Turin il 28 agosto 2020 su Il Corriere della Sera.
Le testimonianze. Migliaia di persone in tutto il mondo denunciano la condizione di chi soffre di «sindrome post Covid», una condizione non ancora riconosciuta ma studiata. In Italia un gruppo Facebook raccoglie le storie di chi non riesce a tornare alla vita normale e vuole attenzione e risposte. Gabriella Aglianò ha 51 anni e abita in provincia di Catania. Si è ammalata di Covid-19 il 13 marzo ed è stata in ospedale 39 giorni con diagnosi di polmonite interstiziale bilaterale. È tornata a casa il 21 aprile dopo i due tamponi negativi (che servono a decretare la non contagiosità e la guarigione), ma ancora adesso, a distanza di ben cinque mesi dal giorno dell’esordio dei sintomi, non si sente “guarita”. «Ho una grande stanchezza, sto sdraiata perché mi affatico, ho dolori articolari, perdo i capelli a mazzi, tanto che non volevo più pettinarmi – ci racconta al telefono -. Ho anche avuto un’eruzione cutanea alla gamba destra. Mi danno fastidio i suoni, le luci e i rumori, ma soprattutto non tengo a mente quello che mi dicono, cancello tutto subito. Si figuri che quando sono tornata ho chiesto se avessero cambiato i mobili: non riconoscevo più casa mia».
Stanchezza e perdita di memoria. Gabriella è stata in ospedale, ma anche chi “si è fatto la malattia a casa” (più o meno grave) può avere problemi “post-Covid” che si protraggono per mesi. Valentina ha 45 anni, il 13 marzo ha iniziato con la febbre che le è durata più di un mese. Quando si è presentata a Milano in Pronto Soccorso con febbre a 40 non aveva la polmonite e l’hanno rimandata a casa: «Non c’era posto, ho visto la gente morire lì, in sala d’attesa». Dopo un mese, e giorni di febbre alta passati da sola sdraiata a terra per la paura di cadere e svenire, è andata a fare i due tamponi di controllo che sono risultati negativi, ma la febbre c’era ancora e la sera saliva fino a 38. E ora che siamo in agosto come si sente? «La febbre e le bolle sulla pelle sono rimaste fino a luglio. Ho iniziato anche a perdere i capelli. Mi sono svegliata e avevo le ciocche a terra. E poi la stanchezza: anche in vacanza con mio figlio sono stata tre settimane sdraiata. E la memoria: mentre leggo, le parole mi sfuggono, non ricordo i concetti e quindi ci rinuncio. Per lavorare (Valentina fa l’architetto, ndr) devo rileggere continuamente. Mi confondo, prima avevo una buonissima memoria».
Un gruppo italiano raccoglie oltre mille persone. Stanchezza, debolezza, fiato corto, eritemi, perdita di memoria, ansia e dolori muscolari sono alcuni dei sintomi che accomunano le persone che soffrono di quella che in Italia qualcuno inizia chiamare “sindrome post-Covid”. All’estero vengono chiamati “Long Covid” o “Long Haulers” (letteralmente “trasportatori a lunga distanza”) e sono persone ufficialmente guarite e negative al tampone che però hanno sintomi persistenti e disturbi che durano da più di tre mesi. Stanno facendosi sentire e creano gruppi di auto-aiuto, come quello italiano su Facebook che si chiama “Noi che il Covid lo abbiamo sconfitto” ed è stato aperto da Morena Colombi, 59 anni, operaia di Truccazzano (provincia di Milano): «Volevo sapere se ci fossero altre persone come me, che dopo essersi negativizzate ancora non stavano bene, manifestando sintomi come stanchezza cronica, dolori articolari e affanno anche per un minimo sforzo. Le adesioni sono arrivate e in breve tempo mi sono accorta che tutti, chi più chi meno, abbiamo gli stessi malesseri. Molte volte ci liquidano come depressi o ipocondriaci. I nostri problemi invece sono reali, ma nessuno sembra volerci dar credito. Una volta che gli esami sono nella norma, si dichiara il paziente guarito, ma noi non siamo guariti». Ad oggi il Gruppo vanta 1.128 iscritti e tutte le testimonianze descrivono il medesimo disagio, sia fisico che sanitario.
La spiegazione scientifica. Gli studi scientifici riguardo la “sindrome post Covid” sono ancora pochi e per ora coinvolgono le persone ricoverate in ospedale che sono state ricontattate. Uno dei primi al mondo è quello pubblicato su Jama all’inizio di luglio (ne abbiamo parlato QUI) da un team della Fondazione Policlinico Universitario “Agostino Gemelli” IRCCS di Roma che ha tra gli autori Francesco Landi, Primario di Medicina Fisica e Riabilitazione e Responsabile del Day Hospital Post Covid: «Abbiamo richiamato le persone dimesse dai reparti a circa due mesi dall’insorgenza dei sintomi – ci spiega - . Andando a indagare con vari specialisti, ci siamo resi contro che questi soggetti, a distanza anche di due mesi dall’esordio della malattia, continuavano ad avere sintomi, in particolare affaticamento, fiato corto, dolori articolari o al petto, tosse, mal di testa. Quello che possiamo dire è che non riscontriamo danni agli organi e che probabilmente questi disturbi andranno a scomparire. Siamo ottimisti. Certo che anche chi è rimasto a casa in lockdown per due mesi ha contravvenuto ai due principi che sono i cardini del buon vivere, esercizio fisico e alimentazione sana. Lo racconto sempre: nelle ricette condivise che abbiamo visto sui social non ci sono piatti a base di proteine, sono tutti dolci, pasta, pane, o pizza. Io personalmente sto controllando gli esami da laboratorio arrivati in ospedale e, grossolanamente, da un anno all’altro ho riscontrato aumento di colesterolo, glicemia e soprattutto trigliceridi. Questo, unito alla perdita di massa muscolare per l’inattività o la malattia, sulla reattività del fisico può causare il senso di debolezza».
Le cicatrici dell’anima. «Non è intuitivo ma riguadagnare in massa muscolare migliora anche la respirazione», osserva Fabiano Di Marco, Direttore della Pneumologia presso l’Ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo, epicentro nei giorni neri dell’epidemia. Il Professore è stato nominato Cavaliere della Repubblica per il lavoro fatto durante il Covid e ora è anche tra i responsabili del percorso di follow up dei pazienti ricoverati o transitati dal Pronto Soccorso per Covid. «La sarcopenia (perdita di massa muscolare, ndr) provoca una condizione chiamata “decondizionamento muscolare” che causa affanno e fatica. Il peso si riacquista, ma la massa muscolare non si ricostituisce subito (in media i pazienti hanno perso 10 chili). Servirebbe una riabilitazione mirata di caso in caso. Il nostro follow up ha riguardato per ora 1.200 pazienti sui 1.700 dimessi: i sintomi più frequenti sono sicuramente la mancanza di forze e di fiato. Le conseguenze sono comunque meno gravi di quanto ci aspettassimo. La patologia non progredisce e migliora con il passare del tempo: non era scontato. La debolezza è una sequela anche delle polmoniti batteriche, quindi non mi stupisce: è una sensazione che ti accompagna per un po’ di tempo. Quasi sempre ci sono cicatrici nei polmoni ma abbiamo visto che non ne pregiudicano il funzionamento. Le cicatrici dell’anima, invece, sono più marcate. Molta gente non è tornata quella di prima».
«Ti sembra di avere un ospite dentro». Lo conferma a sua volta Francesco Landi del Gemelli: «Non sottovalutiamo l’aspetto psicologico: il nostro prossimo articolo parla di un 20% di persone che hanno una sindrome post traumatica da stress “vera” con conseguenze serie che li assimila del tutto ai reduci di guerra». Massimo Loda ha 53 anni e a settembre inizierà gli incontri con uno psichiatra. Si è ammalato il 10 marzo: «Sono migliorato a metà aprile – racconta dalla provincia di Brescia -. L’ospedale non l’ho visto: “Stia a casa e veda come vanno le cose”, mi hanno detto. Ho fatto in seguito un’ecografia polmonare da cui si deduce che ho avuto una polmonite bilaterale interstiziale. Ho lesioni ai polmoni e ho perso tre unghie dei piedi. Cosa mi rimane a distanza di cinque mesi? Attacchi di panico, stanchezza, dolori al petto e alla schiena, mal di testa ogni tanto, ansia, perdita di memoria e concentrazione a livelli incredibili: ti sembra di avere un ospite dentro di te. Non ti ricordi… con mia moglie di quelle lotte! A tratti parlo bene poi mi blocco totalmente perché non mi viene il termine».
Perdita di attenzione. La perdita di memoria è comune a molte persone, ma non si tratta di depressione. Ce ne parla Giancarlo Cerveri, conosciuto come lo “psichiatra di Codogno”, Direttore del Dipartimento di Salute Mentale e Dipendenze dell’Azienda Socio Sanitaria di Lodi: «A volte le infezioni virali che durano tanto portano a un lungo periodo di esposizione a citochine proinfiammatorie, molecole proteiche che stimolano la produzione delle proteine di fase acuta e possono contribuire ad una depressione del sistema nervoso centrale, che potrebbe comportare una diminuzione di prestazioni del sistema nervoso centrale. Ecco spiegata la perdita di attenzione che genera, come primo effetto, una diminuzione consistente della capacità di memorizzare tanti eventi della vita quotidiana. Risultato, alla fine della giornata ho trattenuto la metà di quello che di solito ricordo. Non ci sono studi sistematici sul post Covid: i tempi sono ancora brevi, quindi possiamo basarci solo su altre forme virali. In queste, nell’arco di alcuni mesi i sintomi residui vanno incontro a regressione spontanea».
La fatica a essere creduti e assistiti. «Mi tremano le mani, specie al mattino, sono più stanca di prima quando mi alzo, ho edemi agli arti inferiori, pressione al torace, respiro corto e a volte dolori. La stanchezza c’è sempre e gli altri sintomi vanno e vengono: sbalzi di pressione, rush cutanei con bollicine tipo orticaria, problemi intestinali. Sono tante piccole cose ma non riusciamo ad avere una vita normale», racconta Laura Pellizza, operatrice in una Residenza Sanitaria Assistenziale (RSA), della provincia di Crema, 58 anni. Lei si è ammalata il 12 marzo e ha avuto una polmonite interstiziale che si è curata a casa. «Non sono più tornata al lavoro perché io di forza non ne ho: devo prendere i “nonni” e sollevarli di peso, ma come faccio? Comincio a pensare di essere fuori di testa: i colleghi ti dicono che sei ansiosa, ti chiedi se sei diventata ipocondriaca».
I muscoli e il respiro: serve riabilitazione. «Non sono tutti depressi o ipocondriaci - afferma Bruno Balbi, Primario di Pneumologia Riabilitativa all’IRCCS Maugeri di Veruno -, però bisogna fare dei test perché sono quelli che svelano la problematica». Il dottore è il secondo firmatario di uno studio uscito a fine luglio sull’European Respiratory Journal, redatto da clinici dell’IRCCS Veruno e da alcuni studiosi olandesi dell’Università di Maastricht e Hasselt, un’analisi di 103 pazienti dimessi dopo i canonici due tamponi negativi, che monitora i problemi funzionali e respiratori dopo la fase acuta e che conferma che il Covid-19 determina un pesante portato per la salute di molti e a volte una disabilità che si ripercuote nella attività della vita quotidiana. «Il virus colpisce tantissimi apparati e può essere che in alcuni possa avere lasciato questa debolezza che porta a mancanza di fiato e impedisce di respirare bene: respirare è un processo che coinvolge l’apparato nervoso e i muscoli del torace. Se uno ha una problematica muscolare, respira male. La coda della malattia è estremamente lunga e per alcuni probabilmente ci saranno conseguenze, come succede per tante altre malattie, ad esempio la tubercolosi. C’è un grande bisogno di riabilitazione e questa necessità dei pazienti non è ancora ben presente al nostro Servizio Sanitario Nazionale», dice Balbi.
«Chi è negativo non viene più considerato». Ed è proprio per affrontare la lunga coda della malattia che servono esami medici e viste specialistiche. Lo scopo del gruppo Facebook è anche quello di far riconoscere una “sindrome Post Covid”, come si sta facendo in altri Paesi, per avere il rimborso delle spese sanitarie effettuate. «Esiste l’esenzione D97 ma riguarda solo le visite specialistiche per quei sintomi strettamente legati all’infezione che vengono prescritte ai follow up ospedalieri - dice Morena Colombi -. Siamo costretti a fare periodi di assenze dal lavoro per malattia. L’intento del Gruppo è quello di far conoscere questa nuova condizione, sperando che qualcuno intervenga nel darci aiuto e soprattutto per fare in modo che tutti sappiano che non è la negatività al tempone che dichiara la guarigione». «Ho pagato io tutte le visite e gli esami - racconta Valentina -: chi si è ripreso non viene più considerato. Tutti si occupano dei nuovi contagi, che adesso spesso non sono nemmeno malati, ma proprio perché adesso non siamo più in emergenza abbiamo anche noi diritto all’assistenza».
Il problema del ritorno al lavoro. Il dramma di molti non riguarda solo la salute ma anche il lavoro: «Ho speso un capitale e sono ancora in infortunio – dichiara Laura, che lavora come Operatore Socio Sanitario (OSS) in una RSA - . Siamo “Covid free” ma non siamo “free” per nulla». Le fa eco Gabriella, insegnante in una scuola elementare, che tra poco dovrà tornare tra i banchi. Le chiediamo come si sente all’idea di ricominciare: «Non so cosa fare, come posso rientrare? Anche oggi cerco di ripetermi le date di nascita dei miei figli, ma ho vuoti di memoria improvvisi. Mi sento una persona inaffidabile. È una tragedia e non so con chi parlarne, la prima persona con cui lo faccio, è lei».
Il focolaio su un peschereccio che stravolge la guerra al virus. Un esperimento condotto su un peschereccio dimostrerebbe che chi sviluppa anticorpi neutralizzanti non rischierebbe di riammalarsi. Rosa Scognamiglio, Giovedì 20/08/2020 su Il Giornale. Gli anticorpi neutralizzanti garantiscono davvero l'immunità contro una reinfezione da Coronavirus? La risposta è sì. Lo conferma uno studio a firma di alcuni ricercatori della University of Washington e del Fred Hutchinson Cancer Research Center disponibile in versione prestampa sulla piattaforma medRxiv dal 19 agosto 2020 (qui il link diretto al documento). Gli scienziati Oltreoceano hanno appurato, mediante un esperimento condotto a bordo di un peschereccio, che un particolare aggregato di proteine globurali coinvolte nella risposta immunitaria all'infezione SARS-CoV-2 nei pazienti positivi sono in grado di inibire il virus. Anzi, la loro efficacia sarebbe tale da scagionare il rischio di riammalarsi.
L'esperimento sul peschereccio. Lo studio, supportato da un grant del National Institute of Allergy and Infectious Desease (centro degli statunitensi Nih) potrebbe segnare la svolta per una cura contro il Covid-19 in attesa del vaccino definitivo. A raccontare la dinamica dell'esperimento, è lo scienziato italiano Enrico Bucci, ricercatore in Biochimica e Biologia molecolare nonché professore alla Temple University of Philadelpia. Gli studiosi hanno esaminato i dattagli di un'epidemia che ha colpito la flotta di un peschereccio. Prima della partenza, "gli oltre 100 membri testati - racconta Bucci sulla sua pagina Facebook - per la presenza di Rna virale (tampone) e per la presenza di anticorpi contro il virus (test sierologico)". Nessuno dei componenti dell'equipaggio è risultato positivo all'Rna virale, mentre 6 membri dell'equipaggio "hanno dimostrato di avere gli anticorpi prima della partenza". Fra questi 6, 3 mostravano di avere anticorpi neutralizzanti. "A causa probabilmente di un falso negativo nei test all'imbarco - continua ancora lo scienziato - a bordo si è diffusa un'epidemia di Covid-19: si è contagiato l'85% dell'equipaggio (a proposito di immunità di gregge)", secondo i numeri riportati in un estratto del lavoro 104 persone su 122. L'infezione deve essere stata causata da un singolo caso indice, perché il sequenziamento del virus nei pazienti dimostra un'origine unica. Le tre persone con anticorpi neutralizzanti non si sono ammalate né infettate. Anzi, al contrario, gli altri tre con anticorpi non neutralizzanti sembrano essere stati attaccati dal virus, come quasi tutto il resto dell'equipaggio.
Esito dello studio. Dall'osservazione dei dati raccolti emerge, in estrema sintesi, che chi ha contratto l'infezione non dovrebbe riammalarsi. Il condizionale è d'obbligo perché, come spiega lo stesso Bucci: "Se il pre-print non risulterà essere affetto da difetti metodologici, che io per ora non riesco a vedere abbiamo imparato che: la diagnostica inaccurata può portare ad outbreak del virus; in ambienti in cui il virus può circolare liberamente fra molte persone, il tasso di attacco del virus è alto (indipendentemente dall'età), e quasi tutti si infettano; la sieropositività, da sola, non è indice di protezione da reinfezioni; gli anticorpi neutralizzanti, esattamente del tipo di quelli evocati dai vaccini in studio, sono protettivi dalla reinfezione".
Coronavirus, "positivo da tre mesi, dopo 14 tamponi": il caso inspiegabile che sconvolge la Lombardia e l'Italia. Libero Quotidiano il 17 luglio 2020. Il record mondiale di coronavirus è detenuto, suo malgrado, da Milko Mieles. Ecuadoregno, 49 anni, dal 2000 trapiantato in Italia, in Brianza: è positivo al Covid19 da aprile. Tre mesi di inspiegabile incubo. con 14 tamponi effettuati e sempre positivi. Oggi, scrive la Stampa, farà il suo quindicesimo: "Meglio che non ci penso, altrimenti mi demoralizzo. Da settimane piango spesso, qualche giorno fa ho avuto un crollo emotivo e mi hanno fatto parlare con un medico. Dice che è normale dopo oltre tre mesi in questa situazione. Ma durante questo periodo mi sono isolato molto, parlare anche solo attraverso il telefono con le persone, che siano parenti o colleghi, mi fa stare male. Ho anche cancellato l'account Facebook perché non sopportavo più che mi si chiedesse se ero guarito: era una pena dover rispondere sempre di no". Da 5 anni è cittadino italiano e risiede a Lissone: dal 27 giugno è in isolamento a Linate, non è in gravi condizioni ma semplicemente non guarisce. Sua moglie, operatrice socio sanitaria in una Rsa per anziani di Milano, si ammala ad aprile. "Io e i miei figli stavamo lavorando in smart working già da più di un mese. Ho iniziato a stare male all'inizio di aprile, mi mancava sempre l'aria (soffre di asma. ndr), così mia moglie il 16 ha chiamato l'ambulanza che mi ha portato al San Gerardo di Monza, dove sono rimasto ricoverato con ventilazione per 22 giorni". Poi 50 giorni alla clinica Zucchi, sempre a Monza: "Ero costantemente monitorato, mi misuravano i parametri ma stavo abbastanza bene". Uscito dalla Zucchi, è iniziata la sua nuova prigionia.
L’ENNESIMO DIETROFRONT DELL’OMS (NON NE PIGLIANO UNA): «LIBERI DOPO TRE GIORNI SENZA SINTOMI» ISOLAMENTO, I DUBBI SULLA LINEA DELL'OMS. M.D.B. per il “Corriere della Sera” il 22 giugno 2020. Cambiare la politica italiana dei tamponi? Gira la domanda ai tecnici del comitato scientifico (Cts) il ministro della Salute Roberto Speranza. Nuove linee guida dell'Oms (Organizzazione mondiale della sanità) hanno proposto diversi criteri per interrompere l'isolamento dei pazienti risultati positivi al Sars-CoV-2. Non più il doppio tampone negativo a distanza di almeno 24 ore il primo dal secondo. I pazienti sintomatici potranno essere «liberati» dopo 10 giorni dall'inizio dei sintomi più altri 3 senza sintomi (un totale di 13), per quelli asintomatici via libera 10 giorni dopo la diagnosi di positività. Si tratta di raccomandazioni, di indicazioni non vincolanti per i singoli governi, come è per tutti gli scientific brief dell'agenzia Onu. Un asterisco nel documento chiarisce bene che i «Paesi possono continuare a usare i test come criteri di rilascio» dei pazienti secondo le iniziali raccomandazioni «di due test negativi» a 24 ore di distanza. Speranza sollecita un approfondimento da parte degli esperti coordinati da Silvio Brusaferro, presidente dell'Istituto superiore di sanità: «Le nuove linee segnano un cambiamento che può incidere significativamente sulle disposizioni finora adottate. Chiedo che il delicato tema venga affrontato nel Cts fermo restando il criterio di massima precauzione che finora ci ha guidati». Una riunione del Comitato è in programma già oggi sul tema della scuola. È possibile che si parli anche di questo argomento. La decisione non dovrebbe arrivare a tamburo battente. Non c'è fretta. L'Italia si è mossa finora con estrema prudenza ed è stata ripagata. L'epidemia sembra sotto controllo e i costi sono sostenibili. Se si scegliesse di alleggerire le procedure, cambierebbe molto invece sul piano della libertà individuale. Oggi una persona positiva rischia di restare «in ostaggio» anche un mese, nonostante la scomparsa dei sintomi, finché il tampone non si negativizza. Quindi la possibilità di stoppare l'isolamento e consentire il rientro in tempi più brevi avrebbe un valore sociale di rilievo. Dall'altra parte però ci sono le incognite legate al virus. L'Oms non afferma infatti che l'applicazione dei nuovi criteri più snelli sia esente da rischi. I dati giornalieri continuano a volgere al bello. Nuovo calo di positivi e morti. Hanno contratto il virus 238.499 persone, con un incremento rispetto al giorno precedente di 224 casi. Gli attualmente positivi sono 20.972, 240 meno del giorno prima. Ieri le vittime sono state 24, in tutto sono 34.634. In sedici regioni non si sono registrati decessi. Calano i ricoveri in terapia intensiva: sono 148, 4 in meno tra sabato e ieri.
Elena Dusi per “la Repubblica” il 22 giugno 2020. Quando si è guariti dal Covid? In Italia, dopo due tamponi negativi consecutivi. Solo così si può uscire dall'isolamento. Nella maggior parte dei Paesi basta aspettare 2-3 giorni dalla fine dei sintomi. Questa è l'indicazione data a marzo dai Cdc ( Centers for disease control ) americani: 3 giorni dalla scomparsa dei sintomi e 10 dal loro inizio. L'8 aprile anche l'ente europeo Ecdc ha emanato indicazioni simili: si può uscire di casa senza timore di contagiare gli altri dopo 8 giorni dall'inizio dei sintomi e 3 dalla fine. In Germania ne bastano 2 dalla guarigione, mentre in Gran Bretagna basta che ci si senta bene e siano passati 7 giorni dall'inizio dei sintomi. Il 17 giugno a questa linea si è allineata anche l'Organizzazione mondiale della sanità, che oggi considera un paziente guarito tre giorni dopo la fine dei sintomi. Perché l'Italia ha regole diverse? Si è adeguata alle raccomandazioni precedenti dell'Oms, che il 12 gennaio richiedevano i due tamponi negativi. Il nostro Paese ha seguito molti dei suggerimenti dell'Oms, nonostante a volte da Ginevra siano arrivate indicazioni discutibili (su tamponi, mascherine, asintomatici). Ieri il ministro della Salute Roberto Speranza ha chiesto agli esperti del Comitato tecnico scientifico di rivalutare la regola dei due tamponi. «Le nuove linee guida dell'Oms sulla certificazione della guarigione segnano un cambiamento che può incidere sulle disposizioni vigenti». Secondo l'Oms di oggi, «alcuni pazienti hanno probabilmente cessato di essere infettivi nonostante il test positivo». Quali sono i rischi? Il rischio è che un paziente, anche senza sintomi, resti contagioso. «In realtà siamo propensi a credere il contrario» spiega Carlo Federico Perno, virologo dell'università di Milano e del Bambino Gesù di Roma. «Chi non ha più sintomi, molto raramente si riammala. E i resti di virus che si possono trovare nei tamponi sono quasi sicuramente incapaci di replicarsi e infettare. I dati degli altri paesi ci spingono a credere che uscire di casa sia sicuro, quando scompaiono i sintomi». Sappiamo però che i sintomi del Covid sono vari e sfumati. «Parliamo di fine della febbre e delle difficoltà respiratorie» spiega Perno. «È normale che restino tosse, mal di testa, diarrea, mancanza di forze. Questi non sono sintomi, ma postumi della malattia e con il Covid durano fino a un paio di mesi. Anche l'influenza dà sintomi per 3-4 giorni: il periodo di contagiosità. Ma prima che le cellule dell'albero respiratorio si ricostituiscano e quindi scompaia la tosse possono passare 20 giorni». Perché dopo la scomparsa dei sintomi il tampone resta positivo? Nelle vie respiratorie possono restare residui di virus, quasi sicuramente non vitali. Prima di raggiungere i due tamponi negativi, ci sono persone costrette in isolamento per 50-60 giorni. «La soluzione più sicura - per Perno - sarebbe affiancare il tampone alla diagnosi del medico e al test sierologico. La presenza di anticorpi protettivi è un altro segnale che la malattia è stata messa alle spalle».
Il "fattore k" salva dal contagio. Ecco chi sono i "non untori". È quello che gli scienziati chiamano fattore di dispersione. Questo valore descrive quanto una malattia si aggrega in gruppi, grappoli o accumuli detti in inglese “cluster”. Andrea Pegoraro, Sabato 23/05/2020 su Il Giornale. La strategia delle tre T per combattere il valore K. Ovvero testare, tracciare e trattare per incidere su quello che gli scienziati chiamano “fattore di dispersione”. Quest’ultimo elemento descrive quanto una malattia si aggrega in gruppi, grappoli o accumuli detti con il termine inglese “cluster”. La comunità scientifica ha scoperto che le caratteristiche del coronavirus ci hanno mostrato come una piccola percentuale di individui sia responsabile di un gran numero di contagi, ma molte persone non infettano per nulla. Quindi i focolai potrebbero essere estinti attraverso il controllo dei casi a rischio e dei luoghi.
Il fattore K. Come riporta un articolo di Science, oltre al tasso di contagiosità del virus, ossia il valore Ro, gli scienziati usano il fattore di dispersione. Più basso è questo valore, più la trasmissione arriva da un ristretto numero di individui. Secondo le stime, il fattore K per il Covid-19 sarebbe uguale a 0,1, in cui il 10% dei casi porta all’80% della diffusione. Per fare un paragone con altre epidemie, nella Sars K era pari a 0,16, per Mers era di circa 0,25, mentre per la pandemia di influenze del 1918 il valore era di uno. Se K per SARS-CoV-2 fosse realmente 0,1 significa che la gran parte delle catene di infezione scompaiono da sole e il coronavirus dovrebbe essere diffuso in un nuovo Stato almeno 4 volte per avere possibilità di diffondersi in modo omogeneo.
Ambiti più rischiosi. Ci sono diverse situazioni in cui il rischio di contrarre il Covid-19 è maggiore. Basti pensare agli impianti di confezionamento della carne, in cui molte persone lavorano vicinissime tra loro in spazi caratterizzati da basse temperature, che permettono al virus di sopravvivere. Anche il rumore gioca un ruolo importante in questi luoghi. Altri cluster da tenere in considerazione sono le cerimonie religiose. Non bisogna poi dimenticare la tempestività perché i pazienti affetti da coronavirus sono molto contagiosi per un limitato periodo di tempo, come accertato da varie prove.
Le difficoltà di individuare i cluster. La difficoltà per i sanitari è capire dove si sono verificati i cluster allo scopo di prevenirli. Un compito arduo in quanto alcuni focolai, come quello delle carceri, hanno un grande rimbombo mediatico mentre l’ambito familiare rimane nascosto. Inoltre, è più facile che le persone si ricordino di essere stati a un concerto piuttosto che pensino di essere state infettate dal parrucchiere. C'è poi un problema di non poco conto come la privacy perché esaminare i legami tra i pazienti può portare a informazioni sulla loro vita privata.
L'impatto del virus sui trapianti: "Meno morti tra gli immunodepressi". In Italia, nel pieno dell'emergenza Covid-19, si è registrato un -40% di trapianti effettuati, ma la percentuale di deceduti è bassissima e per gli immunodepressi ci sono buone speranze di combattere meglio il virus. Francesco Curridori, Domenica 24/05/2020 su Il Giornale. Visite specialistiche e interventi chirurgici rinviati a data da destinarsi. L’emergenza coronavirus ha mandato in tilt i sistemi sanitari in tutto il mondo e a farne le spese sono stati anche i pazienti in attesa di trapianto. “Già dai primi casi segnalati a Codogno la percentuale di voli è crollata del 70/80%”, ci confida Giuseppe Servidei, proprietario di una piccola compagnia aerea, addetta anche al trasporto di organi. Nei mesi di lockdown, come testimoniano anche i dati diffusi recentemente dal Centro nazionale trapianti, c’è stato un vistoso calo delle donazioni pari a un -23,5% registrato tra la fine di febbraio e metà aprile. In Italia, infatti, seppur nell’emergenza, i centri trapianto hanno continuato a svolgere il loro lavoro, ma a ritmi decisamente ridotti. “Nell’ultimo mese e mezzo abbiamo fatto solo 4-5 voli…”, fa notare ancora il pilota, visibilmente preoccupato per le ripercussioni che potrebbe avere una seconda ondata di epidemia. La causa principale del blocco dei trapianti soprattutto, nel Nord Italia, è stata il sovraffollamento delle terapie intensive occupate dai malati affetti da coronavirus, ma ora tale problema sembra essere in via di risoluzione.
Il calo dei trapianti: in Italia -40% durante l'emergenza Covid-19. Il dottor Francesco Parisi, dell'Unità operativa di Trapiantologia toracica ed Ipertensione polmonare dell’Ospedale Bambino Gesù di Roma spiega: “Nei primi cinque mesi del 2020 c’è stato effettivamente un calo significativo dovuto sia alla mancanza di posti letto di rianimazione disponibili sia al fatto che, con il lockdown, sono mancate proprio le cause che danno origine alla donazione, come per esempio gli incidenti stradali”. Questo calo, però, si è sentito meno in ambito pediatrico: “Noi, al Bambin Gesù, abbiamo fatto 3 trapianti a gennaio e 2 ad aprile e ciò significa che, in proiezione, alla fine dell’anno, potremmo arrivare a 15 che è il nostro standard”, sottolinea Parisi. Anche il professor Salvatore Agnes, direttore del centro trapianti fegato del Policlinico Gemelli precisa che, nonostante la diminuzione di donazioni da cadaveri, “il Gemelli, a differenza di altri ospedali del Nord che avevano le rianimazioni sature, è sempre stato operativo dal momento che, da noi, come Covid-hospital è stata attrezzata la Columbus”. L’Italia, infatti, ha retto meglio di altri Paesi. I dati, diffusi il 17 maggio dal ministero della Salute, relativi al periodo più critico dell’emergenza (28 febbraio-10 aprile), evidenziano un calo dell’attività trapiantologica del 39,7% nel nostro Paese. Una cifra sicuramente elevata, ma molto inferiore se confrontata con gli Stati Uniti (-51,1%), con la Spagna (-75,1%) e con la Francia (-90,6%) e la tendenza indica un miglioramento in positivo visto che gli ultimi numeri sono simili alla situazione pre-Covid.
I trapiantati combattono meglio il coronavirus. Ulteriori dati confortanti sono arrivati anche sul fronte dell’impatto del coronavirus sui trapiantati e sui pazienti che sono in attesa di ricevere un organo. Secondo uno studio condotto dal Centro nazionale trapianti e dalla task force dell’Istituto Superiore di Sanità (Iss) sulle infezioni da Covid-19 c’è una percentuale di decessi bassissima. Nel periodo che va dal 21 febbraio al 22 marzo su 173 pazienti trapiantati positivi al coronavirus (pari allo 0,39% dei 44346 totali) ne sono morti 53 che equivale allo 0,12%. Dei pazienti in lista d’attesa i positivi al Covid-19 erano 73 pari allo 0,86% degli 8.638 iscritti in lista e di questi i deceduti sono stati soltanto 8. “I trapiantati rischiano meno perché sono pazienti educati ad avere una cura di sé igienica, mentale e di comportamento. Sanno che quando c’è un’influenza in giro, e non parlo solo di Covid-19 ma anche di quella stagionale, devono stare isolati ed evitare i luoghi affollati”, dice il professor Franco Citterio, direttore del centro trapianti di rene dell’ospedale Gemelli di Roma, confortato del fatto che dei suoi mille pazienti meno di una decina sono stati colpiti dal coronavirus. Secondo studi recenti, inoltre, sembrerebbe che “la terapia immunosoppressiva protegga dalla tempesta citochimica”, aggiunge Citterio. Un’ipotesi che trova conferma anche nelle parole del suo collega Agnes: “Il trapiantato è un immunosoppresso quindi è un soggetto a rischio, ma proprio la terapia immunosoppressiva contrasterebbe l’auto-immunità e quindi potrebbe proteggere i polmoni da danni maggiori”. Il dottor Parisi, da questo punto di vista è più cauto, ma comunque ottimista: “Nel corso di una conference call sui trapianti di polmone sono stati portati dei dati riguardanti il Nord-Italia che evidenziano come i neo-trapiantati abbiano reagito meglio rispetto a coloro che sono trapiantati da oltre dieci anni. I primi, infatti, avendo il cortisone in terapia, hanno una possibilità migliore di difendersi dal Covid, mentre i secondi meno perché magari devono ‘combattere’ anche con altre patologie”.
Da "Agi" il 20 maggio 2020. Una parte della popolazione potrebbe presentare una sorta di “preimmunità” al SARS-CoV-2 anche senza essere mai entrata in contatto con il virus, probabilmente per via dell'immunizzazione generata da altri, più banali, coronavirus, come quello del raffreddore. E' quanto ipotizzato da uno studio di un team di ricercatori californiani del Center for Infectious Disease and Vaccine Research presso La Jolla Institute for Immunology, pubblicato sulla prestigiosa rivista Cell. Gli scienziati hanno analizzato il sangue di una piccola popolazione di pazienti convalescenti (20 persone) e di soggetti mai esposti al virus (altre 20). Il sangue dei soggetti non esposti al virus era stato raccolto tra il 2015 ed il 2018. Nei soggetti convalescenti, si è avuta la conferma di una ottima risposta immunitaria al virus - in questo caso, i ricercatori si sono concentrati su un tipo di cellule del sistema immune chiamate cellule T, ed hanno trovato che il 100% dei convalescenti esprimeva le cellule T che aiutano le B a fare anticorpi e possedeva anche gli anticorpi contro molte delle proteine di SARS-CoV-2, mentre il 70% aveva cellule T di un altro tipo, che intervengono nella distruzione diretta delle cellule infettate dal virus. Ma la vera sorpresa è arrivata dal sangue dei soggetti mai esposti al virus. In 11 dei 20 campioni è stata riscontrata risposta immune (mediata da cellule T) a SARS-CoV-2. Quindi, una porzione importante della popolazione californiana è stata esposta a qualche coronavirus precedente, che genera una immunità almeno parziale contro il nuovo - forse i coronavirus del raffreddore (il sangue di quei soggetti conteneva infatti anche anticorpi contro due di questi coronavirus del raffreddore). "Un ottima notizia", commenta il biologo Enrico Bucci, ricercatore in Biochimica e Biologia molecolare e professore alla Temple University di Philadelphia, che allo studio dedica un commento su facebook. "I soggetti esposti al virus montano una robusta risposta immune, che permane dopo l'infezione, di tipo T", sottolinea, e "una parte di soggetti mai esposti al virus è "preimmunizzata", probabilmente a causa dell'incontro con altri coronavirus comuni. Adesso, però - aggiunge - prima che stappate lo champagne, ecco i limiti di questo studio ed alcune altre considerazioni: il campione è molto piccolo; la percentuale di popolazione che può essere "preimmunizzata" non è quindi necessariamente del 50%, ma potrebbe essere molto più piccola (o più grande); il fatto che esistano soggetti le cui cellule T sono in grado di riconoscere il virus, pur non essendo mai stati esposti ad essi, non vuol dire che quei soggetti non svilupperanno sintomi (anche se magari saranno più deboli, chi può dirlo); potenzialmente, se vi è cross-reattività tra coronavirus, l'epidemiologia su base sierologica va a farsi benedire, perchè, oltre a cellule T, vi potrebbero essere anche anticorpi cross-reattivi (il significato dei test cambia, e diventa solo immunologico) lo studio va replicato al più presto (su base anche più ampia)".
L'ipotesi di una "pre-immunità". Il raffreddore rende immuni dal coronavirus, lo studio californiano. Redazione su Il Riformista il 16 Maggio 2020. Immuni anche senza essere entrati in contatto con il virus. È l’ipotesi emersa dallo studio di un team di ricercatori californiani del Center for Infectious Disease and Vaccine Research presso La Jolla Institute for Immunology, e pubblicato sulla rivista Cell. Esisterebbe, alla luce degli esperimenti condotti, una sorta di ‘preimmunità‘ al virus generata da altri coronavirus con cui si è entrati in contatto e che hanno portato, ad esempio, a un semplice raffreddore. Gli scienziati hanno isolato 20 persone mai esposte al virus e i test condotti sul loro sangue hanno dato un’ottima risposta immunitaria al SARS-CoV-2. I ricercatori hanno analizzato le cellule del sistema immunitario, chiamate cellule T che, in 11 dei 20 campioni, hanno contrastato il coronavirus. Secondo i ricercatori, dunque, parte della popolazione, californiana in questo caso, è stata esposta a qualche coronavirus precedente, che ha generato una immunità almeno parziale contro il nuovo. Lo studio ha però dei limiti. Innanzitutto il campione molto ristretto che potrebbe rendere la percentuale dei “preimmuni” molto più bassa. E poi, sottolineano gli scienziati, non è detto che i soggetti in questione non sviluppino nessun sintomo. È possibile, piuttosto, che manifesteranno una sintomatologia più lieve.
Cristina Marrone per corriere.it il 17 maggio 2020. Li hanno chiamati casi Covid-like: si tratta di pazienti negativi al tampone e con sintomi sfumati, ma una Tac rivela polmoniti interstiziali del tutto analoghe a quelle dei pazienti Covid. «Questi pazienti sono del tutto simili a quelli di Covid, ma senza che il virus emerga dal tampone. Talvolta lo scoviamo solo nel liquido di lavaggio bronco-alveolare. Il virus è sceso, lo dobbiamo cercare più in profondità» segnala Mario Balzanelli, presidente nazionale della Sis 118 (Società italiana sistema 118) che opera su Taranto.
Lo studio che conferma. Le segnalazioni per la verità arrivano da qualche tempo da tutta Italia. Alcuni giorni fa è stato pubblicato su Radiology un articolo scritto dai radiologi di Codogno con i colleghi dell’Istituto Galeazzi di Milano che descrive la situazione anomala: persone sane, con tampone negativo ma con la polmonite interstiziale. Il coronavirus insomma sembra poter danneggiare i polmoni anche in maniera silenziosa in chi è asintomatico. Codogno è stata la prima zona rossa d’Italia dopo la scoperta del paziente 1 il 20 febbraio scorso. Dopo la fine del lockdown molti cittadini, preoccupati per la diffusione del virus si sono rivolti al centro diagnostico locale per sottoporsi a radiografia polmonare. Nessuno di loro aveva sintomi evidenti di Covid-19, al massimo febbriciattola. Il centro radiologico ha eseguito 170 radiografie: 100 di queste, pari al 59% mostravano lesioni al polmone tipiche della malattia. I segni delle radiografie negli asintomatici non erano estesi come i sintomatici e l’ipotesi è che si trattasse di casi in via di risoluzione, persone che si trascinavano l’infezione da un po’. «La negatività di questi pazienti simil Covid al tampone - commenta Fabrizio Pregliasco, direttore sanitario dell’Istituto Galeazzi di Milano e co-autore dello studio - potrebbe essere legata al fatto che questo esame è stato fatto con troppo anticipo o alla presenza di falsi negativi. Ad ogni modo ogni sintomatologia che in qualche modo può ricordare Covid deve essere sorvegliata e indagata: abbiamo visto infatti che la strumentazione diagnostica può evidenziare anche seri problemi in pazienti che all’apparenza non hanno sintomi, o li hanno solo sfumati. Sono casi preoccupanti, perché possono sfuggire».
Un popolo che sfugge. Mario Balzanelli nella sua segnalazione descrive quello che sta succedendo a Taranto: «In queste settimane post lockdown abbiamo visto sempre meno pazienti positivi, invece questi casi simil-Covid sono aumentati, e sono tutti uguali. Un popolo che sfugge alle classifiche ma che, dal punto di vista clinico, è identico ai casi Covid. Mi diranno che non tutte le polmoniti interstiziali sono legate al coronavirus, ma in questo periodo fanno scattare un allarme».
Un caso clinico. Il presidente della Sis, intervistato dall’AdnKronos, ha citato l’ultimo caso trattato, che assomiglia a tanti altri dei giorni scorsi. Un uomo di 80 anni che chiama la Centrale operativa 118 di Taranto lamentando stipsi e febbricola (37.5°C), appena comparsa. Nega la presenza di tosse. Nega la presenza di affanno (dispnea). Nega la presenza di patologie respiratorie croniche polmonari. Anche se i sintomi sono sfumati e non chiaramente riconducibili a Covid 19 l’anziano viene accompagnato all’ospedale Giuseppe Moscati, Covid hub della provincia di Taranto dove si avvia il percorso diagnostico. Buona la saturazione arteriosa di ossigeno: 93% in aria ambiente (valori normale minimo di 80 mmHg); viene effettuato il tampone naso-faringeo, con esito negativo. Poi viene prontamente eseguita l’emogasanalisi, metodica di indagine che consente attraverso il prelievo di sangue arterioso dall’arteria radiale di valutare, in modo preciso, l’efficacia della funzioni di ossigenazione e di ventilazione del polmone, e quindi le esatte concentrazioni nel sangue di ossigeno e di anidride carbonica. Qui la prima sorpresa. È presente una condizione di severa insufficienza respiratoria acuta, con pressione parziale di ossigeno di 57 mmHg (valore minimo di 60 mmHg). La Tac del torace rivela polmonite interstizio-alveolare Covid-like, ossia estremamente suggestiva di Covid-19.
"Danni cronici dopo il Covid". Cosa accade al nostro corpo. Quasi un guarito su tre andrà incontro a problemi cronici: polmoni, reni e fegato gli organi più a rischio. Ecco perché. Alessandro Ferro, Giovedì 14/05/2020 su Il Giornale. Purtroppo, Covid-19 ce lo porteremo dietro a lungo, e non soltanto perché al momento non c'è ancora un vaccino. Adesso che i medici ne cominciano a sapere sempre di più, è emerso un dato allarmante: in un caso su tre, il virus lascia in eredità patologie croniche.
"Il 30% avrà problemi respiratori". Sono soprattutto i polmoni, gli organi preferiti dal Coronavirus, ad andare incontro a complicazioni ma non gli unici. Si stanno valutando anche altre organi che possono essere colpiti in maniera diretta dal virus come nel caso di reni e fegato, anch'essi indiziati speciali per problematiche a lungo termine. "Ci ritroveremo con circa il 30% di guariti da Covid trasformati in malati cronici e colpiti soprattutto da difficoltà respiratorie", afferma al Fattoquotidiano il Prof. Maurizio Viecca, primario di Cardiologia all'ospedale Sacco di Milano, che mette già in allerta le strutture sanitarie che dovranno vedersela con i nuovi malati, i quali andranno monitorati con attenzione per capire quanti, effettivamente, rischiano danni permanenti.
"Tante trombosi nel sangue". "Qui da noi abbiamo avuto persone dimesse e poi rientrate in ospedale dopo un mese con embolie, flebiti e vasculiti", sottolinea Viecca, il quale ha messo a punto un nuovo protocollo terapeutico (adottato anche negli Stati Uniti) nei pazienti più gravi con l'infusione di almeno cinque medicinali che ha mostrato ottimi risultati. La scoperta è stata possibile grazie all'autopsia su 38 pazienti deceduti per il Covid. "In tutti è stato riscontrato un parametro del sangue, detto D-dimero, molto alto ed espressione di trombosi", spiega il Prof. "Sono stati osservati trombi di fibrina di piccoli vasi arteriosi in 33 pazienti, metà dei quali con coinvolgimento dei tessuti e associati ad alti livelli di D-dimero nel sangue", riporta il report ancora in fase di pre-stampa, che sottolinea come il risultato più rilevante sia dovuto alla "presenza di trombi piastrinici-fibrinici in piccoli vasi arteriosi".
Scenari post Covid. Anche se non è ancora iniziato, per il dopo Covid sarà necessario "implementare la medicina territoriale per poter seguire i malati cronici al loro domicilio", suggerisce Viecca. All'ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo, uno degli epicentri "tsunami" della malattia, si è già pensato di istituire un ambulatorio apposito dove richiamare le migliaia di pazienti guariti. "In questi mesi abbiamo scoperto che Covid è una malattia che lascia segni importanti", spiega il dottor Luca Lorini, direttore delle terapie intensive a Bergamo, motivo per il quale si vogliono analizzare tre livelli di pazienti, "dai meno gravi a quelli finiti nelle terapie intensive e poi usciti". L'obiettivo del nuovo studio è capire quali sono e quanto sono grandi i danni che il virus lascia in eredità sulla singola persona.
"Avremo una nuova categoria di malati". In Cina, dove tutto è iniziato, si sono accorti di come un paziente su tre dopo le dimissioni abbia mostrato una capacità respiratoria ridotta del 30%. In pratica, possono insorgere problemi anche dopo una semplice passeggiata. "Reliquati polmonari ci sono, per questo avremo una coorte di pazienti che avrà dei residuati fibrotici a livello polmonare e diventerà una nuova categoria di pazienti con malattie polmonari e insufficienza respiratoria, che rappresenterà certamente un nuovo problema sanitario", fa sapere Luca Richeldi, pneumologo al Policlinico Gemelli di Roma, membro del Comitato tecnico scientifico e presidente della Società italiana di pneumologia, che conferma il quadro del dottor Viecca. Il triste scenario è confermato anche dal professor Massimo Galli del Sacco di Milano, per il quale, in molti casi, le compromissioni polmonari saranno irreversibili.
Coronavirus, Maria Rita Gismondo avverte: "Potremmo non arrivare mai all'immunità di gregge", il dato sugli anticorpi parla chiaro. Libero Quotidiano il 13 maggio 2020. Maria Rita Gismondo frena gli entusiasmi: "Lontani dall'immunità di gregge". La virologa mette in guardia sulla patente da concedere ai cosiddetti "immuni da coronavirus". "Purtroppo - scrive sul Fatto Quotidiano - sappiamo che molti hanno avuto nei confronti di questi test un comportamento a dir poco leggero e, a parte lo spreco economico, il pericolo è quello di "patentare" immuni che sarebbero presto un pericolo di sanità pubblica. Già il 24 aprile eravamo stati messi in allarme sull'uso improprio di questi test". Non solo, perché per la Gismondo c'è un altro dato pronto a preoccupare: "Si aggiunge - prosegue - un dato scientifico importante che ridimensiona alcuni lavori scientifici che ci avevano fatto ben sperare sulla produzione e permanenza degli anticorpi IgG (quelli che dovrebbero proteggerci da una nuova infezione)". L'Oms ha infatti dichiarato che una percentuale relativamente bassa della popolazione ha anticorpi contro Covid-19. Cifra che ci dà da pensare. In sostanza per la virologa potremmo non raggiungere mai l'effetto gregge (popolazione con immunità acquisita al virus) e forse non lo raggiungeremo mai se, come avviene per altri Coronavirus, il nostro organismo non riesce a produrre anticorpi duraturi nel tempo. E a questo punto non resta che puntare sul comportamento individuale e sulla ricerca di terapie efficaci.
Roberto Burioni il 30 aprile 2020: Buona notizia: seppure in quantità variabili, i pazienti guariti da COVID-19 producono anticorpi contro il virus. Questo è bene perché rende affidabile la diagnosi sierologica e, se gli anticorpi fossero proteggenti, promette bene per l'immunità.
Silvia Turin per "corriere.it" il 30 aprile 2020. Uno studio cinese pubblicato il 29 aprile su “Nature Medicine” dà una buona notizia: tutte le persone entrate in contatto con il virus sviluppano anticorpi. Non era scontato ed è un buon punto di partenza per i test sierologici che sono attualmente in circolazione anche in Italia.
Anticorpi in tutti entro 19 giorni. Gli autori scrivono: “Segnaliamo risposte anticorpali acute a SARS-CoV-2 in 285 pazienti con COVID-19. Entro 19 giorni dall’esordio dei sintomi, il 100% dei pazienti è risultato positivo all’immunoglobulina G (IgG) antivirale. La sieroconversione per IgG e IgM si è verificata contemporaneamente o in sequenza. Entrambi i titoli di IgG e IgM hanno raggiunto il plateau entro 6 giorni dalla sieroconversione. I test sierologici possono essere utili per la diagnosi di pazienti sospetti con risultati RT-PCR negativi e per l’identificazione di infezioni asintomatiche”.
Non basta per sapere se siamo immuni. Quindi il 100% dei pazienti trattati ha sviluppato gli anticorpi che risultano essere la “memoria” del nostro corpo all’infezione (IgG) e anche quelli che indicano la primissima risposta all’attacco del virus (IgM). Altro passo sarà quello di capire (con studi successivi) se gli IgG siano anche protettivi e per quanto tempo. Ora se qualcuno risulti avere gli anticorpi, potrà essere sottoposto a tampone per capire se sia ancora infettivo (QUI spieghiamo perché è necessario anche il tampone) e un domani potremmo capire per quando tempo e se sarà immune. “Lo studio di oggi è importante, perché ci dice che chi ha avuto infezione sviluppa gli anticorpi, cosa che qualcuno metteva in dubbio per via delle recidive. Ora però dobbiamo essere sicuri che siano protettivi, e a lungo termine. La notizia comunque è buona, anche in prospettiva vaccino”, ha dichiarato il direttore del dipartimento malattie infettive dell’Iss, Gianni Rezza. «Buona notizia: seppure in quantità variabili, i pazienti guariti da COVID-19 producono anticorpi contro il virus. Questo è bene perché rende affidabile la diagnosi sierologica e, se gli anticorpi fossero proteggenti, promette bene per l’immunità», scrive il virologo Roberto Burioni su twitter.
Gli anticorpi ci proteggono? Come detto, è una buona notizia e adesso ci restano da capire due altri fattori fondamentali: se gli anticorpi che sviluppiamo sono anche “neutralizzanti” e, se lo sono come si spera, per quanto tempo lo saranno. Per la prima domanda servono ulteriori ricerche che si stanno facendo: bisogna verificare in laboratorio se l’anticorpo si lega a una determinata proteina (antigene) del virus e poi, qualora ciò avvenga, capire se questo legame è sufficientemente saldo da non permettere più al virus di infettare altre cellule. Nelle analisi si tenta proprio di separare antigene e anticorpo per capire se siamo sulla buona strada. Se l’anticorpo è neutralizzante farà da scudo nel caso di un nuovo incontro con il virus.
Quanto dura la protezione? Ultimo passo è capire quanto durerebbe l’ immunità e per questo servono mesi, nel senso che bisogna controllare a cadenza fissa se chi ha anticorpi protettivi li ha conservati dopo un certo periodo di tempo. Se Sars-Cov-2 si comportasse come i precedenti coronavirus, Sars-1 e Mers, la protezione dovrebbe durare almeno 12-24 mesi.
Non erano recidive. Questo lavoro sugli anticorpi viene pubblicato contemporaneamente a un altro importante dell’Università di Seoul, che in conferenza stampa presso il National Medical Center locale ha spiegato che quei casi che si consideravano “reinfezioni” sono stati invece falsi positivi. Gli studiosi hanno scoperto che i frammenti e i resti dei virus debellati in passato dall’organismo potrebbero essere stati la causa della positività dei test effettuati a distanza di giorni (e a volte settimane) dalla completa guarigione da Covid-19. «Oltre 260 persone sono risultate positive ai test per il coronavirus dopo recuperi completi avvenuti a giorni o settimane di distanza. Abbiamo poche ragioni per credere che si tratti di reali casi di reinfezioni o riattivazioni di Covid-19, è più probabile che i test abbiano rilevato tracce del DNA del virus nell’organismo ospite perché è stato debellato». I Korea Centers for Disease Control and Prevention (KCDC) sostengono che i pazienti guariti che risultati positivi sembrano non essere contagiosi e dalle analisi sembra che non sia stato possibile rilevare virus vivi in tali situazioni».
Da Bloomberg il 20 maggio 2020. Gli scienziati dei Centri coreani per il controllo e la prevenzione delle malattie - riporta Bloomberg - hanno studiato 285 guariti al Covid-19 che erano risultati positivi al coronavirus dopo che la loro malattia si era apparentemente risolta, come indicato da un precedente risultato negativo del test. I cosiddetti pazienti ri-positivi non sono stati trovati a diffondere alcuna infezione persistente, e i campioni di virus raccolti prelevati non potevano essere coltivati in coltura, indicando che i pazienti si stavano liberando di particelle di virus non infettive o morte. Le prove emergenti dalla Corea del Sud suggeriscono che coloro che si sono ripresi da Covid-19 non presentano alcun rischio di diffusione del coronavirus quando le misure di distanziamento fisico sono allentate. I risultati indicano che le autorità sanitarie della Corea del Sud non considereranno più contagiose le persone dopo la guarigione dalla malattia. La ricerca del mese scorso ha dimostrato che i cosiddetti test PCR per l'acido nucleico del coronavirus non sono in grado di distinguere tra particelle di virus morte e vitali, dando potenzialmente l'impressione sbagliata che qualcuno che risulta positivo al virus rimanga infettivo. La ricerca può anche aiutare nella ricerca sui test anticorpali, che cercano marcatori nel sangue che indicano l'esposizione al nuovo coronavirus. Gli esperti ritengono che gli anticorpi probabilmente trasmettono un certo livello di protezione contro il virus, ma non hanno ancora prove concrete. Come risultato dei risultati dello studio della Corea del Sud, le autorità hanno detto che, secondo i protocolli rivisti, le persone non dovrebbero più essere obbligate ad eseguire un nuovo test dopo che sono guarite dalla loro malattia e hanno completato il loro periodo di isolamento. "Secondo i nuovi protocolli, non sono necessari ulteriori test per i casi che sono stati dimessi dall'isolamento", ha detto il CDC coreano in un rapporto. Alcuni pazienti affetti da coronavirus sono risultati nuovamente positivi al virus fino a 82 giorni dopo l'infezione.
Guariti dal Covid-19 si ammalano di nuovo. Esplodono casi in Lombardia. Pazienti guariti dal Covid-19 si ammalano di nuovo: 9 persone tornano positive al virus nelle province di Lodi e Cremona. Intanto, procedono i test sierologici sulla popolazione. Rosa Scognamiglio, Venerdì 01/05/2020 su Il Giornale. Negativizzano il virus ma poi, si ammalano di nuovo. È quanto starebbe accadendo in alcune delle città lombarde funestate dal Covid-19 dall'inizio dello scorso 21 febbraio, allorquando era esploso il caso del "paziente uno" di Codogno. S'inclina la curva dei contagi in Lombardia facendo segnare una netta inversione del trend epidemiologico rispetto alle settimane precedenti: +598 positivi alla data del 30 aprile con il numero di decessi che scende, per la prima volta, sotto quota 100. Ma nonostante il bollettino diffuso dalla Protezione Civile lasci intravedere la luce alla fine del tunnel, alcune segnalazioni raccolte dalle Asst locali impediscono di cantare vittoria anzitempo. Stando ad alcune indiscrezioni raccolte da La Repubblica, infatti, nelle province di Lodi e Cremona si sarebbero registrati casi di pazienti tornati positivi al virus a distanza di settimane dalla guarigione. Nello specifico, si tratta di 9 persone che, dopo aver negativizzato il Covid, hanno manifestato i sintomi della ormai nota polmonite interstiziale bilaterale caratterizzante l'infezione. Per alcune di queste sarebbe stato disposto, ancora una volta, il ricovero ospedaliero mentre altre si ritroverebbero in isolamento domiciliare. Contagi di ritorno? Recidività? Difficile, al momento trovare il bandolo della matassa. Fatto sta che dagli esami sierologici effettuati sulla popolazione, pare siano stati messi in quarantena molti più soggetti di quanti non siano realmente entrati in contatto col virus. Nel dettaglio, i positivi accertati dai test sono 3.448, il 19,9% del totale, mentre i negativi sono 13.669, il 79,1%, il resto sono casi dubbi. Il maggior numero di test, 8.093, è stato fatto presso gli operatori sanitari della Ats Brescia, di cui 903 sono risultati positivi e 7.192 negativi. Per quanto concerne i test tra i cittadini in quarantena, il numero maggiore è stato effettuato nella Ats Bergamo, 1.054, con 652 positivi e 363 negativi. "Come immaginavamo dall'analisi di questi dati preliminari - chiarisce il professor Fausto Baldanti, Direttore della Virologia Molecolare dell'Irccs San Matteo di Pavia - sembra che la circolazione del virus sia stata maggiore nella zona di Bergamo (Alzano e Nembro), mentre a Brescia, Cremona, Crema, Lodi e Codogno è stata meno intensa. E' possibile che il dato di contagio degli operatori sanitari rifletta il tasso di circolazione del virus in Lombardia. Quindi occorre, se sarà confermato l'andamento di queste analisi, la ripartenza dovrà tener conto che la maggior parte dei cittadini è potenzialmente suscettibile e si rende quindi necessaria la massima prudenza in vista della ripartenza".
Ottimista anche l'assessore al Welfare della Regione Lombardia, Giulio Gallera, per il quale "Le misure di contenimento messe in atto dalla Regione dunque sono state efficaci perché hanno permesso di proteggere, tempestivamente e indipendentemente dal tampone, i contatti stretti di coloro che avevano contratto la malattia". Nei prossimi giorni saranno eseguiti altri test ematici; sarà solo allora che si potrà avere uno spettro più ampio circa la diffusione reale del Covid-19.
Virus, spunta nuovo allarme "Guariti immuni? Zero prove". L'Oms gela le speranze: "Chi è guarito non è al riparo da un nuovo contagio". Allerta per i falsi positivi e negativi. Federico Garau, Sabato 25/04/2020 su Il Giornale. L'Organizzazione mondiale della sanità (Oms) spegne ogni tipo di entusiasmo circa la validità di un eventuale "passaporto di immunità" che garantisca, senza possibilità alcuna di errore, che un essere umano guarito dal Coronavirus possa sviluppare degli anticorpi in grado di impedire un secondo contagio. Non esiste, infatti, alcuna evidenza scientifica a riguardo, e la grande mutevolezza del Sars-Cov-2 non è di certo un elemento a sostegno di un'ipotesi del genere. L'Oms ha deciso quindi di pubblicare un comunicato in cui evidenzia tutti i dubbi a riguardo. "Non ci sono abbastanza evidenze sull’efficacia dell’immunità data dagli anticorpi per garantire l’accuratezza di un passaporto di immunità oppure di un certificato di 'libertà dal rischio", premette l'istituto specializzato dell'Onu in un comunicato. "Alcuni governi hanno suggerito che trovare gli anticorpi al Sars-Cov-2 possa servire come base per un 'passaporto di immunità', che permetterebbe agli individui di viaggiare e tornare al lavoro presumendo che siano protetti da una reinfezione", aggiunge l'Oms. "Non c'è al momento alcuna prova che le persone che sono state colpite dal Covid-19, ed abbiano per questo sviluppato degli anticorpi, siano protette da una seconda infezione". L'organizzazione tende a precisare inoltre che non sono poco numerosi i casi di guariti che abbiano maturato un livello bassissimo di protezione: "Alcuni di questi hanno livelli estremamente bassi di anticorpi neutralizzanti nel sangue. Al 24 aprile 2020, nessuno studio ha valutato se la presenza degli anticorpi da Sars-CoV-2 possa dare immunità ad una successiva infezione nell’uomo". “Lo sviluppo dell'immunità a un patogeno attraverso l'infezione naturale è un processo in più fasi che si svolge in genere nell'arco di 1-2 settimane”, chiarisce l'Oms. “Il corpo risponde immediatamente a un'infezione virale con una risposta innata non specifica in cui i macrofagi, i neutrofili e le cellule dendritiche rallentano il progresso del virus e possono persino impedire che causi sintomi. Questa risposta non specifica è seguita da una risposta adattativa in cui il corpo produce anticorpi che si legano specificamente al virus. Questi anticorpi sono proteine chiamate immunoglobuline. Il corpo produce anche cellule T che riconoscono ed eliminano altre cellule infettate dal virus. Questo si chiama immunità cellulare. Questa risposta adattativa combinata può eliminare il virus dal corpo e, se la risposta è abbastanza forte, può prevenire la progressione a malattia grave o reinfezione da parte dello stesso virus. Questo processo viene spesso misurato dalla presenza di anticorpi nel sangue”, prosegue il comunicato. Grave l'allarme che lancia l'organizzazione circa l'inaffidabilità al momento dimostrata dai test di laboratorio a disposizione. “Necessitano di ulteriori convalide per determinarne l'accuratezza e l'affidabilità. Test immunodiagnostici imprecisi possono classificare erroneamente le persone in due modi. Il primo è che possono etichettare falsamente le persone che sono state infettate come negative (falsi negativi), e il secondo è che le persone che non sono state infettate sono erroneamente etichettate come positive (falsi positivi)”. Un rischio che non si può e non si deve correre: “Entrambi gli errori hanno gravi conseguenze e influenzeranno gli sforzi di controllo”. “Le persone che presumono di essere immuni a una seconda infezione perché hanno ricevuto un risultato di test positivo possono ignorare i consigli sulla salute pubblica”, avverte l'organizzazione. “L'uso di tali certificati può quindi aumentare i rischi di una trasmissione continua. Non appena saranno disponibili nuove prove, l'OMS aggiornerà questo documento scientifico”.
Mauro Evangelisti per “il Messaggero” il 24 aprile 2020. Per i casi più gravi di Covid-19 la strada verso la guarigione è lunga e dolorosa; a volte, per fortuna non sempre, rischia di lasciare conseguenze anche dopo le dimissioni. E diviene necessario un non breve periodo di riabilitazione respiratoria. In parallelo, corrono le esperienze di pazienti positivi che convivono con sintomi non pesanti, ma sono costretti a restare in isolamento per un lungo periodo, anche 45-50 giorni, prima di avere un tampone negativo. A Bologna, ad esempio, una ragazza, Bianca, una modella 23 anni, è positiva da 56 giorni dopo sei test («Non ho più sintomi dai primi di marzo, ma i medici mi hanno detto che ho ancora il virus e sono contagiosa» ha raccontato a Ètv). Per l'ospedale è un caso limite. Prendiamo il paziente 1 e 2 in Italia: la coppia di turisti di Wuhan fu portata allo Spallanzani il 29 gennaio, rischiò di morire; marito e moglie (66 e 65 anni) finirono in terapia intensiva, attaccati ai respiratori. Per 49 giorni, sono rimasti ricoverati nell'istituto romano, ma quando sono guariti hanno dovuto trascorrere un altro mese in un altro ospedale, al San Filippo Neri, per la riabilitazione. In sintesi: 80 giorni per riavvicinarsi alla normalità. Veniamo al paziente 1 della Lombardia: Mattia Maestri, 38 anni, la cui misteriosa polmonite cominciò a metà febbraio, fu ricoverato il 20; nonostante il fisico atletico anche lui finì in terapia intensiva, rischiò di morire, anche lui ha vissuto un calvario di due mesi prima di vincere la battaglia, ma oggi continua a inseguire il ritorno alla normalità, perché a volte si sente stanco e deve distendersi. In sintesi: la stragrande maggioranza dei pazienti di Covid-19 ha un percorso non così faticoso, resta a casa, fa la terapia, guarisce e non ha strascichi. Sta bene. Tra coloro che invece passano dalle terapie intensive (oggi sono solo il 2,1 per cento dei pazienti positivi in Italia) c'è chi, anche dopo la guarigione, deve convivere con lunghe e fastidiose conseguenze. Fatica a respirare. Il sistema sanitario sta imparando, giorno per giorno, a guarire i pazienti di Covid-19, ma sta anche cominciando la fase in cui a una parte di loro bisognerà garantire il ritorno alla vita normale. Il professor Franco Locatelli, presidente del Consiglio superiore di sanità: «Per avere un quadro definito andranno condotti studi e valutazioni in maniera rigorosa. In particolare quelli sulla funzionalità respiratoria. Le analisi di eventuali esiti dell'infezione da coronavirus sugli organi è un aspetto cruciale». Il professor Massimo Galli è primario di Malattie Infettive dell'Ospedale Sacco di Milano, uno dei centri di eccellenza in prima linea nella drammatica situazione della Lombardia. Cosa succede ai casi più gravi dopo la guarigione? «La cosa che più ci preoccupa sono i reliquati a livello polmonare. Molti se la cavano, ma sembra abbastanza evidente che diversi abbiano problemi polmonari di una certa importanza. Anosmia e disosmia, i disturbi dell'olfatto e dell'odorato, invece di solito vanno a migliorare o a sparire, anche se non è per tutti così». Va però ribadito un punto fermo: Covid-19 è una malattia che i medici stanno imparando a trattare da pochi mesi. «Siamo solo all'inizio della valutazione a lungo termine - ribadisce il professor Galli - non abbiamo certezze assolute. Ma le prime conclusioni sono queste: la stragrande maggioranza guarisce senza reliquati, ma il problema che può rimanere, più serio, nelle persone che hanno avuto una polmonite devastante, è una insufficienza respiratoria». Quanto deve durare la riabilitazione? «Bella domanda - replica il professor Galli - Le dimissioni sono cominciate alcune settimane fa, per alcuni pazienti abbiamo ancora dei problemi importanti, però si tratta di un'esperienza che non è ancora sufficientemente a lungo termine per potere definire come stiano realmente le cose. Sia chiaro: non significa che i pazienti più gravi, una volta guariti, abbiano tutti la bombola d'ossigeno, non è affatto così, però dei reliquati di ordine respiratorio non trascurabili ci possono essere. Ma ribadiamolo per essere precisi: la stragrande maggioranza delle persone che si infettano neppure arrivano in ospedale e si lasciano alle spalle l'esperienza senza problemi particolari. Se invece parliamo del numero limitato di coloro che finiscono in terapia intensiva, per diversi c'è necessità di percorsi significativi di riabilitazione respiratoria».
Coronavirus, in Sudcorea torna l'incubo: guariti di nuovo positivi e non se ne conosce il motivo. Libero Quotidiano il 19 aprile 2020. In Corea del Sud 163 persone che erano riuscite a sconfiggere il coronavirus, guarendo completamente, si sono riammalate di Covid-19. "Stiamo cercando di capire come sia stato possibile, anche perché qualcosa del genere sta accadendo anche in Cina», ha spiegato il ministro della salute Park. Dai dati risulta che la percentuale delle persone nuovamente positive dopo essere guarite è bassa (circa il 2,1%), ma al momento non è chiaro quanti dei 7.829 pazienti usciti dal tunnel dell' infezione siano stati sottoposti nuovamente al test. Il ministro, scrive il Giornale, ha poi ricordato che per ora i pazienti con nuovi riscontri di positività non sembrano essere contagiosi, anche se circa la metà di loro mostra lievi sintomi della malattia. Secondo la Cnn la spiegazione più plausibile di questo fenomeno è racchiusa in una residua presenza del virus nell' organismo. Tuttavia il governo di Seul ha invitato alla cautela osservando che per la comunità scientifica questo virus ha ancora molti lati oscuri. La Corea del Sud si era distinta come un modello nel contrasto all' epidemia è anche il Paese che ha realizzato il maggiore numero di test rispetto al totale della popolazione, superando quota 240mila in un mese e mezzo.
Svanisce il miraggio patente di immunità. Iss: "Esposti a Covid 9 italiani su 10". Trend dei contagi in discesa e per la prima volta sotto 3mila unità i pazienti in terapia intensiva. Francesca Angeli, Venerdì 17/04/2020 su Il Giornale. Non ci sono le condizioni per dare patentini di immunità. Non esistono test che possano certificare con certezza che non ci ammaleremo di Covid 19. Non solo. In media il 90 per cento della popolazione italiana è a rischio contagio: quindi la stragrande maggioranza dei cittadini è esposta, pur con percentuali diverse a seconda di quanto il contagio sia diffuso nell'area in cui abitano. L'analisi del presidente dell'Istituto Superiore di Sanità, Silvio Brusaferro, è una doccia gelata sulle speranze di una ripartenza veloce per il mondo del lavoro e di un ritorno alla normalità per le famiglie che sognano la riapertura delle scuole e la ripresa delle attività. Alla normalità si tornerà soltanto con un vaccino e serviranno «milioni di dosi». Tempi dunque molto lunghi. La morsa del Covid 19 rallenta e i contagi sono in frenata. Le vittime però sono moltissime, troppe e segnano un dato di mortalità che non ha ancora trovato una risposta univoca e convincente. La sentenza del Comitato tecnico scientifico resta durissima per un mondo del lavoro che scalpita per riprendere a pieno ritmo. I dati registrati ieri ci dicono che almeno 168.941 persone hanno contratto il virus Sars-CoV-2. Un aumento di 3.786 contagiati in 24 ore, dunque più del giorno precedente che aveva segnato un più 2.667 casi. Il totale delle vittime, 22.170, è inferiore soltanto a quelle registrate in Usa e segna un più 525 morti. Attualmente i positivi dei quali si ha certezza sono 106.607 escludendo morti e i guariti che sono in tutto 40.164. I ricoverati con sintomi meno critici sono 26.893 e per la prima volta i pazienti in terapia intensiva scendono sotto le tremila unità: in tutto sono 2.936. Salgono a 76.778 le persone in isolamento domiciliare fiduciario. Un trend decisamente in discesa nonostante il record di tamponi effettuati, oltre 60mila. Per gli esperti non è ancora possibile allentare la morsa delle misure di contenimento. «Il 90 per cento delle persone non è venuto in contatto col virus, è quindi suscettibile all'infezione - insiste Brusaferro - Se non stiamo molto attenti e puntuali nell'adottare le raccomandazioni la circolazione del virus può riprendere in maniera intensa». Preoccupano in particolare i dati di Lombardia e Piemonte dove la circolazione del virus è ancora molto alta e i nuovi contagi sono 941 per la prima e 879 per il secondo. Cifre che inducono a chiedersi se le misure stiano funzionando. Brusaferro ritiene che il blocco stia contenendo il virus visto che «anche in Piemonte e Lombardia il trend è discendente». Il punto è che in quelle Regioni «c'è stata una circolazione del virus maggiore» rispetto al CentroSud e alle isole. E anche perché la mobilità è rimasta alta. Brusaferro comunque invita alla cautela per evitare che la diffusione del virus riprenda forza. L'Rzero, l'indice del contagio deve scendere al minimo, sotto l'1. «Necessario muoversi in maniera graduale, individuando alcuni settori dove è possibile fare alcune riflessioni e accompagnarli con misure di monitoraggio - insiste Brusaferro - Dobbiamo essere cauti». Prudenza anche con i bambini perché «in una struttura familiare come quella italiana, dove il nonno è una figura importante nella gestione del bambino si può creare un cortocircuito che può diventare un boomerang». Gli esperti comunque stanno valutando la possibilità di permettere alle persone di tornare a fare attività fisica, altrettanto importante per la salute.
Coronavirus, il presidente Locatelli: "Via ai test sierologici. L'immunità dura mesi". Il numero uno del Consiglio superiore di sanità spiega che grazie a questi esami scopriremo le differenze di positività per età, territorio e categorie professionali. Andrea Pegoraro, Venerdì 03/04/2020 su Il Giornale. “Il ministero della Salute e il Comitato sono al lavoro per validare nel più breve tempo possibile i test sierologici e consentirne poi una solida applicazione sul territorio nazionale”. Parola di Franco Locatelli, presidente del Consiglio superiore di sanità. Il professore spiega che l’obiettivo è iniziare gli studi prima possibile per definire la circolazione del coronavirus. Poi parla anche dell’immunità. “Possiamo ipotizzare - prosegue l’esperto - che la risposta immune al virus duri almeno per alcuni mesi e sia protettiva rispetto al rischio di ulteriori infezioni”. A tal proposito, Locatelli ribadisce che i dati sono pochi e non consentono di rispondere in modo certo.
I test. I test potranno quindi scoprire quanti italiani siano stati contagiati inavvertitamente dal Covid-19. “È importante - precisa membro del Comitato tecnico scientifico della Protezione civile - definire accuratamente la validità dei test, cioè la loro sensibilità e la loro specificità, per non incorrere in risultati inaffidabili, cioè evitare i cosiddetti falsi positivi e negativi”. Locatelli spiega che uno studio di questo tipo esteso a tutti i cittadini italiani potrebbe fornire le differenze di sieroprevalenza in base a determinati criteri come territorio, fasce di età, genere e professione. Si avrà dunque la possibilità di capire in modo più preciso le caratteristiche epidemiologiche e si avranno informazioni importanti per comprendere la diffusione dell’epidemia. Nei test verranno compresi anche i soggetti asintomatici, “che siano comunque venuti in contatto con il virus sviluppando una risposta di anticorpi”, specifica il professore. In un'intervista a Repubblica, Locatelli afferma che il tasso di sieroprevalenza potrebbe essere molto differente tra le regioni in quanto quelle maggiormente colpite dal Covid-19 potrebbero avere percentuali più alte. Come detto, il presidente del Consiglio superiore di sanità si augura che i test inizino quanto prima. “Confidiamo che questo obiettivo possa essere raggiunto a breve - prosegue - una volta validati i test diagnostici e definito il programma di attuazione operativa della conduzione di queste indagini”. Il professore ricorda che ci sono numerosi esami per individuare una risposta di anticorpi al Covid-19. Poi ribadisce che il campione da sperimentare è influenzato da molte variabili. "Se poi le informazioni si vorranno utilizzare per politiche future di graduale e prudente allentamento delle misure d'isolamento - conclude Locatelli - bisognerà tenere conto del settore di attività economica, limitatamente alle forze lavoro".
Da “Sono le Venti – Nove” il 7 aprile 2020. Massimo Galli, infettivologo dell'ospedale Sacco, durante la puntata di Sono le Venti in onda ieri sul Nove, risponde a Peter Gomez se sia accertato, come da indicazioni dell’OMS, che dopo 15 giorni dagli ultimi sintomi, l’infezione da Covid-19 sia esaurita: “Evidentemente non è così e non è così in una quantità di casi, ahimè, che stanno emergendo un po’ ovunque. Mi sembra di poter dire che sono tutt’altro che infrequenti i casi in cui la dismissione del virus a livello dei secreti respiratori va avanti per settimane. Ed è evidente che queste persone continueranno ad essere potenzialmente contagianti fino al giorno in cui finalmente il virus si sarà stancato di replicare e quindi dovranno essere sottoposti a ulteriori accertamenti finchè questa cosa li renderà liberi sia dalla presenza del virus che dalla necessità di rimanere tappati in casa in quarantena”. E sulla durata dell’immunità dopo aver avuto il virus, aggiunge: "Sarà soltanto il tempo a dirlo, anche se francamente, ragionando per analogia con altre malattie, non dispererei sul fatto che l’infezione da coronavirus ti dia un’immunità piuttosto stabile nel tempo... commetterei, ma non è un approccio scientifico la scommessa, e tenderei a dire che dovremmo avere una discreta immunità post infezione”.
Coronavirus e quarantena: “Non bastano 14 giorni, ne servono 28”. L'annuncio della Lombardia. Le Iene News l'11 aprile 2020. Lo ha annunciato l’assessore al Welfare della Lombardia Giulio Gallera: “Molte persone poi sono ancora positive, a garanzia di tutti allunghiamo il periodo. L'idea, poi, è di fissarlo a 28 giorni in via definitiva”. Noi de Le Iene abbiamo sollevato questo tema con il caso del nostro Alessandro Politi. “Non bastano 14 giorni in quarantena per gli infetti da coronavirus, l’idea è portarla fino a 28”. L’annuncio arriva direttamente dall’assessore al Welfare della Lombardia Giulio Gallera, che ha fatto sapere nella quotidiana conferenza stampa della regione che “sta uscendo una linea guida che prevede che la quarantena duri fino al 3 maggio”. E questo perché sembra proprio che il periodo inizialmente indicato non sia sufficiente. “I 14 giorni servono per vedere se compaiono i sintomi del coronavirus, ma molte persone poi sono ancora positive al tampone quindi a garanzia di tutti allunghiamo il periodo. L'idea, poi, è di fissarlo a 28 giorni in via definitiva". Insomma un cambiamento importantissimo su un tema cruciale, sollevato da noi de Le Iene con il racconto del nostro Alessandro Politi. La Iena è infatti risultata positiva al coronavirus il 7 marzo, ma a distanza di un mese dalla scomparsa dei sintomi il suo tampone purtroppo è ancora positivo. “Saranno sufficienti 14 giorni di quarantena?”, ci eravamo chiesti. A quanto pare no, se la Lombardia sente l’esigenza di raddoppiare questo periodo per i positivi. E proprio del rischio che i 14 giorni fossero insufficienti avevamo parlato anche con il professor Bassetti dell’ospedale San Martino di Genova, che ci aveva confermato come fosse possibile rimanere positivi anche ben oltre quella data: “Noi controlliamo il tampone al 21° giorno: la maggioranza dei casi non si risolve entro i 14 giorni. C’è comunque una percentuale di soggetti che continua a essere positivo in assenza di sintomi anche dopo tre settimane”, ci aveva detto l’infettivologo. E con Greta, una ragazza italiana che vive a Shanghai, vi abbiamo mostrato come la quarantena in Cina per chi rientri dall'estero può durare fino a 28 giorni. Su questo tema era intervenuto anche il Codacons che, dopo l’intervento del nostro Alessandro Politi, aveva sollevato “la necessità di revisione del periodo inerente la misura della quarantena delle persone sospettate di avere contratto il virus”. Necessità che a quanto pare la regione Lombardia adesso ha sentito il dovere di recepire. Resta però ancora aperta la questione di chi non ha potuto ricevere il tampone: anche per loro è necessario allungare il periodo dei 14 giorni? Speriamo che si faccia presto chiarezza anche su questo.
Infermiera positiva al Coronavirus dopo quasi un mese dal primo tampone. Altri 3 contagi in ambito sanitario: dopo l’anestesista del San Carlo, positivo anche un autista 118. Test ancora sul banco degli imputati per un caso scoperto al terzo tentativo. Leo Amato il 21 aprile 2020 su Il Quotidiano del Sud. Altri tre contagi, e tutti in ambito sanitario, dopo quello di un’anestesista del gruppo covid del San Carlo: un autista del 118 del capoluogo, un’infermiera di Viggiano in servizio all’ospedale di Villa d’Agri e un paziente del centro di riabilitazione psichica la Vallina di Calvera. Sono arrivati ieri sera i dati dei primi tamponi positivi al coronavirus da sabato. Dopo altre 24 ore a zero contagi come martedì scorso (primo giorno senza nuovi casi da metà marzo), e gli orizzonti luminosi disegnati dall’ultima “mappa” dell’Osservatorio nazionale sulla salute nelle regioni italiane, coordinato da Walter Ricciardi (direttore dell’Osservatorio e ordinario di Igiene all’università Cattolica), e da Alessandro Solipaca (direttore scientifico dell’Osservatorio). Uno scenario in cui la Basilicata e l’Umbria potrebbero liberarsi dal pensiero di nuovi contagi oggi stesso, «21 aprile», mentre il resto del Sud dovrebbe accodarsi entro gli inizi di maggio; il Lazio dovrà attendere «almeno il 12 maggio»; Veneto e Piemonte il 21 maggio; Emilia Romagna e Toscana non «prima della fine di maggio»; e Lombardia e Marche, dove l’epidemia ha picchiato più duro: «non prima di fine giugno».
Test ancora sul banco degli imputati per un caso scoperto al terzo tentativo. A inquietare c’è in particolare la vicenda dell’infermiera dell’ospedale di Villa d’Agri, che sarebbe risultata positiva, ieri, al terzo tampone, dopo quasi un mese di auto-isolamento prudenziale. L’esito negativo dei primi due tamponi effettuati, a fine marzo e 15 giorni dopo, infatti, non l’avevano convinta del tutto che i sintomi accusati dall’inizio di aprile fossero dipendenti da una banale influenza. Di qui il sospetto e la quarantena spontanea rivelatasi provvidenziale. A finire sul banco degli imputati, quindi, sono proprio quei tamponi che a tuttora vengono considerati lo strumento fondamentale per programmare una ripartenza in sicurezza delle attività sospese da metà marzo. Ripartenza che, sulla scorta di mappe come quelle disegnate da Osservasalute, potrebbe vedere la Basilicata in prima linea. Tanto più se si considera la coincidenza tra i dati epidemiologici e la presenza sul suo territorio, tra l’ altro, del più grande stabilimento italiano di Fca. In giornata dovrebbe essere reso noto l’esito degli ultimi tamponi che sono stati nuovamente prelevati a buona parte del personale del gruppo covid della terapia intensiva del San Carlo di Potenza, dopo il primo caso di contagio, registrato domenica, tra i medici che entrano ed escono dai box in plexiglass dove sono assistiti i pazienti più gravi. Si spera in un caso isolato e un contagio arrivato dall’esterno, poi, tra gli operatori del 118. Dopo l’autista potentino, del tutto asintomatico, scoperto sempre ieri sera, all’esito dei test a tappeto effettuati sul personale del dipartimento regionale emergenza urgenza. Con gli ultimi 3 casi accertati è salito a 353 il numero dei contagiati in Basilicata, anche se quelli tuttora positivi al sars-cov2 restano un centinaio di meno. Ieri sono saliti a 77 anche i guariti e sono ulteriormente scesi i pazienti ricoverati in terapia intensiva: da 8 a 7 (4 a Potenza e 3 a Matera), contro i 19 dei giorni del picco di inizio aprile.
Clarida Salvatori per il “Corriere della Sera” il 26 aprile 2020. «La mia è stata ed è ancora un' odissea, sono positiva al coronavirus da quasi due mesi. Sono stata ricoverata in tre ospedali. Ho fatto quattro Tac ai polmoni. E ancora non sono guarita». A raccontare i suoi quasi due mesi di convivenza forzata con il Covid-19 è Stefania Giardoni, commessa, tra le prime a essersi ammalata a Roma. «Il virus si è innamorato della sua ospite», ha comunque voglia di scherzare, nonostante tutto. I primi sintomi si sono manifestati con un forte mal di testa, un bel raffreddore e la perdita del gusto. «Poi è arrivata la febbre, non alta, intorno a 37,6, che andava e veniva», continua Stefania. Dal 29 febbraio, però, i sintomi sono molto peggiorati, finché il 7 marzo aveva talmente così tanta tosse da non riuscire a respirare. A quel punto è andata direttamente allo Spallanzani. «Lì mi hanno subito auscultato i polmoni e si sono accorti che la saturazione era bassa -ricorda -. Quindi mi hanno ricoverata e messa in isolamento. Il risultato del tampone è arrivato il giorno dopo: posi-tivo. Poi la Tac ha rivelato una polmonite bilaterale». La notizia è stata una doccia gelata, non si aspettava di aver contratto il coronavirus. «Quando me lo hanno detto ho avuto paura. E mi sono chiesta dove potevo essermi contagiata: credo al lavoro, toccando i soldi, o con qualche cliente che stava male. Molti erano stranieri e del Nord Italia». Dopo il ricovero allo Spallanzani è stata trasferita al Covid Center 3 di Casal Palocco, dove le hanno somministrato l' idrossiclorochina, che però come effetto collaterale le ha causato l' ipertensione. «Nonostante questo - dice - , visto che il tampone era risultato negativo, mi hanno dimessa. Allora sono tornata a casa fiduciosa, cos' altro potevo fare? Ma la verità è che stavo ancora male, tanto che il 5 aprile sono dovuta tornare in pronto soccorso, questa volta al San Camillo. E purtroppo è ricominciato tutto daccapo. Ho fatto ancora una volta tampone orofaringeo ed esame sierologico: positivo il primo, IgM (immunoglobuline, ndr ) alte. Avevo ancora il coronavirus, dopo più di un mese non ero riuscita a scacciare il virus». Stefania oggi è ancora ricoverata all' ospedale. «Il 28 aprile, tra due giorni, rifarò il tampone e la Tac e vedremo se mi sono finalmente negativizzata».
Da liberoquotidiano.it il 24 aprile 2020. Bianca Dobroiu, modella di 23 anni di origine rumena vive a Bologna, è all’ennesima positività del test al Coronavirus descrive così, su Facebook, il suo stato d’animo: "Dopo 57 giorni, ecco il nuovo risultato. Beh, nuovo non è perché non è mai cambiato: e questo ormai da quasi due mesi. Ma ci ho sempre dato poco peso aspettando che cambiasse qualcosa. Non sta cambiando proprio nulla e la cosa a oggi mi spaventa un pochetto. Non è normale tutto questo, e ancor di più se io dal 10 di marzo non ho più alcun sintomo". Lo scrive il Corriere della sera. La modella rumena era la prima ricoverata nella città delle Due Torri. Ed era venerdì 28 febbraio. Le cure al Sant’Orsola, struttura d’eccellenza bolognese. "Due visite al giorno, tachipirina al bisogno e antibiotico. Questo per i primi due giorni. Poi tutto è andato riducendosi perché miglioravo. Nel personale medico, che ringrazio enormemente, ho visto tantissima serenità". Bianca è stata dimessa il 5 marzo. Stava bene, almeno in apparenza. Ma i tamponi hanno detto poi, uno dopo l’altro, che è ancora malata, ancora positiva al Coronavirus dopo circa due mesi di quarantena. Il responso dei sei test è stato il medesimo: tutti positivi. Al Sant’Orsola spiegano che Bianca "è sotto costante monitoraggio. A quanto ci risulta, nessun altro in Italia è rimasto positivo ai tamponi così a lungo. Usualmente la positività non supera le quattro settimane".
Coronavirus, Massimo: “Mio padre è morto, io sono positivo da 45 giorni”. Matteo Gamba su Le Iene News il 24 aprile 2020. Massimo De Masi, 45enne romano, ci ha contattato dopo il caso del nostro Alessandro Politi. Raccontandoci la sua storia drammatica: “Il giorno dopo la nascita di nostra figlia, mio padre si è ammalato, forse gli ho portato il virus dall’ospedale. Io sono positivo da un mese e mezzo. Nessuno mi aveva detto di stare a casa, perfino il tampone sono riuscito a farmelo fare con grande fatica: anche guardando il mio caso, può bastare una quarantena di 14 giorni?” “Dopo la felicità per la nascita di mia figlia, sono iniziati i drammi. Dalla morte di mio padre, che forse ho contagiato io tornato dall’ospedale dopo il parto di mia moglie, alla mia positività da un mese e mezzo”. Massimo De Masi, 45 anni, romano, ci racconta al telefono una storia che va al cuore del dramma coronavirus che sta stravolgendo la vita di tantissimi italiani. Una storia che lascia anche tanti dubbi aperti sulle regole per i tamponi e della quarantena. Non a caso Massimo, che vede qui sopra in foto autorecluso in un appartamento da un mese e mezzo, ci ha contattato dopo aver visto il racconto della nostra Iena Alessandro Politi, ancora positivo dopo 45 giorni, e aver letto su Iene.it l’intervista a Fausto Russo: “Positivo da 45 giorni, asintomatico da 20: bastano davvero due settimane di quarantena?”.
Come è cominciato il tuo dramma?
“Paradossalmente da una gioia, la nascita della nostra figlia, il 9 marzo. Non la vedo da allora. Mia moglie subito dopo ha avuto una brutta emorragia e ha dovuto gestire poveraccia tutto da sola, con la neonata e una bambina di 6 anni”.
Cosa è successo?
“Il destino ha iniziato ad accanirsi subito. Il giorno dopo, il 10 marzo, ho visto papà a casa. L’11 mio padre che viveva sotto a noi ha iniziato ad avere i primi sintomi. Il sospetto è io abbia preso il coronavirus in sala parto o comunque in ospedale e poi abbia contagiato subito papà. Di sicuro è difficile che sia stato lui a contagiare me prima, visto che non usciva da venti giorni, dall’inizio dell’epidemia in Italia, proprio per evitare rischi”.
Che sintomi aveva tuo padre?
“Non abbiamo pensato subito solo al coronavirus, a Roma al tempo i casi erano pochissimi. Mio padre Nicola aveva 74 anni e nessun altro grave problema di salute pregresso. Aveva tosse e febbre. Io mi sono trasferito al piano di sotto da lui e ho preferito non avere più contatti con moglie e bambine per evitare rischi di contagio. Sono un addetto agli impianti elettrici ma avendo seguito la tragica fine di mia mamma tre anni fa per un tumore al polmone, un po’ mi intendo anche di cose di infermeria. Abbiamo un saturimetro: non sembrava gravissimo”.
Poi è peggiorato?
“Sì, i disturbi non passavano. Il 17 marzo è stato ricoverato. Da allora non abbiamo saputo più nulla per due giorni, quando mi hanno chiamato dicendomi che era positivo al Covid-19. Il 24 marzo ci hanno comunicato che era morto, non ho potuto nemmeno salutarlo per l’ultima volta. Da quando mio padre è andato in ospedale mi ero già isolato definitivamente in quarantena. L’ho deciso da solo: nessuno mi ha detto di farlo. Quel giorno avevo iniziato a sentire un possibile piccolo sintomo. Mi è diminuito l’olfatto, è l’unico sintomo che ho avuto da allora. Non ho mai avuto febbre o tosse. Sarei potuto tranquillamente uscire e diffondere il contagio. Meno male che quel giorno ho fatto la prova con una boccetta di profumo. Era vero: sentivo molto meno gli odori”.
Hai fatto un tampone?
“Ci sono riuscito solo dopo centinaia di telefonate. Se prima nessuno mi aveva detto di isolarmi, poi non volevano nemmeno farmi il test. Li ho convinti dicendo che potevo essere stato contagiato nella sala parto di un ospedale oppure che potevo aver contagiato io il personale sanitario. Il 25 marzo l’hanno fatto a me e a mia moglie e alle bambine sopra. Solo io sono risultato positivo”.
Hai fatto altri tamponi?
“Un altro, sempre insistendo al telefono, il 18 aprile: sono sempre positivo. Il prossimo? Mi hanno detto che forse me lo faranno ai primi di maggio. Mia moglie è su, sola, con una neonata e una bambina, mio padre è morto, io sono e resto qui anch'io da solo: aspetto e chiamo. Voglio però dirlo a tutti, come aiuto magari per chi non ha fatto la quarantena: 14 giorni nel mio caso non sarebbero sicuramente bastati. Credo di avere il coronavirus da 45 giorni, di sicuro sono positivo dal 25 marzo. Fate attenzione e magari cambiamo le regole per l’isolamento!”.
Il coronavirus e la Iena positiva dopo 45 giorni: ecco la sua storia. Le Iene News il 22 aprile 2020. Il 6 aprile vi abbiamo raccontato su Iene.it la storia di Alessandro Politi perché dopo 30 giorni la Iena era ancora pienamente positivo al tampone. La questione ha sollevato diverse discussioni, anche nel mondo scientifico: ora lui ci racconta il suo viaggio in prima persona. Nelle scorse settimane su Iene.it vi abbiamo raccontato la storia di Alessandro Politi, la Iena risultata positiva al coronavirus. Avevamo deciso di farlo perché a distanza di 30 giorni il suo tampone era ancora pienamente positivo, e questo ci aveva sollevato più di un dubbio sulla durata della quarantena. Adesso la Iena ripercorre in prima persona il suo lungo viaggio, per fortuna senza gravi conseguenze, della malattia. Inizia tutto il 7 marzo, quando si sveglia con febbre e mal di testa. Dopo qualche insistenza riesce a farsi fare il tampone, il cui esito purtroppo è positivo. I sintomi per fortuna spariscono in fretta e la quarantena continua. Alla compagna di Alessandro però non è possibile fare il tampone. Dopo 18 giorni è finalmente il momento del secondo tampone per sapere se è guarito o meno. Purtroppo, nonostante i sintomi siano spariti da tempo, il risultato è ancora positivo. “Il tempo di negativizzazione è più lungo di quello stimato”, dicono i medici ad Alessandro. E dopo 20 giorni la quarantena deve continuare, mentre troppa gente rischia di restare in giro mettendo in pericolo la propria sicurezza e quella degli altri. Il 3 aprile, a 28 giorni dal primo tampone, è il momento di fare il terzo test: il risultato però non cambia, ancora positivo. “Diciamo che i tempi sono più lunghi di quelli della mitica quarantena. Non è l’unico caso”, dice la voce poco consolante del medico al telefono. E così decidiamo di pubblicare il video che molti di voi hanno visto nelle scorse settimane, per porre una domanda: perché una persona con gli stessi sintomi di Alessandro, ma che non ha potuto fare il tampone, è libera di uscire dopo 15 giorni? Forse anche questo contribuisce al contagio? E le parole di Alessandro sono diventate virali sul web e i media. Anche per questo in tanti hanno deciso di raccontare la loro vicenda, molto simile a quella della Iena: potete vedere le loro testimonianze nel video qui sopra. Anche il mondo scientifico intanto si è interrogato su questo tema, tanto che la regione Lombardia avrebbe deciso di allungare la quarantena per i positivi fino a 28 giorni. Al quarantesimo giorno di positività la Iena torna a fare un nuovo tampone: ormai, purtroppo, è di casa con i dottori. “Non sei l’unico ancora positivo dopo 40 giorni, adesso i test li facciamo dopo 28 giorni perché abbiamo visto che 14 erano troppo pochi”, spiega una di loro. E dopo 45 giorni, purtroppo il tampone è ancora positivo. Noi ripetiamo la stessa domanda: in quanti, che non hanno ricevuto il tampone, potrebbero essere ancora positivi e andare in giro infettando inconsapevolmente gli altri? “Bella domanda. Se non si cambiano le direttive, c’è poco da fare…”.
Coronavirus: “Positivo da 45 giorni, asintomatico da 20: bastano davvero due settimane di quarantena?” Matteo Gamba su Le Iene News il 18 aprile 2020. Fausto Russo, 38 anni, ci ha contattato dopo aver visto la testimonianza del nostro Alessandro Politi, che era risultato ancora contagiato dopo oltre 30 giorni. Fausto, positivo e asintomatico dopo le due settimane della quarantena previste, insiste con i dubbi sulle regole anti contagio, anche perché lui se l’è vista davvero brutta: “Un altro giorno in casa e sarei morto”. “Sono positivo al coronavirus da 45 giorni e asintomatico da 20: dopo aver saputo della storia del vostro Alessandro Politi volevo raccontare la mia. Magari può essere utile per capire che forse le due settimane di quarantena non bastano per avere la certezza di essere guariti dal coronavirus”. Fausto Russo, 38 anni osteopata e preparatore atletico di Minturno (Latina) ci ha contattato dopo la testimonianza della Iena Alessandro Politi, che era risultato ancora contagiato e infettivo dopo oltre 30 giorni. Ci ha raccontato la sua storia come contributo per tutti. Una storia che all’inizio gli ha fatto sfiorare la morte: “Non l’avrei mai detto: ho 38 anni, sono uno sportivo, non ho altre malattie, eppure me la sono vista davvero brutta”.
Quando hai avuto i primi sintomi?
“Era il 5 marzo, sono stato il primo paziente della provincia di Latina e uno dei primi del Lazio. Lavoravo nel mio centro fitness e ho iniziato a sentirmi come l’influenza. Non pensavo al coronavirus, da noi di fatto non era ancora arrivato. Tornato a casa avevo la febbre alta”.
Poi cosa è successo?
“Ho contattato subito il mio medico di base. La febbre non scendeva, aumentavano la tosse e soprattutto i problemi a respirare. L’8 marzo il dottore mi ha detto di chiamare il 118. Sono venuti a prendermi con l’ambulanza a sirene spiegate e mi hanno ricoverato: ero positivo al Covid-19 con una polmonite interstiziale bilaterale. Prima di uscire di casa, per non spaventare i miei bambini di 3 e 5 anni che piangevano mentre mi portavano via tutti bardati, mi sono inventato che andavo a fare delle foto perché mi stavano trasformando nel Mister Incredibile dei cartoni animati. Mi hanno detto poi i medici che se fossi rimasto in casa un’altra notte sarei morto”.
Ti hanno intubato?
“No, all’ospedale Santa Maria Goretti di Latina per sei giorni mi hanno messo un casco pressurizzato per aiutarmi a respirare ma sono rimasto cosciente. Mi hanno chiesto anche se potevano usare il farmaco contro l’artrite reumatoide sperimentato al Pascale di Napoli e devo dire che dopo 48 ore ha avuto ottimi effetti. Il coronavirus l’ho preso penso lavorando in palestra, di sicuro non ero stato al Nord e nemmeno in Cina!”.
Da quando stai meglio?
“Dal 28 marzo non ho più sintomi. I dottori dicevano che potevo andare a casa ma non volevo rischiare di contagiare mia moglie e i miei bambini. Ora mi trovo in un hotel dove hanno messo tutti gli asintomatici. Risulto sempre positivo da venti giorni, più delle due settimane della quarantena, ne sono passati addirittura 45 dal manifestarsi del Covid. Per questo vi ho contattato. Siamo sicuri che basti una quarantena di due settimane per non essere più positivi e contagiosi? Non rischiamo diffondere ulteriormente il virus così, soprattutto da chi è rimasto a casa e non ha fatto né il primo tampone né gli ultimi? Quante persone sono uscite di casa ancora contagiose senza saperlo perché non li hanno fatti? Io intanto aspetto che diventino negativi i miei per tornare in famiglia, con addosso la tuta da Mister Incredibile ovviamente!”.
Coronavirus e la Iena ancora positiva dopo 30 giorni: “Non è un caso isolato”. Le Iene News il 6 aprile 2020. Dopo il video del nostro Alessandro Politi, in cui la Iena racconta la sua storia e solleva alcune domande sulla gestione dell’emergenza, noi di Iene.it abbiamo parlato di questo con il professor Bassetti: “Non è un caso isolato, ma fare tamponi a tutti non è possibile: l’unico strumento è il distanziamento sociale”. “Non è un caso isolato”. La nostra Iena Alessandro Politi è ancora positivo dopo 30 giorni, anche se i sintomi si sono per fortuna risolti quasi subito. E questo ci fa porre una domanda: quante persone con la sua stessa sintomatologia non hanno ricevuto il tampone, e dopo due settimane di isolamento potrebbero essere uscite pur essendo ancora contagiose? Per capire qualcosa di più Iene.it ha parlato con il professor Matteo Bassetti, il direttore della clinica di malattie infettive di Genova. “E’ importante intanto distinguere due cose: un conto è il tempo di incubazione, che può arrivare al massimo a 14 giorni. Su questo dato si era detto inizialmente che la quarantena dovesse durare 14 giorni”, ci spiega il professor Bassetti. “Per quanto riguarda l’evoluzione della malattia, abbiamo scoperto come sia ampiamente variabile: c’è chi ha pochissimi sintomi, tanto che nemmeno si accorge di esser stato malato, e chi invece sviluppa sintomi seri fino alla polmonite che richiede il ricovero. La sintomatologia è così variabile che è difficile tracciare tutti i malati”. Per quanto tempo quindi una persona, magari poco sintomatica, resta positiva? “E’ molto variabile, ma oggi al San Martino noi controlliamo il tampone al 21° giorno: la maggioranza dei casi non si risolve entro i 14 giorni. C’è comunque una percentuale di soggetti che continua a essere positivo in assenza di sintomi anche dopo tre settimane”, ci dice Bassetti. “Bisognerà capire perché il tempo di guarigione può variare molto, oggi non è ancora certo: è possibile che questo dipenda dalla capacità del sistema immunitario di debellare il virus più o meno in fretta”. E questa idea è condivisa anche dal professor Galli del Sacco di Milano: “Ci sono diversi casi e vanno approfonditi”, ha detto al Corriere della sera commentando proprio le condizioni della Iena. “Sarà importante soprattutto per le regole da stabilire in vista della ripartenza”. E di questo ne parliamo anche con il professor Bassetti, ma prima c’è un punto centrale sollevato dal nostro Alessandro Politi: quante persone potrebbero essere nelle sue condizioni ma non aver ricevuto il tampone, e dunque libere di uscire dopo due settimane anche se magari ancora positive al coronavirus? “Ce ne potrebbero essere, però se noi rispettiamo il distanziamento sociale questo rischio si annulla. Se esco di casa quando sono ancora infettivo, ma non mi avvicino, non posso verosimilmente contagiarti. Su questo il protocollo Oms è chiaro: bisogna mantenere sempre il distanziamento sociale finché non ci sono zero casi di trasmissione”. “Se l’indicazione di rimanere a casa in isolamento per 15 giorni dopo la fine della malattia fosse insufficiente”, ci spiega ancora Bassetti, “la riserva è rappresentata dal distanziamento sociale che è stato imposto. C’erano una serie di misure paracadute per contenere l’eventuale insufficienza del periodo di isolamento”. C’è però una cosa che il professore chiarisce: “E’ difficilissimo gestire una pandemia di una malattia sconosciuta. L’unico caso prima di noi era la Cina, da cui le informazioni sono arrivate in modo solo parziale. Uno dei limiti avuti nel gestire la situazione è stato proprio questo: le informazioni arrivavano dall’altra parte del globo con sistemi diversi. Oggi lo conosciamo in prima persona”. E il dubbio che le due settimane di quarantena possano essere troppo poche è stato espresso anche dal professor Francesco Broccolo dell'università Bicocca, che a Live non è la d’Urso ha detto: “Ci sono altri casi documentati in letteratura di persone positive anche dopo 30 giorni, e forse le due settimane potrebbero essere un po’ strette”. L’unico strumento sicuro a disposizione per prevenire il contagio, dunque, è rispettare le limitazioni imposte dalle autorità. “E’ per questa ragione che esiste il distanziamento sociale: non è possibile riconoscere tutti i malati, quindi bisogna proteggersi”. E qui si inserisce un altro punto fondamentale, cioè la difficoltà nel ricevere un tampone: “Sarebbe bellissimo fare i tamponi a tutti, ma non è realistico. Non ci sono le risorse, i reagenti, i laboratori sufficienti per testare la popolazione. In più il tampone ha un problema: ha un 30% di falsi negativi. Quindi nemmeno farli a tutti risolverebbe il problema: l’unico strumento che abbiamo, in assenza di un farmaco specifico, è il distanziamento sociale”. Tra gli strumenti per proteggersi c’è anche la mascherina: “E’ utile ma va usata con criterio”, ci dice il professor Bassetti. “Dove non è possibile mantenere il distanziamento sociale, per esempio in metropolitana, è utile. Ma non basta imporre l’obbligo di indossarla: intanto è difficilissimo reperire mascherine per tutti. Va cambiata spesso, ne servirebbero in quantità enormi. E poi c’è il rischio che passi un messaggio sbagliato, e cioè che ci si senta protetti e non si rispetti più l’isolamento. Questo non deve succedere”. E questo è vero ancora di più in questo momento, quando la ‘fase 2’, cioè la graduale riapertura, si avvicina. “Il fatto che ci siano persone ancora positive dopo 30 giorni ci deve insegnare che alcune misure dovranno essere prolungate”, ci spiega Bassetti. “Sicuramente sarà importante proteggere la parte più debole della popolazione: anziani e immunodepressi. La riapertura dovrà essere molto graduale e con un occhio di riguardo per loro”. Una cosa però Bassetti la vuole chiarire: “Non voglio fare nessuna polemica. Tutti i medici e il personale sanitario sono uniti come non mai in questa lotta contro il coronavirus. Chi ha indovinato o sbagliato previsioni lo ha fatto in buona fede e con l’unico obiettivo di dare un contributo utile”.
Coronavirus, 15 giorni d'isolamento bastano davvero per uscire? “Io ancora positivo dopo 30 giorni”. Le Iene News il 5 aprile 2020. Il nostro Alessandro Politi si è ammalato di coronavirus, e trenta giorni dopo è ancora positivo al test anche se i sintomi sono scomparsi quasi subito. “Quanti potrebbero essere positivi e non saperlo senza il test?”. E soprattutto, bastano davvero 15 giorni d’isolamento per poter uscire di casa? “Ho avuto febbre e tosse per pochi giorni, poi mi sono sentito bene. Ma dopo un mese il mio tampone è ancora pienamente positivo”. Come sapete Le Iene sono ferme da ormai un mese, dopo che uno di noi è stato contagiato dal coronavirus, e torneremo in onda il 23 aprile. Il nostro collega che si è ammalato è la Iena Alessandro Politi, che in questo video ci racconta la sua storia e approfondisce un tema molto importante: sono davvero sufficienti quindici giorni di isolamento dalla fine dei sintomi per poter tornare a uscire di casa? “Il 5 marzo mi sono svegliato con un forte mal di testa, febbre alta e un po’ di tosse”, racconta la Iena. “In quel momento non c’erano ancora i decreti di chiusura. Provo in tutti i modi a farmi fare un tampone, anche se non vogliono farmelo perché non ho una sintomatologia così grave. Comunque in ospedale spiego che sono un giornalista e sarei potuto entrare in contatto con tantissime persone". Dopo un po’ di titubanza il personale accetta e l’esito del tampone è chiaro: positivo al COVID-19, l’ormai famoso coronavirus. “La cosa sorprendente è che la sera stessa con una tachipirina la febbre è passata, il giorno successivo avevo meno sintomi e al terzo giorno non avevo più niente”, racconta la nostra Iena Alessandro Politi. “Se non avessi fatto il tampone, avrei pensato di avere un’influenza”. Passato il periodo obbligatorio di quarantena, è il momento di rifare il test: per essere considerati guariti, infatti, servono due tamponi consecutivi negativi. “Io stavo bene, ma dopo 17 giorni ero ancora pienamente positivo”. “Passano altri dieci giorni e il 3 aprile, cioè l’altro ieri, faccio un altro tampone”, racconta la Iena. “Ormai è quasi un mese che sono senza sintomi, ma l’esito è sempre lo stesso: pienamente positivo. Ho chiesto se è normale, i medici hanno ipotizzato che potrei aver preso una carica virale più aggressiva. Il mio corpo fortunatamente la sta gestendo bene ma ci vuole più tempo per debellarla”. E’ qui che al nostro Alessandro Politi sorge un dubbio: “Perché le istituzioni permettono a persone che hanno avuto i miei stessi sintomi di uscire di casa dopo 15 giorni” senza aver ricevuto un tampone? “Quante persone potrebbero essere a lavorare con il rischio di diffondere il virus?”. Eh sì, perché fino a poco tempo fa alle persone con sintomi lievi come il nostro Alessandro Politi il tampone non veniva proprio fatto, ma si doveva ’solo’ rispettare la quarantena alla fine della sintomatologia. E chi è stato a contatto diretto con un malato, a meno di casi eccezionale, non riceve alcun tampone in assenza di segni della malattia: unica prescrizione, l’isolamento. “Come si è deciso che i quindici giorni siano sufficienti, se io dopo trenta giorni sono ancora positivo? Non è che forse il contagio tarda a fermarsi anche per questo motivo?”.
Coronavirus: la Iena, la quarantena che non basta e quel protocollo. Le Iene News il 29 aprile 2020. Vi abbiamo già raccontato con Alessandro Politi, la Iena colpita dal coronavirus, come i 14 giorni di quarantena dalla fine dei sintomi potrebbero non essere sempre sufficienti per la negativizzazione al Covid-19. Il protocollo però non è cambiato: questo favorisce nuove infezioni? Ci sono delle responsabilità? Finalmente, dopo 49 giorni, il nostro Alessandro Politi si è negativizzato per il coronavirus. Adesso per essere dichiarato guarito c’è bisogno di un secondo tampone negativo. Ma tutta la storia della Iena ci ha mostrato come il tempo necessario per negativizzarsi dal Covid-19 può essere ben più lungo dell’ordinaria quarantena. Visto che molti contagiati dal virus il tampone non l’hanno potuto fare, sono davvero sufficienti 14 giorni di quarantena per poter uscire di casa? Nonostante i molti casi che vi abbiamo raccontato, il protocollo non è cambiato di una virgola. “È l’Oms a indicare i 14 giorni”, spiegano al nostro Alessandro Politi. E in effetti è proprio l’Organizzazione mondiale della sanità ad aver dato questa linea guida. Due settimane dalla scomparsa dei sintomi, la classica quarantena. La stessa che ha fatto Valentina, la fidanzata di Alessandro Politi che ha avuto gli stessi sintomi della Iena ma che non ha ricevuto un tampone nonostante sia stata un contatto stretto di un malato di Covid-19. Anche per Valentina dopo 14 giorni finisce la quarantena, nonostante viva in un monolocale con un malato accertato. Una cosa che lascia più di un dubbio, come potete vedere nel servizio qui sopra. La cosa strana è che, sostengono dall’Ats, l’Agenzia di tutela della salute della Lombardia, nessuno sapesse che lei convive con un malato. Eppure l’Ats ha in carico tutti i casi di Covid-19: possibile che abbiano due liste, una con i malati e una con le persone in quarantena, che però non comunicano tra di loro? Se le cose stanno così, come fanno a fare la mappatura dei contagi? Fatto sta che a Milano i nuovi contagi da coronavirus sono il doppio della media. E ci viene da chiedere: chi decide il protocollo sanitario lo sa che i tempi di guarigione dal Covid-19 sono spesso ben superiori al periodo di quarantena? Quante persone infette possono uscire e inconsapevolmente infettarne altre? E soprattutto, chi dovrebbe aggiornare il protocollo ma non lo fa potrebbe essere considerato responsabile di un fatto colposo? È esattamente quello su cui lavorano nello studio legale Romanucci&Blandin di Chicago, negli Stati Uniti. E questo anche perché in America, in fatto di quarantena, vanno ben oltre: dopo 3 giorni senza febbre si può uscire. Sarà anche per questo che a oggi gli Stati Uniti sono il paese con il più alto numero di contagi al mondo? “Il nostro studio sta investigando per conto di quelle persone a cui è stato detto di non essere infetti quando invece potrebbero esserlo”, ci dice il socio dello studio Antonio Ranucci. “Stiamo pensando sia a cause individuali che a class action”. In Italia le class action sono molto più complicate, ma cosa si potrebbe fare? “Non rivedere queste linee guida potrebbe essere un fatto colposo”, ci dice il professor Federico Tedeschini dell’università La Sapienza di Roma. “Un fatto colposo produttivo di responsabilità in capo alle amministrazioni che lo applicano a coloro che ne subiscono dei danni”. Il Codacons sta già lavorando a un maxi esposto. Noi non sappiamo se ci saranno delle conseguenze, ma una cosa la sappiamo: nel frattempo ad Alessandro è arrivato il nuovo tampone. La Iena è guarita!
Simone Pierini per leggo.it il 12 aprile 2020. Giovanna Pancheri è una giornalista, corrispondente negli Stati Uniti per SkyTg24. Al rientro dagli Usa, quasi un mese fa, ha iniziato ad avvertire i primi sintomi del Covid-19. Il 23 ha fatto il tampone: positiva. Dal 17 marzo non era più attiva sui suoi canali social e attraverso un videomessaggio pubblicato oggi ha raccontato la sua storia, la malattia e il cammino che deve ancora affrontare per sconfiggerla del tutto. «Ho aspettato un po' a fare questo video perché speravo di poterlo fare dandovi delle notizie positive della mia completa guarigione - ha raccontato la Pancheri - ancora non è così, purtroppo oggi ho avuto il risultato del nuovo tampone che ho fatto quello che arriva 14 giorni dopo la prima diagnosi, purtroppo sono ancora alle prese con il Covid-19». «Sul momento quando ti viene detto sembra quasi una sentenza, fortunatamente questa malattia si può superare - ha proseguito la giornalista - Ho avuto dei sintomi tutto sommato lievi se si guardano immagini dal Paese. Ci sono dei sintomi che sono una spia importante: uno su tutti la perdita dell'olfatto. Se lo avete lo capite, non avete il naso congestionato ma improvvisamente non sentite più gli odori». «Vorrei ringraziare i medici che mi sono stati vicino in questa situazione, anche la Asl Roma1 - ha detto ancora la Pancheri - È una malattia molto debilitante, non esistono reali cure e una voce del dottore che ti monitora quotidianamente è molto importante. Ringrazio la mia famiglia che mi ha permesso di vivere questo isolamento senza necessità di uscire. Mi mettono pranzo e cena davanti la porta da circa un mese. L'isolamento funziona, è importantissimo, ho deciso di farlo già prima che fosse obbligatorio. E fortunatamente l'ho fatto, ho salvato la mia famiglia. Fatelo con grande severità, dovete essere molto rigidi». «Sono un esempio di come questa malattia possa durare più di quattordici giorni - ha concluso nel video - Il tampone l'ho rifatto venerdì, stamattina mi è arrivato il risultato di positività, lo rifarò penso tra una settimana. Ci tenevo a farvi gli auguri di Pasqua e mi sembrava giusto spiegarvi perché sono sparita in questi giorni».
Coronavirus, lo studio su Wuhan: "Un infetto può contagiare anche 37 giorni dopo", cambio di paradigma? Libero Quotidiano l'11 marzo 2020. Sul coronavirus sembra essere peggio di quanto potevamo pensare. Dopo la dichiarazione dell'Oms che si tratta di pandemia, uno studio prevede giorni ben più lunghi di "possibilità di contagio". Secondo la ricerca pubblicata su Lancet (una rivista scientifica inglese di ambito medico ndr) un contagiato può trasmettere il Covid-19 dagli 8 ai 37 giorni, con una media di circa 20 giorni. Ad essere presi in esame 191 pazienti ricoverati al Jinyintan Hospital and Wuhan Pulmonary Hospital. Di questi, 137 sono stati dimessi, mentre 54 sono deceduti nella struttura. Lo studio, poi rilanciato da Tpi, oltre a osservare le tempistiche, ha trovato i principali fattori di rischio che possono portare un paziente alla morte. Questi ultimi non solo legati a patologie pregresse, ma anche a problemi di coagulazione del sangue. Nel dettaglio, i risultati da laboratorio evidenziano che: 12 giorni è la durata media della febbre, 13 quelli che intercorrono fino ai miglioramenti della tosse e della mancanza di respiro (per chi riesce a sopravvivere), 22 il tempo medio di durata della malattia fino alla guarigione e infine 18.5 la media di giorni che ha portato molti pazienti alla morte. Una vera e propria novità che aggiunge preoccupazione alla già angosciante situazione.
Coronavirus, i positivi dopo la guarigione sono ancora contagiosi? Francesco Leone l'1 aprile 2020 su Notizie.it. Nuovo monito sui guariti per prevenire una seconda ondata di contagi: i positivi al coronavirus dopo il ricovero possono veicolare l'infezione? Da una Cina ormai in via di ripresa dopo la politica sociale applicata all’epidemia da coronavirus, giunge un grande interrogativo. A pochi giorni dalla rimozione delle restrizioni più severe, negli ospedali, i ricercatori si interrogano sulla possibilità che i pazienti guariti dal coronavirus possano ammalarsi nuovamente e, in caso di risultato positivo ai test, dopo la guarigione possano ancora contagiare altre persone. Per offrire una risposta valida a queste domande e per riflettere il quesito cinese anche sul profilo del nostro paese, occorre prima comprendere il significato di “paziente guarito”. Per il Ministero della Salute, si definisce clinicamente guarito da covid-19, un paziente che, dopo aver presentato manifestazioni cliniche (febbre, rinite, tosse, mal di gola, eventualmente dispnea e, nei casi più gravi, polmonite con insufficienza respiratoria) associate all’infezione virologicamente documentata da SARS-CoV-2, diventa asintomatico per risoluzione della sintomatologia clinica presentata. Questa definizione applicata in modo omogeneo da tutte le amministrazioni regionali conferma che “il soggetto clinicamente guarito può risultare ancora positivo al test per la ricerca di SARS-CoV-2″, anche se tutto l’assioma si contraddice integrando nella descrizione che i pazienti guariti risultano come tali dopo la negatività riscontrata in due test effettuati a distanza di 24 ore l’uno dall’altro. Ritornando al caso cinese, secondo quanto si apprende dal South China Morning Post, i test positivi riscontrati nei pazienti che sono stati dimessi dagli ospedali ammontano a una percentuale che varia dal 3% al 10% (cifre confermate anche dalla rivista medica specializzata Life Times). Il dubbio prende forma: anche una parte dei guariti può veicolare nuovamente il contagio? Dallo studio condotto in Cina è stata evidenziata la presenza di tracce di coronavirus nella gola di alcuni pazienti guariti e dimessi. Il virus SARS-CoV-2 dunque persiste nel corpo umano per settimane anche dopo la guarigione, comportandosi così come molti dei virus già noti alla comunità scientifica. Capire il meccanismo di contagio di ritorno può aiutarci a comprendere meglio l’espansione di questo virus, portando le istituzioni a elaborare così una strategia complementare utile soprattutto a tracciare l’infezione sul territorio. I primi a poter pagare le conseguenze di questo contagio post guarigione potrebbero essere proprio medici e infermieri. Purtroppo, per quanto possano essere rilevanti i dati raccolti in Cina, sono ancora insufficienti per poter estendere la teoria al caso generale. I campioni raccolti si basano su un numero ristretto di pazienti, ma di certo l’inizio di questa nuova ricerca potrebbe far suonare un campanello d’allarme qui in Italia. I guariti al covid-19 a Wuhan hanno comunque ripercorso le tappe della quarantena una volta dimessi dalle strutture sanitarie.
Graziella Melina per “il Messaggero” il 31 marzo 2020. Che l'epidemia da coronavirus prima o poi allenterà le maglie e permetterà il graduale ripristino delle attività finora sospese è un'ipotesi, ormai non più remota, che sta arrovellando chi dovrà gestire il flusso produttivo e la ripresa lavorativa. Secondo Franco Locatelli presidente del Consiglio Superiore di Sanità, ci si potrà avvalere di test seriologici per determinare «la diffusione del coronavirus e avere informazioni rilevantissime sull'immunità di gregge, usando le informazioni per elaborare strategie fondate su dati per far ripartire il Paese, specie per le attività produttive. Prioritaria è la tutela della salute, ma bisogna contemperare gli aspetti di economia per evitare i problemi di una situazione economica difficile». Dal Veneto arriva intanto la proposta del presidente della Regione, Luca Zaia, di dotare i lavoratori di una cosiddetta «patente» che attesti di non essere contagiosi. Ma per poterla avere bisognerebbe passare il vaglio di un test rapido. «Immagino che una delle soluzioni sulla quale noi stiamo lavorando - ha spiegato Zaia - è quella del test sierologico, in maniera di andare a vedere se si sono formati gli anticorpi, e qui ci vogliono tempistiche, modalità». La proposta del governatore veneto, però, secondo gli esperti non solo è fattibile, ma anche scientificamente efficace. «L'esperienza scientifica ci dice che questo approccio è corretto - spiega Maurizio Sanguinetti, direttore del dipartimento di Scienze di Laboratorio e infettivologiche della Fondazione Policlinico Gemelli di Roma e presidente della Società europea di Microbiologia e Malattie infettive (Escmid) - è possibile utilizzare un macchinario, prodotto per esempio dall'azienda Roche, che fa circa 1400 test al giorno. Lo abbiamo comprato anche noi del Gemelli e arriverà la prossima settimana». Si tratta di uno strumento che riesce a processare migliaia di test, senza sosta. Finora, invece, le strade utilizzate per effettuare le diagnosi sono due e sono complementari. «Da una parte c'è il test molecolare, che vede il virus, dall'altra il test anticorpale che rileva la risposta dell'individuo al virus», spiega Sanguinetti. Il punto debole del test anticorpale è che se è fatto da solo non dà risultati certi. «Bisogna tenere presente che c'è una finestra di cinque giorni, in cui gli anticorpi non ci sono ma il virus ci può essere». Ecco perché è importante la controprova dell'altro test. «I test molecolari - continua Sanguinetti - danno la risposta in un'ora o anche meno, possono però saggiare un numero più piccolo di campioni». La novità invece del nuovo strumento sta invece nel fatto che è possibile analizzare un grandissimo numero di test, in un tempo diverso: circa 400 campioni nelle prime 3 ore e mezza. «Lavorando sui grandi numeri quindi - assicura Sanguinetti - se ho per esempio una popolazione di 5 milioni di persone, non tutte sono sincronizzate con l'infezione. Ma se vado sul territorio a cercare quelli che hanno i sintomi da un periodo di tempo compatibile con la finestra, posso avere un vantaggio da questo approccio combinato». Il problema di questi nuovi strumenti tecnologici che scovano virus e anticorpi però non è solo economico - un macchinario arriva a costare circa 400mila euro - ma anche gestionale. «Utilizzarlo non è complicato, ma dipende da come si è organizzati dal punto di vista regionale, devi avere più centri che fanno questa attività e poi una strutturazione logistica dal punto di vista del laboratorio». Ma i risultati sarebbero forse risolutivi: «I risultati dei due test da soli valgono meno che se messi in modo combinato. I test anticorpali, per adesso, hanno un 20 per cento di falsi negativi. In questo approccio combinato si aumenta l'efficienza del sistema: non si arriva mai al 100 per cento, però si individuano molti più positivi».
Marco Imarisio per il “Corriere della Sera” il 30 marzo 2020. Quando finirà, ma anche prima, saranno i guariti a decidere come ricominceremo. Con l' economia che avrà bisogno di mettersi subito in moto, il loro ritorno nella società produttiva non si annuncia facile, e neppure semplice. Sperando che non sia un eccesso di ottimismo ma invece un tentativo di prevedere gli ostacoli futuri, l' ultimo mese di pubblicazioni e di studi medici ha visto diversi contributi dedicati a una questione molto delicata. L' ultimo in ordine di tempo è quello dell' Istituto Mario Negri di Bergamo, fatto in collaborazione con l' Istituto Superiore di Scienze Sociali di Parigi. Quanti saranno, per cominciare? Per la fine di aprile il numero totale di persone in età lavorativa dichiarate infette mediante tampone potrebbe essere intorno alle 115.000 unità, ammesso e non concesso che possa essere quello il momento di una parziale riapertura. Comunque, un massimo di 130 mila agli inizi di giugno, salvo variazioni molto significative delle attuali curve statistiche. E qui, se questo fosse un vero e proprio saggio, ci andrebbe messo un asterisco. Perché il modello matematico usato per arrivare a questi numeri non prevede la stragrande maggioranza dei casi di positività, che ormai da almeno un mese è auto diagnosticata, o quasi. Quindi raddoppiare, come minimo. Sappiamo ormai molto sul periodo di incubazione del coronavirus. Ma quello che deciderà le sorti del nostro nuovo inizio e farà da argine a una ripresa dell' epidemia, sarà la gestione del periodo durante il quale la persona malata diffonde il virus nell' ambiente e deve osservare la quarantena. Ci sono pochi studi su questo aspetto. I pazienti gravi diffondono il virus per 20 giorni in media, invece per pochi altri questo periodo può durare fino a 37 giorni. Per i malati lievi la durata media è di 10 giorni, ma per alcuni continua fino alle due settimane. Per avere una ipotetica patente di paziente guarito, esistono solo raccomandazioni. In caso di ricovero, prima delle dimissioni va fatto il tampone per assicurare che non ci sia più l' escrezione del coronavirus. Ogni persona ammalata deve avere due tamponi negativi fatti a distanza di un giorno. Non sarà facile. Il numero dei pazienti con forma lieve di Covid-19 che non vengono ricoverati a causa del sovraccarico degli ospedali raggiunge ormai l' 80 per cento dei casi, con punte superiori in Lombardia. Gli ospedali sono sovraccaricati di malati con il livello dell' infezione più grave. A rendere ancora più complicata la situazione, le stime preliminari suggeriscono che i portatori asintomatici possono arrivare al 18-30 per cento di tutta la popolazione contagiata. Una informazione che secondo lo studio del Mario Negri, firmato da Boris e Alexander Bibkov, «non è stata ampiamente comunicata al pubblico». Eppure viene invece ritenuta di importanza essenziale per far comprendere quanto sia decisivo seguire le misure protettive per evitare una seconda ondata dell' epidemia. Già, ma quali? La diffusione del virus può continuare anche dopo la scomparsa della febbre e dei sintomi più gravi. L' attuale carenza di tamponi non rende possibile fare il test a tutte le persone con i sintomi respiratori o con la febbre. Per chi semplicemente rimane a casa diventa fondamentale sapere che non può considerarsi «guarito» senza avere il test diagnostico, ripetuto più volte, e che la diffusione del virus può continuare anche dopo la scomparsa della febbre e dei sintomi più gravi. Queste informazioni non devono alimentare ulteriori paure nelle persone, ma «devono servire per sviluppare un metodo razionale e diffuso per combattere l' epidemia a livello individuale e collettivo». Conterà la prevenzione, fin da subito. Ancora più del solito. «Un guarito, uno solo, che si aggira inconsapevole di essere ancora contagioso, e ricominceremmo daccapo» dice Giuseppe Remuzzi, direttore del Mario Negri. «Finora dalle autorità abbiamo avuto una comunicazione incentrata su alcune cose comunque importanti, come l' isolamento sociale. Il prossimo obiettivo deve essere quello di coinvolgere i cittadini, fornendo le conoscenze che li aiutino a uscire in sicurezza dalle loro case». Tamponi per chi si considera guarito e per i suoi familiari, ma non basta ancora. «Credo che occorra indicare una strada precisa», continua Remuzzi. «Un nuovo protocollo. Il medico di base non può lasciar andare via subito l' ex malato. Deve rivolgersi alla Asl, ognuna delle quali ha bisogno di mezzi e di organizzazione per i controlli senza aspettare quindici giorni per vedere se un paziente è negativo. Mandando in giro guariti veri, aiuteremo l' economia». Abbiamo almeno un mese di tempo. Cerchiamo di usarlo bene.
Alessandro Gonzato per “Libero quotidiano” il 25 marzo 2020. La cronaca nostrana, diventata un bollettino di guerra, non riporta casi di immigrati infettati dal Coronavirus. È chiaro che anche tra la popolazione straniera residente in Italia ci sarà pur una percentuale di malati, per quanto minima. E però, appunto, non si ha notizia di cittadini stranieri ricoverati. In particolare, nonostante l' epidemia stia mietendo migliaia di vittime al giorno, nei nostri ospedali sembra che gli africani si contino sulle dita di una mano. Buon per loro. Noi invece continuiamo ad ammalarci e a crepare. Il motivo? Sui social, mai come in questi tempi fucina sterminata di corbellerie, girano ipotesi talmente bislacche che si potrebbero riaprire d' urgenza decine di manicomi, altro che strutture Covid-19. Basta analizzare il macabro contatore mondiale dei decessi e degli infetti per rendersi conto che anche nel continente nero, al momento, i numeri sono irrisori se paragonati a quelli di molti Paesi europei e degli Stati Uniti. Il più colpito è il Sudafrica, dove peraltro quasi il 15 per cento della popolazione è bianca: 555 contagi e nessun morto. Il secondo è l' Egitto: 370 infezioni e 20 decessi. Ovvio: molte nazioni africane, specie quelle più povere dove le cause di morte sono le più disparate - Aids, malaria, dissenteria, malnutrizione - non le immaginiamo impegnate a fare i tamponi ai defunti per accertarsi chi aveva il "Corona". Ma per ora dobbiamo attenerci alle cifre. Abbiamo chiesto aiuto al professor Massimo Galli, direttore responsabile del reparto di malattie infettive dell' ospedale Sacco di Milano. Professore: quanti extracomunitari sono ricoverati da voi?
«Nessuno mi pare. In ogni caso la percentuale è praticamente nulla. Forse abbiamo due cinesi che hanno contratto la malattia nella forma italiana, ma non mi viene in mente nessun altro».
È impossibile pensare che si tratti di una casualità. Qual è la spiegazione?
«L' ipotesi, ma è ancora tutta da dimostrare anche se è verosimile, è che in alcune etnie di discendenza africana ci siano diverse caratteristiche e disponibilità per il virus».
Ci perdoni: cosa significa?
«Uscendo dai tecnicismi, vuol dire che queste persone potrebbero avere un fattore protettivo maggiore. È possibile che abbiano le porte chiuse, o meglio, semichiuse nei confronti del Covid-19. Le porte degli italiani, invece, sono spalancate».
Ci spieghi.
«Siamo una popolazione molto vecchia, e questo ci espone più facilmente alle malattie».
Però se fosse solo una questione anagrafica il Giappone, che ha l' età media più alta del mondo, dovrebbe aver subìto più di altri il virus, invece i morti sono meno di cinquanta e i contagi poco più di mille.
«Al Giappone ci arriviamo tra un attimo. Gli immigrati che risiedono in Italia sono per lo più giovani e in forze. Hanno molti meno problemi di salute rispetto a noi. Il fattore anagrafico e la sana costituzione spiegherebbero anche il motivo per cui gli adolescenti e i bambini reagiscono molto meglio al Covid-19».
Dicevamo del Giappone.
«Sono riusciti a circoscrivere il virus per tempo. Hanno individuato velocemente i contagiati, li hanno isolati e hanno ricostruito i loro contatti. In Italia invece l' infezione ha circolato almeno per un mese senza che ce ne rendessimo conto. Quando tutti, me compreso, pensavamo di essercela cavata, ecco che siamo stati presi alle spalle».
Siamo intervenuti tardi?
«Diciamo che non ci siamo accorti che il virus era arrivato dalla Germania, dov' è stato visto e isolato, ma che per qualche ragione è stato portato in Italia».
Fino a quel momento non avevate notato nulla di sospetto?
«Forse potevamo accorgerci che per essere a metà febbraio c' erano un po' troppe forme influenzali brutte in Lombardia. Mentre ci stavamo concentrando, per certi aspetti giustamente, sul nostro giovane studente che non riusciva a tornare dalla Cina perché aveva la febbre, il contagio si stava diffondendo nella zona rossa senza trovare il minimo ostacolo».
Comincia a circolare una voce, purtroppo non al bar ma in rete: gli immigrati residenti in Italia non prendono il "Corona" perché hanno dovuto fare il richiamo anti-tubercolosi.
«È una balla, non c' entra niente».
E chi, italiani e non, ha fatto il normale vaccino antinfluenzale, rischia meno?
«Ci sono due studi: uno lo conferma, l' altro no. Quindi non ci sono evidenze, mancano basi concrete».
Come farete a capire se davvero alcune etnie africane sono immuni, o quasi, al virus?
«Ci aiuterà molto la casistica degli Stati Uniti, dove la popolazione afro-americana è numerosissima».
In Italia, pur di poco, per il terzo giorno consecutivo è sceso il numero dei contagiati, anche se è salito quello dei morti.
«È ancora presto per considerare ogni singolo dato come indicativo di una tendenza. Certo, i dati giornalieri vanno osservati, ma solo la statistica di cinque-sei giorni di fila potrà darci indicazioni reali, sia in positivo che in negativo».
Professore, dia un senso alla nostra "quarantena": riusciremo a trascorrere un' estate quasi normale?
«Mi auguro che il contagio non si trascini fino all' estate. Non tanto per l' arrivo del caldo, quanto perché le misure di contenimento dovrebbero funzionare».
Il virologo Galli: "Immigrati africani immuni? È una ipotesi". Il direttore di Malattie infettive al Sacco: "Qui non abbiamo persone di origine africana ricoverate. La porta di ingresso del virus potrebbe essere diversa a seconda delle etnie". Francesca Bernasconi, Martedì 24/03/2020 su Il Giornale. Gli extracomunitari immuni al coronavirus, grazie al vaccino per la tubercolosi. Era questo il contenuto di un messaggio che circolava sui social nei giorni scorsi, smontato subito dai virologi che hanno portato alla luce la fake news. Ma il direttore del Dipartimento di Malattie infettive dell'Ospedale Sacco di Milano, Massimo Galli, ha chiarito che il virus potrebbe comportarsi diversamente a seconda delle etnie. "È un fatto- ha detto durante la trasmissione Agorà, su Rai3- c'è una diversa disponibilità e caratteristiche dei recettori del virus per alcune popolazioni africane". Ma, ha specificato, "è un'ipotesi da studiare". Per il momento, però, Galli sottolinea che "non abbiamo persone di origine africana ricoverate nei nostri reparti" e questo potrebbe indicare che "la 'porta di ingresso' del virus è diversa a seconda delle etnie. Ad esempio per gli asiatici e gli europei c'è una 'porta aperta' per il virus, gli africani hanno queste 'porte' chiuse e semichiuse". Galli sottolinea che si tratta solo di un'ipotesi, ma "se fosse così, il disastro colpirebbe meno alcune aree povere del mondo". E sulla "lotta" per le mascherine, commenta: "C'è un detto cinese che dice, non importa il colore del gatto basta che acchiappi il topo. A noi non importa da dove arrivano gli strumenti per poter affrontare la quotidianità del lavoro e della vita. Quindi mi fa piacere che tutti si diano da fare perché le mascherine siano a disposizione". E aggiunge: "Non bisticciate nel dire chi lo fa meglio ma coordinatevi". Per capire l'evoluzione della pandemia in Italia, "ci vorranno 5-6 giorni di fila". Infatti, "anche a scanso di delusioni i dati che arrivano giorno per giorno vanno letti con molta attenzione". Ma, sul possibile numero di contagi sommersi, Galli concorda con Angelo Borrelli, il capo della protezione civile, che sostiene la possibilità della presenza di un malato certificato ogni 10 non censiti. "Temo che l'ipotesi di Borrelli possa essere molto vicino alla realtà- ha detto Galli- anche se non abbiamo dati sicuri per poterlo dire, ma i contagiati sono molti di più di quelli registrati ufficialmente".
Virus e sistema immunitario: perché si può guarire da soli. Ricercatori australiani hanno dimostrato che, anche se il Covid-19 è causato da un nuovo virus, una persona sana può riuscire a guarire spontaneamente grazie alle difese immunitarie del proprio organismo. Nessuna certezza sull'eventuale immunità da ricaduta. Alessandro Ferro, Giovedì 19/03/2020 su Il Giornale. Piccole speranze crescono. Un altro passo in avanti verso lo sviluppo di un vaccino e trattamenti per combattere il Coronavirus è stato fatto da alcuni scienziati australiani che hanno osservato le capacità dell'organismo di combattere il virus e guarire dall'infezione. Come riporta Repubblica.it, i ricercatori del Peter Doherty Institute for Infezione e Immunità di Melbourne hanno mappato le risposte immunitarie di uno dei primi nuovi positivi da Covid-19 in Australia, mostrando la capacità del corpo di combattere il virus e guarire dall'infezione. Ed i risultati sono stati molto buoni.
Le 4 fasi. La ricerca, pubblicata sulla rivista specializzata Nature Medicine, riporta in maniera dettagliata le varie fasi della risposta del sistema immunitario della paziente, una donna sui 40 anni tornata da Wuhan con sintomi come letargia, mal di gola, tosse secca e febbre, da cui i medici avevano prelevato e testato campioni di sangue in quattro diversi tempi prima e dopo la guarigione.
Guarigione spontanea. "Dopo tre giorni - scrivono i ricercatori - abbiamo individuato l'emergenza di una forte popolazione di cellule immunitarie, un segnale di recupero già individuato durante l'infezione influenzale stagionale. Abbiamo, quindi, previsto che la paziente fosse in via di guarigione e così è stato". In pratica, in soggetti sani, il virus ha spesso la peggio come già accaduto con la guarigione di migliaia di persone in Italia e nel mondo. "Abbiamo dimostrato che anche se il Covid-19 è causato da un nuovo virus, in una persona altrimenti sana una risposta immunitaria robusta associata al recupero clinico, simile a quanto abbiamo osservato nella comune influenza", hanno affermato gli studiosi. Le stime attuali mostrano che oltre l'80% dei casi di Coronavirus sono da lievi a moderati e capire la risposta immunitaria, nelle situazioni più leggere, è molto importante. "Questo è un incredibile passo avanti nella comprensione di ciò che guida il recupero dalla malattia - ha dichiarato uno dei ricercatori -le persone possono usare i nostri metodi per comprendere le risposte immunitarie nella maggior parte dei contagi da Covid-19 ma, anche, capire cosa manca a coloro che hanno esiti fatali".
Nessuna certezza sulle "ricadute". È ancora presto per dire se, una volta contratto il Covid-19, ci sia o meno l'immunità da un'ulteriore ricaduta. "Sappiamo che possiamo generare risposte immunitarie al virus - dicono i ricercatori - la prossima questione sarà capire se la risposta immunitaria conferisce immunità e per quanto tempo. Speriamo, adesso, di espandere lo studio a livello nazionale e internazionale per capire perché alcune persone muoiono per Covid-19 e altre no, e per sviluppare risposte rapide anche a futuri virus emergenti", concludono gli studiosi.
Coronavirus, ecco come agisce il sistema immunitario. Ricercatori australiani hanno dimostrato che anche se il Covid-19 è causato da un nuovo virus, in una persona altrimenti sana una risposta immunitaria robusta associata al recupero clinico, simile a quanto abbiamo osservato nella comune influenza. Ma è ancora presto per dire se conferisce al soggetto l'immunità da una ricaduta. La Repubblica il 17 marzo 2020. Ancora un passo avanti verso lo sviluppo di un vaccino e di trattamenti contro il Covid-19. Lo hanno fatto gli scienziati australiani che hanno osservato le capacità dell'organismo di combattere il virus e guarire dall'infezione. I ricercatori del Peter Doherty Institute for Infection and Immunity di Melbourne hanno mappato le risposte immunitarie di una tra i primi pazienti diagnosticati con il coronavirus e poi guariti in Australia e i dati raccolti permetteranno di valutare l'efficacia di possibili vaccini, secondo la capacità di imitare la risposta immunitaria dell'organismo. Nello studio pubblicato su Nature Medicine i ricercatori del Doherty Institute - joint venture tra l'Università di Melbourne e l'ospedale Royal Melbourne - riferiscono nelle varie fasi sulla risposta del sistema immunitario della paziente, una donna sui 40 anni tornata da Wuhan in Cina con sintomi come letargia, mal di gola, tosse secca e febbre, da cui i medici avevano prelevato e testato campioni di sangue in quattro diversi tempi prima e dopo la guarigione. "Abbiamo esaminato l'intera gamma della risposta immunitaria della paziente, utilizzando le conoscenze acquisite in molti anni nello studio delle risposte immunitarie nei pazienti ricoverati con influenza", scrivono gli studiosi. "Dopo tre giorni, abbiamo individuato l'emergenza di una forte popolazione di cellule immunitarie, un segnale di recupero già individuato durante l'infezione influenzale stagionale. Abbiamo quindi previsto che la paziente era in via di guarigione, e così è stato". "Abbiamo dimostrato che anche se il Covid-19 è causato da un nuovo virus, in una persona altrimenti sana una risposta immunitaria robusta associata al recupero clinico, simile a quanto abbiamo osservato nella comune influenza". E' ancora presto per dire se contrarre il Covid-19 una volta conferisca immunità da una ricaduta, precisano gli studiosi. "Sappiamo che possiamo generare risposte immunitarie al virus. La prossima questione è se la risposta immunitaria conferisce immunità, e per quanto tempo. Speriamo ora di espandere lo studio a livello nazionale e internazionale per capire perché alcune persone muoiono per Covid-19 e altre no, e per sviluppare risposte rapide anche a futuri virus emergenti", concludono gli studiosi.
Coronavirus, esperti divisi sull'immunità dopo la guarigione. La Russia: per chi ne esce protezione a lungo termine. L'infettivologo Di Perri: "Non ci sono evidenze scientifiche". Quotidiano.net il 23 marzo 2020. Ma tutti quelli che hanno preso il Coronavirus e che hanno superato la fase acuta senza grossi problemi, perché sono giovani o perché non hanno malattie croniche debilitanti, possono stare tranquilli? Detto in altri termini, le persone cosiddette sintomatiche o comunque positive al tampone, che hanno trascorso la quarantena a casa, terminato il periodo di malattia sviluppano difese immunitarie durature o in teoria potrebbero tornare a infettarsi e ammalarsi? L'interrogativo si rincorre in queste ore perché il Covid-19 è un fenomeno nuovo e ancora non sappiamo come evolve nel tempo. Secondo il professor Giovanni Di Perri, primario infettivologo a Torino, ospedale Amedeo di Savoia, mancano i presupposti per affermare con certezza che la protezione acquisita si mantenga tale nel tempo. Di parere opposto, in Russia, l'Autority per la salute, Rospotrebnadzor, sembra dare per scontata una protezione di lungo termine. Le ragioni degli uni e degli altri entrano in rotta di collisione. Facciamo un paio di esempi per capire. Sappiamo che centinaia di malati di epatite cronica, una volta guariti completamente grazie ai moderni antivirali ad azione diretta, sono tornati a infettarsi con il virus HCV perché non prendevano precauzioni. Altro discorso per l'influenza stagionale: torna puntualmente ogni anno in inverno, con un virus a volte mutato, e rischiamo di ammalarci anche se abbiamo già sviluppato gli anticorpi l'anno scorso, tanto è vero che il vaccino antinfluenzale viene ripetuto ogni anno con formulazioni ad hoc. Da Torino lo specialista invita a non abbassare la guardia: "Noi non abbiamo certezze che chi guarisce dal Covid -19 ne sia poi immune. Nel breve periodo certamente sì, ma di più non sappiamo. E l'ipotesi dell'immunità di gregge può valere per altri virus", per esempio per il morbillo "abbiamo prova scientifica", ma "per il coronavirsus non abbiamo prove: solo ipotesi", ha dichiarato il professor Di Perri, a capo della task force di medici e infermieri che nella struttura piemontese fronteggiano l'emergenza Covid. “Ma tutti quelli che sono guariti dal coronavirus sviluppano l'immunità”, ribatte Anna Popova, capo dell'Autorità per la Salute e i diritti dei consumatori (Rospotrebnadzor) a Mosca, in Russia. «Le ricerche attuali indicano che sì, l'immunità è acquisita dopo la malattia causata dal coronavirus", ha detto in un'intervista sul canale televisivo russo Channel One. Popova ha citato i risultati della ricerca della sua stessa agenzia che dimostrano che coloro che si sono ripresi dall'infezione da coronavirus sviluppano immunoglobuline M e G nel sangue che salvaguardano l'organismo contro la reinfezione. Lo riporta Interfax. Allora a chi dare retta? Sentiamo ancora il professore italiano, che spiega come potrebbe arrivare una seconda ondata dopo aver respinto la prima: “Vediamo una luce in fondo al tunnel, ma la strada è ancora lunga", spiega Di Perri: "Quando la curva del contagio comincerà a scendere, spero francamente tra qualche settimana, quello sarà il momento più delicato e critico. Il rischio è di allentare le misure di prevenzione che abbiamo adottato, anche per una comprensibile stanchezza. Dovremo resistere - ammonisce Di Perri - perché il virus potrebbe reintrodursi creando una seconda e forse più grave emergenza". La teoria dell’immunità di gregge si basa sull’idea che se molte persone si immunizzano al Coronavirus contraendolo, questo a un certo punto non saprà più dove andare, non avrà nuovi organismi da infettare, e il ciclo di contagio si interromperà.
I ricercatori russi: "Chi guarisce dal Covid poi è immune". Unioneonline il 23 marzo 2020. Secondo i russi, coloro che si sono ripresi dall'infezione sviluppano immunoglobuline M e G nel sangue che salvaguardano l'organismo. Coloro che sono guariti dal coronavirus sviluppano l'immunità. A sostenerlo sono i ricercatori russi e a riferirlo è stata Anna Popova, capo nel Paese dell'Autorità per la Salute e i diritti dei consumatori (Rospotrebnadzor). "Le ricerche attuali indicano che sì, l'immunità è acquisita dopo la malattia causata dal coronavirus", ha detto in un'intervista sul canale televisivo russo Channel One. Popova ha citato i risultati della ricerca della sua stessa agenzia che dimostrano che coloro che si sono ripresi dall'infezione da coronavirus sviluppano immunoglobuline M e G nel sangue che salvaguardano l'organismo contro la reinfezione.
Un mese di Covid-19: «Ne usciremo anche grazie a chi è guarito e non si ammala più». L’intervista del 19 marzo 2020 di Felice Florio su open.online. Maria Teresa Ventura, immunologo del policlinico di Bari e professoressa dell’università del capoluogo pugliese, intravede i primi riscontri di un’immunità di gregge. Domani, 20 marzo, sarà passato un mese dal primo caso di contagio da Coronavirus avvenuto in Italia, quello del cosiddetto “paziente 1” di Codogno. «Vedo un filo di speranza nell’evolversi dell’epidemia in Italia. Soprattutto nelle prime aree dove è stata istituita la zona rossa si registra un’importante regressione dell’epidemia». La professoressa Maria Teresa Ventura, immunologo del Policlinico di Bari, guarda con ottimismo ai dati raccolti durante questi 30 giorni di crisi.
Ventura, quando usciremo da questa situazione?
«È impossibile dirlo: tutto dipende dal comportamento dei cittadini. Certo è che, rispettando le norme, i contagi diminuiscono e il sistema sanitario potrà reggere. Il modello cinese che ha funzionato a Wuhan si è mostrato efficace anche nel Lodigiano».
Di quale modello parla?
«Si tratta di un contenimento dell’epidemia che segue una modalità multifattoriale. Da un lato ci sono i limiti agli spostamenti delle persone, che io definisco benedetti, dall’altro si iniziano a vedere gli effetti dell’immunità di gregge».
La stessa immunità di gregge che proponeva Boris Johnson nel Regno Unito?
«No, chiariamo: nessuno sta invitando i cittadini ad andare in giro a farsi contagiare per diventare immuni. Non è perseguibile l’idea di Johnson perché non sappiamo con certezza se questo virus dia immunità permanente oppure, con il tempo, possa infettare di nuovo le stesse persone. Ma si stanno riscontrando i primi benefici di una primordiale immunità di gregge in quelle zone che per prime sono state colpite dall’epidemia».
In cosa consiste l’immunità di gregge?
«Espressa in maniera semplice: le persone che superano la malattia sviluppano gli anticorpi e diventano delle barriere viventi che impediscono al virus di diffondersi».
Quindi con l’aumentare dei guariti diminuisce anche la contagiosità del virus?
«No, questo non è propriamente corretto. Di per sé, il Covid-19 è un virus molto contagioso. In questo momento è indispensabile contenerne la diffusione evitando il contatto tra le persone. I guariti costituiscono un aiuto nel contenimento generale che non può prescindere, tuttavia, dalle restrizioni dei decreti. Bisogna evitare di uscire di casa almeno finché non avremo sviluppato un vaccino: allora indurremo noi nella popolazione l’immunità di gregge».
Quanto manca al raggiungimento del picco epidemico?
«Ci sono vari studi a riguardo ma preferisco non parlare di stime perché ci sono variabili imprevedibili: ad esempio non sappiamo effettivamente quante persone asintomatiche arrivate al Sud dalle regioni del Nord possano aver trasportato il virus. Detto ciò, anche la formazione di un’immunità di gregge aiuta a ritardare il picco epidemico: ciò è essenziale per non gravare sulle strutture ospedaliere sotto stress durante questa emergenza».
Ce lo spiega in modo più semplice?
«Dovete pensare all’immunità di gregge come a un’equazione tra persone infette, persone che hanno superato l’infezione e persone diciamo vergini. Quando queste tre popolazioni raggiungeranno l’equilibrio, si otterrà la cosiddetta immunità di gregge e potremo dire superata la crisi. Ma bisogna ancora approfondire se l’individuo che guarisce dal coronavirus sviluppa effettivamente un’immunità permanente».
Perché sono gli anziani i soggetti più vulnerabili al Covid-19?
«In generale, la comorbidità – la presenza di più patologie diverse in uno stesso individuo, ndr. – rende le malattie respiratorie più severe. Con l’avanzare dell’età, tende ad aumentare il numero di patologie croniche. Lo rileviamo anche con il Covid-19. La spiegazione immunologica, restando nel campo delle ipotesi, riceverebbe conferma dal successo che stanno avendo i farmaci anti-interleuchina 6».
Il successo di una terapia è in grado di fornire ex post una spiegazione immunologica?
«Traccia una buona pista. Il motivo per cui il coronavirus incide così tanto in età geriatrica potrebbe essere legato a un meccanismo immunologico. Negli anziani c’è una forte elevazione dei livelli di interleuchina 6, ovvero una risposta immunitaria responsabile dello stato infiammatorio che sottende a tutte le malattie che si sviluppano in età geriatrica».
Come si spiega, invece, la maggiore incidenza di casi positivi nella popolazione maschile?
«L’incidenza maggiore di questa malattia nel sesso maschile, dal punto di vista immunologico, può essere spiegata in maniera semplice: le donne reagiscono meglio degli uomini sia alle malattie virali che a quelle batteriche».
Come mai?
«Ci sono cellule con un meccanismo di immunità innata nelle donne. Il sesso femminile ha migliori capacità nel sistema immunitario, ad esempio nella funzione della fagocitosi. È una questione prettamente ormonale. Però le donne pagano molto caro questo tipo di predisposizione: sono più soggette alle malattie autoimmuni, rare invece negli uomini».
· Il Paese dell’Immunità.
Rita Celli per ilrestodelcarlino.it il 2 aprile 2020. Un borgo di 400 anime, dove la metà sono anziani, e nessun caso di coronavirus. A Casteldelci la sorpresa arriva a distanza di oltre venti giorni dall’inizio dell’emergenza: al momento non ci sono contagiati. La notizia curiosa è che l’assenza di persone infette si registra proprio in questo piccolo paese della Valmarecchia che dà origine anche alla famiglia di Roberto Burioni, il famoso virologo. Raggiunto al telefono, il medico commenta: "Sono felice che a Casteldelci non ci siano casi. E’ un luogo al quale sono legatissimo. Dove i miei genitori, in tempi normali, passano gran parte dell’anno nella casa di famiglia". Il motivo di questo successo? Il virologo risponde: "Sicuramente la posizione del borgo è defilata e la bassa densità di popolazione hanno aiutato a impedire il contagio". Ma Burioni non vuole che si abbassi la guardia: "E’ necessario però ricordare che anche chi abita a Casteldelci o nei paesi più piccoli, è suscettibile all’infezione virale e quindi bisogna prendere tutte le precauzioni necessarie per non infettarsi. Non vedo l’ora di tornare a Casteldelci per passare belle giornate all’aria aperta nella natura bellissima di quel luogo". I cittadini sono in salute e la comunità è unita. Forse alla base della prevenzione c’è proprio questa grande collaborazione, tra amministratori e cittadini. "L’attenzione è grande. Non bisogna essere superficiali e irresponsabili – dice il sindaco Fabiano Tonielli – soprattutto adesso che la gente inizia a stancarsi di stare a casa. Anche se non abbiamo al momento casi positivi non possiamo abbassare la guardia. Fortunatamente siamo pochi e i cittadini ci ascoltano. Personalmente giro in auto ogni giorno, con le dovute precauzioni, per controllare il territorio. Raggiungo telefonicamente ogni famiglia, casa per casa. Cerco di capire le necessità e di spiegare che è importante non uscire". Anche il medico di famiglia locale, Elisa Giuliani, fa eco al sindaco: "Mi sono battuta molto dall’inizio per la prevenzione. Molti erano contrariati ma abbiamo agito nel migliore dei modi. Appena chiuse le scuole, ho chiuso l’ambulatorio. A Casteldelci ci sono tanti anziani che si spostano poco, fortunatamente. In più tutta la comunità è organizzata per la consegna di farmaci e spesa a domicilio. Con la farmacista del paese ci siamo attivate per la consegna di ricette elettroniche via mail e sono attiva con un servizio capillare telefonico. Con il sindaco siamo in azione anche per i beni di prima necessità. Ci aiutiamo tutti a vicenda". In azione anche l’ex sindaco Luigi Cappella, medico in pensione ma che ancora opera sul territorio: "La solidarietà è alla base di tutto. Come il buon senso. Non dobbiamo far dilagare il panico". Accanto a enti, forze dell’ordine, medici e farmacista, ci sono poi tanti volontari, come quelli della Protezione Civile. E qualche imprenditore locale ha iniziato anche a produrre e distribuire gratuitamente mascherine con tessuti efficaci. "Le mascherine arrivate dalla Protezione Civile nazionale sono monouso e inutili – conclude Tonielli – Mi a ttiverò subito per trovarne altre più resistenti per una consegna capillare".
Coronavirus, caso Nemi: zero casi. Ecco tutte le oasi Covid-free. Claudia Guasco su ilgazzettino.it Mercoledì 1 Aprile 2020. Mentre a Codogno si sta ancora cercando il paziente zero, a 90 chilometri di distanza c'è un paese che ha zero pazienti. E' Ferrera Erbognone, borgo di 1.099 abitanti che sfida tutte le leggi dell'epidemiologia: si trova nel cuore del pavese, zona martoriata dal Covid-19, eppure ne è straordinariamente immune. Tanto che i medici hanno cominciato a studiare i suoi abitanti. E benché detenga il record assoluto di assenza di contagi, non è l'unica isola felice.
Ferrara, in Emilia Romagna, pare respingere il virus, il Veneto ha nel bellunese e nel Polesine le sue sacche di resistenza, in Piemonte sopravvivono le comunità delle valli, in Lazio spicca Nemi e in Sardegna si salvano i comuni dell'entroterra. Scudo formidabile contro l'infezione è la geografia, laddove l'accesso è difficoltoso il nemico fatica ad attaccare, tuttavia gli scienziati concordano che non è l'unica spiegazione. Anche la genetica, affermano, può essere un deterrente per il virus.
PRELIEVI DEL SANGUE. È quello che stanno cercando di scoprire gli esperti a Ferrera Erbognone, comune tra i campi della Lomellina senza positivi. Il sindaco Giovanni Fassina elogia il rigore dei suoi concittadini, «la nostra popolazione è stata estremamente ligia nel rispettare le ordinanze a tutela della salute pubblica». Al paese si arriva da un'unica strada provinciale e ciò facilita l'isolamento, il fatto che i soli luoghi di aggregazioni siano la piazza e un parco agevola il distanziamento sociale. Tuttavia a pochi chilometri ci sono una raffineria dell'Agip e il Green Data center dell'Eni, che attraggono centinaia di persone. Dunque «riteniamo utile un approfondimento, i numeri sarebbero statisticamente attendibili», insiste il sindaco, che ha lanciato una campagna di prelievi del sangue volontari. A far luce sul mistero è l'istituto neurologico Mondino di Pavia, con un'analisi tecnico-scientifica dei risultati dello screening sulla formazione di anticorpi anti Sars-Cov-2. Gli anticorpi segnalano l'avvenuto contatto dell'organismo con il virus anche se, precisa l'istituto, «tale iniziativa non può assumere alcun significato diagnostico o prognostico, onde evitare di generare falsi miti e infondate aspettative nella popolazione». Per il sindaco, comunque, una ricerca è doverosa: «Io sono convinto che molte persone sono venute a contatto con il virus e hanno sviluppato l'infezione in forma asintomatica. Potremmo stabilire in che percentuale la popolazione è immune».
MALARIA E TALASSEMIA. Altro caso da manuale è Ferrara, dove da giorni le bare al cimitero arrivano trenta alla volta. Ma tutte dalla Lombardia, che non ha più posto dove metterle, perché qui il Covid-19 fatica ad attecchire. Fino a oggi i casi sono stati 320, è l'area meno colpita della regione che conta 14.074 positivi e 1.644 decessi, e i malati guarda caso si concentrano al confine con Bologna. «I contagi non sono mai cresciuti, evidentemente qualche ragione ci sarà. Credo che la talassemia e la malaria abbiano avuto una parte nel mantenere quelle zone quasi intatte rispetto a un attacco così forte e feroce del virus che abbiamo in queste settimane», riflette il commissario straordinario per l'epidemia Sergio Venturi. Facendo notare anche che il basso numero di infetti interessa pure la contigua Rovigo, appena al di là del Po rispetto a Ferrara: due territori accomunati da vicinanza geografica e flussi socio-economici. Riscontri scientifici ancora non ce ne sono, «immagino che nelle prossime settimane docenti dell'Università di Ferrara, ma non solo, siano interessati a produrre uno studio che ci faccia sapere perché i cittadini abbiano questa specie di quasi invulnerabilità. C'è una resistenza naturale della provincia all'infezione che dovremo studiare, perché potrebbe essere utile per tutti», afferma Venturi. Rovigo ha solo 29 positivi, eccezione in Veneto con la provincia di Belluno e il Polesine dove i paesi in cui il coronavirus è sconosciuto sono rispettivamente 9 su 61 e 20 su 50, ovvero il 40%, dato migliore della regione. Quanto al Piemonte, sono diversi i borghi che si sono difesi dal contagio. Conta l'isolamento territoriale, certo, ma anche la fortuna e una buona dose di accortezza. A San Giusto Canavese, 3.300 abitanti tutti sani, il sindaco Giosi Boggio ha fatto decollare i droni: «E stata una scelta molto efficace, non avrà suscitato molte simpatie ma i risultati si vendono. La gente esce di casa, fa quel che deve e poi rientra». Intatta inoltre l'area attorno a Bairo, nella quale l'amministrazione ha distribuito le mascherine, così come le valli olimpiche di Cesana e Claviere, dove i sindaci hanno chiesto ai non residenti di autodenunciarsi. E tra i baluardi anti Covid c'è anche Nemi, Castelli Romani: zero casi tra gli abitanti, il contagio è arrivato con un paziente forestiero ricoverato alla clinica Villa delle Querce.
La "strana" immunità di Ferrara: "Bisogna studiare popolazione". Ferrara e la sua provincia sembrano quasi immuni dal Covid-19: "soltanto" 307 casi complessivi in una delle regioni più colpite d'Italia. "Quando tutto sarà finito ci chiederemo come sia stato possibile", ha affermato il commissario Sergio Venturi. Alessandro Ferro, Martedì 31/03/2020 su Il Giornale. In una delle regioni più colpite dalla pandemia del Coronavirus, l'Emilia-Romagna, c'è un isola felice: è il caso di Ferrara. Che, però, "caso" potrebbe non essere. Attualmente, i positivi Covid-19 registrati nel capoluogo emiliano sono 307, in tutta la regione oltre 13mila.
L'anomalia di Ferrara. La città degli estensi rappresenta una vera e propria anomalia perchè, a differenza di altre aree, nel capoluogo ed in tutta la provincia si sono registrati pochissimi casi di contagio. Anche il commissario "ad acta" per l'emergenza, Sergio Venturi, si è chiesto i motivi di questa specificità. "Quando sarà tutto finito, ci chiederemo perché i contagi non sono mai cresciuti a Ferrara - ha affermato Venturi - evidentemente qualche ragione ci sarà: o che fosse zona malarica o perché c'è la talassemia bisognerà, però, chiederselo perchè potrebbe essere utile anche per altri cittadini".
I numeri. Come si legge sul Messaggero, i dati sul contagio in tutta l'Emilia-Romagna dimostrano chiaramente che il ferrarese è un'area che resiste notevolmente ai contagi rispetto alle altre province: secondo i dati forniti dall'ultimo bollettino di ieri della Protezione civile, in tutta la regione i positivi sono ben 13.531. Ebbene, Ferrana ne conta "soltanto" 307, come si legge dai dati forniti dal quotidiano LaNuovaFerrara.
"Inimmaginabile". Il commissario regionale ha confrontato con stupore "inimmaginabile" i 75 servizi in ambulanza di Parma contro i 12 di Ferrara ."Questa malattia ha confini quasi fisici - dichiara Venturi - Se si andasse a vedere la composizione dei contagi nella provincia di Ferrara, c’è una presenza sul capoluogo ma poi tutto il resto si attesta prevalentemente sui confini con la provincia di Bologna. Gran parte della provincia ferrarese è preservata e di questo sono molto contento per chi vive lì".
Ieri soltanto sei nuovi positivi. Il capoluogo estense e tutta la sua provincia contano circa 350mila abitanti. Per comprendere l'eccezionalità del fenomeno basta far riferimento alla giornata di ieri: soltanto sei nuovi casi, 4 in città e due in provincia, con nessun decesso.
Tamponi drive through. La metodologia dei tamponi "drive through" – che prevede l’esecuzione del tampone, in maniera veloce e sicura, sulla persona a bordo della propria automobile, è cominciata anche nei principali capoluoghi emiliani. Come si legge su Estense, sono due gli obiettivi: valutare in tempi più rapidi persone clinicamente guarite (prive dei sintomi dell’infezione) che necessitano di effettuare il tampone due volte a distanza di almeno 24 ore uno dall’altro, prima di essere dichiarate guarite a tutti gli effetti e, al tempo stesso, eseguire i tamponi anche su persone che presentano sintomi lievi. La sperimentazione è cominciata oggi a Reggio Emilia, Parma e Cesena mentre a Modena è attiva già dal 23 marzo. In attesa che venga estesa al più presto anche in altre regioni italiane, pure in alcuni centri della Toscana si registrano già i primi "tamponi al volante".
"Coronavirus, bassa incidenza a Ferrara? Influisce il micro-clima". L’analisi dello pneumologo del Sant’Anna Marco Contoli, docente di Unife: "Malaria e talassemia tra le possibilità dello scarso contagio? Non solo". Federico Di Bisceglie su ilrestodelcarlino.it. 1 aprile 2020 - Ferrara caso scuola. Dopo le dichiarazioni del commissario regionale per l’emergenza pandemia Sergio Venturi relativamente alla nostra città, indicata come «la meno colpita dal Covid-19 rispetto a tutte le altre zone dell’Emilia Romagna», abbiamo cercato, assieme al pneumologo e docente di malattie dell’apparato respiratorio a Unife, Marco Contoli, di capirne il motivo.
Professore, si ipotizza che nel nostro territorio l’incidenza del virus sia stata meno muscolare per via del fatto che sia zona malarica e con pazienti soggetti a talassemia. E’ plausibile?
«Sono ipotesi plausibili ma sono comunque ancora da dimostrare. Ci tengo a dire in ogni caso che ci sono due aspetti da prendere in considerazione: da un lato la letalità del Coronavirus sui pazienti, dall’altro l’incidenza. Il primo dato non è molto dissimile dalla media regionale, mentre l’oggetto dello studio è legato ai bassi valori di incidenza. C’è da dire che tanti fattori possono concorrere a creare questo tipo di condizione».
Ad esempio?
«Il Coronavirus è una malattia che si trasmette per contatto tra le persone e colpisce i pneumociti. Paradossalmente colpisce maggiormente i non fumatori rispetto ai fumatori. Quindi, considerando la nostra zona, il nostro clima, con la forte presenza di nebbia, è possibile che si siano create delle barriere che abbiano impedito al virus di attecchire. Poi, c’è una considerazione di carattere clinico da fare: molti dei nostri anziani sono colpiti da patologie conclamate che prevedono l’assunzione ad esempio di farmaci per tenere controllato il livello della pressione o antinfiammatori. Anche questo potrebbe essere un fattore che ha determinato la bassa incidenza del Covid-19. Comunque, specie nelle modalità di trasmissione, ci sono alcune divergenze importanti tra coronavirus, malaria e talassemia».
Quali?
«La talassemia è una patologia che interessa le cellule del sangue. La malaria non ha un contagio aerogeno come invece accade per il Covid. Insomma, sono tutte ipotesi ancora al vaglio. La cosa che davvero ha funzionato in questa città è stato il contenimento. Ad ogni modo, un altro fattore che dovrà essere studiato è l’esposizione pregressa a tubercolosi. Il nostro territorio, in passato, non fu solo soggetto a malaria, bensì dalla tubercolosi. L’alta endemia tubercolare potrebbe essere un elemento concorrente a determinare questa resistenza. Questo elemento va valutato anche in ottica di sviluppare una vaccinazione di contrasto al Coronavirus».
Secondo lei le misure restrittive adottate a partire proprio da Unife sono state determinanti per contenere il virus?
«Assolutamente si. Credo che Ferrara da questo punto di vista abbia risposto in maniera egregia. La decisione di chiudere ad esempio Unife, da subito, ha evitato che gli studenti creassero assembramenti. Poi, c’è un altro dato che va considerato e che in qualche modo differenzia Ferrara da altre realtà. Anche dal punto di vista produttivo, c’è dire che abbiamo una rete industriale composto da piccole imprese. Isolando da subito i contatti, abbiamo tamponato molto la diffusione del virus».
Dunque, a suo giudizio, quali sono ora i passi avanti da fare qual è l’effettiva motivazione della scarsa incidenza del Covid-19 nel nostro territorio?
«La mia speranza è che si possa fare luce su questo punto partendo da dati di realtà che poggino il più possibile su un’analisi dettagliata di tutti i fenomeni che possono in un certo qual modo contribuire a questa evidenza. Ora si dovrebbe procedere alla costituzione di un maxi team di professionisti con competenze diverse, che possano dedicarsi allo studio della diffusione del virus».
Da ansa.it il 28 marzo 2020. In Lombardia - la regione più colpita dal Coronavirus - ci sono alcuni paesi senza contagiati, fra questi Ferrera Erbognone, cittadina di poco più di mille abitanti nel pavese, che adesso diventa oggetto di studio dell'Istituto Neurologico Mondino di Pavia. L'obiettivo - spiega La provincia pavese - è quello di esaminare il sangue per individuare la presenza di anticorpi. Ieri il sindaco (e medico) Giovanni Fassina ha fatto diffondere un avviso alla cittadinanza, dopo che è stata firmata una delibera di giunta al riguardo. I residenti potranno prenotarsi fino al 2 aprile per sottoporsi a un esame ematochimico in laboratorio a Sannazzaro. "Abbiamo scelto Ferrera Erbognone - ha spiegato l'ad e direttore generale del Mondino Livio Tronconi - perché si tratta di una comunità in cui non si è ancora verificato un caso di contagio da Coronavirus: di conseguenza lo studio di popolazione potrebbe fornirci risultati di una certa rilevanza che poi andranno condivisi con i virologi del Policlinico San Matteo e con il comitato scientifico della Regione Lombardia".
Coronavirus, caso di Ferrera Erbognone: il comune lombardo senza positivi. "Studio sul sangue dei cittadini". Libero Quotidiano il 30 marzo 2020. Difficile da credere, ma nella regione più colpita dal coronavirus, la Lombardia, c'è un paesino completamente privo di contagi. Si tratta di Ferrera Erbognone, piccolo centro in provincia di Pavia che conta poco più di 1.000 abitanti e che sta per diventare un caso da sottoporre all'analisi scientifica degli esperti. Il Giorno infatti parla di verifiche per capire se nel sangue dei residenti vi siano anticorpi in grado di contrastare la malattia. "Riteniamo utile un approfondimento - spiega il sindaco, nonché medico legale, Giovanni Fassina - e questo lavoro potrebbe validare una metodica". L'obiettivo, ovviamente, è quello di ottenere 1.000 campioni, affinché lo studio possa avere una validità scientifica e statistica. "Il nostro 0 casi - precisa ancora il primo cittadino - avrebbe comunque una spiegazione: la nostra popolazione è stata estremamente ligia nel rispettare le ordinanze a tutela della salute pubblica". Eppure, come purtroppo la realtà ha testimoniato, il Covid-19 non conosce immuni, neppure tra i più diligenti. Proprio per questo è utile un'analisi tecnico-scientifica dei risultati dello screening condotto da un laboratorio esterno idoneo all'impiego della metodica per la determinazione di anticorpi anti-Sars-Cov-2. Un'iniziativa però subito smontata, o quasi, dalla Fondazione Istituto Neurologico Nazionale Casimiro Mondino: "Questa non può assumere alcun significato diagnostico o prognostico, onde evitare di generare falsi miti e infondate aspettative nella popolazione". Ma tentar non nuoce.
DA LASTAMPA.IT il 31 marzo 2020. Mentre in Italia il coronavirus ha superato il tetto dei centomila contagiati (101.739 per l’esattezza), emerge il caso di un paese in Provincia di Pavia che non ha ancora registrato casi di Covid 19. È Ferrera Erbognone: mille residenti nel cuore della Lomellina. Un mistero se si pensa che la provincia pavese di casi positivi ne ha registrati in totale fino a ieri 1.712. Un fatto che merita di essere approfondito, a livello scientifico, e che infatti sarà oggetto di un'indagine condotta dall'istituto Mondino di Pavia, non appena arriverà il via libera dalla Regione. Dopo l'approvazione della delibera di giunta, il sindaco Giovanni Fassina ha fatto distribuire un avviso a tutte le famiglie del paese. Sino al prossimo 2 aprile sarà possibile prenotarsi per effettuare gli esami del sangue in un laboratorio del vicino comune di Sannazzaro de' Burgundi (Pavia). Il prelievo sarà gratuito e volontario. I cittadini che non potranno recarsi a Sannazzaro de' Burgundi (Pavia), avranno l'opportunità di fare a casa l'esame ematochimico. «Una volta completate le prenotazioni - spiega il sindaco - inizieranno i prelievi». «Il progetto è stato approvato e finanziato dal Comune di Ferrera, e abbiamo chiesto di avviare l'iter per farlo. Siamo in attesa del via libera della Regione. Ci hanno infatti detto che si deve esprimere l'Unità di crisi. Il nostro “zero casi” - riflette il primo cittadino Giovanni Fassina - credo proprio non sia dovuto alla genetica. Siamo come tutti gli altri. E' solo una situazione contingente che viene mantenuta perché evidentemente la popolazione è stata ligia nel rispettare le cautele prese con le ordinanze. Perché sicuramente hanno reputato la necessità di essere rigorosi. Abbiamo una buona popolazione anziana e un'età media alta. C'è sicuramente una sensibilità elevata». L'indagine vuole chiarire se nella popolazione di Ferrera Erbognone sono presenti anticorpi in grado di contrastare il coronavirus. L'ipotesi è infatti quella che ci sia qualcosa nel sistema immunitario di questa piccola popolazione, che possa spiegare come mai nessuno è stato colpito, fornendo forse una chiave per trovare qualcosa che aiuti a fermare la pandemia. In una nota diffusa ieri pomeriggio, il Mondino comunica che «il progetto è attualmente al vaglio dei competenti organi regionali. L'Irccs Fondazione Mondino di Pavia annovera tra le proprie attività di ricerca le metodiche di standardizzazione delle procedure di laboratorio per la determinazione di anticorpi di interesse neurologico. L'esperienza maturata in questo settore pone il Mondino nella condizione di poter valutare in modo critico metodiche, con marchio CE, attualmente disponibili in commercio per la determinazione di anticorpi anti-SARS-Cov-2». Questi anticorpi segnalano l'avvenuto contatto dell'organismo con il virus. «Le numerose metodiche arrivate in questi giorni sul mercato - sottolinea ancora il comunicato del Mondino - si basano su principi diversi, possono dare informazioni di diverso genere (qualitative o quantitative) e necessitano pertanto di essere accuratamente validate». L'indagine, non appena arriverà l'ok dalla Regione, avrà carattere sperimentale, prevedendo «un monitoraggio evolutivo della popolazione assunta a riferimento non inferiore a due mesi». L'interesse allo studio manifestato dal Comune di Ferrera Erbognone ha spinto la stessa Amministrazione a richiedere una consulenza al Mondino per l'analisi tecnico-scientifica dei risultati dello screening. «Tale iniziativa - si legge ancora nella nota della Fondazione Mondino - non può assumere alcun significato diagnostico e/o prognostico, onde evitare di generare falsi miti e infondate aspettative nella popolazione. A tal proposito, si è ritenuto di sottoporre l'iniziativa al vaglio dei competenti organi regionali istituiti allo scopo, dando seguito al progetto solo dopo il loro vaglio».
Il paese al mondo con zero contagi da coronavirus? La Corea del Nord. Le Iene News il 31 marzo 2020. La stampa del regime di Pyongyang nega la presenza di casi di COVID-19 mentre parla di “corpi che si accumulano in Italia” e “americani nel panico”. Difficile da credere, mentre ai confini si contano migliaia di casi tra Cina e Corea del Sud. “La Corea del Nord non ha alcun caso di coronavirus”. Lo sostengono il regime e le autorità sanitarie di Pyongyang, capitale della più isolata e impenetrabile dittatura del mondo. La stampa, sottomessa all’apparato di Kim Jong-un, racconta in modo martellante di avere preso tutte le misure necessarie per tenere fuori dai propri confini il COVID-19: chiusura delle frontiere con la Cina e con la Corea del Sud alla fine di gennaio, blocco pressoché totale dei commerci con Pechino e intero corpo diplomatico straniero messo in quarantena. Difficile da credere che queste misure siano bastate per tenere i casi addirittura a zero. Dietro, come spiega il New York Times, ci potrebbe essere un’altra verità. La Corea del Nord potrebbe avere problemi a trovare i contagiati perché il suo sistema sanitario non è nemmeno attrezzato ad accertarli. "È una palese menzogna che non hanno contagi", spiega Seo Jae-pyoung, segretario generale dell'associazione dei disertori della Corea del Nord al quotidiano americano. L’uomo dice di sapere per certo da un suo contatto nordcoreano che almeno una famiglia di tre persone e una coppia di anziani sarebbero morti a fine marzo di coronavirus nella città di Chongjin. "L'ultima cosa che la Corea del Nord vuole è il caos sociale, che può scoppiare se i cittadini si rendessero conto che le persone stanno morendo di un'epidemia senza cure". Del resto, come potrebbe essere totalmente immune un paese confinante con la Cina che ha registrato oltre 82.000 contagi e con la Corea del Sud che ne ha più di 9000? I media di Pyongyang intanto continuano a mostrare inaugurazioni di nuovi ospedali da parte del dittatore Kim Jong-un e disinfezioni di strade, alberghi e grandi magazzini. La pandemia? Fa strage nel resto del mondo, dicono i telegiornali, tra “corpi che si accumulano in Italia” e “cittadini americani in preda al panico che fanno scorta di armi e munizioni”.
Guido Santevecchi per corriere.it l'1 aprile 2020. C’è un solo continente ancora libero dal coronavirus. E’ l’Antartide, dove ventotto nazioni hanno installato basi per ricerche scientifiche. Circa 4 mila residenti tra tecnici, scienziati, militari, medici. C’è anche una spedizione italiana, installata nella Stazione Zucchelli tra i ghiacci del Polo Sud. Ha raccontato il capo missione, Alberto Della Rovere: «I colleghi dall’Italia mi hanno detto via Whatsapp: resta dove sei, sei al sicuro lì».
Il luogo più sicuro della Terra. La base italiana è al centro di un servizio del Washington Post, alla ricerca di notizie rassicuranti per i lettori americani in ansia virale. In Antartide le spedizioni scientifiche si installano stabilmente da ottobre a fine febbraio, la stagione primaverile ad estiva laggiù. Non ci sono stati contatti con il resto del mondo in questi mesi e per questo il personale internazionale è rimasto alla larga dal nuovo coronavirus esploso a Wuhan a dicembre e poi diventato pandemico. «Sì, al momento questi ghiacci sono il luogo più sicuro della terra», ha detto il tecnico italiano. Sono state prese comunque precauzioni supplementari: «La dottoressa della nostra base ci ha dato fiale con gel disinfettante per le mani».
Il rientro dei ricercatori. Mantenere l’Antartide pulito dal Covid-19 è un impegno decisivo per consentire la permanenza scientifica dell’uomo nella regione: in quelle condizioni curare un paziente aggredito dal virus sarebbe estremamente difficile ed evacuarlo richiederebbe tempi lunghi. Ma ora arriva l’inverno: Della Rovere e gli italiani di Stazione Zucchelli si sono messi in viaggio per rientrare in Italia, su una nave sudcoreana che li porta in Nuova Zelanda. Sbarco previsto il 9 aprile. Non dovranno fare quarantena, al contrario di chiunque altro entri ora nel Paese, proprio perché l’Antartide è ritenuto al momento libero dal Covid-19. Non è ancora stato deciso come il gruppo proseguirà dalla Nuova Zelanda verso l’Italia. Il capo spedizione ha messo su Twitter il suo saluto, accompagnato da una fotografia: «Buongiorno signori, questa è l’ultima notte che siamo a MZS. Questo è quello che si vede alle 22, c’è bisogno di accendere le luci altrimenti non si vede nulla»
· La Ricaduta.
Silvia Turin per "corriere.it" il 15 dicembre 2020. Il caso di una ragazza romana è l’esempio di come a volte il coronavirus sia difficile da sconfiggere da parte delle difese immunitarie del nostro corpo. Una 25enne è alle prese con il Covid da settimane: ammalatasi a ottobre con sintomi pesanti e poi «creduta» guarita, dopo un mese dalla remissione si ritrova ora di nuovo positiva al tampone molecolare, con dolori e febbre alta.
La storia emblematica. «Ho iniziato a stare poco bene a metà ottobre - racconta la giovane all’ANSA - ma il primo tampone rapido il 13 ottobre era negativo. Dato che continuavo a stare male ho fatto un secondo tampone molecolare al drive-in di Fiumicino il 20 ottobre ed è risultato positivo». La prima volta i sintomi sono andati da un dolore fortissimo ai muscoli, con febbricola, fino a difficoltà respiratorie piuttosto pesanti, anche se la paziente è stata comunque seguita sempre in casa dal suo medico di base. Il 30 ottobre si è sottoposta a un nuovo tampone molecolare all’ospedale Sant’Andrea, negativo. Il 13 novembre è arrivato il secondo tampone negativo, al drive-in di Santa Maria della Pietà. Pochi giorni fa si è ammalato di Covid-19, apparentemente a causa di un focolaio sul posto di lavoro, il padre. «Per precauzione - dice la ragazza - in famiglia abbiamo fatto tutti il tampone: sono risultata positiva al molecolare, ho avuto febbre a 38,5 mezzo e ora ho di nuovo dolori ai muscoli».
Il rischio dei tamponi rapidi. La vicenda della ragazza romana è emblematica di alcune evenienze che possono presentarsi per le persone alle prese con il coronavirus: innanzitutto l’eventuale errore di un test rapido. Allo stato attuale, i dati disponibili per i vari test sono quelli dichiarati dal produttore: mediamente 70-86% di sensibilità (dove «alta sensibilità» corrisponde a pochi falsi negativi) e 95-97% di specificità (dove «alta specificità» corrisponde a pochi falsi positivi). I test rapidi possono sbagliare e comunque non sono abbastanza sensibili da rilevare la presenza del virus in quantità scarse, cosa che accade agli esordi dell’infezione, quando le persone sono più contagiose, o alla fine di un’infezione.
Ricaduta o nuovo contagio (e malattia)? Il secondo focus è sulla nuova malattia: come si legge nell’agenzia, non ci sono elementi certi per affermare in maniera se si tratti di una ricaduta della prima malattia o di una vera e propria reinfezione. Fatto sta che la ragazza prima è stata male, poi sembrava esserne uscita, e ora lotta di nuovo contro il virus. In diversi casi (specie in persone che hanno subìto un ricovero) il Covid si è visto rimanere all’interno del corpo e dei polmoni: persone con tamponi che non si negativizzano mai, oppure persone che a distanza di pochissimo ricevono prima un tampone negativo e poi uno positivo. In questo caso, quando i due contagi sembrano vicinissimi, si parla piuttosto di ricaduta. Come quando un’influenza sembra superata e ci porta ad uscire troppo precocemente, con la conseguenza di costringerci nuovamente a letto. Ci sono però anche i casi di nuova (seconda) infezione da coronavirus. Sono davvero rari ma esistono: non tutti, durante la prima infezione, sviluppano anticorpi che li difendono dal virus al secondo incontro. Specie chi la prima volta ha avuto zero o pochi sintomi.
Con il vaccino saremo protetti. Per essere sicuri però che si tratti di reinfezione, bisognerebbe avere la sequenza genetica del virus rilevato la prima volta e quella della seconda volta e confrontare le differenze. Solitamente in caso di reinfezione le sequenze sono leggermente diverse. Sono analisi difficili da fare al di fuori di studi controllati in questa fase. Quello che sappiamo per ora è che sono casi rari, ma capitano, e che il vaccino ci difenderà da questa evenienza perché sviluppa una risposta anticorpale del sistema immunitario più solida di quella fisiologica. E a livello immunologico, non ci sono motivi per non vaccinare chi si è già ammalato di Covid.
Silvia Turin per il “Corriere della Sera” il 30 ottobre 2020. Un team dell' Imperial College di Londra ha scoperto che il numero di persone risultate positive agli anticorpi è diminuito del 26% tra giugno e settembre. Nel primo ciclo di test - a fine giugno - circa 60 persone su 1.000 avevano anticorpi rilevabili. Ma nell' ultima serie di test, a settembre, solo 44 persone su 1.000 erano positive. La caduta è stata maggiore negli over 65, rispetto ai gruppi di età più giovane, e in persone senza sintomi, rispetto a chi aveva avuto una malattia sintomatica. Il numero di operatori sanitari con anticorpi è rimasto relativamente alto, il che, secondo i ricercatori, potrebbe essere dovuto alla regolare esposizione al virus. Alcuni studiosi commentano con allarme i risultati paventando un' immunità di breve durata che esporrebbe al rischio di contrarre il virus più volte. Non è la prima volta che uno studio ha rilevato questo dato: ne aveva scritto una ricerca del King' s College di Londra in cui si era visto che il livello di anticorpi raggiunge il suo picco dopo circa tre settimane dalla comparsa dei sintomi per poi gradualmente diminuire. Lo studio aveva monitorato come, tre mesi dopo l' infezione, solo il 17% di chi aveva contratto il virus mantenesse la stessa potenza di risposta immunitaria, destinata a ridursi in certi casi fino a non essere più rilevabile. Gli studiosi non hanno ancora certezze su quanto gli anticorpi ci proteggeranno da nuove infezioni, ma non tutti sono pessimisti riguardo ai risultati di questi studi perché, in certa misura, è normale che gli anticorpi diminuiscano dopo la guarigione da un' infezione. Gli anticorpi scendono a livelli base non rilevabili dai test sierologici comunemente usati. Ad esempio, le persone con sintomi lievi o nulli possono aver prodotto meno anticorpi rispetto a quelle con malattia grave, ma anche una piccola diminuzione della quantità di anticorpi può far scendere i loro livelli al di sotto del limite di rilevamento. Se è normale che gli anticorpi diminuiscano, lo è anche che bassi livelli di anticorpi possano produrre ugualmente una risposta del sistema immunitario in caso di riesposizione al virus. Per quanto riguarda i possibili vaccini le preoccupazioni sono limitate: «Un vaccino genera cellule che possono fornire una protezione duratura - hanno scritto sul New York Times Akiko Iwasaki e Ruslan Medzhitov, professori di immunobiologia all' Università di Yale -. Uno dei vantaggi rispetto alla reazione naturale è che gli antigeni del vaccino possono essere progettati per focalizzare la risposta immunitaria sul tallone d' Achille di un virus».
Da leggo.it il 21 ottobre 2020. Gaviria di nuovo positivo: a marzo era stato ricoverato per Covid. Stavolta è asintomatico. Il nome del corridore della UAE Emirates contagiato dal coronavirus dopo gli ultimi test effettuati al Giro d'Italia è una sorpresa: si tratta infatti di Fernando Gaviria, 26enne colombiano, che già lo scorso marzo era risultato positivo al Covid-19, era stato ricoverato per quasi un mese e si era perfettamente ristabilito. Stavolta invece Gaviria è asintomatico e in isolamento, in buona salute. La Uae Emirates ha fatto sapere che «tutti gli altri ciclisti e membri dello staff del team hanno ricevuto un esito negativo» e proseguiranno oggi la corsa. Lo staff sanitario della squadra «sta seguendo la situazione con attenzione, mettendo in opera tutto quanto necessario per assicurare un sicuro proseguimento». Dopo aver ricevuto il responso del test, Gaviria è stato immediatamente posto in isolamento: è in buona salute e «completamente asintomatico».
"Il ciclista si è reinfettato": ecco la verità sugli anticorpi. Gli anticorpi diminuiscono progressivamente con il passare delle settimane: sebbene i casi di reinfezione al mondo siano circa 20, gli esperti invitano gli ex-positivi a non abbassare la guardia. "Tecnicamente è possibile reinfettarsi nuovamente". Alessandro Ferro, Martedì 20/10/2020 su Il Giornale. Fernando Gaviria, primo ciclista professionista al mondo a rimanere contagiato lo scorso mese di marzo, è risultato positivo per la seconda volta al Covid dopo il responso dell'ultimo tampone molecolare effettuato durante il Giro d’Italia. La sua prima positività venne scoperta ad Abu Dhabi durante l’Uae Tour ed il velocista fu costretto ad una lunghissima quarantena in una struttura ospedaliera negli Emirati Arabi. Il caso del ciclista riporta prepotentemente in primo piano un tema sempre più discusso negli ultimi tempi: se inizialmente l'unico pensiero era quello di non essere infettati dal virus, adesso una domanda sorge spontanea, soprattutto tra gli studiosi e tra gli ex-positivi che sono guariti ed hanno vinto la malattia: è possibile reinfettarsi?
Ci si può riammalare? Sono passati più di sei mesi dall'inizio della pandemia del Covid-19 e, sebbene il virus si conosca sempre di più, in questo caso le risposte sono molteplici e spesso sibilline. “Forse si”, “forse no” e “chi lo sa” potrebbero rendere l'idea. Partiamo da ciò che conosciamo con certezza: con il passare dei mesi, gli anticorpi del nostro organismo diminuiscono ed, al momento, sono stati documentati pochissimi casi al mondo (meno di 20) di persone che sono state infettate dal Covid una seconda volta. Quindi, la risposta sarebbe “si, ci si può reinfettare”. Ma non è una verità assoluta, anzi: nessuno studio dimostra l'esatto timing degli anticorpi e pochissimi casi al mondo su oltre 40 milioni di persone attualmente infette servono (per il momento) più che altro da statistica per i libri di medicina.
La questione degli anticorpi. Lo studio. Sul Journal of Clinical Medicine è stato appena pubblicato uno studio italiano condotto dal team del Laboratorio Covid dell’Istituto Europeo di Oncologia, guidato dai ricercatori Federica Facciotti, Marina Mapelli e Sebastiano Pasqualato. La ricerca si è basata su un campione di medici ed infermieri contagiati dal Sars-Cov-2. Ebbene, è stato riscontrato che nelle infezioni non gravi, "i titoli anticorpali contro RBD e Spike, ma non contro la proteina N, così come le citochine pro-infiammatorie sono diminuiti entro un mese dalla clearance virale", si legge sullo studio. In pratica, pochissime tracce di anticorpi per coloro i quali hanno preso un'infezione "leggera" e non hanno dovuto ricorrere alla cure ospedaliere. Chi, invece, ha subìto un'infezione più pesante od il cui organismo ha reagito in maniera più forte, lo sviluppo degli anticorpi è stato maggiore ma anche in questi casi, con il passare dei mesi, tendono ad abbassarsi od a scomparire del tutto. Attenzione, però: anche se gli anticorpi non sono più rilevati dagli strumenti come il test sierologico, non significa che il nostro organismo li abbia perduti del tutto e non conservi una "memoria" anticorpale.
Il nostro organismo dovrebbe "ricordare" il virus. "Siamo in una fase precoce dove si pensa che l'immunità acquisita persista ancora. Va detto, però, che le persone che hanno un dosaggio anticorpale basso, se incontrassero nuovamente il virus svilupperebbero immediatamente gli anticorpi perché l'immunità l'hanno acquisita anche se il titolo anticorpale circolante non è dosabile": sono queste le parole della Dottoressa Michela Bezzi, Primario di Pneumologia ad indirizzo Endoscopico degli Spedali Civili di Brescia. Insomma, a sei mesi dalla pandemia, probabilmente chi ha avuto la malattia possiede ancora gli anticorpi anche quando i test sierologici non riescono più a riconoscerli. "Verosimilmente sono “dietro l'angolo” ma all'eventuale ripassaggio del virus sono pronti", ci dice in esclusiva la Dott.ssa Bezzi. "Nessun doppio caso". "Ad oggi, clinicamente parlando, non abbiamo mai visto un singolo paziente che avesse già avuto l'infezione precedentemente, che l'abbia riaccesa o si sia reinfettato dopo mesi di tampone negativo. Questo è un dato confortante", afferma la Bezzi. Trattandosi di un virus nuovo, però, nessuno può sapere con certezza assoluta cosa accadrà in futuro. "Tra un anno o un anno e mezzo non so se questa immunità verrà mantenuta, magari tra un anno il virus sarà anche diverso e non sarà più un problema reinfettarsi con lo stesso ma magari con il "cugino" o con quello che arriverà tra 8-10 anni, più o meno l'intervallo di tempo con cui si ripropongono queste epidemie di virus respiratori". Sebbene pochissimi, una ventina di casi al mondo di reinfezione al Covid-19 sono stati già documentati. Accanto a quelli veri, però, ci sono stati altri casi di un falso doppio positivo. "Vanno sempre verificati: a noi è capitato un paziente che diceva di essere stato ricoverato a marzo in Costa D'Avorio. In realtà, si è scoperto che si era trattato soltanto un ricovero domiciliare, che non esisteva alcun tampone positivo e che nelle sei Tac al torace acquisite in 25 giorni, tutte e sei erano completamente negative. Questo per dire che, trattandosi di un'informazione così importante, abbiamo voluto verificarla".
Ecco cos'è la "memoria anticorpale". "Se dovessimo spingerci verso una direzione o verso l'altra direi che non ci si reinfetta, quantomeno adesso perché è trascorso poco tempo", ci dice la Bezzi. Questo accade perché il nostro organismo conserva una memoria anticorpale anche se non viene più rilevata dai test sierologici, come nel caso di numerosi pazienti che a marzo presentavano le IGg ben visibili e che oggi, in alcuni casi, sono scomparse. "Magari non si riescono a rilevare quando l'organismo è tranquillo, ma non appena il virus si avvicina si accendono e vengono rilevati", afferma il primario. "È una teoria che esiste per tante altre cose come per il morbillo o la varicella: io, ad esempio, l'ho avuta all'età di 9 anni: anche se gli anticorpi non si trovano, se vado accanto ad una bimbo che ce l'ha, il mio corpo, che ha già incontrato questo virus, ha già acquisito nella sua memoria come produrre gli anticorpi del virus dell'una o dell'altra malattia e li produce immediatamente. È una memoria di immunità che diventa visibile dai comuni test soltanto quando incontra il virus". La differenza dei test. La Bezzi spiega anche che i test che venivano eseguiti nei primi mesi della pandemia sono in parte diversi da quelli eseguiti oggi: un ragazzo di poco più di 30 anni positivo al Covid a marzo e che aveva avuto una risposta anticorpale forte, con il test sierologico di qualche giorno fa non gli è più stato riscontrato alcun anticorpo. "Bisogna considerare due cose: anche se le IGg non sono più visibili, la memoria, in realtà, potrebbe ancora averla. Se lui si riesponesse al Coronavirus, probabilmente gli anticorpi li avrebbe immediatamente; l'altra cosa è il tipo di test utilizzato: a marzo potrebbe averne usato uno molto sensibile, attualmente invece un test diverso. È molto importante utilizzare sempre lo stesso, quelli che abbiamo oggi non sono gli stessi di quelli che avevamo ad aprile".
"Non abbassare la guardia". Sulla memoria anticorpale è più cauto l'epidemiologo Massimo Ciccozzi, Responsabile dell'unità di ricerca in statistica medica ed Epidemiologia molecolare università campus biomedico di Roma. "La percentuale di reinfezione è molto rara, ne sono stati studiati soltanto cinque in tutto il mondo. Però è possibile, i virus possono fare tutto ed il contrario di tutto a volte. Ad oggi, comunque, è molto raro". Il Prof. Ciccozzi predica attenzione quando gli anticorpi si riducono (riscontrato dai test) perché non si ha più la protezione che si aveva in precedenza. "Bisogna stare attenti a non reinfettarsi: i pochissimi casi al mondo sono delle rare eccezioni, in Italia non c'è alcun caso documentato. Tecnicamente, quindi, è possibile ma non ci sono dati che lo confermano. Di questo virus sappiamo abbastanza ma non sappiamo tutto", conclude l'epidemiologo. La pandemia da Covid-19 prosegue, purtroppo, con alti tassi di contagio. Su questo virus si sa di più ma non abbastanza. Per evitare ogni complicazione anche a tutti coloro i quali (e sono tantissimi) hanno già vinto la battaglia, è di fondamentale importanza sapere di non essere immuni al 100% e seguire scrupolosamente tutte le regole che ormai conosciamo a memoria.
Covid-19, allarme dell’esperto: "È possibile non guarirne più". Alessandro Santin, oncologo della Yale University, ha spiegato che esistono pazienti che hanno sviluppato il coronavirus in forma lieve e che dopo essere guariti si sono riammalati. Gabriele Laganà, Giovedì 16/07/2020 su Il Giornale. Nonostante i numerosi studi condotti in questi mesi, del coronavirus la comunità scientifica conosce ancora poco. Tanti sono i dubbi su questa malattia che ha sconvolto il mondo e stravolto le nostre abitudini quotidiane. Negli ultimi tempi gli esperti stanno dibattendo su una questione, fino ad ora poco presa in considerazione, che potrebbe rappresentare una bomba sanitaria: quella di pazienti che, tornati negativi, potrebbero non guarire del tutto o cronicizzarsi e, in futuro, tornare positivi innescando così nuovi focolai. La possibilità è reale. Come spiega Il Fatto Quotidiano, di questo scenario farebbero parte alcuni pazienti che hanno sviluppato il Covid in forme lievi e moderate. Il loro numero è potenzialmente enorme: fino al 10% di persone colpite dalla malattia che si sono ammalate senza che fosse necessario il ricovero. Tra questi pazienti non ci sarebbero persone con gravi patologie pregresse ma soggetti sani come giovani e sportivi che, colpiti dal microrganismo, non riescono quasi più ad alzarsi dal letto da mesi. Costoro hanno superato il coronavirus, almeno apparentemente. Incubo alle spalle? No. Perché poco tempo dopo si sono riammalati. Eppure, e questa è un'altra cosa inquietante, la maggior parte di loro continuano a essere negativi sia al tampone, sia al test sierologico che rileva la presenza di anticorpi. Le persone di nuovo colpite da Covid non riescono a respirare bene, a camminare o ad eseguire altre attività semplici. La forte debilitazione non dipenderebbe da danni irreversibili ai polmoni o altri organi causati dalle forme gravi di coronavirus ma dalla "tempesta citochimica", l’azione del sistema immunitario che annienta il nemico esterno, riuscendoci, ma che al contempo distrugge i tessuti degli organi, a volte in modo irreversibile. Non è il caso di questi pazienti, come mostrano le loro lastre al polmone. Alessandro Santin, oncologo della Yale University (Usa), ha raccontato di aver seguito centinaia di pazienti Covid. "Tutto ciò che sappiamo fino ad oggi sul Covid deriva dallo studio di quel 20% che ha sviluppato la forma severa ed è quindi stata ricoverata in ospedale”, ha spiegato il professore. "Non ci si è concentrati per niente su chi era malato a casa. Ma ora vediamo che c'è un numero di persone enorme fuori dagli ospedali che non guarisce- ha aggiunto- e che non sappiamo ancora se guarirà mai. Lo sappiamo dalle chiamate che da mesi continuano a fare ai pronto soccorso, negli Usa". In effetti, queste persone contattano medici ed ospedali in quanto, seppur ufficialmente guariti, continuano ad accusare malesseri. In diversi casi vengono trattati come malati immaginari e marginalizzati. Il loro numero continua a crescere tanto che nelle ultime settimane questi pazienti soprannominati "long haulers" hanno costituito delle associazioni. "Non ci sono ancora dati, ma da quello che vediamo a Yale sono fino al 10% di quell'80% di pazienti che ha sviluppato forme lievi o moderate di Covid, cioè un numero enorme in tutto il mondo", ha sottolineato Santin. Un grande mistero per il quale la scienza non ha una risposta. L'ipotesi è che queste persone, per motivi ancora ignoti, non sviluppino anticorpi. Ci sono due possibili spiegazioni al fenomeno. La prima è che il virus non sia più presente nell'organismo ma il sistema immunitario vede piccoli residui del nemico esterno, seppur inattivi, e così continua il suo lavoro di protezione. La seconda è che il virus ci sia ancora ma nascosto in alcune cellule dei polmoni dette macrofagi alveolari: in questo caso i tamponi non individuano il virus ma i sintomi permangono al punto tale che potrebbero cronicizzarsi, trasformando i pazienti in portatori cronici asintomatici. "Alla prima influenza stagionale che abbassa la risposta del sistema immunitario, potrebbero tornare positivi, perché il virus rientrerebbe in circolo", ha spiegato Santin. Cosa distingue queste persone dai pazienti che, come loro, hanno sviluppato solo una forma lieve di Covid ma, per fortuna, poi sono definitivamente guariti? Non ci sono certezze ma solo ipotesi. Come quella che induce a pensare in qualche modo nella vicenda sia implicata l’allergia. "È come se il sistema immunitario di questi pazienti, di fronte alla presenza del SarsCov2, reagisse come alla presenza di un allergene, rispondendo non con gli anticorpi e la tempesta citochinica che causa le forme gravi, ma scatenandogli contro l'arma che l'organismo utilizza in risposta a reazioni allergiche, all'asma e alle infezioni da parassiti: gli eosinofili al posto degli anticorpi", ha affermato l’oncologo. In pratica, chi soffre di malattie respiratorie come l'asma allergica è più protetto dalle forme gravi di Covid. Il paradosso del coronavirus. "Il sistema immunitario- ha concluso Santin- continua a rimanere attivo per mesi, causando i sintomi in forma moderata, come se fosse di fronte a una reazione allergica persistente. Negli Usa vediamo che da 4 mesi queste persone non riescono ad alzarsi dal letto. E non sappiamo ancora se ci riusciranno".
Coronavirus, “l'immunità dura pochi mesi”. Il vaccino servirà comunque? Le Iene News il 14 luglio 2020. Uno studio del King’s College di Londra, ancora non sottoposto a revisione, ipotizza che l’immunità dei pazienti già contagiati dal coronavirus possa durare pochi mesi. E uno studio cinese sembra confermare questa posizione: il vaccino allora serve davvero? Sì, però non è scontato riuscire a trovarlo. Le notizie sconfortanti sul coronavirus sembrano non finire mai: uno studio del King’s College di Londra - non ancora sottoposto a revisione - afferma che il livello di anticorpi prodotti dopo aver contratto il Covid-19 diminuisce nettamente nel giro di pochi mesi lasciando così la porta aperta alla possibilità di una seconda infezione. I ricercatori inglesi hanno analizzato i casi di 90 persone che hanno contratto il coronavirus: solo il 17% mantiene la stessa capacità di risposta immunitaria dopo tre mesi. In alcuni casi, sparisce del tutto. Insomma, concludono i ricercatori, il coronavirus potrebbe tornare a infettare le stesse persone anno dopo anno, come avviene per le normali influenze stagionali. Con una differenza importante: secondo gli ultimi dati disponibili, il Covid-19 è 10 volte più letale delle tradizionali influenze. E se non bastasse questa notizia per allungare un’ombra inquietante sull’estate, uno studio condotto da ricercatori cinesi e pubblicato su Nature sembra arrivare alle stesse conclusioni dei colleghi inglesi: entro tre mesi dalla guarigione, il livello degli anticorpi contro il coronavirus scende a una velocità molto rapida lasciando la porta aperta a una eventuale seconda infezione. Insomma, sembra esserci poco da stare allegri. E questa notizia ha sollevato una domanda che rimbalza sui social: ma se l’immunità dura così poco, il vaccino che tutto il mondo attende col fiato sospeso serve davvero? La risposta è semplice: sì. Anche ammettendo che le infezioni causate dal coronavirus diventino ‘stagionali’ e si possano ripetere ogni anno, l’eventuale scoperta di un vaccino efficace proteggerebbe tutta la popolazione - e in particolare le fasce più deboli - dal Covid-19. Forse non per sempre, forse potrebbe essere necessario vaccinarsi ogni anno, perfino ogni sei mesi, però il ruolo del vaccino nel vincere la battaglia della pandemia da coronavirus non è in discussione. Altro discorso è, ovviamente, il trovare un vaccino efficace. Anche su questo una recente ricerca ha gettato un’ombra inquietante: un gruppo di studiosi italiani, analizzando la possibilità che le seconde infezioni da coronavirus possano essere accompagnate da sintomi più gravi delle prime, ha messo in luce le difficoltà di sviluppare un vaccino. “Per nessun coronavirus è mai stato possibile produrre e commercializzare un vaccino efficace finora”, ha ricordato Luca Cegolon, epidemiologo presso l'Ausl 2 di Marca Trevigiana di Treviso e primo firmatario della ricerca. “I coronavirus sono noti per causare re-infezioni, indipendentemente dall'immunità acquisita”. Anche in questo caso però un aspetto positivo si può trovare: nella storia moderna della medicina non c’è mai stato uno sforzo così ampio a livello globale (e così pesantemente finanziato) per trovare un vaccino contro un virus. In pochi mesi sono già 192 i vaccini in sperimentazione, 16 già in sperimentazione clinica. In particolare sembra dare grandi speranze quello di AstraZeneca in collaborazione l’università di Oxford, tanto che stando a quanto riporta La Stampa l’Unione europea starebbe pensando di distribuirlo già a fine anno senza attendere i risultati finali della sperimentazione clinica. Il vaccino avrebbe già passato i test sulla tossicità umana e sarebbe quindi inoffensivo anche nell’ipotesi in cui si rivelasse inefficace. Insomma, la situazione potrebbe non essere così tragica come appare a prima vista. Un vaccino potrebbe arrivare e cambiare la storia di questa pandemia. Nell’attesa, quello che si può fare è continuare a proteggersi rispettando il distanziamento sociale. Il governo sta per varare un nuovo dpcm per estendere le restrizioni attualmente in vigore fino al 31 luglio, mentre lo stato d’emergenza dovrebbe essere prorogato fino a fine ottobre. Nella speranza che la temuta seconda ondata autunnale non arrivi mai.
Lidia Catalano per "La Stampa" il 15 luglio 2020. Le immagini nella mente di Nazareno Fratea sono offuscate, confuse. «L'unico ricordo nitido risale al secondo ricovero in terapia intensiva, impossibile dimenticare quella sensazione». Lo sguardo smarrito che cerca punti di riferimento e li ritrova negli arredi, nei dettagli, nelle luci sul soffitto. «Ho riconosciuto perfino i disegni appesi alle pareti e ho avuto la certezza che in quel posto io c'ero già stato. Perché ero finito di nuovo lì dentro?». Per due volte il coronavirus ha provato a strappargli il respiro e per due volte ha lottato per riprenderselo. Il primo ricovero all'ospedale Maria Vittoria di Torino risale al 3 aprile. «Qualche giorno prima avevo iniziato ad avere febbre alta e tosse». L'esito del tampone è scontato: positivo al Covid-19. La situazione precipita in fretta. «Avevo un polmone compromesso, era necessario intubarmi». Un'altra immagine prima del buio: «I medici mi hanno detto: "Non perdere la fiducia, sei forte, ce la farai"». Nazareno Fratea, 64 anni, è rimasto attaccato alle macchine per 15 giorni prima di riaprire gli occhi. «Quando ho iniziato a riprendermi sono stato trasferito per la degenza in un altro ospedale, l'Amedeo di Savoia». Poi finalmente il doppio tampone negativo e le dimissioni. «Ero certo di essermi lasciato quell'incubo alle spalle. Dovevo continuare le terapie ma potevo tornare dalla mia famiglia e ricominciare a vivere». Ad aspettarlo a casa, trincerate in quarantena nell'appartamento vicino allo Juventus Stadium c'erano la moglie Giovanna e le figlie Erica e Greta, di 28 e 30 anni. «Nessuna di noi, nonostante la convivenza con papà già ammalato, ha mai sviluppato sintomi. Eravamo felicissime di poterlo riabbracciare», racconta la primogenita. Quella gioia però si esaurisce in fretta. Neppure una settimana dopo l'ex responsabile del reparto ittico di una gastronomia ricomincia ad avere difficoltà respiratorie. «Sembravano crisi asmatiche, così abbiamo chiamato di nuovo il 118», racconta Greta. La diagnosi dei sanitari è immediata: «Questo è respiro da Covid». Si ripete la scena di un mese prima, con la corsa in ambulanza al Maria Vittoria. «Papà è arrivato in ospedale in crisi respiratoria, ci hanno detto che era grave». Nazareno Fratea torna a lottare nella stanza di cui ricorda ogni dettaglio, ma questa volta il ricovero è più breve. «Dopo quattro giorni ho iniziato a stare meglio e mi hanno di nuovo trasferito all'Amedeo di Savoia». Nel selfie con gli infermieri che lo immortala il giorno delle dimissioni, Nazareno sorride con il pollice su in segno di vittoria. Da quasi due mesi ha ripreso la sua vita, le passeggiate ai giardini sotto casa. «Non sappiamo come sia potuto succedere. I suoi problemi di diabete e cardiopatia di certo non hanno aiutato ma ha sempre osservato le regole. A marzo usciva solo per fare la spesa, all'epoca però non c'era ancora l'obbligo di mascherina e nessuno la portava», riflette Greta. «Casi come questo sono rari», conferma il professor Giovanni Di Perri, responsabile delle Malattie infettive dell'Amedeo di Savoia. «Abbiamo visto pochissime recidive con sintomi, mentre sono molto più diffuse quelle asintomatiche, che riguardano almeno il 20 per cento dei pazienti». Altro che patente di immunità. «Tutti noi abbiamo sperimentato che i virus di raffreddore e influenza rendono immuni per qualche settimana al massimo. È plausibile che il Covid-19 si comporti allo stesso modo». Anche Nazareno Fratea è convinto che «sarà dura togliercelo dai piedi» e pensa a godersi ogni istante con la sua famiglia. Solo quando è tornato a casa ha saputo che loro non lo hanno mai perso di vista. «Non potevamo andare a trovarlo ma ogni giorno grazie agli infermieri lo vedevamo in videochiamata: la nostra voce gli arrivava attraverso un tablet e lo esortava a non mollare», racconta Greta. Ma confida: «Noi però vivevamo nell'ansia che da un momento all'altro arrivasse la telefonata che spezza ogni speranza». Nazareno ora si sente «due volte miracolato». Quella chiamata a casa sua non è mai arrivata.
«Guarito e di nuovo contagiato, io un caso da studiare». Il parlamentare di FdI, di origini acquavivesi, ora è asintomatico e in quarantena. Sollecita un’indagine scientifica. Franco Petrelli su La Gazzetta del Mezzogiorno il 06 Maggio 2020. Un raro caso in Italia di doppio contagio da Covid-19 nell’arco di due mesi. A raccontarlo è il diretto interessato, il 56enne Edmondo Cirielli, deputato di Fratelli d’Italia, nato a Nocera Inferiore e residente a Cava dei Tirreni, radici acquavivesi. Suo padre, Giuseppe, generale di brigata dei Bersaglieri, è sepolto nel cimitero di Acquaviva. Lo diciamo subito: l’onorevole Cirielli sta bene. «Sono tuttora molto legato alla città pugliese», dice subito il parlamentare. Onorevole, quale idea si è fatto della malattia? «È un virus sicuramente anomalo perché non è una semplice influenza, come è stato detto almeno inizialmente. I sintomi sono molto debilitanti e poi altalenanti, non sussiste una normale evoluzione, una mezza giornata si sta bene e nell’altra mezza si accusa una spossatezza generale, che fa star male». Adesso come va? «Ho dovuto fare i conti per circa 30 giorni con questa malattia molto debilitante e molto sintomatica. Ho trascorso giornate dure, anche da un punto di vista psicologico, ma prima di Pasqua, a un secondo tampone risultato negativo, ho tirato un sospiro di sollievo. Sono stato bene nei successivi 20 giorni, un periodo infernale sembrava essersi dissolto, ma ho ritenuto di effettuare privatamente un esame sierologico per certificare lo stato immunitario». Quindi? «Nonostante stessi benissimo, è emersa la prova che l’infezione era ancora presente», afferma. A questo punto la voce di Edmondo Cirielli, colonnello dei Carabinieri in aspettativa, sembra aumentare di tono: «Non mi rimaneva che interpellare il responsabile Covid della provincia di Salerno, il quale ha disposto che mi sottoponessi a un tampone. Ed ecco che risulto di nuovo positivo. Insomma ora sono contagiato nuovamente, sto abbastanza bene, mi trovo in quarantena, doverosamente. Pensavo che il mio caso e quello della mia compagna, anche lei nuovamente positiva e asintomatica, potesse diventare oggetto di studio da parte dell’autorità sanitaria». Può essere più chiaro? «Pur avendo sviluppato gli anticorpi, sono ancora contagiato e quindi si renderebbe urgente un’indagine scientifica per scopi epidemiologici che potrebbe essere utile a definire o a cambiare la strategia generale sulla quarantena». In altre parole, il parlamentare di FdI si propone come possibile «caso scientifico» da studiare a beneficio della collettività. Infine un sogno: «Il 22 gennaio ho avuto il terzo figlio, non vedo l’ora di portarlo per la prima volta ad Acquaviva».
(ANSA il 20 marzo 2020) - Un nuovo caso di contagio è stato registrato nella notte a Vo' Euganeo, il primo focolaio di Coronavirus in Veneto, dopo giorni in cui il bilancio segnava zero. Dal report della Regione, i positivi nella cittadina padovana sono così 83 dall'inizio dell'epidemia. Padova - escluso Vo' - è la provincia con più casi (943, +42 rispetto a ieri), seguita da Verona (784, +66) e Treviso (719, +49).
Guarita ma il Covid ritorna: è il primo caso in Italia di recidiva alla malattia. Una donna milanse con origini cinesi è il "caso uno" in Italia di ritorno della malattia. Ricoverata all'ospedale di Negrar, in provincia di Verona, come la prima volta non presenta sintomi gravi. "È un caso raro", afferma Bisoffi, direttore del dipartimento. Due le ipotesi. Alessandro Ferro, Venerdì 03/04/2020 su Il Giornale. Dopo il "paziente uno" adesso spunta, purtroppo, anche la "recidiva uno". Una giovane donna milanese con origini cinesi si è ammalata nuovamente al Covid-19 dopo essere guarita.
Nuova positività. Ricoverata una prima volta perché positiva al tampone, è stata dimessa dopo l'esito di due tamponi che parlavano chiaro: negativa. Una decina di giorni dopo, però, il Coronavirus è tornato a far paura con febbre, seppur non elevata, e la tosse. Eseguito un nuovo tampone, la doccia fredda: nuovamente positiva.
"Caso raro". Come si legge sul Fattoquotidiano, la donna adesso si trova ricoverata nel reparto di Malattie Infettive e tropicali dell'Irccs Osperale Sacro Cuore Don Calabria di Negrar, in provincia di Verona. Questo caso ha destato molto lavoro anche tra gli addetti ai lavori ed è considerato "un caso raro", come afferma Zeno Bisoffi, direttore del dipartimento del nosocomio veronese. "L'unico caso capitato da noi: per quanto ne sappiamo, solo in Cina sono state descritte alcune eccezioni simili", ha dichiarato. La donna occupa uno dei cento posti letto del reparto Covid dell'ospedale, 14 dei quali destinati alla terapia intensiva. Fortunatamente, non ha mai avuto una sintomatologia così grave da dover essere intubata e, viste le condizioni cliniche generali, potrebbe essere nuovamente dimessa se l'esito dei nuovi test sarà negativo. Trattandosi di un caso più unico che raro, i medici stanno cercando risposte più approfondite per far luce su questo rebus. "Sono in corso le analisi sul genoma virale, solo quando avremo gli esiti ne sapremo di più", spiega Bisoffi.
Il primo ricovero. La donna si è rivolta nuovamente allo stesso ospedale di Negrar del "primo coronavirus", come fece il 4 marzo quando aveva manifestato per la prima volta i sintomi riconducibili al Covid: entrata al pronto soccorso, dopo l'esito positivo del tampone, fu immediatamente ricoverata come vuole il protocollo. È rimasta per una settimana nel reparto Covid senza che le sue condizioni si aggravassero più di tanto anzi, il quadro clinico era sempre migliore fin quando il doppio tampone non ne accertava la negatività. "L'abbiamo dimessa non prima di aver eseguito i due tamponi previsti, che ne hanno confermato la guarigione", ricorda Bisoffi. Poi, però, ecco che una nuova febbriciattola ha fatto scattare l'allarme nella testa della donna: dopo due giorni, è tornata al pronto soccorso della clinica veneta ma, probabilmente, più per eccesso di cautela che per reale convinzione. Il tampone, però, è stato chiaro: positiva. Era il 23 marzo, soltanto dodici giorni dopo dalle dimissioni. Come si spiega questa ricaduta? Si fanno strada due diverse ipotesi.
Le ipotesi. "La prima ipotesi - afferma Bisoffi - è che il virus appartenga ad un ceppo virale diverso anche se dobbiamo attendere gli esami sui due genomi: quello del primo ricovero e quello del secondo. È però un'ipotesi che io ritengo improbabile". Infatti, per gli studi fin qui accertati, il Coronavirus non sembra soggetto a particolari mutazioni "e considero difficile che una persona guarita, che ha sviluppato gli anticorpi, se esposta ad un altro ceppo possa ammalarsi nuovamente. Questo, in assoluto, non vuol dire che non possa essere nuovamente infettata", ha spiegato il dottore. Oppure, ecco un'altra strada, quella più probabile perché basata sull'esperienza clinica. È possibile, infatti, che i tamponi eseguiti durante il primo ricovero, prima di dimetterla, non abbiano rilevato la positività perché la donna aveva una carica virale talmente bassa da non essere individuata. "I tamponi - aggiunge Bisoffi - sono molto sensibili ma non al 100%. Anche per questo, per i casi con un alto sospetto clinico, seppur in presenza di una risposta negativa, per prudenza ripetiamo il test prima indirizzare il paziente eventualmente a un reparto pulito anziché al reparto Covid".
Quale che sia la risposta, auguri di pronta seconda guarigione alla sfortunata paziente.
L’Asia si prepara a fronteggiare la seconda ondata di coronavirus. Federico Giuliani su Inside Over il 21 marzo 2020. the world. La Cina è stata la prima nazione ad essere colpita dal nuovo coronavirus e ora è anche la prima a esserne quasi uscita. Dando un’occhiata all’Asia, notiamo come vari Paesi siano pressoché riusciti a domare l’avanzata del Covid-19, e non tutti utilizzando necessariamente una quarantena stringata come Pechino. In Corea del Sud, ad esempio, si è deciso di puntare sui tamponi a tappeto e sulla condivisione capillare degli spostamenti dei malati (riportati in specifiche applicazioni e siti). A Taiwan è stata allestita una macchina organizzativa invidiabile mentre il Giappone ha imposto poche regole ferree ma, almeno a giudicare dai numeri, efficaci. Discorso a parte meritano Hong Kong e Singapore le quali, date le loro dimensioni, sono riuscite a gestire ancora meglio la diffusione della malattia. È dunque corretto dire che l’Asia ha vinto la guerra contro il coronavairus? Non ancora, e per due ragioni ben precise. La prima: non tutti sono riusciti a ottenere gli stessi risultati di Pechino. La seconda: i contagi di ritorno non solo fanno paura, ma potrebbero addirittura appiccare nuovi incendi.
Una vittoria di Pirro? Negli ultimi giorni i numeri asiatici legati al contagio sono tornati ad aumentare. Secondo quanto riportato dal Financial Times i governi di Corea del Sud, Taiwan e Cina sono pronti a varare nuove misure di fronte a una seconda ondata di infezioni. A detta degli esperti, l’improvviso aumento dei casi sarebbe da collegare a limiti insiti nella strategia di distanziamento sociale portata avanti in quasi tutta l’Asia. Già, perché mentre i contagi interni sono tenuti sotto controllo, quelli provenienti dall’estero aumentano drasticamente. Ben Cowling, professore di epidemiologia dell’Università di Hong Kong ha spiegato che le misure fin qui adottate hanno portato a “un successo temporaneo” e non certo a un “successo permanente”. Finché la situazione è dinamica, il virus non si propaga – anzi: i contagi diminuiscono – ma non appena torna la mobilità, le infezioni tornano a salire.
Le seconde ondate. Scendendo nel dettaglio, la Cina ha progressivamente rallentato le restrizioni dopo il blocco nazionale iniziato a dicembre (e culminato con il lockdown del 23 gennaio). Parallelamente il numero di casi di coronavirus importati è salito dai meno di 50 casi di due settimane fa ai 155 attuali. Le autorità hanno dichiarato che dall’11 marzo a oggi – cioè da quando l’Oms ha etichettato il virus come una pandemia – sono entrate in Cina circa 120mila persone al giorno. Pechino ha così imposto una quarantena obbligatoria di 14 giorni per tutti i viaggiatori, indipendentemente dalla storia dei loro viaggi e dalle loro condizioni di salute. In Corea del Sud l’allarme viene da alcune strutture ad alto rischio, come le chiese e le case di cura. I funzionari sono si sono subito allarmati a causa di questi nuovi focolai, tanto da considerare le prossime due o tre settimane “cruciali” per capire in che direzione prenderà l’epidemia. Taiwan sta chiudendo i confini a tutti gli stranieri e, allo stesso tempo, intensificando le misure di quarantena sui propri cittadini. A Hong Kong il 17 marzo il numero di nuovi casi è salito a 168. Un dato che fa riflettere è che il 90% degli infetti aveva viaggiato di recente. Anche Singapore, nonostante gli elogi ricevuti, si prepara a un incremento. “Prevediamo – ha spiegato il primo ministro Lee Hsien Loong – un numero maggiore di casi importati e, quindi, nuovi cluster e nuove ondate di infezione, questa volta provenienti da molti paesi anziché da uno o due”.
Michelangelo Cocco per “il Messaggero” il 20 marzo 2020. Per la prima volta dal 9 gennaio scorso - da quando fece la sua comparsa nella metropoli di Wuhan - ieri non è stato registrato nessun caso di nuovo coronavirus all'interno dei confini della Cina. Zero contagiati, anche a Wuhan e nella provincia dello Hubei, i focolai dell'epidemia di Covid-19 sottoposti dal 23 gennaio a rigidissime misure di contenimento e che finalmente vedono la luce in fondo al tunnel, con un lento ritorno alla normalità, dopo 80.928 contagiati e 3.245 morti che hanno fermato per un paio di mesi la fabbrica del mondo. Ora si temono le infezioni importate (34 ieri). Per questo motivo chi sbarca in Cina dall'estero (circa 20 mila persone al giorno) è obbligato a stare in quarantena per due settimane in apposite strutture alberghiere. Zhong Nanshan, il consigliere del governo che nel 2003 scoprì e contribuì a sconfiggere la Sindrome respiratoria acuta grave (Sars) è fiducioso che in Cina il nuovo coronavirus potrà essere definitivamente debellato entro la fine di maggio. Gli scienziati cinesi non temono una seconda ondata dopo l'estate, perché le misure di contenimento avrebbero messo il contagio completamente sotto controllo. La Cina è riuscita in questa sua ultima impresa con un mix di provvedimenti giudicati «estremamente efficaci» dall'Organizzazione mondiale della sanità (Oms), che ha lodato gli sforzi di Pechino: una sorveglianza estremamente energica per scoprire immediatamente i casi; la diagnosi molto rapida e l'immediato isolamento; la veloce individuazione e la quarantena dei contatti più vicini; e un livello eccezionalmente alto di comprensione e accettazione di queste misure da parte della popolazione. In seguito alla notifica all'Oms - il 3 gennaio scorso - della trasmissione del virus tra le persone, venne istituito un Comitato governativo per il contrasto dell'epidemia. In tempi record sono stati costruiti ex novo due ospedali prefabbricati con migliaia di posti letto per assistere i malati gravi, mentre impianti sportivi e strutture fieristiche venivano riconvertite a ricoveri per quelli con sintomi lievi e per i casi sospetti da tenere in isolamento. A partire dal 23 gennaio scorso, la popolazione dello Hubei è stata segregata in casa, in quarantena obbligatoria, controllata in ogni quartiere da decine di migliaia di funzionari del Partito. Sono state formate 1.800 squadre (di cinque o più membri) col compito di rintracciare i contatti dei casi confermati, grazie all'aiuto di big data messi a disposizione dalle compagnie telefoniche e di internet. Le persone autorizzate a uscire di casa (un membro per famiglia, solo per fare la spesa e/o recarsi in farmacia un numero limitato di volte a settimana, previo controllo della temperatura) potevano farlo solo a condizione d'indossare la mascherina. WeChat e AliPay (due tra le app più utilizzate nel Paese) hanno partecipato alla schedatura elettronica della popolazione per grado di sanità (verde, giallo, rosso), permettendo alla polizia il controllo agli ingressi delle stazioni e ai checkpoint mediante i segnali mandati dagli smartphone. Tutto ciò - sostiene un rapporto dell'Oms - «è stato possibile solo grazie al grande impegno del popolo cinese». Lo stesso documento sottolineava che le draconiane quanto efficaci misure cinesi sarebbero state probabilmente inapplicabili in Occidente. E la leadership rivendica orgogliosamente il successo di provvedimenti «legali, scientifici e mirati» e propone la Cina come «riferimento per chi sta affrontando questa grave pandemia». Ma il presidente americano Donald Trump ha evocato la possibilità di «ripercussioni» contro la Cina per come ha gestito la vicenda del coronavirus. «Stiamo lavorando su questo», ha detto. «Sarebbe stato molto meglio se avessimo conosciuto le cose mesi prima, avremmo potuto contenere il virus nell'area della Cina da cui è partito. E certamente il mondo sta pagando e pagherà un prezzo molto alto per quello che hanno fatto».
Coronavirus: bastano quattro nuovi casi per far ricominciare tutto? Pubblicato giovedì, 19 marzo 2020 su Corriere.it da Silvia Turin. Una ricerca pubblicata sulla rivista scientifica Lancet(una delle più autorevoli) illustra come «una volta che quattro o più infezioni sono state introdotte in una nuova sede, c’è una probabilità superiore al 50% che si verifichi un focolaio». Lo studio di modellistica matematica osserva la dinamica di trasmissione precoce dell’infezione e valuta l’efficacia delle misure di controllo per capire il potenziale di trasmissione in nuove aree. Il tasso di contagiosità del virus R0 (erre con zero) a Wuhan è diminuito dal 2,35 (una persona contagia più di 2 persone) di una settimana prima dell’introduzione delle restrizioni (il 23 gennaio 2020) a 1,05 il 31 gennaio. Quando il valore scende sotto 1, l’epidemia viene fermata. Gli scienziati hanno supposto che al 31 gennaio, quindi una settimana dopo la chiusura totale, il 94,8% della popolazione di Wuhan fosse ancora suscettibile al virus. Hanno visto che è meno probabile che un focolaio prenda piede dopo un singolo caso, dal 17 al 25% delle possibilità, e che potrebbero essere necessarie diverse “introduzioni” per stabilire un focolaio, perché un’elevata variazione a livello individuale nella trasmissione rende le nuove catene di contagio più fragili. Se la trasmissione è più omogenea, invece, con quattro o più individui infettivi che generano un numero simile di casi secondari, è probabile al 50% che si instauri un nuovo focolaio. Gli scienziati hanno accennato ai limiti della loro analisi, basata anche su dati presi dalle precedenti sindromi SARS e MERS. «Avere tali informazioni – scrivono gli studiosi - sarà prezioso per capire l’importanza di test diffusi o di sorveglianza sierologica, dell’identificazione rapida del caso e del successivo isolamento e di altre misure di controllo per ridurre la possibilità di successive catene di trasmissione». Questo studio segnala un possibile problema e ammonisce «di non abbassare la guardia», è anche vero però che appena usciti dall’emergenza, saremo molto più attrezzati di prima a valutare i casi, a svelare le catene e isolare e testare i pochi casi rimasti. Noi, come altri Paesi. Il famoso “paziente 0” che non è stato mai trovato, probabilmente sarà in futuro individuato e saranno fatti tamponi ai contatti e isolate le persone a rischio. Proprio oggi per la prima volta dalla diffusione del coronavirus, la Cina non ha registrato alcun caso di contagio «domestico». Sono stati, invece, 34 i casi di positività arrivati dall’esterno, l’incremento giornaliero più grande nelle ultime due settimane. I 34 casi rispetto ai migliaia al giorno in un Paese che ha affrontato un’epidemia simile saranno monitorati e isolati. Da settimane i numeri sono limitati a qualche decina e l’epidemia non sta ripartendo. Sicuramente anche da noi per qualche mese ancora dopo la fine della massa dei contagi la gente dovrà perlomeno osservare misure di igiene delle mani e superfici un po’ più rigorose e monitorare anche gli stati febbrili delle persone intorno. Ma quando il virus non circola più, non avremo il problema di incontrare individui potenzialmente infetti a ogni angolo di strada.
Coronavirus: risalgono casi in Corea Sud. (ANSA il 20 marzo 2020) Tornano a salire i nuovi casi di coronavirus in Corea del Sud, a causa di alcuni piccoli focolai: secondo i dati forniti dal Korea Centers for Disease Control and Prevention (Kcdc) aggiornati a venerdì, le infezioni aggiuntive sono 147 dalle 87 di giovedì, portando il totale a 8.799. Con 8 nuovi morti, il bilancio dei decessi supera quota 100, fino a 102, a un mese dalla prima vittima causata dal Covid-19.Il focus della autorità sanitarie è sui nuovi focolai di infezione, come un call center a Seul e un ospedale di Daegu. Il ministero della Sanità di Singapore ha annunciato oggi i primi due decessi provocati dal coronavirus nella città Stato asiatica: secondo quanto riporta il Guardian si tratta di una 75enne di Singapore e di un indonesiano 64enne. Finora i casi accertati di contagio sono 385. Per il terzo giorno di fila, la Cina non ha avuto nuovi casi di coronavirus generati sul fronte interno, neanche a Wuhan. I nuovi decessi sono stati sette, tutti nell'Hubei. Salgono quindi a 81.008 i casi di contagio in tutta la Cina: 6.013 pazienti ancora sottoposti a trattamento medico; 3.255 morti; 71.740 che hanno superato l'infezione, portando il tasso di guarigione all'88,5%. Tornano a salire invece i nuovi casi in Corea del Sud, a causa di alcuni piccoli focolai: le infezioni aggiuntive sono state 147 (dalle 87 di giovedì), portando il totale a 8.799. Con otto nuovi morti, il bilancio dei decessi supera quota 100. Il focus della autorità sanitarie è sui nuovi focolai di infezione, come un call center a Seul e un ospedale di Daegu.
· Il Contagio di Ritorno.
Coronavirus, è possibile ammalarsi una seconda volta? Le Iene News il 26 novembre 2020. Da tempo si leggono notizie da tutto il mondo di persone che sono risultate positive al coronavirus dopo essere guarite una prima volta. E in Italia? Gaetano Pecoraro ci racconta il punto sulla ricerca in corso al Gemelli di Roma sui casi di reinfezione e incontra alcune persone che sono risultate di nuovo positive al Covid. Da mesi ormai si leggono notizie di persone che sono risultate positive una seconda volta al coronavirus, da Hong Kong agli Stati Uniti. Ma come siamo messi in Italia? Gaetano Pecoraro ha incontrato alcune persone che sono si sono riammalate: “Si riprende, questo è un dato di fatto”, ci racconta uno di loro. La comunità scientifica sta indagando per capire i meccanismi dietro a queste reinfezioni, e al Gemelli di Roma è in corso uno studio proprio su questo tema. “Abbiamo analizzato 180 casi, e 32 sono risultati di nuovo positivi”, ci racconta il professor Sanguineti. Di questi però solo uno sembra essersi davvero riammalato, mentre gli altri sarebbero positività dovute all’espulsione di frammenti di virus ancora presenti nel corpo. Ci sono però anche casi opposti, di persone magari asintomatiche al contagio nella prima ondata e poi ammalatesi in modo molto più serio in autunno. “Molto più tosta: ho avuto dolori fortissimi articolari e muscolari. E mi mancava il respiro”, ci dice una di loro. Dunque? “Bisogna studiare bene questa malattia, capire bene i meccanismi dell’immunità che ci protegge da una reinfezione” soprattutto in vista dei vaccini che stanno per arrivare. “Questa ricerca ci potrà aiutare a capire quanto il vaccino ci proteggerà, per esempio”. Ci sono ancora tante cose che non conosciamo del coronavirus: monitorare la malattia anche dopo la guarigione potrebbe essere davvero uno strumento chiave in questa battaglia sanitaria.
Paura per i contagi di ritorno: "Il coronavirus si riattiva nei guariti". Uno studio sudcoreano ha esaminato oltre 160 pazienti tornati positivi una seconda volta. I ricercatori: "Una particella dormiente del virus si è riattivata". Giorgia Baroncini, Domenica 19/04/2020 su Il Giornale. In Corea del Sud il coronavirus si è riattivato nei pazienti guariti. Lo ha rivelato uno studio che ha esaminato oltre 160 cittadini tornati positivi una seconda volta al Covid-19: molti di loro si erano offerti volontari a un riesame perché avevano avvertito diversi sintomi; altri, nonostante non mostrassero segnali evidenti, avevano deciso di sottoporsi a test aggiuntivi. Tutti i pazienti tornati positivi erano risultati per due volte negativi ai tamponi e quindi dati per guariti. Ma il coronavirus, rimasto per un po' di tempo inattivo, si è ben presto riattivato. Come ricorda l'Agi, il Paese asiatico, sebbene sia stato tra quelli più colpiti, non ha limitato i movimenti dei suoi cittadini né chiuso le frontiere. Il modello sudcoreano si è basato su tamponi a tappeto e monitoraggio dei cittadini mediante app e siti appositi. Il Paese è così riuscito a contenere la diffusione del nuovo coronavirus evitando gli errori commessi durante l'epidemia di Mers nel 2015. Una volta appiattita la curva di nuovi casi, sta adesso allentando le misure di distanziamento sociale. Ma ora a preoccupare la autorità sono i contagi di ritorno. I Centri di controllo e prevenzione delle malattie (Kcdc) sembrano individuare ogni giorno nuovi positivi già guariti. E anche Cina, Giappone e India hanno riportato diversi casi di persone guarite e poi tornate positive. L'Oms inoltre ha riconosciuto nei giorni scorsi che non tutti i pazienti guariti sembrano aver sviluppato gli anticorpi per evitare un secondo contagio. E questo fatto preoccupa molto. I casi in Sud Corea si sono verificati in media 13 giorni e mezzo dopo la dimissione dei pazienti (un tempo breve che fa escludere la possibilità che essi abbiano avuto la sfortuna di incrociare la malattia per una seconda volta). Ora i ricercatori sono al lavoro per capire se davvero i pazienti si siano ammalati dello stesso virus e soprattutto se c'è la possibilità che abbiano contagiato altre persone. Il primo caso rilevato è stato quello di una donna di 73 anni dimessa il 22 febbraio: cinque giorni dopo ha chiamato i medici spiegando loro di non sentirsi bene. Risultata positiva, l'anziana è stata subito ricoverata di nuovo. Trattandosi di una persona d'età avanzata e con il sistema immunitario indebolito, i medici hanno pensato che il secondo risultato positivo fosse dovuto al fatto che non avesse sviluppato abbastanza anticorpi. Così le autorità hanno cominciato a monitorare i pazienti dopo le dimissioni dell'ospedale. E a trovare nuovi positivi tra i guariti. "In base al nostro monitoraggio riteniamo molto probabile che una particella dormiente del virus si sia riattivata. È chiaro che non comprendiamo totalmente cosa significhi avere l'immunità contro questo virus", ha ammesso Min Pok-Kee, medico che guida il team di esperti della città focolaio di Daegu. E così la battaglia contro il coronavirus sembra farsi ogni giorno più complessa.
Perché con zero contagi non saremo fuori pericolo. Paolo Mauri su Inside Over il 4 aprile 2020. Cina, Hong Kong e Singapore oltre ad essere stati tra i primi ad aver conosciuto l’epidemia da coronavirus Covid-19 nata nella regione di Wuhan, hanno messo in pratica delle misure restrittive molto strette che hanno permesso in tempi relativamente brevi di contenere il diffondersi dell’epidemia: quel lockdown, le serrate, con fortissime limitazioni alle libertà personali che stiamo conoscendo, se pur in modo diverso, da qualche settimana anche in Italia. Ora che la situazione da quelle parti sembra normalizzarsi, e che i nuovi contagi sembrano azzerati, sono cominciate le prime timide riaperture che danno una parvenza di ritorno alla normalità, dettata più da considerazioni di tipo economico che medico, va detto. Però esiste un pericolo, già in corso, che proviene dall’esterno: quelli che vengono definiti i “contagi di ritorno” ovvero le infezioni portate da persone che rientrano in Patria, o da altri viaggiatori, da Paesi in cui il contagio è diffuso. In un recente articolo del New York Times viene riportato come, proprio in Cina, Singapore e Hong Kong, si stia assistendo ad un ritorno di alcune misure restrittive proprio a causa di questa fenomenologia: in Cina i voli internazionali sono stati di nuovo tagliati così pesantemente che gli studenti all’estero si chiedono quando sarà possibile ritornare a casa; a Singapore i cittadini rientrati di recente devono obbligatoriamente fornire il numero della propria utenza telefonica mobile in modo da poter mettere sotto controllo la relativa geolocalizzazione e provare alle autorità che stanno effettuando il periodo di quarantena a casa; a Taiwan un uomo che aveva viaggiato nel Sudest Asiatico è stato multato per un valore di 33mila dollari per essere stato colto all’uscita di un club quando avrebbe dovuto essere rinchiuso in casa, mentre a Hong Kong una ragazzina di 13 anni che portava uno dei braccialetti localizzanti dati a chi deve rispettare la quarantena, è stata colta all’esterno di un ristorante, seguita, filmata ed esposta a pubblica gogna online. In tutta l’Asia, punto di origine della pandemia, Paesi e città che sembravano aver sotto controllo l’epidemia stanno improvvisamente tornando a stringere le maglie del controllo chiudendo i confini e tornando a prendere misure di provvedimento nel timore di una nuova ondata di contagi provenienti dall’esterno. Un articolo, quello del New York Times, da leggere attentamente perché riferisce una situazione che ci riguarderà nel nostro immediato futuro. L’Italia, come Iran, Corea del Sud, Giappone, Cina, Singapore e Hong Kong, è stata tra i primi a venire colpita dal contagio, e pertanto sarà anche tra i primi a venirne fuori, così come è accaduto per gli Stati asiatici. Al pari di questi il nostro Paese dovrà, pertanto, mettere in pratica delle misure per tutelarsi dai possibili, anzi praticamente scontati, “contagi di ritorno”: seguendo quello che si legge sul quotidiano statunitense, “anche quando il numero di casi comincerà a crollare, il blocco dei viaggi e le barriere potranno persistere in molti posti finché un vaccino non sarà trovato”. Diventa quindi fondamentale non solo non abbassare la guardia a livello interno, ovvero continuando con uno stile di vita diverso rispetto al passato per evitare che il contagio possa scatenarsi di nuovo, ma soprattutto tutelarsi dalle minacce esterne, in quanto i tempi della diffusione dell’epidemia sono stati diversi da Paese a Paese e soprattutto perché non essendo ancora stato trovato un vaccino non si può pensare di eradicare o controllare una malattia solamente con le misure di quarantena o di limitazione della vita sociale, a meno che non vengano protratte per mesi o addirittura anni e siano di carattere globale, questione improponibile per i noti problemi economici. Pertanto l’unico margine d’azione possibile per l’Italia, nei mesi a venire, sarà quello di imporre una quarantena a chi rientra dall’estero, siano essi cittadini italiani o meno, se non addirittura vietarne l’ingresso nel nostro Paese con particolare attenzione a coloro che provengono da regioni e Stati in cui vi siano ancora focolai epidemici. Del resto è quanto gli Stati asiatici stanno già facendo in questi giorni: a seguito dei recenti picchi nei casi legati ai viaggiatori internazionali, Cina, Hong Kong, Singapore e Taiwan hanno espressamente vietato l’ingresso agli stranieri. Il Giappone ha proibito ai turisti provenienti dall’Europa di entrare nel Paese e proprio mercoledì ha esteso il divieto ad altre 49 nazioni inclusi gli Stati Uniti; la Corea del Sud ha imposto controlli molto più severi e a chi arriva viene imposta una quarantena forzata di 14 giorni in strutture governative appositamente create. Questo è quello che ci aspetterà in futuro, almeno è quello che speriamo venga messo in atto al netto delle considerazioni sulle misure liberticide prese in Oriente, che per cultura sopporta meglio certi provvedimenti rispetto all’Occidente liberale e purtroppo “singolocentrico”, con l’augurio che questa volta si eviti accuratamente la retorica del “razzismo” insieme a quella del “non ci fermiamo” che nei primi giorni dell’epidemia ha sciaguratamente provocato il diffondersi dei contagi nel nostro Paese. Un agire che è stato a dir poco irresponsabile, ed i cui propugnatori ci auguriamo che saranno chiamati ad assumersene la responsabilità davanti ad una Nazione intera quando questa emergenza sarà terminata.
· I preppers ed il kit di sopravvivenza.
Andrea Signorelli per "esquire.com" il 20 aprile 2020. Li abbiamo presi in giro per anni. Trattati alla stregua dei profeti di sventura che sui marciapiedi di alcune metropoli annunciano l’imminente apocalisse. Ma adesso sono i prepper che ci guardano dall’alto verso il basso mentre facciamo scorte di cibo in scatola, acqua e carta igienica: “Ve l’avevamo detto”. Se si escludono quelli che acquistano bunker sotterranei in caso di catastrofe nucleare – e i super ricchi che si preparano alle disastrose conseguenze della crisi climatica acquistando terreni in Nuova Zelanda – essere un prepper significa soltanto farsi trovare pronti in caso di situazioni critiche, assicurandosi di avere sempre a disposizione beni di prima necessità per sopravvivere senza problemi a un isolamento di svariate settimane o mesi. “I prepper sono derisi solo finché non c’è bisogno di noi in prima linea”, ha raccontato al New York Times James Walton, proprietario di un network di podcast sul tema. “Ma io mi sento vicino al cittadino medio, il mio obiettivo è rendere prioritario questo atteggiamento”. Dal loro punto di vista, la crisi scatenata dal Coronavirus dovrebbe almeno insegnare ai cittadini ad avere un approccio più metodico: “Il prepping riguarda la preparazione per le emergenze, non causare difficoltà alla distribuzione perché hai improvvisamente bisogno di tre scatole di mascherine per uso personale”, racconta per esempio il moderatore di un forum dedicato su Reddit. In effetti, la diffusione in tempi di Coronavirus di una mentalità simil-prepper sta avendo il paradossale effetto di causare gli unici veri problemi alla catena dei rifornimenti, provocati da persone che – prese dal panico, cosa non da prepper – hanno improvvisamente fatto scorte di beni che iniziano così a scarseggiare. “Com’è possibile che a nessuno sia passato per la mente che è necessario sfruttare i tempi buoni per prepararsi a quelli cattivi?”, racconta un altro prepper sempre su Reddit. Il caos e le file chilometriche che abbiamo visto crearsi nei supermercati – e tutte le foto degli scaffali svuotati di carta igienica, lievito (?) e alcool denaturato – hanno infatti dato ragione a chi si è preparato per tempo. E che anche in tempi di Coronavirus ha capito che la vera minaccia alla disponibilità dei beni di prima necessità non sarebbe stato il virus in sé, ma la confusione causata dai messaggi contraddittori inviati dalle istituzioni e il panico che avrebbe potuto cogliere la popolazione. Come dire, i veri prepper hanno saputo anticipare la corsa agli acquisti scatenata da quelli che – improvvisamente e in preda al panico – si sono improvvisati tali e hanno iniziato a fare scorte di beni di ogni tipo. Ma tra i beni di cui parecchie persone stanno iniziando a fare scorta ce n’è anche uno che difficilmente sarebbe stato previsto: lo sperma congelato. Le società che si occupano di inviare a casa delle persone i kit fai-da-te per poi ricevere e conservare il loro sperma stanno registrando, almeno negli Stati Uniti, un’impennata di richieste. “CryoChoice ha visto una crescita delle vendite almeno del 20% nelle ultime settimane. Lo staff della startup Legacy afferma di aver visto aumentare il volume di ordini negli ultimi giorni anche di dieci volte. E le persone che gestiscono Dadi, un’altra startup del settore, dicono di aver avuto non solo una crescita di tre volte nelle vendite, ma anche molte più persone che stanno pagando in anticipo la conservazione dello sperma per cinque anni”, racconta il Daily Beast. Ma perché sta avvenendo tutto ciò? Quale ragione ha spinto un numero crescente di uomini a diventare prepper della fertilità attraverso la crioconservazione del liquido seminale? A quanto pare, la ragione risiede nelle preoccupazioni riguardanti la capacità del Coronavirus di indebolire la fertilità maschile. Non ci sono prove certe, ma i timori hanno iniziato a circolare sul finire di febbraio, quando – sempre secondo quanto riporta il Daily Beast – alcuni medici cinesi hanno teorizzato che il Covid-19 potrebbe avere un impatto sui testicoli e quindi sulla fertilità. Sul finire di marzo, invece, uno studio scientifico ha sottolineato come lo stress prolungato causato dai timori relativi al Coronavirus e dalla situazione di quarantena che stiamo da tempo vivendo potrebbe avere effetti dannosi e prolungati sullo sperma e quindi sulla fertilità maschile. Per quanto riguarda l’ipotesi che il Covid-19 possa ridurre la fertilità, va detto che molti esperti hanno da tempo evidenziato come la febbre alta e altre malattie gravi possano avere ripercussioni temporanee sulla fertilità; allo stesso tempo si è sottolineato come non si possano avere certezze sugli effetti di breve e medio termine di un virus sconosciuto. In generale, come ha spiegato Jesse Mills dell’università della California, “gli effetti della febbre o di altre malattie sulla produzione di sperma durano solitamente circa tre mesi” e poi svaniscono. Una tesi confermata da altri specialisti che hanno avanzato seri dubbi sulla possibilità che il Coronavirus possa impattare la fertilità sul lungo termine. Ma per chi sta avendo difficoltà a concepire un figlio, pochi mesi possono fare la differenza (anche solo a livello psicologico). “Non puoi dire ‘non preoccuparti, andrà tutto meglio tra tre mesi’ a una persona in cura per la fertilità”, spiega sempre Mills. “Per loro, il tempo è una componente fondamentale”. E molti non vogliono correre rischi di alcun tipo, ragion per cui preferiscono rivolgersi alla crioconservazione dello sperma anche solo per una questione di serenità. Dai beni di prima necessità fino allo sperma: i timori più o meno razionali sollevati nella popolazione dal Coronavirus ci stanno spingendo ad avere un approccio differente e a pensare su un’ottica più di lungo termine. Per il momento, si tratta di una reazione emergenziale e non di una pianificazione strategica. Ma per il futuro una cosa almeno è probabile: nessuno si prenderà più gioco dei prepper.
Contro virus e catastrofi naturali, corsa al kit di sopravvivenza da 5 mila dollari. Pubblicato venerdì, 20 marzo 2020 su Corriere.it da Luca Zanini. Senza voler criminalizzare chi cerca riparo lontano dalle grandi città e dalle aree-focolai (lo fanno tutti, dalle famiglie borghesi che si spostano nelle seconde case agli studenti che sono rientrati nei paesi d’origine dopo la chiusura degli atenei), quel che colpisce è la dimensione della spesa, correlata alle alte disponibilità di certe èlite economiche. Mentre qualche americano non troppo abbiente si accontenta delle soluzioni spartane di campi come il Fortitude Ranch in West Virginia (a due ore da Washington, mille dollari l’anno per un soggiorno in baracche con tetti di lamiera ricoperti di terra), i super ricchi noleggiano elicotteri — o jet privati, come ha scritto The Guardian già a inizio marzo, pochi giorni dopo l’allarme per la propagazione del Covid-19 dalla Cina all’Europa — per scappare più in fretta, affittano rifugi anti catastrofe quando non hanno già una villa. Magari a Martha’s Vineyard e Nantucket: il Daily Mail li chiama «wealthy virus refugees», ricchi profughi del virus. In Francia , le autorità di alcune località di villeggiatura sul mare si sono viste costrette a chiudere le spiagge per l’eccessivo affollamento di «profughi» in vacanza. Tant’è, alla fine giovedì sera il governo si è deciso a vietare l’accesso a tutti gli arenili che si affacciano sul Mediterraneo, in Corsica, ma anche sull’Atlantico nel Morbihan e a Ile-et-Vilaine in Bretagna, come parte delle misure preventive contro il virus. Chi non ha una residenza degna, si compra un soggiorno in resort stellati. Ma l’acquisto più assurdo, almeno dal punto di vista di chi — come milioni di italiani — è costretto ad una quarantena preventiva in casa senza peraltro riuscire a trovare una mascherina o un paio di guanti sterili, è quello del kit di sopravvivenza. Ne dà notizia il sito di Bloomberg (si, quello del miliardario che si è appena ritirato dalla corsa per le presidenziali Usa) che racconta come, per sconfiggere l’ansia da rischio contagio, il famoso 1%, i super ricchi, stia dando l‘assalto ai negozi online di materiale per prepsters o survavalist, arrivando a pagare 4.995 dollari per una borsa in fibra di alluminio («ritardante, per gli incendi») con kit di filtro anti contaminazione per l’acqua, mascherina N-95 (le nostre FPP3), purificatore dell’aria anti-batterico, torcia elettrica, farmaci e materiale di primo soccorso, pannelli solari pieghevoli, due sacchi da camping per dormire, mantelle antipioggia (radioattiva?, si direbbe di sì visto il prezzo) ; ma anche spazzolino, dentifricio e creme per idratarsi. Di questi incredibili e forse inutili (per il contenimento del virus) kit di sopravvivenza, ne sarebbero stati venduti migliaia: «A febbraio i volumi di acquisto sono saliti del 5 mila per cento», dichiara Ryan Kuhlman, co-fondatore di Preppi, una delle più grandi aziende che commerciano prodotti per catastrofisti o seguaci di gruppi che si preparano all’Apocalisse. Per altri kit meno costosi (intorno ai 400 euro) le vendite sono salite invece del 500%. Moltissimi ricchi «virus refugees» optano poi per le attrezzature della Hammacher Schlemmer & Co, altro colosso delle forniture per prepsters: in primo luogo per il loro «Virus, Mold, And Germ Destroying Air And Surface Sanitizer» da 399 dollari. Un muro privato contro microbi e batteri, a dar retta al fabbricante. Secondo Bloomberg il mercato dei prodotti per survivalist coprirebbe — nei soli Stati Uniti — una quota consistente dell’industria dei prodotti per il benessere, che ha un fatturato di 4,5 miliardi di dollari. I ricchi stanno facendo incetta di queste dotazioni da Armageddon «così come altri fanno scorta di carta igienica». E i poveri si preparano a soffrire: «In questi giorni milioni di americani non possono permettersi di fare scorta di provviste — ha detto alla rivista Time Jewel Mullen, vice rettore e responsabile delle Pari opportunità all’Università del Texas —, di perdere il lavoro o di avere un medico». Il Coronavirus si rivela uno spartiacque: se la nostra società non saprà abbattere le barriere che ancora relegano gran parte della popolazione mondiale in posizione di inferiorità rispetto alla parte più ricca, se non saprà garantire a tutti benessere e speranza allo stesso modo, con o senza pandemie non riusciremo a costruire un mondo migliore. Paolo Ferrero di Rifondazione Comunista, già ministro della Solidarietà sociale nel governo Prodi, notava giorni fa su Twitter e su Il Fatto Quotidiano che anche in Italia «di fronte all’epidemia del coronavirus, Berlusconi se ne va a Nizza nella villa della figlia... e Ronaldo rimane nel suo buen retiro nell’isola di Madeira. Parallelamente le operaie e gli operai, anche quelli che svolgono produzioni non essenziali nella situazione di emergenza, continueranno in larga parte ad andare a lavorare». E osserva: «Qui passa la linea di divisione. Come la vogliamo chiamare? Tra il popolo e le élite? Tra le classi sociali? Chiamatela come volete, ma nessuna invenzione lessicale potrà coprire questa vergognosa diseguaglianza tra umani».Sul mensile Vita, il saggista e sociologo Pietro Piro concorda: «Questa pandemia ci dice che dobbiamo mettere in discussione la “vita di prima”. Dobbiamo rifondare la società in cui viviamo riscrivendo il patto sociale». Sottolinea che in questi giorni «è evidente come non mai il valore della solidarietà, della cooperazione, del sacrificio umile e silenzioso, della responsabilità degli uni verso gli altri». La società che costruiremo dopo la pandemia — secondo Piro — sarà «cooperativa, solidale, responsabile, ecologica, meticcia, aperta o non sarà». E tra le azioni, gli orientamenti che dovranno seguire le agognata fine dell’emergenza Coronavirus, evidenzia: «Abbiamo bisogno di uno stile di vita basato sull’ecologia integrale che sia in grado di stabilire un nuovo e più profondo legame con la Madre-Terra».
· Come si affronta l’emergenza.
All’italiana. Alessandro Bertirotti il 27 febbraio 2020 su Il Giornale.. È tutta questione di… stupidità. Cosa vogliamo di più, in questo periodo meraviglioso e in questa nazione, rispetto a quello che già abbiamo? Non saprei, anche se tutti noi siamo convinti che non c’è un limite al peggio e lo stiamo sperimentando a livello globale, anche se siamo solo agli inizi. Proviamo a fare un breve elenco di come questo governo sia esattamente lo specchio di una società italiana frantumata neuro-cognitivamente. Mi riferisco, con questo termine, al sistema neuronale medio degli italiani. Un popolo che sembra ritrovarsi con un assai limitato numero di neuriti e, per di più, incapaci di comunicare tra loro, secondo categorie logiche occidentali di uso comune. Abbiamo famiglie che scappano dalle zone rosse, e si trasferiscono al mare, oppure in meridione, credendo di sottrarsi così al contagio del potenziale virus, come se lo si potesse perdere per strada; gli esponenti del Governo comunicano parlando ad una popolazione che non li ascolta affatto (e questo avviene da tempo, molto tempo, a dire il vero); intanto, l’esponente delle Sardine, il movimento culturale della rivoluzione intellettuale emiliana (patria dei tortellini e della mortadella) si reca dalla guru dell’empatia commerciale, una certa Maria De Filippi (osannata, ovviamente dai sarcofagi di sinistra). Su Rai Uno, giustamente, continuano a propinarci ricette succulente, come se potessimo andare ai supermercati a comprare derrate alimentari in normalità, mentre di normale è rimasto poco e gli scaffali sono rimasti vuoti. I virologi, che forse non sono dotati di una loro Associazione Nazionale, parlano perché hanno un muscolo linguale abituato al silenzio del laboratorio, e che necessita di trovare le migliori e pubbliche occasioni per mettersi in movimento e dare il meglio di sé; i Governatori delle regioni (o quello che resta delle regioni di una volta…) affermano una cosa e la negano subito dopo, in seguito a telefonate con l’espressione nazionale della vigilanza cognitiva governativa: il Presidente Conte, che è la fotografia della concentrazione di tutto il fosforo pescato nei nostri mari. Codogno è diventato il paesello più amato e importante del mondo, del quale nessuno conosceva né il nome né l’esistenza ma che ci ha insegnato che il Carnevale più contagioso del nord non è più quello di Venezia. Le scuole sono chiuse, assieme a qualche bar e discoteca, mentre i treni e le metropolitane (che viaggiano…) sono diventati antivirali potenti, senza che nessuno se ne fosse mai accorto. Per fortuna, alcuni Paesi europei si sono resi conto che gli italiani vanno tenuti a distanza, e stanno vietando l’ingresso di questa povera gente che fa vacanze ad oltranza, anche se siamo in tempi di crisi. Era ora che qualcuno al mondo esprimesse davvero un po’ di sano, utile e fondamentalmente evolutivo determinismo raziale. Infine, il nostro Presidente della Repubblica tace, perché ultimamente si è recato in molti luoghi, per dimostrare la sua vicinanza alle minoranze etniche, e non trova nulla da dire alla maggioranza (ancora per poco, questo è vero…) etnica degli italiani.
Bene, in questa situazione, tutti noi, forse, possiamo renderci conto che siamo responsabili, senza nessuna esclusione di persone (me compreso, dunque) delle nostre scelte. E lo siamo maggiormente quando crediamo che se le cose vanno bene a noi, significa che vanno bene al mondo intero. Il fatto è uno solo, però: il mondo intero è governato da interessi schifosamente malefici e legati ai soldi, dove i nostri politici sono a libro paga, e non hanno il minimo potere d’azione. Allora, fate come me, non disperate per il Covid-19, ma attendete con pazienza la venuta del Covid-20 e 21.
L’unione fa la forza. Speriamo definitivamente, questa volta.
Epidemia politicamente corretta. Nino Spirlì su Il Giornale Domenica 23 febbraio 2020, a due passi dall’Apocalisse. Da Casa Spirlì, in Calabria. Complimenti, Italia! A furia di mentire e “minimizzare”, svirgolare per non “allarmare”, sei riuscita a piazzarti, al momento, al quarto posto, dopo Cina, Corea del Sud e Giappone (solo per la nave della vergogna), nella lista dei Paesi col maggior numero dei contagi! Complimentoni a tutta la squadra di governo e ai partiti che la formano e la sostengono! Grazie ai ritardi, ai puntigli e ai dispetti, hanno spalancato porti, aeroporti, moli, approdi e piste d’atterraggio improvvisate, sicché possano italianizzarsi più virus possibili, se mai ce ne siano ancora da importare! Aspettiamo che atterrino anche le lampade cinesi con pezzi di bronco infetto, e le abbiamo viste tutte. Complimentissimi a tutta la stampa, scritta e parlata, che avalla silenzi, bugie, ritinteggi e aggiustamenti ad catsum della Verità! Un’armata di penne serve che non serve, ma serve. Facce di bronzo da telestudio che continuano a giurare che #tuttovabenemadamalamarchesa. Moriremo di stupidità e ottusità, ma potremo fare incidere sulle (loro) lapidi: morto da coglione, ma politicamente corretto! Vorrei dilungarmi per chilometri e chilometri di parole e improperi, ma mi manca la voglia e la forza. Vorrei, però, insistere su un “concetto” – forse l’unico appropriato in questo momento – che, pensa te, nacque col primo vagito di questi infidi cinquestellini: VAFFANCULO! Sì, VAFFANCULO, non una parola, ma un corposo concetto filosofico, va proprio bene per accompagnare questo clima di fasullissima tranquillità che in molti cercano di spalmare sulle ansie degli Italiani. Una tranquillità che consente, fra l’altro, ai soliti nemici di Palazzo del Popolo Italiano, di continuare a far sbarcare centinaia, forse migliaia, di emeriti sconosciuti e incontrollati clandestini provenienti da terre nelle quali, senza tema di smentita, i controlli sanitari e doganali sono ZERO! VAFFANCULO perché non si rasserena l’animo di gente preoccupata, spaventata, con sorrisini beffardi e accuse di sciacallaggio agli unici politici che, come sempre, avevano previsto il disastro. L’Apocalisse. E un caro, affettuoso, fraterno VAFFANCULO anche a quello lì – e ci siamo capiti – che, fosse stato vivo, il Grande Alighieri avrebbe collocato al centro del centro dell’imbuto infernale… Di mio, aggiungo una preghiera accorata affinché, male che vada, possano sopravvivere i Santi e finire i diavoli. Perché di Santi abbiamo bisogno. E così sia.
Marcello Sorgi per “la Stampa” il 27 febbraio 2020. Anche se non è detto, ancora, che possa portare alla nascita di un governo di salute pubblica (se ne parla da giorni, e probabilmente ne parleranno presto al Quirinale Mattarella e Salvini), ciò che sta accadendo in Italia a causa del coronavirus è qualcosa di mai visto. Se non fosse per il senso di responsabilità che sempre si deve mostrare in certi momenti, verrebbe da gridare: aiuto! Salvateci! Si salvi chi può! Sebbene non sia dato sapere dove e come, dato che man mano che l' Italia scala le classifiche del coronavirus, le frontiere si chiudono, diventiamo indesiderabili, chiusi qui, nel recinto dei propri confini, costretti nelle case piene di cibo e litri e litri di acqua minerale saccheggiati nei supermercati, circondati dal muro invisibile dell' ansia che il governo si ostina a inseguire, e in qualche caso a incoraggiare, mentre dal Colle scende un velo pesante di perplessità. Si poteva, si doveva fare qualcosa di diverso? Certo. Invece di bloccare i voli diretti, e non quelli indiretti, dalla Cina, s' imponeva un controllo accurato di ogni cinese in arrivo in Italia da qualsiasi destinazione: non sarebbe stato razzismo, ma realismo. Il razzismo è semmai incoraggiato dal sapere che non tutti coloro che provengono dal continente malato, dove il virus si è manifestato per la prima volta, sono stati esaminati, così che da Nord a Sud, per strada, sugli autobus, nei supermercati, la gente si abbandona all' isteria contro chiunque abbia occhi a mandorla, incurante se si tratti di filippino, coreano, giapponese, e non di cinese. Si poteva e si doveva immaginare che il blocco di gran parte delle attività di svago come cinema, teatri, stadi, e la messa al bando dei luoghi aperti al pubblico, come centri commerciali, aeroporti, stazioni, per non dire delle navi da crociera dove pure qualche caso di affezione da virus si è verificato, avrebbe comportato inutili generalizzazioni e la crisi dei rispettivi settori, esercenti, produttori e distributori cinematografici, compagnie teatrali e attori, armatori, operatori del turismo, albergatori, ristoratori, e la lista è destinata ad allungarsi: di questo passo, presto si fermeranno le fabbriche e perfino le esportazioni. D' altra parte, se solo si dà la sensazione che l' Italia è diventata ricettacolo del contagio, non ci viene più nessuno e nessuno vuol ricevere qualcosa proveniente dal Paese infetto. Si poteva e si doveva, insomma, avere un atteggiamento più cauto, riflessivo, prudente? Ma sicuro. Anche se il premier Conte e i ministri del suo governo lo negano, riaffermando la linea dell' emergenza e della quarantena nazionale come l' unica possibile. Non è vero. Se fosse vero, dovremmo concludere che Francia, Germania, Inghilterra, dove l' incubo del virus ha avuto limitate conseguenze (cinquecento tamponi di controllo somministrati ai francesi, contro i quasi diecimila italiani), sono guidate da governi incoscienti, e invece non è così. Se si genera il panico, e se un piano d' emergenza radicale lo stimola, magari involontariamente; se si mette un numero verde che ciascuno può comporre per chiedere soccorso, e solo dopo ci si ricorda di raccomandare di telefonare unicamente se si avvertono chiari sintomi (tra l' altro, va ricordato, simili a quelli di un pesante raffreddore o di un' influenza), è chiaro che la gente corre a chiamare. Può sopravvenire una suggestione, questa sì, contagiosa: una serie di starnuti, il naso chiuso, un doloretto, possono diventare ragioni valide per farsi portare in ospedale con l' ambulanza da medici e infermieri in tute asettiche. Conte e i ministri, che sull' emergenza si stanno giocando il posto, tuttavia, ribattono: non c' era altra strada, il verdetto di medici e scienziati era univoco, il rischio massimo, la sicurezza prima di tutto. Ma a parte il fatto che gli esperti, mai come in questi giorni presenti in tv, dicono tante cose differenti, un governo, se c' è, esiste per valutare, approfondire e decidere, non per farsi sostituire da rispettabili dottori, a cui pure va il plauso per essersi messi a disposizione e lavorare ininterrottamente da giorni e giorni. Altrimenti, mandiamo a governare gli esperti, e a casa il governo. Nella storia recente della Repubblica, purtroppo, questo non è il primo caso di crisi sanitaria internazionale che mette a rischio la salute degli italiani. Il pensiero va a Chernobyl, l' incidente nella centrale nucleare sovietica del 26 aprile 1986, che generò una pericolosa nube radioattiva, avvelenando l' aria di mezza Europa. Anche allora la carenza di informazioni da parte russa, come oggi da quella cinese, fu colpevole. Il timore era forte. Gli scienziati - ma solo loro, il test non era aperto alla popolazione - misuravano il grado di radioattività delle suole delle scarpe, ricavandone dati allarmanti. Ma il governo si limitò a vietare per qualche giorno - e successivamente a sconsigliare - il consumo di lattuga, frutta e ortaggi, suggerendo in seguito di lavarli a lungo prima di mangiarli. Azzardo, incoscienza o niente di tutto ciò? La politica serve per questo. Ma di politico, in Italia, al tempo del populismo, è rimasto ben poco.
Quarta Repubblica, Alessandro Meluzzi sul coronavirus: "Ciò che non vogliono dirci", scenario catastrofico. Libero Quotidiano il 27 Febbraio 2020. Siamo a Quarta Repubblica, il programma di Nicola Porro in onda su Rete 4. Il tema è quello del coronavirus. A prendere la parola è Alessandro Meluzzi, che tratteggia uno scenario a tinte fosche, un poco impressionante. Scenario che fa riflettere. "Purtroppo le frontiere non saremo noi a chiuderle, ma saranno gli altri - premette -. La Tunisia ha chiuso i voli e gli accessi per via aerea all'Italia. Sento anche notizie dalla Francia e dalla Svizzera secondo cui la chiusura di Schengen non verrà fatta dall'Italia, che diventerà così un lazzaretto aperto in entrata dall'Africa ma chiuso in uscita verso l'Europa, ma saranno gli altri purtroppo", rimarca Meluzzi. "Di fronte a questo scenario - riprende -, che secondo me è immensamente probabile, proprio perché sta tornando il tempo della scienza, voglio ricordare a tutti i presenti una cosa che nessuno ricorda: la crescita fortissima che si è registrata in Italia, segnatamente in Toscana, di meningiti, è correlata al fatto che il meningococco di tipo C, che quasi in Italia non esisteva, viene dalla fascia del meningococco. Ovvero il Sahel, da cui proviene il 90% della migrazione africana in Italia - insiste Meluzzi -. Proviamo a dirlo al presidente della regione Toscana. Quello che voglio dire che i confini, come le membrane per le cellule, servono a sopravvivere. Non è questione di razzismo, non è questo il problema, ma quello di fermare i virus e i batteri", conclude Alessandro Meluzzi, tra gli applausi del pubblico di Quarta Repubblica.
Coronavirus, Italia isolata: è razzismo anti-italiano o ovvie precauzioni? Toni Capuozzo il 26/02/2020 su Notizie.it. L'Italia è isolata a causa del Coronavirus. Ora dobbiamo aspettarci che i governanti degli altri Paesi vadano a cena in una pizzeria napoletana, come i nostri sono andati nei ristoranti cinesi? Ho fatto una critica, rispettosa nei toni ma dura nella sostanza, al Presidente della Repubblica per essere andato a far visita a una scuola romana dove sono numerosi i bimbi cinesi. Mi sembra ovvio che non criticassi la generosità di un incontro con i bambini, o gli adulti, di qualunque colore, cultura, lingua essi siano (e considero preziosa, ad esempio, la successiva visita alla sinagoga di Roma). Il fatto è che un gesto simbolico così forte, in quel momento, aveva un solo messaggio: non abbiate paura dei cinesi di ritorno dal Capodanno cinese, non ritraetevi, non abbiate timore, non incrociate i loro sguardi con un’inutile e offensiva paura. Ed è stato un messaggio sbagliato, nel momento sbagliato. Perché ha fatto abbassare la guardia, e convinto che in fondo si trattava solo di una storia di due cinesi di passaggio a Milano e Roma, che non ci riguardava. E nello stesso tempo, in modo più grottesco, c’era chi, da Milano a Lodi (sì, Lodi) organizzava cene con riso alla cantonese e involtini primavera, in solidarietà con i ristoranti cinesi, disertati per timore, non per quel razzismo che loro vedono ovunque. Nessuno invece organizzava un piano, un modello di risposta a una possibile emergenza: sapete cosa vuol dire occupare la terapia intensiva di un ospedale con pazienti sospettati di essere affetti da Coronavirus? Vuol dire bloccare tutte le altre operazioni chirurgiche. Ma noi, ridendo dei cinesi che in dieci giorni, da buon regime dittatoriale, costruiscono un ospedale apposito, noi che invece gli ospedali siamo bravi a chiuderli, non abbiamo pensato prima come muoversi se si fosse presentata un’emergenza, quanti fossero i posti letto, dove, quanti i tamponi, quanto il personale. Né come isolare focolai, né come comportarci con le scuole, né come far avere mascherine e detergente agli anziani, no, corsa all’accaparramento, di cibo e acqua di un popolo preso alla sprovvista perché la sua classe dirigente era impegnata nell’impegno contro il razzismo. Né, e temo lo vedremo, hanno pensato a una exit strategy: quale algoritmo ci dirà se il contagio è calato al punto tale da riaprire scuole e tutto il resto ? O succederà come con il maltempo, che ogni sindaco decreta l’allerta pur di pararsi le spalle? Il secondo virus che percorre l’Italia è la politica: conta solo se devi salvare Conte, se devi difendere il PD, se devi ricacciare indietro Salvini e i barbari. Non ho proprio alcun interesse a far vincere i “barbari”– e nessun altro, del resto – e guardo tutto con la distanza degli anziani, così inutili da essere considerati una quota di decessi tollerabile, nel contagio da cui i forti guariscono, è un’influenza. Ma non ho avuto risposta, e mi sembra che l’abbiamo cercata in pochi, a una domanda: come mai siamo il paese europeo con il maggior numero di contagi? Fonti ufficiali e sostenitori sparsi dicono: è perché noi facciamo i controlli, e gli altri no. E i morti? Diranno che gli altri li nascondono, li spacciano per decessi di routine. Allora, se stiamo dicendo che siamo i migliori, e che gli altri sono fuor di controllo, perché non ci sconsigliano di andare in Francia o in Gran Bretagna, dove evidentemente si rischia più che da noi, così bravi e rassicuranti? Va detto anche che l’Europa, appesa alle finestre di molti balconi milanesi, è un pullulare di sovranismi sanitari, o no? Ma torniamo alle iniziative simboliche. Lo sapete: siamo isolati. Ci respinge perfino la Macedonia, in Argentina i voli diretti dall’Italia li fanno atterrare in un aeroporto apposito, non a Ezeiza, in Gran Bretagna quarantena. Allora: è razzismo anti-italiano? O sono forse ovvie precauzioni? Cosa dobbiamo aspettarci da un sindaco di Buenos Aires o da un presidente di repubblica balcanico, che vadano a cena in una pizzeria napoletana, altrimenti sono tutti razzisti? E davanti alla reazione della donna di Ischia davanti a un pullman di lombardi, una serata con risotto e ossobuco?
Alberto Giorgi per il Giornale il 22 febbraio 2020. Il coronavirus è arrivato anche in Italia. Questa mattina la notizia del contagio in provincia di Lodi, dove un 38enne italiano è stato ricoverato in gravi condizioni all’ospedale di Codogno. Si tratta di un dipendente della multinazionale Unilever (nello stabilimento di Casalpusterlengo), originario di Milano, ma residente a Castiglione d’Adda. Nonostante le rassicurazioni del governo, che nelle scorse settimane ha proclamato lo stato di emergenza sanitaria, chiudendo il traffico aereo con la Cina, qualcosa è andato storto nei protocolli di prevenzione. Il virus cinese ha infatti contagiato sei persone anche in Lombardia. I sistemi di controllo, insomma, non hanno funzionato a dovere, come sottolineato peraltro anche da Matteo Salvini. L’arrivo in piena Pianura Padana del coronavirus ha fatto sbottare Toni Capuozzo, che punta il dito contro le istituzioni, accusandole di essersi preoccupato più del razzismo che di una malattia che sta mietendo vittime. Ecco l’affondo dell’ex inviato di guerra: "È una classe politica modesta, che si tratti di Europa o di Libia, di tasse o di istruzione, di ricerca o di reddito di cittadinanza. Ma sul coronavirus hanno fatto di peggio, pensando che la correttezza politica (visita scuole multietniche, ristoranti cinesi ecc.) fosse la cosa più importante, che il nemico fosse il razzismo". In un post diffuso sui propri canali social, il giornalista, blogger e scrittore ha così proseguito nella tirata d’orecchie all’esecutivo e alla politica lato sensu: "Sordi agli appelli di Burioni, tante Alici nel paese delle meraviglie, convinti che la loro solo esibita bontà salverà il mondo. Come se ne fottono di chi dorme all'aperto o raccoglie pomodori da schiavo, una volta esaurita l'accoglienza, così se ne sono fregati delle reali possibilità di contagio. Il razzismo è un male da tenere a bada, l'allarmismo è un pericolo, certo. Le malattie, anche". L'assessore al Welfare della Lombardia Giulio Gallera predica "calma e serenità" nell’annunciare che la regione ha attivato tutte le procedure di emergenza contro l’incubo del virus cinese: sono state messe in isolamento 250 persone che saranno sottoposte ai test e ai tamponi per constatare l’eventuale contagio da Covid-19. M.M, il 38enne ricoverato in terapia intensiva al nosocomio di Codogna, si crede che possa aver contratto il virus da un amico e collega – attualmente sotto osservazione all’ospedale Sacco di Milano – tornando da un viaggio di lavoro in Cina, in occasione una cena che si sarebbe consumata in un ristorante di Milano.
Federico Novella per “la Verità” il 2 marzo 2020. «Sì, sono arrabbiato. Mi vergogno, da italiano, della figura che stiamo facendo». Toni Capuozzo, giornalista di razza, storico inviato di guerra, dalla Somalia, al Medio Oriente, all' Afghanistan, allarga le braccia.
Cosa la sconcerta di più di questa emergenza virus?
«L' umiliazione. Siamo diventati, in effetti, la Cina d' Europa. Anzi, persino i cinesi hanno posto limitazioni a chi arriva dall' Italia. Rendiamoci conto».
Molti Paesi, tra cui Israele, bloccano i voli dall' Italia. Vengono cancellate le vacanze studio. Le nostre navi da crociera restano a largo. Siamo isolati?
«È inevitabile. Si tratta di legittime precauzioni. Se in Molise se la prendono per una famiglia tornata da Codogno, e hanno ragione a preoccuparsene, lo stesso accade all' estero».
Secondo lei, abbiamo la consapevolezza del danno di immagine?
«Quando l' Economist diceva che Silvio Berlusconi era inadatto a governare, quando Matteo Salvini faceva una sparata, tutti a rimarcare il colpo di immagine. Adesso, invece, noto che molti commentatori fanno finta di nulla. Mi preoccupa soprattutto il destino del nostro turismo balneare e culturale.
Viviamo di quello».
È il periodo più umiliante del dopoguerra?
«L' Italia non è così malvista all' estero dai tempi dell' assassinio di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, quando passammo per un Paese di stampo messicano. Certo, i due fatti non sono paragonabili, anche perché qui ci sono più responsabilità politiche».
Come mai abbiamo il record di contagiati?
«Premetto che non voto da molti anni. Non seguo. Però temo che questo sia un governo del tutto inadatto a gestire la situazione. Messo in piedi soltanto per evitare le elezioni, gli è capitato tra capo e collo la sfortuna di dover affrontare il virus».
Sfortuna?
«Come quando esci di casa con i calzini bucati, e incontri una grande attrice che ti invita in albergo. Detto questo, Giuseppe Conte non può certo dare la colpa solo al destino cinico e baro. C' è dell' altro».
Qual è stato l' errore più grave?
«Quello di pensare, all' inizio, che il nemico non fosse il virus, ma il razzismo contro i cinesi. Per carità, qualche episodio c' è stato. Ma quelli che parlano di razzismo non conoscono il significato della parola. Non sono mai stati in Ruanda, o nei Balcani, o nel Sudafrica dell' apartheid, o in alcune zone degli Stati Uniti. Insomma, del razzismo hanno una visione frou frou».
Il politicamente corretto ha avuto la precedenza sul virus?
«Fino a ieri l' altro se non ti facevi fotografare a Milano in giro per Chinatown con un involtino primavera, passavi per criminale. È stata un' incredibile sottovalutazione del problema. E pensare che avevamo tutto il tempo per organizzarci, anziché insistere sul fantasma razzista».
Speculazione politica?
«Credo si tratti di pigrizia culturale. È un governo che vive in funzione anti Salvini: insistere sul razzismo consente di dirigere l' attenzione sulla questione dei migranti. Il risultato è che oggi abbiamo i porti aperti e gli aeroporti chiusi».
Cosa avrebbe dovuto fare il governo?
«Mettere in piedi un piano. Avviare la macchina dell' emergenza, stabilire una linea di comunicazione, consultare gli esperti scientifici, costruire un protocollo di intervento. Invece hanno dato l' impressione di non sapere come muoversi. La cosa peggiore».
E poi siamo passati dalla minimizzazione al panico esagerato.
«Prima erano allegre vispe terese, che si preoccupavano solo degli incassi dei ristoranti cinesi. Poi siamo arrivati all' enfasi che ha alimentato il panico, alla gente che svuota i supermercati. Un disastro comunicativo».
Il governatore della Lombardia che si autoisola, indossando pubblicamente la mascherina, non ha aiutato a placare gli animi.
«Sembra che questi politici vivano su Facebook, più che in ufficio. Ci hanno detto mille volte che la mascherina serve solo a chi è già stato contagiato. Forse Attilio Fontana dovrebbe passarla alla signora del suo staff che si è ammalata».
Perché nel resto d' Europa il numero dei contagiati è, per ora, più basso che in Italia?
«Questo dovrebbero dircelo le persone deputate a farlo. Noto soltanto che l' Europa, descritta da sempre come il nostro alveo naturale, non ha una linea comune sulla difesa della salute. Ogni Paese decide per sé. Un' ammissione di sconfitta per ogni europeista».
Magari francesi e tedeschi sono semplicemente più furbi di noi?
«Nel senso che hanno fatto passare il virus per una normale influenza senza chiudere bottega? Se è così, siamo i Tafazzi del mondo».
Intanto adesso in Italia si eseguono controlli solo su chi manifesta i sintomi.
«La realtà è che hanno finito i tamponi. Avevano ragione prima, quando controllavano tutti, oppure hanno ragione adesso? È l' ennesima scelta confusionaria che alimenta il delirio».
Il premier Conte, in maglioncino nella war room, l' ha colpita?
«Ricordo il 1986, mia figlia era piccola. Dopo il disastro di Chernobyl, in Friuli avevamo il problema della contaminazione delle verdure a foglia larga, quelle che si usavano per fare le pappe ai bambini. All' inizio le mamme correvano a comprare verdura surgelata, ma poi fini lì. Non ci fu panico collettivo, solo normale preoccupazione, e qualche precauzione».
E come se lo spiega?
«È vero che non esistevano i social, ma senza dubbio quella classe politica sapeva mantenere un atteggiamento più sobrio. Per come hanno gestito l' emergenza, oggi è peggio di Chernobyl».
Perché ha definito il premier un «domatore di pulci»?
«È un' immagine classica: insegna alle pulci a saltare perché non ha l' autorità per tenere a bada un elefante o un leone. Insomma, una figura tragicomica».
Lo ha chiamato «Circo Italia», dove non si sa chi decide, e ogni Regione va per conto suo.
«Se non fosse che questo governo è un argine per prolungare la legislatura e salvare lo stipendio dei parlamentari, Conte sarebbe già a casa. In un Paese normale lui e il ministro della salute avrebbero già detto: "Mi spiace, abbiamo fallito, ecco qui le dimissioni". Invece no. E gran parte del giornalismo tentenna e giustifica».
Quindi Conte dovrebbe lasciare?
«Certo. Almeno offrire le dimissioni. Poi chi è chiamato ad accettarle prenderà le sue decisioni».
Salvini apre a un governo di unità nazionale per affrontare l' emergenza. A patto che Conte si faccia da parte.
«Non mi interessa. Dico solo che Salvini oggi può permettersi di tacere e fare bingo. I suoi nemici lavorano per lui».
Come vive l' atmosfera da coronavirus un inviato di guerra di lungo corso?
«Paura no, anche se in effetti ho tutti i parametri a rischio: ho 72 anni, sono cardiopatico e diabetico. Ma ho vissuto tante guerre. Prima dell' Iraq, ho imparato a farmi le iniezioni nella gamba contro le armi biologiche. Sono preoccupato piuttosto per i figli. E mi dispiace aver dovuto rinviare il battesimo della mia nipotina».
Evita luoghi affollati?
«Evito i mezzi pubblici. Ma solo perché, da pensionato, ho il tempo di andare a piedi».
Ha scritto che il «vero razzismo di questi giorni è quello contro noi vecchi».
«Sì, e non posso accettarlo. Frasi come: "Eh, ma era già malridotto", "Ma hai visto quanti anni aveva". Si dà la precedenza ai bambini, che in televisione funzionano sempre. Ma fin da giovane, nei servizi di guerra, a commuovermi erano i vecchi, che vedevano il loro mondo crollare, senza possibilità di ricominciare».
Dobbiamo aspettarci l' assalto ai supermercati anche negli Stati Uniti?
«No, anzi. Di fronte alle difficoltà cinesi, gli americani avranno avuto qualche brivido di soddisfazione. Non credo entreranno in emergenza».
La stampa in queste settimane sta facendo il suo dovere?
«È un giornalismo spesso militante, che prende posizione in maniera prevenuta. Impoverito dal fatto che non ci sono in giro né inviati né esperti. Si va avanti con servizi fatti a tavolino, e ognuno fa copia e incolla dall' altro».
Forse certo giornalismo ha esagerato con i toni, per qualche copia in più?
«È strano pensare che solo qualche giorno fa avevamo paginate di giornali sul festival di Sanremo, e su quel tale Bugo che litigò con quel tale Morgan. Era uno psicodramma nazionale. Noi italiani siamo allenati a drammatizzare, in ogni caso».
Oggi forse non siamo abituati a sopportare il pensiero della sofferenza fisica?
«Sì, fortunatamente siamo un popolo che ha più il problema della chirurgia estetica. Se penso ai miei genitori, alle vecchie generazioni, le vedo più forti e solide di noi. Una volta si moriva in casa, e si viveva con un po' più di fatalismo. Noi invece siamo i primi a invecchiare senza l' esperienza di una guerra, o semplicemente della scarsità. Non sappiamo quanto dura una candela, o per quanto tempo devi farti bastare una scatoletta di cibo. Anche quello è un addestramento antipanico».
Quando saremo tornati normali, il virus ci avrà insegnato qualcosa?
«Direi di no. Forse impareremo a lamentarci un po' meno del quotidiano. Forse, solo per qualche giorno, apprezzeremo il ritorno alla normalità: la spesa, gli aperitivi, la routine. E magari, riscopriremo il privilegio della noia».
Coronavirus in Italia, i casi confermano che la nostra è una classe politica modesta. Toni Capuozzo 21/02/2020 su Notizie.it. Il Coronovirus arriva in Italia: chi ci governa ha preso seriamente la cosa scorretta (il razzismo) e alla leggera la cosa giusta (le precauzioni). La nostra è una classe politica modesta, che si tratti di Europa o di Libia, di tasse o di istruzione, di ricerca o di reddito di cittadinanza. Ma sul coronavirus hanno fatto di peggio, pensando che la correttezza politica (dalle visite nelle scuole multietniche alle iniziative nei ristoranti cinesi, ecc.) fosse la cosa più importante e che il nemico fosse il razzismo. Sordi agli appelli del virologo Roberto Burioni, i nostri politici si sono comportati tante Alici nel paese delle meraviglie, convinti che la loro solo esibita bontà salverà il mondo. Come se ne fottono di chi dorme all’aperto o raccoglie pomodori da schiavo, una volta esaurita l’accoglienza, così se ne sono fregati delle reali possibilità di contagio. Il razzismo è un male da tenere a bada, l’allarmismo è un pericolo, certo. Le malattie, anche. Avrebbero dovuto ascoltare i medici, gli scienziati. Poi monitorare tutte le provenienze dalla Cina: di cinesi, italiani, americani, di chiunque. Il fatto che molti cinesi abbiano adottato, di rientro, una quarantena volontaria non può di certo essere considerato autorazzismo? Non mi interessa proprio il colore della pelle di chi è portatore di un contagio. Perché adottare delle precauzioni non è un gesto razzista, ma una misura medica: non ti guardano gruppo sanguigno o DNA, ma temperatura e provenienza da aree a rischio. Quindi chi ci governa ha preso seriamente la cosa scorretta (il razzismo) e alla leggera la cosa giusta (le precauzioni).
Claudio Cartaldo per il Giornale il 24 febbraio 2020. Toni Capuozzo non le manda a dire. E dopo aver messo all'angolo i "buonisti" che sottovalutavano il Coronavirus, pasteggiando allegri con cibi cinesi urlando alla xenofobia, ora mette nel mirino il sindaco di Milano Beppe Sala. "A me della lotta politica interessa nulla - scrive Capuozzo sulla sua pagina Facebook - Mi interessa un giornalismo che non sia guardia del corpo del potere. Ieri sera in tv, e ora qui, sostengono che il record negativo dei contagi in Italia (terzo paese al mondo) è dovuto al fatto che noi i controlli li facciamo, gli altri no (lasciamo perdere che in Lombardia mancano tamponi, ora). Dunque siamo i migliori, in Europa ? Non lo so, magari hanno ragione. Però mai un dubbio, mai un po' di umiltà, sempre tutto ben madama la marchesa, e in nome della politica". Il riferimento è alle scelte politiche fatte nei giorni scorsi, soprattutto poco dopo la diffusione delle notizie provenienti dalla Cina in merito allo sconosciuto virius che ha messo in ginocchio il Dragone. Capuozzo condivide la fotografia di un articolo di Repubblica che riportava il "viaggio" di Sala alla Chinatown meneghina contro la psicosi Coronavirus. Il primo cittadino era andato a "portare solidarietà" ai cinesi, sopratutto quelli che gestiscono dei locali, auspicando una ripresa rapida dei voli dalla Cina dopo il blocco disposto dal governo. "Il sindaco di Milano 15 giorni fa riteneva il razzismo il nemico da battere", ricorda Capuozzo. Che poi mette a confronto la scelta di Sala con le "normative sulla prevenzione della salute" prese dalle autorità inglesi "quaranta giorni fa". "Il 10 febbraio - si legge - il Segretario di Stato per la salute e l'assistenza sociale, Matt Hancock, ha annunciato il rafforzamento dei poteri legali per proteggere la salute pubblica. I regolamenti 2020 per la protezione della salute (Coronavirus) sono stati messi in atto per ridurre il rischio di ulteriori trasmissioni da uomo a uomo in questo paese mantenendo le persone in isolamento dove i professionisti della salute pubblica ritengono che esista un rischio ragionevole che un individuo possa avere il virus". Il commento di Capuozzo è duro: "Poi ci lamentiamo della psicosi. Fortuna che gli inglesi se ne sono andati dall'Europa. Sorrido amaramente". Il senso è: "Dove gli uni organizzavano prevenzione, gli altri predicavano contro un razzismo che in genere si esplicava nel disertare i ristoranti cinesi". Intanto i casi in Italia continuano ad aumentare. L'ultimo bollettino, letto di fronte ai giornalisti dal capo della Protezione Civile, Angelo Borrelli, parla di 213 i casi positivi, di cui 99 sono ricoverati, 23 in terapia intensiva e 91 in isolamento domiciliare. I morti oggi sono saliti a 5, con due nuovi decessi uno a Bergamo e l'altro sempre nel Lodigiano. Fino ad ora sono stati effettuati 2,5 milioni di controlli, numero che nel corso della giornata dovrebbe arrivare a 3 milioni. Certo, ha spiegato Borrelli, i controlli "sono utili ma c'è un periodo di incubazione con cui fare i conti". Resta il fatto, per ora positivo, che i focolai registrati per il momento sono solo due, quello dei Comuni intorno a Lodi e quello nel Padovano, anche se sono stati registrati sette nuovi contagi in Emilia Romagna.
Dagospia il 26 febbraio 2020. Dal profilo Facebook di Toni Capuozzo. Stamane : “Mille persone in quarantena nell'hotel a quattro stelle di Adejie, dove si trovava con la moglie il medico italiano risultato positivo al test del coronavirus a Tenerife. Le autorità catalane hanno confermato il primo caso a Barcellona: si tratta di una donna italiana di 36 anni residente in Spagna. La donna, appena rientrata da un viaggio in Italia tra Bergamo e Milano, si era presentata in ospedale con alcuni sintomi. Due nuovi casi in Francia: uno in arrivo dalla Lombardia. In isolamento anche un albergo di Innsbruck dove lavora una donna italiana arrivata da Bergamo. Ragazzi a casa e due scuole chiuse per una settimana per "una disinfezione profonda" in Gran Bretagna dopo una gita nel Nord Italia”. Cioè : quando fanno i controlli si accaniscono contro gli italiani? Razzismo ? Però il premier Conte assicura (“Italia più sicura di altri paesi”) e mister Sarri garantisce i sindaci della zona di Lione (“Se anche in Francia aveste fatto 3000 tamponi avreste i nostri stessi casi”). Stiamo facendo una figura tragicomica in tutto il mondo, e pur di salvare il governo e schivare Salvini (missione nobile, ma non è affar mio), in tanti difendono l’indifendibile. E’ il circo Italia, dove ci hanno trasformato nei cinesi d’Europa. Se Pechino non brilla per trasparenza, Roma anche. Ma in modo più allegro, più confuso, più arruffone: i dirigenti cinesi con mascherina sono arcigni e autoritari, il nostro premier sembra il domatore della pulci e se la prende con Regioni e ospedali, il ministro della Sanità un dottor Iosperiamochemelacavo, il titolare della Farnesina sa pronunciare Vairus. Un solo punto: se davvero gli altri non hanno i nostri stessi casi è perché, poveri inglesi, francesi e tedeschi, sono meno capaci di noi? O sono più furbi: hanno evitato di fare i controlli e lasciano morire gli anziani in modo, per così dire, inavvertito e normale ? Se è così allora siamo proprio dei tafazzi: gli unici ad aver trasformato qualcosa che è poco più di un’influenza in una tragedia, ad aver ucciso il turismo, sabotato l’economia, ad aver trasformato il popolo in un accaparratore collettivo di pasta e disinfettanti. Speriamo che i sindaci di Buenos Aires e Bucarest vadano a mangiare in una pizzeria italiana, e che la Libia e la Tunisia non ci chiudano i loro porti (a Tunisi, intanto, sospesi i voli dal nord Italia).
Coronavirus, Capuozzo: "Stiamo facendo una figura tragicomica". Il giornalista Toni Capuozzo, su Facebook, spiega come in Europa si stia espandendo il virus dopo i focolai italiani. E non risparmia colpi al governo. Michele Di Lollo, Mercoledì 26/02/2020 su Il Giornale. Un fremito corre lungo la schiena. La paura c'è e basta uno starnuto in metro per alzare gli occhi al cielo. Pregare, per una volta. La minaccia di coronavirus tocca anche la Spagna, scrive su Facebook Toni Capuozzo. Una coppia italiana è risultata positiva al test durante una vacanza a Tenerife, nelle isole Canarie. L’allarme è partito subito dopo che l’uomo, un medico, è risultato contagiato. Oltre mille persone, ospiti dell’albergo dove i due turisti avevano una stanza, il complesso turistico Costa Adeje Palace, nel comune di Adeje, sono state sottoposte a quarantena e dovranno restare nelle loro stanze. L’uomo, un medico di Piacenza, ora è all’ospedale universitario Nuestra Señora de Candelaria. È stato trasferito qui dalla clinica del Quiron, nel sud di Tenerife, dove era stato ricoverato fino a quando è risultato positivo al test. È in buone condizioni di salute ed è in isolamento. I suoi familiari, sottoposti a esami, sono risultati negativi ma restano sotto osservazione. Gli ospiti raccontano alle agenzie di stampa che nell’albergo tutto va avanti al solito, ma le uscite sono sorvegliate da auto della polizia. Le autorità catalane hanno confermato poi il primo caso a Barcellona: si tratta di una donna italiana di 36 anni residente in Spagna. La donna, appena rientrata da un viaggio in Italia tra Bergamo e Milano, si era presentata in ospedale con alcuni sintomi. Due nuovi casi in Francia. Uno in arrivo dalla Lombardia. In isolamento anche un albergo di Innsbruck dove lavora una donna italiana arrivata da Bergamo. Ragazzi a casa e due scuole chiuse per una settimana per “una disinfezione profonda” in Gran Bretagna dopo una gita nel Nord Italia. Capuozzo torna ad attaccare il governo su questa crisi. E lo fa con il suo solito tono. Con acume e lucidità. "Quando fanno i controlli si accaniscono contro gli italiani? Razzismo? Però il premier Conte assicura (Italia più sicura di altri Paesi) e mister Sarri garantisce i sindaci della zona di Lione (“Se anche in Francia aveste fatto 3mila tamponi avreste i nostri stessi casi”)". Il giornalista in un lungo post su Facebook spiega che l’Italia sta facendo una figura tragicomica in tutto il mondo. Pur di salvare il governo e schivare Salvini, in tanti difendono l’indifendibile. “È il circo Italia, dove ci hanno trasformato nei cinesi d’Europa. Se Pechino non brilla per trasparenza, Roma anche. Ma in modo più allegro, più confuso, più arruffone: i dirigenti cinesi con mascherina sono arcigni e autoritari, il nostro premier sembra il domatore delle pulci e se la prende con regioni e ospedali”. Il ministro della Sanità è “un dottor Iosperiamochemelacavo”, mentre il titolare della Farnesina sa pronunciare “Vairus”. Poi continua: “Se davvero gli altri non hanno i nostri stessi casi è perché, poveri inglesi, francesi e tedeschi, sono meno capaci di noi? O sono più furbi: hanno evitato di fare i controlli e lasciano morire gli anziani in modo, per così dire, inavvertito e normale? Se è così allora siamo proprio dei tafazzi”. Gli unici ad aver trasformato qualcosa che è poco più di un’influenza - secondo il governatore della Lombardia - in una tragedia. Ad aver ucciso il turismo, sabotato l’economia, ad aver trasformato il popolo in un accaparratore collettivo di pasta e disinfettanti. “Speriamo che i sindaci di Buenos Aires e Bucarest vadano a mangiare in una pizzeria italiana e che la Libia e la Tunisia non ci chiudano i loro porti (a Tunisi, intanto, sospesi i voli dal nord Italia)”, conclude Capuozzo. È il suo sfogo. E per molte ragioni anche il nostro.
Gestione coranavirus: esempio plastico di come Conte e il suo Governo di improvvisati e incapaci porteranno alla rovina l’Italia. Andrea Pasini il 25 febbraio 2020 su Il Giornale. mondiale: i contagiati sono 79.553, di cui 77.150 in Cina; i morti sono 2.628 di cui 2.495 in Cina; i guariti sono 25.160. I ricercatori dell’Organizzazione Mondiale della Sanità hanno detto che “in Cina la diffusione del Coronavirus ha raggiunto il suo picco tra il 23 gennaio e il 2 febbraio. E da allora ha cominciato a diminuire in maniera consistente”. Significa che questa epidemia tende a scomparire. Ad ora in Italia i morti risultati positivi al nuovo Coronavirus sono 7, il più giovane aveva 62 anni e il più anziano 88, con un’età media di 76 anni, tutti affetti da gravi patologie. Nessuna di queste morti può essere imputata direttamente al nuovo Coronavirus. Giuseppe Ippolito Direttore scientifico dell’Istituto nazionale per le malattie infettive Lazzaro Spallanzani di Roma ha certamente ragione nel precisare che “Il nuovo Coronavirus non è una malattia mortale”. E ha ragione Maria Rita Gismondi, Direttore responsabile di Macrobiologia Clinica, Virologia e Diagnostica Bioemergenze, il laboratorio dell’Ospedale Sacco di Milano, quando dice “a me sembra una follia. Si è scambiata un’infezione appena più seria di un’influenza per una pandemia letale. Non è così», indicando dati incontrovertibili: “Durante la scorsa settimana la mortalità per influenza è stata di 217 decessi al giorno! Per Coronavirus 1”. I dati attestano che dei circa 650 mila italiani che muoiono ogni anno, mediamente ogni giorno 638 muoiono per malattie del sistema cardiocircolatorio, 483 per i tumori, 2 per l’influenza. Le pandemie sono ben altro e nella storia causarono milioni di morti e non centinaia. Il Coronavirus è un ceppo di una famiglia di virus noti e questo agevola sia la cura e sia l’individuazione di un vaccino .Ha finora provocato 2.628 morti ed è in fase calante. La realtà che stiamo subendo è pertanto definibile “epidemia” ma non “pandemia”. Ecco perché è sproporzionata la reazione del Governo italiano, che per certi versi ha alimentato un terrorismo psicologico che si manifesta, ad esempio, nel fare incetta di amuchina e mascherine, nell’assalto ai negozi alimentari per fare scorte di cibo immaginando che siamo prossimi alla reclusione coatta in casa. È da irresponsabili e direi anche da criminali diffondere la paura tra gli italiani così come è stato fatto dal governo. Ed è un atto criminale segregare decine di migliaia di cittadini in aree circoscritte, danneggiare pesantemente diversi settori produttivi costringendo imprenditori, liberi professionisti e lavoratori a sospendere la loro attività. Io mi auspico che questo comportamento cessi immediatamente. Il sospetto è che con il pretesto di una prevenzione comunque gestita malamente, il Governo stia perseguendo finalità politiche sulla nostra pelle, per recuperare credibilità in un contesto di conflittualità intestina e di paralisi operativa in cui si dimostra incapace di assumere decisioni che si traducano nel bene degli italiani. I dati economici stavano andando malissimo con questo governo di incapaci ma sono quasi sicuro che adesso la scusa che Conte è il suo esecutivo di incapaci userà per discolparsi dall’incapacità di amministrare sarà proprio la scusa del coronavirus. Che vergogna! Questi incapaci giallo rossi dovrebbero andare a casa ed il più velocemente possibile anche perché stanno distruggendo il nostro Paese.
Tom Abram per leggo.it il 26 febbraio 2020. L'Italia come l'Iran. Si, perché per le scuole del Regno Unito il nostro paese è come l'estremo Oriente per quanto riguarda il Coronavirus. È questa la posizione presa di molti Istituti, secondo cui le zone dei focolai di Lombardia e Veneto sono equiparabili al Vietnam, alla Corea del Sud e in alcuni casi persino alla provincia di Hubei in Cina, da dove è partita l'epidemia. Negli ultimi giorni infatti, diversi istituti scolastici hanno inviato delle circolari ai genitori dei propri alunni, chiedendo misure speciali per gli studenti che hanno viaggiato in paesi potenzialmente pericolosi per il propagarsi della malattia. In particolare a chi è rientrato nel Regno Unito dal 19 febbraio, si chiede di rimanere in autoquarantena ed evitare contatti con gli altri anche se in assenza e di sintomi e di informare le autorità sanitarie del proprio rientro. Tra le varie località indicate, insieme alla Corea e a Hubei, ci sono anche i comuni in quarantena nel Nord Italia. Nel caso in cui si presentino dei sintomi, anche lievi, la quarantena obbligatoria è estesa addirittura a chi è rientrato dall'intera Italia settentrionale, trattamento riservato solo a paesi come il Vietnam, la Cambogia e il Laos. Il nostro paese infatti è l'unico dell'Occidente a comparire in questi documenti. Le misure scolastiche seguono le direttive del Governo di Londra rilasciate pochi giorni fa dal ministero dell'Interno britannico. In seguito a ciò, nel Cheshire, regione a nordovest dell’Inghilterra, una scuola ha dovuto chiudere e un’altra ha sospeso i corsi del suo ultimo anno dopo il rientro di un gruppo di studenti dalla settimana bianca a Bormio Italia.
Capuozzo sferza Mattarella: "Sul coronavirus ha sbagliato". Il giornalista, dopo aver smascherato i buonisti e criticato l'operato di Beppe Sala, polemizza con il capo dello Stato per la sua visita in una classe di bambini cinesi: "Ha fatto abbassare la guardia". Alberto Giorgi, Martedì 25/02/2020 su Il Giornale. Dopo buonisti, maggioranza giallorossa (presidente del Consiglio compreso) e Beppe Sala, ora Toni Capuozzo ha qualcosa da rimproverare anche a Sergio Mattarella. Già, perché il giornalista critica aspramente la scelta del capo dello Stato nelle scorsi giorni di fare visita a una scuola, entrando in una classe con bambini cinesi, in seguito alla proposta di Lombardia e Veneto – avanzata dai governatori Attilio Fontana e Luca Zaia – di mettere in quarantena gli studenti rientrato dal Paese del Dragone. Intervistato da Libero, l’ex inviato di guerra attacca così l’inquilino del Quirinale: "Il gesto del presidente della Repubblica ha legittimato tutti quanti ad abbassare la guardia, a non comportarsi con la dovuta cautela. Quella sua visita è stato un gesto simbolico e anche una guida per l'azione, non avrebbe portato i fotografi con sé altrimenti". E in riferimento al contagiato 38enne di Codogno, lo scrittore puntualizza: "Così se un collega rientrato dalla Cina mi invita a una cena, io mi sento rassicurato dal comportamento del mio presidente e penso: se non si preoccupa lui, del fatto che qualcuno di quei bambini poteva essere appena tornato dal capodanno cinese, perché dovrei preoccuparmi io?". Chiaro, no? Il blogger mette nel mirino il buonismo e l'"antirazzismo spicciolo" commentando un’iniziativa di solidarietà alla comunità cinese tenutasi a Milano la scorsa settimana: "C’è stata perfino una ‘notte delle bacchette’ per testimoniare vicinanza ai ristoratori cinesi. In un Paese che se ne fotte dei piccoli locali che chiudono, se ne fotte di calzolai e artigiani che spariscono, per dimostrare di avere un cuore sensibile eri tenuto a mangiare nei ristoranti cinesi, che peraltro non mi sembrano un pezzo essenziale della nostra storia". E affonda il colpo: "Anche questo, sotto la maschera dell'antirazzismo, è stato un invito a tenere la guardia abbassata: un atto di grande leggerezza, e la colpa non è solo del governo ma anche di una certa cultura". Dunque, prosegue: "Siamo al punto che devo per forza abbracciare un cinese per dimostrare che non sono razzista: un'esibizione di bontà che rischia di rovesciarsi nel suo contrario". La chiacchierata con Alessandro Giorgiutti, infine, termina con una considerazione sulle tante e popolose Chinatown d’Italia: "Io in questi giorni non sono andato a Chinatown né nei ristoranti cinesi. Ho pensato: perché devo andare a cercarmela? Ma questo non significa nutrire sentimenti negativi verso un popolo, avrei evitato allo stesso modo il ristorante di un americano appena rientrato da Pechino. È una semplice precauzione, non razzismo. Invece qui, per non sembrare razzisti, siamo arrivati all' assurdo di aver messo in quarantena poche decine di italiani che rientravano dalla Cina mentre centinaia se non migliaia di cinesi di ritorno dal capodanno rientravano indisturbati".
Coronavirus, Toni Capuozzo a Libero: "Il gesto sbagliato di Mattarella, hanno pensato solo al razzismo". Alessandro Giorgiutti su Libero Quotidiano il 24 Febbraio 2020. Un suo post su Facebook, qualche giorno fa, ha avuto l'effetto liberatorio che hanno le parole di buon senso pronunciate da qualcuno di autorevole in tempi di generale conformismo. In quelle poche righe Toni Capuozzo, giornalista di lungo corso, inviato di guerra, non è stato tenero verso una classe politica che, davanti alla ragionevole paura del contagio da coronavirus e alla richiesta di misure preventive drastiche come la quarantena per chi rientrava dalla Cina, ha pensato «che la correttezza politica (visita a scuole multietniche, ristoranti cinesi ecc.) fosse la cosa più importante, che il nemico fosse il razzismo».
Quelli che mettevano in guardia dalla psicosi contro il nemico cinese erano in realtà affetti da psicosi antirazzista?
«È il dogma della correttezza politica, una cosa molto americana: molti dei film che hanno visto e dei libri che hanno letto quelli della mia generazione oggi non potrebbero essere più girati né scritti. Non rimpiango il tempo in cui si poteva fumare al cinema, ma ricordo bene che nella mia infanzia, quando i soprannomi erano brutali e se uno era zoppo o gobbo lo si chiamava zoppo o gobbo senza troppi complimenti, ci si alzava in piedi se in autobus entrava una persona anziana o una donna incinta. Eravamo brutali nel linguaggio, ma nella pratica non lo eravamo affatto. Adesso paradossalmente è vero il contrario: c' è un' estrema correttezza formale, e poi nei fatti la cafoneria abbonda».
C' è un episodio che ha giudicato particolarmente fuori luogo? La visita del presidente Mattarella in una classe con bambini cinesi dopo che i governatori leghisti avevano proposto la quarantena per gli scolari di rientro dalla Cina?
«Proposta saggia, peraltro. E sì, il gesto del presidente della Repubblica ha legittimato tutti quanti ad abbassare la guardia, a non comportarsi con la dovuta cautela. Quella sua visita è stato un gesto simbolico e anche una guida per l' azione, non avrebbe portato i fotografi con sé altrimenti. Così se un collega rientrato dalla Cina mi invita a una cena, io mi sento rassicurato dal comportamento del mio presidente e penso: se non si preoccupa lui, del fatto che qualcuno di quei bambini poteva essere appena tornato dal capodanno cinese, perché dovrei preoccuparmi io?».
E le iniziative di solidarietà alla comunità cinese?
«A Milano c' è stata perfino una "notte delle bacchette" per testimoniare vicinanza ai ristoratori cinesi. In un Paese che se ne fotte dei piccoli locali che chiudono, se ne fotte di calzolai e artigiani che spariscono, per dimostrare di avere un cuore sensibile eri tenuto a mangiare nei ristoranti cinesi, che peraltro non mi sembrano un pezzo essenziale della nostra storia...Anche questo, sotto la maschera dell' antirazzismo, è stato un invito a tenere la guardia abbassata: un atto di grande leggerezza, e la colpa non è solo del governo ma anche di una certa cultura».
Ma questo scambiare la legittima paura con il razzismo non è controproducente? Se per ogni cosa mi sento dare del razzista alla fine, per reazione ed esasperazione, finirò per rivendicarla, quell' etichetta.
«C' è una cosa che ho imparato girando la ex Jugoslavia. Tutti i ponti erano chiamati "della fratellanza e dell' unità". Ecco, i "fratelli uniti" alla fine si sono accoltellati a vicenda e quei ponti sono stati abbattuti. Se il bene diventa una predica, una lezione calata dall' alto, rischia di alimentare i sentimenti meno nobili, che diventano un brontolìo di pancia sordo, che non viene a galla e non può esprimersi, e poi scoppia all' improvviso. La mia generazione è cresciuta alle elementari con la retorica dei Cesare Battisti, dei Fabio Filzi, del Piave che mormorava. E tutti quanti siamo poi cresciuti facendo la naja malvolentieri e considerando la patria una brutta cosa. Le prediche dall' alto non migliorano le persone. Siamo al punto che devo per forza abbracciare un cinese per dimostrare che non sono razzista: un' esibizione di bontà che rischia di rovesciarsi nel suo contrario».
Che poi questi atti di razzismo anticinese non sono stati poi così numerosi...
«Infatti. Io in questi giorni non sono andato a Chinatown né nei ristoranti cinesi. Ho pensato: perché devo andare a cercarmela? Ma questo non significa nutrire sentimenti negativi verso un popolo, avrei evitato allo stesso modo il ristorante di un americano appena rientrato da Pechino. È una semplice precauzione, non razzismo. Invece qui, per non sembrare razzisti, siamo arrivati all' assurdo di aver messo in quarantena poche decine di italiani che rientravano dalla Cina mentre centinaia se non migliaia di cinesi di ritorno dal capodanno rientravano indisturbati».
Dagospia il 23 febbraio 2020. Non ho mai querelato un giornalista, da sostenitore della democrazia liberale (al contrario di Libero) considero sacra la libertà di stampa, ma la cialtronaggine in questo caso va oltre il lecito. Spero che il Governo, di cui sono all’opposizione, intervenga.
Paolo Becchi, Giuseppe Palma per Libero Quotidiano il 23 febbraio 2020. Il 21 gennaio un comunicato ufficiale del Ministero della Salute riportava come «moderata» la probabilità di introduzione del coronavirus nel nostro Paese. Dopo meno di due settimane venivano bloccati i voli con la Cina. Una misura precauzionale giunta in ritardo, coi buoi già scappati dalla stalla, anche perché il periodo di incubazione del virus è di due settimane quindi, in quei giorni di negligenza di fine gennaio da parte del governo, può essere accaduto di tutto. Incurante dei pericoli, i primi di febbraio il presidente del Consiglio Conte parlava ancora di «situazione sotto controllo». Invece di emanare sin da subito un decreto legge che imponesse a chi arrivava dalla Cina la quarantena obbligatoria (come peraltro suggerito da alcuni medici specialisti in virologia), il ministro e l' intero governo hanno parecchio tentennato, tanto da consentire al presidente della Regione Toscana Enrico Rossi di relegare eventuali pericoli a meri allarmismi fascio-leghisti. Questi grosso modo i fatti delle ultime settimane. Venerdì accade che il virus si manifesta in Lombardia, a tal punto che l' assessore regionale al welfare Gallera vieta in 10 Comuni - tra cui Piacenza, Cremona, Casalpusterlengo e Codogno - ogni attività scolastica e di aggregazione. Il colpevole ritardo del ministro e la negligenza del governo ricadono così su intere comunità lombarde e venete col rischio che il pericolo di epidemia non sia scongiurato nel breve periodo. Ancora il 21 febbraio Conte parlava di situazione sotto controllo, ma ormai i morti sono due e gli infetti una cinquantina, 39 in Lombardia e 11 in Veneto. Che fare? Dal punto di vista medico e sanitario non ci permettiamo di dire nulla perché non possediamo alcuna competenza in merito, stupisce peraltro, come sottolineato dal virologo Roberto Burioni, che questo fine settimana l' Istituto Superiore della Sanità non risulti operativo.
Una mozione di sfiducia. Dal punto di vista politico e giuridico qualcosa invece la vogliamo dire. Prima di tutto le opposizioni dovrebbero presentare una mozione di sfiducia individuale nei confronti del ministro Speranza. Non è accettabile che chi abbia gestito con superficialità una tale emergenza possa restare al suo posto. Anzi, sarebbe il caso che Speranza si dimettesse spontaneamente, non fosse altro per una questione di dignità politica. Ma visto che non lo farà tocca alle opposizioni muoversi in Parlamento. Dal punto di vista giuridico, invece, sarebbe l' ora che la Procura di Roma, anche alla luce dell' obbligatorietà dell' azione penale, aprisse un fascicolo nei confronti del ministro Speranza e del Presidente del Consiglio Conte, il quale ha - ai sensi dell' art. 95 della Costituzione - l' obbligo di dirigere la politica generale del governo e di promuovere e coordinare l' attività dei ministri. La negligenza di entrambi nel valutare il pericolo per la salute pubblica mostra l' esistenza dell' elemento soggettivo del reato, in questo caso la «colpa». A tal proposito il reato che si potrebbe contestare a Speranza e a Conte è quello di cui all' art. 452 del codice penale, cioè i «delitti colposi contro la salute pubblica», le cui singole fattispecie criminose meritano di essere valutate a seconda di eventuali responsabilità ed omissioni personali. Non siamo certo di fronte a fatti commessi con dolo, ma la colpa - cioè la negligenza, l' imprudenza e l' imperizia - di Speranza e Conte merita, a nostro avviso, un approfondimento in sede giurisdizionale.
Ipotesi di reato. Si è mandato a processo Salvini per aver ritardato di alcuni giorni lo sbarco di qualche decina di immigrati, accusandolo di sequestro di persona, e in quel caso non è morto nessuno, e non si mandano a processo Speranza e Conte per verificare se sussistono delitti colposi contro la salute pubblica, in presenza già di due vittime e di decine di contagiati? Beninteso, a noi non piace l' uso politico della magistratura, ma con la recente autorizzazione a processare Salvini si è aperto un precedente, e non si vede allora perché la stessa cosa non debba applicarsi anche a Speranza e Conte.
Coronavirus, siluro di Capuozzo al governo: "Sordi, mediocri, cosa pensate?" L'emergenza coronavirus, ora arrivato anche in Lombardia, fa sbottare Toni Capuozzo: "Colpa di una classe politica modesta che pensa solo al razzismo…" Alberto Giorgi, Venerdì 21/02/2020 su Il Giornale. Il coronavirus è arrivato anche in Italia. Questa mattina la notizia del contagio in provincia di Lodi, dove un 38enne italiano è stato ricoverato in gravi condizioni all’ospedale di Codogno. Si tratta di un dipendente della multinazionale Unilever (nello stabilimento di Casalpusterlengo), originario di Milano, ma residente a Castiglione d’Adda. Nonostante le rassicurazioni del governo, che nelle scorse settimane ha proclamato lo stato di emergenza sanitaria, chiudendo il traffico aereo con la Cina, qualcosa è andato storto nei protocolli di prevenzione. Il virus cinese ha infatti contagiato sei persone anche in Lombardia. I sistemi di controllo, insomma, non hanno funzionato a dovere, come sottolineato peraltro anche da Matteo Salvini. L’arrivo in piena Pianura Padana del coronavirus ha fatto sbottare Toni Capuozzo, che punta il dito contro le istituzioni, accusandole di essersi preoccupato più del razzismo che di una malattia che sta mietendo vittime. Ecco l’affondo dell’ex inviato di guerra: "È una classe politica modesta, che si tratti di Europa o di Libia, di tasse o di istruzione, di ricerca o di reddito di cittadinanza. Ma sul coronavirus hanno fatto di peggio, pensando che la correttezza politica (visita scuole multietniche, ristoranti cinesi ecc.) fosse la cosa più importante, che il nemico fosse il razzismo". In un post diffuso sui propri canali social, il giornalista, blogger e scrittore ha così proseguito nella tirata d’orecchie all’esecutivo e alla politica lato sensu: "Sordi agli appelli di Burioni, tante Alici nel paese delle meraviglie, convinti che la loro solo esibita bontà salverà il mondo. Come se ne fottono di chi dorme all'aperto o raccoglie pomodori da schiavo, una volta esaurita l'accoglienza, così se ne sono fregati delle reali possibilità di contagio. Il razzismo è un male da tenere a bada, l'allarmismo è un pericolo, certo. Le malattie, anche".
Coronavirus, la Diamond Princess completa lo sbarco: l’ultimo a scendere è il comandante italiano. Pubblicato lunedì, 02 marzo 2020 da Corriere.it. Ha detto che sarebbe sbarcato per ultimo e così è stato. Gennaro Arma, il capitano italiano della Diamond Princess — la nave colpita dal contagio del coronovirus che, con più di 700 casi, è rimasta ormeggiata a Yokohama, in giappone, dal 5 febbraio — è sbarcato dopo che il gruppo finale dell’equipaggio, circa 130 persone che si trovavano ancora a bordo, ha completato le procedure di sbarco nella giornata di domenica. I membri sani dell’equipaggio avevano iniziato a essere rilasciati a partire da giovedì. A ringraziare Arma, la compagnia Princess Cruises («è un eroe agli occhi di tutti noi che facciamo parte della comunità globale della Princess») e le autorità giapponesi, a cominciare dal ministro della Salute nipponico Katsunobu Kato. Il ministro ha aggiunto che la nave sarà disinfestata e rimarrà ancorata a Yokohama per un periodo di manutenzione. Tra quanti sono sbarcati domenica 1 marzo, circa 70 cittadini indonesiani che sono stati rimpatriati con un aereo charter del governo di Giacarta. Le altre persone saranno messe in quarantena in centri ospedalieri specializzati situati a Saitama, a nord di Tokyo, e saranno autorizzati a lasciare il Giappone dopo due settimane se risulteranno negativi al coronavirus. Nel periodo in cui la nave è stata ormeggiata a Yokohama, dal 5 febbraio, 705 dei poco più di 3.700 passeggeri e membri dell’equipaggio sono risultati positivi e trasferiti nelle strutture apposite.
Mattarella nomina Gennaro Arma Commendatore al Merito della Repubblica. Pubblicato venerdì, 06 marzo 2020 da Corriere.it. In considerazione del suo esemplare comportamento, il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, in data di ieri, ha conferito motu proprio l’onorificenza di Commendatore al Merito della Repubblica Italiana al comandante della Diamond Princess Gennaro Arma. Lo comunica il Quirinale in una nota. Il comandante della Diamond Princess — in quarantena a bordo nelle acque di Yokohama dal 4 febbraio al 2 marzo a causa della presenza di passeggeri positivi al Covid-19 — è stato l’ultimo a lasciare la nave, dopo che tutti, anche il personale rimasto con lui, erano scesi. Per molte persone è diventato un eroe, non solo per la sua compagnia di navigazione che lo ha definito in questo modo. «Non sapevo nulla, grazie di cuore al presidente Mattarella — ha detto la moglie Mariana alla notizia del conferimento dell’onorificenza —. Apprendo ora questa notizia. Più tardi sentirò Gennaro via Skype, come ogni sera, e ne gioiremo insieme». Ora Arma si trova in quarantena in Giappone.
Rientra in Italia Gennaro Arma, il comandante della Diamond Princess. Pubblicato lunedì, 16 marzo 2020 su Corriere.it da Alessandro Fulloni. «Sono contento ed emozionato di ritornare a casa. Sono consapevole del momento che sta passando il nostro Paese e credo che restando uniti questa situazione vada a migliorare e che tutti insieme ce la possiamo fare». Lo ha detto a Sky TG24 Gennaro Arma, comandante della nave Diamond Princess sceso per ultimo dalla sua nave da crociera ancorata a Yokohama dove si era fermata a seguito del divampare dell’emergenza Coronavirus che a bordo contagiò circa 700 persone. «Trovo che nei momenti di difficoltà ed emergenza - ha continuato il comandante il cui rientro in Italia è previsto per oggi, lunedì 16 marzo - il popolo italiano sia meraviglioso, capace di tirare sempre fuori il meglio». Quando sono emersi i primi casi di passeggeri contagiati il capitano Arma ha dimostrato di saper calmare i passeggeri — anche recitando una poesia il giorno di San Valentino all’altoparlante — bloccati per giorni in «quarantena» a bordo della Diamond Princess. Per questa dedizione e capacità dimostrata, il presidente della Repubblica Mattarella ha nominato Gennaro Arma commendatore al merito. Intanto in un’altra nave da crociera — la Costa Luminosa ormeggiata a Tenerife — è esploso il contagio da Coronavirus. A bordo è morto un italiano, Albo Imbroisi, 69enne ex comandante della polizia stradale di Mirandola, in provincia di Modena. Imbroisi è deceduto sabato alle 4.40 in un ospedale delle Isole Cayman. Era partito insieme alla moglie lo scorso 24 febbraio da Malpensa per raggiungere la Florida e imbarcarsi sulla Costa Luminosa. Il 29 febbraio il 69enne ha avuto un attacco cardiaco ed è stato ricoverato. Il tampone per il Covid-19 ha dato successivamente esito positivo. Costa Crociere «porge le sue sentite condoglianze alla moglie e ai familiari dell’ospite italiano. La nave Costa Luminosa si trova attualmente a Tenerife per una sosta tecnica e proseguirà poi per Marsiglia. La compagnia Costa Crociere ha implementato uno specifico protocollo sanitario sulla crociera in corso di Costa Luminosa per mitigare i possibili rischi. Questo protocollo è stato rafforzato con l’isolamento precauzionale degli ospiti nelle loro cabine. Tutti gli ospiti - spiega Costa Crociere - e i membri dell’equipaggio sono inoltre sottoposti a controlli della temperatura quotidiani, per verificare costantemente lo stato di salute a bordo».
In Italia il comandante della Diamond Princess: «Fiero del mio equipaggio». Pubblicato lunedì, 16 marzo 2020 su Corriere.it da Fabrizio Caccia e Alessandro Fulloni. «Come mi sento? Stanchissimo. Ma fiero del mio equipaggio, fiero di come si è comportato con i 3700 passeggeri durante quei terribili giorni di quarantena cominciati il 4 febbraio, quando venne accertato il primo caso di Coronavirus». Gennaro Arma, il comandante della Diamond Princess, la nave da crociera bloccata in Giappone per il contagio di circa 700 persone a bordo, è rientrato ieri sera in Italia, a Fiumicino, con il volo Az 785 partito da Tokyo. Ad accogliere lui e altri 15 marinai dell’equipaggio c’era il ministro degli Esteri Luigi di Mario «orgoglioso di come avete rappresentato l’Italia». Ministro e comandante avevano la mascherina. E si sono salutati senza stringersi la mano ma toccandosi con i gomiti. «Non mi sento un eroe. Sono una persona normale che ha fatto il suo dovere» ha detto Arma, 46 anni, «the brave captain», il capitano coraggioso come lo ha definito la stampa estera per la capacità di motivare i 3700 passeggeri sfiniti dalla lunga «reclusione» sulla nave della flotta Carnival. E poi quella foto, commovente, che ha fatto il giro del mondo: Arma nella divisa blu da comandante, l’ultimo a scendere dalla Diamond, sorridente, con il trolley trascinato lungo la banchina del porto di Yokohama. «Siamo a conoscenza del fatto che il Paese stia attraversando un momento non semplice. Ma siamo convinti che, come per noi sulla nave, stando uniti, con buona volontà, seguendo le istruzioni, questo brutto momento passerà», ha aggiunto Arma. Che poi ha raggiunto la sua famiglia a Sorrento, dove vive. Per questa dedizione e capacità dimostrata, il presidente della Repubblica Mattarella ha nominato Gennaro Arma commendatore al merito.
Diamond Princess, l’ultimo a scendere è il comandante (italiano). La moglie: «Ha un equipaggio di gladiatori». Pubblicato lunedì, 02 marzo 2020 su Corriere.it da Alessandro Fulloni. Emozionatissima. «E anche orgogliosissima». Mariana Gargiulo è la moglie del comandante Gennaro Arma, «il brave captain» — il «capitano coraggioso», come lo hanno definito i passaggeri — della Diamond Princess, la nave colpita dal contagio del coronavirus che, con più di 700 casi, è rimasta ormeggiata a Yokohama, in giappone, dal 5 febbraio. Anche Mariana ha visto stanotte la foto di suo marito — in divisa blu notte, trolley in mano, mascherina sul volto — sceso per ultimo dalla Diamond. «Sì, un’immagine che mi ha emozionata e reso davvero orgogliosa», ammette la signora Gargiulo, piuttosto restia nel parlare dalla casa in cui vive a Sant’Agnello, piccolo centro a due passi da Sorrento. Che il comandante scenda per ultimo dalla nave di cui è al timone è uno dei principi più importanti della marineria mondiale; una norma etica e cavalleresca, prima ancora che un cardine di tutti i codici di navigazione. «Una norma che sta nel Dna di mio marito» spiega, sempre emozionata, Mariana. Che racconta: «Ci siamo sentiti tutti i giorni al telefono, comunicazioni non sempre facili. E non certo per il fuso orario, che in Giappone è avanti di otto ore...». Come Arma — 45 anni, formato all’istituto nautico Nino Bixio di Piano di Sorrento — abbia fronteggiato le difficoltà incontrate nella conduzione quotidiana delle emergenze sulla «Diamond Princess» è stato raccontato dai diari online dei 3.700 passeggeri. Per San Valentino «the brave captain» ha decantato dall’altoparlante una poesia d’amore, dopo aver distribuito ai passeggeri cioccolatini e tortine a forma di cuore, accompagnati da biglietti di incoraggiamento. Inesauribile, sempre pronto ad ascoltare ogni richiesta. Mariana — che conosce Gennaro da «tanto tempo» — non si stupisce: «È fatto così, una roccia». Ma ora? «So che dovrà ultimare la quarantena in una struttura nelle vicinanze di Yokohama». Preoccupata? «Non lo sono mai stata, semmai sono sempre stata fiduciosa che tutto sarebbe andato per il meglio. So che accanto a lui c’è un equipaggio preparato, ufficiali e sottufficiali, tra cui circa 25 italiani — ora rimasti in 11 a seguito delle quarantene, ndr — che hanno condiviso con mio marito tutte le difficoltà. “I miei gladiatori”, li ha chiamati riferendosi a tutto il personale» di trecento persone provenienti da tutto il mondo.
Il comandante "eroe" (italiano) della Diamond Princess: "Scendo per ultimo". La nave si trova ormeggiata a Yokohama dallo scorso 5 febbraio. A bordo sono stati registrati 705 casi positivi al coronavirus e 6 decessi. Prima di sbarcare il comandante ha atteso che tutti scendessero a terra. Valentina Dardari, Lunedì 02/03/2020 su Il Giornale. Come aveva riferito nei giorni scorsi, il comandante italiano Gennaro Arma è sceso per ultimo dalla Diamond Princess, la nave rimasta ormeggiata dallo scorso 5 febbraio a Yokohama, a causa del coronavirus. Più di 700 i casi a bordo e sei i morti. Il capitano ha aspettato che il gruppo finale dell’equipaggio, all’incirca 130 persone, sbarcasse. Le procedure di sbarco sono state terminate nella giornata di ieri, domenica 1° marzo. Gennaro Arma è sceso per ultimo dalla nave. Come riportato dalle autorità giapponesi, dopo che erano sbarcati tutti i passeggeri, anche quelli italiani, i membri sani dell’equipaggio avevano cominciato a lasciare la Diamond Princess da giovedì 27 febbraio. Le ultime persone sono appunto sbarcate ieri. Tra loro anche 70 indonesiani che sono stati rimpatriati tramite un aereo charter del governo di Giacarta. I restanti saranno invece messi in quarantena in strutture ospedaliere specializzate a Saitama, città a nord di Tokyo, dove resteranno per due settimane. Se al termine del tempo previsto risulteranno negativi ai test del coronavirus, potranno lasciare il Giappone.
Gennaro Arma: un eroe. Il comandante Gennaro Arma è stato definito dalla compagnia Princess Cruises “un eroe agli occhi di tutti noi che facciamo parte della comunità globale della Princess”. Arma è stato ringraziato anche dalle autorità giapponesi e dal ministro della Salute nipponico, Katsunobu Kato. La nave, come riferito dal ministro, verrà adesso disinfestata e rimarrà ancorata al porto di Yokohama per un periodo di manutenzione. Nei giorni in cui la nave è stata ormeggiata a Yokohama, dal 5 febbraio, 705 dei poco più di 3.700 passeggeri e membri dell’equipaggio sono risultati positivi e trasferiti nelle strutture apposite.
Le critiche. I primi morti per coronavirus sulla nave erano stati due giapponesi, il marito di 87 anni e la moglie di 84 anni. Tokyo aveva ricevuto non poche critiche per come aveva gestito l'emergenza fin dall’inizio. La nave era infatti stata bloccata lunedì 3 febbraio ma soltanto due giorni dopo, il 5 febbraio, i passeggeri erano stati messi in isolamento nelle loro cabine. Nei due giorni l'equipaggio aveva continuato a organizzare attività ricreative e di gruppo, come balli, ginnastica e corsi. In questo modo il contagio tra i presenti era stato notevolmente agevolato.
· Veicolo di diffusione: Ambiente o Uomo?
Da "corriere.it" il 31 gennaio 2020. Il 9 gennaio l’Organizzazione mondiale della sanità ha reso nota l’esistenza di un nuovo ceppo di coronavirus, mai identificato prima nell’uomo: il 2019-nCoV. Il virus è stato inizialmente associato a un focolaio di polmonite nella città di Wuhan, nella Cina centrale, ma in seguito i casi di contagio hanno riguardato anche diversi altri Paesi, inclusa l’Italia. I coronavirus (CoV) sono un’ampia famiglia di virus respiratori che possono causare malattie da lievi a moderate, dal raffreddore alla MERS (sindrome respiratoria mediorientale, Middle East respiratory syndrome) e la SARS (sindrome respiratoria acuta grave, Severe acute respiratory syndrome). Sono chiamati così per le punte presenti sulla superficie, che li fanno somigliare a corone. Questi germi patogeni sono comuni in molte specie animali (come i cammelli e i pipistrelli) ma in alcuni casi, se pur raramente, possono evolversi e infettare l’uomo. I coronavirus umani conosciuti ad oggi, comuni in tutto il mondo, sono sette: 229E (coronavirus alpha); NL63 (coronavirus alpha); OC43 (coronavirus beta); HKU1 (coronavirus beta); MERS-CoV (il coronavirus beta che causa la Middle East respiratory syndrome); SARS-CoV (il coronavirus beta che causa la Severe acute respiratory syndrome); 2019-nCoV (2019 nuovo coronavirus). Questi virus si trasmettono da una persona infetta a un’altra attraverso:
la saliva, tossendo e starnutendo;
contatti diretti personali (come toccare o stringere la mano e portarla alle mucose);
toccando prima un oggetto o una superficie contaminati dal virus e poi portandosi le mani (non ancora lavate) sulla bocca, sul naso o sugli occhi;
contaminazione fecale (raramente).
Non esistono trattamenti specifici per le infezioni causate dai coronavirus e non sono disponibili, al momento, vaccini. La maggior parte delle persone infette guarisce spontaneamente. Tuttavia è possibile ridurre il rischio di infezione seguendo alcuni accorgimenti: lavarsi spesso le mani con acqua e sapone per almeno 20 secondi o con soluzioni alcoliche; starnutire o tossire in un fazzoletto o con il gomito flesso; utilizzare una mascherina e gettare i fazzoletti utilizzati in un cestino chiuso immediatamente dopo l’uso; evitare di toccare gli occhi, il naso o la bocca con mani non lavate; evitare contatti ravvicinati con persone che sono malate o che mostrino sintomi di malattie respiratorie (come tosse e starnuti); rimanere a casa se si hanno sintomi; fare attenzione alle pratiche alimentari (evitare carne cruda o poco cotta, frutta o verdura non lavate e le bevande non imbottigliate); pulire e disinfettare oggetti e superfici che possono essere state contaminate.
Coronavirus, perché in Italia ci sono più morti che in Cina? Ecco cosa dicono i dati. Le Iene News il 20 marzo 2020. L’Italia ha 3.405 morti da coronavirus, la Cina 3.245 e 25 volte più abitanti: là però i contagi sono in grandissima maggioranza nella provincia dell’Hubei, che ha la nostra stessa popolazione. Per adesso quindi i dati si somigliano, anche se da noi la pandemia continua a espandersi. L’Italia ha superato la Cina: 3.405 morti contro i 3.245. Un numero durissimo, che purtroppo è destinato ad aumentare. La curva del contagio mostra infatti che i malati di coronavirus nel nostro Paese continuano a crescere, e con loro inevitabilmente anche il numero di chi perde la vita. In queste ore sui social circola una domanda: com’è possibile che l’Italia abbia più morti della Cina quando noi abbiamo 60 milioni di abitanti e loro quasi 1 miliardo e mezzo? Una risposta parziale, in realtà, c’è: la pandemia di coronavirus è iniziata a Wuhan, metropoli da 11 milioni di abitanti nella provincia dell’Hubei. E il governo cinese è riuscito, con misure drastiche, a contenere il contagio in quella zona: degli oltre 80mila malati in tutto il Paese, ben 67.800 sono concentrati in quell’unica provincia. E delle 3.245 morti, 3.133 sono avvenute lì. A questo bisogna aggiungere un dato che rende più facile capire il paragone con l’Italia: l’Hubei ha 58,5 milioni di abitanti, il nostro Paese 60,48. In Italia sono stati registrati finora 41.035 casi, nell’Hubei in totale 67.800; da noi ci sono stati 3.405 morti, nella provincia di Wuhan 3.133. Ecco quindi che paragonando la sola Hubei con l’Italia, i dati diventano improvvisamente molto simili tra due zone che hanno un numero molto simile di abitanti. Certo, resta da capire un’altra cosa: è vero che a oggi i dati tra Italia e provincia dell’Hubei si assomigliano molto, però in Cina ormai la pandemia è sotto controllo. Negli ultimi due giorni a Wuhan non si è registrato nessun nuovo caso. In Italia negli ultimi due giorni se ne sono registrati oltre 6mila, nonostante siano passati ormai parecchi giorni dalle restrizioni imposte dal governo. Questo significa, purtroppo, una sola cosa: tra pochissimo tempo la pandemia in Italia avrà fatto molti più contagi e molti più morti che nell’Hubei. Com’è possibile tutto questo? Forse abbiamo reagito troppo tardi ai primi casi confermati in Italia? L’età media della nostra popolazione gioca un ruolo centrale? O la colpa sta nella scarsa osservanza delle misure decise dal governo? Trovare una risposta a queste domande non è così semplice. Quello che sappiamo per certo è questo: l’Italia ha una popolazione molto più anziana della Cina, 44,3 anni contro 37,4. E il nuovo coronavirus è molto più letale tra le persone anziane che tra quelle giovani. Le norme imposte dal nostro governo, inoltre, non sono stringenti come quelle imposte dalla Cina. Lo ha detto ieri anche il vicecapo della Croce rossa di Pechino, arrivato in Italia per sostenere i nostri sanitari: "Sono stupito dalla quantità di gente ancora in strada", ha detto durante una conferenza stampa con il governatore della Lombardia Attilio Fontana. "Ancora in troppi usano il trasporto pubblico e non usano mascherine. Le misure sono troppo poco rigide", ha aggiunto. A tutto questo bisogna aggiungere anche un altro dato, purtroppo non positivo: in Italia, o almeno in alcune zone, vengono fatti i tamponi solamente a chi presenta sintomi seri. E questo significa, probabilmente, che in zone come la Lombardia il numero effettivo dei contagiati potrebbe essere decisamente più alto. La nota positiva, invece, è che un numero più alto di malati renderebbe in percentuale meno letale il virus: questa eventualità sembra confermata dal fatto che in Veneto, dove si stanno facendo moltissimi tamponi, la letalità è nettamente più bassa della Lombardia dove invece si fanno solo ai casi gravi.
Chiara Jommi Selleri per leggo.it il 25 marzo 2020. Stefano Manera, 44 anni, specialista in anestesia e rianimazione, ha partecipato al bando straordinario indetto dalla regione Lombardia. È partito da Milano per la trincea dell'ospedale Papa Giovanni XIII di Bergamo, tra i più colpiti dall'emergenza coronavirus.
Come mai tanto coraggio?
«Non sono un eroe. Lo è chi in queste settimane sta affrontando la malattia».
Qual è la situazione nel suo ospedale?
«Spettrale. Sembra un termitaio: fuori regna il silenzio più assoluto, dentro brulica di medici che lavorano senza sosta. Tutti i pazienti hanno il coronavirus, 70 sono in rianimazione. Uno scenario di medicina delle catastrofi».
Da semplice influenza a virus capace di uccidere migliaia di persone. Che cos'è il Covid 19?
«Una malattia ancora sconosciuta, che all'inizio colpiva le persone più fragili e che adesso intacca anche giovani sani. La mia impressione è che chi si ammala abbia un substrato preesistente di infiammazione: sovrappeso, diabete, ipertensione arteriosa. La maggior parte degli italiani ce l'ha, come mai?».
Si è dato qualche risposta?
«I veleni: elementi nocivi nell'aria o nell'acqua che beviamo. Per questo si pensa che il virus abbia colpito le zone più inquinate d'Italia. Di certo, quando tutto sarà finito, nulla dovrà tornare come prima».
DAGOREPORT il 20 marzo 2020. CI SONO TRE COSE CHE IL GOVERNO E LE ISTITUZIONI NON AMMETTERANNO MAI NELLA PANDEMIA. SE LE ISTITUZIONI NE PARLASSERO, SI BECCHEREBBERO MIGLIAIA DI PROCESSI CIVILI, AMMINISTRATIVI E PENALI, CON CARRIERE POLITICHE ROVINATE:
IL RUOLO TRAGICO DEI MEDICI NELLA DIFFUSIONE DEL MORBO, COLPA DI REGIONI E STATO CHE NON HANNO GARANTITO DISPOSITIVI ADEGUATI.
L'USO DELLE MASCHERINE, UTILISSIME MA CHE NON POSSONO ESSERE IMPOSTE PERCHÉ NON CI SONO.
L'INQUINAMENTO: LE MALATTIE POLMONARI SONO LEGATE ALLA QUALITÀ DELL'ARIA, CHE E' RESPONSABILITA' DI REGIONI E COMUNI. Ci sono tre cose che il governo e le istituzioni non ammetteranno mai nell'epidemia di Coronavirus. Ma non si tratta di dietrologie, complottismi o oscure trame, bensì di banali costi politici e giuridici che nessuno vuole pagare:
1. Che la disastrosa epidemia nel lombardo-veneto è legata in modo clamoroso al numero di medici e infermieri contagiati (oltre tremila), che hanno fatto da super-spargitori del morbo soprattutto tra pazienti ricoverati e ospiti di case di cura, categorie fragilissime e ad alta mortalità, ma anche tra chi era in casa e riceveva la visita del medico di base. Una percentuale più che doppia rispetto a Wuhan, nel sistema sanitario che dovrebbe essere il migliore d'Italia e tra i primi in Europa. In realtà questo elemento di critica lo introdusse proprio Conte nei primi giorni dell'emergenza, parlando dell'ospedale di Codogno, ma fu subito rintuzzato da Fontana e dallo spirito di unità nazionale. La sanità è competenza delle regioni dai tempi della sciagurata riforma del Titolo V della Costituzione, quindi sono i presidenti e gli assessori responsabili dell'operato dello staff medico. Questo primo punto è collegato direttamente al secondo:
2. I dottori che hanno contagiato i propri pazienti lo hanno fatto perché sprovvisti di dispositivi di protezione adeguati, e anche qui le responsabilità sono in buona parte in capo a chi decide la politica sanitaria delle regioni. Stavolta però c'entra anche l'amministrazione centrale: le strategie di ampio respiro (come la risposta a una pandemia) sono in capo al governo e al Ministero della Salute, che avrebbe dovuto costituire una riserva di mascherine, camici e tute speciali per l'arrivo di un virus che era previsto da molti studi scientifici, nonché l'adozione di un protocollo comune per il trattamento dei casi sospetti. Il problema mascherine coinvolge anche il resto della popolazione: in tutti, tutti, i paesi che stanno affrontando con successo l'epidemia, sono indossate dalla stragrande maggioranza della popolazione che per qualche motivo deve uscire di casa: Cina, Giappone, Corea del Sud, Singapore, Hong Kong. Solo da noi continuano a dire ''meglio stare distanti''. Certo, è meglio, ma se uno deve andare in metro o al supermercato o in farmacia, le mascherine sono FONDAMENTALI, essendo impossibile stare distanti. Soprattutto contro una malattia dove può succedere che il 75% del campione (vedi Vo' Euganeo) è asintomatico e in grado contagiare senza saperlo PER SETTIMANE. I nostri funzionari pubblici non possono raccomandare l'uso delle mascherine perché non si trovano. Se lo facessero, rischierebbero cause milionarie, ricorsi al Tar, eccetera.
3. L'inquinamento. Indovinate di chi è la responsabilità della qualità dell'aria e dell'acqua? Ovvio, pure quella delle regioni, ognuna delle quale ha la sua Arpa (agezia regionale per la protezione dell'ambiente) che dovrebbe verificare i livelli di elementi inquinanti e, in caso, prendere provvedimenti di concerto con i comuni interessati per ridurne l'impatto. Solo che in regioni produttive e ricche come Lombardia e Veneto, questo vuol dire bloccare produzioni, fermare il traffico, insomma frenare la crescita, un suicidio elettorale. La correlazione tra cattiva qualità dell'aria e malattie polmonari è una delle poche cose su cui tutti sono d'accordo, e non da ieri ma da oltre 50 anni, non c'è manco bisogno di essere svalvolati come Gunter Pauli per saperlo. Oltre alla sfortuna del primo focolaio, oltre al maggior numero di contatti internazionali che hanno abitanti della pianura padana, nell'ecatombe cui stiamo assistendo conta molto la vulnerabilità dei polmoni degli anziani che vivono in quelle zone. Questi tre elementi possono portare a denunce penali, cause civili. C'è un nesso causale tra la negligenza della regione e il fatto che un medico ha potuto contagiare decine di pazienti? Certo. C'è un nesso causale tra la morte in servizio di un dottore e il fatto che il suo datore di lavoro, la regione, non gli ha fornito gli strumenti adatti? Certissimo. Il tutto porterebbe poi a carriere politiche rovinate. Non è un caso se Zaia ha scelto di prendere un'altra strada rispetto al collega leghista Fontana: alla fine della crisi, si scatenerà una guerra sulle responsabilità, e lui cerca di salvare la pelle (il proprio futuro da amministratore), con un bel distanziamento...
FATTORE UMANO.
Droplet o aerosol, ecco la differenza nelle modalità del contagio. Non solo goccioline pesanti: con un colpo di tosse o anche una discussione animata il virus, secondo alcuni studi, può viaggiare nell'aria in ambienti chiusi. Il consiglio è quello di aprire le finestre nei locali affollati. Giuseppe del Bello il 7 aprile 2020. Piccolissime, fluttuano. Libere nell'aria come sospese in una nube. E leggere, ci mettono più tempo prima di dissolversi. Il limbo dell'infezione. Goccioline infinitesimali quelle che ospitano particelle di coronavirus: nell'ambiente ci restano, ma non si sa per quanto e in quale concentrazione. Un colpo di tosse, ancor più uno starnuto o, anche, semplicemente parlando.
L'esperto: "Il virus si propaga anche solo parlando". Secondo l'Accademia nazionale delle scienze americana, il virus può viaggiare per quasi 2 metri anche solo col respiro. Nessuna prova, però, sul rischio di infezione. Francesca Bernasconi, Venerdì 03/04/2020 su Il Giornale. Non solo tosse e startuni. Il nuovo coronavirus può essere diffuso anche solo parlando o, forse, respirando. È quando afferma il presidente del comitato permanente per le malattie infettive emergenti dell'Accademia nazionale delle scienze americana, Harvey Fineberg, in una lettera indirizzata alla Casa Bianca. "La ricerca attualmente disponibile sostiene la possibilità che possa essere diffuso tramite bioaerosol generato direttamente dall'espirazione dei pazienti", si legge nella lettera, scritta a seguito di una richiesta dell'Ufficio per la scienza e la tecnologia della Casa Bianca e dell'Ufficio del segretario assistente del Dipartimento della Salute. È possibile, quindi, che il Sars-CoV-2 si diffonda anche attraverso la "nuvoletta" che produciamo semplicemente parlando o respirando. Ma non solo. Secondo gli studiosi, infatti, la diffusione potrebbe arrivare fino a 1,8 metri di distanza dalla persona contagiata. Se l'ipotesi venisse confermata, significherebbe l'insufficienza delle misure di distanziamento sociale, che finora hanno fissato a un metro la distanza da mantenere tra le persone. Tuttavia, precisa Fineberg, "Al momento non ci sono prove sufficienti per confermare che queste particelle sono vitali e in quantità sufficienti a causare l'infezione". Non è chiaro, quindi, se le goccioline contenute nella "nuvoletta" creata dal respiro, siano in grado di infettare. Un altro recente studio, aveva individuato la distanza a cui possono arrivare le goccioline prodotte da tosse e starnuti. Secondo una ricerca del Mit di Cambrige, che ha usato telecamere ad alta velocità, il virus può viaggiare fino a 8 metri, se contenuto nelle particelle prodotte da uno starnuto e fino a 6 metri in caso di un colpo di tosse. Stando a queste ricerche, le misure messe in atto fino ad oggi potrebbero risultare non del tutto adeguate. Punto di forza centrale nella lotta al virus potrebbero diventare le mascherine. Per questo, l'ex direttore dell'Oms, David Heymann, avrebbe detto alla Bbc che è in un corso una valutazione sulle direttive per le mascherine. Ma, per il momento non ci sono certezze sulla possibilità della trasmissione del virus via aerea. Inoltre, gli esperti italiani, hanno precisato come questa eventualità sia possibile solamente in certi tipi di luoghi. "Al di fuori degli ambienti chiusi possiamo escludere" questa ipotesi, ha detto Gianni Rezza, direttore del Dipartimento di malattie infettive dell'Istituto superiore di sanità. La stessa posizione è stata tenuta anche da Silvio Brusaferro, presidente dell'Iss, che ha affermanto: "In questo momento non abbiamo evidenze per dire che il virus circola nell'aria". Infine, il virologo Fabrizio Pregliasco, ha precisato: "Non creiamo troppa agitazione, perché è vero che gli studi indicano una potenzialità di dispersione ambientale maggiore, ma parliamo sempre di ambienti chiusi e contesti ospedalieri. All'aperto non ci sono pericoli".
Cristina Marrone per il “Corriere della Sera” il 4 aprile 2020. Da quando il coronavirus ha cominciato a circolare, gli scienziati di tutto il mondo stanno cercando di stabilire se Sars-CoV-2 può viaggiare nell'aria. La domanda che si stanno ponendo in molti è: il virus può sopravvivere nell' ambiente e soprattutto si rischia il contagio se quell' aria «contaminata» la respiriamo? L'Organizzazione Mondiale della Sanità su questo punto è stata chiara e ha spiegato che non ci sono prove rilevanti che il nuovo coronavirus sia capace di trasmettersi attraverso l' aria. E anche il nostro Istituto Superiore di Sanità è sulla stessa linea. L'eccezione - e su questo tutti sono d' accordo - avviene in ambiente ospedaliero, quando vengono eseguite determinate procedure mediche come la broncoaspirazione o l'intubazione di un paziente. Ad alimentare il già acceso dibattito degli scienziati è stata una lettera scritta dall' Accademia Nazionale delle Scienze degli Stati Uniti e inviata al capo delle politiche scientifiche della Casa Bianca in cui viene riferito che il virus Sars-Cov-2 è stato trovato in campioni d' aria raccolti a oltre 1,8 metri di distanza dai pazienti. Harvey Fineberg, presidente di un comitato composto con la National Academy of Science scrive che «la ricerca dimostra che anche le gocce aerosolizzate prodotte parlando o forse anche solo respirando possono diffondere il virus», facendo riferimento a una ricerca in un ospedale della Cina in cui si è visto che il virus può essere sospeso nell' aria quando i medici rimuovono gli equipaggiamenti protettivi. Si cita anche uno studio dell'Università del Nebraska che ha analizzato 11 stanze con pazienti Covid-19, in alcune delle quali sono stati trovati campioni di Rna del virus nell' aria a quasi due metri di distanza. Anche l'immunologo della Casa Bianca, Anthony Fauci, ha parlato di dati che vanno in questa direzione. È bene chiarire che la prima fonte di contagio è il contatto diretto e prolungato con una persona che emette goccioline (i cosiddetti droplets , superiori al millimetro) con tosse e starnuti. Se però il virus dovesse rimanere sospeso nelle particelle ultrafini prodotte con il respiro, la protezione diventerebbe più difficile per questo in molti stanno chiedendo che tutti indossino le mascherine. La virologa Ilaria Capua, dell' Università della Florida, ha aggiunto tra l'altro che «non possiamo escludere il propagarsi del coronavirus dai condizionatori». A dare il la al dibattito è stato un primo studio pubblicato a marzo sul New England Journal of Medicine in cui si sosteneva che il virus potesse sopravvivere fino a tre ore in ambiante chiuso (con carica virale dimezzata un' ora dopo). Condizione però ottenuta in laboratorio, nebulizzando il virus. Altre ricerche sono seguite. In particolare uno studio del Massachusetts Institute of Tecnology ha concluso che uno starnuto crea una nuvola di goccioline che può arrivare fino a 6-8 metri di distanza. I droplets grandi si depositano più velocemente di quanto evaporino, contaminando le immediate vicinanze dell' infetto. Le goccioline piccole emesse mentre si parla o si respira evaporano (piuttosto che depositarsi) nella forma di particelle chiamate «aerosol». Altri studi hanno cercato tracce del virus nell' aria nelle stanze dei pazienti senza trovarle. Un altro lavoro ha rilevato la presenza del virus in campioni d' aria davanti a un supermercato, senza riuscire a chiarire se il patogeno fosse ancora attivo. «Che in condizioni particolari e spesso sperimentali e di laboratorio, come alcuni lavori riportano, il virus possa essere presente al di fuori del droplets ma anche nell' aerosol è documentato e dimostrato - precisa Massimo Andreoni, direttore scientifico della società italiana di malattie infettive e tropicali Simit e professore a Tor Vergata -. Ma sono condizioni estreme nelle quali il virus difficilmente può avere una carica infettante tale da poter essere trasmesso per via aerea». «Non creiamo allarmismo - avverte il virologo Fabrizio Pregliasco - perché è vero che gli studi indicano una potenzialità di dispersione ambientale maggiore ma parliamo di ambienti chiusi e spesso di contesti ospedalieri. All' aperto non ci sono pericoli». E in ascensore? «Non ritengo possibile il contagio da micro goccioline emesse da qualcuno infetto salito prima di noi. Anche negli ambienti chiusi, se vengono mantenute le distanze e la stanza viene arieggiata e disinfettata, non ci sono particolari rischi di contagio», conclude Andreoni .
Estratto dell’articolo di Elena Dusi per “la Repubblica” il 4 aprile 2020. […] «Ci sono recenti osservazioni che il virus possa diffondersi anche quando le persone si parlano», ha confermato ieri Anthony Fauci, direttore dell' Istituto per le malattie infettive americano (Niaid). Anche l' Organizzazione mondiale della sanità si è detta pronta a allargare le indicazioni sull' uso delle mascherine. Il coronavirus resta dunque sospeso nell' aria? Ci si può contagiare restando nella stanza con un malato, anche rispettando il limite di 1-2 metri? Come spiega Fineberg, è solo un sospetto. […] La capacità dei virus di circolare nell' aria «è nota nei contesti sanitari », dove un gran numero di pazienti è concentrato in spazi ristretti. […] In ogni caso, aggiunge Gianni Rezza, direttore del dipartimento di malattie infettive dell' Iss, «è escluso che il virus circoli all' aria aperta». Matteo Moro, responsabile del controllo delle infezioni al San Raffaele di Milano, ricorda che «in un caso, nella Sars, era stata dimostrata una trasmissione per via aerea. Ma era rimasto un esempio isolato». Anche per il coronavirus di oggi si stanno raccogliendo indizi. Un esperimento del Niaid sul New England Journal of Medicine ha misurato in tre ore la permanenza massima del coronavirus nell' aria. Anche se la quantità di microrganismi si dimezza in un' ora, è molto più di quanto ci si aspettasse. Il Nebraska Medical Center ha trovato campioni di coronavirus nell' aria delle stanze dove erano stati isolati dei malati, a oltre un metro di distanza dai letti, inclusi i corridoi esterni e i bocchettoni di aerazione. Un altro esperimento del Mit di Boston ha misurato in 7-8 metri la distanza cui può arrivare uno starnuto. Uno studio pubblicato ieri su Nature Medicine dall' università di Hong Kong ha riscontrato la presenza di coronavirus sia nelle goccioline che negli aerosol emessi da alcuni volontari con la tosse. […] Sulla rivista Emerging Infectious Diseases , infine, un gruppo cinese del Guangzhou Center for Disease Control ha raccontato il caso di tre famiglie contagiate in un ristorante senza finestre, nonostante i loro tavoli si trovassero a distanza di sicurezza. Gli ambienti chiusi possono essere a rischio? Non lo esclude Carlo Federico Perno, virologo dell' Università di Milano. «Una persona malata che respira a lungo in un ambiente piccolo e non ventilato concentra virus nell' aria», spiega. Non vuol dire che sia facile infettarsi in questo modo. «La probabilità di ammalarsi e la severità dei sintomi dipendono dalla carica virale, cioè dalla quantità di virus inalata». Non sappiamo nemmeno quale sia la soglia di microbi oltre la quale ci si ammala di certo. «Ma in futuro - conferma Perno - dovremo stare attenti ad assembramenti e ambienti chiusi. Non penso ai supermercati, che sono ampi, ma alle stanze piccole con molte persone e poca ventilazione. Qui non basterà rispettare le distanze». Né le mascherine (ammesso che ci siano) saranno una panacea. «Quelle chirurgiche - spiega Moro - sono aperte ai lati. Inspirando, fanno passare l' eventuale virus presente».
Coronavirus, il mostro ha viaggiato sulla metro: la mappa che spiega l'inizio dell'epidemia. Fabrizio Gatti 26/3/2020 su L'Espresso. Il tramonto di sabato 15 febbraio, qui a Milano nell’ultimo weekend prima del coronavirus, resta tra i più fotografati nelle memorie dei nostri telefonini: un sole enorme, purpureo come la stella di un pianeta inesplorato, affondava la sua luce inquietante dietro i nuovi grattacieli della metropoli. Nulla sarà più come prima in Lombardia. I morti per Covid-19 nella regione hanno ormai superato di molto i 3.245 decessi registrati (ufficialmente) in Cina durante l’epidemia. E dopo oltre un mese dall’inizio dell’emergenza italiana, mentre Pechino rimanda a casa quarantamila tra medici e infermieri e si prepara a riaprire la città di Wuhan, nei nostri ospedali si fa sempre più fatica a garantire le scorte di mascherine e protezioni adeguate per il personale in prima linea. Alla rabbia che dilaga nei reparti, si aggiunge la pressione di quanti, interpretando gli ultimi dati su ricoveri e casi gravi, vorrebbero ridurre il blocco e far respirare l’economia. Di fronte al rischio di scelte affrettate, vale la pena tornare a quella settimana di febbraio solo apparentemente senza virus. Ed esaminare cosa è successo: dal flusso dei pendolari lombardi al grave inquinamento atmosferico, che ha intossicato la Pianura Padana durante tutto lo scorso inverno. Due condizioni favorevoli, che possono aver contribuito alla diffusione più rapida rispetto al resto d’Italia e d’Europa. Le mappe attuali di espansione dell’epidemia in Lombardia e intorno a Milano sono infatti sovrapponibili alle carte che da anni descrivono l’affollamento dei trasporti pubblici nella regione. È come se il virus Sars-Cov-2, fin dal suo arrivo nel Nord Italia, avesse preso quotidianamente la metropolitana verde verso Cologno Monzese e i comuni orientali della provincia, o la linea rossa verso Sesto San Giovanni, o la gialla verso la Comasina e gli autobus suburbani fino a Bresso, tutte località che dopo Milano sono in testa alla classifica dei contagi. Ma le infezioni si sono mosse anche in treno da e verso Lodi e Codogno, Cremona, Bergamo e Brescia, che non a caso sono le province più colpite. Ovviamente i virus non camminano soli ma con le gambe delle persone che penetrano, creando così nuovi focolai in base alle condizioni locali che incontrano. Fino alla chiusura di scuole e università (24 febbraio), l’epidemia ha quindi potuto alimentarsi facilmente in mezzo a una popolazione di cinque milioni e duecentocinquantamila pendolari. Tanti sono i lombardi su dieci milioni di abitanti che in un periodo normale si muovono per lavoro o studio o altre ragioni ogni giorno: un milione 656 mila nella città metropolitana di Milano, che si aggiungono ai pendolari delle province di Brescia (663 mila), Bergamo (597 mila), Monza e Brianza (466 mila), Pavia (274 mila), Mantova (212 mila), Cremona (186 mila), Lecco (184 mila) e Lodi (123 mila). Sono tutti distretti che oggi hanno più di mille casi di Covid-19. Como, Varese e Sondrio sono invece le province con meno contagi. Le condizioni di spostamento non sono però migliorate, nemmeno dopo il 21 febbraio e la scoperta del focolaio di Codogno. Nonostante l’attuale calo fino all’80 per cento dei passeggeri, su direttiva della Regione le aziende di trasporto hanno ridotto le corse fino al 40-60 per cento rispetto ai normali giorni feriali. Il risultato è finito nelle cronache locali: tra tagli e cancellazioni, migliaia di dipendenti delle filiere che non possono chiudere o trasferire il lavoro in remoto sono dovuti salire su treni, tram e autobus pericolosamente affollati ancora nella seconda settimana di marzo. Un ulteriore favore all’epidemia, visto che nemmeno chi è costretto a muoversi trova mascherine per proteggersi. Cosa sia probabilmente accaduto tra gennaio e febbraio sui mezzi pubblici della Lombardia lo spiega indirettamente una ricerca pubblicata il 17 marzo da un gruppo di scienziati americani sul “New England Journal of Medicine” di Boston: il virus Sars-Cov-2 è sopravvissuto come aerosol nell’aria «durante la durata del nostro esperimento (tre ore)», con una riduzione della conta virale dell’84 per cento. Mentre è stato rilevato vivo dopo 72 ore sulla plastica e 48 ore sull’acciaio inossidabile, anche se con una forte riduzione della conta virale del 99,9 per cento. Lo stesso studio dimostra anche la sopravvivenza del virus sul cartone fino a 24 ore. «Il nostro risultato», spiega Neeltje van Doremalen del National Institute of Allergy and Infectious Diseases degli Stati Uniti, «indica che la trasmissione aerea e per contatto con materiali è plausibile, poiché il virus può rimanere vitale e infettivo in aerosol per ore e sulle superfici per giorni». L’esperienza di Wuhan insegna infatti che nell’ambiente chiuso di metropolitane e treni affollati il rischio di contagio aumenta del sessanta per cento. A inizio febbraio nessuno in Lombardia può sospettare che il virus probabilmente si sta già diffondendo sui mezzi pubblici e da qui nella vita quotidiana: più che nei luoghi di lavoro, dove non sempre i contatti sono ravvicinati, si propaga lentamente in famiglia, nei corpo a corpo di alcuni sport nel tempo libero e nei luoghi pubblici come centri commerciali, bar e ristoranti. Il 6 febbraio però un fatto casuale costringe centinaia di migliaia di pendolari a rapporti ancor più ravvicinati e per più giorni sui treni e nelle stazioni. Viaggiano tutti lungo la direttrice Sud di Milano tra Piacenza, Codogno, Lodi verso la città metropolitana: la stessa area del primo focolaio. Quella mattina a Ospedaletto Lodigiano deraglia il Frecciarossa da poco partito dalla stazione Centrale. Ma il virus non incontra soltanto poliziotti, ferrovieri e soccorritori che accompagnano i feriti negli ospedali della zona. La linea ad alta velocità viene chiusa e dal 6 febbraio, per giorni, i treni da e per Roma sono deviati sulla vecchia ferrovia. Molti treni regionali vengono così cancellati e i pendolari sono costretti ad ammassarsi su quelli che restano. La coincidenza con i territori del primo focolaio non sembra casuale. Un’accelerazione all’epidemia che ancora oggi segna la differenza tra la Lombardia e le regioni confinanti di Piemonte e Veneto. Ma anche tra la provincia di Piacenza, pesantemente colpita, e il resto dell’Emilia Romagna. «È un’ipotesi che approfondiremo dal punto di vista epidemiologico. Non solo stili di vita, anche episodi casuali sono determinanti nello scoppio di un’epidemia», spiega un medico di base della zona: «In Lombardia probabilmente il contagio si stava diffondendo alla stessa velocità delle altre regioni del Nord. Da noi a un certo punto l’incidente del Frecciarossa ha costretto negli stessi spazi migliaia di pendolari. E per questo solo qui c’è stata l’accelerazione dei casi che ha fatto scoprire il primo paziente. A quel punto la diffusione dei tamponi alle altre province lombarde, come Cremona e Bergamo, ha rivelato quello che era in incubazione da giorni». Gli orizzonti infuocati, come il pomeriggio del 15 febbraio, sono l’indizio di un’altra condizione che probabilmente ha favorito il virus più in Lombardia che altrove. Gennaio e febbraio hanno regalato tramonti spettacolari. Ma i colori intensi dell’atmosfera sono anche sintomo di un forte tasso di inquinamento. Alta pressione costante, inversione termica e totale assenza di vento per settimane: lo scorso inverno l’aria è stata così irrespirabile che molte squadre sportive lombarde hanno sospeso gli allenamenti o li hanno trasferiti al chiuso. Per diversi giorni la concentrazione di PM10, il materiale particolato con dimensione inferiore a 10 millesimi di millimetro che penetra nei nostri polmoni, ha raggiunto gli 80-100 microgrammi per metro cubo d’aria in molte centraline della Pianura Padana, fino al doppio del limite di legge. Livelli pericolosi anche per il PM2,5 e il diossido di azoto, derivato dai gas emessi dagli impianti di riscaldamento e dal traffico. La stretta relazione tra virus e inquinamento è dimostrata da anni. Ed è stata ricordata in questi giorni da un rapporto della Società italiana di medicina ambientale. «È noto che il particolato atmosferico funziona da vettore di trasporto per molti contaminanti chimici e biologici, inclusi i virus», dice Leonardo Setti, ricercatore dell’Università di Bologna che ha firmato il documento con colleghi di Bari, Trieste e Milano: «I virus si attaccano, con un processo di coagulazione, al particolato atmosferico, costituito da particelle solide e liquide in grado di rimanere in atmosfera». Ovviamente è molto più probabile il contagio tra persone e per questo al momento non resta che rimanere fermi. Ma della relazione tra inquinamento e virus bisognerà tenerne conto fino a quando l’epidemia di Covid-19 non sarà eradicata. Già nel 2010 le Università cinesi di Pechino e di Lenzhou hanno dimostrato la stretta correlazione tra particolato, condizioni meteorologiche e casi giornalieri di morbillo nel periodo tra il 2005 e il 2009. Gli scienziati hanno calcolato le infezioni innescate dai singoli inquinanti, la percentuale di aumento dei casi e il relativo ritardo in giorni. Uno studio americano del 2008, intitolato “Air pollution end respiratory viral infection” e firmato da Jonathan Ciencewicki e Ilona Jaspers della University of North Carolina, potrebbe invece aiutare a comprendere come il virus partito da Wuhan per conquistare le vie respiratorie sfrutti inquinanti come il particolato, il diossido di azoto e l’ozono, veleni di cui è ricca l’aria lombarda. Così come quella della metropoli cinese di undici milioni di abitanti. I ricercatori hanno messo in relazione condizioni atmosferiche e ricoveri in ospedale. Viene anche citata un’indagine eseguita a Roma per tre anni e pubblicata nel 2001: «Gli autori osservano che gli stessi livelli giornalieri di diossido di azoto erano significativamente associati a ricoveri per infezioni respiratorie». Queste le percentuali: da un +4 per cento per le infezioni acute a un +10,7 per cento per l’asma nei bambini. Gli scienziati americani spiegano anche come la quantità di virus necessaria a infettare i topi di laboratorio esposti al diossido d’azoto sia cento volte inferiore rispetto ai topi che hanno respirato aria pulita: sono bastati appena due giorni di esposizione per sei ore al giorno ad ottenere il risultato. Anche il particolato apre il corpo ai virus che provocano infezioni respiratorie. Nel 2004 è stato dimostrato come un incremento di PM di 10 microgrammi per metro cubo nel corso degli anni provochi un aumento del rischio di mortalità per polmonite e influenza. E come un picco di 60 microgrammi per metro cubo faccia aumentare del 27 per cento le infezioni virali alle vie respiratorie nei bambini (laringofaringotracheiti). Altre ricerche, citate nello studio del 2008, hanno poi esaminato gli effetti di PM10 e PM2,5 sui macrofagi del nostro sistema immunitario e sulla conseguente riduzione della loro risposta alle infezioni. Anche se non si conosce ancora molto del rapporto tra Sars-Cov-2 e inquinamento, bisogna subito pensare al futuro: serviranno decisioni radicali perché l’epidemia non si ripresenti con il prossimo inverno.
Giancarlo Dotto per il Corriere dello Sport il 27 marzo 2020. Siamo di fronte a un virus nuovo che stiamo imparando a conoscere real time, in tempo reale, giorno dopo giorno, rispetto al quale sono molti ancora gli aspetti da decifrare. “Primo tra tutti la patogenesi e cioè la natura del danno profondo che il virus induce nei polmoni” dice Francesco Le Foche, medico immunologo, responsabile del day hospital di immuno-infettivologia del policlinico Umberto I di Roma. È stato lui il primo in Italia a ipotizzare la partita Atalanta-Valencia del l9 febbraio a San Siro come una delle principali concause che hanno fatto da moltiplicatore del contagio di quella che lui ha chiamato da subito l’”anomalia Bergamo”. La sua tesi, a proposito di Atalanta-Valencia come la bomba biologica che avrebbe scatenato il contagio di Bergamo, ripresa da tutti i media del mondo, è stata rilanciata da autorevoli colleghi ed esperti. “Bastava rifarsi alla Storia. L’evento che ha determinato la pestilenza del diciassettesimo secolo, il grandioso festeggiamento che Filippo IV fece in Lombardia per la nascita del figlio Carlo, è l’equivalente, a distanza di secoli, dell’Atalanta-Valencia dei nostri giorni. L’acme della festa coincide con la morte collettiva. Ma c’è un’altra informazione fondamentale che abbiamo trascurato”.
Vale a dire?
“Sia Manzoni che Camus, che a sua volta, nel suo “La Peste” del 1947, si è rifatto molto al Manzoni, raccontano che il paziente da contagio non è stato ospedalizzato, ma trattato fuori le mura. Anche questa lezione è stata ignorata. Noi abbiamo fatto esattamente il contrario. Un grande errore”.
Un grande errore ricoverare i malati di Covid 19 in ospedale?
“Assolutamente. Il paziente va ospedalizzato nella singola malattia ma, nei casi di epidemia, va trattato fuori dall’ambiente ospedaliero. Questo per evitare il sovraffollamento ad alto rischio in un ambiente angusto. Gli scambi umani in ospedale sono favoriti e il numero dei contagi amplificato”.
Che significa ai giorni nostri trattare il paziente da epidemia fuori le mura?
“Significa trattarlo a casa, come stanno facendo in Canada. Medici che vanno a domicilio dei pazienti. Avremmo dovuto approntare un protocollo domiciliare per evitare che le persone affollassero gli ospedali, con tutte le conseguenze del caso. Dentro le mura di un ambiente angusto è come fare l’aerosol del virus. C’è una nebulizzazione del virus”.
Un errore macroscopico, insomma, ospedalizzare l’epidemia.
“Macroscopico e strategico. I canadesi sono stati più acuti di tutti. Avrebbe voluto adottarlo anche l’Inghilterra questo metodo, ma non è riuscita. Ci sta pensando anche Trump. L’idea è che, se chiudiamo tutto, non moriamo di Coronavirus ma di altro. Salviamo la generazione attuale ma facciamo tabula rasa del resto”.
Il nuovo allarme rosso oggi sta nel numero dei medici che si stanno ammalando di Covid 19.
“Paradossalmente questa pandemia intraospedaliera potrà determinare gli anticorpi necessari nel personale sanitario e renderli immuni. Probabilmente, quando questo avverrà la pandemia non ci sarà più. Occorre intervenire oggi, subito, per togliere pressione agli ospedali e al personale sanitario. Sono morti quasi cento medici e non so quanti operatori sanitari”.
Cosa si può fare oggi e subito in Italia?
“Oggi è giustissimo mantenere il distanziamento umano. Non si può tornare indietro ma, allo stesso tempo, bisogna sfollare gli ospedali. Che non significa abbandonare a se stessi i pazienti ma consegnarli a una terapia domiciliare. Oggi molti pazienti muoiono a casa, senza che i medici lo sappiano. Morti non registrati, che non rientrano nelle statistiche”.
Abbiamo gli uomini e le risorse per organizzare questa terapia domiciliare? “Va organizzata una medicina del territorio. Tutto l’esercito sanitario oggi è all’interno degli ospedali. Questa strategia non ha portato grandi risultati. Abbiamo perso tante vite. Nelle epidemie c’è sempre una sottovalutazione iniziale, ma oggi abbiamo il massimo della tecnologia. Eppure, siamo ricaduti nell’errore catastrofico di far morire il malato epidemico all’interno degli ospedali”.
Quanto occorre per avviare questa nuova strategia?
“Mi risulta sia già in corso una sperimentazione di questo tipo”.
I termini chiave di questo protocollo domiciliare?
“Intervenire nella prima settimana è fondamentale con il paziente paucisintomatico, cioè con pochi sintomi, come potrebbe essere per capirci il Borrelli di oggi, con una lieve febbre”.
In pratica?
“Gli fai il tampone finché il danno è scarso. Nei primi tre giorni il danno citopatico è del virus che si lega ai recettori dei polmoni e distrugge le cellule. Nei giorni seguenti, dai quattro ai sette, il sistema immunitario reagisce, lancia allarme. L’esercito immunitario cerca di distruggere il virus che sta all’interno della cellula”.
Un inferno, detto così.
“A questo punto c’è una sovrapposizione del danno, Il sistema immunitario usa il bazooka per uccidere il virus, ma così uccide anche la cellula, cioè l’abitazione. Se noi lasciamo a casa la persona senza fare nulla nei primi dieci giorni, quando arriviamo è quasi sempre tardi. Ospedalizziamo il paziente, spesso non salvandolo e creiamo un ulteriore contagio. Trattando, invece, il paziente a casa possiamo ridurre di almeno il cinquanta per cento l’accesso agli ospedali, riducendo allo stesso tempo mortalità e contagio”.
Sintetizzando?
“Tre gli snodi fondamentali. 1) le epidemie vanno trattate fuori degli ospedali, come la storia insegna, 2) il paziente va trattato a domicilio 3) trattandolo a domicilio nei primi sette giorni riduci il danno, il contagio e le morti”.
Sulla base delle informazioni attuali che scenario si sente di prefigurare in Italia?
“Prevedo che intorno alla fine di maggio in Italia il contagio si dovrebbe ridurre e quasi azzerare. Dovremmo riaprire tutto tra la fine di maggio e i primi di giugno. Se riuscissimo ad attuare questo protocollo domiciliare potremmo anticipare i tempi. Quest’epidemia va rappresentata come un gigantesco esperimento socio-sanitario a livello planetario. Uno specchio estremo delle nostre grandezze e delle nostre miserie. Anche in ambito sanitario, vedi chi dà il massimo e chi gira a vuoto, gente affetta da una ipercinesia inconcludente che si nasconde dietro una finta azione”.
Intanto l’angoscia si diffonde tra la gente reclusa a casa.
“La comunicazione è fondamentale. Dobbiamo dare un messaggio propositivo, non diffondere solo numeri come nei bollettini di guerra. Messaggi che suonano di rassegnazione passiva. Dobbiamo dare notizia delle idee che possono migliorare lo status quo. Spiegare che questa brutta faccenda si chiuderà in un arco ragionevole di tempo. Senza illudere, ma senza nemmeno lasciare nell’indeterminatezza. E insistere sugli aspetti positivi. Eravamo entrati in un contesto di fatuità, questo esperimento socio sanitario aiuterà molti di noi a ritrovare valori profondi”.
C’è il bombardamento dei messaggi via whatsapp, anche questo virale.
“Questa è la vera patologia mediatica: persone che inconsciamente vogliono l’apoptosi, la morte programmata dell’umanità a livello planetario. Gente angosciata che semina angoscia”.
Altri messaggi positivi?
“Va messo in risalto che oggi esiste un test che può valutare con certezza le persone che hanno sviluppato questi anticorpi tipici di chi avuto e superato il Coronavirus. Non sappiamo se ciò le rende immuni, anche se tutto fa pensare che si va in questa direzione”.
Natascia Ronchetti per il “Fatto quotidiano” il 25 marzo 2020. Un altro picco. Medici e infermieri contagiati continuano ad aumentare. Ieri sono saliti a 5.760, più 549 rispetto al giorno precedente. Un balzo del 10,5% in ventiquattr' ore. Nel solo Lazio si contavano ieri altri 51 camici bianchi infettati, tra ospedalieri, medici di famiglia e del 118. Di questi circa otto del reparto di oculistica dell' ospedale Sant' Eugenio di Roma: tutti positivi insieme a una decina di infermieri, il reparto è stato chiuso. Ora alcuni sono ricoverati allo Spallanzani, altri in isolamento a casa. E si allunga l' elenco dei morti, aggiornato quotidianamente dalla Federazione degli Ordini dei medici: 25 vittime. L' ultima di questo drammatico bollettino di guerra si chiamava Domenico De Gilio, aveva 66 anni ed era medico di medicina generale a Lecco. Il fatto è che la percentuale di operatori sanitari infettati, sul totale dei contagiati, è più del doppio di quella del resto del mondo: 8,9% (contro un 4% circa), con punte del 13% a Roma e del 12% in Lombardia. Numeri impressionanti che, a fronte della carenza degli adeguati dispositivi di protezione individuale, potrebbero indurre molti medici a rifiutarsi di andare al lavoro. La minaccia è già arrivata in Piemonte dagli operatori del 118. Hanno scritto a Chiara Rivetti, segreteria regionale dell' Anaoo (il sindacato dei medici dirigenti); hanno spiegato che se continueranno a mancare le mascherine filtranti non assicureranno tutte le prestazioni d' urgenza. "Anche se adesso, dopo le diffide e gli esposti che abbiamo fatto, una prima scorta è arrivata - dice Rivetti -. Ma basterà per due o tre giorni e non di più". Un problema che si aggiunge alla contestata disposizione che impone ai medici e agli infermieri venuti in contatto con un paziente a rischio o infettato di tornare in corsia se asintomatici. Ieri la Regione Emilia-Romagna ha alzato il tiro con una direttiva che dà il via libera al rientro in ospedale del personale sanitario asintomatico anche se positivo, provocando una levata di scudi. Solo il rapido dietrofront del commissario ad acta Sergio Venturi, ex assessore regionale alla Salute ("Sicurezza prima di tutto, faremo chiarezza", ha detto), ha evitato in extremis una sollevazione. Intanto emergono altre falle nei decreti sull' emergenza sanitaria approvati fino ad ora. Come quella che, secondo il personale medico, è stata aperta dall' articolo 34 del decreto del 2 marzo scorso, che consente di "fare ricorso alle mascherine chirurgiche quale dispositivo idoneo a proteggere" gli operatori sanitari. "Norma ambigua - osserva ora il segretario nazionale dell' Anaao Carlo Palermo -, con la quale il governo ha cambiato direzione. La situazione non è più sostenibile, c' è il rischio, in queste condizioni, che qualcuno possa anche rifiutarsi di operare. C' è stata fin da subito una sottovalutazione dell'epidemia, nessuno era preparato ad affrontare un problema di questa portata. Bisogna intervenire subito". Ma c' è un' altra questione che sta venendo a galla. Molti medici impegnati in reparti non Covid in questi giorni vengono precettati per aiutare i colleghi in prima linea, perché manca personale. Ortopedici, chirurghi, pediatri. Si ritrovano a trattare pazienti che richiedono invece infettivologi, pneumologi, anestesisti. Nessuno può rifiutarsi: è stabilito dalla legge e dallo stesso codice deontologico dei medici. Ma che succede se qualcuno commette un errore mentre sta prestando cure a un paziente? Certo, i medici sono assicurati. Ma non è detto che in ambito civilistico possano vedersi riconosciuta la copertura. "Così - dice Palermo -, prima vengono mandati allo sbaraglio, poi rischiano di pagare di tasca propria il risarcimento dei danni".
Luca Fraioli per “la Repubblica” il 25 marzo 2020. Se è vero che in Lombardia gli ospedali sono stati tra i focolai dell' epidemia, è proprio sulle strutture sanitarie che si deve intervenire per evitare che l' incendio divampi nel resto del Paese. Che qualcosa non abbia funzionato lo ha ammesso Massimo Galli, primario del reparto di Malattie infettive dell' ospedale Sacco di Milano, uno degli esperti più ascoltati in questi giorni di crisi. Lo hanno scritto nero su bianco, in una lettera al New England Journal of Medicine , i medici del Giovanni XXIII di Bergamo. Lo dimostrano i numeri dei contagiati tra il personale sanitario: più di 5000, quasi il 10 per cento di coloro risultati positivi al tampone, percentuale che in Lombardia sale al 12. Lo confermano le elaborazioni di Enrico Bucci, professore di Biologia dei sistemi alla Temple University di Philadelphia: «In condizioni normali, all' inizio dell' epidemia da coronavirus, ogni contagiato ne infetta in media altri 2,5. In alcuni ospedali lombardi questa capacità di contagio è stata compresa tra 6 e 7», spiega Bucci. Dunque, un malato di Covid-19 arriva al Pronto soccorso e infetta altre sette persone, tra pazienti, medici e infermieri. Ciascuna di queste ne infetta altre sette e così via: in poche ore quel caso iniziale ne innesca centinaia. «Purtroppo la normale organizzazione di un ospedale non è adatta a fronteggiare un virus che si trasmette per via aerea e con un alto tasso di contagiosità, anzi spesso fa da centro di diffusione», ammette Pierluigi Lopalco, professore di Igiene all' Università di Pisa e ora consulente della Regione Puglia per l' emergenza coronavirus. «Paradossalmente, in questo momento in cui tutta Italia è chiusa in casa, gli ospedali sono gli unici luoghi dove migliaia di persone si ritrovano a stretto contatto. Anche lì andrebbero prima di tutto ridotte le relazioni interpersonali, per esempio rendendo impossibili i passaggi da un reparto all' altro». Negli ospedali lombardi, travolti dall' onda di piena dell' epidemia, non è stato possibile. Così come sono saltate le precauzioni che si mettono in atto per arginare la diffusione di un virus nelle corsie. «Nelle strutture specializzate in malattie infettive è la prassi, ma in un ospedale generale non sempre si fa attenzione a certe procedure», ammette Giuseppe Ippolito, direttore scientifico dello Spallanzani di Roma. «Dovremo fare una riflessione approfondita su quanto è successo». «Temo che in Italia manchi la cultura per affrontare le epidemie», sostiene Andrea Crisanti, microbiologo dell' Università di Padova e consulente della Regione Veneto per l' emergenza Covid-19. «Le persone che ci hanno consentito di uscire dalla malaria, dal tifo e dal colera purtroppo non sono più tra noi, altrimenti questa epidemia avrebbe avuto un' altra storia». Anche il professor Lopalco sottolinea la scarsa attenzione che finora si prestava a certe procedure negli ospedali italiani. «Fui criticato quando, mentre l' epidemia esplodeva in Cina, dissi: chissà cosa succederà in Italia con la cultura del controllo delle infezioni e dell' igiene che c' è nei nostri ospedali ». Intende dire che sono sporchi? «No, mi riferisco per esempio alla scarsa abitudine del personale a lavarsi le mani. Se si vanno a guardare le statistiche dell' Oms, si scopre che il consumo di gel disinfettante negli ospedali italiani è abbastanza basso rispetto agli standard. Le norme prevedono che un medico si lavi le mani dopo aver visitato ogni singolo paziente ». Anche per il professor Bucci «i medici non sono preparati, perché da generazioni non hanno visto un' epidemia come questa. C' è urgente bisogno di un cambio di mentalità, che coinvolga e tuteli principalmente il personale sanitario e le strutture ospedaliere». Anche perché con 400 operatori sanitari che si ammalano ogni giorno si rischia di non avere abbastanza truppe per combattere il virus. Ed ecco allora la ricetta di Bucci: test continui a tutto il personale sanitario, identificazione dei medici immuni da utilizzare nelle zone a rischio, utilizzo di personale ausiliario meno esperto per il controllo degli accessi, delle procedure di sicurezza e per la vestizione dei medici, preparazione di strutture residenziali dedicate per il personale medico. «Noi in Puglia ci stiamo provando », dice Lopalco. «Con percorsi differenziarti per i malati di coronavirus. Nei nostri ospedali ormai si accettano solo le urgenze, ma ogni malato va trattato come se fosse positivo. Anche chi arriva per una frattura deve indossare la mascherina».
Il docente di igiene: "Possibili contagi anche nelle case". Rispettare le misure di contenimento anche in famiglia. Il professor Carlo Signorelli: "I contagi potrebbero avvenire anche dentro le case dove noi abbiamo chiesto agli italiani di rimanere". Francesca Bernasconi, Lunedì 23/03/2020 su Il Giornale. "Cautela anche in casa con un ripetuto lavaggio delle mani e delle superfici". Il professor Carlo Signorelli, docente di Igiene e Sanità pubblica all'Università Vita e Salute San Raffaele di Milano, lo aveva già sottolineato nei giorni scorsi. E ora, in un'intervista a Libero, ribadisce le buone norme da seguire anche in casa, per prevenire i contagi da nuovo coronavirus. "Le mani non solo devono essere lavate spesso- specifica il docente- ma anche bene e per almeno 30 secondi. Questa operazione ci tutela anche dal remoto rischio di contaminazione di superfici o altri oggetti". Poi ci sono "le altre cautele", che devono essere adottate anche tra i familiari, come "la distanza tra persone e l'attenzione a tosse e starnuti". Per le superfici, invece, "è sufficiente una buona pulizia ed eventualmente disinfezione delle parti infette", qualora in casa ci sia una persona risultata positiva la Covid-19. Provvedimenti che sarebbe bene adottare anche in casa, data la possibilità della presenza di asintomatici positivi che, inconsapevolmente, potrebbero trasmettere il virus. È questa, infatti, "una delle ipotesi che spiegherebbe l' aumento dei casi nonostante le misure generali di mitigazione intraprese. Se questo numero fosse rilevante i contagi avverrebbero dentro le case dove noi abbiamo chiesto agli italiani di rimanere". Ma, nonostante questo, non sarebbe possibile "tecnicamente" fare il tampone a tutti: "Si sta facendo fatica a fornire i risultati in tempi utili per i pazienti con sintomi, come ci riferiscono dai laboratori accreditati". Ma, aggiunge Signorelli, "in alcuni gruppi può avere invece senso e comunque, finita la fase emergenziale, potrebbe essere utile non solo fare i test diagnostici ma anche quelli sierologici, se validati, per le titolazioni anticorpali che darebbero un' idea di che proporzione della popolazione è venuta a contatto col virus". Adesso, "tutti si aspettano un calo rilevante entro pochissimi giorni". In caso contrario, significherebbe "che ci sfugge qualcosa nella ricostruzione epidemiologica di questa infezione". Ma, precisa il docente di igiene, è difficile capire quando ci sarà il picco, perché "ci mancano alcuni dati fondamentali, ossia non sappiamo oggi quale quota della popolazione si è infettata giacché in alcuni casi la sintomatologia clinica è lieve o addirittura assente. Teniamo poi conto che i picchi potrebbero essere diversi nelle diverse aree del Paese che sono state colpite con uno sfasamento temporale". Una previsione è quindi difficile e, per questo, è bene continuare ad osservare le misure di prevenzione, sia fuori che dentro le nostre case. Per il momento, secondo Signorelli, il virus non è andato incontro a mutazioni e, se questo dovesse accadere, "speriamo vada nella direzione di una variante meno aggressiva". Anche perché, se il virus dovesse diffondersi al Sud, come è successo al Nord, si andrebbe incontro a "una situazione complicatissima per le insufficienze dei sistemi ospedalieri in alcune regioni". Anche perché, per arrivare a un vaccino, "sempre che si possa scoprire un vaccino davvero efficace", ci vorrà tempo. Infine, specifica il docente di Igiene, c'è il rischio di un'ondata di ritorno: "Nel giro di qualche mese- conclude- se non ci sarà un calo col caldo, il coronavirus potrebbe ripresentarsi, se dovesse trasmettersi meno nella stagione estiva".
Gianluca Schinaia per ''Avvenire'' il 20 marzo 2020. Quando ricostruiremo come tutto è cominciato, adottando un quadro d' insieme e non un singolo dettaglio, sarà chiaro che la pandemia di coronavirus è nata dallo stress che l' Antropocene (l' era geologica attuale, che risente degli effetti dell' azione umana) ha inflitto agli ecosistemi planetari. Sarà poi evidente che questa pressione, più che danneggiare la Terra, possa ledere l' esistenza della comunità umana così come la conosciamo. Proprio come stiamo vedendo in questi giorni. E così un virus che rispetto ad altri già visti è più contagioso che mortale, nell' era della globalizzazione - finanziaria e non sociale - ha la forza di far saltare i nostri fragili equilibri socioeconomici. E forse donarci una nuova comprensione. Quando ricostruiremo come tutto è cominciato, adottando un singolo dettaglio e non un quadro d' insieme, penseremo ad un animaletto che nel nostro immaginario narrativo, da Dracula a Batman, è demone o salvatore: il pipistrello. Inconsapevolmente, è stato lui l' ospite originale del coronavirus che poi attraverso il contatto con un altro animale è arrivato all' uomo. E non solo: sempre il pipistrello ha ospitato per primo Ebola, Sars, Mers. Oltre a questi virus, secondo uno studio recente condotto da un team di ricercatori dell' Università La Sapienza, anche Zika, H1N1 sono pandemie di origine zoonotica: trasmesse cioè dagli animali, soprattutto selvatici (come raccontato da Michela Dell' Amico su "People for Planet"). La diffusione del coronavirus è avvenuta, proprio come la Sars nel 2003, attraverso i "mercati umidi" cinesi, dove sono venduti animali macellati di vario tipo: ad esempio pesci, polli, asini, ricci o serpenti. Questione di igiene pubblica o pura sfortuna? No, è il nostro modo di vivere ad essere veicolo di queste malattie infettive. "Nostro": sia lo stile di vita occidentale che orientale concorrono a creare le cause di diffusioni virali che possono avere diffusioni pandemiche. Perché questi presupposti sono molto più profondi e complessi e riguardano i principi di sostenibilità della vita umana. L' Unep (United Nations Environment Programme) ha scritto chiaramente nel rapporto "Frontiers 2016" che le zoonosi (malattie trasmesse dagli animali all' uomo) «sono in aumento, mentre le attività antropiche continuano a innescare distruzioni inedite degli habitat selvatici (...) e minacciano lo sviluppo economico, il benessere animale e umano e l' integrità degli ecosistemi ». Come ci racconta l' attualità, queste affermazioni del 2016 non erano allarmistiche. L' Unep stima poi che nel corso degli ultimi vent' anni le malattie emergenti hanno avuto un costo di oltre 100 miliardi di dollari e che «questa cifra passerebbe a diversi miliardi di dollari se le epidemie si trasformassero in pandemie umane». La nostra storia ci racconta che le esplosioni virali non sono una novità di questo secolo. Ma dal secondo Dopoguerra, in quella fase di espansione umana che gli studiosi ambientali chiamano "The Great Acceleration", alcune condizioni sono cambiate e hanno contribuito alla trasformazione delle infezioni un tempo circoscritte in epidemie e pandemie. Si tratta del sovrappopolamento urbano nelle metropoli, della deforestazione, della grande intensificazione degli allevamenti intensivi, della modifica dell' uso del suolo, del commercio illegale della fauna selvatica: fenomeni - come ha spiegato Mario Tozzi su "La Stampa" - che hanno portato alle migrazioni di molte specie animali e alla contaminazione di habitat umani con microrganismi sconosciuti. E forse non è un caso che i focolai epidemici abbiano trovato terreno fertile in zone molto inquinate, come la provincia di Hubei o la Pianura Padana. D' altro canto, in questi giorni si è parlato molto dei benefici per l' ambiente dovuti allo stallo delle attività umane. In Cina, si sono rivisti cieli azzurri su Pechino e altre grandi città, e le mappe della Nasa hanno mostrato come siano quasi scomparse le tracce di diossido di azoto sul paese del Dragone, dove si sono registrate riduzioni di CO2 di quasi un quarto rispetto alle emissioni ordinarie. E che dire di casa nostra? Il progressivo lockdown che adesso coinvolge l' Italia intera è partito dal Nord dove l' aria di città come Milano e Torino ha già tratto grandissimi benefici. Anche in questo caso, girano mappe che mostrano come l' aria sulla Pianura Padana sia ora più pulita. E Milena Gabanelli nel suo Dataroom ha calcolato che lo stop di «una settimana di riscaldamenti spenti (nelle scuole), due settimane di minor traffico automobilistico e aereo (ed esclusi i consumi di riscaldamento delle aziende chiuse) ammonta ad una minor emissione di CO2 per 428.000 tonnellate». Equivalenti alle emissioni annuali di città come Bergamo o Monza. Uno studio della Società italiana di medicina ambientale (Sima) con le Università di Bari e di Bologna ha dimostrato che il particolato atmosferico, il Pm10, accelera la diffusione dell' infezione di Covid-19: le alte concentrazioni di polveri fini a febbraio in Pianura Padana hanno dato un' accelerazione anomala all' epidemia, soprattutto nelle zone focolaio. Tutti noi vorremmo però tornare al "mondo di prima". Il paradosso è che quello stesso mondo è stato ferito gravemente dalla pandemia che esso stesso ha indirettamente contribuito a innescare, attraverso una globalizzazione che ha inasprito disuguaglianze economiche e condiviso devastazione ambientale. Perché quel mondo era anche quello che correva e inquinava senza coscienza, quello denunciato dai ragazzi dei Fridays for Future e dagli attivisti di Extinction Rebellion. Quello che ci ha portato a registrare l' inverno più caldo mai registrato in Europa dal 1981: 1,4 gradi in più quest' anno rispetto all' inverno 2015-2016, che finora era stato considerato il più caldo in assoluto. Quello che in Italia ha portato al febbraio più caldo di sempre con 2,76 gradi in più e l' 80% di piogge in meno rispetto alla media storica. Quel mondo che sempre secondo l' Oms - che è diventata in questo momento grave un faro in questa notte epidemica - dovrebbe rallentare fino quasi a fermarsi per disinnescare la pandemia di coronavirus è lo stesso dove le calotte glaciali dell' Antartide e della Groenlandia si stanno sciogliendo sei volte più rapidamente che negli anni '90, con due gravi effetti: l' innalzamento del livello dei mari di oltre 70 centimetri entro il 2100 e 400 milioni di persone a rischio di inondazioni costiere che probabilmente dovranno abbandonare le loro case. E questo dramma climatico può comportare un altro effetto oggi molto comprensibile, riassunto da uno studio americano, dal valore emblematico, su un ghiacciaio del Tibet. La ricerca ha rivelato che lì vi sono intrappolati 33 gruppi di virus (dei quali 28 sconosciuti), che con il disgelo verrebbero liberati nell' aria e potrebbero entrare in contatto con le falde acquifere. Ecco, questi sono alcuni dei frutti dello stile di vita del mondo che si è appena fermato. E che fermandosi a causa della pandemia sta ferendo a morte la nostra economia. Una ferita insanabile che deve diventare un' occasione di rigenerazione per affrontare in modo rapido ed efficace la crisi climatica. Anche perché, una volta superata questa profondissima crisi attraverso coraggio, disciplina e razionalità, tutti i finanziamenti possibili dovranno essere volti a salvare le imprese e il nostro tessuto economico. Ma quando ne usciremo, saremo diversi: la nostra visione del mondo sarà cambiata per sempre, coniata da un' esperienza collettiva traumatica e profonda. Che può e deve risvegliare la nostra coscienza. Questa pandemia è una parentesi tragica che può innescare un' opportunità concreta, un' occasione epocale per vincere le grandi sfide del nostro tempo e le principali concause dell' attuale pandemia di coronavirus. Che sono fondamentalmente climatiche e ambientali.
Camilla Mozzetti per “il Messaggero” il 20 marzo 2020. Delle mascherine Ffp2 o Ffp3 (le più utili a proteggere dal virus) non c'è quasi più traccia. E pure quelle chirurgiche ormai sono in via di esaurimento. A tal punto che gli agenti di polizia di molti commissariati (ma anche il personale delle Volanti, della Stradale e della Polfer) - impegnati ogni giorno nel controllo del territorio e nelle verifiche alle disposizioni varate del governo per contenere la diffusione del Covid-19 -, sono arrivati a lavarle con la candeggina per poterle poi indossare ancora. Nulla di più sbagliato. Ma è così che funziona: i più escono ormai di casa al mattino con il volto scoperto e senza protezioni per le vie aeree, restano in strada a verificare veicoli, persone, attività commerciali senza dispositivi di protezione o con mascherine non più utili. C'è pure chi dentro un commissariato ha attivato una colletta per poterle reperire autonomamente e chi si è affidato ai sarti per farsene cucire qualcuna con un minimo di criterio isolante utile a contrastare gli agenti patogeni. Dalla periferia al centro (basta un giro per accorgersene) la situazione ha ormai raggiunto un livello critico. Eppure loro, gli agenti, sono tutti in servizio. Così come i medici, gli infermieri, il personale ospedaliero costretti a un'altra prima linea nella quale operano con le dotazioni ormai agli sgoccioli. Al commissariato Aurelio ci sono 30 mascherine a disposizione, ne servirebbero però altrettante ogni giorno. A Spinaceto - nello stesso presidio dove si è ammalato un vice ispettore - sono rimaste appena 12 mascherine Ffp3 su circa 70 agenti in servizio. A Monteverde i dispositivi sono finiti, ma continuano a lavorare 35 agenti. Al Celio le mascherine sono una decina a fronte di un fabbisogno di 35 pezzi ogni giorno. E così via, su tutta Roma. Negli uffici ormai nessuno le indossa più perché quelle poche che restano devono essere riservate a chi esce e va in strada. Ma i conti non tornano lo stesso. Ai commissariati Esquilino e San Lorenzo le dotazioni sono pari a zero e pure ne servirebbero 30 al giorno. A Trevi le mascherine servono a coprire il volto della metà degli agenti in servizio: 30 su 65. E lo stesso accade a San Basilio dove per 40 mascherine al giorno ce ne sono appena 20. Critica la situazione anche al commissariato Tuscolano: 8 dispositivi disponibili a fronte di 60 agenti. Non va meglio per la stradale di Roma Sud, il cui personale (34 agenti) può contare 10 mascherine chirurgiche e solo 6 dispositivi Ffp2, né per quella di Settebagni: 35 protezioni totali a fronte di 60 uomini. E pure la Polfer della stazione Termini è in sofferenza: qui ogni giorno servirebbero più di 130 mascherine ma le scorte sono ormai in esaurimento e quelle che ci sono, bastano fino al weekend. Stesso canovaccio per il personale delle Volanti. Poi? La Questura fa sapere che i dispositivi di protezione «Sono distribuiti a tutti quelli che fanno servizi all'esterno». «La situazione per la fornitura dei Dpi - commenta Saturno Carbone segretario generale del Siulp Roma - sta diventando effettivamente preoccupante. La carenza delle mascherine sia chirurgiche che Ffp3 utili in caso di interventi a rischio conclamato, è effettiva in quasi tutte le articolazione della Capitale. Nonostante l'impegno incessante del Capo della polizia, del Questore ed i dispositivi fino ad ora rivelatisi abbastanza funzionali messi a punto dalla direzione centrale di sanità, il rischio per gli operatori della sicurezza è veramente elevato». Anche perché l'impegno delle forze dell'ordine non mette al riparo in automatico gli agenti da un nemico invisibile. Che tra l'altro ha già colpito alcuni poliziotti. «Anche per questo, come varato dalla Regione Marche - conclude Carbone - sarebbe auspicabile che tutti gli agenti di polizia fossero sottoposti ai tamponi e magari contribuire a dotarli di kit preventivi».
Non è l'Arena, il medico di Copertino: "Il paziente 1 un anestesista, forse qualcuno doveva pensarci". Libero Quotidiano il 23 marzo 2020. Una testimonianza struggente, quella mostrata a Non è l'arena di domenica 22 marzo. Il programma di Massimo Giletti, in un servizio firmato da Danilo Lupo, ha infatti intervistato un medico dell'ospedale di Copertino, in provincia di Lecce, dove il focolaio sarebbe stato generato da un anestesista. "Tutti i pazienti sono risultati positivi. Il paziente 1 è stato un anestesista", ha premesso e confermato il medico. E ancora, ha aggiunto: "Sono certo che il mio contagio sia avvenuto in Ospedale, non ho riconosciuto la persona che mi ha infettato, eravamo in urgenza, io pensavo a lavorare, qualcun altro doveva pensare a farmi lavorare bene". Un'accusa, quest'ultima, non troppo circostanziata ma che fa comprendere in che condizioni spesso si trovino a lavorare gli operatori sanitari.
Covid e caos, in Sardegna interi reparti contagiati. Medici senza mascherine: le denunce e i documenti che lo provano. Antonella Loi per notizie.tiscali.it il 21 marzo 2020. Dopo la Procura della Repubblica di Tempio Pusania, anche i pm di Sassari hanno aperto un fascicolo di indagine sui contagi fuori controllo avvenuti all'interno dell'ospedale della provincia sarda. Tamponi fatti a tappeto su medici, infermieri e pazienti di interi reparti, a seguito della crescita esponenziale del numero degli infetti da Coronavirus, ha indotto i magistrati ad avviare un'indagine per il momento contro ignoti. I dati dicono che la provincia del Nord Sardegna segue un trend doppio rispetto a quello nazionale: il numero dei contagiati al 19 marzo è di 134, su un totale di 206 casi in tutta l'Isola (saliti a 293 il 20 marzo, ndR). Molti di questi sono sanitari in trincea - è proprio il caso di dirlo - dell'ospedale sassarese. Ma altre positività consistenti si rilevano nell'ospedale di Olbia, dove sono stati contagiati 15 tra medici infermieri e pazienti del reparto di Terapia Intensiva, ancora nella struttura di Nuoro, dove si contano almeno 16 infetti, e diversi casi in due diversi nosocomi cagliaritani. Ce n'è abbastanza per dipingere il quadro preoccupante della sanità isolana che, come sembra accadere in tante altre parti d'Italia, è apparsa drammaticamente inerme di fronte all'avanzare del virus. I documenti che provano l'emergenza. Cosa sta succedendo? All'indice soprattutto la mancanza di Dpi (dispositivi di protezione individuali) necessari per preservare dal rischio contagio il personale medico e sanitario, e di conseguenza i pazienti, delle strutture ospedaliere, dove scarseggia anche l'essenziale: mascherine, calzari, tute, grembiuli e occhiali. Laddove si dovrebbe dare protezione, oltre alla buona volontà degli operatori, resta davvero poco. Già la scorsa settimana in un ospedale sardo veniva diramata una direttiva interna (foto sotto) con la quale si raccomandava "a tutti gli operatori di utilizzare gli appositi D.P.I. (guanti, occhiali, facciali filtranti, sovracamici etc.) solo quando necessario. Vista l'emergenza in corso - si legge nel documento in mano a Tiscali News - e la limitata disponibilità di Dpi questi devono essere utilizzati solo quando opportuno. Il pronto soccorso - è scritto ancora - ha in carico la funzione di filtro per gli eventuali casi sospetti per Covid-19". E non si tratta di una raccomandazione, bensì un obbligo. La disposizione continua infatti precisando che "i coordinatori dovranno farsi carico di vigilare su quanto sopra detto e segnalare alla direzione l'uso improprio". A una settimana da questa disposizione (datata 11 marzo) e a molti più giorni dalle prime evidenze sulla velocità di diffusione del Covid-19, poco è cambiato. Nel reparto di Pediatria dello stesso ospedale, dove lavorano 7 medici, 14 infermieri, 3 tra Oss e ausiliari, i Dpi in dotazione sono "5+3 mascherine FFP3, 3 Visiere, 5 mascherine chirurgiche con visiera, di cui 3 nello studio dei medici". Lo si legge in un altro documento interno risalente al 16 marzo e che Tiscali News ha potuto visionare (foto sotto). In esso compare anche una nota scritta a penna con la quale si dà conto dell'avvenuta "consegna di altre 20 maschere FF3 totale 28", più "3 tute". E come già in precednza, la direttiva spiega che "nel momento in cui si decide di utilizzare le mascherine FFP3 (da utilizzare solo in caso certo o sospetto di Covid-19) deve essere avvisato il Direttore di struttura, la coordinatrice e la Direzione sanitaria". E questo accade in un reparto di Pediatria, dove "i bambini arrivano spesso con sintomi influenzali che ben potrebbero coincidere con quelli del Coronavirus, ma noi non possimo saperlo", dice una fonte che preferisce restare anonima. Insomma, nostante decreti legge, stanziamenti regionali, sequestri di container carichi di mascherine e tutto il macigno di consapevolezza sulla pericolosità dell'infezione, la situazione in corsia resta invariata.
Lettera pubblicata dal “Fatto Quotidiano” il 22 marzo 2020. Stiamo vivendo un dramma sanitario di enormi proporzioni dalle conseguenze incalcolabili sia in vite umane sia in danni economici, che rattrista profondamente il nostro cuore. Non è il momento di fare polemiche, non è assolutamente questa la mia intenzione, ma vorrei che la gente sapesse qualcosa in più sugli "eroi" infermieri. Gli infermieri sono quelli che - da sempre - si prendono cura delle persone, stanno loro accanto nei momenti più difficili, a loro e alle loro famiglie, di giorno e di notte, 365 giorni all' anno. Li curano, li consolano, li aiutano a guarire il corpo e lo spirito, gli danno la forza di andare avanti. Sono quelli che rischiano la propria vita (e la vita dei loro familiari) tutti i giorni, non solo per il Covid-19, ma anche per l' epatite, la Sars, l' Hiv e tante altre malattie infettive più o meno letali. Sono quelli che hanno lo stipendio bloccato a 1.600 euro da circa 20 anni e lavorano in condizioni sempre peggiori, sempre con meno diritti e più doveri (i sindacati non esistono più), con meno personale, e con le esigenze assistenziali dei pazienti che aumentano sempre di più nel tempo. Sono quelli a cui vengono NEGATE le ferie che invece dovrebbero essere garantire dal contratto collettivo nazionale di lavoro. Tanti colleghi (come me) hanno mesi, se non anni, di ferie arretrate. Sono quelli che di notte vengono chiamati da casa, in urgenza, per salvare una persona dall' infarto e vengono pagati con ben 10 euro netti per un' ora (tanto dura un intervento di angioplastica) di lavoro straordinario. Sono quelli a cui (in tanti ospedali del Nord) non viene fatto il tampone Covid-19 perché insostituibili, specialmente nelle terapie intensive. La nostra soddisfazione-realizzazione non viene dalle istituzioni, che in tutti questi anni hanno distrutto il Sistema sanitario nazionale e hanno demoralizzato e demotivato il personale sanitario, ma dai sinceri ringraziamenti dei pazienti, dal loro sguardo pieno di amore e gratitudine nei nostri confronti. Noi siamo i loro eroi, e loro lo sono per noi. Grazie. Un infermiere del Veneto.La denuncia dei medici: "Massima insicurezza". Alle procure di Sassari e Tempio è ragionevole pensare che si aggiunga presto anche quella di Cagliari, a cui alcuni giorni fa è stato presentato un esposto - arrivato anche all'Ispettorato del lavoro - con il quale l'Anaao-Assomed lamentava "la persistente grave carenza di dispositivi di protezione, in particolare specifiche mascherine con i filtranti respiratori e delle protezioni per gli occhi". Per il sindacato dei medici bisogna spingere perché "le autorità vigilino sulla tutela della salute degli operatori sanitari". A dar man forte intervengono i camici bianchi dell'Ordine di Cagliari, Oristano e Nuoro, che attraverso una nota dei presidenti Raimondo Ibba, Antonio Sulis e Maria Giobbe si dichiarano pronti ad avviare iniziative di autotutela "in mancanza di correttivi" come "la sanificazione di tutti gli ambienti in cui si svolga assistenza alle persone" e "dispositivi di protezione individuali (Dpi) e tamponi ad ogni operatore sanitario". Attività necessarie e indifferibili che ad oggi non sono state ancora eseguite. I rischi li raccontano le cronache.
La Giunta mette il "bavaglio" ai medici. Domande che attendono risposte veloci e che seguono il "diktat" dell'assessore regionale alla Sanità, Mario Nieddu (ben presto imitato dal direttore generale dell'Ausl Romagna, Marcello Tonini ndr), con il quale, silenziando di fatto gli operatori degli ospedali impone che il personale non parli con i giornalisti o attraverso i social: solo la Regione potrà dare informazioni su quanto accade nelle strutture pubbliche. Nella direttiva indirizzata alle Direzioni generali delle Aziende sanitarie, ai direttori dei presidi ospedalieri e ai direttori dei reparti di malattie infettive, si dice infatti che ogni comunicazione sarà controllata e che "si chiede di avviare senza indugio opportuni provvedimenti disciplinari verso chiunque non si attiene strettamente a tale disposizione, ribadendo che qualunque attività comunicativa di codeste aziende deve essere autorizzata da questa Regione".
Giornalisti e medici contro "il bavaglio". Intento chiaro di tacitare l'informazione su quanto accade all'interno degli ospedali pubblici, denunciano l'Associazione della Stampa e l'Ordine dei giornalisti sardi in un comunicato congiunto a difesa "della libera consultazione delle fonti". I giornalisti, è scritto nella nota, "ritengono il provvedimento un tentativo di limitare la libera manifestazione del proprio pensiero. L’art.21 della Costituzione - si legge - non può essere messo in discussione da nessuno, tanto meno in momenti delicatissimi della vita del Paese come quello che stiamo attraversando". Presa di posizione che non è piaciuta nemmeno ai camici bianchi che, come riporta l'Agi, in 11 tra associazioni e sindacati di categoria, compresi l'Ordine dei medici di Cagliari e Oristano, in una nota parlano di "grave atto di censura". E scrivono: "Mentre i nostri medici con tutti gli altri operatori sanitari, schierati in prima linea contro un nemico feroce e invisibile, chiedono, agli amministratori regionali, di essere protetti e difesi per poter svolgere con un po' di sicurezza il proprio lavoro, arriva, invece delle mascherine, un bavaglio". E chiariscono: "Se i medici non possono esprimersi, parliamo noi".
Coronavirus, la denuncia dei medici di Lodi: "Siamo senza mascherine". Libero Quotidiano il 21 Febbraio 2020. Mentre cresce l'allarme per il Coronavirus dopo il caso dell'uomo di 38 anni contagiato e ricoverato a Codogno, i medici di Lodi denunciano la mancanza di mascherine. Secondo il governo era "tutto sotto controllo", non c'era "nessun allarme", l'Italia era "pronta ad affrontare qualsiasi emergenza". Eppure... "Da questa mattina siamo bombardati dalla chiamate dei colleghi medici di famiglia che sono allarmati per i casi positivi di coronavirus e vogliono sapere che cosa devono fare", ha detto Massimo Vajani, presidente dell'Ordine dei Medici della provincia di Lodi. "L'Ordine di Lodi è composto da 180-190 colleghi. Ora ad esempio devo andare a visitare una ragazza con febbre e non ho la mascherina, nessuno ci ha dotato di questi strumenti". Eppure, "quando ci fu il pericolo Sars furono distribuite anche a noi le mascherine. Aspettiamo che qualcuno dalla prefettura ci convochi per capire il da farsi".
Gianni Santucci per il “Corriere della Sera – ed. Milano” il 22 marzo 2020. Il 24 febbraio, pochi giorni dopo l' inizio dell' epidemia, la direzione dell'«Istituto Palazzolo-Don Gnocchi», un pezzo di storia della sanità e dell' assistenza a Milano, convoca una riunione plenaria per i lavoratori. Trecento medici, infermieri e operatori ammassati in una sala, alcuni restano fuori perché vogliono capire. Si aspettano tutti un unico messaggio: al «Don Gnocchi» sono ospitati oltre 700 pazienti, quasi tutti anziani, malati e fragili, e dunque i lavoratori immaginano che la struttura verrà «blindata» per evitare che il coronavirus entri nei reparti, perché tutti si rendono conto che se questo accadesse sarebbe una strage (quella che è avvenuta e il Corriere ha già raccontato per le case di riposo a Mediglia, Affori, o la «Virgilio Ferrari» comunale al Corvetto). E invece accade il contrario: la direzione vieta a tutto il personale di indossare le mascherine, «per non creare panico e pressione su pazienti e parenti», con velate minacce di richiamo disciplinare per chi userà protezioni. «Sembra incredibile - raccontano oggi molti infermieri, e i loro messaggi sono convergenti - ma ci hanno espressamente "vietato" di proteggere i nostri pazienti, e anche noi». Le conseguenze di quella politica si iniziano a vedere in questi giorni: almeno una decina di pazienti Covid-positivi «certificati» da tampone, molti altri con sintomi evidenti del coronavirus, «ogni giorno ne vengono fuori altri» (dicono le testimonianze), e questo accade anche tra medici, infermieri, operatori, perfino il direttore oggi è «positivo». Il primo paziente positivo è stato scoperto l' 11 marzo, ad oggi si cerca di creare delle aree isolate in ogni piano per gli anziani infettati. Nel frattempo però è stata necessaria anche un' altra riorganizzazione: a piano terra è stato allestito un reparto per accogliere i malati dimessi dagli ospedali, circa 35 posti. «Ci è stato detto che si trattava di pazienti guariti, in convalescenza - racconta un medico - mentre in realtà sono persone ancora malate. I posti rimanenti in quel reparto adesso li usiamo per gli "interni", nostri ospiti e operatori». Il contagio è entrato al «Don Gnocchi». Si diffonde. Nessuno può prevedere i danni che provocherà. «Stiamo facendo doppi turni come norma e vogliamo continuare ad assistere i nostri anziani senza infettarli», dicono gli infermieri. Le prime mascherine sono state distribuite il 16 marzo ed è comparso un volantino che raccomanda al personale di chiuderle in un sacchetto di plastica a fine turno per continuare ad usarle. Messaggio («conservate le mascherine») diffuso anche al Pio Albergo Trivulzio, e sul quale la Cisl ha mandato lettere allarmate, ricordando che «tali indicazioni aziendali generano una responsabilità oggettiva», e che la mancanza di protezioni infrange i decreti per contenere l' epidemia e va contro il diritto alla salute, in particolare dei malati anziani.
Lo scandalo: al Sant’Orsola di Bologna sono state inviate mascherine. Ma sono quelle per imbianchini. Massimiliano Mazzanti venerdì 27 marzo 2020 su Il Secolo d'Italia. Riceviamo e volentieri pubblichiamo: Non c’è più nessun problema per le mascherine, si affannano a dire nel governo a ai vertici della Protezione civile. Eppure, anche ieri, in uno dei giorni più “caldi” del fronte emiliano-romagnolo, alla la clinica universitaria Sant’Orsola di Bologna è capitato l’assurdo. Il virologo Pregliasco: «Siamo travolti dall’onda». Chiusura e tempismo utili. Ma i politici sono sulla graticola. Scarpe ai cani per la passeggiata, mezzi pubblici fermi, spesa disciplinata: così la Cina ha vinto sul virus. E noi? Ai sanitari che operano nella “area critica” – dove il Covid gira e i pazienti sono in terapia “cppap” – hanno consegnato mascherine del tipo FFP2. Cioè, le protezioni a uso edilizio, quelle che si indossano per non respirare la polvere quando si costruisce o si vernicia un muro. Per imbianchini – per intendersi- non per medici che lottano per non morire anche loro contagiati. La denuncia viene dagli stessi operatori sanitari del nosocomio bolognese, i quali hanno anche fatto girare la foto della scandalosa fornitura. Dunque, al di là delle insistenti rassicurazioni, proprio il personale sanitario sarebbe ancora esposto a gravi rischio di contagio e di trasmissione del virus. Vanificando gravemente i sacrifici che tutti stanno sopportando per il contenimento del Covid-19.
Mascherine farlocche, esposto alla Procura. La notizia è stata raccolta anche da una consigliera comunale, Francesca Scarano, la quale non ha escluso, in attesa delle risposte politiche, di far seguire all’interpellanza che ha presentato tempestivamente, un esposto alla Procura della Repubblica.
Coronavirus, mascherine da muratore per gli infermieri: «Ma queste non ci proteggono». Sono state distribuite al personale all'Ospedale Fatebenefratelli a Milano. Il sindacato: «Filtrano grandi granelli di polvere e lasciano passare il virus». Gloria Riva il 20 marzo 2020 su L'Espresso. I pacchi di mascherine sono arrivati giovedì mattina all'Ospedale Fatebenefratelli di Milano, uno dei più grandi della città, dove ogni giorni medici e infermieri lottano per salvare vite umane dal coronavirus. Il personale tecnico le ha distribuite, le mascherine, senza prestarci molta attenzione. Poi sono arrivate nelle mani degli infermieri: raggelati. «Sono mascherine da carpentiere, da muratore», spiega Mauro D'Ambrosio, infermiere a sua volta e sindacalista di NursingUp. «Sono mascherine che lasciano scoperto gran parte del volto, che non possono essere utilizzate dai sanitari al Pronto Soccorso, nel reparto di subintensiva, nel reparto di rianimazione intensiva. Di più, sono molto fragili e si rompono facilmente, specie gli elastici. Sono mascherine che filtrano grandi granelli di polvere, ma lasciano passare il virus». E sono pure poche: cento maschere, comunque sufficienti per una sola giornata di lavoro e senza alcuna possibilità di sostituirla durante i massacranti turni di 10 ore. D'Ambrosio ha allertato il responsabile del Pronto Soccorso e ha mostrato il dispositivo di sicurezza: «È rimasto smarrito, quanto me. Ha consigliato di infilarci sotto la mascherina chirurgica. Ho chiamato anche il direttore generale, che è rimasto altrettanto sorpreso. Sono adatte per chi fa l'imbianchino, non per chi lavora a stretto contatto con malati di Covid-19». La protesta di ieri è servita a far arrivare una piccola scorta di maschere ffp2 e ffp3 da altri nosocomi cittadini: sono state distribuite solo agli operatori dei reparti di terapia intensiva. «Ma questa mattina (venerdì) siamo nuovamente punto e a capo. Le maschere stanno terminando e non ne stanno arrivando di nuove», continua il sindacalista D'Ambrosio, che ha fatto partire una lettera di diffida nei confronti dell'azienda ospedaliera. I direttori territoriali degli ospedali rispondono ai sindacati di evitare polemiche in momento difficili come questi. «Ma gli infermieri non sono diventati pazzi d'un tratto. Semplicemente sanno che questi dispositivi non li riparano dall'infezione. In guerra ci andiamo, non abbiamo paura delle malattie, ma con le armi giuste, non allo sbaraglio!», dice D'Ambrosio. Quattro le richieste dei sindacati alle aziende sanitarie e quindi alla Regione Lombardia: «Una corretta informazione preventiva su quello che sta succedendo all'interno delle aziende sanitarie, perché ogni giorno ci sono cambiamenti, spostamenti e non si riesce a capire cosa stia succedendo; La possibilità di sottoporre a tampone i sanitari che abbiano avuto contatti diretti con la malattia o con sintomatologia specifica, altrimenti rischiamo di contagiare tutti i colleghi e chiunque stia loro intorno; comunicazioni ufficiali sul numero di sanitari in quarantena e in malattia; chiediamo infine un supporto psicologico, perché molti stanno crollando».
L'sos dei medici di base: "Costretti a visitare con mascherine per agricoltura". L'sos dei medici di base della Capitale: "Dalla Asl non sono arrivate le mascherine, ci arrangiamo con quelle da agricoltura". Ma i sindacati a avvertono: "Sono inadeguate". Elena Barlozzari, Sabato 21/03/2020 Il Giornale. “Le mascherine? Ci arrangiamo come possiamo, qualcuno le aveva già e le ha distribuite ai colleghi, qualcuno è riuscito a comprarle su internet. Io ed altri ci siamo attrezzati con delle mascherine da agricoltura che proteggono le vie respiratorie”. A parlare è un medico di base della Capitale, uno dei tanti impegnati a fronteggiare l’emergenza coronavirus con mezzi decisamente inadeguati. “È come andare in guerra con uno stuzzicadenti”, ci dice amareggiato. “Dalla Asl – continua il dottore – non è arrivata nessuna fornitura, neppure una mascherina chirurgica”. Una situazione drammatica, che riguarda sia i medici di famiglia che quelli della continuità assistenziale. Tanto che qualche giorno fa i sindacati hanno scritto al presidente della Ragione Lazio Nicola Zingaretti denunciando la mancanza dei dispositivi di protezione individuale e chiedendo l’esecuzione dei tamponi per tutto il personale sanitario. Per scongiurare che i nostri medici si trasformino in degli untori. Un appello raccolto anche dai consiglieri regionali della Lega che hanno intimato al governatore di attivarsi “per garantire la giusta tutela sia dei camici bianchi che dei pazienti”. “Non riteniamo giusto che i medici debbano ricorrere all’utilizzo di mezzi di protezione non concepiti per l’ambito sanitario per garantirsi un sufficiente livello di tutela”, dice il dottor Ermanno De Fazi, vicesegretario regionale dello Smi Lazio. Pur essendo munite di un filtro, infatti, le mascherine per uso agricolo non sono adattabili alle esigenze degli operatori sanitari e non bastano a schermarli dal virus. “Le mascherine sono solo la punta dell’iceberg – annota Pier Luigi Bartoletti, vicepresidente dell’Ordine dei Medici di Roma – il sistema di protezione da agenti patogeni sconosciuti è un combinato di tanti fattori: servono guanti, camici, cuffie, occhiali e soprattutto la formazione”. Elementi essenziali per questa categoria di professionisti che svolge un ruolo strategico nella gestione dell’emergenza. Sono loro la prima linea. Quelli a cui i pazienti si rivolgono quando stanno male, quelli a cui tutti in queste settimane critiche chiedono consigli e indicazioni. Sono la trincea della lotta al Covid-19. “Quando veniamo contattati facciamo un triage telefonico – spiega De Fazi – per capire se ci sono presupposti che facciano pensare al coronavirus o se si tratta di forme influenzali di poco conto. Nel primo caso si affida il paziente al servizio di igene e sanità pubblica della Asl sennò lo seguiamo con frequenti contatti telefonici”. Sì perché le sale di attesa ai tempi del coronavirus non sono più le stesse. Si sono svuotate. “In media prima vedevo un centinaio di pazienti a settimana, adesso non più di quattro”, racconta Bartoletti. Si procede per appuntamento ed i pazienti sprovvisti della mascherina vengono rimandati a casa. La regola è: cercare di evitare visite inutili gestendo gli utenti "da remoto". Ma non si può colmare tutto con la teleassistenza e le ricette dematerializzate. Ci sono situazioni in cui il medico non può nascondersi dietro a un monitor. Situazioni in cui le visite domiciliari non si possono rimandare perché ci sono malati cronici, pazienti oncologici o reduci da interventi difficili che devono essere seguiti. Persone che non presentano sintomi necessariamente riconducibili al coronavirus ma che potrebbero essere comunque infette. In casi del genere i dispositivi di sicurezza sono irrinunciabili visto che – per ovvie ragioni – il medico non può tenersi a più di un metro di distanza dal paziente. “Ci ritroviamo in una situazione di estremo pericolo perché abbiamo perso il link epidemiologico, il virus comincia a circolare anche a Roma e l’unica difesa è il distanziamento sociale”, spiega il dottor Bartoletti. “È una guerra che noi medici stiamo combattendo senza armi, sia dal punto di vista terapeutico che dal punto di vista delle protezioni”, aggiunge. E se le cose non cambiano, avverte, “rischiamo di trasformarci in medici monouso”.
Fazzoletti come mascherine, medici diventano kamikaze: “Hanno firmato nostra condanna”. Ciro Cuozzo de Il Riformista il 17 Marzo 2020. Chi per 20 giorni, chi per oltre un mese ha dovuto combattere con mezzi di fortuna quella che oggi è diventata una pandemia. Medici, infermieri, operatori socio sanitari, personale del 118 e della Croce Rosse sono in prima linea contro il Coronavirus ma con mezzi di fortuna, attrezzature inadeguate per lavorare in sicurezza ed evitare di essere contagiati e, di conseguenza, di infettare i propri cari quelle poche volte che tornano a casa. In queste settimane siamo stati abituati a vederli dormire a terra, sulle scrivanie, in auto, in condizioni sempre precarie, sempre in trincea a combattere una guerra quasi come dei kamikaze. Non c’è nulla di romanzato in tutto questo. Basta vedere le fotografie delle mascherine, pardon, fazzolettini, che buona parte di loro ha avuto a disposizione lungo tutta la Pensisola. In tanti si sono ammalati, qualcuno lotta in un letto d’ospedale per sopravvivere, altri sono fuorigioco e in isolamento a casa, impossibilitati a dare il proprio contributo alla causa. Adesso, a un mese di distanza, potrebbero presto avere, tutti, attrezzature adeguate per affrontare l’emergenza. Nel frattempo però sono state numerose le denunce, sia dei sindacati che degli stessi professionisti, alcune delle quali diventate virali in rete. IL MEDICO DI AOSTA – Una testimonianza è il filmato del medico del pronto soccorso dell’ospedale Parini di Aosta che protesta per la mascherina fornitagli lunedì scorso. “Pensate po’, un banale fazzoletto che improvvisamente assurge a presidio medico di protezione. Ringrazio fervidamente chi ha avuto questa brillante idea” spiega ma “con questa splendida idea hai voluto firmare la nostra condanna, la condanna di medici, sanitari e personale parasanitario, che in questo momento difficile sta affrontando un problema serio e mette a repentaglio la propria vita per gli altri. Ti stai approfittando del nostro senso del dovere, della nostra passione, che mettiamo ogni giorno nella nostra professione. Ci ripaghi così, con questa roba qui. Se ci riesci usala, per te che hai avuto l’idea, per la tua igiene intima. Io preferisco lavorare senza”.
L’ASSOCIAZIONE NAPOLETANA – Altra denuncia arriva dall’associazione “Nessuno Tocchi Ippocrate”, da anni in prima linea a Napoli contro la violenza sul personale sanitario. “Sono in distribuzione le nuove mascherine per il personale sanitario, le famigerate “swiffer” (chiamate così per la somiglianza con gli stracci per la polvere) . Qualche collega ha provato, con apposito spruzzino, a bagnarle simulando uno starnuto di un potenziale paziente infetto ed il risultato è stato imbarazzante; si sono attaccate in faccia. A nostro avviso, che abbiamo l’arduo compito di fare i “developers” (ahimè sulla nostra pelle) questo presidio è inutilizzabile. Di certo usarle per la nostra (personale sanitario ) e vostra incolumità è un reale pericolo! Aldilà di tutto………Meritiamo di più”.
Barbara Gerosa per il “Corriere della Sera - Edizione Milano” il 18 marzo 2020. «Io ho già fatto un turno nella polveriera, ma non va bene, così non va bene. Noi potenzialmente tutti positivi e fonte di contagio per altri». Il messaggio sul telefonino arriva a tarda notte. Lo sfogo di uno degli operatori in servizio presso gli ospedali di Lecco e Merate. «Non parlo da coniglio né da infame, ma temo che se ci stiamo contagiando tra di noi è perché non lavoriamo in sicurezza». Nessuno si tira indietro, tutti in prima linea, ma i numeri sono da brivido. A ratificarli la stessa azienda ospedaliera. Medici, infermieri, operatori, sono 119 quelli risultati positivi al tampone, infettati dal coronavirus: 23 medici, tre in servizio al pronto soccorso, 74 infermieri, 12 operatori socio sanitari del Manzoni e del Mandic. In una chat interna al personale ci sono le paure e le disposizioni: «Nessun camice rinforzato per i dottori di supporto nei reparti Covid, non è necessario se non entrano nelle camere. Ne abbiamo pochi, potremmo rimanere senza per chi opera sul paziente». «I dispositivi sono necessari altrimenti saranno gli operatori sanitari a pagare il maggiore tributo», fa presente il collega. C' è spazio per la commozione: «Mi viene tristezza a vedere l' ospedale intero ridotto a campo di guerra, tutti a fare tutto», il messaggio che ribalza su un' altra chat. C' è l' orgoglio e la preoccupazione. I sindacati davanti ai numeri dei sanitari infettati hanno chiesto un incontro urgente alla direzione ospedaliera. Il prefetto di Lecco, Michele Formiglio si è fatto portavoce delle loro istanze. «A preoccupare sono i dati dei lavoratori positivi al coronavirus, ci dicono 120, temiamo 160, su un totale di 440 contagi complessivi nel lecchese - scrivono Cgil, Cisl e Uil -. Ci chiediamo cosa non stia funzionando. Sono i protocolli di gestione? Oppure la mancanza di dispositivi di protezione individuali? Tutto questo sta cagionando ai dipendenti un fortissimo stress, il timore di poter infettare sé stessi e i propri famigliari». Il direttore generale dell' Asst di Lecco, Paolo Favini, non si sottrae al confronto: «Gli operatori sanitari sono i più esposti, ma la percentuale dei casi positivi è del 5,17%: 1.800 infermieri, 500 medici, 119 infetti nei presidi lecchesi». La voce è stanca, alcuni suoi collaboratori sono malati o in quarantena. «Non c' è alcun cluster - rassicura -. I dispositivi in dotazione al personale sono a norma Oms e Regione Lombardia e ad oggi erogati in numero adeguato. Qualcuno si è lamentato per l' uso delle mascherine chirurgiche? Quelle Fp2 e Fp3 sono per gli operatori più a rischio, come chi deve intubare i pazienti. Tutti hanno avuto i camici rinforzati, e dove non è stato possibile abbiamo fornito quelli idrorepellenti suggerendo di indossarne tre alla volta». È una corsa contro il tempo. Le Rianimazioni sono piene sia a Merate che a Lecco, 424 le persone ricoverate per il virus nei due presidi: per 93 si attende ancora l' esito del tampone, gli altri sono tutti positivi. Si cerca di reclutare altro personale, pensionati e specializzandi dei corsi di laurea. Poi la boccata di ossigeno: «Sono stati indirizzati a Lecco rinforzi importanti, a ore 36 operatori, 12 medici e 24 infermieri, arriveranno dalla Cina - annuncia Favini -. Capisco i timori, siamo uomini, siamo fragili, ma posso assicurare che stato fatto l' impossibile e anche di più».
Francesca Angeli per “il Giornale” il 18 marzo 2020. Camici bianchi in prima linea senza difese. Questa volta i medici di famiglia dell' area di Milano e hinterland, quella più sotto pressione, sono allo stremo e hanno deciso di mettere nero su bianco la denuncia del mancato rispetto delle regole di sicurezza previste dal decreto del governo. E non è il solo motivo di protesta da parte dei medici che chiedono di essere testati rispetto alla possibile positività da coronavirus. In sostanza si monitorano soltanto quelli con sintomi già manifesti. Un errore clamoroso perchè i primi ad essere in contatto con i pazienti fragili sono proprio i camici bianchi che da settimane denunciano il rischio che ciascun medico sia un «superdiffusore». Per questo tutti i sindacati medici insistono sulla necessità di estendere «i tamponi a chi, in ragione della sua professione, rischia di più di essere contagiato dal Covid-19: medici, infermieri, tecnici, operatori socio sanitari, inclusi i dipendenti delle cooperative sociali». I tamponi vanno estesi in primis a loro, «per isolare anche i positivi asintomatici, per proteggere le persone». Nell' esposto dello Snami che è indirizzato anche al Presidente della Regione, Attilio Fontana, e a tutte le autorità competenti il presidente provinciale, Roberto Carlo Rossi scrive: «I medici di famiglia sono stati lasciati ancora allo sbaraglio, senza adeguati dispositivi di protezione individuale, mascherine omologate, camici monouso, occhiali, guanti» strumenti indispensabili ad un esercizio della professione in sicurezza e che nell' emergenza risultano prescritti per legge. Il malessere dei medici di base in Lombardia cresce giorno dopo giorno. Da quando è esplosa l' emergenza coronavirus le chiamate sono aumentate in modo esponenziale. Agli anziani poi è stato chiesto di non uscire quindi i medici di base dovrebbero recarsi in casa ma se poi si espongono al rischio di un contagio, come è accaduto ad un medico di base di Lodi, in condizioni gravissime. Rossi denuncia al prefetto i «gravi accadimenti in netto contrasto con il Dpcm dell' 8 marzo scorso» chiedendo di mettere in atto ciò tutto ciò che serve a consentirne il rispetto: in pratica di requisire tutto quello che serve e metterlo a disposizione dei medici. Ad oggi, denuncia Rossi, sono state consegnati dalle Asl «poche mascherine chirurgiche, mediamente 5 a medico; camici monouso non idrorepellenti, mediamente 2 a medico; mediamente una confezione di 100 guanti; nessun tipo di occhiali o visiera». Ma «le idonee mascherine che questo sindacato aveva reperito sul mercato e ordinate per fornirle, in sostituzione del mancato adempimento di parte pubblica, ai tanti medici che ne hanno fatto richiesta non sono consegnabili per intervento del Governo che risulta aver bloccato tutte le importazioni. Quindi noi medici in prima linea sul territorio ci troviamo non solo senza i dispositivi di protezione individuale prescritti da Governo e Regione che non li distribuisce, ma anche nell' impossibilità di acquistarli a nostre spese anche dopo averli reperiti autonomamente» Dunque mascherine e tamponi che invece stentano a decollare in molte regioni nonostante l'appello dell'Organizzazione mondiale della Sanità rilanciato dal rappresentante del board italiano, Walter Ricciardi. «Un semplice messaggio per tutti i Paesi: test, test, test. Fate il test a ogni caso sospetto di Covid-1», scrive in un tweet Ricciardi. Se questi pazienti risultano positivi, ammonisce l' agenzia Onu per la Sanità, bisogna isolarli e scoprire con chi hanno avuto contatti stretti fino a 2 giorni prima che sviluppassero i sintomi in modo da testare anche queste persone.
Coronavirus, la strage dei medici. Almeno 14 morti dall’inizio dell’epidemia. Pubblicato giovedì, 19 marzo 2020 su Corriere.it da Riccardo Bruno. Giuseppe Finzi, 62 anni, era medico ospedaliero a Parma. Luigi Frusciante, 71, andato in pensione l’anno scorso, era di Como, la stessa città dello pneumologo Giuseppe Lanati, 73 anni. E poi Antonino Buttafuoco, 66 anni, medico di base di Bergamo, deceduto mercoledì, e Luigi Ablondi, anche lui 66enne, ex direttore generale dell’Ospedale di Crema, poi direttore della clinica delle Ancelle di Cremona, che si è spento il giorno prima. Cinque nomi, cinque vittime che la Fnomceo (la Federazione nazionale dell’Ordine dei medici chirurghi e degli odontoiatri) ha aggiunto giovedì all’elenco «dei medici caduti», la triste contabilità che aggiorna quotidianamente sul suo sito. Riesce perfino difficile il conto, sono almeno 14 i medici che finora non ce l’hanno fatta, con un numero altissimo di operatori sanitari contagiati (circa tremila, l’8,3% del totale dei colpiti). «Non possiamo più permettere che i nostri medici, i nostri operatori sanitari, siano mandati a combattere a mani nude contro il virus. È una lotta impari, che fa male a noi, fa male ai cittadini, fa male al paese» osserva amaramente il presidente della Federazione Filippo Anelli. Storie di uomini e professionisti che si sono trovati in prima linea ad affrontare un nemico che probabilmente all’inizio è stato sottovaluto, i primi a esporsi per salvare la vita degli altri e finendo per non riuscire a tutelare la propria. Come Mario Giovita, 65 anni, originario di Catania («Esempio di abnegazione e umanità» l’ha ricordato il sindaco della città etnea) che era medico a Caprino Bergamasco. Marcello Natali, 57 anni, bolognese, segretario Fimmg per la provincia di Lodi, che esercitava invece a Codogno e nei comuni vicini, il cuore del primo focolaio in Italia. Roberto Stella, 67 anni, era invece presidente dell’Ordine dei medici di Varese, fino all’ultimo giorno ha visitato nel suo ambulatorio di Busto Arsizio. Ivano Vezzulli, 61 anni, di San Rocco al Porto, era invece il medico della cooperativa per disabili «Amicizia» di Codogno, ma anche della squadra giovanile del Piacenza Calcio. Franco Galli, 65 anni, era medico di base a Medole, nel Mantovano, Massimo Borghese, 63 anni, era otorino a Napoli, Raffaele Giura, 80 anni, è stato primario di Pneumologia Como, Carlo Zavaritt, anche lui ottantenne, era pediatra e neuropsichiatra infantile a Bergamo, Giuseppe Borghi, 64 anni, medico a Casalpusterlengo. Senza dimenticare gli altri operatori sanitari, gli infermieri o i soccorritori del 118, come il bergamasco Diego Bianco di Bergamo, morto a 47 anni. «I medici sono arrabbiati, esasperati da questo stillicidio di brutte notizie, spaventati dall’escalation di contagi che si sarebbero potuti prevenire ed evitare se solo le istituzioni ci avessero ascoltati sin da subito – aggiunge il presidente Fnmceo Anelli —. È da febbraio che scriviamo lettere, lanciamo appelli, per chiedere che i medici siano messi in sicurezza, per loro ma anche per evitare che diventino veicolo di contagio verso i pazienti, verso i cittadini più fragili, resi deboli dalle malattie e dall’età avanzata. Ci sentiamo a questo punto dimenticati, poco considerati».
Coronavirus a Bergamo, due medici della clinica San Francesco: «Mandati al macello, ora siamo la metà». Pubblicato giovedì, 19 marzo 2020 su Corriere.it da Matteo Castellucci. «Siamo in guerra, chiediamo solo le armi». Fuor di metafora, quelle armi sono i dispositivi di sicurezza. Mancano: a corto di mascherine, va indossata la stessa per una settimana, invece della giornata imposta dai protocolli. Francesco Vattimo, cardiologo, lavora da dieci anni alla clinica San Francesco, in città: un reparto di terapia sub-intensiva non c’era, l’hanno creato. Nei giorni dell’emergenza ci sono finiti anche i dottori: metà di loro, a decine, sono malati, anche gravi, gli altri quattordici sono ancora in prima linea. «Come Dieci piccoli indiani», riassume la collega Elena Perlasca. Non hanno tempo per le polemiche. Segnalano una carenza che è comune, come dimostra il picco di contagi fra i medici di base, troppi «soldati» sono disarmati. «Facciamo il nostro mestiere in silenzio — racconta Vattimo —, ma visto il rischio biologico così importante, con tanti colleghi malati gravi o intubati, abbiamo bisogno di maschere, camici, visiere, scafandri. Inizialmente siamo andati al macello, non ci davano i dispositivi, ma la gente continuava ad arrivare». Senza un pronto soccorso, si trattava di smaltire i pazienti dell’ospedale Papa Giovanni e di quello di Seriate, per alleggerire la pressione. Lo specialista è corso ai ripari, procurandosi i presidi di protezione in Calabria, Molise e persino Canada. La riconversione bellica che ha riorganizzato i piani (al quinto 16 i ricoverati in terapia ventilatoria, con il «casco» c-pap, altri 26 sono in condizioni meno compromesse) ha mobilitato i medici: tutti internisti. Come altrove i turni sfumano, più di dodici ore. Ma oggi il personale è decimato dal virus. «Uno sfacelo — spiega Perlasca —. Citando le direttive regionali, ci dicevano che le mascherine non servivano: è stata una leggerezza. Credo sia stato sottovalutato il problema quando non s’è fatta la zona rossa ad Alzano e Nembro». Ieri, cercata, non è stato possibile contattare la direzione della clinica. La crociata non termina in corsia: si trema per la famiglia, tenuta a distanza in quei tre giorni di riposo lungo tre settimane d’inferno. «E se ci ammaliamo i pazienti chi li segue — si commuove la dottoressa —? Stanno malissimo, è scioccante anche per noi. Normalmente le polmoniti le curavamo: questa schifezza si sta portando via un numero di persone allucinante, soffocano mentre sono ancora lucide. È emotivamente massacrante: ti chiedi se magari fra qualche giorno in quel letto ci sarai tu, perché non hai le protezioni». Ma guai a chiamarli eroi. «Senza infermieri e operatori socio-sanitari non serviremmo a nulla».
Il lungo elenco dei medici caduti. Anelli: «Combattiamo a mani nude, non possiamo più permetterlo». Il Dubbio il 19 marzo 2020. L’appello del presidente della Fnomceo: «Il ministero ci aiuti a fermare queste morti». Roberto Stella, responsabile dell’Area Formazione della Federazione degli ordini dei medici, e presidente dell’ordine dei medici chirurghi e degli odontoiatri di Varese. E poi, ieri, Marcello Natali, segretario della Federazione italiana medici di medicina generale di Lodi, e Massimo Borghese, otorino di Napoli. Ieri, Ivano Vezzulli, medico di medicina generale nel lodigiano. Lunedì 16, Mario Giovita, medico di medicina generale della provincia di Bergamo. Prima di loro, Raffaele Giura, primario di pneumologia a Como. Carlo Zavaritt, ex assessore e medico bergamasco. Giuseppe Borghi, medico di medicina generale a Casalpusterlengo. Il 7 marzo, Chiara Filipponi, anestesista di Portogruaro, deceduta però a causa di una malattia allo stadio terminale. È il triste elenco dei medici caduti nel corso dell’epidemia di Covid-19. Un elenco, pubblicato sul portale della Fnomeco, che continua ad allungarsi, mentre aumenta il dato ufficiale degli operatori sanitari contagiati, diffuso ogni sera dall’Istituto superiore di Sanità (ieri ammontava a 2629), molti sono i medici che muoiono improvvisamente, anche se la causa della morte non è direttamente riconducibile al virus, perché il tampone non viene effettuato. Da ieri, i loro nomi sono riportati sul sito, che resterà listato a lutto in loro memoria, con aggiornamenti quotidiani, così come per i dati relativi ai contagi. «Un monito, una lezione per tutti», si legge in un comunicato. «I morti non fanno rumore, non fanno più rumore del crescere dell’erba, scriveva Ungaretti – commenta il presidente della Fnomceo, Filippo Anelli -. Eppure, i nomi dei nostri amici, dei nostri colleghi, messi qui, nero su bianco, fanno un rumore assordante. Così come fa rumore il numero degli operatori sanitari contagiati: 2629, quasi trecento in più del giorno precedente. L’8,3% del totale dei colpiti, come fa rilevare la Fondazione Gimbe, mentre i professionisti sanitari costituiscono il 2,5% dei cittadini. Non possiamo più permettere che i nostri medici, i nostri operatori sanitari, siano mandati a combattere a mani nude contro il virus. È una lotta impari, che fa male a noi, fa male ai cittadini, fa male al paese». Sono diverse le iniziative avviate in queste ore per sensibilizzare l’opinione pubblica. La Fimmg nazionale ha lanciato, insieme con Cittadinanzattiva, il crowdfunding “Nudi contro il virus”: con donazioni a partire da un euro, si contribuiranno a comprare i dispositivi individuali di protezione, dei quali molti medici di medicina generale sono tuttora sprovvisti, e gli strumenti per i teleconsulti. Mentre Fimmg Lombardia, duramente colpita dal Covid-19, ha presentato una diffida contro le istituzioni, seguita ieri dall’Intersindacale dei Medici ospedalieri, che ha diffidato le Asl. E anche dagli Ordini territoriali monta la protesta. A Bergamo i medici di medicina generale ammalati o in quarantena sono 128, di cui solo 98 sostituiti e 24 coperti dalla continuità assistenziale. Situazioni drammatiche in tutta la Lombardia, in Piemonte, Liguria, Emilia Romagna, mentre l’epidemia si sta estendendo al Centro-Sud. Anche là, trovando facile terreno tra i medici sguarniti delle adeguate protezioni. «I medici sono arrabbiati, esasperati da questo stillicidio di brutte notizie, spaventati dall’escalation di contagi che si sarebbero potuti prevenire ed evitare se solo le istituzioni ci avessero ascoltati sin da subito – continua -. È da febbraio che, come Fnomceo scriviamo lettere, lanciamo appelli, per chiedere che i medici siano messi in sicurezza, per loro ma anche per evitare che diventino veicolo di contagio verso i pazienti, verso i cittadini più fragili, resi deboli dalle malattie e dall’età avanzata. Ci sentiamo a questo punto dimenticati, poco considerati, come dimostra anche l’ultimo Decreto Legge, che prevede giusti sostegni per molte categorie ma nulla prevede per supportare e riconoscere l’impegno degli operatori sanitari». «Diamo atto che il ministro della Salute Roberto Speranza ci è sempre stato vicino, sin dall’inizio del suo mandato e in modo ancor più intenso durante questa epidemia – conclude Anelli -. Confidiamo quindi nel suo intervento, sicuri che non lascerà soli i suoi medici, i suoi professionisti, il capitale umano del suo e nostro Servizio sanitario nazionale. Chiediamo dunque il suo intervento per fermare queste morti, questi contagi inutili, perché prevedibili, e dannosi perché mettono a rischio l’intera comunità. Ci conforta il fatto che le nostre istanze siano tenute nella giusta considerazione, come dimostra, ad esempio, il parere di ieri sera del Comitato Tecnico-Scientifico di Protezione Civile e Ministero della Salute, che ha raccomandato, come da noi auspicato, l’esecuzione dei tamponi sui sanitari, quale strategia per contenere il più possibile la diffusione del virus».
Da portale.fnomceo.it il 18 marzo 2020. Roberto Stella, responsabile dell’Area Formazione della FNOMCeO, la Federazione degli Ordini dei Medici, e presidente dell’OMCeO di Varese. E poi, oggi, Marcello Natali, Segretario FIMMG di Lodi, e Massimo Borghese, otorino di Napoli. Ieri, Ivano Vezzulli, Medico di Medicina Generale nel lodigiano. Lunedì 16, Mario Giovita, medico di Medicina Generale della provincia di Bergamo. Prima di loro, Raffaele Giura, primario di pneumologia a Como. Carlo Zavaritt, ex assessore e medico bergamasco. Giuseppe Borghi, medico di Medicina Generale a Casalpusterlengo. Il 7 marzo, Chiara Filipponi, anestesista di Portogruaro, deceduta però a causa di una malattia allo stadio terminale. Si allunga purtroppo il triste elenco dei Medici caduti nel corso dell’epidemia di Covid-19. E mentre aumenta il dato ufficiale degli operatori sanitari contagiati, diffuso ogni sera dall’Istituto superiore di Sanità (ieri ammontava a 2629), molti sono i medici che muoiono improvvisamente, anche se la causa della morte non è direttamente riconducibile al virus, perché il tampone non viene effettuato. Da oggi, i loro nomi sono riportati sul Portale FNOMCeO, che resterà listato a lutto in loro memoria, in un triste elenco che verrà via via aggiornato, insieme ai dati sui contagi. Un monito, una lezione per tutti. “I morti non fanno rumore, non fanno più rumore del crescere dell’erba, scriveva Ungaretti – commenta il presidente della FNOMCeO, Filippo Anelli -. Eppure, i nomi dei nostri amici, dei nostri colleghi, messi qui, nero su bianco, fanno un rumore assordante. Così come fa rumore il numero degli operatori sanitari contagiati: 2629, quasi trecento in più del giorno precedente. L’8,3% del totale dei colpiti, come fa rilevare la Fondazione Gimbe, mentre i professionisti sanitari costituiscono il 2,5% dei cittadini. Non possiamo più permettere che i nostri medici, i nostri operatori sanitari, siano mandati a combattere a mani nude contro il virus. È una lotta impari, che fa male a noi, fa male ai cittadini, fa male al paese”. E molte sono le iniziative messe in campo in queste ore per sensibilizzare l’opinione pubblica. La FIMMG nazionale ha lanciato, insieme con Cittadinanzattiva, il crowdfunding “Nudi contro il virus”: con donazioni a partire da un euro, si contribuiranno a comprare i dispositivi individuali di protezione, dei quali molti medici di medicina generale sono tuttora sprovvisti, e gli strumenti per i teleconsulti. Mentre FIMMG Lombardia, duramente colpita dal Covid-19, ha presentato una diffida contro le istituzioni, seguita oggi dall’Intersindacale dei Medici ospedalieri, che ha diffidato le Asl. E anche dagli Ordini territoriali monta la protesta. A Bergamo i medici di medicina generale ammalati o in quarantena sono oggi 128, di cui solo 98 sostituiti e 24 coperti dalla continuità assistenziale. Situazioni drammatiche in tutta la Lombardia, in Piemonte, Liguria, Emilia Romagna, mentre l’epidemia si sta estendendo al Centro-Sud. Anche là, trovando facile terreno tra i medici sguarniti delle adeguate protezioni. “I medici sono arrabbiati, esasperati da questo stillicidio di brutte notizie, spaventati dall’escalation di contagi che si sarebbero potuti prevenire ed evitare se solo le istituzioni ci avessero ascoltati sin da subito – continua -. È da febbraio che, come FNOMCeO, scriviamo lettere, lanciamo appelli, per chiedere che i medici siano messi in sicurezza, per loro ma anche per evitare che diventino veicolo di contagio verso i pazienti, verso i cittadini più fragili, resi deboli dalle malattie e dall’età avanzata. Ci sentiamo a questo punto dimenticati, poco considerati, come dimostra anche l’ultimo Decreto Legge, che prevede giusti sostegni per molte categorie ma nulla prevede per supportare e riconoscere l’impegno degli operatori sanitari”. “Diamo atto che il Ministro della Salute Roberto Speranza ci è sempre stato vicino, sin dall’inizio del suo mandato e in modo ancor più intenso durante questa epidemia – conclude Anelli -. Confidiamo quindi nel suo intervento, sicuri che non lascerà soli i suoi medici, i suoi professionisti, il capitale umano del suo e nostro Servizio sanitario nazionale. Chiediamo dunque il suo intervento per fermare queste morti, questi contagi inutili, perché prevedibili, e dannosi perché mettono a rischio l’intera comunità. Ci conforta il fatto che le nostre istanze siano tenute nella giusta considerazione, come dimostra, ad esempio, il parere di ieri sera del Comitato Tecnico-Scientifico di Protezione Civile e Ministero della Salute, che ha raccomandato, come da noi auspicato, l’esecuzione dei tamponi sui sanitari, quale strategia per contenere il più possibile la diffusione del virus”.
Riccardo Staglianò il 18 marzo 2020. C'è una domanda prosaica, tra le tante inesaudite di questi tempi terribili, che mi assilla dall'inizio: ma le mascherine servono o no? La versione ufficiale è: sì solo per chi è malato, per non infettare gli altri. Ancora ieri sera, in quella che inevitabilmente comincia a sembrare la millesima replica della stessa trasmissione, l'ho sentito dire dal consulente del governo Walter Ricciardi in televisione: «Assolutamente inutili per i sani». D'altronde è la linea ufficiale dell'Organizzazione mondiale della sanità per cui lavora: «Se sei sano hai bisogno di indossarla solo se ti prendi cura di qualcuno con sospetta infezione da Covid19». E io, a differenza dei teorici della cospirazione di ogni ordine e grado, dell'Oms mi fido. Così, quando mia madre mi ha chiesto di cercare su Amazon una mascherina, costasse quel che costasse, le ho spiegato che no, chi ne sapeva assicurava che non serviva, e quindi non l'abbiamo comprata. Però più passano i giorni più il dubbio si aggrava: lo dicono per preservare le scarse mascherine per medici e infermieri che ne hanno un bisogno vitale o lo dicono perché davvero credono che siano «assolutamente inutili» per tutti altri? Quotidianamente indizi nuovi e banali riacutizzano questa ferita. Il vigile di Roma positivo al virus che confessa di aver mentito allo Spallanzani: «Ho detto loro che avevamo le mascherine per non fare figuracce, ma invece le avevamo finite». Ma i vigili non sono medici, per loro le mascherine non dovrebbero essere inutili? E le cassiere del supermercato, allora? E Mattia Feltri che, nella sua sempre preziosa rubrica, raccontava di essere in fila proprio in un supermercato con la sua bella mascherina? E via elencando. Esagerano loro o è sfuggito qualcosa a me? Per non dire che ora apprendiamo che a Vo' Euganeo tra la metà e i tre quarti dei malati erano asintomatici: se avessero portato la mascherina avrebbero evitato di contagiarsi a vicenda. E nessuno, senza aver fatto il tampone, può essere sicuro di non essere infetto. Poi, ieri, è uscito sul New York Times un editoriale a firma Zeynep Tufekci, una sociologa che vale sempre la pena leggere. Il titolo era: «Perché dire alla gente che non ha bisogno delle mascherine ha avuto un effetto controproducente». Frasi topiche: «Com'è che questa maschere magicamente proteggono chi le indossa solo se questi lavora in un determinato settore?»; «Molte persone si lavano le mani in maniera sbagliata, ma non rispondiamo loro dicendo di lasciar perdere» (a proposito del fatto che maneggiare male le mascherine potrebbe addirittura facilitare il contagio); «Tuttavia anche le mascherine chirurgiche proteggono un po' di più di non indossarne affatto» (rispetto alla pretesa che solo quelle Ffp2 e Ffp3 funzionerebbero). Porca miseria, allora non ero l'unico, pur senza cappellino di stagnola in testa, a pensare che c'era qualcosa che non convinceva in questa comunicazione istituzionale, senz'altro ispirata dalle migliori intenzioni di sanità pubblica. Mi sembra che, rispetto alla risposta semplice «non ne avete bisogno» sarebbe stato meglio darne una articolata ma forse più veritiera. Tipo: se ce ne fossero per tutti male non farebbero, però è meglio lasciarle a medici e infermieri che ne han più bisogno. Dire «perché no», anche con i bambini, decapita dibattiti spesso sfinenti, ma non è mai l'opzione pedagogica migliore. Forse ci meritavamo di meglio. Però sarei contento di sbagliarmi adesso ed esser stato nel giusto prima, quando acrobaticamente facevo del mio meglio per smontare le obiezioni ansiose di familiari vari. Guardiamoci negli occhi, professor Ricciardi: se la sente davvero, una volta per tutte, di assicurarci che tra una mascherina qualsiasi e nessuna mascherina protegge di più la seconda?
Da ifarma.net il 18 marzo 2020. Le aziende rappresentate dalle due sigle nazionali hanno tempestivamente adottato tutte le misure idonee a contrastare la diffusione del Coronavirus, ma dopo più di tre settimane di impegno indefesso, l’attuale difficoltà di reperimento delle mascherine e di ogni altro dispositivo di protezione e contenimento del contagio sta stressando fortemente la capacità del comparto distributivo di svolgere in sicurezza il proprio servizio pubblico. È dal 23 febbraio u.s. che le associate di ADF e Federfarma Servizi continuano a consegnare senza sosta farmaci, dispositivi medici e ogni prodotto necessario a farmacie, parafarmacie e strutture sanitarie per fronteggiare il drammatico momento che sta attraversando il nostro Paese. Una continuità di servizio pubblico che mai come ora ha evidenziato la sua natura essenziale, supportando quotidianamente i farmacisti nell’assistenza sanitaria alla popolazione tutta e garantendo che ciò avvenga all’interno di una filiera certificata a tutela della salute pubblica. A questo punto dell’emergenza è però indispensabile che venga assicurata la fornitura di mascherine e prodotti collegati alla sicurezza di chi ogni giorno lavora nelle aziende di distribuzione per rispondere alle richieste dei farmacisti, di chi ogni giorno allestisce nei magazzini le consegne per le farmacie, di chi ogni giorno guida mezzi per raggiungere le farmacie in ogni parte della nostra Nazione e assicurarsi che il farmacista possa ricevere tutto quanto necessario per rispondere alle incrementate esigenze della nostra collettività sociale. Se non verrà garantita la fornitura del materiale essenziale per la sicurezza del proprio personale c’è il rischio che i distributori non possano più svolgere regolarmente il servizio pubblico cui sono chiamati. Non potendo più essere garantiti i contatti con i farmacisti, verrebbe messa a rischio la possibilità di effettuare le consegne in farmacia e la capacità da parte di quest’ultima di svolgere il suo fondamentale ruolo di presidio sanitario sul territorio, indispensabile in questo momento più che mai per il Sistema Sanitario Nazionale e per la popolazione in difficoltà, che individua nella rete delle farmacie il primo front –office sul territorio in materia sanitaria. ADF e Federfarma Servizi chiedono di assicurare al comparto della distribuzione intermedia quanto necessario per poter continuare a fare quello che da sempre, e negli ultimi 24 giorni a maggior ragione, hanno il compito di fare: distribuire salute in tutto il nostro Paese, contribuendo anche loro come medici, infermieri e operatori sanitari a fare in modo che andrà tutto bene, davvero.
FATTORE AMBIENTE: ACQUA INQUINATA.
Parigi, trovate "tracce minime" di Covid nell'acqua non potabile. Un laboratorio ha scoperto tracce del virus nella rete idrica non potabile, utilizzata per lavare le strade. Il Comune: "Non c'è alcun rischio" per l'acqua potabile. Giorgia Baroncini, Domenica 19/04/2020 su Il Giornale. Una nuovo dato allarmante arriva dalla Francia: a Parigi sono state trovate "tracce minime" del nuovo coronavirus nella rete dell'acqua non potabile del Comune. Il sindaco della capitale francese Anne Hidalgo ha subito reso noto che l'acqua contaminata è utilizzata solitamente per la pulizia delle strade e che "non c'è alcun rischio per l'acqua potabile". Secondo quanto riferiscono i media locali, il laboratorio che lavora per la rete idrica comunale Eau de Paris ha scoperto "nelle ultime 24 ore" la presenza in quantità minime di tracce del virus in quattro dei 27 punti di prelevamento testati. E così il municipio ha subito ordinato lo stop all'uso della rete idrica non potabile "per precauzione" sottolineando che si tratta di una rete "totalmente indipendente" da quella dell'acqua potabile. Quest'ultima, hanno assicurato le autorità, "non presenta alcuna traccia di Covid-19" e quindi "può essere consumata senza alcun rischio". Il Comune ha così invitato i cittadini a non farsi prendere dal panico e a continuare a utilizzare normalmente l'acqua per bere e lavarsi. In una pagina che smentisce alcune fake news relative al coronavirus, anche il ministero della Salute italiano è intervenuto sul tema. "Bere l'acqua del rubinetto è sicuro - si legge -. Le pratiche di depurazione cui è sottoposta l'acqua del rubinetto sono efficaci nell'abbattimento dei virus, insieme a condizioni ambientali che compromettono la vitalità dei virus (temperatura, luce solare, livelli di pH elevati) e alla fase finale di disinfezione". Come ricorda Skytg24, l'Organizzazione mondiale della Sanità ha più volte ribadito che il virus può mantenersi in vita nell'acqua potabile, ma è molto improbabile. A marzo, l'Oms ha evidenziato che fino a quel momento non c'erano prove di tale persistenza, né nell'acqua potabile né nelle acque reflue e che il rischio di contaminazione con Covid-19 da parte dei sistemi di acqua potabile è "basso". Inoltre, l'Oms ha dichiarato che sebbene sia possibile la persistenza del virus nell'acqua potabile, non esiste alcuna prova che i coronavirus possano contagiare attraverso l'acqua potabile contaminata. La notizia di "tracce minime" del nuovo coronavirus nella rete non potabile di Parigi si sta diffondendo in tutta la Francia e preccupando i cittadini. Le autorità, in attesa dei risultati dal laboratorio, hanno cercato di rassicurare gli abitanti. Intanto il virus cinese si sta propagando sempre più nel Paese: le vittime hanno quasi raggiunto quota 20mila, mentre i casi sono saliti a 152.578.
DiMartedì, coronavirus nella rete idrica? La risposta di Ilaria Capua che non sembra escluderlo del tutto. Libero Quotidiano l'8 aprile 2020. Sale in cattedra la virologa Ilaria Capua. A DiMartedì di Giovanni Floris su La7, risponde alle domande del conduttore sul coronavirus. Una di queste riguarda la paura che si diffonda nell'acqua, "nell'acqua corrente o che sia presente nella rete idrica fognaria. I dati dicono che il virus resiste nelle feci delle persone. Quanto dobbiamo essere preoccupati?", la interpella Floris. E la risposta della Capua lascia margini di ambiguità che, sinceramente, non fanno dormire sonni tranquilli: "Molti patogeni si trasmettono con feci e deiezioni, con l'acqua: uno di questi è il colera, che imperversa in molte parti del mondo. Questo virus almeno ad oggi non è certo uno che si trasmette principalmente con le deiezioni e col sistema fognario, ma principalmente per via respiratoria", conclude la Capua. Parole che non sembrano dunque del tutto escludere simile tipo di diffusione.
Il coronavirus si diffonde nella rete idrica? Ilaria Capua non lo esclude. Laura Pellegrini l'08/04/2020 su Notizie.it. Ilaria Capua non esclude che il coronavirus possa diffondersi anche attraverso la rete idrica: la sua risposta lascia aperti diversi dubbi. Ospite nel programma di Giovanni Floris, a DiMartedì, Ilaria Capua lascia aperti molti interrogativi sulla possibile diffusione del coronavirus attraverso la rete idrica. “Molti patogeni – ha detto la virologa – si trasmettono con feci e deiezioni”. Anche il coronavirus rimane vivo nelle feci dei pazienti infetti, Alti patogeni, invece, si trasmettono “con l’acqua”, ha proseguito Capua. “Uno di questi è il colera, che imperversa in molte parti del mondo”. ma il coroanvirus invece? Il coronavirus si diffonde attraverso la rete idrica? Molte persone, ha constatato Floris, temono che il virus potrebbe nascondersi “nell’acqua corrente o che sia presente nella rete idrica fognaria“. “I dati – invece – dicono che il virus resiste nelle feci delle persone. Quanto dobbiamo essere preoccupati?”. La virologa Ilaria Capua lascia adito a dubbi nella sua replica. “Questo virus almeno ad oggi non è certo uno che si trasmette principalmente con le deiezioni e col sistema fognario – ha detto -, ma principalmente per via respiratoria”. “Molti patogeni si trasmettono con feci e deiezioni – ha poi aggiunto -, con l’acqua: uno di questi è il colera, che imperversa in molte parti del mondo”. Sul caso animali domestici, invece, Capua ritiene “una sorpresa” che questo virus passi agli animali. “I gatti hanno recettori simili a quelli che il coronavirus va a ricercare. Invito i colleghi veterinari ad affrontare il problema”.
La Cina: feci e urine possono trasmettere il coronavirus. Le autorità sanitarie aggiungono le nuove modalità di contagio. La Stampa il 4 Marzo 2020. Feci e urine possono trasmettere il contagio del nuovo coronavirus: ne sono convinte le autorità sanitarie cinesi che hanno aggiunto questa ulteriore modalità di trasmissione del virus a quelle già conosciute (la saliva, tossendo e starnutendo, i contatti diretti personali, il toccare - con le mani contaminate e non ancora lavate - bocca, naso o occhi). Nell'ultimo piano di diagnosi e cura del virus, la commissione sanitaria nazionale cinese ha aggiunto il contatto con le feci e le urine contaminate come ulteriore modalità di trasmissione del contagio; il contagio può avvenire anche con la trasmissione aerosol di piccole particelle di feci contaminate e la conseguente inalazione da parte dell'uomo.
Coronavirus, accertata trasmissione da feci e urina. La Commissione sanitaria nazionale cinese ha spiegato che il contagio può avvenire anche con la trasmissione aerosol di piccole particelle di feci contaminate da coronavirus poi inalate dall'uomo. Gabriele Laganà, Mercoledì 04/03/2020 su Il Giornale. Quello che si supponeva ora è divenuto, purtroppo, una certezza. Il coronavirus può essere trasmesso anche dalle feci e dall’urina. Di ciò ne sono convinte le autorità sanitarie cinesi che hanno aggiunto questa ulteriore modalità di trasmissione dell’infezione a quelle già conosciute, tra cui la saliva, tossendo e starnutendo, i contatti diretti personali, il toccare con le mani contaminate bocca, naso o occhi. Lo scrive il South China Morning Post che ha reso pubblica una ricerca che ha rilevato tracce di coronavirus in campioni di feci prelevate da pazienti. Nell'ultimo piano di diagnosi e cura del virus, la Commissione sanitaria nazionale cinese ha spiegato che il contagio può avvenire anche con la trasmissione aerosol di piccole particelle di feci contaminate e la conseguente inalazione da parte dell'uomo. In realtà della possibile diffusione del coronavirus attraverso gli escrementi se ne parlava già da qualche settimana. A metà febbraio, infatti, era stato isolato il pericoloso microrganismo in un campione di feci di un paziente infetto. La scoperta, riferita da Zhao Jincun, del laboratorio statale per le malattie respiratorie dell'Università di Guangzhou, era stata fatta dai ricercatori cinesi dell'ospedale di Sun Yat-Sen. Ma non erano state raccolte prove sufficienti che dimostrassero la trasmissione oro-fecale del virus. La situazione per il coronavirus in Cina resta sempre piuttosto seria, nonostante siano diminuiti rispetto alle settimane scorse, almeno ufficialmente, il numero di persone morte e contagiate. Sono 2.981 i decessi totali provocati dall’infezione. Ad aggiornare i dati del contagio è stato il ministero della Salute di Pechino. Le persone risultate positive sono 80.270, con 119 nuovi casi e 38 decessi in più rispetto alla giornata di ieri. Restano in gravi condizioni 6416 pazienti. A Hong Kong, secondo la stessa fonte, i casi sono 100, con 2 morti e 10 a Macao. Intanto le autorità sanitarie locali hanno fatto sapere che verrà utilizzato il Tocilizumab, un farmaco contro l'artrite di Roche Holding, per curare alcuni pazienti affetti da coronavirus in gravi condizioni. Il medicinale, venduto dal colosso farmaceutico svizzero con il nome commerciale Actemra, può essere prescritto ai pazienti con coronavirus che mostrano gravi danni ai polmoni e un livello elevato della proteina Interleuchina 6, che potrebbe indicare infiammazione o malattie immunologiche. Secondo Roche, Actemra può aiutare a contenere l'infiammazione correlata all'Interleuchina 6. Un semplice tentativo in quanto non ci sono prove cliniche che il farmaco sia efficace sui pazienti contagiati dal coronavirus. Inoltre, lo stesso farmaco non ha ancora ricevuto l'approvazione dall'Amministrazione nazionale dei prodotti medici, la Nmpa, per essere somministrato contro l’infezione che sta dilagando nel mondo.
Dall'analisi della acque reflue perugine la possibile soluzione al coronavirus. Cristiana Mapelli su Il Messaggero Martedì 7 Aprile 2020. Il Comune di Perugia propone l’analisi delle acque reflue come segnale della presenza di coronavirus nei centri abitati. «Un modo efficace e rapido per prevedere la potenziale diffusione del coronavirus raccogliendo biomarcatori presenti nelle feci e nelle urine da portatori dell’infezione che entrano nel sistema fognario». Lo spiega il vicesindaco Gianluca Tuteri che guarda alle sperimentazioni di numerosi gruppi di ricerca di tutto il mondo per stimare il numero totale di infezioni in una comunità, dato che la maggior parte delle persone non potrà essere sottoposta a test. La proposta dell’amministrazione comunale è stata condivisa con l’assessore regionale alla Sanità Luca Coletto e con l’Università degli studi di Perugia nella persona di Francesca Fallarini del dipartimento di Medicina sperimentale La misura del virus nelle acque di scarico appare estremamente utile, soprattutto dopo le prime riaperture per rilevare se il coronavirus ritorna nelle comunità». «Studi recenti – spiega il vicesindaco - hanno dimostrato che il virus vivo può essere isolato dalle feci e dalle urine delle persone infette e che il virus può sopravvivere fino a diversi giorni in un ambiente appropriato. Sorge il dubbio se anche la via oro-fecale potrebbe essere una via di trasmissione. Ancora gli scienziati non hanno escluso o confermato questa possibilità, sono necessarie ulteriori ricerche». Secondo Tuteri, i ricercatori dovranno definire quanto Rna virale viene escreto nelle feci ed estrapolare da questo il numero di persone infette in una comunità. «Importante sottolineare che la sorveglianza delle acque reflue, non toglie risorse ai test sugli individui». Le misure di controllo delle infezioni, come il distanziamento sociale, stanno rallentando la pandemia, ma il virus potrebbe tornare a circolare dopo la revoca delle restrizioni. «La sorveglianza di routine delle acque reflue – spiega ancora - potrebbe essere utilizzata come strumento di allerta precoce non invasivo per avvisare le comunità sulle nuove infezioni da Covid-19 nella comunità consentendo di intervenire tempestivamente per limitare i movimenti di quella popolazione, lavorando per ridurre al minimo la diffusione del virus e la minaccia per la salute pubblica. In passato monitoraggi delle acque reflue sono stati utilizzati per rilevare focolai di corovirus, batteri resistenti agli antibiotici, poliovirus e morbillo. In particolare, un gruppo di ricercatori olandesi ha rilevato tracce del virus nelle acque reflue dell'aeroporto di Schiphol a Tilburg solo quattro giorni dopo che i Paesi Bassi hanno confermato il primo caso di coronavirus usando test clinici. I ricercatori sono al lavoro per estendere il campionamento alle capitali delle province dei Paesi Bassi. Gli studi hanno anche dimostrato che Covid-19 può comparire nelle feci entro tre giorni dall'infezione, molto prima del comparire dei sintomi. Il monitoraggio delle particelle virali nelle acque reflue – conclude Tuteri - potrebbe dare alla sanità pubblica un vantaggio decisivo per decidere se o quando introdurre/sospendere, misure restrittive. E badate: vista la velocità con cui si diffonde il virus tra la gente, più le misure sanitarie sono prese velocemente, meglio è».
Nessun contagio con le acque? Ecco lo studio che ribalta tutto. Gli ultimi risultati di uno studio dell'università di Stirling hanno cambiato tutto: “Rischio trasmissione con acque reflue". Federico Garau su Il Giornale. Venerdì 08/05/2020 su Il Giornale. Si torna a parlare della presenza di tracce di Rna del Coronavirus all'interno delle acque di scarico e di fiumi, fenomeno che interessa sempre più paesi del mondo: inizialmente la scoperta non aveva destato allarmi, dato che era stato detto che non vi era nessun rischio di contagio. Gli ultimi studi, tuttavia, hanno cambiato tutto. Parlando del risultato delle sue ricerche condotte su 8 campioni di acque di scarico raccolti dal 3 al 28 febbraio nella città di Milano e dal 31 marzo al 2 aprile a Roma, la dottoressa Giuseppina La Rosa del Dipartimento Ambiente e Salute dell'Istituto superiore della sanità, aveva dichiarato: “In 2 campioni raccolti nella rete fognaria della zona Occidentale e Centro-orientale di Milano è stata confermata la presenza di Rna del nuovo Coronavirus. Nel caso di Roma, lo stesso risultato positivo è stato riscontrato in tutti i campioni prelevati nell'area orientale della città”. Le sue affermazioni, tuttavia, non avevano provocato allarmismi. “Il ritrovamento non ha nessun rischio. Il risultato rafforza le prospettive di usare il controllo delle acque in fognatura dei centri urbani come strumento non invasivo per rilevare precocemente la presenza di infezioni nella popolazione”, aveva infatti dichiarato il direttore del reparto qualità dell'acqua e salute dell'Iss Luca Lucentini. Un più recente studio inglese, tuttavia, ha completamente stravolto le convinzioni iniziali, mettendoci di fronte ad un nuovo problema. In un articolo pubblicato ieri sulla rivista Environment International, i biologi ambientali dell'università di Stirling hanno raccomandato ai governi di non trascurare il fenomeno di una possibile trasmissione del Coronavirus nelle acque reflue. Dal momento che attualmente la nostra principale difesa contro il Covid-19 consiste nell'arrestare la sua diffusione, prevenendo i contagi, è importante agire su ogni via di diffusione. Anche l'acqua infetta, dunque, può comportare un rischio di trasmissione. Il dottor Richard Quilliam, che si è impegnato nello studio, ha chiesto al governo britannico di spendere ulteriori risorse per indagare sul caso. “Anche se il sistema fognario potrebbe rivelare informazioni utili sulla diffusione dell'epidemia, potrebbe anche comportare un discreto rischio di trasmissione”, ha infatti dichiarato lo scienziato. “Sappiamo che Sars-CoV-2 si trasmette tramite oggetti o materiale genetico che trasporti l'infezione, non è ancora noto se il virus possa essere trasmesso attraverso la via fecale-orale, ma studi recenti hanno evidenziato la presenza di Covid-19 nelle feci, e lo spargimento virale del sistema digestivo può durare più a lungo di quello del tratto respiratorio”. Dello stesso avviso il ricercatore Manfred Weidmann e la dottoressa Vanessa Moresco , che hanno collaborato con Quilliam per realizzare lo studio. “Il problema principale è che una percentuale significativa di pazienti con Coronavirus è asintomatica, o manifesta sintomi molto lievi, per questo esiste il rischio elevato di contagio. La mancanza di test inoltre rende complessa la previsione della portata della diffusione potenziale e delle implicazioni per la salute pubblica”, ha dichiarato il primo. “La conformazione del virus inoltre sembra tale da suggerire un comportamento diverso del morbo in un ambiente acquoso. Alcuni Coronavirus possono rimanere attivi nelle acque reflue per circa 14 giorni, a seconda delle condizioni ambientali”, ha aggiunto la scienziata. A destare particolare preoccupazione, quelle zone dove non sussistono condizioni igieniche adeguate. In quel caso, il rischio sarebbe addirittura molto elevato. “Comprendere il rischio di diffusione attraverso la via oro-fecale, pur essendo ancora in una fase abbastanza precoce della pandemia, consentirà di condividere con il pubblico più informazioni basate sull'evidenza della trasmissione virale. Inoltre, i rischi associati al caricamento delle acque reflue durante il resto dell'epidemia Covid-19 deve essere quantificato al più presto per consentire ai gestori delle acque reflue di agire rapidamente e mettere in atto misure di controllo per ridurre l'esposizione umana a questo materiale potenzialmente infettivo”, affermano gli esperti, invitando i paesi ad agire in fretta. “In un momento in cui il mondo è così concentrato ad intervenire sulle vie respiratorie, trattandosi di un virus respiratorio, non si deve però trascurare la possibilità che il Sars-Cov-2 possa diffondersi anche attraverso via oro-fecale", concludono.
FATTORE AMBIENTE: AEROSOL.
Da today.it il 26 ottobre 2020. Com'è noto gli ambienti chiusi sono ideali per il proliferare di SARS-COV-2, ma mettendo in pratica alcune semplici misure è possibile comunque ridurre al minimo il rischio di contagio. Se nella prima fase della pandemia si è insistito soprattutto sull'importanza dell'igiene della mani, con il passare del tempo è apparso evidente che la maggior parte delle infezioni avveniva in altro modo: dopo un contatto ravvicinato e diretto con una persona positiva al virus, ma anche tramite aerosol - minuscole particelle più piccole di 100 μm che possono viaggiare anche a più di due metri di distanza, accumularsi nell'aria ed essere inalate.“
Il ruolo degli aerosol nella trasmissione del virus. Recentemente anche i Cdc americani (Centers for Disease Control and Preventions) hanno riconosciuto l'importanza della tramissione aerea nel contagio da SARS-COV-2. E così pure il Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie (ECDC) che tuttavia preferisce essere più prudente giudicando "meno solide" le prove di questo tipo di contagio. Un articolo pubblicato sulla prestigiosa rivista "Science" parla invece di "prove schiaccianti" spiegando che in uno spazio chiuso gli aerosol più piccoli di 100 µm possono accumularsi nell'aria "provocando eventi di sovra diffusione". Il quotidiano spagnolo "El Pais" ha provato a calcolare il rischio di infezione in un ambiente chiuso utilizzando un modello di calcolo sviluppato dal professor José Luis Jiménez dell’Università del Colorado. Non si tratta di un metodo infallibile, premette il quotidiano, ma probabilmente abbastanza accurato per capire come il virus "lavora" negli ambienti chiusi, anche laddove viene rispettata la distanza di sicurezza di due metri. "El Pais" mostra tre situazioni molto comuni in cui può avvenire il contagio: un incontro con amici/parenti nel salotto di casa; un pranzo in un bar o ristorante e una lezione in classe.
Così il virus si diffonde tra amici e parenti. Scenario 1: "El Pais" ipotizza che nel nostro soggiorno di casa (le dimensioni non sono note) ci siano 6 persone, di cui una infetta da SARS-COV-2. In un caso del genere, indipendentemente dalla distanza di sicurezza, senza mascherine e una ventilazione adeguata l'infetto potrebbe essere in grado di trasmettere il virus a tutti gli altri presenti nel giro di 4 ore. Se tutti indossassero le mascherine, le infezioni si ridurrebbero da 5 a 4 ma il contagio ci sarebbe comunque perché con una esposizione molto prolungata neppure i dispositivi di protezione sono in grado di fermare il virus. Che cosa fare allora per ridurre al minimo il rischio di infezione? In casi del genere areare l'ambiente e dimezzare la durata dell'esposizione (da 4 ore a 2) riduce il rischio a meno di una persona infetta. A patto però di indossare i dispositivi di protezione. Secondo "El Pais" in Spagna il 31% dei casi di infezione è diretta conseguenza di questo tipo di situazioni.
Il contagio al bar o in un ristorante. Scenario 2: in un bar ci 15 persone che consumano e tre dipendenti. Le porte sono chiuse e non c'è ventilazione meccanica. Ebbene, nel peggiore dei casi, senza prendere nessuna misura di sicurezza dopo quattro ore tutti i 14 clienti sarebbero infettati dal virus. Se tutti indossassero i dispositivi di protezione i contagi si ridurrebbero ad 8. Con le mascherine, una ventilazione adeguata e un tempo di esposizione dimezzarto (da 4 a 2 ore), le probabilità di contagio calano invece drasticamente: il virus sarebbe capace di infettare solo una persona.
In un'aula scolastica. Scenario 3: un'aula scolastica con 24 alunni. La situazione più pericolosa si verifica in una classe non ventilata in cui la persona infetta è l'insegnante. In un caso del genere, senza misure di sicurezza al virus bastano 2 ore per contagiare 12 persone. Anche in questo caso l'uso delle mascherine riduce drasticamente il rischio di contagio (da 12 a 5 persone infettate) ma non lo elimina del tutto. Dimezzando il tempo di esposizione (da 2 ore ad 1 ora) e areando adeguatamente l'aula il virus sarebbe invece in grado di infettare solo una persona. "El Pais" specifica che a differenza di quanto si può pensare, nelle situazioni reali la distribuzione dei contagi è casuale, poiché senza vetilazione "gli aerosol si accumulano e si distribuiscono in tutta la stanza".
La trasmissione aerea del coronavirus. Ma perché è così infida la trasmissione per via aerea? "El Pais" spiega che oggi contrariamente al passato non si ritiene che il rischio di contagio esista solo se ci troviamo di fronte ad una persona che tossisce o starnutisce. Anche condividere un ambiente chiuso con una persona che parla, urla o canta a lungo amplifica i rischi di contrarre il SARS-COV-2. In un'ora, una persona che grida emette in un'ora una quantita di aerosol infettivi 50 volte superiori rispetto ad una situazione di silenzio.
L'importanza di areare classi e locali. Un altro studio condotto da un gruppo di ricercatori di fisica dell'Università del New Mexico ha mostrato che anche nelle aule scolastiche la ventilazione è fondamentale per contenere il contagio da SARS-COV-2. Secondo gli studiosi, le particelle di grandezza 1 micrometro possono essere trasmesse anche a distanza di quasi 2 metri e mezzo, ma una buona aerazione sarebbe in grado di disperderne il 70%.
Coronavirus, ha colpito di più in Pianura padana perché è la zona più inquinata d'Italia. Le Iene News il 29 settembre 2020. Lo studio della Società italiana di medicina ambientale sul collegamento tra inquinamento e coronavirus, di cui noi vi abbiamo parlato già a marzo, è stato pubblicato sul British Medical Journal confermando le evidenze iniziali: le polveri sottili presenti nell’aria hanno “aperto un’autostrada al coronavirus”. Per prevenire una seconda ondata bisognerebbe usare la “mascherina anche all’esterno dove non fossero assicurate distanze di almeno 6-8 metri”. Il Covid in Italia ha colpito di più in Pianura padana perché è la zona più inquinata d’Italia, e le polveri sottili hanno “aperto un’autostrada al coronavirus”. E per evitare che quanto successo in primavera si ripeta nelle aree del paese molto inquinate sarebbe utile “l’uso della mascherina anche all’esterno dove non fossero assicurate distanze di almeno 6-8 metri”. Quella che prima era solo una coincidenza adesso ha un nesso evidente, e la prova è nella pubblicazione dello studio della Società italiana di medicina ambientale sulla correlazione tra l’inquinamento e la diffusione del coronavirus in Pianura padana. A marzo noi di Iene.it con Giulia Innocenzi abbiamo intervistato il professor Alessandro Miani, presidente della Sima, che ci aveva parlato proprio dello studio condotto insieme all’università di Bologna, di Bari e di Trieste: “L’inquinamento nell’aria potrebbe velocizzare la diffusione del coronavirus“, ci aveva spiegato. Oggi quello studio è stato pubblicato sul British Medical Journal, confermando le evidenze che erano già emerse nelle prime fasi: “Abbiamo ottenuto la prova dell’interazione tra particolato atmosferico e virus quando siamo riusciti a isolare tracce di RNA virale in campioni provenienti dai filtri di raccolta del particolato atmosferico prelevati nella provincia di Bergamo a fine febbraio”, ha spiegato il professor Leonardo Setti, docente di Biochimica Industriale all’Alma Mater di Bologna e membro del comitato scientifico SIMA. E lo studio della Sima ha analizzato proprio le centraline che registrano il livello di inquinamento dell’aria, partendo dall’evidenza che “su un totale di 41 Province del Nord Italia, ben 39 si collocavano nella categoria di massima frequenza di sforamenti” dei limiti imposti di particolato nell’aria. “Mentre 62 Province meridionali su 66 si situavano ai livelli più bassi di inquinamento atmosferico”, spiega il professor Prisco Piscitelli, epidemiologo e vicepresidente SIMA. “Complessivamente gli sforamenti si rivelavano un significativo fattore predittivo di infezione da Covid, potendo spiegare la diversa velocità di propagazione del virus nelle 110 Province italiane”. ”La Pianura padana in inverno è assimilabile ad un ambiente indoor con il soffitto di qualche decina di metri, dove in presenza di una grande circolazione virale le condizioni di stabilità atmosferica, il tasso di umidità e la scarsa ventilazione hanno di fatto aperto al coronavirus delle vere e proprie autostrade”, ha aggiunto Gianluigi De Gennaro, professore di Chimica dell’Ambiente all’Università di Bari. Un allarme che era già stato lanciato a marzo, quando “ci siamo sentiti in dovere di avvertire i decisori politici, nel pieno dell’emergenza COVID, che la distanza di sicurezza di un metro non fosse sufficiente a garantire la sicurezza”, spiega il professor Miani. “Era necessario obbligare all’uso della mascherina tutti i cittadini in ogni luogo aperto al pubblico in un momento in cui si stava ancora discutendo dell’efficacia dei dispositivi di protezione individuale”, aggiunge. Una specificazione oggi ancora più importante di prima. Lo studio insomma evidenzia “una significativa associazione tra le aree più inquinate e l’iniziale diffusione del coronavirus nelle 110 provincie Italiane”. Una scoperta importante, perché l’analisi delle centraline potrebbe aiutare a prevedere la nascita di nuovi focolai di coronavirus: “Per le amministrazioni pubbliche sarebbe auspicabile che facessero monitorare l’andamento delle polveri e verificare periodicamente la presenza di virus sulle stesse, al fine di anticipare e scongiurare nuovi fenomeni di superdiffusione come quelli verificatisi nel nord Italia con decine migliaia di morti”, spiega ancora il professor Miani. Quali misure si potrebbero prendere quindi per prevenire una seconda ondata in Pianura padana? I consigli della Sima sono chiari: “Blocco del traffico, limitazione dell’uso delle caldaie e l’uso della mascherina anche all’esterno dove non fossero assicurate distanze di almeno 6-8 metri”.
Il problema non sono i banchi ma la qualità dell’aria. Redazione culturaidentita.it il 25 Agosto 2020. Appello di SIMA al Comitato Tecnico Scientifico per una scuola Covid-free. “La discussione sui banchi e la responsabilità giuridica dei presidi sta facendo passare in secondo piano il vero nodo alla base di una riapertura in sicurezza delle scuole. Il vero punto da affrontare è come garantire una qualità dell’aria ottimale in aula sia dal punto di vista chimico-fisico che microbiologico (assenza di virus). E questo obiettivo – spiega il prof. Alessandro Miani, presidente della Società Italiana di Medicina Ambientale (SIMA) – può essere raggiunto già con completi ricambi d’aria ad ogni cambio d’ora ma anche investendo in tecnologie per la ventilazione meccanica controllata (VMC) con filtrazione aria in entrata e con la purificazione dell’aria indoor, grazie a dispositivi in grado di eliminare virus e particelle fino a 0,1 micron”. “È quindi strategicamente sbagliato”, spiega Miani, “investire le limitate risorse disponibili solo per l’acquisto di banchi monoposto al fine garantire una distanza di un metro che è molto inferiore ai due metri raccomandati dall’OMS o ai 4 metri indicati come plausibili in studi pubblicati da SIMA e da altri ricercatori di tutto il mondo”. Dal canto suo, l’epidemiologo Prisco Piscitelli, vicepresidente SIMA, chiarisce che “nessun distanziamento tra banchi può impedire la potenziale concentrazione all’interno dell’aula di sostanze emesse direttamente dalla respirazione. Come recentemente evidenziato in una pubblicazione SIMA – UNESCO per fornire raccomandazioni sulla qualità dell’aria indoor a scuola in tempi di Covid, se consideriamo la CO2 come indicatore delle esalazioni respiratorie, ogni bambino fino a 10 anni emette da seduto circa 14 litri di CO2 all’ora contro i 27 litri dei teenager (fino a raggiungere gli 85 litri di CO2 in palestra durante attività sportiva). Va da sé che l’aria viziata in classe rappresenta un problema ben noto che acquisisce nuova criticità nel caso ci fossero uno o più alunni portatori del virus in una classe senza ricambi d’aria adeguati, con buona pace del metro di distanza tra i banchi monoposto”. La SIMA lancia il suo appello al Comitato Tecnico Scientifico governativo chiamato a prendere le decisioni finali sulla scuola entro fine agosto, perché il problema della qualità dell’aria (IAQ) in aula sia al centro dei documenti di valutazione dei rischi in corso di predisposizione da parte dei singoli istituti scolastici con l’individuazione di un referente scolastico per la IAQ come avviene in altri Paesi. “Oltre all’utilità dei sistemi di ventilazione meccanica controllata (VMC) e purificazione d’aria, va organizzato un percorso di assistenza a quelle famiglie con anziani in casa che non possono garantire un isolamento domiciliare di eventuali alunni risultati positivi al tampone senza gravi rischi per la salute degli adulti. Non si può ancora una volta scaricare le criticità sui nuclei familiari lasciandoli senza assistenza. A tal fine il modello delle cosiddette Maison Relais del mondo francofono potrebbe essere utile a definire strutture di accoglienza temporanea di taglio professionale e al tempo stesso familiare”, conclude il prof. Miani.
"Goccioline infettive nell'aria", ma ora è scontro sul contagio. Secondo alcuni esperti l’aerosol disperso avrebbe un ruolo nella diffusione del virus. Ma alcuni studi non concordano. Valentina Dardari, Mercoledì 19/08/2020 su Il Giornale. Ancora tanti i dubbi riguardanti la diffusione del coronavirus. Uno di questi, tema anche di scontro tra esperti che non la pensano nello stesso modo, riguarda il fatto che il virus possa o meno diffondersi per via aerea. L’Organizzazione mondiale della Sanità ha recentemente ammesso che questa possibilità ci possa essere, ma le opinioni sono discordanti.
Coronavirus e la diffusione per via aerea. Secondo un gruppo di scienziati anche le goccioline disperse nell’aria, quelle che emettiamo respirando o parlando, possono essere portatrici di contagio. Sul fatto che siano infettive però ci sono dei dubbi. Un recente studio condotto da un team di ricerca dell’Università della Florida avrebbe dimostrato che le goccioline di aerosol contengono virus vivi. Stando a questo il coronavirus nell’aria sarebbe quindi infettivo. Il gruppo di ricerca avrebbe isolato virus vivi da goccioline di aerosol in una stanza dove vi erano soggetti positivi a oltre due metri di distanza l’uno dall’altro. Ancora però non c’è la conferma scientifica che il risultato della ricerca si attendibile.
Lo scontro sullo studio. Subito la dottoressa Linsey Marr, esperta nella diffusione aerea dei virus, ha dichiarato in un a intervista al New York Times che “questo è quanto le persone stavano chiedendo a gran voce, la prova inequivocabile della presenza di virus infettivi negli aerosol”. Molti sono però gli esperti che sottolineano come non sia comprovato il fatto che la quantità di virus rintracciato sia comunque sufficiente a causare il contagio. Tra questi anche Angela Rasmussen, virologa della Columbia University di New York, che ha dichiarato: “Non sono sicura che questi numeri siano abbastanza alti da provocare l’infezione di qualcuno. L’unica conclusione che posso trarre da questo documento è che è possibile coltivare virus vitali campionati in aria, e ammetto che non è poco”. Essendo gli aerosol molto piccoli, non è facile questo genere di indagine. Anche perché l’evaporazione li fa diventare ancora più piccoli e cercare di accalappiare le goccioline può danneggiare il virus al loro interno. Precedentemente altri esperimenti avevano utilizzato filtri di gelatina o anche tubi di vetro o plastica per raccogliere l’aerosol. In quei casi però la potenza dell’aria aveva ridotto il volume degli aerosol eliminando il virus. Un altro gruppo di lavoro era riuscito a isolare il virus vivo, senza però poter dimostrare che il virus isolato potesse infettare le cellule. E in Italia ci sono esperti, come il professor Matteo Bassetti, direttore della clinica di Malattie Infettive dell'Ospedale San Martino di Genova, che da settimane parla di un virus che non fa più paura, proprio per il fatto che la sua carica virale è diminuita. Ai primi di agosto Bassetti aveva spiegato che “se prima il numero di particelle infettive di virus era di 100, adesso è di 10 o anche meno e quindi ci si difende più facilmente”.
Come si prende il coronavirus al ristorante, storia di un vero contagio: lo schema. Redazione de Il Riformista il 21 Aprile 2020. Come si diffonde il coronavirus in un ambiente e perché, in presenza di una persona positiva, alcuni si infettano ed altri no. Sono le domande a cui prova a rispondere uno studio che sarà pubblicato nel numero di luglio di Emerging Infectious Diseases, la rivista dal Centro per il controllo e la prevenzione delle malattie degli Stati Uniti. I ricercatori, come riportato dal New York Times, hanno riprodotto una situazione realmente accaduta. A gennaio, in un ristorante di Guangzhou, in Cina, un cliente positivo ma asinotmatico ha infettato altre nove persone. Uno dei condizionatori del ristorante avrebbe diffuso le particelle di virus nella sala da pranzo. C’erano però altri 73 commensali che quel giorno mangiarono nello stesso piano del ristorante a cinque piani, e loro non si ammalarono così come gli otto camerieri che stavano lavorando in quel momento. Lo studio offre numerosi spunti proprio ora che si pensa alla ripartenza e anche i ristoranti studiano modi sicuri per ripartire. È stato osservato, infatti, che i sistemi di ventilazione possono creare corridoi d’aria per il virus e quindi il semplice distanziamento di un metro tra i tavoli potrebbe non essere sufficiente. A pranzo, i cinque membri della famiglia, quelli intorno al tavolo A, erano apparentemente sani. Ma più tardi, una di loro, una donna di 63 anni, è risultata positiva al coronavirus. Entro le due settimane successive, altri nove clienti del ristorante risultarono positivi. Quattro erano parenti della prima donna infetta e forse hanno contratto il virus in altre occasioni ma per le altre cinque persone il ristorante sembrerebbe essere stato il luogo del contagio. Guardando alla distribuzione delle persone in sala appare evidente che la traiettoria dell’aria condizionata ha influenzato la trasmissione del virus. “Concludiamo che in questo focolaio, la trasmissione di goccioline è stata provocata dalla ventilazione con aria condizionata”, hanno scritto gli autori dello studio. “Il fattore chiave per l’infezione è stata la direzione del flusso dell’aria condizionata.”
Coronavirus, la ricetta del professore Franco Prodi: "Soltanto controllando l'aria si può isolare l'infezione". Libero Quotidiano il 18 aprile 2020. «Sono molto preoccupato. La clausura, il distacco sociale, vengono imposti come unica soluzione possibile per contrastare la diffusione del Covid-19, implicitamente attribuendo il contagio alla sola interazione tra persone. Ma non è così, tant'è che la segregazione degli individui all'interno delle loro abitazioni fatica a portare i vantaggi attesi, pur essendo al momento assolutamente necessaria. Perciò, adesso che si parla di ripartenza, non possiamo pensare che siano sufficienti divisori in plexigas, mascherine e distanze tra le persone. Bisogna considerare quanto dice la fisica dell'aerosol: il virus resta sospeso nell'aria e ne segue le vicissitudini. Pertanto, se si vuole riaprire in sicurezza, non bastano tamponi ed esami del sangue, bisogna testare la presenza effettiva del vibrione in atmosfera almeno in diverse situazioni tipiche (centro urbano, periferie aree rurali, e anche a diverse altezza dal suolo)». Dall'altro capo del telefono, dalla sua casa bolognese, sta parlando il professor Franco Prodi, uno dei più importanti studiosi al mondo di fisica dell'atmosfera, meteorologia e climatologia. «Ho studiato una vita, sono stato finanziato dal denaro pubblico e ritengo mio dovere restituire quanto ricevuto mettendo i cittadini a conoscenza dell'altra metà della storia del contagio, intorno alla quale vige un silenzio assoluto e colpevole».
La tesi dell'accademico è lineare. Quando una persona infettata starnutisce, emette goccioline che possono contenere virus (quando è nell' aria si chiama vibrione). Se le goccioline sono di una certa consistenza, cadono al suolo rapidamente. Se invece esse sono piccolissime, 5-10 micron, e in uno starnuto ce ne sono parecchie di questo tipo, la parte acquosa evapora e nell'aria rimane, insieme ad altri residui, il vibrione, che può restare attivo per alcune ore, e può viaggiare anche per centinaia di metri. Poiché è invisibile anche al microscopio ottico, bisogna ricorrere alle osservazioni al microscopio elettronico per individuarlo. «Bisogna stare molto attenti agli impianti di condizionamento - ammonisce Prodi, - perché gli split di areazione possono trasformarsi in untori. In ufficio si può stare distanti anche venti metri l'uno dall'altro, ma se poi si respira aria introdotta dallo stesso impianto, tanto vale stare vicini». Anche il mito della mascherina va esaminato alla luce della fisica dell' aerosol: «È utile, ma la sua efficacia non è totale. È in grado di fermare le goccioline e le particelle più grandi, che trovano in essa un ostacolo immediato, ma non quelle piccole, le quali possono attraversarla e restano nell' aria con la loro carica contagiosa». Se si vogliono proteggere i medici, al di là degli scafandri indossati da coloro che operano nelle sale di rianimazione dei reparti Covid-19, l'ideale sarebbe adottare per il personale sanitario caschetti dotati di pompe che alimentino i filtri assoluti, con aria che arrivi direttamente all' operatore e gli consenta di respirare aria perfettamente filtrata. «Io li avevo già studiati quindici anni fa - rivela Prodi, - poi dovetti interrompere per mancanza di fondi, ma il progetto è in stadio avanzato. Andrebbero precettate industrie e sfornati a decine di migliaia. È un'operazione che si può fare in una settimana, invece qui, per quanto ne so, non si è fatto ancora nulla». È il fattore tempo una delle maggiori preoccupazioni del professore. «Possibile che in due mesi, con tutte le commissioni scientifiche che ci sono, non abbia mai sentito parlare della necessità di monitorare lo stato del vibrione nell' aria? Capisco che spaventi sapere che il virus giri liberamente alla faccia di mascherine e isolamento, ma non è un buon motivo per far finta che non sia così» si lamenta il professore. Questo silenzio è la prova di come i differenti settori del mondo della scienza non si parlino tra di loro. «La trasmissione di conoscenze tra ambiente medico e ambiente fisico è assai carente». Nessuna malafede secondo Prodi, solo «la prova dell'ignoranza che regna sovrana nel nostro Paese, dove il rispetto per la scienza si è via via degradato, fino ad arrivare a mettere persone inadeguate in posti importanti, umiliando le competenze». E oggi se ne raccolgono i frutti. Ce ne sarebbe da dire, ma l' intento di Prodi non è polemico. «Vorrei solo - spiega - che si facessero dei campionamenti in aria seguiti da osservazioni con microscopi elettronici, che nel Paese non mancano e vegnono utilizzati anche per altre ricerche (struttura della materia, microelettronica etc). Dovrebbero stare accesi 24 ore su 24 per l' osservazione dei supporti di campionamento. In Italia ogni Regione ha i suoi laboratori di monitoraggio della qualità dell'aria. Poi ci sono le unità di ricerca nelle università e negli enti di ricerca. Ciascuna Agenzia Regionale di Protezione dell'Ambiente ha una rete di centraline e punti d' osservazione. Oltre a misurare l'inquinamento, utilizziamola anche per sapere quanto il Covid-19 è diffuso nell' atmosfera. Non costa nulla e potrebbe consentire di riaprire vaste aree d' talia, impianti industriali in zone non infettate. Inoltre è un sistema di misurazione della diffusione del contagio più economico, più preciso e più sicuro». L'uovo di Colombo. Basta richiedere ai fisici dell' aerosol e ai microscopisti elettronici di fare la loro parte in un momento come questo. L' occasione del colloquio è ghiotta e non si può non chiedere al climatologo se l'estate ci libererà dal Covid-19. «La domanda mi dà modo di parlare del ruolo della precipitazione nella rimozione del virus dall' atmosfera. Al Nord praticamente non piove da febbraio, e purtroppo non sono previste precipitazioni ancora per una dozzina di giorni. L'acqua lava e pulisce. Basterebbe correlare provincia per provincia l'intensità di precipitazione ai ricoveri cinque-sei giorni dopo le piogge, il tempo di incubazione. Dono certo che si noterebbe una diminuzione. Sono convinto che il Sud sia stato meno colpito dal Covid-19 perché è stato oggetto di successive perturbazioni in questi ultimi mesi». Sì professore, ma il caldo? «Quanto all'estate, con il caldo le influenze normali spariscono e si dice che il Covid-19 soffra oltre il 15 gradi e sotto i 5. La temperatura alta e le radiazioni ultraviolette normalmente nuocciono ai virus, pertanto è legittimo attendersi una contrazione estiva della pandemia. Oltre al caldo però, conta il vento, altro grande assente dalla Pianura Padana. Esso diluisce le concentrazioni degli inquinanti, redistribuendoli negli strati più alti e attenua la forza contagiosa del virus».
Melania Rizzoli per “Libero quotidiano” il 7 aprile 2020. Finora sotto accusa erano stati solo i colpi di tosse e gli starnuti, mentre oggi si prende in considerazione l' ipotesi che il rischio di contagio da Coronavirus sia possibile anche solo parlando e, forse, persino respirando. Uno studio commissionato dalla Casa Bianca ad un gruppo prestigioso di esperti, capitanati da Harvey Fineberg, presidente della National Academy of Sciences ed ex preside della Harvard School of Public Health, ha confermato che il virus si diffonde normalmente da persona a persona quando le stesse si trovano a meno di due metri una dall' altra, ma ha dimostrato che la trasmissione aerea avviene non solo tossendo o starnutendo, ma anche parlando o semplicemente respirando, aggiungendo che il virus, una volta liberato, è in grado di viaggiare nell' aria per diversi metri, molto più lontano e molto più a lungo di quanto si è pensato finora. Lo studio infatti, documenta una ricerca sviluppata all' Università di Wuhan, la quale evidenzia come il Corona, una volta espulso da un soggetto positivo non cade subito a terra ma resta sospeso in aria in una sorta di aerosol, e che la sua diffusione avviene anche quando il personale sanitario sano si spoglia dell' equipaggiamento protettivo contaminato che lo ricopre, dove l' agente virale si è depositato e attaccato, o quando i medici si spostano con i camici contagiati da un reparto infetto all' altro, e viene inoltre dimostrato come lo stesso accade durante la pulizia dei pavimenti, la cui manovra di rimozione della polvere lo raccoglie e ne favorisce la dispersione nell' area circostante con la conseguente elevazione e volteggio in quota. Fineberg, che è anche capo della Commissione permanente sulle malattie infettive, fa riferimento nel suo report ad una nuova ricerca dell' Università del Nebraska, condotta dal gruppo di Joshua Santarpia in 11 stanze di isolamento nelle quali erano ricoverati pazienti infetti, la quale mostra che il materiale genetico virale, ovvero campioni del suo Rna, sono stati trovati a diversi metri di distanza dai letti dei degenti, confermando l' ipotesi che le goccioline emesse durante il loro respiro affannoso e forzato possono restare sospese in aria, distanziarsi e allontanarsi, e potenzialmente contagiare chi arriva nei pressi di quella zona non correttamente protetto. Inoltre, essendo stata accertata la trasmissione oro-fecale del covid19, ritrovato attivo nelle feci dei pazienti infetti, la sua trasmissione può allo stesso modo avvenire durante l' emissione fisiologica o patologica dei gas intestinali, che lo disperderebbero nell' atmosfera al pari di un colpo di tosse. I dati dei numerosi contagi avvenuti negli ospedali tra gli operatori sanitari inoltre, insinuano l' ipotesi che il Corona potrebbe sopravvivere non solo nel respiro umano ma anche in quello prodotto dalle macchine, ad esempio dai respiratori automatici delle sale di rianimazione, che lo diffonderebbero durante il soffio ritmico della ventilazione artificiale, esponendo ulteriormente il personale ad un rischio costante nelle aree di terapia intensiva. Il dibattito su questo tema è molto acceso, e si è animato ulteriormente dopo la ricerca pubblicata a marzo sul New England Journal of Medicine, in cui si sostiene che il SarsCov2 può sopravvivere fino a tre ore nell' aria, custodito nelle goccioline di saliva, e rimanere infettivo. Questo nuovo studio ha riaperto la discussione tra i virologi americani, al punto che l' OMS si è detta pronta a rivedere le proprie linee guida, valutando le nuove prove per eventualmente modificare o rafforzare le misure per la popolazione sulla corretta prevenzione ed uso dei dispositivi di protezione.
STANZA CHIUSA. Su Libero, un mio articolo del mese scorso sul tema dei runner aveva già avanzato questa ipotesi, sostenendo come il Corona, una volta fuoriuscito dal corpo umano vivo o morto in qualunque modo, tendesse, pur di sopravvivere, ad elevarsi appigliandosi alle particelle atmosferiche per rimanere sospeso in balìa dei movimenti aerei provocati anche solo dal passaggio di una persona, in camminata o in corsa, in attesa di attaccare una nuova cellula umana vivente e di conseguenza infettarla replicando la sua azione virale. Cosa che è stata confermata da un efficace esperimento giapponese eseguito in laboratorio, incluso nello studio americano, che ha simulato il contagio in una stanza chiusa includente dieci persone sane miste ad un positivo al virus, dimostrando come, anche durante la normale convivenza, fatta di discorsi e risate, la maggior parte dei presenti fosse in grado di inalare il covid19 emesso con le goccioline di saliva durante la conversazione, e come lo stesso rimanga sospeso in aerosol sopra o all' altezza della testa dei partecipanti per molto più tempo di quello che si pensasse. In Italia, nei pazienti deceduti sono stati riscontrati test tampone positivi anche a distanza di due ore dalla loro morte, segno di quanto questo virus resti vitale ed attivo per un periodo superiore a quello fino ad oggi previsto, sebbene in carenza di ossigeno. Ancora non si conosce la quantità di virus necessaria per passare da uomo a uomo ed infettarlo, o la sua dose patologica di carica virale, ma è probabile che una moltitudine di contagi siano avvenuti così anche nel nostro Paese, poiché il rischio è risultato molto più elevato negli spazi delimitati in assenza di aerazione. Il laboratorio che ha pubblicato la simulazione nell' ambiente chiuso ha sottolineato e fatto vedere come un solo colpo di tosse sia in grado di emettere oltre 100mila particelle di saliva, e come, mentre quelle più grandi scendono lentamente depositandosi sulle superfici o sul terreno per inerzia, essendo più pesanti, quelle ultrafini e più microscopiche, essendo leggere restano in aria con il loro contenuto malefico per almeno 20/30 minuti, pronto ad essere inspirato, a meno che qualcuno non apra la finestra per farle volare via, poiché basterebbe arieggiare gli ambienti ogni ora per abbassare di molto il rischio di contagio. Lo studio americano è stato realizzato dai massimi esperti specializzati nei modelli di previsione di questi fenomeni, i quali sostengono che tale modalità di diffusione del covid19 potrebbe arrivare a provocare oltre due milioni di vittime negli Usa. L'allarme di tale ricerca, che ha fatto vacillare le certezze scientifiche finora ritenute consolidate, ha avuto un forte impatto internazionale, in seguito al quale il Governo americano ha iniziato a bloccare il Paese «per evitare di finire come l' Italia», considerata prima un cattivo esempio da non seguire, ed oggi l' apripista la cui traccia viene seguita ed esaminata attentamente, visto che quanto accaduto nella nostra penisola ha fatto da canarino nella miniera, per cui, se fino a qualche giorno fa gli statunitensi guardavano in tv i servizi drammatici della Lombardia con paura e compassione, oggi, per tentare di abbassare la curva del contagio, la cui emergenza potrebbe durare fino ad agosto, si ritrovano a vedere nella tragedia italiana non una minaccia ma un possibile cammino di speranza.
CAMPIONI D'ARIA. Nel nostro bel Paese la situazione sanitaria non è ancora sotto controllo, mentre da due mesi va avanti il dibattito tra i nostri ricercatori su cosa sia utile o inutile, mettendo spesso in discussione quanto affermato il giorno prima, ma le ultime evidenze scientifiche arrivate da oltreoceano descrivono uno scenario allarmante e non previsto, con campioni d' aria positivi al virus raccolti a metri di distanza dal paziente infetto in preda alla tosse, fino ad 6/8 metri, ed anche se ci vorranno settimane per confermare tale teoria su larga scala, mai come in questo momento l' uso delle mascherine di protezione, consigliato fino a ieri da numerosi virologi nostrani solo ai malati positivi e a chi si prende cura di loro, diventa essenziale e indispensabile per ognuno di noi nella lotta alla diffusione del contagio, per ridurre la trasmissione virale da persone asintomatiche e inconsapevoli di essere portatrici. Misure che naturalmente restano efficaci solo se combinate con le altre note disposizioni costrittive e restrittive imposte dai governatori delle Regioni e dai componenti del nostro governo.
Coronavirus, lo studio: può viaggiare nell'aria con aerosol. Notizie drammatiche: l'Oms vacilla sulle mascherine. Libero Quotidiano il 3 aprile 2020. Del coronavirus, questa l'amara verità, sappiamo ancora poco. Troppo poco. Tanto che sono molteplici e spiazzanti i dubbi della comunità scientifica sulla pandemia sotto ogni suo aspetto. E una delle sfaccettature più caotiche è quella relativa alle mascherine: quando servono? E perché? Secondo la "vulgata", sostenuta per inciso anche dall'Oms, per esempio sarebbe inutile indossarle per strada. Peccato però che gli studi delle ultime settimane, come riporta Repubblica, dicano altrimenti: la diffusione del Covid-19 nell'aria è più sostenuta di quanto si ritenesse inizialmente. Tanto che, per esempio, Donald Trump e la sua amministrazione consigliano l'uso dello strumento in ogni contesto. Tanto che anche l'Oms, si apprende, sarebbe pronto a cambiare le linee guida al riguardo. Lo spiega Davyd Heymann, il responsabile del panel che si occupa dell'argomento presso l'Organizzazione di Ginevra, il quale ha annunciato alla Bbc: "Stiamo studiando le nuove evidenze scientifiche e siamo pronti a cambiare le linee guida, se necessario". Dunque le spiegazioni di Paolo D'Ancona, epidemiologo dell'Iss, citato sempre da Repubblica: "Allo stato attuale delle conoscenze sappiamo che il coronavirus si trasmette prevalentemente attraverso le goccioline nell' aria. Negli ospedali con molti pazienti sottoposti a ventilazione meccanica potrebbe disperdersi anche con aerosol". La differenza tra goccioline ed aerosol sta nelle dimensioni delle sfere di saliva che trasportano il coronavirus. Una piccola differenza con grosse implicazioni nel contagio: le goccioline viaggiano 1-2 metri dalla persona che le emette e cadono subito a terra. L'aerosol resta sospeso in aria e può raggiungere distanze maggiori. Ed è il possibile contagio da aerosol a far vacillare l'Oms, che potrebbe come detto cambiare idea sull'uso della mascherina. Inoltre, se le cose fossero così, significa che il Covid-19 potrebbe restare a lungo in ambienti chiusi, quali ascensori e qualsiasi stanza. In questo contesto dunque starebbe prendendo corpo l'ipotesi di raccomandare a tutta la popolazione mondiale l'uso della mascherina, soprattutto nel momento in cui gradualmente inizierà la riapertura: più persone usciranno, più situazioni di potenziale rischio ci saranno. Dunque, tutti con la mascherina e a distanza di sicurezza. Ma se l'Oms si spendesse nel raccomandare la mascherina, ovviamente, ci sarebbe un enorme problema di reperimento: lo strumento, infatti, va cambiato spesso.
Il virus si diffonde anche nell’aria. Federico Giuliani su Inside Over il 3 aprile 2020. Il contrordine dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) potrebbe arrivare molto presto. Dopo aver passato settimane a spiegare che indossare le mascherine in pubblico non avrebbe comportato alcun beneficio tangibile nella lotta contro il nuovo coronavirus, adesso gli esperti sono pronti a fare retromarcia. Gli ultimi studi rischiano di stravolgere tutto quello che conoscevamo sul Covid-19 o quasi. Nelle scorse settimane è arrivata una mezza doccia fredda. La diffusione del virus nell’aria è in realtà più sostenuta di quanto non si pensasse all’inizio dell’epidemia: ecco perché coprirsi bocca e naso con una mascherina potrebbe in realtà essere fondamentale per stroncare la catena dei contagi. E pensare che soltanto pochi giorni fa, durante una conferenza stampa a Ginevra, Mike Ryan, a capo del Programma di emergenze sanitarie dell’Oms, sosteneva il contrario: Non raccomandiamo l’uso esteso di mascherine, perché non associato ad alcun beneficio. Non lo critichiamo, ma non c’è nessun particolare beneficio che sia stato dimostrato. Maria Van Kerkhove, responsabile tecnico per il coronavirus dell’unità malattie emergenti dell’Oms, rincarava la dose consigliando le mascherine solo “a chi è a casa malato, a chi si prende cura di qualcuno che è malato, e naturalmente agli operatori in prima linea”.
L’importanza delle mascherine. Anche le autorità italiane, seguendo le linee dell’Oms, hanno fin qui suggerito le mascherine solo a chi aveva sintomi o assisteva i malati di coronavirus. Eppure nel resto del mondo la situazione è ben differente, a cominciare dall’Asia, dove in molti Paesi l’uso in pubblico di questi dispositivi di protezione individuale è caldamente consigliato, se non obbligatorio. Così come è obbligatorio in Slovacchia e Repubblica Ceca. Chi ha ragione? I ricercatori che continuano a studiare il Covid-19, sottolinea Repubblica, hanno confermato una sostenuta capacità del nuovo coronavirus di diffondersi nell’aria. A questo proposito David Heymann, responsabile del panel che si occupa dell’argomento presso l’Oms, ha rilasciato importanti dichiarazioni alla Bbc: “Stiamo studiando le nuove evidenze scientifiche e siamo pronti a cambiare le linee guida, se necessario”. Paolo D’ancona, epidemiologo dell’Iss, ha spiegato a Repubblica che “allo stato attuale delle conoscenze sappiamo che il coronavirus si trasmette prevalentemente attraverso le goccioline nell’aria. Negli ospedali con molti pazienti sottoposti a ventilazione meccanica potrebbe disperdersi anche con aerosol“. È importante conoscere la differenza tra goccioline e aerosol per rendersi conto delle modalità di diffusione di Covid-19. Le prime viaggiano a 1-2 metri dalla persone che le emette, prima di cadere a terra, mentre l’aerosol resta sospeso in aria ed è capace di raggiungere distanze maggiori. Allarme rosso, dunque, per le stanze affollate, dove il virus potrebbe accumularsi nel caso in cui molti soggetti infetti vi rimanessero a lungo.
La diffusione nell’aria. Non mancano le ricerche a scientifiche a sostegno dell’uso delle mascherine. Uno studio del New England Journal of Medicine ha dimostrato come il virus potesse resistere in aerosol fino a tre ore (anche se la sua quantità si dimezzava in un’ora). Jama ha invece pubblicato un esperimento del Massachusetts Institute of Technology, secondo il quale il Covid-19 sarebbe in grado di viaggiare sia su goccioline che in aerosol. In quest’ultimo caso, con uno starnuto potente, il virus può arrivare perfino a 7-8 metri di distanza. Infine, in Cina, gli scienziati hanno trovato tracce di coronavirus sui davanzali e nelle grate degli impianti di aerazione delle stanze che avevano ospitato i pazienti malati.
Morale della favola: indossare la mascherina potrebbe presto diventare normalità, così come il mantenere un metro di distanza dalle altre persone. Certo, le mascherine, per essere efficaci, devono essere indossate e tolte nel modo corretto e devono trattenere almeno il 95% dei microbi emessi.
DAGONEWS il 17 giugno 2020. Vi chiedete ancora se la distanza sociale abbia un senso? Guardate questo studio dei ricercatori dell’Università di Nicosia, a Cipro, che hanno dimostrato che sebbene le mascherine siano importanti per la limitazione del contagio, non possono considerarsi l’unica strada per evitare la trasmissione del coronavirus. I ricercatori, hanno dimostrato che le goccioline di saliva di una persona che tossisce possono arrivare anche a 1,2 metri anche se si indossa la mascherina chirurgica. Inoltre i ricercatori hanno dimostrato che più una persona tossisce su una mascherina più se ne riduce l’effetto filtrante, esponendo gli altri ai famosi droplets. «Molte goccioline penetrano nello scudo della maschera e alcune particelle portatrici della malattia contenute nelle goccioline di saliva possono viaggiare per più di 1,2 metri» ha detto il coautore dello studio Dimitris Drikakis. Lo studio, pubblicato su Physics of Fluids, ha dimostrato che le mascherine possono ridurre la trasmissione di goccioline trasportate dall'aria, ma non eliminarle completamente. C’è da dire che senza l’uso delle mascherine queste goccioline viaggerebbero a una distanza doppia, quindi indossarle riduce la propagazione dei droplets.
FATTORE AMBIENTE: ARIA UMIDA ED INQUINATA.
Coronavirus, confermata l’incidenza del meteo sulla diffusione del Covid-19. Laura Pellegrini il 23/04/2020 su Notizie.it. L'Università di Napoli ha confermato - dopo aver realizzato uno studio - che il meteo incide sulla diffusione del coronavirus. Si discute da mesi sul fatto che il meteo possa avere una certa incidenza sulla diffusione del coronavirus e spesso ci si chiede se il caldo lo possa combattere. La realtà è che per debellare il Covid-19 occorrono 15 minuti e 90 gradi di temperatura: questo dicono le ultime ricerche. Inoltre, l’Università di Napoli ha confermato quanto scoperto dall’università del Maryland. In una ricerca effettuata da quest’ultima con la collaborazione di colleghi di due atenei iraniani sono emersi dei fattori geografici e climatici che hanno inciso sulla diffusione del virus. Il meteo incide i buona misura sulla diffusione del coronavirus: in particolare, i ricercatori hanno notato che i Paesi più colpiti si trovano a un certo grado di latitudine. Non è un caso che questo fattore rientri negli studi effettuati dagli esperti. Pare infatti che gli Stati più colpiti occupino la fascia compresa tra 30 e 50 gradi di latitudine verso Nord. Importante anche considerare le temperature medie registrate in questi Paesi, che si aggirano tra i 5 e gli 11 gradi centigradi. Il virus, inoltre, non si è ancora diffuso in aree molto fredde (come Russia e Canada) né molto calde. Infine occorre valutare anche l’umidità: la diffusione è favorita da dati compresi tra il 67 e l’88 per cento. L’Università Filippo II di Napoli ha poi confermato questa ricerca aggiungendo anche che quanto accaduto in inverno a Wuhan si è replicato in modo simile anche nel Nord Italia, soprattutto in città come Milano, Brescia e Bergamo. Infine, è stata azzardata una previsione, che però ad oggi non trova conferme scientifiche. Pare che quando il clima si farà più caldo, la diffusione del virus interesserà maggiormente le zone settentrionali. Di conseguenza la diffusione diminuirà nelle zone meridionali.
Coronavirus, la pandemia "corre" con il freddo secco: l'effetto meteo secondo gli esperti. Da leggo.it l'1 aprile 2020. L'effetto meteo esiste. Anche i virus hanno il loro clima prediletto. Il virus Sars-CoV-2 sembra preferire il freddo secco. Da uno studio condotto su una scala globale da un team di operatori italiani emerge infatti che «l'epidemia cresce più rapidamente a una temperatura media di circa 5 ° C ed umidità medio-bassa (compresa tra 0.6 e 1.0 kilopascal)». Il lavoro porta la firma di Francesco Ficetola e Diego Rubolini, il Dipartimento del dipartimento di scienze e politiche dell'ambiente dell'università Statale di Milano e è stato da poco reso disponibile come 'prestampa' sulla piattaforma medRxiv. Gli autori hanno analizzato le relazioni tra gli aumenti dei casi di Covid-19 e condizioni climatiche. E hanno anche osservato che, al contrario, in climi molto caldi e umidi caratteristici di alcune zone tropicali, l'epidemia sembra diffondersi molto più lentamente, anche se nessuna area popolata del mondo sembra essere completamente inidonea alla diffusione della patologia. In generale, spiegano gli esperti, le condizioni meteorologiche e climatiche hanno un ruolo molto importante nell'influenzare l'andamento delle epidemie, come sperimentato da numerosi studi condotti sulle malattie influenzali. Per esempio, i virus influenzali si diffondono meno e sono meno persistenti nell'ambiente in climi caldo-umidi. È considerato verosimile, hanno ipotizzato gli studiosi, che i fattori climatici influenzano anche la progressione della pandemia di Covid-19 attualmente in corso, causata dal virus Sars-CoV-2 anche se nessuna area popolata del mondo sembra essere completamente inidonea alla diffusione della patologia. In generale, spiegano gli esperti, le condizioni meteorologiche e climatiche hanno un ruolo molto importante nell'influenzare l'andamento delle epidemie, come sperimentato da numerosi studi condotti sulle malattie influenzali. Per esempio, i virus influenzali si diffondono meno e sono meno persistenti nell'ambiente in climi caldo-umidi. È considerato verosimile, hanno ipotizzato gli studiosi, che i fattori climatici influenzano anche la progressione della pandemia di Covid-19 attualmente in corso, causata dal virus Sars-CoV-2.
Coronavirus, non solo Italia: anche in Francia e Spagna le zone più colpite sono quelle più inquinate. Le Iene News l'1 aprile 2020. Vi abbiamo già parlato di questo tema in precedenza concentrandoci sull’Italia: Milano e la pianura padana sono le zone più inquinate e più colpite dal coronavirus nel nostro Paese. Allargando lo sguardo a Francia e Spagna, scopriamo che anche lì le cose stanno andando in modo molto simile. Inquinamento e coronavirus, c’è un legame? Non lo sappiamo ancora con certezza. Vi abbiamo raccontato però di uno studio molto importante che si sta conducendo in Italia: “L’inquinamento nell’aria potrebbe velocizzare la diffusione del coronavirus“, ci ha detto il professor Alessandro Miani. E guardando ai dati qualche evidenza di questo legame sembra esserci: la pianura padana è infatti la zona d’Europa con la più alta concentrazione di polveri sottili nell’aria e anche quella più duramente colpita dal coronavirus finora. Il problema però sembra non essere limitato solamente al nostro Paese. Come sappiamo anche la Spagna è duramente colpita dal coronavirus e in pochi giorni potrebbe arrivare a superare l’Italia per numero dei contagiati e purtroppo anche per numero di morti. E guardando ai dati aggiornati al 31 marzo, anche qui si nota una maggiore incidenza del coronavirus là dove l’inquinamento è più alto. In Spagna sono stati registrati al 31 marzo 95.923 contagi da coronavirus. Di questi, 27.509 sono avvenuti nella regione di Madrid, che registra 3.603 delle 8.464 vittime in tutto il Paese. Discorso analogo si può fare sulla Catalogna, la comunità autonoma di Barcellona: lì i casi sono finora 18.773 con 1.672 morti. Quasi la metà dei malati di coronavirus e ben oltre la metà delle vittime si sono quindi registrate in queste due aree. Ovviamente bisogna segnalare che si tratta non solo delle due regioni più abitate del Paese ma anche di quelle più densamente popolate, cosa che contribuisce alla maggiore diffusione del coronavirus. Eppure guardando le mappe dell’Esa, l’agenzia spaziale europea, sull’inquinamento da biossido di azoto in Spagna si vede chiaramente come Madrid e Barcellona siano le zone con le più alte concentrazioni di inquinanti nell’aria. E questo stesso dato si riscontra anche a Parigi. Anche qui, ovviamente, bisogna sottolineare come la capitale sia la città più abitata e densamente popolata della Francia, ma è pure quella più inquinata. E i dati del coronavirus sembrano muoversi di conseguenza. In Francia sono al 31 marzo 52.837 i casi confermati di infezione da COVID-19, di cui 22.757 hanno necessitato di ricovero in ospedale. Di questi, 8.615 si sono registrati nell’Ile-de-France, la regione di Parigi: oltre un terzo dei casi. I morti sono 1.176 su un totale di 3.523 in tutto il Paese, anche qui circa un terzo. E le mappe dell’Esa mostrano quello che abbiamo già visto sia in Italia che in Spagna: la zona più colpita è anche quella più inquinata. E proprio dalla Francia le organizzazioni che raccolgono gli istituti di sorveglianza della qualità dell'aria hanno detto che "un'esposizione cronica all'inquinamento è un fattore aggravante dell'impatto sanitario sul contagio da COVID-19". E’ ancora troppo presto per poter dire con certezza se ci sia un legame tra inquinamento e diffusione del coronavirus: per questo sarà necessario attendere i risultati degli studi in corso. Ma se le evidenze saranno confermate sarà necessario chiederci ancora di più come sviluppare le nostre società evitando quelle altissime concentrazioni di inquinanti nell’aria. Come abbiamo fatto con Guido Viale, sociologo e saggista, in questa intervista.
Perché il Coronavirus ha colpito in modo massiccio la Padania? Polveri sottili, nebbia e correnti d’aria, sono le zattere di permanenza e strumenti di proliferazione del contagio. Il virus si posa sulle goccioline e sulle polveri, galleggiando nel tempo e spostandosi nello spazio. Potrebbe non essere l’uomo il veicolo di diffusione, ma l’aria. E l’aria entra dappertutto.
COSA È SUCCESSO A CODOGNO, BERGAMO E BRESCIA? Raffaele Alberto Ventura per “Le grand continent”, intervista alla virologa Ilaria Capua, pubblicata da fanpage.it il 21 marzo 2020. Lei è stata una delle prime, in un’intervista rilasciata in gennaio, ad attirare l’attenzione sulle conseguenze economiche e sociali del coronavirus. “Questa sarà un'epidemia che costerà tantissimo” scriveva. Dando già per probabile che si sarebbe arrivati alla pandemia globale, come confermato dall’OMS oltre un mese dopo, lei anticipava il rischio di una quarantena forzata per gran parte della popolazione, di un blocco dei servizi essenziali e di un’interruzione della catena di distribuzione alimentare.
Era tutto già scritto?
«L’esperienza delle precedenti pandemie bastava a immaginare questo scenario. Tuttavia si tratta di fenomeni che toccano una tale quantità di sfere, da quelle naturali a quelle sociali, con innumerevoli ramificazioni, che per affrontarli un approccio interdisciplinare è fondamentale. Io l’ho acquisito attraverso un percorso professionale atipico: prima da virologa, successivamente da parlamentare, e infine da direttrice di un centro di studi interdisciplinare in Florida. Nel mio libro Salute Circolare mi ero precisamente concentrata sugli squilibri globali che rendono sempre più probabili simili scenari. In un certo senso, questa pandemia la stavamo tutti aspettando».
Come si spiegano allora i tentennamenti e i continui cambi di strategia da parte dei governi?
«La pandemia ha mostrato alla luce del sole l’assoluta impreparazione dei governi occidentali: sono situazioni in cui non si può discutere di ogni scelta, ci vuole una catena di comando chiara e questo non significa adottare il modello cinese ma far funzionare più efficacemente il nostro. Il panico sui mercati è stata la logica conseguenza».
Il problema è la lentezza del nostro sistema?
«Al contrario questa emergenza ha rivelato che è il vero punto di fragilità del sistema è la sua velocità. Attraverso le infrastrutture di comunicazione siamo riusciti ad accelerare (e quindi a trasformare qualitativamente) dei fenomeni che prima mettevano millenni ad accadere. Pensiamo al virus del morbillo: non era altro che una mutazione della peste bovina che si è trasmessa all’essere umano quando abbiamo iniziato ad addomesticare la mucca. Il morbillo ha invaso il mondo camminando, a piedi. Pensiamo all’influenza spagnola, che un secolo fa ci ha messo ben due anni per diffondersi. Questa volta invece sono bastate un paio di settimane. Un virus che stava in mezzo a una foresta, in Asia, è stato improvvisamente catapultato al centro della scena, passando da un mercato in cui venivano radunati animali provenienti da aree geografiche molto diverse. Siamo noi ad aver creato l’ecosistema perfetto per generare spontaneamente delle armi biologiche naturali».
Insomma le infrastrutture della globalizzazione funzionano come un ripetitore epidemico, un amplificatore di ogni minimo rischio biologico.
«Esattamente. Nel ciclo naturale, se pure il virus usciva dalla foresta andava a finire in un villaggio di cento persone e lì esauriva il suo ciclo di vita. Noi stiamo vivendo un fenomeno epocale, ovvero l’accelerazione evolutiva del virus. La tecnologia è troppo veloce per quello che la biologia è in grado di assorbire».
A proposito di ripetitori epidemici, qui si pone un interrogativo persino più spinoso: ovvero il ruolo che possono avere avuto le strutture sanitarie nella diffusione del virus.
«Di fronte alla catastrofe attualmente in corso in Lombardia, con i suoi elevatissimi tassi di contagio e di letalità rispetto agli altri focolai, è urgente porsi la domanda. Che cos’è successo a Codogno, a Bergamo, a Brescia? In questa fase possiamo soltanto fare delle ipotesi. Io credo che ci siano dei fattori, che ancora non conosciamo, che possono favorire la diffusione e la permanenza del virus, eventualmente legati alle strutture ospedaliere. Esistono esempi precedenti: il virus SARS 1 era circolato attraverso la condotta dell’aria dell’Hotel M a Hong Kong. Oggi noi dobbiamo essere certi che il coronavirus non sia entrato negli impianti di aerazione di edifici vetusti».
A Bergamo e Brescia è anche la letalità a sembrare completamente fuori norma.
«Anche la letalità potrebbe essere legata a diversi fattori ancora da studiare. Si possono fare infinite ipotesi con criteri epidemiologici: caratteristiche demografiche (età e sesso), qualità dell’aria, resistenza agli antibiotici, abitudini alimentari, comportamenti… Una spiegazione si deve trovare».
E se così non fosse?
«Se la Lombardia non fosse un caso eccezionale, se dopo Milano allo stesso ritmo dovessero cadere Roma e Parigi e Londra e tutte le altre città, allora avremmo a che fare con una catastrofe di proporzioni gigantesche, persino più grandi di quelle con cui ci stiamo confrontando ora. Per quello abbiamo bisogno di capire cosa sta succedendo».
Lei hai più volte insistito sulla necessità di studiare i rapporti dei patologi sulle cause di decesso.
«Qui si entra in considerazioni che hanno importanti risvolti politici e geopolitici, ma anche affettivi. Pensiamo al modo differente in cui vengono conteggiati i morti tra Italia e Germania: da una parte ascrivendo alla lista dei caduti da Coronavirus ogni paziente risultato positivo al test indipendentemente da ogni patologia pregressa, dall’altra facendo figurare le altre patologie come causa diretta del decesso. Nel dibattito pubblico italiano sembra quasi che porsi delle questioni metodologiche costituisca una mancanza di rispetto per le vittime. C’è sicuramente una strumentalizzazione che rende più difficile affrontare la questione a mente fredda. Ogni morte è una tragedia. Ma noi stiamo cercando di gestire una pandemia, ovvero evitare altre morti, e ogni decesso rappresenta delle informazioni preziose. Quindi sì, distinguere tra morti “da” coronavirus o “in associazione” al coronavirus è necessario. Che possano nascere delle polemiche su questo è molto grave. Noi dobbiamo fare queste distinzioni perché ci aiutano a verificare delle ipotesi. Quello che sta accadendo in Lombardia, ripeto, deve essere chiarito. La questione dei criteri di reporting dei casi è fondamentale: abbiamo bisogno di dati armonizzati a livello nazionale, europeo, mondiale. Altrimenti brancoliamo nel buio».
Se appare plausibile ritenere che alcuni pazienti abbiano contratto il virus in ospedale, possiamo dire che la paura del virus ha avuto un ruolo nella sua diffusione?
«È una delle ipotesi da prendere in considerazione. Se c’è stata una corsa agli ospedali questa non ha certamente migliorato la situazione. Da tempo con il mio centro di ricerca stiamo proprio lavorando sull’influenza dei media (e nello specifico delle fake news) nella diffusione delle malattie. Ci siamo interessati alla peste suina africana, che se dovesse diffondersi per spillover al circuito industriale sarebbe una catastrofe economica, e abbiamo osservato come il dibattito nei media influenza i comportamenti della popolazione, producendo talvolta degli effetti perversi. Un’epidemia è un fenomeno sociale oltre che biologico e dobbiamo chiederci cosa fanno i media al coronavirus. Per ora sappiamo che producono molti cosiddetti “worried healthy” che assumono comportamenti disfunzionali. Ma nel momento in cui cominciano a emergere fake news sui virus creati in qualche laboratorio militare segreto, come si è visto in rete, si pone ancora un ulteriore problema: quello della delegittimazione degli scienziati visti come untori».
Lei conosce bene questo genere di fenomeni perché ne è stata vittima in prima persona, a causa di un caso mediatico-giudiziario che l’ha spinta ad abbandonare il parlamento e il paese. A leggere gli elementi d’indagine riportati dalla stampa si notava una spaventosa ignoranza sul funzionamento della scienza, trasfigurata in “complotto”.
«In effetti ho vissuto sulla mia pelle quello che succede quando la giustizia “non capisce” la scienza. E stata una grande sofferenza perché mi ha portato ad abbandonare quella che era la mia passione originaria e a ricominciare da capo qui in Florida. Ma volendo essere ottimisti, possiamo sperare che la crisi che stiamo vivendo cambierà anche questo. Il coronavirus è un cigno nero che stravolgerà il rapporto tra scienza e società, il modo di lavorare, il modo di comunicare. Ora dobbiamo essere pronti a quello che verrà. Forse ci sarà un riavvicinamento alla scienza, che è una delle cose per la quale mi sono più battuta negli ultimi anni con l’One Health Center».
Questa crisi è appena iniziata. Possiamo già dire se si poteva reagire altrimenti?
«Si poteva arrivare più preparati ma sfido chiunque a dire che tutto questo poteva essere previsto nella sua estensione. Stiamo vivendo un grandissimo esperimento evolutivo. Ma siamo ancora noi la specie animale in cabina di pilotaggio, non possiamo chiedere al lombrico di venire a risolvere i nostri problemi. Non c’è dubbio che di tutto questo conserveremo i segni più nella coscienza che nei corpi».
Coronavirus in Lombardia, Ilaria Capua: “C’è qualcosa di anomalo”. Francesco Ferrigno il 20 marzo 2020 su Notizie.it. Il coronavirus in Lombardia sta circolando “in modo anomalo”: è quanto sostiene la virologa Ilaria Capua, direttrice dell’Emerging Pathogens Institute presso l’Università della Florida. “La pandemia – ha detto l’esperta – ha mostrato alla luce del sole l’assoluta impreparazione dei governi occidentali: sono situazioni in cui non si può discutere di ogni scelta, ci vuole una catena di comando chiara”. Ilaria Capua è una virologa ed ex parlamentare italiana: dal 2013 al 2016 è stata deputata di Scelta Civica. Nel 2006 rese nota la sequenza genica del virus dell’aviaria, avviando lo sviluppo della scienza open-source e venendo eletta dalla rivista Seed “mente rivoluzionaria”. L’anno 2014 è stata coinvolta in un’inchiesta che vedeva tra i reati ipotizzati il traffico illecito di virus. Nel 2016 è stata prosciolta dall’accusa ma ha comunque lasciato la Camera e si è trasferita negli Stati Uniti. Un mese prima dello scoppio di quella che l’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) avrebbe classificato come pandemia, la virologa aveva già lanciato l’allarme. “Nel mio libro Salute Circolare – ha affermato l’esperta – mi ero precisamente concentrata sugli squilibri globali che rendono sempre più probabili simili scenari. In un certo senso, questa pandemia la stavamo tutti aspettando”. Tra le cause della diffusione del Covid-19 ci sarebbero insomma le infrastrutture, la nostra velocissima tecnologia che di fatto produce una “accelerazione evolutiva del virus”. “L’influenza spagnola un secolo fa ci ha messo ben due anni per diffondersi. – ha continuato la virologa – Questa volta invece sono bastate un paio di settimane. Siamo noi ad aver creato l’ecosistema perfetto per generare spontaneamente delle armi biologiche naturali”. E allora cos’è successo al coronavirus in Lombardia? Secondo Ilaria Capua ci sarebbero fattori ancora sconosciuti che potrebbero aver favorito la diffusione e la permanenza del virus, eventualmente legati alle strutture ospedaliere.
Il virus Sars1 si è accertato che era circolato attraverso la condotta dell’aria di un albergo di Hong Kong. “Oggi noi dobbiamo essere certi che il coronavirus non sia entrato negli impianti di aerazione di edifici vetusti. – ha detto la studiosa italiana – Anche la letalità potrebbe essere legata a diversi fattori ancora da studiare. Si possono fare infinite ipotesi con criteri epidemiologici: caratteristiche demografiche, qualità dell’aria, resistenza agli antibiotici, abitudini alimentari, comportamenti”. Che in Lombardia sia accaduto qualcosa di particolare al coronavirus è un’ipotesi ma in qualche modo, per il resto del mondo, una speranza. “Se la Lombardia non fosse un caso eccezionale, – ha chiarito Ilaria Capua – se dopo Milano allo stesso ritmo dovessero cadere Roma e Parigi e Londra e tutte le altre città, allora avremmo a che fare con una catastrofe di proporzioni gigantesche, persino più grandi di quelle con cui ci stiamo confrontando ora.
Cristina Marrone per corriere.it il 24 aprile 2020. La Società Italiana di Medicina Ambientale (Sima) annuncia che il coronavirus SARS-Cov-2 è stato ritrovato sul particolato (PM), le polveri sottili. «Questa prima prova apre la possibilità di testare la presenza del virus sul particolato atmosferico delle nostre città nei prossimi mesi come indicatore per rilevare precocemente la ricomparsa del coronavirus e adottare adeguate misure preventive prima dell’inizio di una nuova epidemia», anticipa il professor Alessandro Miani, presidente della Sima. «Le prime evidenze relative alla presenza del coronavirus sul particolato provengono da analisi eseguite su 34 campioni di PM10 in aria ambiente di siti industriali della provincia di Bergamo, raccolti con due diversi campionatori d’aria per un periodo continuativo di 3 settimane, dal 21 febbraio al 13 marzo», spiega Leonardo Setti, coordinatore del gruppo di ricerca scientifica insieme a Gianluigi De Gennaro e a Miani.
La presenza del virus nel particolato. I campioni sono stati analizzati dall’Università di Trieste in collaborazione con i laboratori dell’azienda ospedaliera Giuliano Isontina, che hanno verificato la presenza del virus in almeno 8 delle 22 giornate prese in esame. I risultati positivi sono stati confermati su 12 diversi campioni per tutti e tre i marcatori molecolari, vale a dire il gene E, il gene N ed il gene RdRP, quest’ultimo altamente specifico per la presenza dell’RNA virale SARS-CoV-2» . Possiamo confermare di aver ragionevolmente dimostrato la presenza di RNA virale del SARS-CoV-2 sul particolato atmosferico rilevando la presenza di geni altamente specifici, utilizzati come marcatori molecolari del virus, in due analisi genetiche parallele”4, precisa Setti.
La persistenza del virus nell’aria. Secondo De Gennaro «questa è la prima prova che l’RNA del SARS-CoV-2 può essere presente sul particolato in aria ambiente, suggerendo così che, in condizioni di stabilità atmosferica e alte concentrazioni di PM, le micro-goccioline infettate contenenti il coronavirus SARS-CoV-2 possano stabilizzarsi sulle particelle per creare dei cluster col particolato, aumentando la persistenza del virus nell’atmosfera come già ipotizzato sulla base di recenti ricerche internazionali. L’individuazione del virus sulle polveri potrebbe essere anche un buon marker per verificarne la diffusione negli ambienti indoor come ospedali, uffici e locali aperti al pubblico».
Una nuova via di contagio? «La prova che l’RNA del SARS-CoV-2 può essere presente sul particolato in aria ambiente non attesta ancora con certezza definitiva che vi sia una terza via di contagio», prosegue De Gennaro. «Tuttavia, occorre che si tenga conto nella cosiddetta Fase 2 della necessità di mantenere basse le emissioni di particolato per non rischiare di favorire la potenziale diffusione del virus». «È possibile che il particolato possa facilitare la diffusione del virus , può essere un trasportatore, ma non conosciamo la carica virale e quanto è efficace per contribuire davvero al contagio» sintetizza Fabrizio Pregliasco, virologo e direttore sanitario dell’ospedale Galeazzi di Milano.
Cosa dicono gli altri studi: non c’è univocità. Altri studi hanno ipotizzato che il coronavirus sia più letale dove c’è inquinamento. Secondo un’analisi non pubblicata dell’Università di Harvard condotto dall’italiana Francesca Dominici, sul lungo periodo basta un piccolo aumento nei livelli medi di polveri sottili per far salire la mortalità del 15% anche se la metodologia utilizzata presenterebbe lacune. Un altro studio evidenzia la relazione tra epidemia e polveri sottili. La società italiana di aerosol ha sempre ribadito che non è stato dimostrato alcun effetto di maggiore suscettibilità al contagio al Covid-19 dovuto all’esposizione alle polveri atmosferiche. Nelle varie analisi contano moltissimi fattori com e densità di popolazione, scambi internazionali, attività industriali e non solo l’inquinamento atmosferico, scrive Sergio Harari, direttore della Unità operativa di Pneumologia all’ospedale San Giuseppe di Milano. Ancora molte relazioni sono da verificare.
Densità abitativa. Proprio sulla densità abitativa si è focalizzato un altro studio italiano diffuso oggi dalla Società italiana di Allergologia. Secondo i ricercatori la densità abitativa diffonde il coronavirus più dello smog: Bergamo e Brescia, più densamente abitate di Verona, sono state colpite più duramente dal virus nonostante un livello di smog simile o addirittura inferiore, come nel caso della città di Bergamo.
Coronavirus, lo studio conferma: "Le polveri sottili trasportano il virus". Le Iene News il 24 aprile 2020. Vi abbiamo parlato di questo studio in anteprima nell’intervista di Giulia Innocenzi ad Alessandro Miani, presidente di Sima. E adesso arriva la conferma: il particolato atmosferico trasporta il coronavirus. Una scoperta che apre la strada anche alla possibilità di capire in che zone si diffonde il contagio prima dell’esordio dei sintomi. Le polveri sottili presenti nell’aria trasportano il coronavirus. La conferma del legame tra la diffusione del COVID-19 e le zone più inquinate arriva da uno studio di Sima, la società italiana di medicina ambientale, di cui vi avevamo già parlato in anteprima in questa intervista di Giulia Innocenzi. Con una notizia forse ancora più importante: analizzare la presenza del coronavirus nell’aria potrebbe permettere di individuare la nascita di nuovi focolai epidemici ancora prima della comparsa dei sintomi nei malati. Noi di Iene.it vi avevamo parlato dello studio che la Società italiana medicina ambientale sta conducendo, insieme all’Università di Bologna e quella di Bari, per analizzare il legame tra l’inquinamento e il coronavirus. “Siamo partiti dall’assunto che esiste già una grande e documentata ricerca internazionale che dimostra che le polveri inquinanti presenti nell’aria possono essere un trasportatore di alcuni virus”, ci aveva detto il professor Alessandro Miani, presidente della Sima. La prima fase della ricerca mirava proprio a questo: è possibile che il coronavirus sia trasportato dalle particelle inquinanti presenti nell’aria? E i risultati parlano chiaro: “Abbiamo trovato il virus sul particolato atmosferico, grazie ad analisi compiute in provincia di Bergamo”, ci conferma oggi il professor Miani. “Adesso lo studio continua per cercare di capirne la virulenza”. Non è ancora certo, infatti, se il virus trasportato sia ancora contagioso o meno: “La seconda fase del nostro lavoro punta a comprendere proprio questo”, ci spiega Miani. Anche perché a oggi non si sa con certezza quanto possa sopravvivere il nuovo coronavirus esposto all’aria aperta. Già adesso comunque questa scoperta potrebbe avere un risvolto molto importante: “Potrebbe diventare un modo per capire quanto il coronavirus si sta diffondendo in una determinata zona”, ci spiega Miani. “Se il virus si trova nell’aria, questo può essere usato come indicatore precoce per capire se si sta diffondendo di nuovo in una determinata zona e agire per evitare una nuova epidemia”. Eh già, perché se è vero che il COVID-19 ha un tempo di incubazione medio di circa una settimana, e al massimo di due, la presenza nell’aria del virus potrebbe invece essere registrata subito. Teoricamente uno strumento utilissimo per monitorare la situazione nella fase 2. “Potrebbe anche essere preso come marker per analizzare la qualità dell’aria di spazi chiusi, come i centri commerciali, gli ospedali o i trasporti pubblici”, ci dice Miani. “L’ottica è di avere un ulteriore elemento di monitoraggio puntuale della diffusione del COVID-19. Noi anche solo respirando emettiamo droplet, le famose goccioline, e abbiamo prova che queste si legano al particolato nell’aria. Sappiamo che queste possono arrivare fino a 9 o 10 metri, motivo per cui è importantissimo usare in modo diffuso la mascherina”.
Ritrovato il coronavirus nelle polveri sottili. Ecco tutte le ricerche che legano sempre più strettamente Covid e inquinamento. Mariella Bussolati il 25 aprile 2020 su it.businessinsider.com. Le prime ricerche sono comparse all’inizio dell’epidemia, sostenute dai pareri di molti scienziati. Eppure in molti non hanno voluto crederci e hanno continuato a sostenere che il fatto che non fosse dimostrato scientificamente che il Covid-19 abbia colpito più duramente nelle aree più inquinate del pianeta. Ricercatori dell’Università di Bologna hanno però scoperto che il virus viene trattenuto dalle particelle presenti nell’aria inquinata, confermando una ricerca cinese che affermava che le polveri sottili ospitano diversi tipi di microbi. Gli studiosi sostengono che l’analisi di questa presenza possa essere un possibile indicatore precoce di future recidive dell’epidemia da Covid-19. Il trasporto potrebbe avvenire su più lunghe distanze, e non basterebbe stare distanti un metro. Non sono i soli a collegare inquinamento e pandemia. Pubblicato dalla Harvard University, un altro studio potrebbe porre fine agli eventuali dubbi: conferma che c’è uno stretto legame tra la qualità dell’aria e il rischio di morte per il coronavirus. E questo potrebbe spiegare come mai la Lombardia, e in particolare l’area di Brescia, abbia contato un numero di vittime decisamente più alto che in altre parti del Paese. Lo studio di Harvard è stato compiuto sul territorio americano. C’è una evidenza statistica per cui a ogni aumento di 1 grammo per metrocubo di polveri sottili, e in particolare della PM2.5, un incremento molto piccolo, corrisponde un aumento del 15 per cento del tasso di mortalità. Come già si sapeva, questa componente dell’atmosfera, prodotta dalla combustione dell’energia fossile, dagli allevamenti intensivi e dal comparto dell’edilizia, provoca anche nascite premature, infarto, danni ai polmoni e cancro. I ricercatori ritengono che la causa dell’effetto sia proprio da cercare nel fatto che il PM2.5 colpisce il sistema respiratorio e cardiovascolare. Già precedentemente lo stesso team di ricerca aveva effettuato uno studio su 60 milioni di americani con più di 65 anni scoprendo che lo stesso fattore di aumento provocava lo 0.73 per cento di tutti i casi di mortalità. Il risultato è chiaro: una esposizione a lungo termine agli inquinanti aumenta la vulnerabilità, che diventa ancora grave quando scoppia una epidemia. D’altronde un altro studio effettuato dal Dipartimento di Epidemiologia dell’Università della California e dalle Università di Pechino e Shanghai sulla Sars, strettamente imparentata con il Covid-19, aveva già dimostrato che il tasso di mortalità dei pazienti che vivevano in aree inquinate era doppio rispetto alle altre. A conferma del fatto che possiamo ormai essere scientificamente certi che esista una correlazione tra coronavirus e smog, c’è anche un’altra ricerca, della Martin Luther University di Halle-Wittenberg, Germania, che ha studiato un altro inquinante, il biossido di azoto, un forte irritante delle vie polmonari prodotto da tutti i processi di combustione ad alta temperatura (impianti di riscaldamento, motori dei veicoli, combustioni industriali), per ossidazione dell’azoto atmosferico. Anche questo composto è legato a un tasso di morti più alto nella pandemia. In questo caso grazie ai monitoraggi satellitari, è stata controllata la distribuzione del biossido di azoto in Europa negli scorsi due mesi, confrontandoli con il numero dei morti in 66 regioni di Italia, Spagna, Francia e Germania. E’ emerso che su 4.443 morti al 19 marzo, il 78 per cento erano avvenute solo in cinque regioni, concentrate tra nord Italia e Spagna centrale. Non basta. Anche un gruppo di ricercatori italiani dell’Università di Siena e della Aarhus University (Danimarca) ha messo in correlazione l’alta letalità del coronavirus registrata nelle zone della Lombardia e Emilia-Romagna con l’inquinamento. In base ai dati della Protezione civile hanno visto che la letalità registrata in Lombardia ed Emilia Romagna era del 12 per cento, mentre nel resto d’Italia siamo intorno al 4,5 per cento. In base all’Air quality index elaborato dall’Agenzia europea dell’ambiente, quelle sono proprio le due regioni più inquinate di Italia e tra le peggiori in Europa.
Sergio Harari per il “Corriere della Sera” il 21 aprile 2020. Perché la Lombardia ha registrato così tanti morti e una ondata epidemica così violenta? E perché in queste ultime due settimane i malati che vengono ricoverati sembrano soffrire di forme meno severe di Covid-19 e meno pazienti devono ricorrere alle terapie intensive? Si tratta di due domande difficilissime per la scienza, soprattutto perché le variabili da considerare sono moltissime. Solo una volta che saranno disponibili i dati precisi sulla mortalità per tutte le cause (vedi i recenti riscontri Istat che documentano un aumento di mortalità del 20% in tutta Italia nel marzo 2020 rispetto allo stesso periodo negli anni 2015-19, con punte di 300-400% in alcune aree come Bergamo e Brescia, e più 49% a Milano) si potrà dire se la Lombardia ha avuto più morti di altre regioni italiane e europee. Nella analisi delle possibili cause contano moltissimi fattori: la densità di popolazione, gli scambi internazionali, le attività industriali e molte altre valutazioni, ma una oggi è fortemente sotto accusa, l' inquinamento atmosferico. Può aver avuto un ruolo nel favorire la pandemia? Uno studio recente sviluppato da ricercatori dell' università di Harvard, diffuso in via preliminare e senza che sia ancora stato sottoposto a tutti i seri processi di valutazione delle pubblicazioni scientifiche, sostiene che esiste un legame fortissimo fra Pm2,5 e Covid-19, addirittura che per ogni aumento di 1 mcg/m3 si registrerebbe un incremento della mortalità del 15%, cosa che se fosse vera sarebbe davvero terribile e sorprendente. Ma la metodologia utilizzata dagli autori presenta importanti lacune sul piano metodologico e epidemiologico e prima che questa ipotesi venga confermata deve essere passata al vaglio molto accuratamente. Che il particolato renda il sistema respiratorio più suscettibile alle infezioni e alle loro complicanze è un dato scientificamente noto, ma che questo sia vero per il Sars-CoV-2 non è provato così come non è accertata la eventuale dimensione del fenomeno. Sempre da verificare è se la riduzione importante di certi inquinanti (ad esempio delle concentrazioni di NO2 che si sono abbassate del 40% a Milano) influisca anche sulla minor gravità dei malati che stiamo registrando in queste ultime settimane. Un recentissimo studio italiano ha poi segnalato una correlazione tra concentrazioni di Pm10 e casi di Covid-19, ma anche qui i problemi metodologici della ricerca sono importanti e sono stati fortemente criticati da molti esperti nazionali e internazionali. Infine, a complicare le cose, va nella direzione opposta il rilievo di pochi casi di Covid-19 nella popolazione pediatrica mentre proprio questa è forse quella più suscettibile agli effetti dell' inquinamento. Siamo quindi molto lontani dall' avere risposte certe, se le future valutazioni scientifiche provassero una relazione solida tra inquinamento e Covid-19 allora forse avremmo un tassello delle tante risposte mancanti, ma al momento si tratta soltanto di nulla di più che un sospetto da approfondire con seri studi scientifici.
“In Lombardia più morti di coronavirus perché l’aria è più inquinata”: cosa dice la nuova ricerca. Il ricercatore italiano Antonio Frontera dell’IRCCS Ospedale San Raffaele di Milano, primo autore del lavoro scientifico pubblicato su Journal of Infection, a Fanpage.it: “C’è una correlazione sull’alta percentuale di decessi per Covid-19 e il persistere di elevati livelli PM 2.5 in Pianura Padana che, per le caratteristiche del suo territorio, crea le condizioni per una maggiore diffusione del Sars-Cov2”. Valeria Aiello il 21 aprile 2020 su fanpage.it. Intervista al Dott. Antonio Frontera, Cardiologo e Ricercatore dell'IRCCS Ospedale San Raffaele di Milano. Esiste una correlazione tra i gravi focolai di Covid-19 e l’inquinamento atmosferico in Pianura Padana. È quanto emerge da un lavoro scientifico pubblicato su Journal of Infection da un gruppo di ricercatori per metà italiano che ha voluto fare luce sulla possibilità che specifici fattori ambientali possano aver contribuito in maniera attiva all’incidenza del contagio nelle zone in cui si registrano i numeri più alti di quest’epidemia. Alcuni studi condotti in Cina hanno già collegato una maggiore diffusione dei virus dell’influenza e di altri agenti virali alle città dove l’inquinamento è più alto ma, nel nostro Paese, il coronavirus ha colpito principalmente determinati centri urbani che non sono gli unici in Italia ad aver registrato sforamenti giornalieri dei limiti di polveri sottili (PM 2,5) e, nello specifico, di biossido di azoto (NO2). Perché? Lo abbiamo chiesto direttamente al dott. Antonio Frontera, ricercatore dell’IRCCS Ospedale San Raffaele di Milano e primo autore della ricerca sulla correlazione tra il perdurare dell’inquinamento atmosferico e le zone con più alto numero di contagi.
Allora Dottore, cosa è emerso dal lavoro?
«Con la nostra research letter puntiamo il dito contro i pollulant, cioè verso alcuni inquinanti industriali, in particolare il biossido di azoto, in quelle aree principalmente colpite dal Covid-19. Un più alto livello di inquinamento atmosferico giocherebbe infatti un ruolo determinante nella diffusione dell’infezione e, sospettiamo, anche nell’aumento della mortalità in alcune regioni, come ad esempio in Lombardia e nelle Marche. Sulla base anche dei pochi studi disponibili in letteratura scientifica, che sono essenzialmente due ed entrambi cinesi, il nostro lavoro è in accordo con quanto già osservato in Cina e con i dati di un recente articolo di una ricercatrice italiana che lavora all’Università di Harvard che, anche se ancora in formato pre-print, per cui deve essere ancora validato scientificamente, supporterebbe l’ipotesi che il virus Sars-Cov-2 che dà la patologia Covid-19 possa essere peggiorato dalla diffusione dell’inquinamento».
Perché l’epidemia si è concentrata in Lombardia e in particolare nella Pianura Padana? Eppure l’aria è inquinata anche in altre zone d’Italia.
«Questo è dovuto al fatto, come scriviamo nella research letter, che nella Pianura Padana vi è una sorta di cappa in quanto, essendo circondata da tutto l’arco alpino e dall’appennino ligure, si forma una specie di conca, e questo impedisce il recircolo corretto di aria. E proprio per questo che abbiamo coinvolto l’Università di Bordeaux, dove c’è un climatologo italiano, il dott. Giovanni Sgubin, che ha fatto notare alcuni studi di climatologia. Senza entrare nel dettaglio, ha messo in risalto alcuni aspetti che sapevamo già dagli Anni ’70, cioè che nella Pianura Padana l’aria ristagna e c’è un fenomeno chiamato fenomeno dell’inversione termica. Diciamo che la localizzazione di alcuni siti industriali, soprattutto nelle aree di Bergamo e Brescia, non è stata un’idea intelligente. Voglio dire, semplicemente, che non è il miglior posto dove collocare l’industria».
Come è nata la sua ricerca? Lei è innanzitutto un cardiologo e ricercatore dell’IRCCS Ospedale San Raffaele di Milano?
«In realtà, diciamo che è nato tutto dal fatto che ho personalmente notato questa correlazione dopo che in Lombardia si è verificato il primo focolaio, a Codogno, che poi si è esteso a Cremona, Bergamo e Brescia, e mi è bastato Google per sapere quali sono le città italiane con i più alti livelli di inquinamento, a partire da Lodi, Monza, Cremona, Brescia, Bergamo e via dicendo. C’era una corrispondenza tra i focolai e le città più inquinate d’Italia e così ho approfondito una ricerca sulla letteratura scientifica, trovando in Cina, dove il problema del PM 2,5 è massivo, un’importante produzione di articoli scientifici sulla relazione tra inquinamento e diffusione di virus. Questa è una cosa già nota, non relativa al Sars-Cov-2, ma in Cina è molto più evidente questa diffusione nelle aree metropolitane dove il particolato è più elevato. Da qui sono andato avanti, chiedendo delle elaborazioni da parte di un gruppo della NASA relative alle immagini satellitari dei livelli di biossido di azoto registrati negli ultimi mesi in Cina e nell’Hubei, dove appunto si è inizialmente diffuso il Sars-Cov-2, e le ho confrontate con quelle europee e italiane. E sono stato sorpreso dal fatto che, in Europa, le uniche aree dove si raggiungono concentrazioni di particolato e biossido di azoto simili a quelle registrate nei mesi scorsi in Cina siano la Pianura Padana e l’intera regione del Belgio e dell’Olanda. Guarda caso dove oggi, al momento, si registra la più alta mortalità. Nella Pianura Padana, in particolare, per le caratteristiche orografiche del territorio, si creano una serie di eventi atmosferici, tra cui il fenomeno dell’inversione termica che permette questo ristagno dell’aria. A Sud dell’Olanda, nelle Fiandre per capirci, e anche in Belgio, ci sono invece delle depressioni del territorio sotto il livello del mare, per cui si forma una cappa dovuta al fatto che sono una conca vera e propria. Ed è in queste zone che vi è un accumulo maggiore di PM 2,5, ma soprattutto di biossido di azoto».
A cosa possiamo quindi attribuire i più alti tassi di mortalità in queste regioni?
«Noi imputiamo la maggior mortalità soprattutto a questo effetto combinato di inquinamento atmosferico espresso in termini di PM 2,5 e caratteristiche del territorio che, insieme al clima, creano le condizioni atmosferiche per una maggior diffusione del virus. A Taranto, ad esempio, come a Napoli e Siracusa, dove ci sono alcuni importanti siti industriali del Sud Italia, non c’è stata una grande diffusione del virus nonostante si evidenzino valori di particolato molto importanti su base oraria. Qui c’è un maggior recircolo d’aria, nel senso che i fumi vengono dispersi nelle regioni limitrofe e molto anche nel mare. In Pianura Padana, invece, non è così, perché non c’è vento e non piove frequentemente. Soprattutto negli ultimi due mesi, i millimetri di pioggia sono stati pochi. Questi sono stati certamente degli elementi fortuiti, ma hanno creato una condizione perfetta per un maggior ristagno di aria, per cui il particolato si sospende maggiormente nell’atmosfera. Ed esistono evidenze scientifiche per cui il particolato può trasportare particelle virali. Se mi chiede se questo è responsabile della malattia, non posso dirglielo, anche perché parliamo di una carica virale molto bassa, per cui non credo che questo possa infettare così tante persone, ma nel caso di un soggetto con un’alta carica virale, potrebbe addirittura infettare una persona che è a 5 o 6 metri di distanza. E questo potrebbe magari spiegare l’elevata diffusione del virus in alcune regioni, come la Lombardia. Ma si tratta di dati preliminari che devono essere ancora validati da un punto di vista scientifico».
E se fosse invece l’esposizione ad alti livelli di inquinanti atmosferici ad accelerare alcuni cambiamenti nei tessuti e predisporre alla malattia Covid-19?
«Questa tesi è sulla stessa strada che stiamo studiando qui al San Raffaele. È vero che chi è esposto cronicamente al PM 2,5 sviluppa delle condizioni che possono poi favorire l’aumento dell’incidenza di alcuni virus respiratori. E questo perché si crea un substrato favorevole, forse favorendo il link tra il virus e i recettori, e facilitando una maggiore infezione. Ma questo aspetto è oggetto di studio, non solo qui al San Raffaele ma in tutto il mondo, e ci stiamo lavorando. Nel frattempo abbiamo già sottomesso un secondo manoscritto che è under review, quindi deve essere ancora validato dalla comunità scientifica, per cui non posso ancora darle i risultati, ma al momento ci sono chiare indicazioni riguardo una forte correlazione tra biossido di azoto, PM 2,5 e la diffusione della mortalità per infezione da Sars-Cov-2».
SE VE LO DICE HARVARD CI CREDETE? DAGONEWS il 7 aprile 2020. I pazienti affetti da coronavirus in aree che presentavano livelli elevati di inquinamento atmosferico prima della pandemia hanno molte più probabilità di morire a causa del virus rispetto a pazienti che vivono in aree in cui la qualità dell’aria è migliore. È quanto emerge da un nuovo studio dei ricercatori dell'Università di Harvard T.H. Chan School of Public Health in cui per la prima volta negli Usa si rende chiaro il legame tra inquinamento e Covid-19. In un'analisi di 3.080 contee degli Stati Uniti, i ricercatori hanno scoperto che livelli più elevati di particelle minuscole e pericolose nell'aria, note come PM 2.5, sono associate a tassi di mortalità più elevati causati dal coronavirus. Per settimane, i funzionari della sanità pubblica hanno ipotizzato un legame inquinamento, morti o casi gravi di coronavirus, ma l'analisi di Harvard è il primo studio a livello nazionale che mostra un collegamento statistico, rivelando come ci siano una “grande sovrapposizione” tra i decessi da Covid-19 e altre malattie associate all'esposizione a lungo termine a polveri sottili. «I risultati di questo documento suggeriscono che l'esposizione a lungo termine all'inquinamento atmosferico aumenta la possibilità di sperimentare complicazioni». Nel documento si dice che se Manhattan avesse abbassato il suo livello medio di particolato di una sola unità, o di un microgrammo per metro cubo negli ultimi 20 anni, il distretto avrebbe probabilmente avuto 248 morti in meno di Covid-19 a questo punto della pandemia. La ricerca potrebbe avere implicazioni significative per il modo in cui i funzionari della sanità pubblica scelgono di allocare risorse come ventilatori e respiratori.
Da "pagellapolitica.it" il 7 aprile 2020. Il 26 marzo, in un’intervista con La Stampa, l’ex presidente del Consiglio Silvio Berlusconi ha commentato l’emergenza coronavirus in Italia, con particolare riferimento alla difficile situazione in Lombardia. Secondo il leader di Forza Italia, «l’inquinamento è un grave problema ma non c’è alcuna evidenza scientifica di un possibile collegamento con la pandemia». Negli ultimi giorni è infatti circolata molto, sui social e su alcuni quotidiani, una ricerca italiana che avrebbe mostrato un legame tra il livello di inquinamento nella Pianura Padana e i maggiori tassi di contagio in Italia. Significa dunque che in effetti esisterebbe davvero un’«evidenza scientifica» a riguardo, a differenza di quanto dice Berlusconi? Facciamo un po’ di chiarezza.
Il problema dell’inquinamento, in breve. Secondo le stime del Ministero della Salute, pubblicate nel 2015, ogni anno in Italia l’inquinamento atmosferico è responsabile di circa 30 mila decessi «solo per il particolato fine», ossia il cosiddetto Pm 2,5. La sigla “Pm” sta per particulate matter, o “particolato” in italiano, un’espressione che indica il pulviscolo in sospensione nell’aria generato, per esempio, dalle attività umane, come la combustione da fonti fossili per i trasporti o per il riscaldamento domestico. «Possono essere individuate due classi principali di particolato, suddivise sia per dimensioni, sia per composizione: particolato grossolano e particolato fine», spiega il Ministero della Salute. Il particolato fine, come abbiamo visto, è chiamato Pm2,5 perché è costituito da particelle di polvere con un diametro aerodinamico inferiore a 2,5 micrometri, un’unità di misura che rappresente un millesimo di millimetro. Il particolato grossolano, chiamato anche Pm10, è invece formato da particelle con un diametro inferiore ai 10 micrometri. Mentre il Pm10 è in grado di penetrare nel tratto respiratorio superiore (costituito da naso, faringe e trachea), il Pm2,5 può arrivare nella profondità nei polmoni, soprattutto durante la respirazione dalla bocca. «Numerosi studi hanno evidenziato una correlazione tra esposizione acuta a particolato aerodiperso e sintomi respiratori, alterazioni della funzionalità respiratoria, ricoveri in ospedale e mortalità per malattie respiratorie», scrive il Ministero della Salute. «Inoltre, l’esposizione prolungata nel tempo a particolato, già a partire da basse dosi, è associata all'incremento di mortalità per malattie respiratorie e di patologie quali bronchiti croniche, asma e riduzione della funzionalità respiratoria. L’esposizione cronica, inoltre, è verosimilmente associata ad un incremento di rischio di tumore delle vie respiratorie». In più, insieme all’effetto causato dalle polveri sottili, c’è anche quello di altre sostanze, come il biossido di azoto e l’ozono, che in grandi quantità nell’aria fanno aumentare le morti premature in Italia causate dall’inquinamento, secondo le stime dell’Agenzia europea dell’ambiente. E nel nostro Paese, le aree più colpite sono da decenni proprio quelle del Nord, in particolare tutta la zona della Pianura Padana. Ma esistono studi scientifici che abbiano mostrato un collegamento tra questo fenomeno e il fatto che ad oggi le regioni con più contagi e morti da nuovo coronavirus siano Lombardia, Emilia-Romagna?
La “ricerca” italiana sull’inquinamento e il coronavirus. Negli ultimi giorni è stata molto citata – sia da alcuni quotidiani italiani sia da alcuni politici, come l’ex ministro dell’Istruzione Lorenzo Fioramonti – una ricerca pubblicata a inizio marzo dalla Società italiana di medicina ambientale (Sima), che, come spiega il suo sito ufficiale, «si prefigge lo scopo di tutelare la salute umana tramite la salvaguardia e la valorizzazione della natura e dell’ambiente». Questo studio è tecnicamente un position paper, e non è quindi una vera e propria ricerca scientifica (sottoposta, per esempio, al controllo di peer rewiew e poi pubblicata su una rivista scientifica), anche se è stata realizzata da 12 membri della Sima, tra cui alcuni ricercatori delle Università di Bologna, Bari e Milano. Questo è stato il «primo lancio di un’idea scientifica a nostro parere fondata, ma non ancora supportata da un’evidenza tale da poter essere pubblicata su una rivista scientifica», hanno scritto gli autori in una replica a un articolo uscito su Open il 19 marzo scorso.
In sintesi: i ricercatori hanno confrontato il numero di giorni di sforamento dei limiti di Pm10 nell’aria, tra il 10 e il 29 febbraio 2020 (sulla base dei dati Arpa), con quello del numero dei contagiati da nuovo coronavirus aggiornati al 3 marzo scorso (dati della Protezione civile), scoprendo che sembra esserci una correlazione tra le due cose. Le aree con il numero maggiore di giorni di sforamento, come la Pianura padana, mostrano infatti anche il maggior numero di contagi. Da un punto di vista scientifico, il collegamento tra inquinamento e coronavirus sarebbe supportato – oltre che da questa correlazione – anche da studi passati, che secondo gli autori avrebbero mostrato come il particolato atmosferico possa fungere da vettore di trasporto per i virus, aumentando le possibilità di contagio. In particolare, vengono citati quattro studi: uno del 2010 sull’influenza aviaria e le sua concentrazione nelle polveri nell’aria durante le tempeste di sabbia; un altro del 2016 sulla correlazione tra il virus respiratorio sinciziale (un particolare virus che colpisce le vie respiratorie) nei bambini e l’inquinamento in una regione della Cina; e altri due (uno del 2017 e un altro del 2020) sulla relazione tra inquinamento e casi di morbillo sempre in alcune città della Cina. Secondo gli autori, le loro analisi sembrano dunque «dimostrare che, in relazione al periodo 10-29 febbraio, concentrazioni elevate superiori al limite di PM10 in alcune Province del Nord Italia possano aver esercitato un’azione di boost, cioè di impulso alla diffusione virulenta dell’epidemia in Pianura Padana che non si è osservata in altre zone d’Italia che presentavano casi di contagi nello stesso periodo». Come abbiamo visto, però, sono stati gli stessi autori del position paper a sottolineare che non si tratta di una pubblicazione scientifica a tutti gli effetti: si tratta solo di un’ipotesi, per di più su una correlazione tra due fenomeni (inquinamento e contagio), e non di un relazione di causa-effetto.
Che cosa dicono gli esperti e altri studi. Negli ultimi giorni, diversi esperti – tra virologi e epidemiologi – hanno messo in guardia dal sostenere che l’inquinamento aumenterebbe la portata della pandemia del nuovo coronavirus. Il virologo dell’Università degli Studi di Milano Fabrizio Pregliasco ha detto a Fanpage che questa ipotesi è solo «teorica», mentre la virologa Ilaria Capua, dell’One Health Center of Excellence dell’Università della Florida, ospite a DiMartedì il 18 marzo 2020, ha dichiarato di non credere che «la causa dell’aggressività del virus in Lombardia sia l’inquinamento». Il 19 marzo, invece, l’epidemiologo dell’Università di Pisa Pierluigi Lopalco ha scritto su Twitter che «l’inquinamento fa male, ma con #COVID19 [la malattia causata dal nuovo coronavirus, ndr] ho paura che c’entri poco», condividendo un articolo del Sole 24 Ore che raccontava quanto scritto nello studio della Sima. «Non pensate che l’aria fresca possa fermare il contagio: il virus corre con le nostre gambe, non con i Pm10», ha aggiunto Lopalco. Al momento dunque possiamo dire che non c’è un’evidenza scientifica per sostenere che maggiori livelli di inquinamento siano collegati causalmente alla pandemia del nuovo coronavirus, ma è anche vero – come abbiamo visto – che l’inquinamento può causare gravi problemi alla salute alle persone. Come ha spiegato il quotidiano britannico The Guardian, in un approfondimento del 17 marzo, esistono alcuni studi che mostrano come in passato siano state rilevate correlazioni tra i livelli di inquinamento in alcune città della Cina e la diffusione della Sars, oppure tra l’incidenza della Mers tra i fumatori (un’evidenza analoga è stata registrata anche nei contagiati da nuovo coronavirus, in uno studio però non ancora stato oggetto di peer review). «Sulla base di quello che sappiamo attualmente, è molto probabile che le persone esposte a maggiore inquinamento atmosferico e che fumano possano avere effetti maggiormente negativi se infettati da Covid-19 rispetto a chi respira un’aria più pulita e non fuma», ha detto il 15 marzo al Washington Post Aaron Bernstein, direttore del Center for Climate, Health, and the Global Environment presso la Harvard T.H. Chan School of Public Health di Boston, Stati Uniti.
Coronavirus frenato dal clima caldo e umido, ma non di molto. Pubblicato lunedì, 23 marzo 2020 su Corriere.it da Silvia Turin. Ci sono alcuni studi che convergono sull’ipotesi che il COVID-19 preferisca un clima fresco e asciutto rispetto a Paesi con clima caldo e umido. Un fenomeno che era già noto per il virus della SARS. Nell’analisi più recente su dati raccolti dalla Johns Hopkins University effettuata dal MIT di Boston si evidenzia come il numero massimo di casi di coronavirus si è verificato in regioni con temperature comprese tra 3 e 13 ° C. Al contrario, Paesi con temperature medie superiori a 18 ° C hanno visto meno del 5% dei casi totali. Questo modello funziona anche per gli USA, dove gli stati del sud (come Texas, Florida e Arizona) hanno registrato finora un tasso di crescita più lento rispetto agli stati del nord (come Washington, New York e Colorado). Altri due studi hanno osservato la stessa dinamica: il primo, appena pubblicato da due ricercatori spagnoli e finlandesi, ha scoperto che finora il 95% dei casi positivi a livello globale si sono verificati a temperature comprese tra -2 e 10 ° C in condizioni asciutte. Il secondo, pubblicato all’inizio di questo mese da un team guidato da ricercatori dell’Università di Beihang in Cina, ha esaminato la situazione nelle città cinesi scoprendo che nei primi giorni dell’epidemia, a gennaio, prima di qualsiasi intervento del governo, le città calde e umide vedevano un tasso di diffusione più lento di quelle fredde e secche. Nello stesso studio, secondo il modello osservato in Cina, i ricercatori hanno composto due cartine che mostrano la diffusione del virus nel mondo a marzo e la previsione (su stima solo matematica) di come sarebbe a luglio se considerassimo che il virus seguisse la variabile clima nel modo ipotizzato. Nessuno di questi articoli ha ricevuto una revisione scientifica cosiddetta “da pari” e le correlazioni tra diffusione e condizioni climatiche potrebbero essere dovute a variabili di altro tipo: ad esempio le risposte dei governi, le linee di contagio, la mancanza di test da sottoporre alla popolazione. In un recente post , Marc Lipsitch, direttore del Center for Communicable Disease Dynamics presso la Harvard School of Public Health, ha fatto eco a questa analisi: «Anche se possiamo aspettarci modesti ribassi nella contagiosità di SARS-CoV-2 in condizioni climatiche più calde e umide, non è ragionevole aspettarsi che questi ribassi da soli rallentino la trasmissione abbastanza da creare l’abbassamento della curva». Anche gli scienziati inoltre sottolineano che tra l’11 e il 19 marzo si è osservato un aumento del numero di casi in regioni con temperatura> 18 ° C di almeno 10mila persone. Sono quindi dati basati su osservazioni: la relazione tra il numero di casi/ temperatura e umidità è forte, tuttavia non sappiamo quale fattore ambientale sia più importante. Potrebbe essere la temperatura o l’umidità o entrambe. È vero che il virus della SARS perdeva la sua capacità di sopravvivere a temperature più elevate. E che anche l’influenza è stagionale. Ma per l’emisfero settentrionale la strada da percorrere non cambia: isolamento e distanziamento sociale più la chiusura quasi totale, misure che, invece, sembrano funzionare, al di là delle bizze del tempo. E peraltro non potremmo - noi in Italia - permetterci di non agire per aspettare l’estate. La buona notizia è che se il clima contasse, anche la natura sarà a nostro favore nei prossimi mesi.
«Inquinamento in Italia, 60 mila morti l'anno. Ma oggi non c'è alcun nesso certo col virus». Parla Fabrizio Bianchi, epidemiologo dell'ambiente del Cnr. «L'associazione tra smog e Covid 19 è ipotesi ancora non verificata. L'aria della pianura padana è certamente insalubre. Ma oggi vediamo che ci sono aree più pulite in cui l’incidenza del patogeno è comunque elevata. E zone molto inquinate dove il coronavirus circola poco». Emiliano Fittipaldi il 23 marzo 2020 su L'espresso. «No, non c'è ancora alcuno studio verificato su un rapporto stretto tra smog e Covid 19. È necessario che gli scienziati non parlino a vanvera». Fabrizio Bianchi, direttore di epidemiologia ambientale dell'Istituto Fisiologia Clinica del Cnr, entra nel dibattito sull'eventuale associazione tra diffusione virulenta del coronavirus in zone del mondo (come la Cina e la Pianura padana) particolarmente colpite.
Ci sono scienziati che ipotizzano invece un nesso strettissimo.
«Io ragiono in tre mosse: 1) La relazione tra inquinamento atmosferico e malattie tumorali, cardiovascolari, respiratorie e altre, è provata da tempo in modo inequivocabile; 2) c’è una plausibilità generale che la popolazione che respira da tempo aria inquinata sia anche più suscettibile all’azione di virus che aggrediscono le vie respiratorie 3) l’associazione tra smog e Sars-Cov2 è un’ipotesi non verificata. E quindi, al massimo, uno stimolo di lavoro per dimostrarla».
Perché alcuni esperti scrivono di un nesso come fosse già dimostrato?
«Valutazioni descrittive, come quella svolta da alcuni ricercatori, in maggioranza chimici, di varie università con la Società Italiana di Medicina Ambientale, danno una fotografia su macro-scala, e generano o rafforzano ipotesi. Tuttavia per approfondire il legame tra smog e Covid-19 occorrono studi in grado di osservare nel tempo e nello spazio l’andamento sia dell’inquinamento sia dell’epidemia, tenendo conto di molte altre caratteristiche che possono influire sia sull’inquinamento che sull’epidemia. Occorre cioè un filmato e non una singola fotografia. Bisogna essere scrupolosi»
Che difetti vede negli studi citati?
«L’osservazione è stata svolta non su valori di inquinamento misurati o modellati, ma sul numero di superamenti del limite di legge del PM10 (50 μg/m3), rapportato al numero di centraline attive per Provincia, su dati giornalieri in breve periodo di tempo (19-24 febbraio). E’ stato considerato il numero assoluto di casi di Covid-19 per provincia, senza tener conto della dimensione della popolazione residente. Emerge una correlazione che può dipendere da molti fattori non considerati e che non è in grado di spiegare fenomeni ben visibili: in molte aree inquinate dentro e fuori la pianura padana l’evoluzione del Covid-19 è stata diversa e differenziata».
Dunque una correlazione chiara finora è impossibile da definire?
«Esatto. Ci sono aree inquinate in cui l’incidenza di Covid-19 è elevata, ma ci sono anche aree non particolarmente inquinate in cui si registra una notevole incidenza di Covid-19, così come ci sono aree molto inquinate in cui Covid-19 è cresciuto recentemente mentre l’inquinamento è calato. In una situazione così complessa studi di correlazione su base provinciale, come quello che in questi giorni fa discutere, sono utili a supportare ipotesi di lavoro, come d’altra parte sostengono gli stessi autori che usano il condizionale a proposito di una azione del particolato come vettore di trasporto e impulso alla diffusione virulenta».
L'Agenzia regionale per la protezione ambientale del Veneto, quella dell'Emilia Romagna, e una settantina di scienziati di varie università italiane, hanno firmato un documento che critica duramente chi fa nessi diretti tra inquinamento e diffusione del coronavirus. Dicono che le ipotesi «sono stati proposti prematuramente alla stampa», e che si sono «scatenati dibattiti improvvisati». È d'accordo?
«Si. In una fase così critica come questa per il nostro Paese, bisogna dare ai cittadini informazioni incentrate su ricerche accurate, e non suggestive e/o incomplete. Può darsi che alla fine un rapporto tra smog e virus esista davvero, ma ad ora non possiamo affermarlo con certezza come fa qualcuno. Come epidemiologi ambientali stiamo lavorando a pianificare studi in grado di indagare in modo affidabile la relazione causa-effetto, utilizzando dati sulla evoluzione dell’inquinamento, delle condizioni meteo, e sulle malattia a livello individuale, che potremo avere nei prossimi mesi».
Non è che le Arpa si difendono perché , dovendo controllare il livello di smog a livello regionale, si sentono attaccate?
«Guardi, questo non lo so. So che sul tema bisogna fare ricerca e analisi accurate senza steccati, necessariamente avvalendoci della collaborazione multi e interdisciplinare. Sicuramente l’inquinamento deve essere contenuto maggiomente da tempo immemore, e non bisogna dimenticare il carico di malati e morti che genera. Solo in Italia, ce ne sono circa 60 mila l'anno. Numeri che dovrebbero fare impressione e che riproporremo presto, ma ora occorre il massimo sforzo per contrastare Covid-19. Aderendo scrupolosamente alle misure tese ad evitare i contatti sociali».
Sfatati i miti sul virus. Non sparirà con il caldo, lo smog non lo veicola. I climatologi non vedono legami fra meteo e contagi: non sparirà con il caldo. E nemmeno l'inquinamento influisce. Maria Sorbi, Lunedì 23/03/2020 su Il Giornale. Non facciamoci false illusioni. Non è affatto detto che il virus si indebolisca con l'arrivo della bella stagione. O meglio, è vero che, come dice il virologo Roberto Burioni, «tutte le malattie respiratorie si trasmettono meno con il caldo». Ed è altrettanto vero che le particelle di saliva che liberiamo nell'aria evaporano prima. Ma per il resto sembra che non ci siano correlazioni tra l'innalzamento delle temperature e l'indebolimento del Covid. Se tra qualche mese ci sarà una tregua non sarà grazie al clima ma solo e unicamente grazie alle misure restrittive che stiamo seguendo e all'utilizzo dei farmaci. Stop. I ricercatori non sanno ancora come il Covid si comporterà con il caldo. Sanno solo che i virus amano solitamente freddo e umidità. Ma hanno anche imparato che questa molecola ha un comportamento anomalo e continua a riservare sorprese. Studi scientifici in merito non ce ne sono ancora. Ma dalle prime osservazioni dei climatologi, pare evidente che il caldo non si possa definire un'arma a nostro favore. A fare perdere le speranze nella rivincita estiva è uno studio delle Università Bicocca di Milano, Roma Tre, Chieti-Pescara, che ha analizzato sia i dati climatici della provincia di Wuhan, sia quelli di Lombardia e Veneto a partire dal 20 febbraio al 18 marzo. Sono stati presi in considerazione i risultati rilevati da dieci stazioni rappresentative, sia dei tre focolai principiali di diffusione del virus (aree di Codogno, Nembro e Vo' Euganeo) sia delle altre province maggiormente interessate della Lombardia (Bergamo, Brescia, Cremona, Pavia). E non emergono correlazioni tra il numero dei contagi e il meteo. Ci si era illusi, sperando che il Covid si comportasse come la Sars che, esplosa alla fine del 2002 si spense nel luglio del 2003. Ma probabilmente non sarà così. L'unica differenza sarà che, stando più all'aria aperta, avremo meno contatti rispetto a quelli invernali in una stanza chiusa. Dall'analisi dei dati di Wuhan emerge che la temperatura di febbraio, coincidente con il picco dei positivi, è stata sì fredda, ma superiore alla media (9,2 gradi centigradi contro i 5,8 del trentennio 1971-2000). Le precipitazioni sono state invece inferiori alle medie. E nemmeno ora che l'epidemia è quasi passata nella regione dello Hubei si verificano cambiamenti climatici tali da dire che il caldo abbia ammazzato il virus. I risultati della ricerca sono verisimili, soprattutto se si considera quello che sta accadendo in queste settimane. In Iran, dove le temperature non sono certo basse, i morti per l'epidemia sono arrivati a quota 1.685 e quasi 22mila i contagiati. Un'altra incognita è quella della correlazione tra smog e coronavirus: ipotesi che nelle ultime ore ha sollevato un polverone nella comunità scientifica. Uno studio condotto dalla Società italiana di medicina ambientale (Sima) insieme alle Università di Bologna e di Bari, ha evidenziato un legame tra i livelli elevati di inquinamento e lo scoppio di Covid-19 in Pianura Padana. Il Cnr frena. «Il collegamento tra inquinamento e salute è scientificamente accertato ed è una reale emergenza nelle regioni più inquinate - spiega il ricercatore Federico Fierli - ma le interazioni e i meccanismi che regolano l'epidemiologia e la diffusione di un virus sono complesse per stabilire una relazione diretta sulla base di dati per ora molto limitati». Di parere diametralmente opposto è invece Antonietta Gatti, fisica, tra i maggiori esperti di tossicità delle nanoparticelle a livello internazionale. Secondo l'esperta è plausibile che la Lombardia sia l'epicentro di questa emergenza sanitaria anche perché più esposta di altre aree del Paese all'inquinamento atmosferico dell'aria. «È stato detto che molte persone per lo più anziane (la media è 80 anni) sono morte non di coronavirus ma con il virus. Persone già debilitate, cioè con patologie anche innescate da inquinamento ambientale, non disponevano più di un sistema immunitario efficiente - sostiene Gatti - Ricordo che al momento non ci sono medici capaci di diagnosticare una patologia da polveri. In un progetto Europeo di nanotossicologia, noi abbiamo già dimostrato che cellule attaccate da nanopolveri non hanno più un sistema di difesa capace di reagire».
Coronavirus e smog, è l'ora delle polemiche: "Chiari legami". "No, non è vero". La correlazione tra le correlazioni tra concentrazione di particolato sembra essere provata. "Può costituire un efficace vettore per il trasporto, la diffusione e la proliferazione delle infezioni virali". Ma non tutti gli studiosi sono d'accordo. La Repubblica il 22 Marzo 2020. La correlazione tra la concentrazione di smog nelle città e la diffusione del Coronavirus sembra essere provata. Anche se non tutti gli studiosi sono d'accordo. Ecco le loro posizioni.
Chiare evidenze tra Pm10 e diffusione dell'epidemia. "Nessuna ipotesi fantasiosa", ribadiscono gli scienziati. "Il position paper che abbiamo pubblicato parte da evidenze scientifiche riportate in numerosi studi di letteratura in merito. Molte ricerche hanno messo in relazione la velocità di diffusione dei contagi virali con le concentrazioni di particolato atmosferico, che può costituire un efficace vettore per il trasporto, la diffusione e la proliferazione delle infezioni virali". La sottolineatura arriva da una nota congiunta di esperti e ricercatori della Società italiana di medicina ambientale (Sima), Università di Bari (UniBa) e di Bologna (UniBo), autori di un position paper pubblicato nei giorni scorsi, in cui si evidenzia "una correlazione tra la presenza di particolato atmosferico nell'aria e la diffusione del coronavirus in determinate aree del Paese". Una correlazione che, secondo molti addetti ai lavori, non avrebbe evidenza scientifica. "Il nostro studio - replicano - è condotto con metodo scientifico, basandosi su evidenze. La correlazione è presente. Che i virus si diffondano nell'aria trasportati dalle polveri trova riscontro nella letteratura scientifica. Come trova riscontro il fatto che restino attivi per diverse ore. Perciò è importante ribadire che in condizioni di alte concentrazioni di particolato - avvertono - un metro di distanza tra le persone è necessario, ma potrebbe non bastare, sia in ambienti outdoor che indoor". "Occorre ridurre le emissioni al minimo e aumentare le distanze tra le persone al massimo avvertono - occorre limitare i contatti al minimo in termini di frequenza e numerosità. D'accordo con le Arpa, che dicono che non basta solo fermare le auto, non è solo così che si riduce il Pm10: abbiamo più volte messo in evidenza il ruolo della meteorologia e della necessità di fermare o ridurre anche le altre potenziali sorgenti". "Certo lo studio scientifico va completato, la correlazione non significa incontrovertibile causalità", puntualizzano Alessandro Miani, presidente Sima, Gianluigi de Gennaro (UniBa) e Leonardo Setti (UniBo).
"Nessuna correlazione dimostrata". Di parere opposto la Società italiana di aerosol, che rilascia una nota firmata da 70 scienziati di vari enti e istituzioni. "Ad ora non è stato dimostrato alcun effetto di maggiore suscettibilità al contagio al Covid-19 dovuto all'esposizione alle polveri atmosferiche" e "si ritiene che la proposta di misure restrittive di contenimento dell'inquinamento" sia, "allo stato attuale delle conoscenze, ingiustificata". La Società italiana di aerosol (Ias) interviene dopo la nota di alcuni ricercatori che invece avevano riportato una presunta associazione tra inquinamento da particolato atmosferico (Pm) e diffusione del Covid-19. La Ias, dunque, che annovera tra i suoi soci circa 150 ricercatori esperti sulle problematiche del particolato atmosferico provenienti da Università, Enti di Ricerca, Agenzie regionali e provinciali per la protezione ambientale e dal settore privato ha deciso di esprimere un parere sulla base delle attuali conoscenze che, viene specificato "sono ancora molto limitate e ciò impone di utilizzare la massima cautela nell'interpretazione dei dati disponibili". Se è vero che l'esposizione, più o meno prolungata, ad alte concentrazioni di polveri aumenta la suscettibilità a malattie respiratorie croniche e cardiovascolari e che questa condizione può peggiorare la situazione sanitaria dei contagiati, così come queste alte concentrazioni sono frequentemente osservate nel nord Italia, soprattutto nella pianura Padana, in inverno, "tuttavia, ad ora non è stato dimostrato alcun effetto di maggiore suscettibilità al contagio" dovuto alle polveri. E' quindi possibile che alcune condizioni meteo, quali la bassa temperatura e l'elevata umidità atmosferica, possano creare un ambiente che favorisce la sopravvivenza del virus, ma "la covarianza fra condizioni di scarsa circolazione atmosferica, formazione di aerosol secondario, accumulo di Pm in prossimità del suolo e diffusione del virus non deve, tuttavia, essere scambiata per un rapporto di causa-effetto". Quanto ipotizzato, dunque "dovrà essere accuratamente valutata con indagini estese ed approfondite". Nello stesso modo, "si ritiene che la proposta di misure restrittive di contenimento dell'inquinamento come mezzo per combattere il contagio sia, allo stato attuale delle conoscenze, ingiustificata, anche se è indubbio che la riduzione delle emissioni antropiche, se mantenuta per lungo periodo, abbia effetti benefici sulla qualità dell'aria e sul clima e quindi sulla salute generale".
Coronavirus e inquinamento: “Le polveri sottili potrebbero accelerare la pandemia”. Le Iene News il 22 marzo 2020. La Pianura padana è la zona più inquinata d’Europa e quella con il più alto numero di contagi da coronavirus: c’è un legame? Per capirlo meglio noi di Iene.it con Giulia Innocenzi abbiamo intervistato il professor Alessandro Miani, presidente della Società italiana di medicina ambientale, che sta conducendo uno studio proprio per comprendere meglio questo possibile nesso. “L’inquinamento nell’aria potrebbe velocizzare la diffusione del coronavirus“. A parlare con Iene.it è Alessandro Miani, professore e presidente della Società italiana di medicina ambientale, intervistato da Giulia Innocenzi. La Sima insieme all’Università di Bologna e quella di Bari sta conducendo una ricerca per studiare il possibile legame tra l’inquinamento e il coronavirus. Ci sono alcuni punti fondamentali da cui partire: la Pianura padana è la zona più inquinata d’Europa e anche quella con il più alto numero di contagi da coronavirus. Inoltre è anche quella con il tasso di letalità da Covid 19 più alto del mondo. Esiste un nesso tra questi due fattori? Lo studio che è attualmente in corso cerca proprio di chiarire questo. Per adesso è stato pubblicato un position paper, “una sorta di piattaforma aperta per una discussione costruttiva con altri gruppi di ricerca”, ci tiene a precisare il professor Miani. “Non abbiamo ancora risultati certi e verificati, però ha già dato alcune evidenze: per precauzione abbiamo deciso di divulgarle già ai cittadini e ai decisori politici”.
Quali sono le evidenze che avete trovato finora?
“Siamo partiti dall’assunto che esiste già una grande e documentata ricerca internazionale che dimostra che le polveri inquinanti presenti nell’aria possono essere un trasportatore di alcuni virus, come l’ebola. Abbiamo quindi preso i dati delle centraline Arpa in Italia (quelle che misurano il livello di inquinamento, ndr) in un certo momento, come a fotografare la situazione. Dopo 14 giorni, cioè passato il tempo di incubazione del coronavirus, siamo andati a vedere i dati del contagio sul sito della Protezione civile. Abbiamo scoperto che in tutte quelle aree dove c’erano stati importanti sforamenti dei limiti di Pm10 c’erano state delle anomale curve di accelerazione dell’infezione”.
E quindi cosa avete scoperto finora?
“Abbiamo evidenziato che il particolato atmosferico potrebbe accelerare l’infezione del coronavirus. In questi giorni in Pianura padana i tempi epidemiologici sono più veloci di quelli considerati ‘normali’. Le polveri sottili potrebbero quindi essere un ’booster’ della pandemia. Le zone che nelle scorse settimane erano più inquinate sono oggi quelle più colpite. Se un virus come l’ebola o il morbillo può resistere nell’aria in determinate condizioni alcune ore, potrebbe farlo anche il coronavirus. Per averne la certezza ovviamente è necessario analizzare un campione ampio, che è quello che stiamo facendo in questi giorni”.
Quindi si potrebbe prendere il coronavirus anche respirando particelle presenti nell’aria, se la tesi fosse confermata?
“Sì, ma senza creare allarmismi. Vogliamo dire che se oggi la distanza di un metro e mezzo è considerata di sicurezza, in alcuni luoghi potrebbe non esserlo. I droplet più piccoli, le goccioline che emettiamo starnutendo o tossendo, potrebbero legarsi alle piccole particelle d’inquinamento nell’atmosfera e viaggiare più lontano. Non parliamo ovviamente di chilometri, ma magari intorno ai dieci metri. Se questo fosse confermato, alcune indicazioni potrebbero non essere più sufficienti”.
Che consigli si sentirebbe di dare?
“Ovviamente rimanere a casa il più possibile e seguire le indicazioni delle istituzioni. A questo noi aggiungiamo: cerchiamo di tenere il massimo delle distanze possibili pur non avendo ancora una certezza scientifica della nostra tesi”.
Uno studio dell’università del Maryland ipotizza un legame tra la diffusione del coronavirus e il clima dei Paesi più colpiti: temperatura tra 5 e 11 gradi, umidità tra il 50% e l’80%. Cosa ne pensa?
“Sono d’accordo, è dimostrato che altri coronavirus sono molto sensibili all’aumento della temperatura e questo potrebbe essere il caso anche del COVID-19. Tuttavia, anche se questo fosse confermato, il virus resterebbe in circolazione senza misure di contenimento o cure mediche e quindi potrebbe riemergere quando le temperature inevitabilmente caleranno. Per quanto riguarda l’umidità, noi stiamo studiando che una data umidità insieme a un certo livello di polveri sottili nell’aria crea un substrato che permetterebbe al virus di sopravvivere alcune ore”.
In Italia ci sono 75mila morti per inquinamento ogni anno. Questo dato potrebbe incidere sul numero di vittime da coronavirus?
“Secondo me incide con certezza. Se tutto l’anno respiro concentrazioni di smog, particolato e altri inquinanti il mio sistema immunitario è sollecitato e la popolazione è meno sana di altre zone. Il numero di patologie legate al sistema respiratorio o cardiocircolatorio in Pianura padana è maggiore a causa anche di questi fattori, nel momento in cui arriva una infezione virale pandemica chi è già debilitato da altri disturbi avrà più facilmente una risposta peggiore alla malattia. E questo potrebbe in parte spiegare perché al Nord, dove c’è maggiore inquinamento, il tasso di letalità sia più alto”.
Questa pandemia potrebbe aprire un dibattito sull’inquinamento e la sicurezza sanitaria dei cittadini?
“E’ imprescindibile la crescita e lo sviluppo, ma oggi si può produrre in maniera più pulita: ha sicuramente un costo iniziale ma è possibile. L’augurio è che al termine di questa durissima prova si torni a parlare di progresso sostenibile. Rovinare l’ambiente non fa ricadere solo i danni sulle generazioni future ma anche a noi. E' importante che tutti lo capiscano”.
Sì, lo smog aiuta il virus: ecco gli studi che lo avevano previsto. L'inquinamento atmosferico non solo indebolisce i polmoni, ma facilita anche "il lavoro" dell'agente patogeno nell'aria. Già con la Sars del 2003 è stato evidente. E ora la questione arriva anche in Parlamento: “Per prevenire altre epidemie future, ridurre le polveri sottili». Adriano Botta il 23 marzo 2020 su L'Espresso. Nei giorni scorsi si è timidamente iniziato a parlare della relazione tra l'inquinamento e il possibile diffondersi di epidemie. Non si tratta di una tesi campata per aria: da tempo esistono studi sull'incremento statistico di polmoniti in aree dove la popolazione è esposta a particolato in eccesso. Vediamo i dettagli a supporto di questa tesi. Nelle ricerche dello scienziato Eiji Tamagawa su animali esposti a particolato in eccesso rispetto ai controlli, risulta centrale il dato che riporta come sia significativo l’incremento di macrofagi contenenti particolato e di un mediatore infiammatorio, l’interleuchina 6 (IL6). Successivi esperimenti confermano che il particolato atmosferico Pm 2.5 incrementa l'infiammazione polmonare e uno studio ecologico del 2003 sulla prima Sars da coronavirus in Cina mostra una mortalità maggiore dell’84% nelle aree con peggiore indice di qualità dell’aria. Più di recente: nel febbraio 2020, lo scienziato Qiang Tan e altri ricercatori cinesi hanno pubblicato uno studio su Toxicology lettersche, oltre a confermare il rapporto fra particolato e aumento dell’IL6, ha notato una possibile sequenza genica sulle cellule bronchiali che potrebbe essere collegata con la risposta all’infiammazione da particolato, questa sequenza è composta da Rna e non da Dna, come il nuovo coronavirus. L'impegno scientifico attuale è tutto orientato a creare anticorpi per questa e per future epidemie. A supporto di queste tesi, che mette in relazione inquinamento e diffusione dei virus, è arrivato anche uno studio della Società italiana di medicina ambientale (Sima), basato a sua volta su una corposa letteratura, che ha definito le polveri sottili un "vettore per il trasporto e la diffusione del Covid-19". Secondo la ricerca "il particolato atmosferico, oltre ad essere un carrier, cioè un vettore di trasporto e diffusione per molti contaminanti chimici e biologici, inclusi i virus, costituisce un substrato che può permettere al virus di rimanere nell'aria in condizioni vitali per un certo tempo, nell'ordine di ore o giorni", dicono i ricercatori che, in collaborazione con le Università degli studi di Bari e di Bologna, hanno esaminato i dati pubblicati sui siti delle Arpa (le Agenzie regionali per la protezione ambientale) relativi a tutte le centraline di rilevamento attive sul territorio nazionale, mettendoli poi a confronto con i casi di contagio. Il pensiero corre inevitabilmente ai dati sulle emissioni CO2 nel Nord Italia. A Milano e in molte città della pianura padana quest’anno in meno di due mesi sono già stati superati i 35 giorni annuali “tollerati” di aria con polveri sottili (PM10) superiori a 35 microgrammi per metri cubo. Per non dire dell PM2.5 che secondo i criteri sanitari dovrebbe stare sotto i 20 microgrammi per metro cubo mentre attualmente la media è superiore a 35 in pianura Padana. La questione è arrivata anche in Parlamento, con un’interpellanza alla Camera del deputato del Movimento 5 Stelle Alberto Zolezzi, che è un medico specializzato proprio in malattie dell'apparato respiratorio. Zolezzi ha presentato al governo questi studi, specie sulle conseguenze dell'emergenza climatica e sul ruolo del particolato atmosferico in eccesso nel determinare l'incremento della patologia respiratoria, specialmente della patologia infettiva delle basse vie respiratorie, ovvero le polmoniti. «La medicina non è una scienza esatta, ma l’integrazione fra statistica ed epidemiologia può portare a orientare scelte organizzative, sanitarie e politiche in generale», dice il parlamentare grillino. Diminuire la pressione ambientale potrebbe essere un aiuto per ridurre il contagio oggi ma soprattutto prevenirne domani: «Molte attività antropiche andranno in futuro urgentemente riviste per far stare il particolato entro i parametri delle direttive Ue», dice Zolezzi. Dal trasporto (più merci su ferro) all’agrozootecnia, fino al risparmio energetico degli edifici e alla gestione dei rifiuti senza combustioni.
Alessandro Bonetti per “il Fatto Quotidiano” il 22 marzo 2020. Anche nella nuova stretta alla quarantena varata ieri, il governo ha deciso di non intervenire ulteriormente sulle fabbriche, anche contro l' avviso di molte Regioni, Lombardia in testa, che chiedevano la serrata di tutte le aziende non essenziali. Il protocollo siglato il 14 marzo da governo, Confindustria e sindacati si limita a prevedere misure di sicurezza che le imprese devono adottare per tutelare la salute dei lavoratori. In questi giorni, però, mentre la curva dei contagi non accenna ad appiattirsi, da più parti si chiede di adottare il modello cinese: chiudere tutto e farlo subito. Forse un motivo è nelle cartine pubblicate in questa pagina: se si confronta la concentrazione dei contagi con quella delle industrie italiane di media dimensione si nota una certa correlazione. I contagi sono più diffusi proprio nelle aree della Penisola dove ci sono più stabilimenti produttivi. Certo, correlazione non significa rapporto di causa-effetto. Ma qualche dubbio sorge. L' epidemiologo dell' Istituto Superiore di Sanità, Giovanni Rezza sostiene che "se il virus si diffonde dal Nord è chiaro che si riscontra una correlazione spuria fra diffusione delle fabbriche e della malattia. Il Nord è l' area più esposta alla globalizzazione e quindi è logico che il virus si sia diffuso maggiormente lì". Tra i fattori che rendono più facile il contagio nelle zone più industrializzate ci sono infatti la maggiore internazionalizzazione e i più intensi collegamenti con le altre aree del Paese. Collegamenti lungo i quali il virus ha viaggiato. La pensa così anche il dottor Pier Luigi Lopalco , epidemiologo all' università di Pisa, secondo il quale sono proprio i legami fra le imprese del Nord e la Cina ad aver favorito la diffusione dell' epidemia in quelle zone industrializzate. Per Rezza, però, non si può chiudere tutto: "Non si può fare una serrata, ma si deve lavorare in condizioni di estrema sicurezza per minimizzare il rischio. Sicurezza sia per raggiungere il posto di lavoro sia nel posto di lavoro stesso". Fabbriche e cantieri possono essere infatti un micidiale centro di propagazione della malattia, come ogni luogo di aggregazione. Per non parlare dei trasporti pubblici usati da molti pendolari. Secondo Lopalco, invece, "la serrata in Cina ha funzionato e senza quel livello di chiusura l' epidemia durerà di più in Italia. Più chiudi, più breve sarà la circolazione". Ma il legame fra densità delle fabbriche e diffusione del coronavirus resta di per sé solo "un' ipotesi". Un' ipotesi che, seppur tutta da indagare, ha già convinto più di qualcuno. Se consideriamo la Lombardia, sono le province più industrializzate quelle in cui il coronavirus si è diffuso maggiormente. A Bergamo ancora a fine febbraio la Confindustria locale diffondeva un video con l' hashtag "Bergamoisrunning", per rassicurare i "partner internazionali": proprio per pressioni di questo tipo non fu chiusa la zona di Alzano Lombardo e Nembro, epicentro del virus nella Bergamasca. Emilio Del Bono, sindaco di Brescia, altra città molto colpita dal coronavirus, se l' è presa con "i padroni delle industrie", dicendo che il loro peso si è fatto sentire sulla decisione di non chiudere le fabbriche. Un peso che ha schiacciato le deboli pressioni dei sindacati. Solo giovedì Cgil, Cisl e Uil lombarde hanno chiesto "la sospensione di tutte le attività non essenziali e indispensabili alla sopravvivenza". Basti pensare che, secondo stime della Camera del lavoro milanese, i lavoratori occupati in settori non essenziali che devono ancora andare al lavoro sono circa 300mila nella sola area di Milano: centinaia di migliaia di persone che ogni giorno si muovono e attraversano la città, affollando metro, bus e treni. C' è anche un altro dato che mostra la correlazione fra concentrazione industriale e diffusione del coronavirus. Le cinque regioni con maggior numero di contagi (Lombardia, Emilia-Romagna, Veneto, Piemonte e Marche) sono anche le prime cinque regioni per numero relativo di lavoratori impiegati nell' industria: in tutte queste regioni infatti i lavoratori dell' industria sono almeno 13 ogni mille abitanti, contro una media nazionale di 10. Tornando alle mappe (quella dei contagi e quella delle industrie) si nota che sono quasi perfettamente sovrapponibili, anche se una differenza va almeno sottolineata: la Toscana ha molti insediamenti industriali, specialmente nella zona appenninica, ma un' incidenza dei casi sulla popolazione più bassa rispetto alle regioni più colpite. Insomma, il rapporto fra luoghi di lavoro e diffusione del contagio andrà indagato più approfonditamente in futuro, come molti aspetti di questa pandemia.
Giampaolo Visetti per “la Repubblica” il 22 marzo 2020. In Lombardia il coronavirus «circola in modo anomalo e sta uccidendo troppo». Gli scienziati accendono i riflettori sul cosiddetto «mistero di Bergamo», caso scuola a livello mondiale. A far scattare l' allarme, a un mese dal primo caso, l' esplosione di contagi, malati gravi e morti. Nemmeno a Wuhan si sono raggiunte cifre e percentuali tanto spaventose. In Cina la letalità media è stata del 2%, meno della metà in Corea del Sud. In Lombardia muore circa il 10% dei malati, contro il 2,6% del Veneto. A Bergamo il 64% dei positivi ha bisogno di essere ricoverato in ospedale, più del doppio di quanto avviene in Veneto. In Germania, su 15 mila casi, i decessi sono 43. In Lombardia, su oltre 20 mila casi, siamo a poco meno 2.000 vittime e oltre 1.000 ricoverati in terapia intensiva. «È in corso una catastrofe - dice Ilaria Capua, virologa presso l' università della Florida - e dobbiamo fare presto a capire perché. Se l' anomalia conquista Milano potremmo assistere a un' ecatombe: ipotizzabile in altre grandi città, come Londra, Berlino e Parigi». Anche Richard Pebody, capo squadra in Europa per le emergenze infettive dell' Oms, segue da giorni il caso-Lombardia. «Perché qui il virus sia tanto concentrato - dice - è una domanda che ci tormenta. Per ora non abbiamo una risposta certa: è probabile si siano create le condizioni perfette per una combinazione di fattori». Il problema è individuarli. Il virologo Roberto Burioni ha collegato l' esordio dell' anomalia al modo di diagnosticare gli infetti. «Decisiva - dice - è stata la scelta dei soggetti a cui fare il tampone. Con il passare dei giorni però è arrivata la sorpresa: in Lombardia i positivi al test superano il 30%, in Veneto si fermano al 6%. La sfida è comprendere perché il ceppo lombardo si diffonde più rapidamente e si rivela più aggressivo». Dopo quattro settimane, grazie ai referti dei medici, vacilla anche la pista anagrafica. «L' età media italiana è alta - dice il virologo Fausto Baldanti - ma simile a quella di Giappone, Sud Corea e Germania. Nella prima fase il virus si è accanito sugli anziani già colpiti da altre patologie. Ora però non è più così e nonostante l' età dei contagiati si abbassi, la mortalità rimane esagerata. Per capire serve tempo, così meglio concentrarsi sulle misure di contenimento. Nel Lodigiano e a Vo' Euganeo le prime zone rosse hanno funzionato: i nuovi casi sono crollati a uno e due al giorno. A Pavia siamo al 3% della popolazione. Se facciamo il paragone con Brescia, dove registriamo 460 positivi in un giorno, è evidente che qualcosa ancora non va nei comportamenti». Nel mirino anche smog e sostanze tossiche. Tra Lodi, Milano, Bergamo e Brescia c' è una delle più alte concentrazioni europee di industrie e allevamenti. Gli scienziati osservano che la correlazione tra inquinamento e Covid-19 «non ha ancora prove scientifiche» e concentrazioni simili a quelle lombarde si registrano anche in Cina, in Veneto e in Baviera. Allo studio c' è però il rapporto tra virus e patologie favorite dallo smog, come ipertensione, difficoltà respiratorie e di abete, quasi sempre presenti nei decessi. Di qui la distinzione tra vittime «per» o «con» coronavirus. «Per esclusione - dice Capua - dobbiamo così ritornare sull' anomalia dei focolai scoppiati a Codogno, Bergamo, Brescia e Cremona. In comune hanno l' epidemia partita dentro agli ospedali. A livello di ipotesi esistono fattori sconosciuti che possono favorire la diffusione aerea del virus. Quello dalla Sars 1 aveva cominciato a circolare nel sistema di condizionamento di un hotel di Hong Kong. In Lombardia dobbiamo capire subito se il Covid- 19 è entrato in impianti di areazione, magari vecchi, che ne hanno accelerato e moltiplicato la circolazione proprio tra chi ha difese più fragili». Tra le poche certezze, ammesse anche dall' assessore lombardo al Welfare, Giulio Gallera, c' è «un' ampia fetta di popolazione non mappata ». Fare i tamponi «solo a persone che presentano i sintomi di una polmonite » alza la percentuale di positività. Secondo molti medici causa però anche diagnosi non tempestive, con infetti presto trasformati in malati gravi, o defunti. «In effetti - dice Roberto Cosentini, direttore del reparto di alta intensità dell' ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo - in Lombardia un tasso di mortalità così esagerato un mese fa era impensabile. Qualcosa non sta funzionando, può essere che si debba studiare il passaggio degli infetti tra pronto soccorso e terapie intensive. Forse intervenire prima e in modo diverso stimolerebbe la produzione degli anticorpi ». La prova capace di incastrare il virus-killer in Lombardia sarebbero solo i ripetuti tamponi a tappeto, modello Seul. «Purtroppo - dice il biologo molecolare Massimo Pizzato - manca il personale per fare i test e i laboratori per processarli».
Le polveri sottili aiutano il contagio. Panorama il 19 marzo 2020. Per esempio cercando di capire come mai in certe zone d'Italia, le famose zone "Rosse" del lodigiano, della bergamasca e del bresciano, il passaggio del virus sia avvenuto così rapidamente. Uno degli studi più interessanti oggi arriva della Società italiana di medicina ambientale (Sima) con le Università di Bologna e Bari. Esaminati i dati pubblicati sui siti Arpa, relativi a tutte le centraline di rilevamento sul territorio nazionale, insieme ai casi di contagio riportati dalla Protezione Civile è emerso che "Alte concentrazioni di polveri ni a febbraio in Pianura Padana hanno esercitato un'accelerazione anomala alla diusione virulenta dell'epidemia". Secondo i ricercatori quindi le famose polveri sottili "stanno veicolando il virus". "Se il Coronovirus ha viaggiato sulle strade di mezzo mondo, in Pianura Padana ha trovato un'autostrada a quattro corsie". Usa questa metafora Alessandro Miani, direttore della Società italiana di medicina ambientale (Sima) per spiegare i primi risultati dello studio, in collaborazione con le Università di Bologna e Bari , che lega il rapido diffondersi dei contagi in alcune zone alla situazione ambientale. "Nel leggere i numeri dei contagi è stato subito evidente a molti che ci sono state anomalie di velocità di propagazione nelle aree lombarde e più in generale della Pianura Padana. Il contagio ha disegnato curve anomale rapportate ai tempi medi di contagio uomo-uomo che corrispondo ad altri coronavirus, ma anche ad altre parti del mondo o semplicemente d'Italia ". Insomma ad insospettire è stato il numero esponenziale di crescita.
La Mappa dell'Inquinamento in Italia. "Esiste da tempo – spiega Miani – una letteratura scientifica a livello internazionale che sostiene, seppure con dati sperimentati solo in analisi di laboratorio, che le polveri sottili (le pm10 ma anche le particelle più piccole) quando superano una certa densità unita a certe temperature e a un certo tasso di umidità fanno da acceleratore ai contagi". In pratica crea un ambiente favorevole ai Coronavirus che invece di perdere la loro carica in poco tempo "riescono a sopravvivere per ore se non per giorni nell'aria che diventa un substrato per il contagio". Circostanze che in giornate di sole e nelle aree più inquinate della Pianura Padana si sarebbero realizzate proprio nei giorni che meno ci saremmo augurati. Non la prima causa, certo, ma un problema in più. "Partendo da quel che sappiamo sulla famiglia dei Coronavirus – prosegue il presidente della Società italiana di medicina ambientale - abbiamo comparato i dati dell'inquinamento e i dati dei contagi. Quel che ne è risultato, dalle prime evidenze, pare confermare che dove si è sforato per più volte i limiti delle polveri sottili, proprio lì ci sono state le curve anomale di diffusione". Se, dunque, il proseguire degli studi, che ora coinvolgerà altri paesi europei Spagna in primis, rivelerà che l'inquinamento della Pianura Padana è davvero un alleato del contagio i nemici da combattere subito saranno due. "Sicuramente politiche atte a ridurre le concentrazioni o il superamento frequente polveri sottili sarebbero opportune da subito" , propone Alessandro Miani. La riduzione del traffico dovuta ai blocchi può abbassare i livelli, ma la seconda misura da prendere sarebbe spegnere da subito i riscaldamenti, non solo nelle abitazioni ma anche negli uffici pubblici. La terza fonte di inquinamento è invece l'allevamento intensivo. Certo, anche queste misure emergenziali: "da ripensare ci sarebbe tutto il sistema" "Il virus accelera in presenza di inquinamento. Ma c'è un altro fattore – conclude Miani - che è il numero dei morti, anche questo al di sopra della media. In Pianura Padana incide l'età media della popolazione più alta che altrove. Ma incidono anche le patologie pregresse e gli alti livelli di inquinamento degli ultimi anni hanno portato ad un'alta incidenza proprio delle patologie polmonari o comunque ad avere apparati respiratori sotto stress. L'Europa stima 75mila morti l'anno in Pianura Padana da inquinamento. Il Coronavirus in queste aree sta colpendo polmoni già non in buona salute". In Pianura Padana, "si sono osservate le curve di espansione dell'infezione che hanno mostrato accelerazioni anomale, in evidente coincidenza, a distanza di 2 settimane, con le più elevate concentrazioni di particolato atmosferico, che hanno esercitato un'azione di boost, cioè di impulso alla diusione virulenta dell'epidemia" , sottolinea Leonardo Setti, ricercatore del dipartimento di Chimica dell'Università di Bologna che spiega: "Le alte concentrazioni di polveri registrate nel mese di febbraio in Pianura Padana hanno prodotto un'accelerazione alla diffusione del COVID-19. L'effetto è più evidente in quelle province dove ci sono stati i primi focolai". Le polveri sottili, afferma Gianluigi de Gennaro, ricercatore al dipartimento di Biologia dell'Università di Bari, "stanno veicolando il virus. Fanno da carrier. Più ce ne sono, più si creano autostrade per i contagi. E' necessario ridurre al minimo le emissioni, sperando in una meteorologia favorevole".
Coronavirus, è stato l’inquinamento a diffondere il contagio? Redazione de Il Riformista il 20 Marzo 2020. È ancora troppo presto per poter tirare le somme sulle correlazioni, dirette e indirette, tra la diffusione del coronavirus e l’inquinamento. Alcuni studi condotti riportano tuttavia delle riflessioni rilevanti: la prima, che il particolato atmosferico avrebbe potuto esercitare un’azione vettoriale per l’epidemia; la seconda, che è la meteorologia oltre che le emissioni ad aver determinato la riduzione dell’inquinamento. Lo studio curato dalla Società italiana di Medicina Ambientale (Sima) ha incrociato dati registrati tra il 10 e il 29 febbraio; statistiche provenienti dall’Arpa, dalle agenzie regionali di protezione ambientale, i numeri del coronavirus. E quello che scaturisce è che c’è una correlazione tra i superamenti dei limiti di legge delle concentrazioni dei particolati di Pm10 e Pm2,5 e la diffusione del contagio da Covid-19. Secondo il paper il particolato avrebbe condotto un’azione da vettore, da boost, all’epidemia. Come spiega Leonardo Setti, dell’Università di Bologna, tra i curatori dello studio: “Le alte concentrazioni di polveri registrate nel mese di febbraio in Pianura Padana hanno prodotto un’accelerazione alla diffusione del Covid19. L’effetto è più evidente in quelle province dove ci sono stati i primi focolai”. C’è un’ampia letteratura scientifica che sostiene come il particolato possa fungere da carrier di contaminanti chimici, biologici, virus nell’aria. Come ha scritto Maria Cristina Ceresa su Il Sole 24 Ore, potrebbe essere questo il motivo a causa del quale la Pianura Padana – tra le aree più inquinate d’Europa – stia soffrendo maggiormente il contagio; anche rispetto a Roma, dove i primi infetti sono stati registrati negli stessi giorni di quelli del Nord. L’associazione Cittadini per l’aria ha fatto notare a proposito che gli sforamenti dei limiti di concentrazione di particolato in Lombardia – tra dicembre, gennaio e febbraio – hanno influito sull’espansione delle patologie respiratorie. Il secondo punto riguarda più da vicino il lockdown imposto dalle autorità e quindi la riduzione dello smog. Effettivamente, la chiusura delle attività commerciali e il brusco calo del traffico hanno determinato una riduzione della concentrazione di biossido di azoto (NO2) nell’aria; a Milano dai 65 μg per metro cubo di media di gennaio si è passati a meno di 40 μg per metro cubo, nella prima metà di marzo. Lo hanno confermato le agenzie spaziali di Stati Uniti ed Europa, Nasa ed Esa, e il programma di osservazione della Terra dell’Unione Europea, Copernicus. Dinamica simile è stata osservata in altre città del Nord, come Torino, Bergamo e Bologna. L’esperto di cambiamenti climatici del Politecnico di Milano Stefano Casserini sostiene che “l’inquinamento dell’aria non dipende solo dalle emissioni, ma anche, e soprattutto, dalla meteorologia, che in alcune zone come la pianura Padana gioca un ruolo chiave”. C’entra anche il vento, dunque, come il Fohn. Casserini ha tuttavia giudicato prematuro tirare delle somme già in questi giorni. Come ha spiegato d’altronde Arpa Lombardia, che ha sottolineato come “un’ analisi seria […] richiede dati quantitativi, come per esempio i flussi di traffico o la produzione industriale, oltre che analisi di laboratorio sul materiale particolato raccolto, effettuando così la ricerca di traccianti delle diverse sorgenti. Per fare confronti è necessario, altresì, considerare la meteorologia, elemento che varia di giorno in giorno”. Sarebbe superficiale e semplicistico, conclude l’agenzia, azzardate delle analisi definitive adesso. La situazione è in divenire, sul punto di vista ambientale come lo è da un punto di vista epidemiologico.
Le polveri sottili accelerano il virus. Asia Angaroni il 21/03/2020 su Notizie.it. Sembrerebbe che le polveri sottili favoriscano ulteriormente la propagazione del Coronavirus. Così è emerso da uno studio della Società italiana di medicina ambientale (Sima) con le Università di Bologna e Bari. “Alte concentrazioni di polveri fini a febbraio in Pianura Padana hanno esercitato un’accelerazione anomala alla diffusione virulenta dell’epidemia”, si specifica nella ricerca. Secondo gli studiosi, infatti, le polveri sottili “stanno veicolando il virus”. In Pianura Padana, “si sono osservate le curve di espansione dell’infezione che hanno mostrato accelerazioni anomale, in evidente coincidenza, a distanza di 2 settimane, con le più elevate concentrazioni di particolato atmosferico, che hanno esercitato un’azione di boost, cioè di impulso alla diffusione virulenta dell’epidemia”. A dichiararlo è stato Leonardo Setti, ricercatore del dipartimento di Chimica dell’Università di Bologna, il quale ha aggiunto: “L’effetto è più evidente in quelle province dove ci sono stati i primi focolai”. È d’accordo anche il collega Gianluigi de Gennaro, ricercatore al dipartimento di Biologia dell’Università di Bari, il quale ha ribadito: “Le polveri sottili stanno veicolando il virus. Fanno da carrier. Più ce ne sono, più si creano autostrade per i contagi. È necessario ridurre al minimo le emissioni, sperando in una meteorologia favorevole”.
Coronavirus: l'inquinamento ha aperto la strada alla diffusione dell'infezione. Lo rivela uno studio della Società italiana di medicina ambientale (Sima) insieme alle Università di Bari e di Bologna, che hanno esaminato i dati pubblicati sui siti delle Agenzie regionali per la protezione ambientale), incrociandoli con i casi di contagio riportati dalla Protezione Civile. Irma D'Aria il 17 marzo 2020 su la Repubblica.
Polveri sottili come vettori del Coronavirus. Potrebbe essere questa la ragione per cui il virus ha viaggiato più veloce in Pianura Padana. Lo sostiene un gruppo di ricercatori che ha esaminato i dati pubblicati sui siti delle Arpa, le Agenzie regionali per la protezione ambientale, confrontandoli con i casi ufficiali di contagio riportati sul sito della Protezione Civile. Sono state inoltre revisionate varie ricerche scientifiche che descrivono il ruolo del particolato atmosferico come “carrier”, ovvero vettore di trasporto e diffusione per molti contaminanti chimici e biologici, inclusi i virus. Inoltre, il particolato atmosferico costituisce un substrato che può permettere al virus di rimanere nell’aria in condizioni vitali per un certo tempo, nell’ordine di ore o giorni.
I dati delle centraline di rilevamento ambientale. I ricercatori della Società Italiana di Medicina Ambientale (Sima), insieme a quelli dell'Università di Bologna e di Bari, hanno esaminato i dati pubblicati sui siti delle Agenzie regionali per la protezione ambientale - relativi a tutte le centraline di rilevamento attive sul territorio nazionale, registrando il numero di episodi di superamento dei limiti di legge (50 microg/m3 di concentrazione media giornaliera) nelle province italiane. Parallelamente, sono stati analizzati i casi di contagio da COVID-19 riportati sul sito della Protezione Civile. Dall’analisi è emersa una relazione tra i superamenti dei limiti di legge delle concentrazioni di PM10 registrati nel periodo tra il 10 e il 29 febbraio e il numero di casi infetti da COVID-19 aggiornati al 3 marzo (considerando un ritardo temporale intermedio relativo al periodo 10-29 febbraio di 14 giorni, approssimativamente pari al tempo di incubazione del virus fino alla identificazione della infezione contratta).
L’esplosione dei contagi in Pianura padana. In Pianura padana si sono osservate le curve di espansione dell’infezione che hanno mostrato accelerazioni anomale, in coincidenza, a distanza di 2 settimane, con le più elevate concentrazioni di particolato atmosferico, che hanno esercitato un’azione di boost, cioè di impulso alla diffusione virulenta dell’epidemia: “Le alte concentrazioni di polveri registrate nel mese di febbraio in Pianura padana sottolinea Leonardo Setti dell’Università di Bologna - hanno prodotto un’accelerazione alla diffusione del Covid-19. L’effetto è più evidente in quelle province dove ci sono stati i primi focolai”. Insomma, potrebbe esserci un nesso tra polveri sottili e diffusione del virus: “Le polveri stanno veicolando il virus. Fanno da carrier. Più ce ne sono, più si creano autostrade per i contagi. E' necessario ridurre al minimo le emissioni, sperando in una meteorologia favorevole”, afferma Gianluigi de Gennaro, dell’Università di Bari.
Polveri sottili come marker della virulenza. Quindi i virus si “attaccano” (con un processo di coagulazione) al particolato atmosferico, costituito da particelle solide e/o liquide in grado di rimanere in atmosfera anche per ore, giorni o settimane, e che possono diffondere ed essere trasportate anche per lunghe distanze. “In attesa del consolidarsi di evidenze a favore di questa ipotesi presentata nel nostro Position Paper - aggiunge Alessandro Miani, presidente della Sima - in ogni caso la concentrazione di polveri sottili potrebbe essere considerata un possibile indicatore o ‘marker’ indiretto della virulenza dell'epidemia da Covid-19. Inoltre, in base ai risultati dello studio in corso l'attuale distanza considerata di sicurezza potrebbe non essere sufficiente, soprattutto quando le concentrazioni di particolato atmosferico sono elevate”.
I dati sulle altre infezioni. Già prima del Covid-19 era stato indagato il rapporto tra concentrazioni di particolato atmosferico e diffusione dei virus. Per esempio, nel 2010 si è visto che l’influenza aviaria poteva essere veicolata per lunghe distanze attraverso tempeste asiatiche di polveri che trasportavano il virus. I ricercatori hanno dimostrato che c’è una correlazione di tipo esponenziale tra le quantità di casi di infezione e le concentrazioni di polveri sottili. Nel 2016 è stata osservata una relazione tra la diffusione del virus respiratorio sinciziale umano nei bambini e le concentrazioni di particolato. Questo virus causa polmoniti in bambini e viene veicolato attraverso il particolato in profondità nei polmoni. La velocità di diffusione del contagio è correlata alla concentrazione di PM10 e PM2.5. Infine, quest’anno è stato rilevato come uno dei maggiori fattori di diffusione giornaliera del virus del morbillo in Lanzhou (Cina) sono stati i livelli di inquinamento di particolato atmosferico.
La situazione oggi senza traffico. Ammesso che esista un collegamento tra livelli di inquinamento e diffusione del coronavirus, ora che le città sono pressocché ferme, lo smog e le polveri sottili non rappresentano più un problema? "I livelli di inquinamento sicuramente stanno scendendo ma quelli dovuti al traffico veicolare rappresentano circa il 22% del totale. E comunque in Pianura padana anche se non c’è traffico in giro e le aziende lavorano di meno come sta accadendo in questo periodo, per una questione orografica e di stagnazione dell'aria, i livelli di particolato non scendono così repentinamente a meno che non venga un forte temporale e ci sia vento”, spiega Miani.
L’aria di casa nostra. Al di là del fatto che fuori c’è meno inquinamento, c’è da considerare la qualità dell’aria di casa e di tutti i luoghi indoor aperti al pubblico, dove tra l’altro tutti stiamo trascorrendo più tempo. “Negli spazi indoor l'inquinamento dell'aria mediamente è cinque volte superiore rispetto all’esterno e le persone oggi passano la maggior parte del tempo in spazi confinanti”, spiega Miani. Suggerimenti? “E’ bene aprire le finestre per alcuni minuti più volte al giorno, perché una miscelazione di gas riduce la percentuale di inquinamenti e utilizzare purificatori d’aria per tenere l’aria pulita nei luoghi confinati come casa e uffici”, risponde l’esperto. Ma perché la qualità dell’aria di casa nostra o in generale di un luogo chiuso o anche aperto ma circoscritto come, per esempio, una strada di quartiere, ha un nesso con il Coronavirus? “Se tra le persone che circolano per strada vicino a noi o sono nello stesso spazio interno, c’è qualcuno che é infetto, ancorché asintomatico, il particolato presente in quella singola area, se di livelli importanti, può essere un moltiplicatore dell'infezione aumentando la possibilità di contagio.
La richiesta di interventi salva-ambiente. Proprio perché esiste una letteratura scientifica che riporta un’elevata diffusione di infezione virale in relazione ad elevati livelli di particolato atmosferico, i ricercatori hanno redatto un Position Paper sollecitando anche misure restrittive di contenimento dell’inquinamento: “Questo documento - che si può consultare liberamente a questo link - è frutto di un studio no-profit che vede insieme ricercatori ed esperti provenienti da diversi gruppi di ricerca italiani ed è indirizzato in particolar modo ai decisori”, conclude Grazia Perrone, docente di metodi di analisi chimiche della Statale di Milano.
Mariella Bussolati per it.businessinsider.com il 22 marzo 2020. Il blocco totale. L’Italia si è fermata e per fortuna ha accolto in massa l’imperativo di stare a casa. Per vedere risultati purtroppo bisognerà aspettare qualche altra settimana, ma ci sono altri effetti che invece sono emersi subito, in modo evidente. Il coronavirus infatti sta avendo un impatto importante su tutto il nostro sistema economico ma potrebbe esser anche non tutto negativo. Secondo Marshall Burke, Direttore del Center on Food Security and the Environment dell’Università di Stanford, le misure messe in atto potrebbero salvare migliaia di vite, grazie a una riduzione drastica dell’inquinamento prodotto da mezzi e fabbriche: due mesi di maggiore pulizia potrebbero salvare 4 mila bambini sotto i 5 anni e oltre 50 mila adulti oltre i 70. I veleni presenti nell’aria, è cosa nota, contribuiscono a un aumento della mortalità. In Italia ogni anno 43 mila morti possono essere attribuiti a questa causa. Sono 117 al giorno. Molti meno degli oltre 300 causati dal Covid-19, che però essendo una malattia dovrebbe prima o poi avere un impatto inferiore. I precedenti decessi invece ci sono sempre, e ogni giorno dell’anno, da decenni. La Cina ha ridotto di un quarto le sue emissioni. Nella ricerca di Burke prima di tutto è stata calcolata l’effettiva riduzione delle emissioni provocata dal danno effettuato all’economia cinese. I dati sono stati ricavati dalle centraline di 4 città principali, Pechino, Shangai. Chengdu e Guangzhou, comparando i dati fino al 2016. Il risultato è che il PM2,5, una polvere sottile, si è ridotta di netto arrivando a soli 10 microgrammi per metrocubo. Gli effetti sono stati più evidenti nelle città meridionali come Shangai, Guangzhou e Wuhan, dove in inverno automobili e piccola industria contaminano l’aria. Sono stati invece inferiori a Pechino, dove le acciaierie hanno continuato a funzionare. Il Centre for Research on Energy and Clean Air americano, si aspetta che i morti, man mano che procederà il contagio e di conseguenza i blocchi, caleranno in tutto il mondo. E una sosta, anche solo di un mese, ritengono abbia già un importante effetto. In Lombardia per esempio la qualità dell’aria è cambiata drasticamente. Burke ritiene che il calcolo sia un utile avvertimento per quanto riguarda la situazione in cui abbiamo sempre vissuto. I costi dell’economia globalizzata, che non sono mai stati presi in considerazione, sembrano ora apparire più chiaramente. Non sarebbe un caso infatti se il coronavirus è riuscito a procedere molto velocemente proprio in aree a grande concentrazione industriale, dove l’aria ha una qualità pessima. Già studi sulla Sars del 2003 avevano confermato che aveva ucciso più persone nelle regioni cinesi più inquinate. Avevano trovato un’associazione, non identificato una causa, ma i dati epidemiologici di questi giorni parlano chiaro: chi ha già i polmoni messi alla prova da altre malattie o dal tabacco, ha maggiori rischi. “La correlazione tra inquinamento atmosferico ed infezioni delle basse vie respiratorie è ormai scientificamente dimostrata. E’ un fattore che aggrava la situazione infettiva senza alcuna ombra di dubbio”, dice Giovanni Ghirga, membro dell’Associazione medici per l’ambiente. Il 19 febbraio ha scritto una lettera pubblicata dal British Medical Journal, sottolineando l’esistenza di un comune denominatore tra l’esplosione in Cina, Sud Corea, Iran e Italia del nord: tutte aree dove l’indice di qualità dell’aria è molto basso. Una ricerca della Società Italiana di Medicina Ambientale (Sima) ha già trovato una risposta: esaminando i dati delle centraline che rilevano lo smog e in particolare il superamento dei limiti di legge, ha potuto trovare una correlazione con il numero dei casi di persone infettate dal Covid-19. Le curve dell’infezione hanno avuto delle accelerazioni, a distanza delle due settimane necessarie alla manifestazione, con i livelli più alti di polveri sottili. Numerosi esperti dunque stanno ora identificando nel cambiamento climatico e nell’inquinamento le cause che hanno portato il Pianeta a essere vittima della pandemia. “La correlazione tra attività antropiche e diffusione dei virus è sempre più evidente. E non è un caso se le aree di maggiore diffusione del Covid-19 sono le stesse dove si verificano più casi di patologie oncologiche. Bergamo, e soprattutto Brescia, hanno i numeri più alti di bambini malati di cancro. Inoltre, a causa della tolleranza indotta, vale a dire al fatto che mediamente le persone hanno già un certo grado di infiammazione polmonare, non è stato possibile accorgersi subito dell’espansione. I sintomi lievi non sono stati notati. E questo ha provocato una diffusione maggiore, perché gli asintomatici hanno potuto circolare e infettare altri”, dice Antonio Marfella, dirigente medico responsabile di Farmacoeconmia presso l’Istituto Nazionale Tumori IRCCS Fondazione G. Pascale di Napoli. Lo smog provoca ipertensione, diabete, danni cardiovascolari e altre malattie respiratorie che alzano il tasso di mortalità. I pazienti con patologie polmonari e cardiache croniche causate o peggiorate dall’esposizione a lungo termine all’inquinamento atmosferico sarebbero meno in grado di combattere le infezioni polmonari. Non a caso l’Organizzazione mondiale della sanità avverte che chi ha asma, diabete e problemi cardiocircolatori è esposto a una maggiore gravità della malattia. Già ricercatori della Scuola di Medicina Mount Sinai di New York hanno scoperto che la mancanza di ossigeno e una scarsa ventilazione hanno un ruolo nella trasmissione dei virus. Resta da capire come mai il virus sembra essere molto più mortale nei confronti delle persone anziane, mentre risparmia i bambini. Il tasso di letalità, in tutto il mondo aumenta con l’età. E’ del 18 per cento nelle persone con più di 80 anni, lo 0,4 tra 40 e 49. Paradossalmente, chi ha più di 90 anni rischia molto meno di morire. In ogni caso anche i giovani che hanno altre patologie sono a rischio. Gli esperti dell’Epha, l’Alleanza europea per la salute pubblica, sostengono che gli indici di mortalità riscontrati in Italia, superiori a quelle cinesi e ancora più fuori media se paragonate al Sud Corea, siano da attribuire all‘aria inquinata. In Italia, con una cifra intorno al 7 per cento, ci troviamo in una situazione unica. In Cina, ma anche globalmente, è del 4 per cento e arriva all’1 per cento in Sud Corea, dove però è stata fatta una massiccia campagna di raccolta dei tamponi. I numeri dei malati rispetto ai morti sono quindi superiori. L’Oms ha appena varato una campagna chiamata Test test test per favorire un monitoraggio a tappeto, non solo di medici e infermieri, ma di tutta la popolazione, per evitare la circolazione asintomatica. E’ vero poi che l’Italia è il paese con più anziani del Pianeta. E un sistema immunitario fragile è più soggetto a reazioni violente. Ma sorprende un altro dato: la mortalità italiana è molto più alta in Lombardia. A fronte di 14.649 positivi al coronavirus si contano 1.420 decessi, circa il 10 per cento, mentre a livello nazionale sono 31500 i positivi e 2503 i decessi, ovvero il 7,9 decessi. O l’eccellenza della sanita lombarda non e in grado di far fronte all’emergenza, oppure il tasso di letalita lombardo e differente rispetto al resto di Italia. “Il fatto che da noi sia così grave potrebbe dipendere anche da una nuova mutazione, un fenomeno niente affatto raro nei virus, ma è evidente che l’inquinamento ha una grande responsabilità”, sostiene Antonio Marfella. Ogni anno, nel nord, vengono superati i limiti di polveri sottili. E l’Agenzia europea per l’ambiente ci considera il primo paese in Europa per morti correlate. Una ricerca della Stanford University spiega la maggiore gravità in Italia con popolazione più anziana e col fatto che da noi i giovani stanno molto di più con gli anziani. Una ricerca cinese dell’Università Tsinghua di Pechino, ha dimostrato che le polveri sottili hanno una grande responsabilità. Provocano danni epiteliali delle vie aeree, con la disfunzione della barriera difensiva, e rallentano anche i macrofagi che dovrebbero liberarci dai virus, inoltre scatenano la produzione di citochine, molecole messaggere che hanno, tra gli altri, l’effetto di allertare i globuli bianchi in presenza di un’infezione. Però possono anche causare lesioni gravi a tessuti e organi ed è proprio a causa di questa reazione se i pazienti di coronavirus si aggravano all’improvviso e devono quindi essere poi trasferiti alle unità di terapia intensiva. Ma soprattutto, oltre a creare danni diretti ai polmoni, trasportano altri inquinanti come idrocarburi e diossine e anche batteri, funghi e virus. Non è da escludere dunque che la contaminazione possa essere stata anche veicolata da PM 2.5 e PM 10, che sono abbondanti nelle aree dove si è diffusa maggiormente. La pandemia del coronavirus dunque sembra essersi sovrapposta a un’altra pandemia: quella dell’aria.
Ecco dove "prospera" il virus. Tutte le zone che lo "attirano". I ricercatori del Maryland hanno analizzato umidità, temperature e latitudini delle aree più colpite dal Covid-19: "Clima e sopravvivenza del virus potrebbero essere in relazione". Francesca Bernasconi, Giovedì 12/03/2020, su Il Giornale. Il clima delle fasce temperate potrebbe influire sulla diffusione del coronavirus. A renderlo noto è uno studio dell'Università del Maryland, che ha analizzato le aree maggiormente soggette allo sviluppo del Covid-19, con particolare attenzione alle temperature, all'umidità e alle latitudini delle zone. Lo studio, intitolato Temperature and latitude analysis to predict potential spread and seasonality for COVID-19, è ancora preliminare ed è in una fase di revisione sul Social science research network. A condurlo è stato un gruppo di ricercatori, coordinato da Mohammad M. Sajadi, dell'Istituto di virologia. La ricerca mostra come molte malattie infettive seguano uno schema stagionale, nella loro incidenza. Ne è un esempio anche l'influenza, che si presenta in un determinato periodo dell'anno, per poi scemare nei mesi successivi. Le analisi condotte sulle aree geografiche soggette al virus mostrano come, nelle scorse settimane, si siano verificate simili condizioni climatiche, con temperature medie dai 5 agli 11°C e umidità media relativa tra il 47 e il 79%. Se si mette a confronto il periodo gennaio-febbraio, quando l'epidemia si è diffusa in Cina, nella provincia di Hubei, e il periodo febbraio-marzo, che ha visto l'aumento dei contagi in altri Paesi, si nota la che le temperature medie registrate sono state simili. Come precisa il fatto quotidiano, infatti, la temperatura media a Wuhan è stata di 6,8°C: in linea con quelle registrate negli atri Paesi, da Seoul (5,3°C) a Piacenza e Lodi (7,8°C), fino a Teheran (7,9°C). Inoltre, in nessuna di queste località, il termometro è sceso al di sotto degli 0°C. In località più fredde, invece, il virus non si è sviluppato in modo diffuso e non ha causato situazioni critiche. In Russia, per esempio, sono solamente 7 i casi di contagio e tra febbraio e marzo la temperatura media a Mosca è stata di 2,3%, mentre in Canata, con una media di -1,4 °C a Toronto, i malati sono 79. Al contrario, il virus potrebbe essere stato ostacolato anche da temperature troppo elevate. Ne è un esempio la Thailandia, che conta 53 casi: a Bangkok il termometro ha toccato i 32°C. I dati dello studio mostrano una "potenziale relazione diretta tra temperatura e sopravvivenza ambientale e diffusione SARS-CoV-2". Un'eventualità che, per il momento, rimane un'ipotesi, ma che viene resa più plausibili dai dati contenuti della ricerca condotta dagli studiosi del Maryland. Ancora numerosi, i dubbi degli esperti circa l'evoluzione del virus, che in Italia potrebbe diminuire in estate, grazie all'aumento delle temperature. Ma ad oggi non c'è nulla di certo.
Esiste una correlazione tra clima e diffusione del virus? Paolo Mauri su Inside Over il 18 marzo 2020. Mentre l’epidemia di Covid-19 si diffonde nel mondo ed i vari Paesi colpiti progressivamente stanno lentamente prendendo le stesse misure contenitive adottate dall’Italia, c’è chi si interroga sulla possibile correlazione tra il clima in cui il patogeno e nato e la sua capacità di diffusione e virulenza. Secondo alcuni ricercatori ci sarebbe un fil rouge che collega la provincia cinese di Hubei con l’Iran, l’Italia, la Corea del Sud e altri stati d’Europa come Francia, Germania, Spagna e Regno Unito: tutti si troverebbero nella medesima fascia temperata del clima terrestre. Facciamo ora un breve ripasso di scienze: il globo terrestre viene suddiviso, per semplicità scolastica, in macrofasce climatiche: una zona tropicale, tra i due tropici (del Cancro e del Capricorno) e a cavallo dell’equatore, due fasce temperate (a nord e a sud di questa) e due fasce artiche, che partono grossomodo dai circoli polari. Si è notato, ma forse è molto più una semplificazione giornalistica che scientifica, che il coronavirus Covid-19 si è diffuso maggiormente nelle fasce temperate, e sin’ora, soprattutto guardando alla carta globale del contagio che quotidianamente viene aggiornata dall’istituto universitario Johns Hopkins, sembra che sia così. Se sovrapponiamo questa semplice carta climatica con la mappa del contagio si vede che gli Stati più colpiti sino ad oggi rientrano tutti nella fascia temperata. Sicuramente c’è un fondo di verità: un patogeno, di qualsiasi tipo esso sia, ha bisogno di un optimum ambientale per riprodursi e diffondersi. Il virus influenzale, ad esempio, ha il suo picco di diffusione durante il periodo invernale, ovvero non solo quando le nostre difese immunitarie si abbassano a causa del freddo, ma anche quando ci sono particolari condizioni di temperatura e umidità dell’aria. Il problema però è che questa semplificazione in fasce climatiche è appunto una semplificazione. Ad esempio l’Italia, che rientra tutta nella fascia temperata, ha in sé diverse zone climatiche che dipendono dalla latitudine, dall’altitudine e perfino dalla morfologia dell’orografia locale o dalla presenza di grandi specchi d’acqua come i laghi. Non tutti forse sanno che il Nord della nostra penisola, grossomodo dall’Emilia Romagna in su, è a clima continentale, in particolare a clima continentale temperato, per distinguerlo dal clima continentale freddo del resto dell’Europa, e non è certo una sorpresa: il clima di Milano ricorda più quello di Parigi che quello di Roma. Il resto d’Italia, fatto salvo alcune fasce negli Appennini, quindi sui rilievi, si può considerare prevalentemente di tipo Mediterraneo, ma anche in questo caso esistono eccezioni date da particolarità geografiche e da altitudine: l’inverno a L’Aquila è notoriamente diverso dall’inverno della Capitale, eppure distano solo poco più di cento chilometri. Esistono quindi dei microclimi molto diversi dati da particolarità del territorio. La temperatura, il tasso di umidità e le precipitazioni, tutti parametri che i ricercatori stanno prendendo in considerazione per trovare una correlazione tra clima e diffusione del virus, possono variare di molto nello spazio di pochi chilometri. Chi abita vicino a uno dei grandi laghi italiani lo sa bene: l’effetto “pompa di calore” dello specchio d’acqua mitiga le temperature invernali anche di 2 o 3 gradi, altera il tasso di umidità e modifica il regime delle precipitazioni rispetto a zone situate poco distante. Torniamo ora alla possibile macrocorrelazione tra le regioni in cui Covid-19 ha colpito con maggior forza: la provincia di Hubei, in Cina, secondo il modello climatico di Köppen è data a clima simile a quello del Nord Italia: in particolare viene definito Cfa (C=temperato caldo piovoso, f=con precipitazioni in tutti i mesi, a=temperatura media del mese più caldo superiore a 22 °C). Iran e Corea del Sud però, non hanno la stessa zona climatica di Hubei o del settentrione italiano. In particolare Seul è prevalentemente a clima boreale (Dwa) e Teheran prevalentemente a clima arido (BSh) con ampie fasce desertiche. Restando in Europa, secondo la medesima classificazione, Francia, Regno Unito e metà Germania hanno un clima temperato che ricorda quello italiano ma di tipo diverso (Cfb) mentre l’altra metà della Germania ha un clima boreale. La Spagna, invece, è divisa grossomodo a metà tra il clima temperato (Cfb) e quello arido (BSh). Il virus non si è diffuso in Canada o in Russia perché hanno un clima diverso? Sicuramente anche qui un fondo di verità c’è, ma dobbiamo considerare il periodo: siamo in inverno e a quelle latitudini Covid-19 sembra non essere nel suo optimum ambientale, ma quando le temperature si alzeranno, se non saranno state prese le dovute misure di contenimento tra la popolazione, assisteremo ad un picco nei contagi che per il momento si mantengono per lo più bassi. Ad oggi in Canada i contagi sono 439 mentre in Russia 93. Questa disparità tra le due nazioni è però da attribuire, più che al clima che è simile, alle diverse misure precauzionali prese: molto più tempestive ed efficaci quelle di Mosca. “Nei Paesi caldi il contagio sembra non diffondersi”. Anche qui occorre andare cauti nel fare questo tipo di affermazioni: al momento in Brasile, in Messico o in Malesia, tanto per prendere tre esempi della fascia tropicale ed equatoriale, l’infezione sembra non avere colpito con la stessa violenza rispetto all’Italia o ad altri Paesi Europei. Se andiamo a vedere i dati rilevati sempre dalla Johns Hopkins, il Brasile conta 234 casi, la Malesia 566 e il Messico solo 82. Ma anche in questi casi è plausibile pensare che si tratti più di un fatto temporale che ambientale, del resto anche in Argentina, che è nella fascia temperata per buona parte del suo territorio come l’Europa, i contagi registrati sono pochi: 65. Sicuramente, come abbiamo detto da subito, esiste un rapporto tra particolari condizioni ambientali e la capacità di un virus di essere “attivo” e diffondersi, ed è giusto che la scienza cerchi possibili legami di causa effetto tra il clima e la diffusione di un patogeno, che proprio a causa di particolari condizioni climatiche può diventare endemico (pensiamo alla malaria o alla dengue). Al momento però, essendo noi nella fase iniziale di questa epidemia, è forse prematuro cercare questo tipo di correlazioni che potranno essere studiate a fondo, soprattutto considerando le differenti misure di prevenzione e contenimento prese dai vari Paesi che alterano il valore del set di dati a disposizione, solo quando sarà terminata.
Sembra che il Covid-19 colpisca più duro nelle aree più inquinate (anche se lo stop all’inquinamento salverà decine di migliaia di vite). Mariella Bussolati su it.businessinsider.com il 18 marzo 2020. Il blocco totale. L’Italia si è fermata e per fortuna ha accolto in massa l’imperativo di stare a casa. Per vedere risultati purtroppo bisognerà aspettare qualche altra settimana, ma ci sono altri effetti che invece sono emersi subito, in modo evidente. Il coronavirus infatti sta avendo un impatto importante su tutto il nostro sistema economico ma potrebbe esser anche non tutto negativo. Secondo Marshall Burke, Direttore del Center on Food Security and the Environment dell’Università di Stanford, le misure messe in atto potrebbero salvare migliaia di vite, grazie a una riduzione drastica dell’inquinamento prodotto da mezzi e fabbriche: due mesi di maggiore pulizia potrebbero salvare 4 mila bambini sotto i 5 anni e oltre 50 mila adulti oltre i 70. I veleni presenti nell’aria, è cosa nota, contribuiscono a un aumento della mortalità. In Italia ogni anno 43 mila morti possono essere attribuiti a questa causa. Sono 117 al giorno. Molti meno degli oltre 300 causati dal Covid-19, che però essendo una malattia dovrebbe prima o poi avere un impatto inferiore. I precedenti decessi invece ci sono sempre, e ogni giorno dell’anno, da decenni. La Cina ha ridotto di un quarto le sue emissioni. Nella ricerca di Burke prima di tutto è stata calcolata l’effettiva riduzione delle emissioni provocata dal danno effettuato all’economia cinese. I dati sono stati ricavati dalle centraline di 4 città principali, Pechino, Shangai. Chengdu e Guangzhou, comparando i dati fino al 2016. Il risultato è che il PM2,5, una polvere sottile, si è ridotta di netto arrivando a soli 10 microgrammi per metrocubo. Gli effetti sono stati più evidenti nelle città meridionali come Shangai, Guangzhou e Wuhan, dove in inverno automobili e piccola industria contaminano l’aria. Sono stati invece inferiori a Pechino, dove le acciaierie hanno continuato a funzionare. Il Centre for Research on Energy and Clean Air americano, si aspetta che i morti, man mano che procederà il contagio e di conseguenza i blocchi, caleranno in tutto il mondo. E una sosta, anche solo di un mese, ritengono abbia già un importante effetto. In Lombardia per esempio la qualità dell’aria è cambiata drasticamente. Burke ritiene che il calcolo sia un utile avvertimento per quanto riguarda la situazione in cui abbiamo sempre vissuto. I costi dell’economia globalizzata, che non sono mai stati presi in considerazione, sembrano ora apparire più chiaramente. Non sarebbe un caso infatti se il coronavirus è riuscito a procedere molto velocemente proprio in aree a grande concentrazione industriale, dove l’aria ha una qualità pessima. Già studi sulla Sars del 2003 avevano confermato che aveva ucciso più persone nelle regioni cinesi più inquinate. Avevano trovato un’associazione, non identificato una causa, ma i dati epidemiologici di questi giorni parlano chiaro: chi ha già i polmoni messi alla prova da altre malattie o dal tabacco, ha maggiori rischi. “La correlazione tra inquinamento atmosferico ed infezioni delle basse vie respiratorie è ormai scientificamente dimostrata. E’ un fattore che aggrava la situazione infettiva senza alcuna ombra di dubbio”, dice Giovanni Ghirga, membro dell’Associazione medici per l’ambiente. Il 19 febbraio ha scritto una lettera pubblicata dal British Medical Journal, sottolineando l’esistenza di un comune denominatore tra l’esplosione in Cina, Sud Corea, Iran e Italia del nord: tutte aree dove l’indice di qualità dell’aria è molto basso. Una ricerca della Società Italiana di Medicina Ambientale (Sima) ha già trovato una risposta: esaminando i dati delle centraline che rilevano lo smog e in particolare il superamento dei limiti di legge, ha potuto trovare una correlazione con il numero dei casi di persone infettate dal Covid-19. Le curve dell’infezione hanno avuto delle accelerazioni, a distanza delle due settimane necessarie alla manifestazione, con i livelli più alti di polveri sottili. Numerosi esperti dunque stanno ora identificando nel cambiamento climatico e nell’inquinamento le cause che hanno portato il Pianeta a essere vittima della pandemia. “La correlazione tra attività antropiche e diffusione dei virus è sempre più evidente. E non è un caso se le aree di maggiore diffusione del Covid-19 sono le stesse dove si verificano più casi di patologie oncologiche. Bergamo, e soprattutto Brescia, hanno i numeri più alti di bambini malati di cancro. Inoltre, a causa della tolleranza indotta, vale a dire al fatto che mediamente le persone hanno già un certo grado di infiammazione polmonare, non è stato possibile accorgersi subito dell’espansione. I sintomi lievi non sono stati notati. E questo ha provocato una diffusione maggiore, perché gli asintomatici hanno potuto circolare e infettare altri”, dice Antonio Marfella, dirigente medico responsabile di Farmacoeconmia presso l’Istituto Nazionale Tumori IRCCS Fondazione G. Pascale di Napoli. Lo smog provoca ipertensione, diabete, danni cardiovascolari e altre malattie respiratorie che alzano il tasso di mortalità. I pazienti con patologie polmonari e cardiache croniche causate o peggiorate dall’esposizione a lungo termine all’inquinamento atmosferico sarebbero meno in grado di combattere le infezioni polmonari. Non a caso l’Organizzazione mondiale della sanità avverte che chi ha asma, diabete e problemi cardiocircolatori è esposto a una maggiore gravità della malattia. Già ricercatori della Scuola di Medicina Mount Sinai di New York hanno scoperto che la mancanza di ossigeno e una scarsa ventilazione hanno un ruolo nella trasmissione dei virus. Resta da capire come mai il virus sembra essere molto più mortale nei confronti delle persone anziane, mentre risparmia i bambini. Il tasso di letalità, in tutto il mondo aumenta con l’età. E’ del 18 per cento nelle persone con più di 80 anni, lo 0,4 tra 40 e 49. Paradossalmente, chi ha più di 90 anni rischia molto meno di morire. In ogni caso anche i giovani che hanno altre patologie sono a rischio. Gli esperti dell’Epha, l’Alleanza europea per la salute pubblica, sostengono che gli indici di mortalità riscontrati in Italia, superiori a quelle cinesi e ancora più fuori media se paragonate al Sud Corea, siano da attribuire all‘aria inquinata. In Italia, con una cifra intorno al 7 per cento, ci troviamo in una situazione unica. In Cina, ma anche globalmente, è del 4 per cento e arriva all’1 per cento in Sud Corea, dove però è stata fatta una massiccia campagna di raccolta dei tamponi. I numeri dei malati rispetto ai morti sono quindi superiori. L’Oms ha appena varato una campagna chiamata Test test test per favorire un monitoraggio a tappeto, non solo di medici e infermieri, ma di tutta la popolazione, per evitare la circolazione asintomatica. E’ vero poi che l’Italia è il paese con più anziani del Pianeta. E un sistema immunitario fragile è più soggetto a reazioni violente. Ma sorprende un altro dato: la mortalità italiana è molto più alta in Lombardia. A fronte di 14.649 positivi al coronavirus si contano 1.420 decessi, circa il 10 per cento, mentre a livello nazionale sono 31500 i positivi e 2503 i decessi, ovvero il 7,9 decessi. O l’eccellenza della sanità lombarda non è in grado di far fronte all’emergenza, oppure il tasso di letalità lombardo è differente rispetto al resto di Italia. “Il fatto che da noi sia così grave potrebbe dipendere anche da una nuova mutazione, un fenomeno niente affatto raro nei virus, ma è evidente che l’inquinamento ha una grande responsabilità”, sostiene Antonio Marfella. Ogni anno, nel nord, vengono superati i limiti di polveri sottili. E l’Agenzia europea per l’ambiente ci considera il primo paese in Europa per morti correlate. Una ricerca della Stanford University spiega la maggiore gravità in Italia con popolazione più anziana e col fatto che da noi i giovani stanno molto di più con gli anziani. Una ricerca cinese dell’Università Tsinghua di Pechino, ha dimostrato che le polveri sottili hanno una grande responsabilità. Provocano danni epiteliali delle vie aeree, con la disfunzione della barriera difensiva, e rallentano anche i macrofagi che dovrebbero liberarci dai virus, inoltre scatenano la produzione di citochine, molecole messaggere che hanno, tra gli altri, l’effetto di allertare i globuli bianchi in presenza di un’infezione. Però possono anche causare lesioni gravi a tessuti e organi ed è proprio a causa di questa reazione se i pazienti di coronavirus si aggravano all’improvviso e devono quindi essere poi trasferiti alle unità di terapia intensiva. Ma soprattutto, oltre a creare danni diretti ai polmoni, trasportano altri inquinanti come idrocarburi e diossine e anche batteri, funghi e virus. Non è da escludere dunque che la contaminazione possa essere stata anche veicolata da PM 2.5 e PM 10, che sono abbondanti nelle aree dove si è diffusa maggiormente. La pandemia del coronavirus dunque sembra essersi sovrapposta a un’altra pandemia: quella dell’aria.
Latitudine, temperature, smog: quel filo che lega Nord Italia e Wuhan. Pubblicato martedì, 17 marzo 2020 su Corriere.it da Giacomo Valtolina. Dopo il decreto dell’8 marzo, le polveri sottili (Pm10) a Milano non hanno mai neppure sfiorato la soglia limite di 50 microgrammi per metrocubo d’aria, rimanendo su valori assolutamente anomali rispetto alle serie nere stagionali che avevano visto la città raggiungere il tetto dei 35 giorni annuali «fuorilegge» fissato dall’Unione europea già nei primi due mesi del 2020. Una piccola buona notizia se contestualizzata in questi giorni di emergenza sanitaria da coronavirus — di per sé abbastanza scontata date la riduzione del traffico e il minor utilizzo delle caldaie per la serrata delle attività commerciali, come mostrato anche dai dati pubblicati dai satelliti dell’Agenzia spaziale europea sul biossido di azoto — che tuttavia s’inserisce in un più ampio discorso sulla ricerca di eventuali correlazioni tra condizioni climatiche (e di conformazione dei territori travolti dall’epidemia) e diffusione del «Covid-19». Dalla metropoli cinese Wuhan ai focolai lombardo-veneti italiani, fino alla zona di Qom in Iran e ad altre aree del mondo dove si sono verificati o si stanno verificando i contagi (la sudcoreana Daegu, Tokyo, Seattle, Londra, Parigi, Madrid), ci sono infatti analogie, allo studio degli scienziati di tutto il mondo, che consentono di collegare tra loro le aree più interessate da un virus che colpisce le vie respiratorie, il Sars-Cov-2 (Severe acute respiratory syndrome coronavirus 2): latitudine, temperature, umidità e altresì livelli di inquinamento. Partendo da modelli matematici, test di laboratorio e studi epidemiologici su sopravvivenze e trasmissioni dei virus, si cerca di capire perché il Covid-19 si sia diffuso in determinate zone e, soprattutto, come potrebbe evolversi in altre, magari seguendo dinamiche stagionali tipiche dell’influenza. Innanzitutto — come si evince a colpo d’occhio guardando la mappa nel grafico, elaborata dai ricercatori dell’università del Maryland con colleghi di due atenei iraniani — c’è la latitudine: tutte le località più colpite dal coronavirus si trovano nella fascia compresa tra 30 e 50 gradi a Nord. Vale a dire — per la gran parte delle località — nello stesso «clima subtropicale umido» in cui si trova il Nord Italia. In secondo luogo, ci sono le temperature medie registrate, tra i cinque e gli 11 gradi centigradi in tutti i focolai, con il virus che non si è finora diffuso in aree più fredde (come Russia e Canada che contano pochi contagi) né più calde, una situazione che mette in allerta quei Paesi più a Nord, per i venturi mesi, quando le temperature sono destinate ad alzarsi. Infine l’umidità: analizzando un orizzonte di quattro mesi (da novembre a febbraio) si nota uno spread del tasso di umidità ridotto, in particolare a gennaio, con dati tra il 67 e l’88 per cento. A queste correlazioni — che al momento hanno solo un valore di ipotesi, dato che non esistono modelli predittivi comprovati su larga scala per analizzare la diffusione del Covid-19 — alcuni esperti aggiungono anche il fattore della qualità dell’aria, da inquadrare a livello di clima e di morfologia del territorio. Laddove risulta favorita la diffusione del virus, esistono anche valori di smog e polveri importanti. «C’è un collegamento tra lo scoppio dell’epidemia in Lombardia e la pessima qualità dell’aria registrata dallo scorso dicembre fino a metà febbraio?» si chiede la fondatrice dell’associazione Cittadini per l’Aria, Anna Gerometta, ricordando «l’aumento degli accessi al pronto soccorso di bambini e adulti per l’incremento di patologie respiratorie» in quei giorni. Un articolo del Washington Post di domenica titolava come una «cattiva aria» potesse contribuire a peggiorare gli effetti del coronavirus, così come, per esempio, il fumo o ogni altro inquinante originato da combustione, citando l’opinione di diversi esperti o gli studi dell’Università della California — corroborati dai dati delle istituzioni cinesi — per esempio sulla Sars, scoppiata in Cina nel 2003, che si era rivelata più nociva e mortale nelle regioni con una qualità dell’aria peggiore. La ragione è nei polmoni: le polveri si accumulano sui «macrofagi alveolari», le cosiddette cellule della polvere, appunto, che, di conseguenza, non riescono più a svolgere al meglio la loro funzione, soprattutto in presenza di malattie o infezioni.
Ci sarebbe una "cintura del coronavirus": una fascia climatica in cui si sviluppa di più. L’estate potrebbe migliorare la situazione. Mariella Bussolati su it.businessinsider.com il 15 marzo 2020. La chiamano cintura del coronavirus, è la fascia verde che si nota nella cartina, quella in cui la malattia si sta sviluppando. Scienziati dell’Università del Maryland che appartengono al Global Virus network, una coalizione internazionale di virologi che stanno studiando il caso, hanno stabilito una interessante correlazione tra la diffusione e le caratteristiche climatiche delle zone in cui si è manifestato. Il risultato è che latitudine, temperatura e umidità definiscono precisamente uno stretto corridoio compreso tra 30 e 50 gradi di latitudine, dove le temperature medie sono tra i 5 e gli 11 gradi e l’umidità tra il 47 e il 79 per cento, dove la malattia è esplosa in modo più grave. Non a caso la Lombardia ha una media di 9 gradi e un umidità tra 68 e 75 per cento. In generale Covid-19 non ha mostrato una eccessiva virulenza nelle città dove si scende sotto gli 0 gradi, il che potrebbe significare che non riesce a sopravvivere al freddo. Come il nord Italia, sono state più colpite il sud Corea, la Francia, la Germania, l’Iran, l’area nord pacifica degli Stati Uniti. Tutte queste regioni hanno un’altra caratteristica comune: l’esplosione dell’epidemia coincide con temperature relativamente stabili per un periodo superiore a un mese. Non a caso le zone che potevano avere una emergenza maggiore, a causa della loro vicinanza con la Cina, non hanno visto un effetto simile. A Bangkok, Thailandia, ci sono solo 80 casi. 47 sono quelli in Vietnam, solo 7 in Cambogia e in Myanmar nessuno. Invece nel periodo tra gennaio e febbraio in cui c’è stata la massima evoluzione, a Wuhan la temperatura media era di 6,8, a Seoul di 7,9, a Teheran tra 7 e 15, a Piacenza di 8-10, a Milano 6-9. Sono queste le condizioni che facilitano la trasmissione di comunità, che ha reso il virus così invasivo. In molti ricercatori sospettavano che Covid-19 si comportasse come tutte le altre influenze che attaccano l’apparato respiratorio, e dunque fosse sensibile al clima. Sopportano meglio il freddo perché hanno un rivestimento di grassi che invece si degrada quando fa caldo. E’ esattamente quello che si scioglie quando entra nel corpo umano, e lo fa diventare virulento, ma se questo accade all’esterno, arriva la morte. E’ anche vero che le condizioni medie delle persone sono migliori in estate: il nostro sistema immunitario è più forte. Un ipotesi è che abbia un ruolo la melatonina, che viene modulata dal fotoperiodo. E anche la vitamina D, attivata dall’esposizione ai raggi ultravioletti riduce l’incidenza di affezioni che riguardano il sistema respiratorio. Lo studio del Maryland non è l’unico che è stato svolto sul tema. L’attenzione scientifica in questo momento è molto alta, perché tutti sperano di poter dimostrare che l’estate sarà una soluzione. Ma forse non basta: zone calde, che appartengono all’altro emisfero, sono comunque state soggette alla pandemia. Ricercatori dell’Università di Guangzhou, Cina, hanno però confermato che la trasmissione viaggia meglio intorno agli 8,72 gradi. Anche studiosi dell’Università di Tsinghua, a Pechino, che hanno utilizzato dati del Centro cinese per il controllo e la prevenzione della malattia, hanno sostenuto che dove temperature e umidità sono state più basse ci sono stati più casi rispetto a quelle dove faceva più caldo e l’umidità era più alta. Quindi l’arrivo dell’estate potrebbe ridurre significativamente la trasmissione. Una ricerca dell’Ospedale di Greifswald e dell’Università Ruhr a Bochum, Germania, ha analizzato il tempo di permanenza di coronavirus simili sulle superfici e hanno trovato che rimane più a lungo in situazioni fresche e umide. A 4 gradi può rimanere in vita per 28 giorni. A 30-40 sparisce in breve tempo. I risultati si possono estendere a quello di questi giorni, ritengono. Per questo si consiglia di disinfettare ogni oggetto con soluzioni al 60 per cento di alcol denaturato, o etanolo, acqua ossigenata, ipoclorito di sodio. Attraverso i modelli del Global Virus network è ora possibile poter prevedere le prossime esplosioni del virus, il che rende possibile mettere in atto misure di precauzione per evitare la diffusione. A questo proposito è prevedibile che i nuovi siti di espansione potrebbero muoversi verso nord, rispetto all’attuale corridoio. Il che significa, per gli Stati Uniti, che il virus si muoverà verso la British Columbia, verranno coinvolte l’Inghilterra, la Scozia e l’Irlanda (dove potrebbe scoppiare tra fine marzo e aprile), e il nord della Cina, dove per ora c’era stata poca diffusione. Un aumento di temperatura, se però viene anche mantenuto un abbassamento della densità di popolazione, potrebbe agire come killer. Tutto questo vale se il virus non muta di nuovo, come ha già fatto una volta. Gli esperti ritengono comunque che non vada messa la parola fine: potrebbe sparire in estate, ma tornare di nuovo in autunno.
Mauro Evangelisti per “il Messaggero” il 12 marzo 2020. Premessa, perché non vi siano fraintendimenti: bisogna restare tutti in casa, rispettare tutte le regole necessarie per rallentare la diffusione del coronavirus che rischia di travolgere il nostro sistema sanitario. Se tutto questo è ben chiaro, si può cominciare con un esame interessante della mappa del contagio. In Asia tutti si aspettavano una vasta diffusione del coronavirus in Thailandia, paese in cui la presenza di turisti e uomini d'affari cinesi è massiccia. Invece, a ieri, i positivi segnalati erano appena 59 (70 milioni di abitanti). Temperatura di Bangkok: 34 gradi. Singapore, città-stato con una foltissima comunità cinese ed hub della grande finanza e del business, i positivi sono 178 (5,5 milioni di abitanti). Temperatura di Singapore: 32 gradi. Indonesia, colosso con 270 milioni di abitanti, con mete turistiche frequentate da viaggiatori di tutto il mondo come Bali, numero di positivi: 34. Temperatura di Bali: 31 gradi. Si potrebbe andare avanti ancora a lungo, citando ad esempio il Vietnam, paese confinante con la Cina, dove l'epidemia, almeno per ora, non c'è stata, visto che ci sono appena 38 casi. In sintesi: in Asia, nelle nazioni con le temperature più alte, nonostante le forti connessioni con la Cina, il numero di persone contagiate è ancora sotto controllo. Al contrario, in altri paesi come Corea del Sud e Giappone la situazione è molto tesa, rispettivamente con 7.755 e 567 casi. Temperatura di Seul: 12 gradi. Temperatura di Tokyo: 11 gradi. In sintesi, guardando la mappa del contagio in Asia viene da pensare che il freddo - temperatura di Wuhan massima a gennaio 8 gradi - favorisce il coronavirus, il caldo non lo aiuta. Ecco, ad esempio che in Africa ancora non c'è stato un moltiplicarsi di casi, ecco ad esempio l'Australia ferma a 107 contagiati. Premessa: ci possono essere molte altre spiegazioni. C'è chi mette in dubbio la trasparenza o anche l'efficacia dei controlli in alcuni dei paesi citati sopra. C'è chi parla di semplice casualità. Ieri durante una diretta Facebook il professor Guido Silvestri, ordinario di Patologia Generale alla Emory University di Atlanta, co-promotore del Patto trasversale per la scienza insieme a Roberto Burioni, rifletteva: «Il fattore climatico è una cosa su cui speriamo molto. Non per ragioni scaramantiche, non perché vogliamo fare degli scongiuri, la mia professoressa del liceo ci richiamava ai gesti apotropaici. In realtà è seriamente possibile che una temperatura più alta freni la diffusione più alta del virus. Ci sono una serie di cose che stanno andando in quella direzione. Ad esempio, la difficoltà che sembra avere il virus ad andare sotto una certa latitudine o raggiungere zone con temperature più alta. Con l'arrivo della bella stagione vedremo, anche se al momento è solo speculazione». Silvestri l'altro giorno aveva anche spiegato: «Speriamo in un andamento stagionale del nuovo agente patogeno, che potrebbe vedere l'epidemia finire o comunque rallentare notevolmente con l'arrivo della bella stagione». Non è uno scienziato, e dunque la sua analisi non può certo essere messa sullo stesso piano di quella del professor Silvestri, ma l'altro giorno anche l'imprenditore e blogger, grande esperto di economia e Asia, Alberto Forchielli, su YouTube aveva notato come attorno alla Cina il virus aveva colpito meno duramente le nazioni con temperature più alte. «Anche in Thailandia - dove Forchielli spesso risiede - ci aspettavamo molti casi, ma i medici che conosciamo ci hanno confermato che i dati sono reali, e che per ora non c'è una forte diffusione». Va anche detto però che tutti gli esperti - lo stesso professor Silvestri è prudente - avvertono che non è per nulla scontato che vi sia un effetto caldo sulla diffusione del coronavirus. L'Organizzazione mondiale della Sanità ha invitato a essere estremamente cauti. Ad esempio, Michael Ryan, direttore esecutivo del Programma d'emergenza sanitaria dell'OMS, ha già spiegato: «Covid-19 è ora in tutto il mondo. Se il virus è qualcosa di simile a un tipico virus influenzale, potrebbe peggiorare nelle regioni dell'emisfero australe al cambiare delle stagioni. Non sappiamo ancora quale sarà l'attività o il comportamento del virus in diverse condizioni climatiche - ha aggiunto - Dobbiamo ipotizzare che il virus continuerà ad avere la capacità di diffondersi». In estrema sintesi: ad oggi, e su questo è perentorio anche il professor Silvestri, è fondamentale applicare tutte le misure di contenimento, restare in casa, e combattere il virus rispettando le regole e facendo sacrifici.
· Lo Scarto Infetto.
Maria Rosa Tomasello per “la Stampa” il 14 maggio 2020. Centinaia di milioni di mascherine e di guanti monouso, milioni di camici e di cuffie, di tute e calzari utilizzati da medici e infermieri negli ospedali: sono la barriera tra noi e il contagio che dopo essere stati usati si trasformano in una montagna di rifiuti. In un mondo che cercava soluzioni alla drammatica emergenza rappresentata dalla plastica, l' epidemia da coronavirus ha aperto il capitolo dello smaltimento dei dispositivi di protezione, appesantendo la raccolta indifferenziata con il rischio di un aumento dei costi di gestione, e ha generato una forma inquinamento nuova che è già sotto i nostri occhi: uccelli impigliati nelle mascherine disseminate in strade, giardini, lungo i fiumi; mascherine e guanti che galleggiano nei porti, o depositati dalle maree sulle spiagge, che minacciano pesci, mammiferi e tartarughe già assediati dagli otto milioni di tonnellate di plastica che ogni anno finiscono in mare. Il Wwf ha stimato che se anche solo l' 11% delle mascherine non fosse smaltito correttamente, ogni mese 10 milioni di pezzi verrebbero dispersi nell' ambiente. Si muovono i Comuni, come quello di Milano, con la campagna «Non gettarli a terra». Le associazioni come Legambiente, che a Napoli si allea con Federfarma per sensibilizzare i cittadini. I numeri forniti dalla Protezione civile sui materiali distribuiti dal primo marzo - 220 milioni di pezzi, 188 milioni, rappresentati da mascherine - sono solo parte della contabilità. Regioni, ospedali e strutture sanitarie si sono approvvigionate autonomamente, generando numeri difficili da censire. A questi vanno aggiunti i consumi di cittadini e imprese, che aumenteranno a dismisura con la riapertura di uffici, negozi, bar e ristoranti. L' Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale ha stimato che solo le mascherine e i guanti usati nella quotidianità «peseranno» da qui a fine anno tra 160mila e 440 mila tonnellate (su 30 milioni di tonnellate di rifiuti complessivi) ipotizzando un consumo giornaliero di 35-40 milioni di mascherine con un peso medio di 11 grammi e di 70-80 milioni di guanti, con una produzione media compresa tra 400 e 1.100 tonnellate ogni giorno. Dove finiranno? Gi scarti del settore sanitario seguiranno come sempre la strada riservata ai rifiuti pericolosi. Ogni anno arrivano negli inceneritori o vengono avviate a sterilizzazione circa 145 mila tonnellate di rifiuti potenzialmente infetti: tra marzo e aprile, questo flusso ha subito un aumento di circa il 20%, ma poiché la capacità di trattamento è di 342 mila tonnellate, poche migliaia di tonnellate sono state metabolizzate senza problemi. E il resto? I dispositivi usati per andare a fare la spesa o a passeggiare vanno buttati nel contenitore dell' indifferenziata. Quelli utilizzati nei luoghi di lavoro (un miliardo di mascherine al mese secondo il Politecnico di Torino, oltre a 500 milioni di guanti) sono rifiuti speciali, vanno smaltiti sul posto e possono seguire due strade in relazione alle decisioni assunte in ciascun territorio: se assimilati ai rifiuti urbani confluiscono nella raccolta urbana indifferenziata, e in questo caso, avverte Massimo Bratti, direttore generale di Ispra, «i maggiori costi saranno a carico della tassa o tariffa, comunque a carico del cittadino», altrimenti vengono smaltiti dall' azienda nell' ambito di un circuito privato. «Regioni e Comuni hanno fatto scelte diverse, quindi in alcuni casi, per esempio, un dispositivo prodotto da una persona in quarantena è un rifiuto pericoloso, mentre altrove va nell' indifferenziata. Il quadro è confuso, non è stato facile orientarsi» commenta Marcello Rosetti, presidente di Confindustria Cisambiente. «Il sistema ha retto bene» sottolinea, ma «la gestione in sicurezza dei nuovi rifiuti avrà un impatto sui i cittadini, i servizi costeranno di più, lo smaltimento dell' indifferenziata ha un prezzo: poi dipenderà dal pubblico se farsene carico nella fiscalità generale o intervenire sulle imposte locali, anche se naturalmente c' è impegno da parte di tutti a collaborare». E in un Paese che rappresenta una eccellenza nel settore del riciclo, sottolinea, si potrebbe anche «pensare a un percorso per recuperare qualche materia da questi rifiuti». «Non esistono numeri certi - sottolinea Bratti - noi abbiamo fatto una stima per capire se gli impianti che abbiamo in Italia sono in grado di gestire questi rifiuti da qui a fine anno, e poiché in marzo e aprile c' è stato un calo del 10 per cento della produzione di rifiuti urbani, circa 500 mila tonnellate in meno, questo calo potrebbe essere compensato dai nuovi rifiuti. Quindi la criticità da qui a fine anno non è quella della raccolta: c' è più preoccupazione per l' abbandono di questo materiale in giro. Per questo è opportuno prevedere una rete di raccolta che sia la più vasta possibile, o il rischio è di ritrovarceli dappertutto. Io credo sia necessario un confronto continuo coi gestori per monitorare la situazione». Anche per vigilare, avverte, su un fenomeno emergente: l' aumento dell' utilizzo di oggetti monouso in bar e ristoranti per consumo e asporto, il nuovo tsunami di plastica in arrivo.
Coronavirus, allarme smaltimento mascherine: "Non è sostenibile, serve filiera per il riciclo". Potrebbero servirne un miliardo al mese. Quelle monouso stanno già inquinando l'ambiente. L'esperto di Enea: "Produciamole con un solo polimero, filtri staccabili e pensiamo a contenitori davanti ai supermercati. Dobbiamo ripensare tutto". Giacomo Talignani il 07 maggio 2020 su La Repubblica. Un problema sanitario ed economico. Una bomba ecologica. A questo - numeri alla mano - potrebbe portare presto il nuovo uso comune e quotidiano delle mascherine (e dei guanti in lattice, naturalmente) senza la programmazione di una filiera sostenibile. In uno studio il Politecnico di Torino si stima che in questa Fase 2 e nei mesi a venire ci serviranno 1 miliardo di mascherine al mese. La maggior parte di queste sarà "monouso". E purtroppo, come già avvenuto per gli oggetti di plastica usa e getta, a causa della mancanza di educazione molti di questi dispositivi usati per proteggerci durante la spesa vengono sovente abbandonati per terra, in natura, sui marciapiedi, fuori dai supermercati, perfino nei prati. L'impatto di tutte queste mascherine rischia di unirsi a quello della plastica monouso che, se mal gestita, soffoca i mari: stiamo già osservando immagini di uccelli e pesci soffocati da questi nuovi prodotti, composti da tessuti, polimeri, ma anche ganci o strutture che si trasformano per gli animali in piccole reti. Il Wwf stima che se soltanto l'1% delle mascherine finisse in natura avremmo 10 milioni di mascherine in ambiente, una bomba ecologica difficile da disinnescare. Oltre alla necessità di una educazione civica e comportamenti corretti da parte dei cittadini, che devono gettare le mascherine usate nell'indifferenziata, come da indicazioni dell'Istituto Superiore di Sanità, oggi però è strettamente necessario un piano, di filiera, per gestire un rifiuto che in futuro rischia di "sommergerci", ma che potrebbe essere trasformato in "riciclabile". Francesco Saverio Violante, direttore della Medicina del lavoro del Policlinico Sant'Orsola di Bologna, ha calcolato che serviranno nei prossimi mesi sino a 40 milioni di mascherine al giorno, che significa 300 tonnellate di rifiuti al giorno. Ad oggi, in un caos generale tra produzione e vendita delle mascherine, la maggior parte di quelle che usiamo è prodotta per non essere riciclabile in nessun modo: finiscono direttamente nei pochi termovalorizzatori italiani che stanno già sopportando maggiori carichi di rifiuti legati alla pandemia da Covid-19. "E' una gestione assolutamente non sostenibile" spiega a Repubblica Claudia Brunori di Enea, responsabile per l'Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l'energia e lo sviluppo economico sostenibile di ambiente, uso efficiente delle risorse e sostenibilità dei sistemi produttivi. Insieme ai colleghi, Brunori sta dialogando con ministeri e privati per arrivare a un "piano per una filiera sostenibile dei dispositivi di protezione". E' necessario infatti muoversi in due direzioni. "Una è quella delle mascherine usate dal personale sanitario. Ad oggi, per scongiurare contagi, le mascherine vengono per legge trattate e sanificate negli ospedali dopo l'uso e solo allora vengono raccolte e portate agli inceneritori. Questa è una operazione molto conservativa che ci obbliga a buttare tutto, senza riciclare nulla. Non è affatto efficiente in termini di economia circolare, di ambiente e ha costi alti che diventeranno insostenibili. I dispositivi ad uso medico sono composti da materiale di valore che dobbiamo pensare di poter recuperare e, dopo averlo processato, riutilizzare. Stiamo studiando dei progetti pilota per provare a farlo", spiega Brunori. La seconda direzione è quella delle mascherine a uso civile, che utilizziamo tutti noi. Una volta buttate nell'indifferenziata finiscono negli inceneritori italiani, la maggior parte del Nord, che oggi sono già a livello. Con le previsioni di una crisi duratura e l'obbligo di protezione che potrebbe proseguire per molti mesi, questi rifiuti rischiano di andare a intasare i sistemi di smaltimento. "Ma qui - dice ancora Brunori - a differenza di strette normative come per quelle che usano i sanitari, possiamo ancora intervenire". La responsabile Enea spiega infatti che è necessario ripensare subito "l'intera filiera. Oggi in Italia stiamo importando la maggior parte delle mascherine. Da noi abbiamo pochissimi macchinari appositi per produrre FFP2 e quelle che vengono realizzate seguono regole prive di sostenibilità. Essendo realizzate in più polimeri e più materiali, riciclare è praticamente impossibile. Quindi le usiamo e le buttiamo, esattamente come per certi monouso di plastica". Da qui nasce la necessità di ripensare l'intera filiera italiana in modo che si possa ottenere un prodotto adatto all'economia circolare: "Mascherine che siano fatte con un unico polimero e materiali che possano poi essere riciclati. Inoltre serve la tracciabilità". Le idee allo studio sono tante, "pensiamo a dei dispositivi con il solo filtro staccabile e lavabile, riciclabile. Ma anche appunto a mascherine che contengano un solo polimero. Serve per esempio una produzione di polipropilene da dedicare solo a questo". Quello che è necessario per non rischiare di rimanere ingolfati e ritrovarci con milioni di mascherine da smaltire "è un processo produttivo condiviso" e una maggiore attenzione all'aspetto ambientale. Per esempio "si sta pensando all'uso di contenitori appositi per le mascherine da distribuire nelle città, magari davanti alle farmacie o i supermercati: raccolte e sanificate, i componenti di quei prodotti potrebbero essere riutilizzati", spiega Brunori. In attesa di un ripensamento generale della filiera legata alle mascherine, oggi già al centro di un business che coinvolge diversi Paesi del mondo, le associazioni ambientaliste da Legambiente al Wwf stanno già lanciando ripetuti appelli per un uso responsabile di questi dispositivi. Le immagini che arrivano dal Canada di uccellini soffocati e impigliati della mascherina, sono le prime terribili cartoline di cosa potrebbe accadere in futuro. Ecco perché, sia a livello ecologico che sanitario, dobbiamo sempre rispettare una regola obbligatoria: mai gettarle per strada.
Allarme rosso: gli inceneritori non ce la fanno. "Pericolo di infezioni dai rifiuti ospedalieri". Il paradosso del sistema che li sterilizza: è italiano, ma in Italia non si usa. Marco Lombardo, Domenica 22/03/2020 su Il Giornale. Il virus Covid-19 viaggia anche attraverso i materiali. E materiali, nonché i liquidi, sono anche i rifiuti, soprattutto quelli a rischio infettivo. Quelli ospedalieri e quelli provenienti dalle zone rosse e da persone positive o in quarantena. Domanda: che fine vanno? Risposta: vengono bruciati nei termovalorizzatori. Aumentando il pericolo di diffusione del virus. Ecco perché. In Italia esiste il Dpr 254/2003, che regola lo smaltimento in questione. «E i rifiuti ospedalieri spiega Paolo Tuccitto, manager specializzato che ha inventato il sistema di inertizzazione dell'amianto - hanno un trattamento a parte. Per intenderci: ogni anno le tonnellate smaltite sono centinaia di migliaia». Figuriamoci adesso. Il pericolo insomma è che gli impianti a cui vengono destinati siano già impossibilitati a gestire il traffico di materiale così pericoloso. Anche perché in Italia c'è solo un'azienda che se ne occupa: la Eco Eridania di Genova. Il cui presidente Andrea Giustini ha lanciato l'allarme: «Ci sono alcune Regioni che stanno attivando procedure pericolose, declassando le materie che provengono dalle abitazioni di soggetti positivi a rifiuti urbani. Il rischio è altissimo». In pratica: i prodotti di scarto a rischio infettivo aumentano in maniera esponenziale e vengono raccolti in maniera impropria. E in numero comunque insufficiente per la capienza degli inceneritori. Spiega ancora Tuccitto: «Ci sono impianti che si scambiano tonnellate di materiale da una regione all'altra. E c'è un inceneritore in Emilia che è stato chiuso per valori di legionella oltre i limiti. Eppure il sistema per aiutare lo smaltimento c'è, ed è più economico e pulito». Ci sono altre aziende infatti impegnate in questo settore. E una di queste, la Newster che ha sede a Cerasolo di Coriano (Rimini), ha un brevetto made in Italy per macchine che distruggono tutti i tipi di materiale a rischio: solido, liquido e liquido da laboratorio (il più pericoloso in assoluto). Spiega l'amministratore unico Andrea Bascucci: «Il rifiuto ospedaliero non può restare più di 5 giorni nei cassonetti. Poi va portato via. Le nostre macchine italiane invece creano un prodotto sterile, ridotto di peso del 15% e di volume dell'80. E può restare nei container fino a 28 giorni. Per poi essere destinato al recupero energetico come combustibile». Basterebbe averne in ogni ospedale: «La capienza va da 15 chili fino a 120/130. E il costo rifiuti passa da 1,7 a 0,5-0,6 euro al chilo». Qualcuno ha fatto i conti: per la Sanità italiana il risparmio stimato sarebbe di circa 300 milioni l'anno. «E c'è di più: analisi di laboratorio dimostrano che il composto ottenuto può essere mescolato al cemento per fini edili. Lo Zimbabwe ci ha già dato via libera». Già, perché Newster esporta la tecnologia in 50 Paesi del mondo. Ma non - e qui è il paradosso - in Italia e nelle nazioni evolute d'Europa. Conclude Tuccitto: «Se le zone rosse dovessero estendersi sarebbe il collasso. E se quei rifiuti si smaltiranno con quelli normali, si aggiungerà rischio a rischio: la produzione di diossina dell'aria».
Allarme rifiuti infetti: "nell'indifferenziata" propagano il contagio. I virologi: "Rischio possibile". Iss e ministero della Salute: "Non possiamo fare altrimenti". Nino Materi, Sabato 28/03/2020 su Il Giornale. Domanda: la spazzatura dei malati di Coronavirus (parliamo di quelli in cura a casa, non degli «ospedalizzati») che fine fa? Risposta: finisce nell'immondizia «generica», alias «indifferenziata». È strano, ma è così. E ancora più strano è che questa rischiosa procedura (i virologi sono d'accordo nel ritenere tali rifiuti «pericolosi», nonché «potenziali diffusori di contagio») abbia il placet di due autorevoli organismi preposti alla tutela della sanità pubblica: l'ISS (Istituto Superiore della Salute) e l'ISPRA (Istituto Nazionale per la Protezione e la Ricerca Ambientale). In due documenti ufficiali - il primo datato «13 marzo», il secondo «23 marzo» - entrambi gli organismi si pronunciano sul seguente tema: «La gestione dei rifiuti di malati infetti trattati domiciliarmente». Ma cosa prevede in materia la legge? «Secondo il Dpr 254/2003 per la produzione di rifiuti, il malato domiciliare è trattato come uno studio medico». In concreto significa che operatori specializzati dovrebbe ritirare periodicamente i rifiuti sanitari contenuti all'interno di appositi sacchetti e contenitori da smaltire successivamente in impianti adibiti ad hoc. Si tratta del protocollo seguito rigorosamente negli ospedali, ma che in questi giorni di epidemia non viene adottato nei riguardi dei malati positivi al tampone «ricoverati» nel proprio domicilio. A spiegare la lacuna sono le stesse informative ISS e ISPRA. Scrive l'Istituto Superiore della Sanità nel documento «Indicazioni ad interim per la gestione dei rifiuti urbani in relazione alla trasmissione dell'infezione da virus sars-cov-2» pubblicato lo scorso 13 marzo: «La situazione ideale sarebbe riferirsi al DPR 254/2003 e che pertanto, i rifiuti urbani provenienti dalle abitazioni dove soggiornano soggetti positivi al tampone in isolamento o in quarantena obbligatoria, dovrebbero essere considerati equivalenti a quelli che si possono generare in una struttura sanitaria». Premessa virtuosa, ma ecco arrivare la «deroga» che smentisce tutto: «Nella consapevolezza che la procedura sopra descritta potrebbe essere di difficile attuazione, anche per l'assenza di contratti in essere con aziende specializzate nella raccolta, trasporto e smaltimento dei rifiuti infettivi». Dettaglio importante: l'iter indicato dall'ISS nello stesso giorno veniva recepito come «guida pratica» addirittura dal Ministero della Salute. Finendo così per legittimare un modus operandi nocivo, con il contagiato che getta materiale infetto nel bidone dell'«indifferenziata»; col rischio - remoto, ma pur sempre possibile - di veicolare il virus, soprattutto se il sacchetto infetto viene lasciato nei cassonetti in strada, e quindi praticamente all'aperto. Dieci giorni dopo, il 23 marzo, prende posizione anche l'ISPRA declassando gli speciali rifiuti medici al rango di semplici rifiuti indifferenziati ed equiparando «i rifiuti prodotti da persone infette trattate domiciliarmente a rifiuti generici».Altrettanto preoccupanti appaiono le indicazioni per lo smaltimento di questi rifiuti, che arrivano alla possibilità del «semplice conferimento in discarica», senza nessuna precauzione se «non evitare il più possibile la loro movimentazione nelle cave». Tutto questo con evidenti rischi per tutti, in primis gli operatori ecologici delle aziende che gestiscono i rifiuti urbani. Ma i rifiuti prodotti in casa dalle persone contagiate non sono normali «rifiuti urbani». La loro gestione dovrebbe essere delegata a ditte con operatori specializzati e adeguatamente protetti. Il ministro della Salute, Roberto Speranza, faccia sentire la sua voce.